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collana
GLI ORIZZONTI
Virgilio Guidi
TUTTE LE LUCI
a cura di
Giovanni Granzotto e Dino Marangon
IL CIGNO GG EDIZIONI
ROMA
Virgilio Guidi
TUTTE LE LUCI
Studio d’Arte G.R.
16 ottobre - 30 dicembre 2010
a cura di
Giovanni Granzotto e Dino Marangon
catalogo
IL CIGNO GG EDIZIONI, ROMA
direzione
Ugo Granzotto
coordinamento tecnico-organizzativo
Maria Lucia Fabio
Alberto Pasini
un particolare ringraziamento a
Maria Pia Morassi;
Antonio, Fiorenzo, Gaspare e Giancarlo Lucchetta
un ringraziamento a
Renzo Barbon
Bruno Bilot
Alberto Crovato
Duilio Dal Fabbro
Luciano Dureghello
Gianni Frezzato
Renzo Limana
Flavia Pasini
Inarte srl
Marino Sinosi
Ezio Trentin
S. Fabrizio Zichichi
fotografie
Giancarlo Gennaro, Cittadella
Maria Vittoria Guidi
titolare dell’Archivio Virgilio Guidi, Venezia
in copertina
Virgilio Guidi, 1948, foto di Ferruccio Leiss
in quarta di copertina
Virgilio Guidi
ISBN 978-88-7831-230-2
Tutti i diritti riservati
©2009 IL CIGNO GG EDIZIONI, ROMA
IL CIGNO GG EDIZIONI
Piazza San Salvatore in Lauro, 15 00186 Roma
Tel +39/066865493 fax +39/066892109
www.ilcigno.org
con il contributo di
sito nel Complesso Monumentale di San Salvatore in Lauro,
un immobile dell’Ente morale Pio Sodalizio dei Piceni
INDICE
6
La direzione
7
GUIDI SPAZIALE
Maria Lucia Fabio
8
DALL’ALBA ALL’IDEA ATTRAVERSO LO ZENIT: TUTTE LE LUCI
Alberto Pasini
9
UN UOMO IMMERSO NELL’ARIA, NELLA TERRA, NEL MARE
Giovanni Granzotto
23
TAVOLE I
24
MARINE E PAESAGGI
50
NEL TEMPO, FIGURE DI LUCE
Dino Marangon
60
RITRATTI
74
OPERE SPAZIALI
92
GLI ALTRI GUIDI
Ennio Pouchard
95
TAVOLE II
107
ELENCO DELLE TAVOLE
111
APPARATI
GUIDI SPAZIALE
Lo Studio G.R. è nato più di trent’anni fa, assieme all’arte di Virgilio Guidi. Anzi, ancor prima
nel 1975, nacque con lui l’idea stessa dello Studio, e tutto quello che abbiamo imparato e costruito in questo lungo tragitto è figlio e debitore del suo magistero, della sua frequentazione,
delle sue folgoranti intuizioni, della sua generosità e della sua genialità.
Pertanto, caro insostituibile Maestro, tre generazioni ti ringraziano e ti salutano.
La direzione
La pittura di Virgilio Guidi pare catturare, per alcuni versi, la sintesi della visione: luce e spazio, sia che si tratti di una rappresentazione paesaggistica, sia che invece cerchi di esaltare la
figura umana in tutti i suoi aspetti. Razionalità ed emotività vengono racchiuse in una rappresentazione totale, piena, fatta di luminosità, di variazioni cromatiche e di forme, che si rinnovano ogni volta, per fermare sulla tela le sensazioni visive più diverse. Guidi, durante tutto
il suo lunghissimo percorso pittorico, cerca di identificare lo spazio all’interno della luce totale, ma è a partire dagli anni Quaranta che Guidi elabora le prime idee e le prime prove delle
Marine astratte: affiorano i motivi delle balaustre e delle rive appena accennate da margini
quasi invisibili, punto d’incontro dei piani del cielo e del mare, divisi da un impercettibile, ma
riconoscibile, mutamento della profondità della luce. Proprio alla fine di quel decennio nasce
la sua poetica della “luce spaziale”, sulla convinzione che sia proprio la stessa, il vero ed assoluto principio su cui si reggono tutte le cose: un naturale percorso che, negli anni Cinquanta,
lo porta ad affacciarsi (e in seguito a esserne componente fondamentale), sul fronte dello Spazialismo con tutta una serie di opere che continuarono a coinvolgerlo nonostante mille digressioni e mille diverse interpretazioni, sino agli ultimi altissimi esiti, quelli del ciclo dei
grandi bianchi.
Maria Lucia Fabio
6
7
DALL’ALBA ALL’IDEA ATTRAVERSO LO ZENIT: TUTTE LE LUCI
UN UOMO IMMERSO NELL’ARIA, NELLA TERRA, NEL MARE
La ricca carriera creativa di Virgilio Guidi percorre trasversalmente il XX secolo quasi per intero,
periodo più vivace e significativo di ogni altro in termini di scoperte e innovazioni in ambito
sociale, scientifico e artistico. Sensibile e attento interprete del proprio tempo, Guidi possiede
la rara capacità di affrontare e di scontrarsi continuamente con quest’epoca ricca di cambiamenti riuscendo, quasi magicamente, ad uscire sempre vittorioso da tali lotte. La sua opera è
così in grado di adattarsi, di mutare e di reinventarsi senza sosta tutte le volte che i canoni artistici coevi si infragiliscono o tendono venir meno: nel momento in cui la massima sintesi di
una determinata accezione di gusto viene raggiunta si gira pagina e si ricrea tutto daccapo.
Il trait d’union capace di accomunare una produzione che è in grado di variare dalla Metafisica allo Spazialismo può essere riscontrato esattamente nella luce o, per essere più precisi,
nelle luci. Guidi si dimostra un sempre attento osservatore della natura e della figura umana
anche se questi soggetti sono in vari modi allontanati dalla mera riproduzione accademica grazie ad un tocco geniale che, anche se a volte misteriosamente celato, si può appunto ricondurre ad una sapiente e personalissima interpretazione della luce. Questa sorge come raggio
primitivo che definisce, alla maniera trecentesca, solidi volumi essenziali, si evolve, nelle sporadiche sperimentazioni del Realismo Magico, in vera e propria fonte luminosa che sembra
far brillare gli oggetti autonomamente, appare calda e unificatrice durante l’ultimo periodo romano e diventa insostenibilmente fredda e alienante nella Venezia degli anni Sessanta. Luce
che costruisce e distrugge, che acceca e dona la vista, che abbaglia gli occhi con crudeltà e
attenua la gravità abbellendo il mondo, luce multiforme e solenne che determina il destino dell’uomo. Poco importa se i soggetti sono ben definiti o solo appena abbozzati per determinare
la portata dell’opera d’arte: la sublime intuizione risiede nella luce, in grado di colpire una figura, di disgregarla completamente rendendone l’aspetto solo vagamente riconducibile al modello e di trasformarla miracolosamente in un capolavoro.
All’interno di ogni creazione di Virgilio Guidi è inoltre vivo un incessante scontrarsi ed alternarsi di luminosità naturali e mentali: la luce, intesa come idea, che nulla condivide con quella
emessa da fonti artificiali, assume un valore fondamentale nell’opera dell’artista fin dagli albori e giunge a monopolizzarne l’interesse fino all’ossessione in età matura. Fino agli anni
Cinquanta, di regola, appare in qualche modo identificabile la naturalezza della luminosità,
sia questa radente, zenitale, squillante o pallida; a partire dalle opere spaziali si nota però una
tendenza all’idealizzazione del chiarore che porta al concepimento di una luce che crea e definisce partendo solo dal pennello del pittore e che si confronta con la natura solo attraverso
la mente del pittore pur senza ripudiarne i canoni estetici.
Si dovrebbe sempre parlare poco, soprattutto scrivere niente, dei propri trascorsi con gli artisti; delle frequentazioni individuali, delle simpatie, delle preferenze, tralasciando l’aneddotica,
e non abbondando con i riferimenti personali, con i testi storici o scientifici conditi dalle memorie di vita vissuta. Naturalmente quando si scrive di critica o storia dell’arte. lo perlomeno
la pensavo così, e per lungo tempo sono rimasto convinto che una partecipazione diretta, una
prossimità troppo confermata ed evidente, potesse nuocere non solo alla pulizia e alla trasparenza dell’analisi, ma anche allo stesso approccio interpretativo del lettore. La solita vecchia convinzione di matrice idealista sulla separazione delle carriere fra cronaca e storia.
Negli ultimi periodi qualcosa, però, è cambiato, e nell’accostarmi ad uno studio critico mi
sono concesso qualche divagazione, qualche licenza di tipo privato e confidenziale. Forse si
tratta solamente di anni che passano, e della memoria che si mescola alla nostalgia, talvolta
alla malinconia. Forse una rispolverata di “neo-romanticismo” sta cominciando a mettere un
po’ in discussione le mie certezze sulla asetticità e scientificità della critica d’arte. Comunque
sia, accingendomi a questa fatica su Virgilio Guidi, il Maestro per eccellenza, e il mio maestro, non potevo certo sperare di fare tabula rasa di tutto il bagaglio di esperienze dirette, di
tutti i momenti trascorsi con lui. Molto di quello che conosco (non dirò di quello che ho fatto
e disfatto, ma forse non sarebbe egualmente eccessivo) proviene da quella frequentazione;
forse molto della mia stessa idea dell’arte nasce da quel rapporto, dagli insegnamenti, dai racconti, dalle folgorazioni di Virgilio Guidi. Era davvero un genio, e una delle pochissime persone che riuscisse a procurare una sensazione fisica della genialità.
Cominciai a frequentarlo verso la metà degli anni Settanta, per parlare, per discutere, per imparare, e per comprargli dei quadri: delle opere ancora fresche, dense di materia grumosa, ma
levigata e splendente al tempo stesso. Ne produceva con metodo e continuità, ma sempre e
solo per soddisfazione personale, per un certo compiacimento nel dimostrare agli altri e a se
stesso che era ancora abilissimo, veloce e produttivo. Teneva moltissimo a confermarsi efficiente. Di certo, però, non lo faceva per quattrini, che non gli interessavano per nulla. Era, invece, capace di aprire una sfida con tutto lo studio (sempre affollato da una sorta di curiosa e
un po’ pittoresca corte dei miracoli) sul tempo necessario a realizzare una marina, generalmente una “San Giorgio”; sfida che regolarmente vinceva, sbalordendoci tutti, e quindi pavoneggiandosi per essere riuscito a dimostrare, ancora una volta, che: «[...] si può essere artisti
e comunque capaci di procurarsi la minestra tutti i giorni [...]»1. Così come era orgoglioso di
mostrarmi con quanta cura e attenzione si doveva stendere uniformemente la preparazione del
cielo, o ammorbidire e diluire le paste cremose e leggere del mare, per raggiungere, per raccogliere (non per trovare) la luce giusta, la luce adeguata a quell’opera. Ho visto nascere in
diretta le marine degli ultimi suoi anni; materiche, di pasta alta, dalla luce più uniforme, probabilmente anche meno fascinosa. Opere anche ripetitive, apparentemente banali, eppure
ancora capaci di custodire uno spirito, un messaggio luminoso, e una sostanza, una potenza
Alberto Pasini
8
9
pittorica che anche alcune vigorose “testine” e alcuni “volti”, e soprattutto i formidabili “bianchi” degli ultimi anni, continueranno a confermare. Fu lui stesso a spiegarmi in cosa consisteva
la luce vera (e quindi la sua luce): la luce zenitale che colmava lo spazio e costruiva la forma.
La luce di Giotto e dei classici italiani, che cadeva diritta sulle cose, ma che anche nasceva,
come nelle opere del Beato Angelico, dentro il colore. «Non bisogna guardare alla natura con
gli occhi socchiusi, come facevano gli Impressionisti, bisogna guardare la Natura con gli occhi
ben spalancati, e coglierla integralmente, ché tutto è già in natura»2, non si stancava di ripetermi, in una specie di tormentone quotidiano.
E dal ponte di comando del suo studio, dal grande stanzone che si affacciava sul bacino di San
Marco, egli immaginava, anzi riconosceva nella laguna che gli si apriva davanti, e nella spettacolare apparizione dell’Isola di San Giorgio, una fonte di luce naturale e soprannaturale al
tempo stesso.
Quello che aveva sempre cercato di raggiungere Guidi, fin dai primi paesaggi, fin dalle prime
esperienze romane, era proprio questa fusione, non saprei dire se a freddo o a caldo, se vagheggiata e poi colta, riconosciuta intuitivamente, o invece individuata, secondo i crismi e le
attitudini della sua fortissima capacità speculativa, su un piano puramente razionale; questa
fusione, dicevo, fra una luminosità naturale (mai puramente percettiva e transitoria), presente
e determinante nel creato, e una luce, la luce, mentale, figlia delle potenzialità razionali e spirituali dell’uomo: una luce proveniente dalla lucidità della mente e dell’anima, immanente
però, non esterna ed estranea alla realtà, bensì con la realtà perfettamente compenetrata.
«Grande artista De Chirico», – incalzava talvolta – «ma un po’ troppo letterario, un po’ troppo
scenografico, forse sempre troppo appartato, e quindi estraneo alle cose del mondo. Lui pensava di doverla ricostruire la realtà, secondo la memoria e l’immaginazione, per poterla rendere eterna, ed invece quello che stiamo cercando è già tutto in natura. L’essenza è già li, in
attesa di essere riconosciuta»3.
Quando Guidi presentò alcuni paesaggi romani, sarebbe meglio dire laziali, intorno al 1914,
aveva già consegnato alla storia dell’arte, dopo poche prove di impianto ancora accademico
e stesura un po’ impacciata (come “Villa borghese”, “Natura Morta”, “Cavallo”), opere estremamente originali e definitive sul piano formale, come alcune “Natura morta con le uova” e
“Autoritratto” del 1914, in cui il problema della luce che avvolgeva la forma e scandiva il
ritmo del dipinto appariva, se non completamente risolto, affrontato con una stupefacente maturità. II chiaroscuro, con tutte le consequenziali problematiche, era già superato, il segno non
tracciava i confini fra l’ombra e la luce, e soprattutto non era demandato a un momento di organizzazione formale l’identificazione della sorgente luminosa e plastica dell’opera. Guidi
sembrò, con quelle prime formidabili intuizioni, aver già tutto chiaro il percorso che avrebbe
dovuto seguire per conquistare, per raggiungere all’interno del colore una purissima luminosità plastica.
Quando, qualche anno dopo, Felice Casorati venne a proporre delle soluzioni formali appa10
rentemente simili, la critica non manifestò sufficiente attenzione e intuito nel comprendere che
Guidi era andato già molto oltre, superando la spartizione fra zona di luce e zona d’ombra,
che continuava, invece, a scandire in maniera molto netta e aprioristica le campiture dei dipinti del maestro torinese. Ci si accorse solo più tardi, ripercorrendo a ritroso il cammino guidiano, che egli aveva fin dall’inizio lanciato un personalissimo messaggio restauratore e al
tempo stesso straordinariamente innovativo, ricuperando la luce della classicità per utilizzarla
nella costruzione di una nuova architettura luminosa. Tutta la sua vita sarà dedicata a questa
fatica, a questo viaggio verso le profondità estreme della luce fondante.
Forse nelle prime esperienze paesaggistiche rimaneva ancora piuttosto dichiarato l’apporto
dello strumento luministico nel riconoscimento delle forme, l’intervento della luce come elemento di identificazione e rivelazione, piuttosto che di costruzione. Dirà bene, a questo proposito, Enrico Crispolti, in un saggio per la Galleria Gradiva, che v’è: «[...] all’inizio degli anni
Dieci, [...] nella pittura guidiana un’attenzione analitica iniziale che va risolvendosi in una progressiva volontà di sintesi plastica. La luce interviene, inizialmente, a commentare l’evidenza
dell’immagine, è lume che permette di chiaroscurare plasticamente»4.
Ben presto, però, anche i primi paesaggi sembrarono rispondere a due esigenze fondamentali
nella sua ricerca: individuare la complessità, la varietà dell’articolazione spaziale, riconoscere
l’alternanza e la scansione dei piani, scandagliare, inseguire, incalzare il moto della luce e i
percorsi luminosi che vanno a inoltrarsi nello snodo e nella successione di superfici variate (si
pensi a “Veduta Romana” del 1914, o a “Paesaggio Monte Compatri” dell’anno precedente),
insomma svolgere un’analisi dettagliata delle variabili e delle potenzialità spaziali, secondo
un approccio solo apparentemente prossimo al naturalismo; e, per contro, annunciare il riconoscimento, il ritrovamento, la scoperta, di una forza, di un’energia aggiuntiva, capace di
riordinare, di organizzare, di rapportare le tensioni centrifughe a un’idea prima e unificatrice:
la luce, appunto. Infatti, anche quando il tracciato luministico si fa più corsivo, come ancora
conferma Crispolti: «A metà degli anni Dieci sembra rompersi la forma, chiusa (sia pur già in
termini di notevole consistenza pittorica), in un impasto più corsivo che finisce per accogliere
la luce in un’intrisione nella materia [...])»5, non vi è mai vera dissoluzione della forma; v’è
piuttosto quella compenetrazione fra luce e colore-materia che si trasforma in «[...] esiti di straordinaria lievitazione luminosa della materia stessa, come nella stupenda “Vecchia malata”
[...]. E che poi, forse per le stesse suggestioni d’accorciamento dei modi figurativi circolanti nell’ambiente romano legato alle “Secessioni”, è tentato da una maggior corsività d’apprensione
visiva e di scrittura plastica e cromatica della stessa. Credo che in realtà andrebbe inteso il raccoglimento plastico dell’immagine nel suo rapporto psicologicamente – più che plasticamente
– rivelatorio con l’elemento luminoso, la fonte luminosa [...] ma la determinante della stessa
consistenza plastica dell’immagine era la componente luminosa, e non soltanto nel rischiarare luministico della fonte orientata, ma nel lievitare quasi di interna virtualità luminosa della
11
materia cromatica, tendente a respirare luce, in un effetto dunque di ricchezza tonale interna
(dico al singolo timbro tonale) e di rapporti»6.
Dunque, Guidi sembra proprio partire da questa materia cromatica illuminata, che viene a immettere nell’ambiente valenze psicologico-luministiche, per celebrare l’avvento di una luce
mentale, capace di ordinare, di organizzare, di riassumere, e anche di diffondere nell’opera
un’aura di sospensione, fra il magico e lo spirituale. Certamente qualcosa che travalica lo
stesso psicologismo di impronta domestico-borghese, che potevamo riconoscere in certe figure
e in certe “Nascite”, ma non nello straordinario “Autoritratto con cappello” del 1914 (in verità data discussa da alcuni per l’evidenziarsi di una fin troppo sorprendente maturità stilistica), che già dimostrava di aver riconosciuto e superato gli obblighi della descrizione verista
e di un soggettivismo intimista; per anticipare, invece, soluzioni di perfetto equilibrio fra le
linee di forza di un’architettura spaziale che si manifestava, plasticamente, come coscienza luminosa. Dunque un passaggio illuminante e anticipatore nel tragitto guidiano, e che Dino
Marongon verrà così a definire: «[...] masse di colore, di luce, di forme coincidono in una libertà [...] superiore [...] il partito solare largo e determinato aumenta la libertà schematica
delle cose». «Sono parole del Longhi sull’opera di Piero della Francesca, ma credo si attaglino perfettamente anche a questo straordinario capolavoro guidiano nel quale il giovane pittore ricollegando I’originarietà plastico-formale della ricerca cézanniana [...] ai più profondi
nuclei espressivi e strutturali del grande maestro del Quattrocento sa dar vita alla nuova concreta immagine di un rinnovato equilibrio tra realtà e coscienza»7.
E dello stesso tenore ci appaiono alcuni paesaggi della seconda metà degli anni Dieci, come
“Paesaggio di Grottaferrata” del 1915, “Paesaggio di Monte Compatri” del 1917, e “Paesaggi
romani” del 1919, in cui certe zone di luce abbacinante sembrano non assumere solo una funzione di definizione e, ancor più, di unificazione delle forme, ma anche quella di propagazione di una sorta di tensione spirituale. Neppure Cézanne, in fondo, bastava più, perché la
guida fermissima della mente e della sua architettura ideale, era certamente in grado di oltrepassare i confini e gli impacci del naturalismo e dell’atmosfericità percettiva e caduca tipici
dell’Impressionismo, ma non sapeva investire il dipinto di quella corrente, di quella tensione
spirituale che andava, invece, sempre più affiorando nell’”umanesimo guidiano”. Guidi andava
proprio manifestando la propria insofferenza per una visione troppo provinciale, o troppo soggettiva, o troppo intimista, o troppo “spadiniana”, o troppo arcaicizzante, comunque troppo
confusa, proprio come il panorama artistico romano di quegli anni, mentre veniva chiarendo,
sia a livello concettuale e filosofico, sia sul piano puramente pittorico, la propria disposizione
a un ricupero, a una reimmersione, nella grande fonte purificatrice della classicità. Non rifiutava niente, così come non aveva rifiutato le “Secessioni romane”, né gli stessi ammiccamenti
di Sartorio, il suo maestro, con il gruppo dei 25 della Campagna Romana, e neppure, sul versante opposto, si era tenuto lontano dalle deflagrazioni futuriste, confluite infine nella grande
12
esposizione al Teatro Costanzi, nel 1913; ma non si era imparentato con nessuno, non si era
definitivamente legato ad alcun gruppo o movimento. Ed infatti, molti anni dopo, proprio a
proposito della rivoluzione futurista, ebbe a ricordare che: «Alla nascita del Futurismo io avevo
diciotto anni, vivevo facendo restauri e lavori decorativi e studiavo per mio conto. Sarebbe stolto
credere che io non ebbi uno scossone penoso, ma non mi mossi, forse perché sentivo che non
bisogna muoversi senza la coscienza dell’azione: e feci bene, perché non sono stato poi costretto a ripiegare su posizioni malinconiche come è accaduto o molti maestri del secolo»8.
E nemmeno aveva, in realtà, abbracciato la poetica dei “Valori Plastici”, che pur, per certe rigorose premesse strutturali, più che per la fideistica devozione nel risalto geometrico della massa
cromatica, sembrava mantenere molte zone di confine, se non di vicinanza con la sua pittura.
II “classicismo“ di Guidi nasceva da altre esigenze e soprattutto si alimentava in altre fonti: nessuna concessione all’“arcaismo”, nessuna deriva retorica, nessuna nostalgia del tempo perduto; invece il ricupero della centralità della scienza e della coscienza dell’uomo come, unica,
formidabile testimonianza dell’ordine divino, della mirabile progettualità che governa l’universo. II classicismo di Guidi era davvero di matrice rinascimentale, con ragione e spirito che
tornavano al centro del creato, perché emanazione diretta, primaria, del grande ordine universale. E la luce veniva riconosciuta come strumento, e allo stesso tempo come soggetto principe di ogni avvenimento-entità. Tutto si risolveva, come intuirà Crispolti, in una epifania
luminosa, in una apparizione di luce che, infine, altro non era che rivelazione di sé stessa, motore, demiurgo, pensiero del reale.
Era naturale che Guidi non rifiutasse il ruolo di attore del suo tempo, che non si rifugiasse in
una nicchia antistorica, per celebrare ordini malinconicamente superati; ma era altrettanto
naturale che la sua presenza nel suo tempo mantenesse il timbro, il segno, di una grande, illuminata solitudine. Ed anche i paesaggi di quegli anni sembrarono mantenere un respiro
umanistico, quasi una testimonianza di un presente immerso non in una luce estranea alla storia, eppure estranea alle contingenze, al decadimento, al dissolvimento. Erano opere solidissime, tutte impostate su linee prospettiche ben dichiarate, su masse e piani scanditi con molto
nitore, in cui, però, una potente luce mediterranea sorgeva a irradiare ogni cosa, anche attraverso le zone d’ombra (che erano le zone dell’assenza, e non dell’oscurità), a vivificare ogni
componente, concedendogli il ruolo a cui era destinata, e a fondere tutto, senza confondere,
in una sorta di irripetibile armonia formale ed espressiva di timbro umanistico-rinascimentale. Dai “Carabinieri a cavallo” del 1920 ai vari “Pittore all’aperto” del 1924 e “Paesaggio
Rioffredo” del 1926, fino alle prime “Terracina” e alla “Campagna romana” del 1927, costante nella ricerca guidiana era proprio questa immissione nello spazio fisico di una luce
mentale e spirituale, con relativa, perfetta e immediata compenetrazione, tanto da non potersi
più distinguere, all’interno di un’opera, dove finiva la rappresentazione dello spazio naturalistico, e dove nasceva e si dilatava il campo dello spazio ideale. La particolare precisione e ac13
curatezza, l’attenzione massima prestata nello stendere la pasta cromatica, nel definirlo, nel
levigarla, che aveva trovato gli esiti più alti nella confezione della seconda e conclusiva versione del “Tram” – Dino Marangon ci parlerà di: «[...] materie e [...] superfici particolarmente
omogenee e come leggermente smaltate, che [...] lasceranno Guidi insoddisfatto, tanto da definire talvolta, autocriticamente “neoclassico” il proprio capolavoro, rammaricandosi altresì
per la perdita della prima versione»9 – e che era già ampiamente superata dalla libertà e dalla
freschezza con cui era colto il tema dello spazio atmosferico (mai in termini di transitorietà)
nelle varie versioni del “Pittore all’aperto”, in quelle prima citate prove paesaggistiche veniva
un po’ accantonata, pur senza mai cedere alla trasandatezza, a favore di un respiro spaziale
così dinamicamente sostenuto da influenzare anche la nota stilistica.
La pittura di Guidi si avvicinava a un’idea di spazialità più vibrante, più palpitante, probabilmente meno bloccata, quasi avvertisse l’avvento di nuove miracolose fonti ispirative. La «[...]
luce meridiana dell’estate che inonda tutte le cose, lasciando chiara, evidente la loro forma
[...]»10 non era uscita dalla “visione” guidiana, non l’aveva abbandonata, ma ora si accompagnava anche a presenze e riconoscimenti sostenuti da un nuovo dinamismo, da una vitalità interna che sembrava scuotere la quiete e l’armonia della luce zenitale. E, infine, arrivava
il tempo degli struggimenti e delle affascinazioni veneziane; giungeva l’ora della laguna, con
l’incontro e la battaglia dei venti del Nord e le folate dello Scirocco, così diverse dalla carezzevole brezza del Ponentino; l’ora dei barbagli e delle rifrazioni, e soprattutto di un nuovo infinito orizzonte acquoreo. Mutava tutto nella vista e nel cuore del Maestro, quindi nella sua
visione, eppure l’attesa, e forse temuta, dissoluzione della forma, non sarebbe avvenuta. Certamente dopo l’arrivo a Venezia (chiamato egli, nel 1927, a sostituire Ettore Tito nella cattedra di Pittura, in opposizione all’ambiente accademico veneziano, che avrebbe preferito una
successione graduale e conservativa con l’assistente Ettore Pomi), la sua attenzione verso l’elemento sensibile viene a crescere, e così anche l’attrazione per le infinite variabili offerte dal
palcoscenico della laguna. Se prima era lo spazio solenne della città eterna, o quello mosso,
ma anche disegnato e concluso della campagna e delle colline laziali, o quello raccolto e silenzioso degli interni, a determinare le scelte oggettuali di Guidi, ma anche a sollecitarne le
varianti formali, ora, a tenere il campo, in tutta la sua volubile mutevolezza atmosferica, era
lo spazio sconfinato, e aperto alle intersecazioni e sovrapposizioni dei piani focali, alle rifrazioni, alle pulsazioni luministiche, della veduta lagunare. E, naturalmente, questo mutamento
di scenario non poteva non influire anche sugli aspetti prettamente stilistici della pittura quidiana, che, dopo l’arrivo a Venezia, andò diventando sempre più corsiva, veloce, libera, e
scintillante: soprattutto morbidamente, ma elettricamente disposta a fremiti e palpitazioni tonali. Eppure la struttura portante dell’opera non ne risentì, l’architettura, l’impianto formale non
si sgretolò, e neppure la sintassi guidiana venne stravolta da questa invasione di vibrazioni luministiche. Anzi, Guidi riuscì davvero nel miracolo di coniugare la solidità, la sapienza, la mi14
sura e gli equilibri della tradizione classico-rinascimentale, con il “luminismo” del Barocco
Veneziano, con quella pittura di tocchi, di soffi, e di guizzi, che aveva conosciuto i suoi primi
annunci nella decorazione tardo-bizantina.
Opportunamente Franca Bizzotto verrà a spiegare che: «La mobilità dell’acqua che modifica
la forma e scompone la luce indusse Guidi a un lavoro di revisione della pennellata, in qualche modo abbreviata e sintetica quasi “en plen air” nella “Giudecca” della Civica Galleria
d’Arte Moderna di Milano, ma la struttura compositiva si mantiene serrata anche quando egli
sembra apparentemente indulgere sull’elemento sensibile, in movimento, dell’increspatura
dell’acqua, per ritornare, meditata e mediata dalla sintesi della memoria, nel “Mulino Stucky”
elaborato dalla finestra dello studio alle Zattere. Nel suo approccio conoscitivo della città
Guidi si rende disponibile anche alla veduta [...] in una posizione quasi intermedia tra Canaletto e Guardi: lucida nella struttura prospettica e nell’atmosfera di luce generale, calda e avvolgente nei raccordi cromatici che esimono da una dimensione aneddotica anche quando il
particolare sembra maggiormente insistito»11.
In realtà Guidi sembra voler andare oltre, rendendosi anche disponibile a una stesura sfrangiata e liquida, attraverso una pennellata magra e nervosa, in cui lo sfaldarsi del tessuto pittorico e l’annullarsi di ogni consistenza materica ci appare come un tentativo di rapportare il
ductus stilistico al frangersi, ricomporsi e rifrangersi delle onde sui moli del Bacino di San
Marco o della Giudecca o delle Zattere. Dipinti come “Mulino Stucky” del 1927, e del 1928,
testimoniano questo frantumarsi, quasi un liquido polverizzarsi, della superficie cromatica,
che tende, attraverso questo processo di decantazione, ad assumere una morbidissima levità,
funzionale all’inserzione del tracciato pittorico in un’aura romantica e un po’ favolosa. E le
stesse considerazioni mi pare si attaglino anche a soggetti diversi, come gli interni, le “Visite”
eseguite in quegli anni, così come ai paesaggi dipinti sui temi dell’entroterra veneziano, soprattutto ai paesaggi del Brenta, di Stra, dove il Maestro aveva tentato di instaurare una personale alternativa all’Accademia. Stille di colore, colate perlacee sulle gamme dei grigi, dei
verdi leggeri, degli azzurri, in una texture assolutamente sgranata, ci riportano all’incanto dei
magici paesaggi veneti di derivazione Giorgionesca. E, comunque, senza mai concedere nulla
a una descrizione insistita sul piano naturalistico. Mentre, sul fronte opposto, quello della “veduta” di concezione direi atemporale, estranea a qualsiasi riferimento concreto e contingente,
potremmo notare molte consonanze, molte conformità con la poetica del “Vedutismo” settecentesco, e con l’immota fissità dei “Canali della Giudecca” di Guglielmo Ciardi, insomma
con gli unici veri antecedenti di una solitaria corrente metafisica nella pittura veneziana.
Ma quello che riportava sempre le cose in ordine, riconducendo a unità ogni brano, ogni passaggio, ogni azzardo, ogni tentativo, e ogni oscillazione di quella magica stagione pittorica del
Maestro, era, come sempre, il magistero della luce: la sua supremazia incondizionata, il suo
governare ogni componente dell’opera, il suo illuminare, aprire, rischiarare, riconoscere, sco15
prire, svelare, evidenziare e sottolineare, ma anche e soprattutto il suo fondere e collegare
ogni momento pittorico in un “unicum” non narrativo, immoto, certamente oltre il tempo.
L’irripetibile segreto dell’arte di Virgilio Guidi era questa compenetrazione, sempre su un piano
immateriale, ma non puramente ideale o letterario, né tantomeno scenografico, fra una luce
immanente e vitale, testimone diretta della realtà naturale (senza venirne comunque contaminato), e una luce trascendente e antica, collante di ogni aspetto di questa realtà.
E saranno proprio gli anni veneziani a produrre le prove più sconvolgenti di questa impossibile mescolanza, di questa improponibile sintesi, con dipinti come “Canale della Giudecca”
del 1927 e del 1928 che, a mio parere, restano fra gli esiti più alti di tutta la pittura di paesaggio del Novecento italiano. In ogni caso Grecia capta Romam non coepit, perché Guidi non
venne mai abbagliato e conquistato dalla luce “buranella”, da una luce-stato d’animo, e da
un’atmosfericità episodica; dopo aver preso bene le misure e le contromisure, fu proprio Guidi
a immettere la sostanza luminosa della sua arte nella tradizione della pittura lagunare, incominciando a proporre le prime versioni di una “metafisica veneziana”. Liana Bortolon ci ricorda che: «Durante un’estate a Terracina, Guidi dipinge alcune marine di una corposità fluida
e trasparente. Tre anni dopo, ecco le prime marine astratte, composte secondo lo schema dei
tre piani – terra, mare e cielo – le balaustre in primo piano, le rive appena sagomate, il punto
d’incrocio delle diagonali di tensione, cielo e mare divisi da un leggero passaggio di colore.
È la nuova sintassi con cui Guidi affronta il proprio mondo. La luce palpita nello spazio estatico delle vedute lagunari, più immaginate che viste dall’occhio [...]. L’artista intende esprimere
col minimo di segni il massimo dell’intensità visiva e poetica»12. In realà prima delle “Terracina”, fra il 1930 ed il 1931 il Maestro presenta alcuni dipinti che già annunciano una visione
astrattista del paesaggio veneziano, una predisposizione al distacco dalla riconoscibilità figurativa: già con la “Riva degli Schiavoni” del 1930, e alcuni “Bacini di San Marco” del ‘31, le
chiese, le case, i moli, i pontili, le balaustre e gli attracchi, incominciano a sfilarsi la prima
pelle, quella descrittiva, per trasformarsi in volumi puri, in pure masse cromatiche. Poi, qualche anno dopo, verranno le “Terracina”, e questo processo di semplificazione raggiungerà un
primo fondamentale punto di equilibrio: plasticità rilevante, ma funzionale, accentuata sottolineatura dei contrappesi geometrici, ricupero di paste alte, ma straordinariamente nitide e
terse, diffusa, ma controllata luminosità.
Dunque verso la metà degli anni Trenta era iniziata la grande rincorsa guidiana verso l’essenza plastico-luminosa (non luministica), verso la visione decantata, verso la liberazione non
dalle emozioni, ma dai riferimenti figurativi. II tessuto cromatico veniva a ricompattarsi, a
riaddensarsi in una grana molto più uniforme e levigata, in cui venivano affiorando le gamme
degli azzurri e dei verdi: Guidi se ne andava definitivamente sia dai “Valori Plastici”, sia dai
luminismi veneziani, sia da ogni “Ritorno all’Ordine” che da ogni “Realismo Magico” (che lo
avevano peraltro soltanto sfiorato), per aprire la nuova frontiera di un cromatismo mediterra16
neo, aperto e solare, e al tempo stesso anche molto mentale, che sembrava vagheggiare una
nuova concezione plastica, in termini di luminosità.
Probabilmente il vero spartiacque, il momento dell’indirizzo definitivo si può far risalire al
1936 o al 1938, al periodo della “Littorina” e di una scelta molto meditata, elaborata (pensiamo alla sequenza dei bozzetti preparatori), verso una pittura di sintesi assoluta e di robusto impianto intellettuale.
Per tutti gli anni che portarono alla guerra, e che l’accompagnarono, Guidi cercò all’interno
della stessa materia, all’interno della stessa pasta del colore, i motivi di una luminosità non solo
unificante, ma anche strutturante, di una luce che diventasse intieramente forma e segno,
senza sottolineare con troppa evidenza I’architettura, senza affidarsi a gabbie e inquadrature
troppo definite; quest’ultime comunque egualmente presenti e fondamentali, se pur poco evidenziate, soprattutto alluse. Tutto restava, anzi si confermava ancor più legato al controllo
della ragione, che guidava integralmente il percorso, con l’obbiettivo di far affiorare, il più nitidamente possibile, una forma assoluta. E questa, in un contesto in cui i dettagli andavano
man mano scomparendo, tendeva a manifestarsi in volumi tondeggianti, anzi soprattutto ovoidali, nei quadri di figura, mentre nei paesaggi in ampie distese, piani di fuga che inseguivano
l’orizzonte e venivano contornati o intersecati da un unico tracciato, generalmente curvilineo; a definire o spezzare la fuga prospettica v’era sempre un contrafforte naturale (magari lo
sfondo di Terracina, la montagna del Circeo), che veniva a chiudere, a bloccare l’immagine,
quasi come una quinta teatrale. Perché, comunque, la poetica guidiana tendeva sempre a una
immagine definita, a una visione conclusa, anche quando di soli orizzonti e di sola luce si
stava occupando. Erano gli anni delle “Terracina”, appunto, e delle straordinarie figure di
donna con il volto “a pera”, irripetibile sintesi di luminosità trascendente e di spazialità immanente al colore stesso, di interna emozione spaziale; ma anche delle prime Venezie con la
neve, dei “Ponti dell’Accademia”, dei “Traghetti a San Giorgio”.
Poi, verso il 1942/1943, venne anche il fugace periodo dei “Paesaggi bolognesi”, un passaggio quasi dovuto, un omaggio a un ambiente che lo aveva accolto (forse mai completamente
accettato) per tanti anni, ma che non rispondeva completamente, e nell’estasi e nella crisi, alle
corde guidiane. E infatti il dato naturale, nelle poche prove che ci sono rimaste, viene solo
mantenuto come puro riferimento spaziale, come occasione per misurare ritmi e simmetrie
ideali che già sono, invece, rintracciabili nelle spartizioni dei piani e nella successione dei filari, nell’intrico, apparentemente irregolare e accidentale, dei viottoli, delle stradine della
campagna bolognese. Queste opere, di impianto rigorosamente geometrico e astrattista, sono
sostenute, e direi anche riscaldate da un morbido afflato tonale, come confermerà Toni Toniato
in un saggio su quegli anni bolognesi: “Nel Paesaggio bolognese della collezione Brambilla
di Muggiò la natura è traguardata attraverso la spianata orizzontalità dei campi in successione,
ritagliati in modo squadrato per cui il prospetto compositivo risulta esaltato soprattutto da que17
sta progressione dei puri piani cromatici accordati su un registro dagli ocra ai verdi, dalle terre
ai gialli intensissimi. La rappresentazione mette in evidenza – tramite divisioni lineari – zone
coltivate e stradine [...]. L’artista qui raffigura dei tratti compositivi quanto mai essenziali: il suo
intento verso sintesi rastremate risulta in questo caso addirittura elementare, ma ricco di una
forza primitiva addolcita da un gusto sapiente nell’orchestrazione tonale. Forma e colore risultano svincolati dal loro riferimento naturalistico perché percepiti con funzione astraente
che destruttura e ricompone l’impianto geometrico dentro una materia scossa da elettriche
accensioni [...]»13.
Anche questo passaggio, in ogni caso, sarà utile per mettere a fuoco il processo di semplificazione, di chiarificazione e pulizia dell’immagine, in cui Guidi si era immerso con piena
coscienza. E il ritorno a Venezia, sul finire della guerra (anche se ancora manteneva la cattedra di pittura a Bologna), lo confermava nella convinzione che la natura era il grande contenitore della verità plastica, nelle sue multiformi proposte e varianti, che là si doveva attingere,
con grande umiltà e con grande affetto, attraverso non lo strumento, ma l’energia e il candore
della luce. A cui toccava anche il compito di ridurre tutto a sintesi. Ecco, il formidabile intuito
guidiano aveva condotto a trasformare funzioni e valenze della luce durante il dipanarsi del
tragitto: ora essa non rappresentava, non era più solo collante, cemento, momento unificante.
La luce era l’unità stessa, preservata al caos, alla frantumazione, alla dispersione. Dirà lo stesso
Guidi: «[...] non è possibile rimediarsi una certa pace, una tranquillità tutta soggettiva, mettendo da parte cose che il tempo mette in mezzo. È meglio accoglierle tutte con il giudizio,
senza preoccuparsi del confuso in cui si agitano, senza impressionarsi della loro dispersione
contrastante, e vedere se in ognuna sia una parziale verità che aspiri ad unità»14.
Le mille occasioni ispirative dettate dallo stesso tessuto urbano lagunare, dal suo magico respiro, dalla sua stessa consistenza immateriale, dalla sua impalpabile fisicità, invece di complicargli la strada, piuttosto lo spingevano a cercare il referente sicuro, il testimone sempre
presente: l’energia fondante della luce.
Nelle splendide “Santa Maria del Giglio” del 1944/1945 essa apre e propone volumetrie scandite simmetricamente, con chiara proiezione sul piano frontale di facciate affogate in una luminosità mediterranea, mentre nei coevi “Ponte dell’Accademia”, un vibrato luministico si
accompagna a tracciati lineari più nervosi e più allusivi. La luce si trasforma, modella e si modella, non seguendo l’impressione, ma guidando l’emozione. Così come nelle incredibili marine con l’Isola di San Giorgio inquadrata di tre quarti, nelle “Marina con balaustra”, e nei
“Bacino di San Marco” del 1946 e 1947, una diffusa, complessiva, solarità, che sicuramente
si riallaccia ai canoni della luce meridiana, riesce ad assumere e un indefinibile spessore plastico, e un indicibile valenza ideale, direi addirittura etica.
Siamo in uno dei momenti più alti della pittura italiana del secolo, e Guidi viaggia a gran velocità verso sintesi estreme. «Guidi, umanista moderno, sa bene che cosa indica del proprio
18
cammino quando dice che nella sua opera si verifica il trapasso, essenziale per la sua storia,
fra luce meridiana e luce cosmica. Ma il passaggio è possibile, e realizzabile di fatto con i termini tecnici della pittura, solo a patto di intendere la luce cosmica come luce irradiante della
mente e della coscienza dell’uomo, anche se espansa in un universo nuovamente sconfinato:
ancora luce ideale»15.
Si succedono, in quel finire degli anni Quaranta, “Marine con la grata”, a sottolineare le rigorose geometrie che sottostanno agli aspetti fenomenici, e, soprattutto, affidandoci alle parole del Maestro, a confermare che «[...] nella concezione dello spazio-luce la geometria può
essere necessaria per stabilire semplicemente dei punti ideali nello spazio, non figure rigide
[...]»16; poi le purissime “Marine a fasce”, distillato di luce definitasi in spazio mentale e lirico al tempo stesso; e ancora le innumerevoli “Punta della Dogana”, in cui si alternano mari
trasparenti e dolcissimi a distese d’acqua d’un azzurro-viola intenso e talvolta perfino violento,
che si contrappongono al plastico emergere della sagoma della Salute; e infine le solitarie, stupefacenti “Marine zenitali” del 1950/1951, limpide, vibranti, epifanie luminose, testimonianze di una energia assoluta che diventa centro del creato, riferimento ideale, soglia
d’arrivo, e decisivo ponte verso l’infinito e l’ignoto. Le “Marine zenitali” si propongono come
gli archetipi di tutta la pittura di paesaggio di Guidi, costituendo il tentativo più alto di raggiungere una forma assoluta che incarni l’energia vitale, in una estrema semplificazione, che
pur permetta di riconoscere le pulsazioni, i palpiti naturali. Davvero in queste opere a Guidi
era riuscito il miracolo di coniugare la luce meridiana di Piero della Francesca, con la luce
cosmica, che secondo Arcangeli era di origine neoseicentesca «[...] indicava ancora, cioè, un
rapporto di convivenza tra luce e ombra, dove la luce rompeva le tenebre con diversa violenza, ma con non altro impatto da quello con cui la luce d’una stella remota è percepita dagli
strumenti d’un osservatorio astronomico. Era perciò, quella luce, nel vero senso del termine,
la prima luce cosmica. Caravaggio, tenebroso, è in realtà all’origine di tutte le possibili luci
del mondo moderno»17.
E da questa posizione centrale, in cui luce naturale e luce ideale confermavano il loro confluire in un unicum pittorico, l’umanesimo cosmico di Guidi si proponeva come il faro e il motore di ogni azione e di ogni riconoscimento nello spazio. Da qui si sviluppava, anche questa
volta in forme originali, lo “spazialismo” guidiano, tutto incentrato sul ruolo dell’uomo, creatura del suo tempo, ma anche testimone di un’avventura infinita, svoltasi nell’illimite atemporale della memoria e della coscienza, nel luogo in cui caos e accidenti ricuperavano
l’ordine, la quiete, l’incorruttibilità primordiale. Le “Figure nello spazio”, che Toni Toniato
chiamerà: «[...] oblique traiettorie di colore-luce su un orizzonte di scanditi equilibri geometrici»18, apparse nel biennio 1946/1948, indicavano la consacrazione formale di una tensione,
di un’aspirazione, di un anelito individuale, che nell’atto della pittura si trasformava in energia cosmica rivelata plasticamente. Energia, che nella sua espansione verso l’alto, verso il tra19
scendente, verso la purificazione, ci avrebbe indirizzato verso la sfera della libertà, ma anche
della storia, verso un trascendente firmamento: quello dei “Cieli antichi”.
In verità Guidi, in direzione di questi brani di memoria cosmica, più che dalla «[...] nostalgia
inquieta di una condizione perduta e inattuale»19, come troppo riduttivamente sosterrà anche
Toniato, più che da un, pur parziale, ripiegamento sul passato, sembra sospinto da un bisogno di invitare l’uomo, quindi se stesso, a incontrare la storia, a partire da valori solidi, per
poter ripensare il presente, per poter affrontare le insidie e le angosce della libertà. E infatti,
ai “Cieli antichi” faranno seguito le “Angosce”, “I Giudizi”, “Le Presenze”, in cui la sottolineata
partecipazione del segno-luce alla costruzione del dipinto, confermerà il convivere dell’energia umana, riconosciuta nella drammaticità della condizione individuale, dell’impulso
vitale, con il flusso luminoso nello spazio, nell’universo dei valori eterni. Guidi, attraverso
una cifra stilistica sempre più vicina alle esperienze informali, rispondeva alle contaminazioni, alle provocazioni, agli inquinamenti di un’attualità infestata dagli oggetti del presente,
senza paura, senza ritrarsi, senza rifiutare lo stesso terreno di confronto. E in seguito, come diceva Arcangeli, all’irrompere dell’oggetto-pop «[...] nella verità materiale dello spazio, Guidi
trova il genio di rispondere con I’oggettualità dei suoi quadri di occhi, con quei suoi volti,
che paiono immagini “popolari”»20. Ma con queste risposte alle provocazioni del Pop, al demone non demonizzato dell’effimero e dell’attualità, con i dipinti sul tema degli “Occhi” e dei
“Volti”, il Maestro si è già immerso negli anni Sessanta, così come vi era entrato con dipinti
che avevano affrontato le inquietudini dell’Informale, cercando di superarne la criticità la tragicità, cercando di far decantare la tensione delle “Angosce” e dei “Tumulti”, nelle più ricomposte “Architetture cosmiche”, espressione dello stesso anelito guidiano a una
ricomposizione, a un riequilibrio delle pulsioni, delle tensioni che, comunque, erano state affrontate e vissute. Ecco, Guidi, a ogni passaggio, desiderava, intendeva proprio segnalare la
propria presenza; voleva che si certificasse che era rimasto nella battaglia, anzi, che di battaglie non ne aveva persa una, pronto a cambiare nemici (mutevoli come i lustri e i decenni che
passavano), ed anche postazioni e strategie, ma mai disposto a cambiare obiettivi. Egli era
pronto a cantare anche a tempo di Rock, o di musica dodecafonica, o di jazz, ma a cantare
la sua luce, perché anche il presente potesse nutrirsi di una luce che: «[...] non conoscerà,
ormai, altro che le variazioni di questa potenza morale, di questa volontà e fiducia di esistere,
entro ogni condizione prospettata dalla scienza moderna; di convincere anzi le intime forze
dell’uomo che l’umanità è predestinata alla vita e non alla morte»21.
E così la sua partecipazione e immersione nello spazio si contrassegnava e attraverso un fluire
di ampie, continue, grasse pennellate intrise di una luminosità strutturante, e attraverso il brulicare di segni e tracciati, portatori di annunci luminosi, a loro volta manifestazioni di una
forza vitale, di un dinamismo fondante la realtà; e certamente questo era un tragitto svolto all’interno della vorticosa corsa dell’Informale. Ma, contemporaneamente, ecco che lo spazio
20
di Guidi vedeva anche il placarsi del “tumulto” del segno, lo stemperarsi della “angosciosa e
angosciante” matericità di un colore raggrumato e denso, in un colore più liquido, sereno e
trasparente, che annunciava una ennesima decantata visionarietà. Dalla fine degli anni Cinquanta alla fine degli anni Sessanta, si susseguivano marine vibranti o immote, dagli azzurri
e dai gialli sostenuti, o, invece, dai grigi perlacei, di lievissima, quasi allusa percezione cromatica. In tutti i casi, comunque, la presenza, la partecipazione, il coinvolgimento espressivo
non veniva mai a intaccare la valenza ideale, il timbro universale della visione guidiana. Ed
anche con le cosiddette “Vedute” dei primi anni Settanta, materiche, sontuose, coloratissime,
tintorettiane o tizianesche citazioni, non colte, ma sensuali pagine dell’iconografia veneziana,
il dato naturale (oltretutto appena intravisto) rimaneva sempre esclusivamente funzionale al valore simbolico della visione.
Lo stesso discorso, ancora, si poneva per il ciclo degli “Alberi”, eseguito nelle Marche, durante
i soggiorni, abbastanza frequenti fra il 1972 e il 1976, che il Maestro si concedeva in quelle
terre. L’occasione paesaggistica, pur riscoperta direttamente, gli serviva soltanto da stimolo
per rappresentare, direi quasi per celebrare l’energia naturale, la forza vivificante che egli riconosceva in ogni aspetto del creato. E cambiare panorama, per lui voleva dire immergersi in
una nuova fonte di energia e di verità naturale. La percezione ottica fungeva da transfert, funzionava come passaggio per la coscienza; a cui poi Guidi avrebbe fatto seguire le sue sintesi
visionarie e gestuali: ultima, formidabile testimonianza di una tensione verso l’essenza, verso
la forma estrema, attuata per il tramite della potenza e dell’immediatezza del gesto. E non
solo del gesto, perché quei generosissimi anni Settanta vedevano un Guidi attratto dalle possibilità del colore e della materia; anzi del colore-materia, poiché egli non conosceva alternative alla matericità del colore. Guidi dipingeva non gli alberi, ma il loro succo vitale e la loro
struttura primordiale. Le stesse “Marine spaziali” replicate in quegli anni, presentavano una
consistenza, una densità di paste, una cremosità e concentrazione di pigmenti colorati, che
ne faceva risaltare anche la fisicità, che ne sottolineava l’aspetto di entità identificabile autonomamente anche sul piano materico. Guidi viaggiava, senza esitazioni, sulla strada delle
sintesi assolute; ma, allo stesso tempo, affrontava di petto tutte le problematiche lasciate in
piedi (e forse irrisolte) dall’Informale, compresa quella decisiva della natura organica e parimenti ideale della materia. Proprio su questo fronte, infatti, si svolgeva la feconda, ispirata, ultima stagione del Maestro: sul crinale di una originale, quanto spericolata, rischiosissima,
confluenza dei valori di sintesi formale, e di eidetica visionarietà, con le istanze vitalistiche e
germinative di una nuova concezione della materia. Nel grande, imprevedibile ciclo dei “Bianchi”, con cui si chiudevano gli anni Settanta, ciclo di figure che diventavano paesaggi animati, Guidi trovava perfino il modo di rispondere, alla sua maniera, attraverso il magistero di
una luce che si incarnava nella materia, e di un colore-materia che trascendeva se stesso nella
luce, agli aneliti, agli spasmi, alle pulsioni, alle domande (fino ad allora) senza risposta di
21
quell'“Ultimo Naturalismo”, che tanto aveva segnato il percorso umano e culturale di Francesco Arcangeli. Come bene aveva intuito Pier Giovanni Castagnoli, la estremizzazione della
sua ricerca doveva necessariamente approdare alla pienezza e assolutezza del simbolo; ma
di un simbolo vitalissimo, non estraneo all’individuo, non lontano dall’umanità di Virgilio
Guidi. “Istanze divergenti, stimoli opposti, s’urtano di continuo nella sua pittura, [...] l’angelo
e il demone in essa si combattono, lottano la chiarità e il buio, l’equilibrio della mente e l’instabilità del senso; il loro scontro è il motore che la sospinge, [...] il metodico dubbio pascaliano è la sola certezza che Guidi possiede. Ecco la luce dar corpo, solidità, presenza e quindi
divorare e dissolvere; ecco la geometria dar ordine, nitore, misura intellettuale alle forme e subito soccombere per dar passo al gesto che la passione comanda; ecco il pieno e il vuoto dell’opera di Guidi [...].
Da tempo, tanta ricchezza il pittore ama consegnarla ai simboli [...].
Se il simbolo, infatti, come ha scritto Hugo von Hofmonnstol, “allontana ciò che è vicino e
avvicina ciò che è lontano, in modo che il sentimento possa assaggiare l’uno e l’altro” dopo
aver percorso tanto cammino, dopo aver tanto a lungo conosciuto la rotonda pienezza del vissuto, Guidi, sempre più proiettato verso l’invisibile, nel simbolo deve identificare l’espressione suprema di ciò che si presagisce, ma ancora non si riconosce [...]22.
Giovanni Granzotto
Colloqui svolti fra Guidi e l’autore nello studio di Calle Vallaresso a Venezia nella seconda metà degli anni Settanta.
Ibidem.
3
Ibidem.
4
Enrico Crispolti da Guidi, la Luce, Edizioni La Gradiva, Roma 1983.
5
Ibidem.
6
Ibidem.
7
Dino Marangon da Guidi - Catalogo Generale dei dipinti - “Il periodo romano”, Edizioni Electa, Milano 1998.
8
Virgilio Guidi da Virgilio Guidi, Mostra Antologica, Palazzo dell’Archiginnasio, Bologna 1971/72.
9
Dino Marangon da Guidi - Catalogo Generale dei dipinti - “Il periodo romano”, cit.
10
Virgilio Guidi da Pittura d’oggi, Edizioni Vallecchi, Firenze 1954.
11
Franco Bizzotto da Guidi - Catalogo Generale dei dipinti - “Il periodo veneziano”, Edizioni Electa, Milano 1988.
12
Liana Bortolon da Virgilio Guidi, Edizioni Arnoldo Mondadori, Milano 1978.
13
Toni Toniato da Guidi - Catalogo Generale dei dipinti - “Il periodo bolognese”, Edizioni Elekta, Milano 1998.
14
Virgilio Guidi da Pittura d’oggi, cit.
15
Francesco Arcangeli da Virgilio Guidi, Mostra Antologica, cit.
16
Virgilio Guidi da Pittura d’oggi, cit.
17
Francesco Arcangeli da Virgilio Guidi, Mostra Antologica, cit.
18
Toni Toniato da Guidi di Castagnoli-Toniato, Edizione Arte, Venezia 1977.
19
Toni Toniato da Virgilio Guidi, in “Evento delle Arti”, Venezia 1966.
20
Francesco Arcangeli da Virgilio Guidi, Mostra Antologica, cit.
21
Virgilio Guidi da Pittura d’oggi, cit.
22
Pier Giovanni Castagnoli da Guidi, cit.
1
2
22
TAVOLE I
PAESAGGI E MARINE
1. PAESAGGIO
olio su tavola
cm 50 x 60
2. MARINA
1927, olio su tavola
cm 49 x 61
3. MARINA
1929-30, olio su cartone
cm 47 x 64
4. GIUDECCA
1928, olio su tela
cm 50 x 60
5.
BACINO DI SAN MARCO
1931, olio su tela
cm 49 x 75
6. MARINA
7. ISOLA DI SAN
1931, olio su tela
cm 50 x 65
metà anni ‘30, olio su tavola
cm 50 x 60
GIORGIO
8. PAESAGGIO DI
PONZA
1938-40, olio su tela
cm 61 x 75
9. LA DOGANA
1931-40, olio su tela
cm 50 x 60
10.
PONTE DELL’ACCADEMIA
1944, olio su tela
cm 50 x 60
11. SAN
GIORGIO
metà anni ‘40, olio su tela
cm 40 x 55
12. PUNTA DELLA DOGANA
1948-50, olio su tela
cm 60 x 70
(LA SALUTE)
13. PUNTA DELLA DOGANA
1949-50, olio su tela
cm 50 x 70
14.
MARINA CON BALAUSTRA
1950-51, olio su tela
cm 80 x 100
15. BACINO DI SAN
1950 ca., olio su tela
cm 40 x 50
MARCO
16. BACINO DI SAN
MARCO
1957-58, olio su tela
cm 60 x 100
17. SAN
GIORGIO
1968-69, olio su tela
cm 50 x 60
18. SAN
GIORGIO
1970-71, olio su tela
cm 50 x 60
19.
MARINA CON ISOLA SAN GIORGIO
1970, olio su tela
cm 60 x 100
20. PAESAGGIO DI TERRACINA
1972, olio su tela
cm 69 x 89
21. MARINA CON BALAUSTRA
1971-72, olio su tela
cm 70 x 90
22. SAN
GIORGIO
metà anni ‘70, olio su tela
cm 40 x 50
NEL TEMPO, FIGURE DI LUCE
[...] Le prime figure conosciute sono una serie di autoritratti, il primo dei quali, risatente al
1907, è caratterizzato da una pungente nota biografica. Come Guidi ricordava spesso, il padre,
scultore e poeta, amava infatti uscire accompagnato dalla moglie, per frequentare, la sera, i
salotti e i caffè letterari della capitale.
Secondo le consuetudini del tempo il giovane Virgilio che, primogenito, doveva allora rimanere in casa ad accudire i fratelli, approfittava per dipingere. L'opera, eseguita allo specchio,
al lume di una candela, rappresentata dalla chiazza luminosa in basso sulla sinistra, rivela già
una significativa penetrazione psicologica, sottolineata dallo sguardo acuto e volitivo che,
nelle opere immediatamente successive risulterà ulteriormente
perseguita anche attraverso una progressiva volontà di sintesi plastica1 realizzata tuttavia in termini in prevalenza, seppur spigliatamente, tradizionali.
Nella Roma a cavallo tra il primo e il secondo decennio, il giovane pittore avrà comunque ben
presto modo di allargare gli orizzonti della propria cultura artistica: le Esposizioni della Società
Cultori ed Amatori e la vasta seppur parziale e contraddittoria Mostra Internazionale dell’Arte
Moderna, tenutasi nella capitale nel 1911 in occasione del cinquantesimo anniversario della proclamazione del Regno d’Italia, consentiranno infatti un approccio diretto ad alcuni importanti
esempi delle oper di taluni dei maggiori campioni del Naturalismo del Simbolismo Europeo tra
Otto e Novecento, nonché delle Secessioni Monacense e Viennese, come pure ad alcuni, significativi, seppur sparuti esempi di Monet, Renoir, Vuillard , Bonnard e Signac.
Gli influssi più immediati proveranno comunque a Guidi, che nel frattempo si era iscritto all’Accademia di Belle Arti, da Giulio Aristide Sartorio, i cui insegnamenti appaiono evidenti nel Cavallo del 1912, vero e proprio ritratto del purosangue sul quale il celebre maestro si recava a
insegnare e che, come ha rilevato Fabio Benzi, pur ricordando i consimili “ [...] temi sartoriani
(ritratti equestri, studi di animali )”, tuttavia raggiunge una sua significativa autonomia da quei modelli, “[...] certo più aulicamente impostati [...]”, per una più stringata e “ [...] casalinga nobiltà”2.
Proprio lo vastità delle problematiche sollecitate dalle molteplici e per certi aspetti contraddittorie metodologie messe in atto da Sartorio - (che da una lato, nelle opere di figura, memore dei
successi europei di Mariano Fortuny y Carbo e dei suoi seguaci, verrà avvalendosi non solo di
un uso smaliziato delle luci artificiali, ma, come ha osservato Maurizio Fagiolo dell’Arco, anche
degli altri mezzi che lo tecnologia già all’epoca gli forniva, eseguendo “[...] fotografie non fini
a se stesse, ma per dipingervi sopra” e, nell’elaborare i grandi fregi del Parlamento, proiettando
“[...] sulla tela le immagini del Partenone”, e dall’altro, al contrario, intendeva, secondo i non
dimenticati precetti di Nino Costa, lo pittura di paesaggio come la “[...] nudità del globo terracqueo”3 da studiare rigorosamente dal vero, alla luce naturale, per renderlo nell’opera in tutta
la sua semplice e suggestiva bellezza e spiritualità) spingerà probabilmente Guidi, non solo a un
approccio meno estetizzante e mitico e viceversa più diretto e sincero nei confronti del reale,
ma anche e soprattutto a cominciare ad approfondire le qualità eidetiche e sacrali della luce.
50
Tuttavia in ogni caso, né Sartorio, né tantomeno i cosìdetti XXV Pittori della Campagna Romana, modesta raccolta di paesaggisti che avevano trasformato i severi richiami morali del
Costa al confronto col vero naturale, in una pratica stanca e ripetitiva, realizzata spesso in
un’atmosfera da gita fuori porta coronata da pranzi e bevute nelle osterie locali, potevano essere, in quegli anni, gli unici interlocutori per Guidi.
Pur mantenendo i suoi caratteri di personalità orgogliosa e appartata, all’Accademia, in questo periodo, egli ha ad esempio modo di conoscere Amerigo Bartoli, solo di un anno maggiore
di lui, ma già più inserito e smaliziato, che in seguito lo introdurrà nella celebre Terza Saletto
del Caffè Aragno, mentre ancor prima aveva incontrato Mario Broglio, il futuro promotore dei
“Valori Plastici”. Intanto il giovane Guidi frequenta anche la Biblioteca del Circolo artistico di
Via Margutta, dove ha tra l’altro modo di documentarsi sull’opera di Courbet.
In quegli anni in Italia fervevano inoltre le discussioni sull’Impressionismo: anche se, come
molti alloro nella Penisola, Guidi non era favorevole ad accettarne la dirompente libertà delle
sensazioni coloristiche ed atmosferiche, in quanto “dissolutrici di corpi”, tuttavia come egli
stesso riconoscerà in seguito, “L’esperienza francese è necessaria a tutti perché non si procede per negazione”, precisando inoltre: “lo stesso l’ho fatta, l’esperienza, per ogni verso,
anche se è difficile a qualcuno trovarne i segni”4.
Più di retti e immediatamente evidenti riscontri avranno invece sullo sviluppo dell’opera guidiana le mostre della Secessione Romana5.
Nascono così opere come Maternità del l913, nella quale il tema, estremamente impegnativo
e ricco di futuri sviluppi, appare risolto in un clima ancora sartoriano, arricchito però da una
forte ed enigmatica caratterizzazione psicologica, riconducibile probabilmente a talune declinazioni del Simbolismo di Franz von Stuck, o i due bozzetti di composizione ad olio sul
tema degli Adolescenti che si addestrano al tiro con l’arco, caratterizzati da una accentuata
sintesi figurale e una rilevantissima vivacità cromatica, con i quali l’anno successivo, relatore
Sartorio , Guidi si aggiucherà la pensione triennale di 75 lire mensili del Concorso Lana presso
l’Accademia di San Luca, ancora la celebre Donna dal mantello nero, sempre del ‘14, che
segna l’esordio di Guidi alla III /\ Mostra della Secessione Romana (12). Un quadro questo,
tutto giocato sul contrasto tra la rosata luminosità dell’epiderrnide e la profondissima e quasi
inarticolata oscurità del drappo nero, in grado di dare ancor maggiore evidenza all’“[...] immagine quasi outrageuse di una donna che mostra la sua carnalità con una sorta di orgoglioso
esibizionismo. Ma anche con una soddisfazione quasi ebete, priva dei toni decadenti o ammiccanti che in quegli anni invece caratterizzavano simili soggetti frequentemente espressi
da una pittura internazionale in gran voga alle Biennali veneziane [...]”6.
Inoltre, sempre nel corso del 1914, Guidi ritornerà anche all’Autoritratto, dapprima con il bel
dipinto ora a Firenze agli Uffizi, nel quale, superati i modelli eroici allora ancora in voga , l’artista propone di se stesso una serena immagine borghese, caratterizzata da un’accurata inda51
gine plastico-luminosa e da uno sguardo forte e meditativo, e quindi con il vero e proprio capolavoro, ora conservato a Verona nella Raccolte dello Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Palazzo Forti, nel quale, forse fulmineamente stimolato dalla pubblicazione su
“L’Arte” di Adolfo Venturi, del celebre saggio di Roberto Longhi su Piero de Franceschi e la pittura veneziana, come pure dalla possibilità di confrontarsi direttamente, alla Secessione Romana di quell’anno, con un interessante nucleo di opere di Cezanne7, Guidi si mostra in
grado, al di fuori di ogni mimetismo naturalistico, di ricreare trasfigurare pittoricamente il
vero, ricollegando l’innovatrice originarietà plastico-formale del Maestro di Aix, coi più profondi nuclei espressivi e strutturali del grande Quattrocentesco, dando vita a una immagine
di straordinaria verità e concretezza, in una perfetta coincidenza di colore, di luce e di forma.
Se tali molteplici, eccezionali acquisizioni, alle quali occorre aggiungere anche l’approfondita
meditazione del sintetismo di forma e colore di Matisse, costituiranno il nucleo essenziale dei
futuri sviluppi della pittura guidiana, è necessario tuttavia osservare come l’autoritratto possa
costituire in un certo senso un temo privato, nel quale l’artista può esprimersi con maggiore libertà rispetto alle prove destinate o un più ampio impatto con il pubblico e con la critica.
Probabilmente assillato anche dalle insistenze del padre che lo ponevano di fronte alla necessità di acquisire più vasti consensi e riconoscimenti, Guidi verrà così mostrandosi sensibile
anche ad altre istanze pittoriche, allora forse di più immediato impatto. [...]
La ormai acquisita coscienza della funzione rivelatrice della luce - vero e proprio fondamento dell’intelligibilità e della spiritualità del reale - in grado di manifestare “le cose [...] tutte sul medesimo
piano di responsabilità nella loro massima espressione [...]”8 consentirà infatti a Guidi, pur nella
massima e solerte attenzione di rimanere pressoché immune sia dalla grande scossa prodottasi
nell’ambiente romano dal manifestarsi in quel torno di tempo della metafisica dechirichiana9 sia
dalle intellettualistiche sintesi formali proposte da “Valori Plastici”, “[...] con tutte le modificazioni
chiaroscurali e le geometrizzazioni volontarie della natura [...]”10 che ne conseguiranno.
Fedele alla verità della luce che imponeva al pittore si una fondamentale umiltà, tale da impedire ogni orgoglio cerebrale che lo spingesse a ritenere la realtà quasi un frutto delle proprie interpretazioni e della propria volontà, sia un continuo e arduo impegno di adeguamento
tecnico-formale, cognitivo e affettivo alle sue sempre diverse apparizioni, Guidi verrà affrontando in modo personalissimo anche il problema, allora vivissimo, dei richiami della tradizione e dei riferimenti al Museo.
Particolarmente interessante risulta così la copia da lui eseguita, nel 1918-19, della Danae
del Correggio. Attraverso lo studio dell’arte del grande emiliano Guidi ha infatti modo di approfondire le sue indagini sulla spiritualità della figura umana, in sempre più raffinate e sensibili variazioni compositive e della tessitura pittorica, allargando ulteriormente la già
vastissima gamma dei propri strumenti.
Guidi sarà così in grado di realizzare a partire dal 1920 una impressionante serie di veri e propri
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capolavori: dalle due versioni dei Carabinieri o cavallo, nelle quali in una visione più statico e distesa nel primo caso, più complesso e dinamico nel secondo, il pittore fa emergere appieno la
propria straordinaria capacità di far come compenetrare assieme ambiente e figure, memore forse
del grande Velosquez, alla Madre che si leva del ‘21, nella quale gli evidenti riferimenti al Correggio11, appaiono come inverati da tutta una serie di notazioni quali la testolina lievemente ciondolante del fantolino, o la gamba sollevata della madre, quasi ad aiutarsi a sollevare il prezioso
peso, mentre la sottilissima gradazione dei bianchi, dal niveo primo piano dei cuscini e delle lenzuola, al candore appena più pacato della veste del bambino, alla sottile penombra del panno
recato in mano dalla vecchia che si avanza dal fondo, mostrano come Guidi sia ormai attento a
quella pittua di valori, su cui, già nel 1916, si era soffermato il Longhi nel suo celebre Gentileschi Padre e Figlia12, alla vasta Colazione del 1922, nella quale la morbida sintesi tra le stereometrie cezanniane e le perfette sintesi plastico-spaziali di Piero, lungi dal condurre ad astoriche
monumentalizzazioni, sanno rendere perfettamente la spiritualità del quotidiano con esiti di straordinaria invenzione formale, come ad esempio nel busto della madre, la cui perfezione conica
può forse trovare analogie solo in taluni esiti del Malevic presuprematista.
Il 1922 è comunque anche l’anno delle due versioni del Dirigibile nelle quali, sulle orme del
Doganiere Rousseau13, Guidi sembra voler riflettere sul rapporto che va instaurandosi tra l’uomo
e la potente magia delle nuove tecnologie. In questo caso, anche la grande lezione di Cezanne,
chiaramente individuabile nell’accentuata compendiarietà delle mosse plastiche delle figure,
contribuisce alla percezione del mistero della modernità, concepita come apertura al nuovo, all’originario, al primitivo persino, inteso come scoperta, come il “[...] modo si sentirsi al princpio
di un’epoca”14, in un’atmosfera di straordinaria sospensione e quasi di innocenza che hanno fatto
includere questo specifico aspetto della creatività guidiana nella galassia del cosiddetto Realismo Magico15, anche se, va rilevato, Guidi ha sempre respinto una simile definizione, ritenendola parziale e riduttiva nei confronti della propria pittura, sempre volta a manifestare la realtà
nella sua interezza e non in qualcuno dei suoi aspetti particolari e parziali16.
Un senso della sintesi, dell’equilibrio, dell’ordine, quello perseguito dall’artista romano, tale
da spingere, qualche anno dopo, nel 1925, il critico tedesco Rom Landau a sottolineare come
Guidi - all’epoca conosciuto e apprezzato in Germanio a partire dalla grande mostra organizzata nel ‘21 a Berlino e ad Hannover da Mario Broglio e dal Gruppo dei “Valori Plastici”
- seguisse una via personalissima, volta a “[...] semplificare e primitivizzare il classicismo”17:
inteso tuttavia non come un repertorio acquisito da cui attingere stilemi e soluzioni predeterminate, bensì come una aspirazione essenzialmente precaria, un ideale eticamente e religiosamente arduo e difficile da raggiungere, ma al quale è tutta via improponibile rinunciare.
Così, anche le consuete immagini dei familiari, pur nel rispetto delle loro particolari sembianze,
vengono ora caricandosi di nuovi significati: il Ritratto della sorella Laura, ad esempio, pur riutilizzando “[...] il motivo quattrocentesco della finestra” , lo trasfigura alloro in una “[...] sorta di
53
annunciazione luminosa [...]”18, mentre sia nella grande Visita del 1923, ora alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Milano, che nel nuovo Ritratto della madre dello stesso anno, ora ai
Musei Vaticani, è la compattezza della luce a significare, rispettivamente, l’inestinguibile energia della comunicazione familiare e la incrollabile tenacia dell’amore materno.
Stavano in tal modo maturando le preesse per la creazione del Tram, l’opera forse più famose
di Guidi, presentata con straordinario successo alla Biennale del 1924 e ormai unanimemente
riconosciuta come uno tra i maggiori capolavori dell’Arte europea di quegli anni. [...]
A partire dall’anno successivo, Guidi inizia intanto a frequentare Margherita Sarfatti che ha
messo su casa a Roma dove tiene spesso brillanti ricevimenti.
Guidi, dopo aver preso parte alla Prima Mostra del Novecento Italiano, alla Permanente di Milano (14 febbraio 1926) sarà così uno dei protagonisti tra i Dieci Artisti del Novecento Italiano,
riuniti dalla Sarfatti in occasione della XCII Esposizione di Belle Arti della Società Amatori e Cultori, tenutasi a Roma agli inizi del 1927. In ogni caso anche se Guidi continuerà a partecipare
alle mostre organizzate all’estero dal movimento sarfattiano, verrà ben presto staccandosene.
“II Novecento che mi accolse nelle sue prime mostre e che allora andava a pieni passi con una
malintesa voglia restauratrice”, dichiarerà infatti Guidi, “perse fiducia in me e io feci il possibile per perderla”19.
D’altronde troppo lontane erano le istanze monumentali mitizzanti e archeologizzanti avanzate
dalla compagine novecentesca, specie nelle sue declinazioni milanesi, rispetto alla universalizzazione delle più intime ed elementari qualità umane proposte da Guidi che, anzi, quasi per reazione alla ormai montante e sempre più magniloquente retorica sui magnifici e progressivi destini
italici, negli ultimi tempi della sua permanenza romana sembrerà viceversa dedicarsi, avvalendosi di una fattura pittorica più disinvolta e quasi riassuntiva, a una serie di immagini quasi di costume quotidiano, come appare già da titoli quali: Passeggiata, Passeggiata in campagna,
Passeggiata al Pincio, Incontro, e persino un insolito Duello alle porte di Roma. Addirittura sembra sfiorare la cronaca L'uomo che legge la “Gazzetta di Venezia”, probabilmente il primo dipinto
eseguito da Guidi nel capoluogo veneto, dove si trasferisce nella primavera del 1927 per ricoprire
la cattedra di pittura nella locale Accademia20, ma già il trattamento pittorico più morbido e modulato del fondo sembra la sciar presagire le influenze del nuovo ambiente sull’animo di Guidi.
“Nel Veneto”, egli affermerà significativamente, “il sentimento della luce ricomincia un nuovo
cammino dalla fisicità all’idea. Infatti non fu lo pittura veneta a muovere l’immediato interesse, ma l’atmosfera limpida, fosforescente, morbidissima forse a me non veneto. Le osservazioni sulla natura mi divennero più necessarie”21, traducendosi pittoricamente nei Paesaggi
in un ductus più mosso e abbreviato e comunque anche nei quadri di figura in una pennellata più morbida, in grado di aprirsi alla sensazione, dando maggior autonomia al colore, intenso, puro, naturale, pur nell’ambito dell’effusione unificante della luce.
Nelle opere più riuscite di questo periodo si assiste così all’eliminazione di ogni residuo in54
tellettualismo formale nascosto in una sorta di impercettibile aggressività nei confronti dell’oggetto naturale, che viene viceversa accolto con grande armonia, in una più pacata intesa
con le cose, immerse talora in un’atmosfera appena pervasa da una sottile elegia, in una familiarità semplice e piana, ma ricchissima di vita.
Splendidi in questo contesto appaiono i Ritratti della moglie Adriana, all’epoca incinta: magnifiche
sinfonie di rosa e di bruni, straordinarie intensità di blu, sottili, raffinatissimi accordi di bruno-fulvi
e di grugioazzurri nei quali viene avvolta l’immagine talora assopita, o intenta nella lettura, oppure
pensierosa della donna, tutta raccolta nell’aspettativa della nuova vita che va recando in sé.
Anche i temi già consueti della Donna che si leva, o della Cavalcata, vengono reinterpretati nel
nuovo ambiente, in una cromia vibrante, permeata di luce, con una semplificazione e duttilità
delle forme di ascendenza matissiana: un riferimento che nel secondo caso, nel delinearsi della
grande strada alberata, diviene quasi citazione dal Viale nel bosco del 1917, del grande maestro transalpino. Un rimando tuttavia inverato dai riferimenti fenomenici alla Riviera del Brenta,
territorio che, del resto, costituiva uno dei temi preferiti del paesaggismo guidiano di quegli anni.
Anche se non mancano talvolta i tributi all’atmosfera e alla cultura del tempo, ravvisobili nella
più insistita piasticità e negli affioramenti chiaroscurali presenti nella trattazione di temi quali:
Gruppo di famiglia del 1930, Madre nel parco del 1931, o Bimbo che si leva del 1934, Guidi
saprà comunque pervenire a esiti di straordinaria, liberissima emozionalità, in opere come la
Donna in giallo (La veneziana) del 1933, nella quale la dilagante liquidità del colore, quasi
monocromo, sembra magicamente tenere insieme e manifestare, allo stesso tempo, lo concretezza fenomenica e la trascendenza luminosa del soggetto, o la Donna con lo cintura rossa,
tutta immersa nel fluire splendente dei piani cromatici attorno all’improvviso acme dell’ampia fascia che cinge ai fianchi la figura elegantissima e assorta.
Più psicologicamente pungente e incisive appaiono invece le immagini de L’americana, rispettivamente del 1933-34 e del 1934: veri e propri ritratti della giovane giornalista Nedda Arnova, autrice della prima monografia su Guidi, poi pubblicata a New York nel 1937, che
sembrano quasi preannunciare le atmosfere del successivo periodo bolognese.
Verso la fine del 1935, l’insofferenza, sfociata in minacce e addirittura in un processo, di molti dei
pittori veneziani nei confronti di un foresto, ritenuto troppo estraneo e innovativo, costringerà infatti
Guidi che pure continuerà ad avere uno studio anche nel capoluogo veneto, a trasferirsi nella città
felsinea dove ricoprirà la Cattedra di Pittura nella locale Accademia Clementina, seguito anche da
alcuni tra i suoi migliori allievi veneziani, quali Gino Morandis, Luciano Gaspari e Gastone Breddo.
“II pensiero”, ricorderà Guidi , “era accolto a Bologna solo da qualche giovane, ma ritenuto
come pretesa dall’ambiente bolognese. Io non m’aspettavo di più da Bologna, tranquilla nella
sua intimità, fedele al colore delle sue case, certa della misura morandiana. Quel breve periodo”, preciserà inoltre Guidi, “lo vissi nella condizione di assoluta impopolarità. Non solo
a Bologna, ma ovunque. La mia perplessità era diventata vera e generale”22.
55
Un’apprensione, quella di Guidi, che troverà significativa espressione nelle multiformi versioni de La Littorina - eseguite tra il 1936 e il 1938, con una nuova ripresa nel 1942 - che per
l’analogia del tema può far chiaramente emergere le diversità di stato d’animo e di visione del
mondo, subentrate in Guidi, rispetto all’epoca del Tram.
A confronto con la pura, ordinata, estaticamente luminosa intelligibilità e scansione spaziale
del capolavoro degli anni Venti, si sostituisce infatti una inedita tensione sottolineata dagli equilibri instabili delle figure, poste spesso di sghembo, come isolate in una moltiplicazione di scorci
e prospettive, tenute insieme, dentro la scatola del modesto vagone, solo dalla fluidità del colore, ricco di interne sonorità e franto da improvvisi sussulti e trasalimenti nell’emergere degli
azzurri, dei rosa, dei verdi, dei bianchi, dal dialogare degli ocra, dei fulvi, dei bruni-rossicci.
Viene proposto così l’approccio ad una umanità che non aspira più ad assurgere a simbolo universale e alla quale, invece, anche i confini certi, la solidità dei fondamenti consueti sembra venir meno,
in orizzonti sempre più problematici, all’interno dei quali vanno addensandosi insinuanti dubbi.
Un’inquietudine che avanza rendendo meno solidi i confini delle figure, sgranando i colori in
improvvise accensioni, mentre le ombre sembrano talora disgiungersi dalla modulazione dei
toni per assumere una funzione quasi corrosiva dei corpi.
Nascono così alcuni Nudi, quasi indifesi, intensissimi per una interna, trepidante palpitazione.
Anche le figure diventano attonite, gli sguardi sperduti come in un vuoto incolmabile.
Nei numerosi Ritratti e quadri di figura, le stesse fisionomie, pur riconoscibilissime, sembrano
come essere sintetizzate in uno schema che può, per certi aspetti, ricordare talune declinazioni
del Picasso precubista.
Non si tratta tuttavia di un processo di semplificazione, anzi tali schematismi sembrano, al contrario, voler approfondire una situazione esistenziale: mettendo espressivamente in relazione
gli aspetti soggettivi con una sorta di incombente spersonalizzazione.
Anche l’antico tema dell’Incontro, o della Visita, va ora assumendo nuovi significati: le figure
quasi scarnificate nel guizzare cangiante, o nelle sfregature delle pennellate che le delineano
compendiariamente, sembrano cercare un dialogo che però va assumendo toni dolenti e forse
conflittuali. La stessa natura che fa da contorno alle nuove iconografie degli Uomini in campagna, o Uomini al mare, dove anche talune lontane reminiscenze da Piero o da Cézanne assumono inedite valenze drammatiche, appare sorda e inospitale.
L’immane catastrofe nello quale l’intero mondo era nel frattempo caduto, aveva completamente sconvolto ogni certezza, ogni consistenza, ogni fiducia.
L’uomo si trovava letteralmente sospeso, come appare nel ciclo degli Uomini seduti, oltre ogni
apparente appoggiatura, solo nella eterna battaglia fra luce e ombra, ora sottolineata dalla perentorietà obliqua delle partiture, senza neppure più la certezza nella forza di gravità.
Nonostante tutto però l’uomo aveva il dovere di ricominciare, di riimmaginare nuove relazioni, di ricostruire un nuovo mondo. Dopo il rocambolesco ritorno a Venezia in bicicletta,
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ancora durante la guerra, nascono così, dal 1946, le Figure nello spazio, presentate poi alla
XXIV Biennale del 1948. [...]
Abbandonato ormai il tradizionale chiaroscuro che, osserverà Guidi, “[...] non scopre le cose, ma
le dimostra come sono già nella mente [...]”, il senso di inaudita apparizione di questi straordinari personaggi viene reso pittoricamente facendo in modo che “[...] il chiaro di ognuno di essi
sia e inerte, mentre l’ombra sia data dal colore che ad ognuno appartiene e limpidissimo”, cosìcché tali figure emergano meglio “[...] nella loro individualità coloristica nella luce”23, o preconizzare una umanità radicalmente rinnovata, alla quale, pur in un contesto di minor sintesi
astrattiva, sembrano appartenere anche le eleganti immagini della Baronessa, veri e propri archetipi e icone di una femminilità che, pur non rinunciando alla grazia, ad esempio nell’esibire
il tocco leggiadro del foulard, o nello stessa sinuosa eleganza della pennellata che ne delinea i
tratti essenziali, nella misteriosa e sottilmente drammatica bipartizione tra luce e ombra che conferisce protondità esistenziale all’appiattirsi delle forme sullo superficie come pure nell’errare dei
loro occhi incantati e sbalorditi, manifestano un’ansia e una trepidazione nuova che vengono
costituendosi quali indizi di un’epoca. Rifiutando ogni ipostatizzazione astratto - geometrica e bidimensionale, alla quale tendevano gli aggiornementi postcubisti dilaganti nell’Italia dell’immediato dopoguerra, Guidi dopo aver originalmente rimeditati i fondamenti del Neoplasticismo di
Mondrian, osservando come l’artista olandese fosse “[...] più di ogni altro desideroso di attingere
a una più profonda misura matematica [...] “la quale tuttavia” non sarebbe stata sufficiente se la
luce non fosse intervenuta nella sua funzione spaziale a smaterializzare i colorì, a dare profondità, dimensione misteriosa”24, verrà maturando la sua adesione allo Spazialismo, sancita dalla
sottoscrizione del cosiddetto IV Manifesto dell’Arte Spaziale del novembre 1951.
Della proposta fontaniana Guidi verrà apprezzando soprattutto l’aspirazione a una sempre più
piena libertà creativa, a partire dalla considerazione della totalità attiva dello spazio inteso al di
fuori di ogni preconcetto dogmatismo, come l’ambito stesso di ogni possibile azione e conoscenza umana “[...] nella funzione preminente di accogliere le cose ad unità in tutte le dimensioni possibili”, in una sempre rinnovata “[...] solidarietà con il tempo, quale esso realmente è,
e non a tutti evidente”, a partire dalla decisiva considerazione del fatto che “Quel che lega gli
spaziali non è una determinazione assoluta di un concetto di spazio, ma una necessità portata
a idea generale, nella quale ognuno può trovare la sua determinazione”25. In ogni caso anche
praticando i nuovi universi e le nuove dimensioni spozialiste. indipendenti ormai da ogni orizzontalità naturalistica, Guidi non rinuncerà comunque ai motivi della proprio pittura.
Anzi, “io mi dolgo”, confesserà in seguito, “che gli spoziali si dichiarino candidamente antifigurati vi, che siano antifigurativi spaziali”26, accettando così, pur sempre dei limiti.Guidi viceversa non si è mai sentito costretto in qualche modo ad “[...] abbandonare l’immagine,
proprio per l’ambizione, anzi, per la necessità”, ha osservato Francesco Arcangeli, “che l'immagine potesse avere nuovi significati [...]”27.
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Ecco allora nella serie delle Apparizioni, la sagoma labile e fugace dello figura umana, in una
sempre più accentuata autonomia di linee e di masse cromatiche, protendersi verso indecifrabili, forse angeliche, elevazioni. Oppure ecco avanzarsi l’inconlondibile silhouette della Donna
inquieta, dallo caratteristica tensione delle braccia imploranti, mentre anche l’incontro con la
nuova luce diventa angustiato e drammatico nella nuova versione della Donna che si leva.
Nel frattempo, in concomitanza con il sempre più vasto diffondersi delle poetiche informali,
pur mantenedo intatte le proprie concezioni ontolige, Guidi comincerà ad avvalersi di una più
immediata espressività segnica. Nascono così, a partire dal 1951, i Giudi i, nei quali, come
attratti da un trascendente nucleo di colore - luce, degli oscuri, guizzanti segni, forse presenze
umane ridotte a semplici tracce, pure espressioni di volontà, sembrano aleggiare, come percorsi da un drammatico richiamo, a guadagnarne la salvifica vicinanza, in un fulgore implacabile che ne evidenzia i progressi o le disperanti cadute.
Lungi dall’appiattirsi nella impenetrabile necessità della materia, anche nelle successive immagini dei Tumulti, nei quali un inarrestabile gestualismo panico sarà volto a significare una
umanità divisa e forse nemica, oltre al magma informe dei segni, tra i quali talvolta alcuni più
regolari incroci paiono voler indicare forse la permanenza di brandelli di sperduta razionalità,
si può ancora probabi lmente intuire la luminosa possibilità di un cielo, mentre persino l'Angoscio diventa per lui, goethianamente, ricchezza e apertura di possibilità28.
Nonostante la delusione nel frattempo vissuta per il mancato premio in occasione della Biennale del 195429, una incredibile vitalità continuerò ad alimentare lo straordinario fervore creativo di Guidi, capace, oltre alle riprese e alle continue trasformazioni e metamorfosi dei cicli
già affrontati in precedenza, anche di inventare sempre nuove iconografie, frutto di una inarrestabile energia immaginativa nutrita da una inesauribile attenzione alle mutate ragioni e ai
sempre nuovi sintomi rivelatori del Tempo.
Eccolo allora, a partire dallo metà degli anni Cinquanta, dar vita alla splendida serie delle Architetture umane, denominate anche Presenze, o Condizione attuale, nelle quali all’irrinunciabile attaccamento alla terra si unisce una non meno essenziale ansia di azione e di riuscita
che sembra avvolgere l’uomo, dilatando verso l’alto una sorta di mobile alone, dinamicamente popolato di tracce, di segni di divergenti andamenti sottolineati da multiformi gestualità, da mobili e aeree concrezioni di colore, e oltre il quale pare distendersi l’ignota
dimensione della trascendenza, quasi a riproporre, con straordinaria immediatezza una sorta
insondabile tensione tra soggettività e insondabile realtà noumenica.
Nel frattempo, nel 1959, pubblicherà Spazi dell'esistenza, la sua prima raccolta di poesie, rendendo così noti anche i frutti della sua splendida vocazione lirica che, successivamente, nel
corso degli anni, lo farà conoscere anche come uno tra i più singolari e grandi poeti del secolo.
In seguito, ben presto Guidi sentirà anche lo necessità di rispondere al le disumanizzate e apparentemente oggettive mitizzazioni degli oggetti, delle immagini e degli emblemi della società
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della comunicazione e dei consumi di massa, diffuse dalle inarrestabili poetiche Pop. A partire
dalla consapevolezza di vivere in una società in cui tutto è diventato merce o mera informazione,
emerge la coscienza che anche la figura non è ormai più possibile quale pacifica e tradizionale
rappresentazione, anche perché, osserverà Guidi “[...] non possediamo” ancora “nuovi principi
per incontrarci con le cose”30. Ecco allora dal 1963 comparire le Nuove figure, nelle quali, come
su uno schermo illimite, gli occhi, il naso, la bocca: le componenti del volto umano sembrano
come accamparsi mute, spersonalizzate, pure immagini di superficie, e l’anno successivo le
Grondi teste, “[...] nate”. Confesserà il pittore, “per pigliar tempo”, infatti “esse sono quello che
sono e anche quello che non sono”31, in una sorta di completa irresolutezza testimoniata anche
dalla perdita di ogni riferimento all’emotività soggettiva e dalla quasi totale assenza, almeno inizialmente, di apporti lirico-drammatici nella loro conformazione pittorica.
"Grondi teste", spiegherà Guidi, così intitolate perché come si sarebbe potuto chiamarle altrimenti, visto che “[...], teste non sono secondo una regola, una legge naturale di una testa che
si chiude nel suo segno esterno portando dentro gli attributi di un volto? Poiché è evidente”,
specificherà Guidi, “che qui gli occhi, con tutte le loro infinite ragioni, sono i primi a essere
forma, e a pretendere lo spazio necessario, con una grande voglia di dilatarsi nella luce, che
è lo spazio stesso dell’intelletto, misura e moto delle cose, non dimenticando le forme satelliti e le curve che racchiudono il tutto”32.
Viene così annunciata anche lo straordinaria invenzione iconografica del multiforme ciclo
degli Occhi: sospesi nell’azzurro purissimo, oppure coinvolti in galassie di dimensioni cosmiche, affioranti su dilatate esplosioni di rosso, di giallo, di profondissimo blu, o come galleggianti su mari di luce, o ancora riuniti in imprevedibili conglomerazioni, errabondi in
spazialità indefinite o accavallantisi inconcitate moltitudini, in ogni caso mirabile sintesi dell’
“[...] essenza” stessa “dell’uomo come apparire dell’essere”33.
Dino Marangon
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RITRATTI
23.
RITRATTO DELLA MOGLIE
1927-28, olio su tela
cm 74,5 x 61,5
24. RITRATTO DELLA MOGLIE
1928, olio su tela
cm 74 x 62
25. UOMINI AL MARE
1938-39, olio su tela
cm 54 x 65
26. IL VISITATORE
fine anni ‘30, olio su tela
cm 46 x 42
27. BARONESSA
28. BARONESSA
1954, olio su tela
cm 90 x 70
1955, olio su tela
cm 90 x 70
29. BARONESSA
1955, olio su tela
cm 90 x 70
30. BARONESSA (RITRATTO)
metà anni ‘50, olio su tela
cm 40 x 30
31. GRANDE TESTA
1969, olio su tela
cm 50 x 40
32. INCONTRO
1970, olio su tela
cm 60 x 50
33. PITTORE AL LAVORO
1970-71, olio su tela
cm 50 x 60
34. INCONTRO
1976, olio su tela
cm 150 x 110
OPERE SPAZIALI
35. FIGURA DELLO SPAZIO
1947, olio su tela
cm 140 x 200
36. CIELO ANTICO
1952, olio su tela
cm 156 x 180
37. ANGOSCIA (COSMICA)
1954, olio su tela
cm 90 x 120
38. TUMULTI
1958-63, olio su tela
cm 50 x 60
39. TUMULTI
1958-63, olio su tela
cm 35 x 50
40. FIGURA NELLO SPAZIO
1957, olio su tela
cm 148 x 180
41. ARCHITETTURE UMANE
1960, olio su tela
cm 90 x 120
42. OCCHI NELLO SPAZIO
1967, olio su tela
cm 60 x 50
43. OCCHI NELLO SPAZIO
1968, olio su tela
cm 60 x 50
44.
ONIRICA
1972, olio su tela
cm 50 x 60
45. OVALE
1973, olio su tela
cm 90 x 120
46. MARINA SPAZIALE
prima metà anni ‘70, olio su tela
cm 90 x 120
47. MARINA SPAZIALE
1975, olio su tela
cm 60 x 100
48. FIGURE AGITATE
1977, olio su tela
cm 150 x 182
49. FIGURE AGITATE
1976, olio su tela
cm 190 x 230
50. FIGURE AGITATE
1977, olio su tela
cm 150 x 182
GLI “ALTRI” GUIDI
È del Guidi-pittore che si parla in tutte le pubblicazioni storiche, come pure in questo volume;
ma da quest’unico aspetto della sua personalità emergono anche certi lati estranei a un rapporto diretto con l’arte, che lo rivelano figura fiera e schiva nel contempo, uomo di altissimi
ideali e di raffinato sentire, intellettuale aperto sia al dialogo a tu per tu sia al confronto con
più vaste platee; e docente, teorico dell’arte, scrittore, poeta. Con una naturalezza che gli veniva da un’indomita forza interiore e lo portava a ridimensionare l’importanza delle cose a suo
parere inessenziali; guardando ora da lontano, parlerei addirittura di un’innocenza immanente nella sua natura, come nelle grandi entità del creato.
Ma questo non è tutto: non ho mai visto citare, infatti, il suo humour, che è stato il piatto forte
di tante cene alla Taverna della Fenice, o di lunghe serate al caffè Paolin, in campo Santo Stefano. Dove le sue frecciate partivano contro Salvatore (Messina), lo scultore palermitano che
aveva lo studio nel palazzo d’angolo sul Canal Grande accanto all’Accademia, e rispondeva
con accesa (finta) indignazione, mentre, gesticolando, scuoteva il suo fisico minuto. Dove
Gino Baratta, o Rinaldo Frank Burattin, a turno, tenevano palestra di retorica con voli pindarici d’ineguagliata fantasia, e lui, il “venerando” Maestro, controbatteva a colpi di Pascal:
senza mai ridere, e tutt’al più con il bofonchiare qualcosa che equivaleva a un sorriso. Dove,
in assenza di bersagli, toccava a Gianni De Marco farne le spese: sempre giocosamente, si sa,
ma con maggiore libertà e meno riguardi, perché in lui Guidi riconosceva, come ho già scritto
altrove, anni fa, “più che il suo gallerista, l’insostituibile amico che gli era ombra e appoggio
e tesoriere delle ansie più segrete”.
Seguiva tutto e tutti lo sguardo vivace della signora Adriana, l’intelligente, ironica, dolce, paziente moglie di Guidi, che solo alle persone ritenute da lei molto vicine parlava fugacemente
della scultura che aveva abbandonato per non confondere in casa le cose d’arte.
Nello studio di Calle Vallaresso, alto sulla laguna, dirimpetto all’isola di San Giorgio, si viveva
un’altra realtà, sorvegliata dalla nota e nobile vestale d’origine straniera, che sapeva essere un
severo cerbero traghettatore per i pochi ospiti ammessi, e il cui volto, stilizzatissimo, ritornò
innumerevoli volte nelle “Teste” dipinte serialmente. Io non dovevo esserle simpatico, ma
dovette arrendersi più volte lasciandoci isolati a chiacchierare: lui adagiato sul sofà-lettino,
io seduto di fronte.
Erano incontri di lavoro, per un’intervista da pubblicare o un contatto da stabilire. I più vivi
nella mia memoria si abbinano alle serigrafie per una mia cartella di poesie, Tutto per nulla,
uscita nel ’72 dal laboratorio di Fiorenzo Fallani, tre delle quali con immagini sue; ma il discorso scivolava spesso su argomenti estranei e sulle novità che gli portavo dai miei frequenti
lunghi viaggi. «Non gliel’ho mai detto — mi sussurrò un giorno — ma io sono il più grosso
impostore del secolo. E quanto alla mia cultura, so che è fatta di cinquanta citazioni: ma sono
le mie fortezze». Guai a credergli… La sua “fortezza” era piuttosto l’inquietudine sconfinata
che teneva chiusa in corpo, la sete insaziabile di sapere, di assorbire il presente.
93
A volte i nostri dialoghi somigliavano a duelli di fioretto e durlindana: da parte mia, con un
cercar di provocarlo, di spremerlo fuori dal tempo come il colore dai suoi tubetti, per farlo
parlare di “attualità” di sessanta-settant’anni prima, di ciò che i giovani di allora pensavano
del marinettismo o dell’Armory Show, dell’orinatoio di Duchamp o del “ritorno all’ordine”;
per lui, rispondere con stoccate era più che normale, ma senza mai uscire dal rapporto di
estrema correttezza. Il massimo dello scherzo l’ho avuto con una dedica che mi è cara, su uno
dei libri che parlano di lui: “Ai Signori Pouchard — dice — dispettosamente, Guidi, il
20.12.1979” (gli mancavano tre mesi e mezzo per compiere ottantanove anni); e, sotto, il disegno netto di una testa stupita, vergato con il pennarello nero. Era il suo modo di giocare.
Aristocratico e generoso.
Di contro, avevo annotato poco tempo prima un suo appello alla Mairie de Versailles, in occasione di un convegno all’Associazione Umberto Biancamano; diceva, tra l’altro, “…noi
non sappiamo più cos’è la libertà. Forse siamo nel vero quando affermiamo che, nelle epoche tanto agitate, come l’attuale, non si ha chiara la coscienza della libertà reale, né la misura della sua maestà […]. Pensiamo, allora, che un grande albero […] con radici profonde
[…] e un albero piccolo, a breve distanza, vivono d’accordo”. Queste parole ebbero un profondo rintocco in chi, come me allora, viveva la realtà giornaliera fuori dai confini italiani. Davano la misura della sua partecipazione al tempo dei giovani: chi, al pari di lui, riusciva a
competere con i suoi «posteri», non poteva lasciar perdere il divertimento che gli derivava dall’esaltarne i contrasti.
Anche su questo fatto avevo pubblicato una lunga recensione su una rivista milanese, nella
quale citavo, tra l’altro, la sua “civetteria tizianesca” di caricarsi d’anni; bene, siccome allora
gli articoli venivano ricomposti in tipografia, il mio aggettivo divenne, paradossalmente, “tziganesca”. Io non me ne accorsi, e fu lui che prese a giocare sul termine; ma credo gli sia piaciuta l’idea di trasformarsi (metaforicamente, beninteso) in zingaro, errabondo ricco solo di
anima, straniero nel suo regno, nella sua stanza, nel suo corpo, sprezzante e credente, eternamente figlio e antenato per sé e per gli altri.
Ennio Pouchard
TAVOLE II
I. BARONESSA
seconda metà anni ‘50, olio su tela
cm 50 x 40
II. I TONDI
/ ARCHITETTURA COSMICA
1963, cartone telato
cm 20 x 30
III. OCCHI
1968-69, olio su tela
cm 30 x 40
IV. I TONDI
1964, olio su tela
cm 50 x 60
V. SAN
GIORGIO
prima metà anni ‘60, olio su tela
cm 30 x 40
VI. SAN
GIORGIO
1969, olio su tela
cm 30 x 40
IX. BACINO DI SAN
MARCO
1976 ca., olio su tela
cm 50 x 60
VII. LA TESTA ROSSA
1972, olio su tela
cm 50 x 40
VIII. GRANDE TESTA
1971, olio su tela
cm 60 x 50
X. BACINO DI SAN
MARCO
1976 ca., olio su tela
cm 50 x 60
XI. BACINO DI SAN
MARCO
1977, olio su tela
cm 40 x 50
XII. SAN
GIORGIO
1974, olio su tela
cm 30 x 40
XIII. ALBERI
1974, olio su tela
cm 50 x 40
XIV. ALBERI
1974, olio su tela
cm 40 x 30
XVI. FIGURE AGITATE
1978, olio su tela
cm 40 x 50
XV. OCCHI NELLO SPAZIO
1976, olio su tela
cm 30 x 40
XVII. BACINO DI SAN
MARCO
1976 ca., olio su tela
cm 50 x 60
ELENCO DELLE TAVOLE
TAVOLE I
MARINE E PAESAGGI
12. PUNTA DELLA DOGANA
1. PAESAGGIO
olio su tavola
cm 50 x 60
13. PUNTA DELLA DOGANA
2. MARINA
1927, olio su tavola
cm 49 x 61
1929-30, olio su cartone
cm 47 x 64
MARINA CON BALAUSTRA
1950-51, olio su tela
cm 80 x 100
15. BACINO DI SAN
4. GIUDECCA
MARCO
1950 ca., olio su tela
cm 40 x 50
1928, olio su tela
cm 50 x 60
BACINO DI SAN MARCO
1931, olio su tela
cm 49 x 75
16. BACINO DI SAN
MARCO
1957-58, olio su tela
cm 60 x 100
17. SAN
6. MARINA
GIORGIO
1968-69, olio su tela
cm 50 x 60
1931, olio su tela
cm 50 x 65
7. ISOLA DI SAN
1949-50, olio su tela
cm 50 x 70
14.
3. MARINA
5.
(LA SALUTE)
1948-50, olio su tela
cm 60 x 70
GIORGIO
18. SAN
GIORGIO
metà anni ‘30, olio su tavola
cm 50 x 60
1970-71, olio su tela
cm 50 x 60
8. PAESAGGIO DI
19.
PONZA
MARINA CON ISOLA SAN GIORGIO
1938-40, olio su tela
cm 61 x 75
1970, olio su tela
cm 60 x 100
9. LA DOGANA
20. PAESAGGIO DI TERRACINA
1931-40, olio su tela
cm 50 x 60
1972, olio su tela
cm 69 x 89
10.
PONTE DELL’ACCADEMIA
21. MARINA CON BALAUSTRA
1944, olio su tela
cm 50 x 60
1971-72, olio su tela
cm 70 x 90
11. SAN
22. SAN
GIORGIO
metà anni ‘40, olio su tela
cm 40 x 55
GIORGIO
metà anni ‘70, olio su tela
cm 40 x 50
107
RITRATTI
OPERE SPAZIALI
23. RITRATTO DELLA MOGLIE
1927-28, olio su tela
cm 74,5 x 61,5
35. FIGURA DELLO SPAZIO
1947, olio su tela
cm 140 x 200
24. RITRATTO DELLA MOGLIE
1928, olio su tela
cm 74 x 62
36. CIELO ANTICO
1952, olio su tela
cm 156 x 180
25. UOMINI AL MARE
1938-39, olio su tela
cm 54 x 65
37. ANGOSCIA (COSMICA)
1954, olio su tela
cm 90 x 120
47. MARINA SPAZIALE
49. FIGURE AGITATE
1975, olio su tela
cm 60 x 100
1976, olio su tela
cm 190 x 230
48. FIGURE AGITATE
50. FIGURE AGITATE
1977, olio su tela
cm 150 x 182
1977, olio su tela
cm 150 x 182
TAVOLE II
I. BARONESSA
X. BACINO DI SAN
seconda metà anni ‘50, olio su tela
cm 50 x 40
1976 ca., olio su tela
26. IL VISITATORE
fine anni ‘30, olio su tela
cm 46 x 42
38. TUMULTI
1958-63, olio su tela
cm 50 x 60
27. BARONESSA
1954, olio su tela
cm 90 x 70
39. TUMULTI
1958-63, olio su tela
cm 35 x 50
1963, cartone telato
cm 20 x 30
28. BARONESSA
1955, olio su tela
cm 90 x 70
40. FIGURA NELLO SPAZIO
1957, olio su tela
cm 148 x 180
1968-69, olio su tela
cm 30 x 40
29. BARONESSA
1955, olio su tela
cm 90 x 70
41. ARCHITETTURE UMANE
1960, olio su tela
cm 90 x 120
30. BARONESSA (RITRATTO)
metà anni ‘50, olio su tela
cm 40 x 30
42. OCCHI NELLO SPAZIO
1967, olio su tela
cm 60 x 50
II. I TONDI
/ ARCHITETTURA COSMICA
cm 50 x 60
XI. BACINO DI SAN
MARCO
1977, olio su tela
cm 40 x 50
III. OCCHI
XII. SAN
GIORGIO
1974, olio su tela
cm 30 x 40
IV. I TONDI
1964, olio su tela
cm 50 x 60
XIII. ALBERI
1974, olio su tela
V. SAN
GIORGIO
cm 50 x 40
prima metà anni ‘60, olio su tela
cm 30 x 40
VI. SAN
43. OCCHI NELLO SPAZIO
1968, olio su tela
cm 60 x 50
32. INCONTRO
1970, olio su tela
cm 60 x 50
44. ONIRICA
1972, olio su tela
cm 50 x 60
33. PITTORE AL LAVORO
1970-71, olio su tela
cm 50 x 60
45. OVALE
1973, olio su tela
cm 90 x 120
VIII. GRANDE TESTA
34. INCONTRO
1976, olio su tela
cm 150 x 110
46. MARINA SPAZIALE
prima metà anni ‘70, olio su tela
cm 90 x 120
IX. BACINO DI SAN
XIV. ALBERI
1974, olio su tela
GIORGIO
31. GRANDE TESTA
1969, olio su tela
cm 50 x 40
108
MARCO
cm 40 x 30
1969, olio su tela
cm 30 x 40
XV. OCCHI NELLO SPAZIO
VII. LA TESTA ROSSA
1976, olio su tela
1972, olio su tela
cm 50 x 40
cm 30 x 40
XVI. FIGURE AGITATE
1978, olio su tela
1971, olio su tela
cm 60 x 50
1976 ca., olio su tela
cm 50 x 60
cm 40 x 50
MARCO
XVII. BACINO DI SAN
MARCO
1976 ca., olio su tela
cm 50 x 60
109
APPARATI
BIOGRAFIA
di Ennio Pouchard
Virgilio Guidi, principale figura di riferimento
per tutti gli artisti spaziali operanti a Venezia e
docente all’Accademia per buona parte di essi,
nasce a Roma il 4 aprile del 1891. Figlio di uno
scultore-poeta di padre architetto, a tredici anni
è avviato a bottega da un restauratore romano.
Nel 1911 s’iscrive all’Accademia di Belle Arti
della Capitale, allievo di Aristide Sartorio; ma
dopo due anni abbandona i corsi per dissapori
con il maestro e prosegue da autodidatta:
prende dapprima a modello Giotto, Piero della
Francesca, Correggio e Vermeer, ai quali fa seguire un profondo innamoramento per Cézanne e Matisse; e diventa infine risolutiva la
conoscenza di Mondrian. Amico di letterati e
poeti, da Vincenzo Cardarelli ad Alfonso Gatto,
la sua inesauribile sete di sapere lo porterà a
scavare nei capolavori della cultura non solo
italiana, Goethe e Pascal in particolare, che
amerà citare a memoria anche in età molto
avanzata.
Inizia a esporre nel ’13, aderisce alla Secessione romana nel ’15 e successivamente partecipa alle attività di vari raggruppamenti, da
Valori Plastici a Novecento italiano. Dal 1920 è
invitato alle Biennali veneziane, e lì presenta
nel ’24 un’opera cardine di tutta la pittura italiana della prima metà del secolo, quel Tram
che lo rende immediatamente famoso. È accolto in seguito a quasi tutte le edizioni della
Biennale fino al ’56 e poi a quella del ’64, in
queste ultime due con sale personali; nonché
alle Quadriennali romane del ’31, ’35 (con sala
personale e primo premio assieme a Gino Severini), ’39, ’43 e ’55.
Nel 1925 ottiene lo studio a Villa Strohl-Fern
(Villa Borghese) occupato, prima di lui, da Ar-
mando Spadini. Due anni dopo si trasferisce a
Venezia, chiamato a ricoprire la cattedra di Pittura all’Accademia di Belle Arti; vi trascorrerà
cinquantasette dei suoi novantatre anni e nove
mesi, con la sofferta interruzione, dal 1935 al
’44, per un trasferimento a Bologna — dovuto
all’ostilità dell’ambiente accademico veneziano per il suo insegnamento innovativo —
dove trova il calore dell’amicizia di Carrà, Morandi e Semeghini. Lì pubblica alcuni Bollettini
d’arte sulle sue teorie ed esperienze.
Il ritorno a Venezia coincide con l’avvio di una
fase pittorica nuova, sul tema della dialettica
spazio-colore-luce, che raggiunge nelle Marine
e nelle Figure nello spazio le soluzioni che lo
portano ad aderire al Movimento spaziale di
Lucio Fontana, firmando a Milano, nel 1951, il
Manifesto dell’Arte Spaziale, nel ’52 il Manifesto dell’Arte Spaziale per la Televisione e nel
settembre 1953 il documento Lo Spazialismo e
la pittura italiana nel XX Secolo (pubblicato
come volantino a Venezia dal critico-filosofoartista Antonio Giulio Ambrosini, in occasione
della Mostra Spaziale al Ridotto di Ca’ Giustinian) e partecipando alle mostre del gruppo sostenuto dal gallerista Carlo Cardazzo nelle sue
due gallerie, del Naviglio a Milano e del Cavallino a Venezia.
Negli anni che seguono, si accavallano elaborazioni di temi diversi, da Occhi nello spazio a
Tumulti, Giudizi, Teste e Grandi teste, Architetture umane e Architetture cosmiche (incentrate,
queste, sul rapporto uomo-universo), Geometrie
spaziali, con intrecci, pause, ritorni. Un vivere
nella pittura, dove la pittura è funzione vitale
come il respirare, ma per lui lo era anche stare
tra la gente, nella corte veneziana che gli faceva
113
BIBLIOGRAFIA SINTETICA
ala chiamandolo “Maestro… maestro… maestro”: il maestro – romano di ceppo toscano, ed
“etrusco” per autodefinizione – appellativo che
per tanti anni a Venezia ha identificato solo lui.
Tutti gli altri avevano un nome.
Vari i premi speciali, nel corso degli anni: nel
1957 la Medaglia d’oro della Presidenza della
Repubblica ai maestri dell’arte italiana da Modigliani a De Pisis; nel 1961 la Medaglia d’oro
del Presidente della Repubblica quale benemerito della cultura; nel 1967 la Medaglia d’oro
della Fondazione Giorgio Cini di Venezia.
Spazialista nell’animo, negli anni Settanta produce Nuove figure, Prigioniere, Figure agitate,
Incontri e, in un recupero del mai dimenticato
rapporto con la natura, Grandi alberi. Nel
1971, per i suoi ottant’anni, l’Archiginnasio di
Bologna gli dedica una grande antologica. Passati i novant’anni, e sempre avido di spazialità
nuove, apre il ciclo Uomo e cielo.
Il mattino del 7 gennaio 1984 dice di sentirsi
poco bene. Lo portano d’urgenza all’ospedale,
e si conclude il suo viaggio.
Oltre al nutrito corpus di opere pittoriche, lascia una notevole produzione di testi teorici sui
motivi del pensiero plastico nel rinnovamento
dell’arte contemporanea e di raccolte poetiche:
di queste ricordiamo Poesie del 1959 (con l’introduzione di Ugo Fasolo), L’ingiuria delle nubi,
Amore ha gli occhi della pena, Il mondo va per
il suo verso, L’età improbabile (prefazione di
Gino Baratta) e La notte è un passaggio d’eventi.
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- V. Guidi, catalogo II Quadriennale d’arte nazionale,
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- E. Di Martino - F. Gualdoni - T. Toniato, Virgilio Guidi. I colori della luce, Galleria d’Arte Contini, Cortina d’Ampezzo
1989
- M. Apa - T. Toniato, Guidi. Opere Astratte, catalogo mostra Palazzo Ducale, Urbino
2003
- G. Granzotto - D. Marangon, Virgilio Guidi, Edizioni Telemarket Communication, Brescia
1990
- E. Di Martino, Disegni Inediti 1911-1982, Milano
- P. Rizzi, Arte nel Veneto negli anni Venti e Trenta, in Pittura a Treviso tra le due Guerre, Treviso
2004
- G. Granzotto - D. Marangon - E. Santese, catalogo mostra Da Venezia alla Venezia Giulia. Gli anni dello Spazialismo e della ricerca friulana e giuliana, Villa Galvani,
Pordenone
1991
- C. Cerritelli - P. Fossati, L’arte del Paesaggio. Pittura in
Italia dal Divisionismo all’informale, Ravenna
- S. Grasso, “Guidi. La strada per Roma”, in «Corriere
Cultura»
2007
- E. Dezuanni - G. Granzotto - D. Marangon, catalogo
mostra Spazialismi a confronto: Virgilio Guidi e Mario Deluigi, Musei Civici di Santa Caterina, Treviso
1981
- L. Sassetti - A. Zanzotto - V. Guidi, Guidi a Zagabria,
San Donato Milanese
- V. Branca - C. De Michelis - P. Rizzi - N. Pozza - A. Zanzotto - L. Carluccio - C. Bo - Virgilio Guidi, I novant’anni
di un maestro, Edizioni Fondazione Cini
117
€ 30,00 (i.i.)
www.ilcigno.org
Finito di stampare
nel mese di ottobre 2009
presso Ciesse - Guidonia
per conto de
IL CIGNO GG EDIZIONI
Piazza San Salvatore in Lauro, 15 00186 Roma
sito nel Complesso Monumentale di San Salvatore in Lauro,
un immobile dell’Ente morale Pio Sodalizio dei Piceni.
PIO SODALIZIO DEI PICENI
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