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Il disabile adulto e la sua famiglia
Il disabile adulto e la sua famiglia DISABILITÀ ESISTONO MOLTE E DIVERSE DIFFICOLTÀ NELLA DEFINIZIONE DI CHI È IL DISABILE ADULTO MA SOPRATTUTTO LE DIFFICOLTÀ SONO INERENTI ALLA DEFINIZIONE DI QUANDO IL RAGAZZO/A DISABILE VIENE CONSIDERATO ADULTO, IN QUANTO, IL SUO PASSAGGIO A QUEST’ETÀ È RAPPRESENTATO IN MANIERA EVIDENTE DAI SENTIMENTI DEI FAMILIARI PIÙ CHE DAI COMPORTAMENTI DEGLI Lorenzo Morini * Psicologo e psicoterapeuta INTERESSATI. n. 13/2008 Prospettive Sociali e Sanitarie 12 Cosa si intende per disabile adulto? Quando un ragazzo/a disabile diventa adulto? Se proviamo a rispondere a queste domande, ci rendiamo conto che emergono molte e diverse difficoltà nella definizione di chi è il disabile adulto ma, soprattutto, le difficoltà sono inerenti alla definizione di quando il/la ragazzo/ a disabile viene considerato adulto. Ciò non è tuttavia particolarmente diverso dalla medesima riflessione concernente i ragazzi e le ragazze “normali”. Specialmente oggi e specialmente nel mondo occidentale, dove la “giovinezza” si è allungata sia per l’allungamento generale della scolarizzazione, ma anche a causa di una difficoltà diffusa a entrare nella fase “adulta” della vita. Relativamente al/la ragazzo/a disabile c’è, secondo me, un aspetto interessante nel passaggio all’età adulta che è rappresentato in maniera evidente dai sentimenti dei familiari, più che dai comportamenti degli interessati. Devo aggiungere, a proposito della definizione di disabile adulto, che mi è stato fatto notare che in realtà il disabile non diventa mai adulto, se intendiamo per adulto una persona autonoma, capace di autodeterminazione e di scelte personali consapevoli e indipendenti. E questo è certamente vero, ma rappresenta, secondo me, solo una parte del problema, perchè è altrettanto vero che vi è una profonda differenza tra un disabile di 15 o 20 anni e uno di 30 o 40. A questo proposito, vorrei dire che l’esperienza di vita, anche se estremamente limitata cognitivamente, psicologicamente o sul piano delle autonomie, è comunque un fatto fondamentale per tutti. Per quanto mi concerne, penso che continuare a definire i disabili secondo una presunta “età mentale” sia profondamente riduttivo. Anche i familiari, con tutte le difficoltà che possiamo immaginare, si rendono conto che i loro congiunti sono ormai adulti. “A un certo punto mi sono resa conto che mia sorella era diventata un’adulta, non accettava più di essere sgridata e trattata come una bambina, desiderava la sua ‘autonomia’, con tutti i limiti della sua condizione, e come tale io ho cominciato a trattarla. Forse anche questo passaggio l’ha resa più tranquilla e, mi sembra, serena, in questa fase della sua vita”.1 Anche per questo sono convinto che dobbiamo chiederci, anche per i disabili, quando inizi l’età adulta. Entrando nel merito del tema, ritengo che il momento del passaggio all’età adulta sia molto più chiaro nel disabile che nel cosiddetto normale. E anche molto più precoce, almeno sul piano “ufficiale”. Faccio riferimento ai soggetti con ritardo mentale, perché è ovvio che un ragazzo disabile con solo problemi fisici ha tutte le (o comunque molte delle) opportunità di studio e di lavoro di un suo pari età. Il/la ragazzo/a con ritardo mentale invece, alla fine della scuola dell’obbligo, che è generalmente rappresentata dalla scuola secondaria superiore, termina il suo percorso scolastico e si aprono davanti a lui scelte che un suo compagno normodotato può rimandare di almeno 4, 5 o più anni di formazione universitaria. Alla fine della scuola superiore, e dunque a un’età di circa 19-20 anni, si chiude per il disabile il ciclo formativo e la persona, e con lui la sua famiglia, si trova di fronte alla “vita”. Cioè a cosa farà nella vita: un lavoro o quali altre opportunità? In estrema sintesi, il disabile (ma soprattutto la sua famiglia) si trova di fronte a due strade principali: 1. trovare un’occupazione; con assunzione, con borsa lavoro, di tipo stage formativo, ti tipo ergoterapico, ecc.; 2. non essere in grado, per le sue caratteristiche personali, di accedere a quei percorsi e avere dunque l’opportunità di essere accolto in un centro diurno o laboratorio protetto o altre similari esperienze. Il termine del percorso formativo scolastico assume per la famiglia del disabile un significato che va al di là della semplice fine degli studi. Finisce, infatti, in quel periodo, il percorso educativo/riabilitativo su cui spesso la famiglia ha contato per costruire conoscenze e autonomie che dessero al proprio congiunto il massimo delle competenze e delle autonomie possibili. Finisce altresì il periodo della speranza, dell’illusione e a volte del sogno. Comunque, di un periodo durante il quale i familiari, pur consapevoli delle difficoltà e dei limiti del proprio caro, avevano a volte sospeso il giudizio, considerando quel percorso come un periodo di tregua. Arrivati a quel punto, con la fine della scuola, la famiglia si trova davanti alla decisione di quale percorso far intraprendere al ragazzo/a ed è costretta a prendere atto, quasi definitivamente, delle condizioni del proprio congiunto. Se per lui si intravede un percorso lavorativo, le cose si presentano difficili ma più accettabili, se invece le sue condizioni consigliano un centro diurno/laboratorio protetto, la cosa rappresenta per la famiglia una condizione dolorosa e difficile da accettare. I GENITORI DI FRONTE AL FUTURO Spesso le famiglie, molte almeno di quelle che ho conosciuto io, si trovano a confrontasi con due sentimenti contrapposti. Questi sentimenti si presentano indipendentemente da quello che loro figlio potrà fare, ma sono comprensibilmente più forti quando le opportunità di lavoro sono precluse. I sentimenti cui faccio riferimento sono i seguenti. • Una sensazione di consapevolezza e di accettazione (forzata) della realtà, perché finalmente terminano le illusioni e gli “accanimenti riabilitativi” e si ha l’obbligo e/o il coraggio di guardare in faccia la realtà. È come se il genitore dicesse: “finalmente mi posso riposare”. La realtà, per quanto sgradita, è IL PROCESSO DI CRESCITA E dire che è un processo lento il crescere e il diventare adulto. Ci sono tappe che indicano questo processo in modo chiaro. Il camminare, il parlare, i primi quaderni; ma lì le differenze tra il bambino disabile e gli altri possono essere ancora minime. Sono le scuole medie che danno i primi segnali forti e poi, durante la frequenza delle superiori, ci si accorge che il tempo passa e che il ragazzo/a non è più un bambino. Il genitore se ne accorge per ciò che il figlio fa e ciò che non fa. Già a partire dalle scuole medie, la differenza tra un figlio disabile e la maggior parte degli altri ragazzi comincia a emergere in modo netto. Il genitore del ragazzo disabile continua ad accompagnare il/la figlio/a a scuola, mentre qualcuno ci va già da solo; molti cominciano a uscire e a fare le prime esperienze di autonomia, di amoreggiamenti e ad esprimere con le loro richieste (il motorino, per esempio) che sono “grandi”. Il ragazzo disabile non fa quasi nessuna di queste esperienze e rimanda, forte, la non sincronia del suo crescere con le esigenze e le caratteristiche di quell’età. Queste situazioni si accentuano alle scuole superiori e, come ampiamente detto, la fine delle stesse definisce il percorso: ora si entra nella vita (lavorativa) o si va all’università. Si è adulti. Ho parlato tantissime volte con genitori di questi argomenti. O, per meglio dire, di cose che volevano dire ciò che ho raccontato, ma che mi venivano spesso dette in altri modi. La più classica delle modalità per dire a un operatore che non si è pronti, come famiglia, ad accettare questa nuova realtà è insistere in percorsi riabilitativi, in esperienze a volte non scientificamente provate, in ricerche di soluzioni magiche o irrealistiche, in opposizioni e arrabbiature con gli operatori e i servizi che non capiscono che si può ancora fare qualcosa. Un esempio La storia di Valerio e, anche, di sua mamma. Valerio ha ormai 18 anni. È un ragazzo con una disabilità neuro-motoria e intellettiva grave. Ha avuto un grave trauma al momento della nascita. Sua mamma proviene da una famiglia benestante. Il papà, pur provenendo da una famiglia modesta, era un giovane bello e affascinante corteggiato da molte ragazze. È stato un matrimonio d’amore. La storia di questi due giovani genitori parte purtroppo in maniera severa: nasce Valerio con una grave disabilità neuro-motoria. La nascita di Valerio è l’inizio di una storia difficile, dolorosa, di grande impegno e di non rassegnazione da parte soprattutto della madre. La condizione psico-fisica del bambino si presenta immediatamente nella sua gravità. Valerio usufruisce di tutte le opportunità educative e riabilitative che le attuali conoscenze offrono. È sempre e regolarmente accompagnato dalla madre, sostenuta dalla propria famiglia d’origine. Il padre si mostra più distante, incapace di mantenere una presenza costante. Forse ha più difficoltà ad accettare e svolgere questo compito, forse lascia “inconsciamente” questa funzione alla madre. Valerio frequenta tutte le scuole, anche le superiori, dove viene anche bocciato per permettergli un’ulteriore permanenza in ambiente scolastico. Usufruisce di un trasporto speciale e di un insegnante d’appoggio, nonché di un supporto assistenziale. Alla fine della scuola superiore, si pone il problema del futuro. Il servizio di Npi, (neuropsichiatria infantile) che ha in carico la situazione pensa a un centro diurno. La madre si oppone fermamente. Non se ne parla. Si possono ancora fare delle cose. Per esempio propone un inserimento lavorativo. Il caso viene inviato al servizio disabili adulti. Parlo personalmente con la Note * Già responsabile del Servizio Tutela minori e del Servizio Disabili adulti del Distretto di Sassuolo (MO). 1 Testimonianza di una collega. DISABILITÀ cesso e sia accettato aumentano al pensiero che il ragazzo/a ha più difficoltà di altri, ha meno capacità di capire e di difendersi e sarà possibile che qualcuno approfitti di lui. Questi pensieri e il sentimento di protezione fanno spesso diventare angosciante constatare i limiti e le difficoltà di un/a figlio/a. Prima che il lutto sia elaborato possono passare molti anni, durante i quali la preoccupazione di quel genitore sarà massima e vorrà, per quel suo figlio, tutto ciò che è possibile e impossibile per ripagarlo del danno che la vita gli ha inferto. Fortunatamente, tuttavia, la maggioranza, per non dire la quasi totalità dei genitori, lasciano le troppe paure per concentrarsi sul figlio reale. E su quello lavorano e investono in affetto, educazione, riabilitazione e amore, e iniziano a vedere le cose che egli apprende, il sorriso che appaga, le autonomie conquistate. Vedono cioè il figlio oltre alla disabilità. Ma nel momento cruciale del passaggio all’età adulta molti di quei pensieri e di quelle preoccupazioni tornano alla mente. 13 n. 13/2008 Prospettive Sociali e Sanitarie meglio che l’indefinitezza continua. Vorrei precisare che sono consapevole che la famiglia del disabile in realtà non si rilassa mai, non è mai tranquilla, non può permettersi di non preoccuparsi. So che il disabile, anche quello che frequenta uno stage lavorativo o un centro diurno per 5 giorni la settimana, poi è a carico della famiglia in tutti gli altri momenti. Quando rientra a casa la sera, il fine settimana, quando è ammalato, ecc. Voglio solo dire che, a volte, è meno angosciante l’accettazione della realtà e la consapevolezza delle difficoltà che la continua speranza e la sua conseguente frustrazione. • Un aumento di ansia e di depressione per la presa d’atto o per il rifiuto della presa d’atto che le condizioni del proprio figlio sono tali da dover intraprendere un percorso che a volte è visto come il segno della sua “gravità” e della perdita della speranza. In questo caso, si preferisce o non si è in grado di vedere terminare la fase educativa, riabilitativa e della “sospensione del giudizio”. In realtà, questi sentimenti sono spesso molto uniti e intrecciati e non sono certo nuovi: già dalla nascita e dai primi anni di vita del figlio disabile la famiglia si è posta mille problemi, dubbi, paure, speranze, ecc., pensando e proiettando nel futuro questi stessi sentimenti. Quasi tutti, maschi o femmine, quando affrontano una gravidanza e poi la nascita di un figlio, ripercorrono storie, pensieri, paure, entusiasmi. Su di sé, sulla propria famiglia, attuale e dei propri genitori e nonni, sulle condizioni sociali ed economiche, e pensano alle difficoltà e alle gioie della vita, a chi sarà e come sarà questo figlio/a e a quello che farà o non farà. E se assomiglierà a sé stessi o a chi, e se sarà più felice e se farà quello che il genitore desidera che faccia o quello che egli avrebbe voluto fare e non ha realizzato, e a mille altre cose. La maggior parte di noi fa dunque quello che hanno fatto i nostri genitori e antenati: proiettiamo avanti la nostra vita perché è noto ed è vero che i nostri figli sono il nostro prolungamento nel mondo e nel futuro. E, a seconda che siamo degli ottimisti o dei pessimisti, indipendentemente dalle caratteristiche di nostro figlio, le nostre paure o speranze aumentano o diminuiscono. Se già abbiamo dei timori, ed è difficile non avere nessun timore, di nessun tipo, questi aumentano a dismisura se nasce un figlio disabile. Le paure e il desiderio di cura e di protezione della prole vengono enfatizzati da un figlio disabile: le normali paure che un figlio sia felice, abbia suc- DISABILITÀ n. 13/2008 Prospettive Sociali e Sanitarie 14 madre, dice che il figlio ha ancora delle opportunità di evoluzione e di apprendimento. Confermo senza incertezze questa sua convinzione, che è anche la mia, che è di tutti coloro che conoscono la situazione dei disabili adulti e che sanno bene che le persone continuano a evolvere, a maturare, ad autonomizzarsi, a imparare. Ma sappiamo tutti e due che parliamo di cose diverse. La mamma insiste nel rifiutare anche solo di prendere in considerazione l’ingresso in un centro diurno per disabili. Vuole proporre un inserimento lavorativo. Dice che Valerio ha fatto un’esperienza in un negozio di una sua parente, stava alla cassa e si trovava bene. Chiedo alla signora cosa faceva alla cassa. Senza farla troppo lunga mi dice che, di fatto, non faceva nulla se non sorridere ed essere contento quando la commessa batteva lo scontrino. Anche la mamma riconosce che non di vero inserimento lavorativo si trattava, ma di semplice esperienza socializzante. Mi rendo conto che più si insiste nel convincere la signora delle difficoltà del figlio e più ella si chiude. Rimando la signora a due possibilità. Intendo dire due possibilità reali di cui il servizio dispone: • restare ancora a scuola e darsi un altro po’ di tempo (ma su questo non ho alcun potere); • fare una prova, sperimentale, di frequenza al centro diurno; se non si troverà bene ne riparleremo. Dico molto onestamente e con tutto il rispetto di cui sono capace che non me la sento di proporre un inserimento lavorativo: sarebbe come prenderci in giro. Debbo dire che la madre capisce questa sincerità e su questo si potrebbe aprire una riflessione, che faccio velocemente anche se necessiterebbe di un approfondimento. Quante volte i curanti e/o i riabilitatori (specialmente quelli di cultura medica) non dicono le cose chiaramente, pur se con rispetto e delicatezza? Perché rimandano ad altri, magari agli operatori sociali, il dover mettere le famiglie di fronte alle realtà più difficili? La relazione di cura è seria quando dice la verità. Per verità si intende la verità raccontabile in quel momento storico. Ma la verità significa non continuare ad alimentare all’infinito l’illusione. Tornando alla situazione di Valerio, alla fine della scuola dell’obbligo, vista l’impossibilità di continuare utilmente quell’esperienza, la madre (come detto in precedenza il padre è assente e forse anche per questo questa madre è così rocciosa: è da sola e sente il peso del figlio solo sulle sue spalle) decide di accettare il centro diurno: come prova, poi si vedrà. Valerio inizia la frequenza e si trova bene. È contento, torna a casa contento, al mattino si alza volentieri. La madre si mostra più rilassata (così la vedono le educatrici), è contenta anche lei. Può finalmente riposarsi un po’ e guardare il figlio in maniera più reale. Vedere le cose che fa, il suo sorriso, vedere che cerca di raccontarle la sua giornata al centro. Forse per la prima volta lo vede vivere giorno per giorno, ora per ora, senza rimandare sempre, al dopo (un dopo che non arriva mai), la vita. Come se oggi dovessimo non vivere per prepararci a vivere meglio domani. E così vivendo sempre in prestito. Sempre in attesa di qualcosa che non arriva mai. Essere di fronte a un genitore che vuole continuare a sperare anche quando la nostra scienza attuale ci dice che le condizioni sono ormai quelle, certamente sempre migliorabili ma certamente non risolutive della disabilità e della non autonomia, è una delle esperienze più difficili e delicate che un operatore deve affrontare. È necessario avere sempre molta cura e attenzione all’ascolto, a cercare di capire e di accogliere senza tuttavia, e questo mi sembra un punto importante, colludere con i desideri o le speranze non realizzabili. Aiutare i familiari a fare essi stessi un normale esame di realtà, a essere loro stessi i costruttori, con gli operatori, di percorsi di vita accettati, è un compito fondamentale. L’ACCETTAZIONE DELLA REALTÀ E L’ELABORAZIONE DEL LUTTO Agganciandomi alla condizione di maggiore tranquillità della madre di Valerio quando ha accettato la situazione reale del figlio e, di fatto, ha mostrato di essere sulla strada per elaborare il proprio lutto, vorrei tornare all’altro aspetto di cui si parlava prima, e cioè alla condizione di consapevolezza e di accettazione della realtà che progressivamente acquisiscono la maggior parte dei genitori quando si delinea un’idea chiara di vita per il figlio. Credo valga la pena soffermarsi su ciò. Sono convinto, infatti, che la maggior parte dei genitori si rendano conto, nel corso della crescita, che loro figlio, pur recuperando in apprendimenti, in capacità sociali e relazionali, non arriverà a raggiungere sufficienti elementi di autonomia. Il continuo rincorrere la riabilitazione, l’invio a varie e diverse attività, a varie e diverse esperienze al di là di quanto è comprensibile e doveroso attuare per dare al proprio figlio tutte le opportunità cui ha diritto, rappresenta spesso più un senso del dovere, un desiderio di non lasciare nulla di intentato, un modo per mettersi al riparo da futuri dubbi e sensi di colpa (a se avessi fatto, se lo avessi mandato a quell’attività, a quella riabilitazione, e così via!) piuttosto che un crederci veramente, un cercare l’impossibile. E allora, quando il figlio raggiunge quel famoso bivio, o l’esperienza lavorativa o il centro diurno, il genitore che ha maturato e in parte elaborato la propria sofferenza è sollevato dal trovare, infine, davanti a sé una strada lunga con alcune cose sicure. Una strada dunque che non dura pochi mesi, rappresentata da esperienze sempre diverse, sempre nuove, sempre fatta di tentativi, ma una strada che il ragazzo può percorrere per anni, per molti anni. In quel momento, il genitore capisce di aver trovato qualcosa di certo cui fare riferimento. In una certa misura, si può finalmente rilassare. Non nel senso di aver scordato le preoccupazioni, ma nel senso di avere maggiore consapevolezza che la realtà è purtroppo quella, ma in quella realtà egli e il suo ragazzo non sono soli e possono continuare a trovare elementi di socializzazione, di cura e di crescita. Può dirsi di aver fatto quello che la scienza gli ha messo a disposizione e la sua cura e il suo amore, infinito, per il proprio figlio disabile, gli hanno consentito. Si sente più tranquillo, sa di aver agito per il meglio, non si rimprovera nulla. Questa condizione gli permette di cominciare a vivere accettando quello che, in fondo, ha sempre accettato, anche se cercava altro. Valorizza l’affetto di questo figlio, spesso la sua grande tenerezza, la voglia di farsi proteggere e coccolare. Ne coglie le parti affettive e inconsce e lo riconosce come parte di sé, come del resto è sempre stato, ma ora lo è in una situazione in cui si vive il giorno per giorno, accogliendo e godendo di quello che il giorno per giorno ci da, senza sempre rimandare a domani, quando andrà meglio, la propria soddisfazione. E allora potrà concentrarsi sul da farsi, nella realtà vera e non solo nella realtà pensata magicamente o fantasticamente. E si impegnerà ancora di più per dare al proprio figlio tutte le opportunità di cui necessita, tutte le esperienze di cui ha bisogno in una situazione, però, dove la soddisfazione e la contentezza sono quotidiane e immediate e non rimandate a un dopo che non arriva mai. E allora comincia a guardare con occhi diversi, più profondi e più attenti, questo proprio figlio trovando che ci CHI SI OCCUPA DEL DISABILE ADULTO? Superati i dubbi e le incertezze di cui abbiamo ampiamente parlato e inserito il proprio figlio nell’attività più idonea, il genitore del giovane disabile resta tuttavia ancora con un altro problema essenziale. Ora che non è più in carico alla Npi, servizio che ha preso in carico dalla nascita e si è occupato in toto del bambino disabile offrendo servizi, cure e consulenze, qual è il servizio che si occuperà dell’adulto disabile? Chi svolgerà lo stesso servizio della Npi? Questa è una domanda cui si possono dare alcune risposte non completamente soddisfacenti. Esiste infatti, in alcune Ausl del nostro Paese, un servizio “Salute disabili adulti”, che si occupa prevalentemente di gestione dei centri diurni, di inserimento lavorativo e formazione professionale, e di gestione di attività residenziali. Non si occupa invece di tutta una serie di altre competenze che, per ora, sono offerte al disabile e alla sua famiglia dall’insieme degli altri servizi sanitari e sociali territoriali. Dal documento inviato dall’Anffas di Sassuolo alla direzione del Distretto sanitario “Con la presente, sollecitati da numerosissime famiglie di nostri associati, vorremmo richiamare la vostra attenzione sulla delicatissima fase che segna il passaggio alla maggiore età dei ragazzi disabili, perché questa circostanza è vissuta all’interno delle nostre famiglie come un momento particolarmente critico, di grande preoccupazione e di grave disagio, spesso con vero e proprio panico. Fino a 18 anni il percorso del bambino con disabilità è generalmente strutturato. Il neuropsichiatra infantile e la sua equipe diventano nel tempo il riferimento per la quasi totalità delle problematiche del ragazzo e della sua famiglia, non solo per gli aspetti diagnostico-terapeutici (accertamenti, invio a consulenze di secondo e terzo livello, trattamenti farmacologici e riabilitativi, prescrizioni di ausili, monitoraggio nel tempo e nelle varie età dello sviluppo, ecc.), ma anche per gli aspetti psico-affettivi e di inserimento extrafamiliare, generalmente scolastico (intervenendo nella formulazione dei progetti scolastici individuali e nella richiesta di sostegno, ecc.). Con l’approssimarsi della maggiore età, si comincia a percepire l’idea che un ciclo si sta chiudendo perché, terminata la fase di sviluppo, spesso crolla la speranza che il ragazzo raggiunga un grado accettabile di autonomia psico-intellettiva e/o motoria e diventa drammaticamente evidente alla famiglia la cruda realtà della gravità e della cronicità di una disabilità che richiederà alla famiglia un’assistenza e una supervisione continuativa e irrinunciabile e comporterà al ragazzo incapacità a un lavoro produttivo e grandi difficoltà di inserimento sociale. Il buon senso e la razionalità vorrebbero che il ragazzo disabile divenuto maggiorenne venisse preso in carico da un medico specialista e da un’equipe che, sulla falsariga del Servizio di Neuro-psichiatria infantile e in continuità con esso, progettasse e proponesse, in condivisione con la famiglia, un intervento globale e coordinato sulla persona, sia per gli aspetti sanitari, sia per quelli lavorativi e di inserimento sociale, sia per quelli prettamente giuridico amministrativi. Purtroppo, mancando tutto questo, la ‘dimissione dal servizio di Npi’ diviene brutale abbandono e un salto nel buio e, in assenza di un medico e di un’equipe di riferimento che valuti nella loro globalità le problematiche e gli interventi, il disabile e la sua famiglia si trovano improvvisamente senza riferimenti, nella necessità di affidarsi di volta in volta per ogni singolo problema a specialisti diversi (che spesso variano anche all’interno della stessa branca, non hanno dimestichezza e consuetudine con le complesse problematiche del disabile, non hanno disponibilità di spazi, tempi e luoghi idonei) e, in assenza di una continuità strutturata di rapporto con il disabile e la sua famiglia, non possono che affrontare il singolo problema in maniera estemporanea e frammentaria, esclusivamente sotto l’aspetto clinico, senza alcuna possibilità di rapportarsi con i luoghi e le realtà in cui il disabile vive. Questa frammentarietà ed estemporaneità degli interventi si traduce in una frustrante incomprensione tra lo specialista da un lato e il disabile e la sua famiglia dall’altro, che spesso perseguono obiettivi diversi: la cura del sintomo o la risoluzione del problema acuto o emergente in quel momento da parte del primo, il miglioramento delle condizioni e delle performance nella quotidianità di tutti i giorni, nella loro inscindibilità dagli aspetti prettamente motori, psichici, neurologici e di quelli affettivi, amicali, relazionali e sociali, da parte dei secondi. Questo comporta un enorme spreco di risorse anche di natura economica, in quanto vi è una moltiplicazione delle richieste, perché gli specialisti non soddisfano (non per la preparazione scientifica e professionale settoriale, ma per l’assenza di una strutturalità e continuità dell’intervento e la mancanza di una cultura della globalità interdisciplinare); comporta il peregrinare continuo in più ambulatori e in più centri, la prescrizione di terapie e di ausili che si rivelano spesso inutili e inutilizzabili, perché, anche seppur indicati clinicamente, non soddisfano le esigenze funzionali di quel soggetto negli ambienti in cui vive”. DISABILITÀ Questo significa, per i familiari, non avere più un solo interlocutore, come il servizio di Npi, che interfaccia per conto della famiglia l’insieme degli altri servizi sociali e sanitari, ma trovarsi, quasi improvvisamente, con un servizio che offre alcuni interventi specifici e molto importanti, ma che non è attrezzato a svolgere anche il ruolo di interlocutore privilegiato del disabile e della sua famiglia di fronte agli innumerevoli bisogni di cura di cui essi hanno bisogno. È un tema sollevato spesso anche da alcune associazione di familiari di disabili, come per esempio l’Anffas, che anche a Sassuolo ha posto questo problema, con un proprio documento da cui traggo queste principali domande e osservazioni. 15 n. 13/2008 Prospettive Sociali e Sanitarie sono aspetti che gli piacciono e altri che non sopporta, proprio come per gli altri figli, quelli cosiddetti normali, che un po’ lo gratificano e un altro po’ lo fanno arrabbiare. E così capisce che la realtà è il vero campo di battaglia e che tante cose possono essere fatte e migliorate. Così a volte ha voglia di aumentare la propria partecipazione alla vita del centro diurno e altre invece lascia fare ad altri, non solo perché magari è stanco, ma anche perché si fida. Dei servizi, degli operatori, delle istituzioni, degli altri genitori. E così, guardando i suoi veri bisogni e i bisogni di suo figlio, chiede delle altre cose oltre al centro diurno. Chiede anche qualche momento di vacanza, le uscite serali, il centro estivo e qualche esperienza sportiva o culturale. Ma non solo per il figlio, anche per sé e per gli altri genitori. Magari chiede anche un centro di aggregazione per genitori di ragazzi disabili, dove ci si possa trovare i giorni di festa quando gli altri, si pensa, si stanno divertendo e tu, con un figlio di 30 o di 40 anni, la domenica e i giorni di festa non sai proprio dove andare a sbattere la testa. E, come ultimo pensiero, gli viene anche in mente che deve preoccuparsi di quando lui, genitore, non ce la farà più, con le sue sole forze, a occuparsi del figlio. E allora lotta e vuole che le istituzioni si preoccupino di trovare soluzioni residenziali sia per ricoveri di sollievo sia per il cosiddetto “dopo di noi”. DISABILITÀ n. 13/2008 Prospettive Sociali e Sanitarie 16 Il documento continua segnalando ulteriori inconvenienti di questa situazione di frammentazione delle opportunità di cura, socializzazione e riabilitazione e chiedendo di conseguenza l’istituzione di un servizio che si faccia carico globalmente e in collaborazione con le famiglie di tutte le problematiche del disabile adulto. Le famiglie, infatti, a quel punto, con un familiare ormai adulto a proprio carico, hanno particolare bisogno di sostegno concreto sia sul piano delle opportunità di socializzazione e di aggregazione, sia su quello psicologico. Non vogliono e non riescono più a sentirsi sole con questo carico di cura e di sofferenza da gestire. “Ed è vero, mi diceva un genitore, che quando vengono date delle risposte ai bisogni del disabile e della sua famiglia, superata una prima fase di apprensione e di ansietà, se vi è un soddisfacente inserimento in un centro o in un’attività lavorativa, ancorché protetta, la famiglia ritrova un proprio ‘equilibrio emozionale’; di qui al fatto che ‘si rilassi o si riposi’ mi sembra che la distanza sia abissale. Non solo per la preoccupazione del dopo di noi, non solo per gli anni che passano e gli inevitabili acciacchi, problemi di salute o quantomeno per le energie che si affievoliscono con il crescere dell’ età dei genitori e/o dei familiari, ma perché, anche quando (e non per tutti è così) il disabile sia inserito socialmente per cinque giorni la settimana per la mattina e il primo pomeriggio, questi rimane a carico della famiglia e privo di inserimento sociale, aggregativo, ludico, motorio per tutto il resto del tempo: seconda parte del pomeriggio e sera, fine settimana, ferie, festività; quando il ragazzo è ammalato, ecc.; non è un carico da poco, perché i genitori non oziano durante gli inserimenti del disabile, ma generalmente lavorano; al di fuori degli orari di lavoro, con il disabile in casa devono anche farsi carico di rassettare la casa, aver cura dell’igiene del disabile, lavare i suoi indumenti e rassettare le sue cose, provvedere ad adempimenti per lui. Ma non è solo la mancanza di spazi per sè e per la coppia che pesa, ma anche la tristezza di vedere un ragazzo giovane al quale non si sanno o non si possono offrire momenti di svago o aggregazione, quando tutti i coetanei si incontrano e si svagano. È probabile che alla soluzione di questi problemi possano e debbano contribuire le associazioni; rimarranno comunque per le famiglie grossi carichi in termini di impegno orario, di carico emozionale e di insoddisfazione, che non possono essere misconosciuti né sottovalutati”.2 L’esigenza che ci sia un servizio disabili adulti che si occupa globalmente del disabile e della sua famiglia appare perciò sempre più chiara. Ho voluto terminare con queste riflessioni dirette dei genitori perché mi sono sembrate comprensibili, condivisibili e opportune. Il mondo della disabilità ha sempre messo in discussione l’organizzazione sociosanitaria. Pensiamo alle lotte per la chiusura delle istituzioni totali o per l’integrazione scolastica, sociale e lavorativa o alle richieste per una struttura urbanistica delle città a misura di tutti, e ad altre ancora; così, anche per questo tema del disabile adulto e dell’organizzazione dei servizi sociali e sanitari, le istituzioni competenti sono chiamate a dare risposte nuove e più rispettose dei bisogni complessivi di questi cittadini e delle loro famiglie, ma anche, se vediamo la cosa con gli occhi degli operatori, per realizzare servizi caratterizzati da un approccio globale e scientificamente più corretto rispetto ai bisogni presentati. Bibliografia Canevaro A., Educazione e handicappati, La Nuova Italia, Firenze, 1979. Palmonari A. (a cura di), Gli handicappati mentali e il lavoro. inserimento, risultati, resistenze, Giuffrè, Milano, 1987. Soresi S., Psicologia dell’handicap e della riabilitazione, Il Mulino, Bologna, 1998. Morini L., “L’occupazione delle fasce deboli”, Prospettive sociali e sanitarie, 15, 2007. Morini L., Pedretti P., Manzini G., …E amici tutti voi… Storie dei centri diurni per disabili del Distretto di Sassuolo, Ausl di Modena, Cooperativa Gulliver, Modena, 2004. Note 2 Testimonianza del dott. Carlo Menozzi, Anffas di Sassuolo, che ringrazio per i preziosi suggerimenti che mi ha dato leggendo questo articolo e fornendomi una luce particolare su quanto scritto. SEGNALAZIONI S. Freeman, L. Drake S. Amarri, P. Pedrazzi Erickson, Gardolo (TN), 2007 Il volume è rivolto ai logopedisti, agli insegnanti di sostegno e ai genitori che lavorano e vivono con bambini e ragazzi affetti da autismo, sindrome di Asperger e altri disturbi pervasivi dello sviluppo. Attraverso schede, attività e giochi, le autrici presentano un programma completo per affrontare le difficoltà del linguaggio verbale più comuni nei disturbi dello spettro autistico, che contribuiscono a esacerbare i problemi relazionali e comunicativi tipici di tali patologie. All’interno di un approccio comportamentale, il libro sfrutta e valorizza le peculiari abilità visive dei bambini con autismo proponendo esercizi per la facilitazione dell’apprendimento di alcuni aspetti della grammatica, l’accrescimento del lessico e della cultura generale, l’affinamento delle competenze verbali e l’insegnamento di concetti base, tutti orientati alla conquista di una maggiore autonomia sociale. Chiare indicazioni degli obiettivi da raggiungere, dei prerequisiti necessari per lavorare su una determinata competenza, degli ostacoli che possono nascere, nonché di come generalizzare ed estendere le capacità acquisite a contesti più generali, accompagnano le varie attività. Le schede alla fine del volume possono essere fotocopiate e facilmente adattate alle esigenze del singolo bambino. Carocci Faber, Roma 2007 Pensato e scritto per gli operatori sanitari (dietisti, nutrizionisti, pediatri, infermieri) e gli insegnanti di scuola primaria, ma anche per tutti quei genitori desiderosi di avere informazioni scientifiche e pratiche sulla gestione dell’alimentazione del bambino dai 6 agli 11 anni, questo agile manualetto si propone come uno strumento semplice e pratico per gestire quotidianamente l’alimentazione dei bambini. Ma vorrebbe anche essere un approfondimento per le figure sanitarie e scolastiche che si occupano dell’educazione alla salute in età pediatrica. Infatti, vengono affrontati sia temi nutrizionali (i fabbisogni, la giornata alimentare, l’alimentazione per bambini che praticano sport, per quelli vegetariani eccetera), sia tematiche educativocomportamentali (disturbi dell’alimentazione, influenza della televisione e della famiglia sulle abitudini alimentari, educazione alimentare a scuola, ecc.). Sono trattate dal punto di vista scientifico patologie come obesità, diabete, dislipidemie, sindrome metabolica, ormai frequenti in età scolare. La scorretta alimentazione ne è frequentemente la causa, e l’educazione nutrizionale diviene il cardine della terapia. Terzo di una serie di volumi sul tema dell’alimentazione in età evolutiva secondo gli intervalli previsti dalla nuova riforma scolastica: asilo nido (0-3 anni), scuola dell’infanzia (3-6 anni) e scuola primaria. IL LINGUAGGIO VERBALE NELL’AUTISMO PICCOLO MANUALE DI EDUCAZIONE ALIMENTARE