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Ti scrivo - Raffaela Fazio

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Ti scrivo - Raffaela Fazio
Ti scrivo…
C'è stato un tempo in cui ti pensavo a lungo. E tu eri in me come il cavallo cieco nella miniera di sale: negli
interstizi più improbabili ti trascinavi dietro il mio cuore come un carro, senza saperlo. Erano momenti in cui
ti avrei voluto di più e ti avrei voluto diverso. Aspettavo le tue telefonate che non sempre arrivavano ed ero
assetata di conferme. Per quanto ti pensassi e pensassi a noi, non riuscivo ad immaginare come i miei
desideri, sordi ed insistenti quasi un tornare di zoccoli sul tracciato, potessero risalire alla luce del giorno e
trovare un loro sentiero. Avevo paura. Avevo anche fretta.
Poi è arrivato il tempo della leggerezza, del camaleontismo. Cercavo il cambiamento e mi pareva che
proprio quello fosse la sfida più importante. Di città in città, di paese in paese, non mi chiedevo più cosa ci
avrebbe portato il domani. Mi sfrangiavo e giocavo a ricompormi. Aspettavo il tuo frangerti intorno alle mie
giunture, come un’acqua fredda di cascata che si vaporizza nello scontro e lascia sul corpo una lucentezza
diversa. Eppure non era una leggerezza felice, perché assomigliava troppo ad una fuga. Credevo di essere
libera. Pensavo che tagliare gli ormeggi fosse prova di coraggio e di sobrietà. Ma la vita è sempre un po’ un
pirataggio ed è inevitabile fare bottino di qualcosa. La stiva non è mai vuota. È bene che sia così. Peccato,
però, che mentre quella si riempiva, io non abbia usato allora più generosità.
In quei giorni, la mia nave era leggera ma il carico ancora pesante perché si cibava di ombre sconfessate.
Non avevo ancora imparato a guardarti e a vedere chi tu fossi. Il mio desiderio era un volerti a sprazzi, un
aprire fessure nell’alterno beccheggio delle lune, non un immergermi nel tuo tempo per riconciliarlo al mio.
Molti anni sono adesso passati. Nel frattempo ho capito che eri tu il più libero, perché il più costante.
Ora ti corichi e ti risvegli accanto a me, in un rollio che sugge la voce delle stagioni. A ogni svolta attingo un
colore dal tuo esserci. Sei come l’erba che guizza tra un gradino e l’altro, sei il presente che congiunge al
passo il passo successivo, la cruna attraverso la quale infilo la fatica per cucire il giorno e renderlo più forte.
Mi hai insegnato molte cose. E neppure lo sai, perché c’è in te una naturalezza che non ha bisogno di
applausi. Come fosse un istinto e non un’arte, ammiro la premura su cui tendi e fai scoccare anche il più
piccolo gesto. Con te ho imparato soprattutto che aver paura di essere delusi è in fondo una falsa
accordatura. Quando non arriva la vibrazione che ci aspettiamo, il cuore, invece di ritrarsi davanti
all’assenza, può fare un passo in più per capire cosa c’è dietro la siepe: è là la bellezza improvvisa, che
chiede allo sguardo soltanto di mettere a fuoco l’inatteso contorno delle cose. È questa la bellezza che ci dà
una nuova cassa di risonanza e ci aiuta a vedere.
A distanza di anni, ti osservo e il grigio azzurro dei tuoi occhi continua a sorprendermi. Ti conosco, ma
rimani un mistero. Ci sono insenature, grotte e radure che in te mai potrò esplorare, ma la luce che ti
attraversa, che filtra e mi raggiunge è comunque intera: mi parla di ciò che è irraggiungibile, eppure diventa
parte di me. Se non fossero lontane, le sponde non potrebbero sfumare nell’azzurro che le unisce, in un
intreccio d’onde e di correnti. Perché la vera intimità non è mai un possedere, né la forza un trattenere. È la
distanza che sa di non essere vuoto. Così, tra un tocco e l’altro di dita sulla schiena, si muove sull’altalena il
corpo amato nella spinta, in uno spazio sospeso, di gratitudine e anticipazione. È nell’assenza di certezze che
ci siamo conosciuti la prima volta ed abbiamo tentato negli anni di puntellare insieme il nostro percorso.
Adesso abbiamo capito che l’amore sta proprio negli interstizi tra una sicurezza e l’altra: è là che cresce e
vince le sue paure.
E insieme senza paura guardiamo, come si guarda il mare, il tempo che ha davanti a sé nostra figlia, e ci
sentiamo piccoli, ciottoli sulla spiaggia, di fronte a una distesa inespugnabile che soltanto Juliette, da sola,
potrà navigare. Cresciamo con lei, felici di aver scoperto un altro amore, totalmente diverso dal desiderio
che ci ha uniti eppure inimmaginabile senza quello. Il tempo è ora lento e veloce. Rallenta quando
ascoltiamo Juliette, quando ripetiamo mille volte per lei sillabe e gesti, ci scordiamo per settimane il nostro
libro preferito sullo scaffale e lasciamo a decantare il progetto di un viaggio. Ma corre quando ci accorgiamo
del rimbalzo che di colpo ha in lei una parola, quando vediamo il balenìo degli occhi che dà forma a
un’intuizione e ci accorgiamo di quanta ironia ha già il suo gioco e libertà il suo mondo.
La sera siamo più stanchi, abbiamo meno tempo per parlare e meno voglia di insinuarci nell’intimità dei
nostri corpi. Ma se mi chiedessi adesso se con te sono felice, ti direi di sì. E ti ringrazierei perché con me
condividi non solo il desiderio, ma anche, con pazienza, la fatica dell’imperfezione.
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Ogni cosa ha il suo tempo e il suo modo di offrirsi. Un giorno ricercherò i tuoi baci nei recessi più odorosi,
forse arrossiremo di più e compiremo di nuovo circumnavigazioni senza bussole e scadenze. Ma non meno
vero è il piacere che provo ora quando piano mi metti la mano sulla pancia e ascolti al suo interno la marea
che si alza e si abbassa, la vita che ancora intesse il suo mistero, mentre a noi porta domani un altro figlio e,
con lui, una nuova corda all'amore.
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Cocoon
Jacqueline, al quarto piano dello studentato, guardò fuori. Il suo riflesso si staccò dal vetro come una falena e
raggiunse un’altra finestra più distante, entrò in una camera d’ospedale e, con la curva delle ali, seguì la
piega lasciata da un corpo ventenne sul lenzuolo bianchissimo. Jacqueline amava quel corpo che non
riconosceva più niente; nessun impulso pareva scuoterlo dalla paralisi improvvisa. Era il corpo di Marc,
svegliatosi una mattina dentro un bozzolo duro di muscoli e legamenti che non gli rispondevano più.
Jacqueline uscì dallo studentato e s’incamminò verso l’ospedale. Era la solita ora. Quello era il momento
della giornata che preferiva, intorno al quale si organizzavano i suoi pensieri, le lezioni, la preparazione per
gli esami, la spesa. Aveva smesso di frequentare gli amici, ma questo non le mancava. Solo Marc le
mancava. Era felice di poter rimanere più a lungo oltre l’orario di visita rispetto agli altri.
Era stata sicura di amare Marc quando l’aveva visto là nella stanza asettica per la prima volta, e non aveva
provato compassione, ma voglia di stargli vicino. Aveva sentito di amare quel corpo ancora prima di averne
scoperto i segreti. Si era decisa ad aprire il suo cuore a Marc due settimane prima del ricovero, vinta la paura
di un coinvolgimento che, senza chiare prospettive, l’avrebbe portata forse lontano. Ed ecco che di colpo si
era ritrovata davanti alle pareti bianche di una camera d’ospedale. Ma proprio in quell’assenza di intimità
fisica era iniziata a crescere un’intimità diversa, come se intorno a un guscio compatto si fosse cristallizzata
una pellicola di desideri sottile, ma ancora più forte del guscio stesso. Uno strato traslucido di sguardi e di
anticipazioni che rendeva sempre più liscia la superficie corrugata dell’attesa. Il tempo, leggero, si posava
sulle membra immobili, vi aderiva, ne accentuava i contorni.
Jacqueline affrettò il passo. Aveva indossato un vestito diverso, che Marc non conosceva. Sapeva che le
stava bene. Mai prima di allora si era preoccupata del suo aspetto, ma adesso non riusciva ad essere bella
quanto avrebbe voluto.
Marc aveva iniziato ad articolare nuovamente le parole. Non aveva perso il suo buon umore, la sua curiosità.
Lo divertiva il suo vicino di letto spagnolo, un lavoratore immigrato, che fingeva di dormire per spiare le
carezze di Jacqueline e, quando dormiva davvero, russava con la foga di un torero in campo, trasformando la
notte in una lunga, rumorosa corrida.
Jacqueline arrivò in ospedale accaldata per la corsa. L’orario delle visite era appena iniziato e lei, anche
quella sera, sarebbe rimasta fino all’ultimo. Percorse il corridoio fino all’ascensore. Salì al quinto piano, di
cui riconobbe l’odore, le porte allineate delle camere, il susseguirsi veloce degli zoccoli delle infermiere.
Quando entrò nella stanza, vide che Marc non aveva altre visite, che sarebbero rimasti un po’ soli. Lui le
disse: “Vieni qua vicino. Ti devo far vedere una cosa.” Jacqueline gli si sedette accanto.
La luce che entrava dalla finestra dietro di lei proiettò la sua sagoma sul letto. Là dove la sua ombra
s’incurvava all’altezza delle spalle, improvvisamente qualcosa si mosse. Il lenzuolo si gonfiò rompendo il
gioco delle pieghe e si alzò fino a scoprire la pelle chiara del torace di Marc. Lui stava comandando il
braccio sinistro, lo dirigeva, lo tendeva verso l’alto ad afferrare gli ultimi ragni di luce in quel lento ordito
d’ombra, a toccare il soffitto come se volesse scoperchiarlo. Jacqueline sentì una scossa tellurica. Il
pavimento, le pareti si mossero e con loro i marciapiedi in strada ebbero un sussulto, gli alberi, le panchine, i
lampioni, la sua camera nello studentato piena di vocabolari e fotografie. I colori delle cose, sballottati,
gridarono di piacere. E Jacqueline si rese conto che l’estate era calda e che era cominciata già da settimane.
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