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“PUO` UN INVIDIOSO ESSERE FELICE?” di F. Nietzsche. Elliot, 2013

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“PUO` UN INVIDIOSO ESSERE FELICE?” di F. Nietzsche. Elliot, 2013
“PUO’ UN INVIDIOSO ESSERE FELICE?” di F. Nietzsche. Elliot, 2013
11.09.13
Gli scritti inediti di Friedrich Nietzsche sull’invidia sono ora proposti in Italia dalla casa editrice
Elliot con un titolo più psicologico che filosofico: “Può un invidioso essere felice?” (a cura di
Alessandra Campo). Scritti fra il 1863 e il 1864, anni in cui Nietzsche termina gli studi superiori e si
avvia a quelli universitari.
Nei suoi scritti sull’invidia Nietzsche sottolinea come questo sentimento sia un “errore della
conoscenza”, un “logorio dell’anima” che conduce l’individuo lontano dalla vera felicità: «Agli
invidiosi la felicità e l’onore appaiono sotto l’involucro esteriore della ricchezza e dello splendore,
dell’acclamazione pubblica e delle lodi dei giornali… essi non riescono a vedere il cuore delle
cose». Sono le prime intuizioni degli aforismi che nei testi più noti sulla genesi dei valori e dei
controvalori etici (Geneaologia della morale e Al di là del bene e del male) indurranno il filosofo di
Zarathustra a condannare l’«uomo del risentimento», ad auspicare il superamento del nichilismo
attraverso la “felicità” dell’oltre-uomo.
Secondo N. questa emozione è contrapposta all’amore ancor più dell’odio, lavora con la rabbia ed
il risentimento. Chi la prova distorce tutto e trova anche nei propri successi i segni di questa
insoddisfazione. A differenza della lussuria, della superbia, della gola, l' invidia è forse l' unico vizio
che non dà piacere. Tesi che in parte saranno riprese da Freud, che più volte si è richiamato al
grande filosofo tedesco.
Scrive Galimberti (La Repubblica, 08.08.11) come le radici dell’invidia affondano in quel nucleo
profondo dove si raccoglie la nostra identità che, per costituirsi e crescere, ha bisogno del
riconoscimento. Quando questo manca, la nostra identità si fa più incerta, sbiadisce, si atrofizza, e
allora subentra l' invidia che vorrebbe concedere, a chi è incapace di valorizzare se stesso, una
salvaguardia di sé nella demolizione dell' altro.
Più che un vizio, l' invidia è un meccanismo di difesa, un tentativo disperato di salvaguardare la
propria identità quando si sente minacciata dal confronto con gli altri. Un confronto che l'
invidioso da un lato non sa reggere e, dall' altro, non può evitare, perché sul confronto si regge l'
intera impalcatura sociale. E chi dalla comparazione si sente diminuito ricorre all' invidia per
proteggere il proprio valore attraverso la svalutazione degli altri.
Se è vero infatti quel che dice Spinoza, secondo il quale l' esistenza è forza che può conservarsi
solo espandendosi, l' invidia tende a contrarre l' espansione degli altri per l' incapacità di
espandere se stessi, per cui è un' implosione della vita, un meccanismo di difesa che, nel tentativo
di salvaguardare la propria identità, finisce per comprimerla, per arrestarne lo slancio. Una
strategia sbagliata, quindi, che non riesce a sottrarci al confronto che ci umilia e da cui l' invidia
vorrebbe difenderci.
Galimberti chiama in causa i Greci per trovare un primo antidoto all’invidia. Essi evitavano di
attribuire le virtù e i successi agli individui, perché li interpretavano come dono degli dei. Invidiare
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il beneficiato dal dio equivaleva offendere il dio stesso, e questo era un atto di empietà. A questo
punto la grandezza veniva venerata e, come ci ricorda Nietzsche, la venerazione non è passività e
asservimento, ma riconoscimento di ciò che è grande. Questo riconoscimento da un lato non
limita e non ostacola ciò che cresce, dall' altro incentiva chi è capace di riconoscimento ad
assumere la grandezza come modello. Per questo nel mondo antico, come la storia greca e quella
romana documentano, il nemico poteva essere combattuto e insieme ammirato, poteva essere
ucciso e al tempo stesso riconosciuto nel suo valore. In questo modo la relazione sociale era
contrassegnata da forte antagonismo, ma insieme scevra di invidia.
Salvatore Natoli (Dizionario dei vizi e delle virtù , Feltrinelli) scrive: "L' invidia è impotenza", o
perché fallisce la meta troppo elevata per le proprie forze naturali, o perché la propria potenza è
legata e impedita rispetto a una meta che sarebbe anche raggiungibile. In ogni caso, “l' impotenza
ha un carattere costitutivamente relazionale", nel senso che dipende dalle relazioni sociali
attraverso cui passa il riconoscimento individuale. E quando la società fa mancare il
riconoscimento, magari per ragioni arbitrarie, non può evitare che l' impotenza si perverta in
invidia, aumentando al suo interno la circolazione di questo sentimento che impoverisce il mondo
senza riuscire a valorizzare chi lo prova. Questa è la ragione per cui l' invidioso è costretto a
nascondere il suo sentimento e a non lasciarlo mai trasparire: perché altrimenti darebbe a vedere
la sua impotenza, la sua inferiorità e la sofferenza che per esse patisce. Per cui l' invidia, più che un
vizio capitale, è un indotto sociale, e, fatta salva l' istanza di giustizia che può promuovere, è un
sentimento "inutile" perché non approda al recupero della valorizzazione di sé, "doloroso" perché
rabbuia e impoverisce il mondo, e per giunta è un sentimento che bisogna tenere "nascosto",
senza quindi neppure il conforto che può venire dalla comunicazione.
Interessanti considerazioni su un sentimento del quale la Psicologia si occupa forse troppo poco,
mentre una maggiore attenzione potrebbe aiutare le singole persone ma anche la società nel suo
complesso, che usa spesso l’invidia, la fomenta, per fini di parte, aumentando il tasso di infelicità
dei singoli e delle società.
Un riflessione che potrebbe aiutare anche gli Psicologi, spesso mossi all’invidia dal senso di
frustrazione ed impotenza verso cui li spinge una società che ha un rapporto molto ambiguo con la
Psicologia. A volte la blandisce, ma più spesso la saccheggia, la banalizza, a volte la marginalizza o
la nega come scienza, mantenendo i suoi operatori in un status incerto e logorante.
Queste riflessioni ci aiuterebbero a non cadere nella sindrome dei “polli di Renzo” (celebre scena
dei Promessi Sposi dove si beccano tra loro peggiorando la loro già scomoda situazione) che
troppo spesso ci colpisce. I polli di Renzo possono far poco ma noi potremmo fare molto di più
evitando di “beccarci” tra noi.
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