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Intervento di Enrico Mentana
Enrico Mentana La cosa migliore è sfuggire all’attualità, perché l’attualità (che poi è Deaglio) la si gioca su tre livelli diversi: il livello delle istituzioni, che giustamente se ne ritraggono, visto che l’inchiesta filmata giornalistica cui fanno riferimento tutti era bacata all’origine secondo lo svarione che già conosciamo. Per i sondaggisti evidentemente il livello è diverso, quello su cui loro sono soliti operare. Per noi giornalisti è un’altra cosa ancora, evidentemente: perché il giornalista, che ha il vizio di essere dietrologo e non vede mai quello che c’è davanti, non ha notato che c’era un vizio di fondo nell’inchiesta di Deaglio. Ha pensato semplicemente: “Se Deaglio ha fatto questa inchiesta è perché una “gola profonda” gli ha dato la notizia, poi avrà sbagliato nell’interpretarla e nel trovare il veicolo attraverso il quale il broglio sarebbe stato compiuto, ma se qualcuno gli ha detto del broglio, è giusto tuffarsi perché la notizia c’è. Come si vede, i livelli non sono componibili: non si può comparare quest’ultimo livello, quello giornalistico, con lo studio serio dei fenomeni elettorali e con l’arte dei sondaggi nel nostro Paese. Mi è capitato molte volte di fare ricorso alla collaborazione con istituti che qui sono rappresentati, a cominciare nel ’92 col professor Draghi per quanto riguardava le proiezioni e con Piepoli per quanto riguardava gli exit-polls, che esordivano in quella occasione. E poi di volta in volta mi è capitato di avere rapporti con tutti gli istituti. So benissimo che per noi giornalisti, soprattutto della televisione, il ruolo in fase elettorale e di risultati elettorali degli istituti di sondaggi è stato assolutamente di rinnovamento. E’ cambiato il modo di percepire la gara elettorale, che però era una rappresentazione. Chiunque ricorda cosa succedeva prima: bisognava aspettare ore e ore, arrivavano i primi risultati, che erano quasi sempre dalle “regioni rosse”, quindi le Sinistre erano davanti. Poi arrivò l’era delle proiezioni: allora c’erano le prime due ore dopo la chiusura pomeridiana, dalle 14.00 alle 16.00, in cui si parlava dei risultati di un seggio che in genere ci aveva sempre “azzeccato”; poi arrivavano le proiezioni, che com’è noto bruciarono sul campo quel seggio, nella prima sfida dell’era del mercato televisivo fra Tg1 e Tg2, a metà degli anni Settanta. Ovviamente da allora di strada se n’è fatta tanta, ma anche all’indietro, perché ormai abbiamo considerato il sondaggio non soltanto un ingrediente del teatrino post-elettorale, ma come un termometro dell’attività della politica. Quando il Ministro Amato ricordava che la politica è referente dei sondaggisti, la politica purtroppo è anche committente, con questo creando un circuito che non è sempre virtuoso. E del resto, lo ha dimostrato il più illustre dei committenti affidandosi a dei sondaggisti d’oltreoceano per mandare in fuorigioco i sondaggisti italiani, in quest’ultima campagna elettorale. Con quel coupe de teatre evidentemente Berlusconi ha detto: “se i sondaggi non vanno bene, cambiamo i sondaggi”! Con ciò dimostrando, però, che i sondaggi nella fase preelettorale sono un’arma arbitraria, al che viene da pensare per il futuro per il buon nome delle società di rilevazione demoscopica, se sia il caso di affidarsi a un rapporto stretto con la politica e col termometro pre-elettorale, perché è uno dei canoni storici dell’azione e del pensiero. Silvio Berlusconi si fissa l’obiettivo e informa l’aspettativa all’obiettivo. E’ quello che è stato fatto coi sondaggi: ha avuto ragione Berlusconi, stando al risultato finale, che non vuol 1 Trascrizione del dibattito dire: “Ha fatto bene, ha fatto male, è stato etico, è stato amorale”, perché poi in politica, nel momento supremo del ricorso alla sovranità popolare conta come si è votato. E sappiamo qual è stato il risultato. Da quel punto di vista, il mandare in fuorigioco dei sondaggi che sembravano pre-condizionati, rendere scontato l’esito del voto è stato, nella strategia della campagna elettorale di Berlusconi, abbastanza decisivo. Però questa è una parte della verità: l’altra parte della verità è stato quel famoso scostamento. Perché i due grandi temi del voto del 9 e 10 aprile sono lo scostamento tra exit-polls e proiezioni e la riduzione delle schede bianche, solo apparentemente correlati e comunque non dando spazio a interpretazioni broglistiche, perché le proiezioni avvengono direttamente ai seggi. C’è un Paese che si è mosso fuori dai sondaggi, fuori dalle rilevazioni, fuori dalle aspettative degli exit-polls che a quel punto erano probabilmente l’auto-rappresentazione del popolo già sondaggiato e non di quello che non si era voluto far sondaggiare. Penso che il problema sia chiaro: da quello deriva il tutto, insieme all’altro aspetto, che è politico. Chi conosce le due parti di questo Paese sa come la Destra sia pragmatica e invece la Sinistra creda a dei miti, tra cui il più importante (e che spesso le è stato fatale) è che è lei che vince o perde. Non c’è un avversario che la può battere: perde per i suoi errori, vince perché è la parte giusta. Non l’aver visto che Berlusconi rimontava ha fatto sì che prendesse corpo la paura del broglio, la paura di un elemento bacato, che non era dentro le regole del gioco, che ha fatto rischiare Berlusconi di vincere e Prodi di perdere. Chiunque ricordi quella notte, che abbiamo ampiamente ricostruito per forza in questi giorni, sa a cosa mi riferisco. Il problema lo si risolve soltanto in un altro modo: cercando di capire che questo Paese evidentemente non ragiona più nei termini dell’incasellamento politico. La rimonta di Berlusconi si è sicuramente incardinata su dati che erano emotivi o che comunque sfuggivano alla logica della politica e semmai confinavano con quella dell’anti-politica. Per questo io mi sono sempre chiesto di fronte al fenomeno Berlusconi (e me lo sono chiesto a maggior ragione dopo il risultato politico del 9 e 10 aprile) se non ci sia un problema di rappresentazione numerica del fenomeno del Berlusconismo e della sua rappresentazione politico-elettorale, del rapporto che ciascun cittadino elettore ha con quella parte del Paese politico che è stata “costruita in provetta” nel 1994. Perché poi il problema di fondo resta quello, probabilmente: noi conosciamo la storia della Sinistra, il suo storico elettorale. Quella operazione di laboratorio che è stata compiuta tra la fine del 1993 e l’inizio del ‘94, di mettere insieme “scarpe scompagnate”, com’erano il partito post-fascista, il partito leghista, spezzoni della Democrazia Cristiana e varie ed eventuali, evidentemente si è posta in maniera asimmetrica rispetto alla rappresentazione del Paese che conoscevamo. Ma anche al modo politico di auto-rappresentazione di una parte dell’Italia. Non è facile, ma spero di avere focalizzato qual è questo problema, che del resto trova paradossalmente (e da parte mia, del tutto sorprendentemente) corrispondenza nella frase di Prodi sul “Paese impazzito”: il Paese è sicuramente impazzito rispetto alla rappresentazione classica che se ne fa in termini di inquadramento politico, perché non ragiona più su una opzione politica complessiva, ma su una serie di dati utilitaristici, funzionali ed emotivi che ne fanno sballare un incasellamento politico o partitico. 2 Trascrizione del dibattito Solo così, secondo me, si spiega quella parte che non si vede, della rimonta di Berlusconi che ha due momenti topici. Io ricordo cosa si disse del meeting di Confindustria a Vicenza il giorno prima e il giorno dopo: quella è l’incapacità dei media soprattutto che probabilmente si riflette sul polso dell’opinione pubblica che si può rilevare dai sondaggi. La stessa cosa sui due faccia-a-faccia Berlusconi-Prodi: quello è stato secondo me il momento in cui c’è stato il più grande scostamento tra la percezione reale e la percezione degli addetti ai lavori. Nessuno ha mai detto in realtà che Prodi ha vinto nettamente il primo confronto e che il secondo è andato male: nella società politica e para-politca, che è la società giornalistica, si è detto proprio questo. Allora ci si è fatti un film che è andato forse a rovinare la pellicola seria dei sondaggisti che era diversa dal film reale e che poi evidentemente non ha trovato la possibilità di collimare il 9 e 10 aprile. Ultima parte: Le schede bianche. Qui è vero tutto quello che è stato detto per giustificare razionalmente il discorso delle schede bianche. Era la prima volta che si tornava a una parte proporzionale forte per cui ogni cittadino poteva trovare il simbolo di riferimento (ed è vero che tutte le ultime elezioni col proporzionale avevano un livello molto più basso di schede bianche); è vero che non dover scegliere Destra o Sinistra, ma una cosa più articolata, permette una maggiore partecipazione; è vero che una campagna come questa, così infuocata, non poteva che piallare i margini di incertezza; è vero anche che si sono riempite le platee, perché si è arrivati dai nazisti ai super-no-global e tutti erano inquadrati nei due blocchi; questo è tutto vero. Ma i risultati così uniformi in termini di crollo delle schede bianche non si saziano di queste giustificazioni ed è un problema forte cercare di capire quello che è successo, per fugare tutte le ombre e tutte le operazioni che ci sono state: perché un film è un film. Un libro e un film sono già due indizi. Aspettiamo il terzo alla Agatha Christie, poi diciamo che c’è qualcuno che continua a instillare il dubbio su quelle schede bianche. Ma anche per capire un po’ di più questo Paese, perché se no, ripeto, siamo sempre a parlarne a posteriori, come quei grandi commentatori sportivi che ti spiegano sempre perché la tua squadra ha vinto o ha perso, salvo aver detto il contrario alla vigilia del match. 3 Trascrizione del dibattito