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materiali intorno all`ironia

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materiali intorno all`ironia
materiali intorno
all’ironia
a cura di
Francesco Muzzioli
1
INDICE
Jonathan Swift, Una modesta proposta…………………………………………….. 3
Giacomo Leopardi, Dialogo di Tristano e di un amico………………………….. 12
Jules Laforgue, Amleto ovvero Le conseguenze della pietà filiale……………... 17
Gian Pietro Lucini, Lai a Melisanda………………………………………………. .47
VirginiaWoolf, da Le tre ghinee…………………………………………………… 58
Bertolt Brecht, da Dialoghi di profughi…………………………………… .…61
Juan Goytisolo, da Karl Marx Show………………………………………………...64
2
JONATHAN SWIFT
Una modesta proposta
(1729)
È cosa ben triste, per quanti passano per questa grande città o viaggiano per il nostro Paese, vedere
le strade, sia in città, sia fuori, e le porte delle capanne, affollate di donne che domandano
l’elemosina seguite da tre, quattro o sei bambini tutti vestiti di stracci, e che importunano così i
passanti. Queste madri, invece di avere la possibilità di lavorare e di guadagnarsi onestamente da
vivere, sono costrette a passare tutto il loro tempo andando in giro ad elemosinare il pane per i loro
infelici bambini, i quali, una volta cresciuti, diventano ladri per mancanza di lavoro, o lasciano il
loro amato Paese natio per andarsene a combattere per il pretendente al trono di Spagna, o per
offrirsi in vendita ai Barbados.
Penso che tutti i partiti siano d’accordo sul fatto che tutti questi bambini, in quantità enorme, che si
vedono in braccio o sulla schiena o alle calcagna della madre e spesso del padre, costituiscono un
serio motivo di lamentela, in aggiunta a tanti altri, nelle attuali deplorevoli condizioni di questo
Regno; e, quindi, chiunque sapesse trovare un metodo onesto, facile e poco costoso, atto a rendere
questi bambini parte sana ed utile della comunità, acquisterebbe tali meriti presso l’intera società,
che gli verrebbe innalzato un monumento come salvatore del paese.
Io tuttavia non intendo preoccuparmi soltanto dei bambini dei mendicanti di professione, ma vado
ben oltre: voglio prendere in considerazione tutti i bambini di una certa età, i quali siano nati da
genitori in realtà altrettanto incapaci di provvedere a loro, di quelli che chiedono l’elemosina per le
strade.
Per parte mia, dopo aver riflettuto per molti anni su questo tema importante ed aver considerato
attentamente i vari progetti presentati da altri, mi son reso conto che vi erano in essi grossolani
errori di calcolo. é vero, un bambino appena partorito dalla madre può nutrirsi del suo latte per un
intero anno solare con l’aggiunta di pochi altri alimenti, per un valore massimo di spesa non
eccedente i due scellini, somma sostituibile con l’equivalente in avanzi di cibo, che la madre si può
certamente procurare nella sua legittima professione di mendicante; ma è appunto quando hanno
l’età di un anno che io propongo di provvedere a loro in modo tale che, anziché essere di peso ai
genitori o alla parrocchia, o essere a corto di cibo e di vestiti per il resto della vita, contribuiranno
invece alla nutrizione e in parte al vestiario di migliaia di persone.
Un altro grande vantaggio del mio progetto sta nel fatto che esso impedirà gli aborti procurati e
l’orribile abitudine, che hanno le donne, di uccidere i loro bambini bastardi; abitudine, ahimè,
troppo comune fra di noi; si sacrificano cosí queste povere creature innocenti, io credo, piú per
evitare le spese che la vergogna, ed è cosa, questa, che muoverebbe a lacrime di compassione anche
il cuore piú barbaro ed inumano.
Di solito si calcola che la popolazione di questo Regno sia attorno al milione e mezzo, ed io faccio
conto che, su questa cifra, vi possano essere circa duecentomila coppie, nelle quali la moglie sia in
grado di mettere al mondo figli; da queste tolgo trentamila, che sono in grado di mantenere i figli,
anche se temo che non possano essere tante, nelle attuali condizioni di miseria; ma, pur concedendo
questa cifra, restano centosettantamila donne feconde. Ne tolgo ancora cinquantamila, tenendo
conto delle donne che non portano a termine la gravidanza o che perdono i bambini per incidenti o
malattia entro il primo anno. Restano, nati ogni anno da genitori poveri, centoventimila bambini. Ed
ecco la domanda: come è possibile allevare questa moltitudine di bambini, e provvedere loro?
Come abbiamo già visto, nella situazione attuale questo è assolutamente impossibile, usando tutti i
metodi finora proposti. Infatti non possiamo impiegarli né come artigiani, né come agricoltori,
perché noi non costruiamo case (intendo dire in campagna), né coltiviamo la terra; ed essi possono
ben di rado guadagnarsi da vivere rubando finché non arrivano all’età di sei anni, salvo che non
posseggano doti particolari; anche se, lo debbo ammettere, imparano i rudimenti molto prima di
quell’età. Ma in questo periodo essi possono essere considerati propriamente solo degli apprendisti,
come mi ha spiegato un personaggio eminente della contea di Cavan; il quale appunto mi ha
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dichiarato che non gli capitò mai di imbattersi in piú di uno o due casi al di sotto dell’età di sei anni,
pur in una parte del Regno tanto rinomata per la precocità in quest’arte.
I nostri commercianti mi hanno assicurato che i ragazzi e le ragazze al disotto dei dodici anni non
costituiscono merce vendibile, e che anche quando arrivano a questa età non rendono piú di tre
sterline o, al massimo, tre sterline e mezza corona, al mercato; il che non può recar profitto né ai
genitori né al Regno, dato che la spesa per nutrirli e vestirli, sia pure di stracci, è stata di almeno
quattro volte superiore.
Io quindi presenterò ora, umilmente, le mie proposte che, voglio sperare, non solleveranno la
minima obiezione.
Un Americano, mia conoscenza di Londra, uomo molto istruito, mi ha assicurato che un infante
sano e ben allattato all’età di un anno è il cibo piú delizioso, sano e nutriente che si possa trovare,
sia in umido, sia arrosto, al forno, o lessato; ed io non dubito che possa fare lo stesso ottimo servizio
in fricassea o al ragú.
Espongo allora alla considerazione del pubblico che, dei centoventimila bambini già calcolati,
ventimila possono essere riservati alla riproduzione della specie, dei quali sono un quarto maschi, il
che è piú di quanto non si conceda ai montoni, ai buoi ed ai maiali; ed il motivo è che questi
bambini sono di rado frutto del matrimonio, particolare questo che i nostri selvaggi non tengono in
grande considerazione, e, di conseguenza, un maschio potrà bastare a quattro femmine. I rimanenti
centomila, all’età di un anno potranno essere messi in vendita a persone di qualità e di censo in tutto
il Regno, avendo cura di avvertire la madre di farli poppare abbondantemente l’ultimo mese, in
modo da renderli rotondetti e paffutelli, pronti per una buona tavola. Un bambino renderà due piatti
per un ricevimento di amici; quando la famiglia pranzerà da sola, il quarto anteriore o posteriore
sarà un piatto di ragionevoli dimensioni e, stagionato, con un po’ di pepe e sale, sarà ottimo bollito
al quarto giorno, specialmente d’inverno.
Ho calcolato che, in media, un bambino appena nato venga a pesare dodici libbre e che in un anno
solare, se nutrito passabilmente, arrivi a ventotto.
Ammetto che questo cibo verrà a costare un po’ caro, e sarà quindi adattissimo ai proprietari
terrieri, i quali sembra possano vantare il maggior diritto sui bambini, dal momento che hanno già
divorato la maggior parte dei genitori.
La carne di bambino sarà di stagione per tutta la durata dell’anno, ma sarà piú abbondante in marzo,
e un po’ prima dell’inizio e dopo la fine di quel mese. Ci informa infatti un autore serissimo
[Rabelais], eminente medico francese, che, essendo il pesce una dieta favorevole alla prolificità, nei
paesi cattolici ci sono piú bambini nati circa nove mesi dopo la Quaresima di quanti non ce ne siano
in qualunque altro periodo dell’anno; di conseguenza, un anno dopo la Quaresima il mercato sarà
piú fornito del solito, perché il numero dei bambini dei Papisti è almeno di tre contro uno, in questo
paese; ricaveremo quindi parallelamente un altro vantaggio, quello di far diminuire il numero dei
Papisti in casa nostra.
Ho già calcolato che il costo di allevamento per un infante di mendicanti (nella quale categoria
faccio entrare tutti i contadini, i braccianti ed i quattro quinti dei mezzadri) è di circa due scellini
all’anno, stracci inclusi; ed io penso che nessun signore si lamenterà di pagare dieci scellini il corpo
di un bambino ben grasso che, come ho già detto, può fornire quattro piatti di ottima carne nutriente
per quando abbia a pranzo qualche amico di gusti difficili, da solo o con la famiglia. Il proprietario
di campagna imparerà cosí ad essere un buon padrone ed acquisterà popolarità fra gli affittuari, la
madre avrà dieci scellini di profitto netto e sarà in condizione di lavorare finché genererà un altro
bambino.
I piú parsimoniosi (ed io confesso che la nostra epoca ne ha bisogno) potrebbero scuoiare il corpo,
la cui pelle, trattata artificialmente, dà meravigliosi guanti per signora e stivaletti estivi per signori
eleganti.
Per quanto concerne la nostra città di Dublino, nelle parti piú acconce, potrebbero apprestarsi
mattatoi per codesta bisogna; e possiamo star certi che non mancheranno i macellai; anche se io
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vorrei raccomandare di comperar vivi i bambini e di prepararli caldi, appena finito di usare il
coltello, come si fa per arrostire i maiali.
Una degnissima persona, che ama veramente il suo Paese, e le cui virtú tengo in grande
considerazione, si compiacque di recente, parlando di questo argomento, di suggerire un
perfezionamento al mio progetto. Egli diceva che, dal momento che molti gentiluomini del Regno
in questi ultimi tempi hanno distrutto la selvaggina, pensava che sarebbe stato possibile ovviare alla
mancanza di cacciagione procurando corpi di giovinetti e fanciulle non al di sopra dei quattordici
anni e non al di sotto dei dodici: dato che tanto sono quelli, sia dell’uno che dell’altro sesso, che
sono avviati a morire di fame per mancanza di lavoro o di assistenza: ed i genitori, se ancora in vita,
oppure i parenti piú prossimi, sarebbero ben lieti di liberarsi di loro. Tuttavia, pur con tutta la
deferenza per un cosí eccellente amico e per un patriota di tanto merito, non posso essere
completamente d’accordo con lui. Per quanto riguarda i maschi, un Americano di mia conoscenza,
che ha avuto modo di farne esperienza frequente, mi ha assicurato che la carne era generalmente
magra e coriacea come quella dei nostri scolari, a cagione del troppo esercizio fisico, e che il sapore
era sgradevole e non valeva la pena di ingrassarli. Per quanto riguarda le femmine poi, io sono
umilmente del parere che in questo modo si procurerebbe un danno alla comunità intera, perché tra
breve esse sarebbero divenute feconde. D’altra parte non improbabile che persone scrupolose
possano criticare severamente una pratica di questo genere (benché del tutto ingiustamente, com’è
ovvio), considerandola come qualcosa che rasenti la crudeltà; e confesso che, nel caso mio, questa è
sempre stata la piú forte obiezione ad ogni progetto, anche se presentato con le migliori intenzioni.
Ma debbo dire, a giustificazione del mio amico, che egli mi confessò che questo espediente gli fu
suggerito dal famoso Salmanazar, nativo dell’isola di Formosa, il quale venne a Londra piú di venti
anni fa e, parlando con lui, gli disse che al suo Paese, quando accadeva che qualche giovane fosse
condannato a morte, il boia vendeva il cadavere a qualche personaggio importante, come leccornia
di prima qualità, e che, ai suoi tempi, il corpo di una ragazza paffutella sui quindici anni, che era
stata crocifissa per tentato avvelenamento del re, era stato venduto al primo ministro di Sua Maestà
Imperiale e ad altri grandi mandarini della corte, a fette, appena tolta dalla forca, per quattrocento
corone. Effettivamente, non posso negare che se si facesse la stessa cosa con parecchie ragazze ben
nutrite di questa città, le quali, senza un soldo in loro possesso, non vanno fuori di casa se non in
portantina, e si fanno vedere a teatro ed alle riunioni coperte di abiti vistosi venuti dall’estero, che
non saranno mai loro a pagare, il Regno non andrebbe certo avanti peggio di ora.
Alcune persone, portate allo scoraggiamento, si preoccupano molto della grande quantità di poveri
in età avanzata, ammalati e storpi, e mi si è chiesto di indirizzare le mie riflessioni alla ricerca di
metodi atti a sollevare la nazione di un peso tanto gravoso. Però questa faccenda non mi preoccupa
punto, perché è noto che muoiono e vanno in putrefazione ogni giorno per freddo e fame, per la
sporcizia ed i pidocchi, con una rapidità che si può considerare ragionevole. Quanto ai braccianti
piú giovani, va detto che la loro attuale situazione non offre maggiori speranze. Non possono
trovare lavoro e, di conseguenza, deperiscono per mancanza di nutrizione, a tal segno che, se viene
loro affidato un qualsiasi comune lavoro, non sono in grado di farlo: e cosí il Paese e loro stessi
vengono ad essere felicemente liberati dei mali a venire.
La digressione è stata troppo lunga, e quindi ora torno al mio argomento. Io ritengo che i vantaggi
offerti dalla mia proposta siano molti e piú che evidenti, ed anche della massima importanza.
Primo: come ho già osservato, diminuirebbe enormemente il numero dei Papisti dai quali siamo
infestati annualmente, dato che, nella nazione, sono quelli che fanno piú figli, oltre ad essere i nostri
nemici piú pericolosi; e se restano in Patria, lo fanno di proposito, per consegnare il Regno al
Pretendente, sperando di trarre vantaggio dall’assenza di tanti buoni protestanti, che hanno preferito
abbandonare il loro Paese piuttosto che starsene a casa a pagare le decime contro coscienza ad un
coadiutore del vescovo.
Secondo: i poveri affittuari avranno dei beni di loro proprietà che, per legge, potranno essere resi
suscettibili di sequestro ed aiutare a pagare l’affitto al padrone, dal momento che grano e bestiame
sono già stati confiscati ed il denaro è cosa del tutto sconosciuta.
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Terzo: previsto che il mantenimento di circa centomila bambini dai due anni in su non può essere
calcolato di un costo inferiore a dieci scellini l’anno per ogni capo, il patrimonio della nazione
aumenterà in questo modo di cinquantamila sterline l’anno, senza tener conto della nuova pietanza
introdotta nelle mense di tutti i signori del Regno che siano di gusti raffinati; ed il denaro circolerà
fra di noi, essendo l’articolo completamente di nostra produzione e lavorazione.
Quarto: i produttori regolari, oltre al guadagno di otto scellini buoni, ottenuti annualmente con la
vendita dei bambini, si libereranno del peso di mantenerli dopo il primo anno di età.
Quinto: questa nuova pietanza porterà anche molti consumatori alle taverne, e gli osti avranno
certamente la precauzione di procurarsi le migliori ricette per prepararla alla perfezione; quindi i
loro locali saranno frequentati da tutti i signori di rango, che giustamente vengono valutati in base
alla conoscenza che hanno della buona cucina; ed un cuoco esperto, che sappia come conquistarsi il
favore della clientela, farà in modo di mantenere un prezzo che li saprà soddisfare.
Sesto: si avrebbe un grande incoraggiamento al matrimonio, che tutte le nazioni di buon senso
hanno cercato di favorire con premi, o imposto con leggi ed ammende. Aumenterebbe la cura e la
tenerezza delle madri per i bambini, quando fossero sicure di una sistemazione certa sin dall’inizio,
e procurata in qualche modo dalla comunità a loro annuo profitto, anziché, a loro carico; e ben
presto avremmo modo di vedere un’onesta emulazione fra le donne sposate nel portare al mercato il
bambino piú grasso. Gli uomini, durante la gravidanza della moglie, le sarebbero affezionati tanto
quanto lo sono ora alla cavalla, alla mucca o la scrofa prossima a figliare, né la minaccerebbero di
pugni e di calci (cosa purtroppo frequente nella pratica), per timore di un aborto.
Potrebbero elencarsi molti altri vantaggi. Ad esempio, l’aumento di qualche migliaio di esemplari
nella nostra esportazione di manzo in barile, la maggior diffusione della carne di porco, ed un
miglioramento nell’arte di fare il buon prosciutto che si trova in quantità tanto scarsa a cagione del
grande consumo che facciamo di maialini da latte, una pietanza troppo frequente nelle nostre mense
che tuttavia non è neppure alla lontana paragonabile, sia per il sapore sia per la figura che fa, a
quella fornita da un bambino di un anno, grasso e ben pasciuto: il quale, arrostito intero, farà una
splendida figura alla festa del sindaco della città o a qualsiasi altro ricevimento pubblico. Ma questo
ed altro voglio tralasciare, preoccupandomi di esser conciso.
Supponendo che mille famiglie in questa città comperino costantemente carne di bambino, in
aggiunta ad altri che potrebbero acquistarla in liete circostanze, particolarmente per i matrimoni e
per i battesimi, calcolo che Dublino consumerebbe annualmente circa ventimila esemplari, ed il
resto del Regno (in cui probabilmente verrebbe venduta ad un prezzo lievemente inferiore) i
rimanenti ventimila.
Io non prevedo obiezione possibile alla mia proposta, a meno che non si insista nel dire che la
popolazione del Regno in questo modo dimunuirebbe notevolmente. Lo ammetto ben volentieri, ed
è questo, di fatto, uno degli scopi principali della mia proposta. Prego il lettore di osservare che il
mio rimedio è destinato soltanto ed unicamente a questo Regno d’Irlanda e a nessun altro che sia
mai esistito, che esista o abbia ad esistere nel futuro sulla terra. Che quindi non mi si parli di altri
espedienti: di tassare di cinque scellini la sterlina i proprietari che non si curano delle loro terre; di
non usare abiti o mobili di casa che non siano di nostra produzione e lavorazione; di respingere tutti
i materiali e gli strumenti che favoriscano il lusso straniero; di guarire le nostre donne dalla mania
delle spese che fanno per orgoglio, vanità, pigrizia e passione del gioco; di introdurre una vena di
parsimonia, prudenza e temperanza; di imparare ad amare il nostro Paese, cosa in cui siamo diversi
persino dai Lapponi e dagli abitanti di Topinambu; di abbandonare la nostra animosità e la faziosità,
e di non comportarci piú come gli Ebrei, che si scannavano l’un l’altro persino nel momento in cui
la loro città veniva presa; di stare un po’ piú attenti a non vendere il nostro Paese e la nostra
coscienza per niente; di insegnare ai proprietari ad avere almeno un po’ di pietà per i loro affittuari.
Infine, di far entrare un po’ di onestà, di operosità e di capacità nello spirito dei nostri bottegai i
quali, se potesse ora esser presa la decisione di comprare soltanto merce nostra, si unirebbero
immediatamente per imbrogliarci e ricattarci sul prezzo, sulla misura e sulla qualità, né si sono mai
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potuti indurre a fare qualche proposta commerciale onesta e decente, nonostante siano stati spesso e
calorosamente invitati.
Pertanto, ripeto, che nessuno venga a parlarmi di questi espedienti o di altri del genere, finché non
abbia almeno un barlume di speranza che vi possa essere qualche generoso e sincero tentativo di
metterli in pratica.
Quanto a me, stanco com’ero di offrirvi utopie inutili ed oziose, alla fine disperavo ormai del
successo: quando per fortuna mi è venuta in mente questa proposta che, essendo interamente nuova,
presenta alcunché di solido e di concreto, è di nessuna spesa e di poco disturbo, rientra pienamente
nelle nostre possibilità di attuazione, e non fa correre il rischio di recar torto all’Inghilterra. Infatti
questo tipo di merce non tollera l’esportazione, perché la carne è di consistenza troppo tenera per
consentire una lunga durata nel sale; anche se forse io potrei nominare un Paese che sarebbe ben
contento di mangiarsi per intero tutta la nostra nazione anche senza questo condimento.
Dopo tutto, non sono cosí tenacemente avvinto alla mia idea da rifiutare qualsiasi proposta che
venga fatta da persone di buon senso, che sia altrettanto innocente, facile da mettersi in pratica,
efficace e di poco costo. Ma prima che qualcosa del genere venga presentato in concorrenza con il
mio progetto, offrendo qualcosa di meglio, desidero che l’autore, o gli autori, abbiano la cortesia di
ponderare a lungo due punti. Primo: stando le cose come stanno, come potranno trovare cibo e
vestiti per centomila bocche e spalle inutili. Secondo: esiste in questo Regno circa un milione di
creature in sembianze umane, le quali, pur mettendo insieme tutti i loro mezzi di sussistenza,
resterebbero con un debito di due milioni di sterline; mettiamo i mendicanti di professione insieme
con la massa di agricoltori, braccianti e giornalieri che, con le loro donne ed i bambini, sono
mendicanti di fatto: ed io invito quei politici, ai quali non garba il mio progetto, e che forse avranno
il coraggio di azzardare una risposta, ad andare a chiedere prima di tutto ai genitori di questi mortali
se non pensino, oggi come oggi, che sarebbe stata una grande fortuna quella di essere andati in
vendita come cibo di qualità all’età di un anno, alla maniera da me descritta, evitando cosí tutta una
serie di disgrazie come quelle da loro patite, per l’oppressione dei padroni, l’impossibilità di pagare
l’affitto senza aver denaro o commerci di qualche sorta, la mancanza dei mezzi piú elementari di
sussistenza, di abitazione e di abiti per ripararsi dalle intemperie, con la prospettiva inevitabile di
lasciare per sempre in eredità alla loro discendenza questi medesimi triboli, se non peggiori.
Dichiaro con tutta la sincerità del mio cuore che non ho il minimo interesse personale a cercar di
promuovere quest’opera necessaria e che non sono mosso da altro motivo che il bene generale del
mio Paese, nel miglioramento dei nostri commerci, nell’assistenza ai piccoli e l’aiuto ai bisognosi, e
nella possibilità di offrire qualche piacevole passatempo agli abbienti. Io non ho bambini dai quali
posso propormi di ricavare qualche soldo: il piú piccolo ha nove anni, e mia moglie ha ormai
passata l’età di averne ancora.
Testo originale:
A MODEST PROPOSAL For preventing the children of poor people in Ireland, from being a
burden on their parents or country, and for making them beneficial to the publick.
It is a melancholy object to those, who walk through this great town, or travel in the country, when they see
the streets, the roads and cabbin-doors crowded with beggars of the female sex, followed by three, four, or
six children, all in rags, and importuning every passenger for an alms. These mothers instead of being able to
work for their honest livelihood, are forced to employ all their time in stroling to beg sustenance for their
helpless infants who, as they grow up, either turn thieves for want of work, or leave their dear native country,
to fight for the Pretender in Spain, or sell themselves to the Barbadoes.
I think it is agreed by all parties, that this prodigious number of children in the arms, or on the backs, or at
the heels of their mothers, and frequently of their fathers, is in the present deplorable state of the kingdom, a
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very great additional grievance; and therefore whoever could find out a fair, cheap and easy method of
making these children sound and useful members of the common-wealth, would deserve so well of the
publick, as to have his statue set up for a preserver of the nation.
But my intention is very far from being confined to provide only for the children of professed beggars: it is
of a much greater extent, and shall take in the whole number of infants at a certain age, who are born of
parents in effect as little able to support them, as those who demand our charity in the streets.
As to my own part, having turned my thoughts for many years, upon this important subject, and maturely
weighed the several schemes of our projectors, I have always found them grossly mistaken in their
computation. It is true, a child just dropt from its dam, may be supported by her milk, for a solar year, with
little other nourishment: at most not above the value of two shillings, which the mother may certainly get, or
the value in scraps, by her lawful occupation of begging; and it is exactly at one year old that I propose to
provide for them in such a manner, as, instead of being a charge upon their parents, or the parish, or wanting
food and raiment for the rest of their lives, they shall, on the contrary, contribute to the feeding, and partly to
the cloathing of many thousands.
There is likewise another great advantage in my scheme, that it will prevent those voluntary abortions, and
that horrid practice of women murdering their bastard children, alas! too frequent among us, sacrificing the
poor innocent babes, I doubt, more to avoid the expence than the shame, which would move tears and pity in
the most savage and inhuman breast.
The number of souls in this kingdom being usually reckoned one million and a half, of these I calculate there
may be about two hundred thousand couple whose wives are breeders; from which number I subtract thirty
thousand couple, who are able to maintain their own children, (although I apprehend there cannot be so
many, under the present distresses of the kingdom) but this being granted, there will remain an hundred and
seventy thousand breeders. I again subtract fifty thousand, for those women who miscarry, or whose children
die by accident or disease within the year. There only remain an hundred and twenty thousand children of
poor parents annually born. The question therefore is, How this number shall be reared, and provided for?
which, as I have already said, under the present situation of affairs, is utterly impossible by all the methods
hitherto proposed. For we can neither employ them in handicraft or agriculture; we neither build houses, (I
mean in the country) nor cultivate land: they can very seldom pick up a livelihood by stealing till they arrive
at six years old; except where they are of towardly parts, although I confess they learn the rudiments much
earlier; during which time they can however be properly looked upon only as probationers: As I have been
informed by a principal gentleman in the county of Cavan, who protested to me, that he never knew above
one or two instances under the age of six, even in a part of the kingdom so renowned for the quickest
proficiency in that art.
I am assured by our merchants, that a boy or a girl before twelve years old, is no saleable commodity, and
even when they come to this age, they will not yield above three pounds, or three pounds and half a crown at
most, on the exchange; which cannot turn to account either to the parents or kingdom, the charge of
nutriments and rags having been at least four times that value.
I shall now therefore humbly propose my own thoughts, which I hope will not be liable to the least objection.
I have been assured by a very knowing American of my acquaintance in London, that a young healthy child
well nursed, is, at a year old, a most delicious nourishing and wholesome food, whether stewed, roasted,
baked, or boiled; and I make no doubt that it will equally serve in a fricasie, or a ragoust.
I do therefore humbly offer it to publick consideration, that of the hundred and twenty thousand children,
already computed, twenty thousand may be reserved for breed, whereof only one fourth part to be males;
which is more than we allow to sheep, black cattle, or swine, and my reason is, that these children are seldom
the fruits of marriage, a circumstance not much regarded by our savages, therefore, one male will be
sufficient to serve four females. That the remaining hundred thousand may, at a year old, be offered in sale to
the persons of quality and fortune, through the kingdom, always advising the mother to let them suck
plentifully in the last month, so as to render them plump, and fat for a good table. A child will make two
dishes at an entertainment for friends, and when the family dines alone, the fore or hind quarter will make a
reasonable dish, and seasoned with a little pepper or salt, will be very good boiled on the fourth day,
especially in winter.
I have reckoned upon a medium, that a child just born will weigh 12 pounds, and in a solar year, if tolerably
nursed, encreaseth to 28 pounds.
I grant this food will be somewhat dear, and therefore very proper for landlords, who, as they have already
devoured most of the parents, seem to have the best title to the children.
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Infant's flesh will be in season throughout the year, but more plentiful in March, and a little before and after;
for we are told by a grave author, an eminent French physician, that fish being a prolifick dyet, there are
more children born in Roman Catholick countries about nine months after Lent, the markets will be more
glutted than usual, because the number of Popish infants, is at least three to one in this kingdom, and
therefore it will have one other collateral advantage, by lessening the number of Papists among us.
I have already computed the charge of nursing a beggar's child (in which list I reckon all cottagers, labourers,
and four-fifths of the farmers) to be about two shillings per annum, rags included; and I believe no gentleman
would repine to give ten shillings for the carcass of a good fat child, which, as I have said, will make four
dishes of excellent nutritive meat, when he hath only some particular friend, or his own family to dine with
him. Thus the squire will learn to be a good landlord, and grow popular among his tenants, the mother will
have eight shillings neat profit, and be fit for work till she produces another child.
Those who are more thrifty (as I must confess the times require) may flea the carcass; the skin of which,
artificially dressed, will make admirable gloves for ladies, and summer boots for fine gentlemen.
As to our City of Dublin, shambles may be appointed for this purpose, in the most convenient parts of it, and
butchers we may be assured will not be wanting; although I rather recommend buying the children alive, and
dressing them hot from the knife, as we do roasting pigs.
A very worthy person, a true lover of his country, and whose virtues I highly esteem, was lately pleased, in
discoursing on this matter, to offer a refinement upon my scheme. He said, that many gentlemen of this
kingdom, having of late destroyed their deer, he conceived that the want of venison might be well supply'd
by the bodies of young lads and maidens, not exceeding fourteen years of age, nor under twelve; so great a
number of both sexes in every country being now ready to starve for want of work and service: And these to
be disposed of by their parents if alive, or otherwise by their nearest relations. But with due deference to so
excellent a friend, and so deserving a patriot, I cannot be altogether in his sentiments; for as to the males, my
American acquaintance assured me from frequent experience, that their flesh was generally tough and lean,
like that of our school-boys, by continual exercise, and their taste disagreeable, and to fatten them would not
answer the charge. Then as to the females, it would, I think, with humble submission, be a loss to the
publick, because they soon would become breeders themselves: And besides, it is not improbable that some
scrupulous people might be apt to censure such a practice, (although indeed very unjustly) as a little
bordering upon cruelty, which, I confess, hath always been with me the strongest objection against any
project, how well soever intended.
But in order to justify my friend, he confessed, that this expedient was put into his head by the famous
Salmanaazor, a native of the island Formosa, who came from thence to London, above twenty years ago, and
in conversation told my friend, that in his country, when any young person happened to be put to death, the
executioner sold the carcass to persons of quality, as a prime dainty; and that, in his time, the body of a
plump girl of fifteen, who was crucified for an attempt to poison the Emperor, was sold to his imperial
majesty's prime minister of state, and other great mandarins of the court in joints from the gibbet, at four
hundred crowns. Neither indeed can I deny, that if the same use were made of several plump young girls in
this town, who without one single groat to their fortunes, cannot stir abroad without a chair, and appear at a
play-house and assemblies in foreign fineries which they never will pay for; the kingdom would not be the
worse.
Some persons of a desponding spirit are in great concern about that vast number of poor people, who are
aged, diseased, or maimed; and I have been desired to employ my thoughts what course may be taken, to
ease the nation of so grievous an incumbrance. But I am not in the least pain upon that matter, because it is
very well known, that they are every day dying, and rotting, by cold and famine, and filth, and vermin, as
fast as can be reasonably expected. And as to the young labourers, they are now in almost as hopeful a
condition. They cannot get work, and consequently pine away from want of nourishment, to a degree, that if
at any time they are accidentally hired to common labour, they have not strength to perform it, and thus the
country and themselves are happily delivered from the evils to come.
I have too long digressed, and therefore shall return to my subject. I think the advantages by the proposal
which I have made are obvious and many, as well as of the highest importance.
For first, as I have already observed, it would greatly lessen the number of Papists, with whom we are yearly
over-run, being the principal breeders of the nation, as well as our most dangerous enemies, and who stay at
home on purpose with a design to deliver the kingdom to the Pretender, hoping to take their advantage by the
absence of so many good Protestants, who have chosen rather to leave their country, than stay at home and
pay tithes against their conscience to an episcopal curate.
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Secondly, The poorer tenants will have something valuable of their own, which by law may be made liable
to a distress, and help to pay their landlord's rent, their corn and cattle being already seized, and money a
thing unknown.
Thirdly, Whereas the maintainance of an hundred thousand children, from two years old, and upwards,
cannot be computed at less than ten shillings a piece per annum, the nation's stock will be thereby encreased
fifty thousand pounds per annum, besides the profit of a new dish, introduced to the tables of all gentlemen
of fortune in the kingdom, who have any refinement in taste. And the money will circulate among our selves,
the goods being entirely of our own growth and manufacture.
Fourthly, The constant breeders, besides the gain of eight shillings sterling per annum by the sale of their
children, will be rid of the charge of maintaining them after the first year.
Fifthly, This food would likewise bring great custom to taverns, where the vintners will certainly be so
prudent as to procure the best receipts for dressing it to perfection; and consequently have their houses
frequented by all the fine gentlemen, who justly value themselves upon their knowledge in good eating; and
a skilful cook, who understands how to oblige his guests, will contrive to make it as expensive as they
please.
Sixthly, This would be a great inducement to marriage, which all wise nations have either encouraged by
rewards, or enforced by laws and penalties. It would encrease the care and tenderness of mothers towards
their children, when they were sure of a settlement for life to the poor babes, provided in some sort by the
publick, to their annual profit instead of expence. We should soon see an honest emulation among the
married women, which of them could bring the fattest child to the market. Men would become as fond of
their wives, during the time of their pregnancy, as they are now of their mares in foal, their cows in calf, or
sow when they are ready to farrow; nor offer to beat or kick them (as is too frequent a practice) for fear of a
miscarriage.
Many other advantages might be enumerated. For instance, the addition of some thousand carcasses in our
exportation of barrel'd beef: the propagation of swine's flesh, and improvement in the art of making good
bacon, so much wanted among us by the great destruction of pigs, too frequent at our tables; which are no
way comparable in taste or magnificence to a well grown, fat yearly child, which roasted whole will make a
considerable figure at a Lord Mayor's feast, or any other publick entertainment. But this, and many others, I
omit, being studious of brevity.
Supposing that one thousand families in this city, would be constant customers for infants flesh, besides
others who might have it at merry meetings, particularly at weddings and christenings, I compute that Dublin
would take off annually about twenty thousand carcasses; and the rest of the kingdom (where probably they
will be sold somewhat cheaper) the remaining eighty thousand.
I can think of no one objection, that will possibly be raised against this proposal, unless it should be urged,
that the number of people will be thereby much lessened in the kingdom. This I freely own, and 'twas indeed
one principal design in offering it to the world. I desire the reader will observe, that I calculate my remedy
for this one individual Kingdom of Ireland, and for no other that ever was, is, or, I think, ever can be upon
Earth. Therefore let no man talk to me of other expedients: Of taxing our absentees at five shillings a pound:
Of using neither cloaths, nor houshold furniture, except what is of our own growth and manufacture: Of
utterly rejecting the materials and instruments that promote foreign luxury: Of curing the expensiveness of
pride, vanity, idleness, and gaming in our women: Of introducing a vein of parsimony, prudence and
temperance: Of learning to love our country, wherein we differ even from Laplanders, and the inhabitants of
Topinamboo: Of quitting our animosities and factions, nor acting any longer like the Jews, who were
murdering one another at the very moment their city was taken: Of being a little cautious not to sell our
country and consciences for nothing: Of teaching landlords to have at least one degree of mercy towards
their tenants. Lastly, of putting a spirit of honesty, industry, and skill into our shop-keepers, who, if a
resolution could now be taken to buy only our native goods, would immediately unite to cheat and exact
upon us in the price, the measure, and the goodness, nor could ever yet be brought to make one fair proposal
of just dealing, though often and earnestly invited to it.
Therefore I repeat, let no man talk to me of these and the like expedients, 'till he hath at least some glympse
of hope, that there will ever be some hearty and sincere attempt to put them into practice.
But, as to my self, having been wearied out for many years with offering vain, idle, visionary thoughts, and
at length utterly despairing of success, I fortunately fell upon this proposal, which, as it is wholly new, so it
hath something solid and real, of no expence and little trouble, full in our own power, and whereby we can
incur no danger in disobliging England. For this kind of commodity will not bear exportation, and flesh
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being of too tender a consistence, to admit a long continuance in salt, although perhaps I could name a
country, which would be glad to eat up our whole nation without it.
After all, I am not so violently bent upon my own opinion, as to reject any offer, proposed by wise men,
which shall be found equally innocent, cheap, easy, and effectual. But before something of that kind shall be
advanced in contradiction to my scheme, and offering a better, I desire the author or authors will be pleased
maturely to consider two points. First, As things now stand, how they will be able to find food and raiment
for a hundred thousand useless mouths and backs. And secondly, There being a round million of creatures in
humane figure throughout this kingdom, whose whole subsistence put into a common stock, would leave
them in debt two million of pounds sterling, adding those who are beggars by profession, to the bulk of
farmers, cottagers and labourers, with their wives and children, who are beggars in effect; I desire those
politicians who dislike my overture, and may perhaps be so bold to attempt an answer, that they will first ask
the parents of these mortals, whether they would not at this day think it a great happiness to have been sold
for food at a year old, in the manner I prescribe, and thereby have avoided such a perpetual scene of
misfortunes, as they have since gone through, by the oppression of landlords, the impossibility of paying rent
without money or trade, the want of common sustenance, with neither house nor cloaths to cover them from
the inclemencies of the weather, and the most inevitable prospect of intailing the like, or greater miseries,
upon their breed for ever.
I profess, in the sincerity of my heart, that I have not the least personal interest in endeavouring to promote
this necessary work, having no other motive than the publick good of my country, by advancing our trade,
providing for infants, relieving the poor, and giving some pleasure to the rich. I have no children, by which I
can propose to get a single penny; the youngest being nine years old, and my wife past child-bearing.
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GIACOMO LEOPARDI
Dialogo di Tristano e di un amico
(1832; in Operette morali, 1834)
Amico. Ho letto il vostro libro. Malinconico al vostro solito.
Tristano. Sì, al mio solito.
Amico. Malinconico, sconsolato, disperato; si vede che questa vita vi pare una gran brutta cosa.
Tristano. Che v'ho a dire? io aveva fitta in capo questa pazzia, che la vita umana fosse infelice.
Amico. Infelice sì forse. Ma pure alla fine . . .
Tristano. No no, anzi felicissima. Ora ho cambiata opinione. Ma quando scrissi cotesto libro, io
aveva quella pazzia in capo, come vi dico. E n'era tanto persuaso, che tutt'altro mi sarei aspettato,
fuorché sentirmi volgere in dubbio le osservazioni ch'io faceva in quel proposito, parendomi che la
coscienza d'ogni lettore dovesse rendere prontissima testimonianza a ciascuna di esse. Solo
immaginai che nascesse disputa dell'utilità o del danno di tali osservazioni, ma non mai della verità:
anzi mi credetti che le mie voci lamentevoli, per essere i mali comuni, sarebbero ripetute in cuore
da ognuno che le ascoltasse. E sentendo poi negarmi, non qualche proposizione particolare, ma il
tutto, e dire che la vita non è infelice, e che se a me pareva tale, doveva essere effetto d'infermità, o
d'altra miseria mia particolare, da prima rimasi attonito, sbalordito, immobile come un sasso, e per
più giorni credetti di trovarmi in un altro mondo; poi, tornato in me stesso, mi sdegnai un poco; poi
risi, e dissi: gli uomini sono in generale come i mariti. I mariti, se vogliono viver tranquilli, è
necessario che credano le mogli fedeli, ciascuno la sua; e così fanno; anche quando la metà del
mondo sa che il vero e tutt'altro. Chi vuole o dee vivere in un paese, conviene che lo creda uno dei
migliori della terra abitabile; e lo crede tale. Gli uomini universalmente, volendo vivere, conviene
che credano la vita bella e pregevole; e tale la credono; e si adirano contro chi pensa altrimenti.
Perché in sostanza il genere umano crede sempre, non il vero, ma quello che è, o pare che sia, più a
proposito suo. Il genere umano, che ha creduto e crederà tante scempiataggini, non crederà mai né
di non saper nulla, né di non essere nulla, né di non aver nulla a sperare. Nessun filosofo che
insegnasse l'una di queste tre cose, avrebbe fortuna né farebbe setta, specialmente nel popolo:
perché, oltre che tutte tre sono poco a proposito di chi vuol vivere, le due prime offendono la
superbia degli uomini, la terza, anzi ancora le altre due, vogliono coraggio e fortezza d'animo a
essere credute. E gli uomini sono codardi, deboli, d'animo ignobile e angusto; docili sempre a sperar
bene, perché sempre dediti a variare le opinioni del bene secondo che la necessità governa la loro
vita; prontissimi a render l'arme, come dice il Petrarca, alla loro fortuna, prontissimi e risolutissimi
a consolarsi di qualunque sventura, ad accettare qualunque compenso in cambio di ciò che loro è
negato o di ciò che hanno perduto, ad accomodarsi con qualunque condizione a qualunque sorte più
iniqua e più barbara, e quando sieno privati d'ogni cosa desiderabile, vivere di credenze false, così
gagliarde e ferme, come se fossero le più vere o le più fondate del mondo. Io per me, come l'Europa
meridionale ride dei mariti innamorati delle mogli infedeli, così rido del genere umano innamorato
della vita; e giudico assai poco virile il voler lasciarsi ingannare e deludere come sciocchi, ed oltre
ai mali che si soffrono, essere quasi lo scherno della natura e del destino. Parlo sempre degl'inganni
non dell'immaginazione, ma dell'intelletto. Se questi miei sentimenti nascano da malattia, non so: so
che, malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogn'inganno
puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il
deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell'infelicità umana, ed accettare tutte le
conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera. La quale se non è utile ad altro, procura agli uomini
forti la fiera compiacenza di vedere strappato ogni manto alla coperta e misteriosa crudeltà del
destino umano. Io diceva queste cose fra me, quasi come se quella filosofia dolorosa fosse
d'invenzione mia; vedendola così rifiutata da tutti, come si rifiutano le cose nuove e non più sentite.
Ma poi, ripensando, mi ricordai ch'ella era tanto nuova, quanto Salomone e quanto Omero, e i poeti
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e i filosofi più antichi che si conoscano; i quali tutti sono pieni pienissimi di figure, di favole, di
sentenze significanti l'estrema infelicità umana; e chi di loro dice che l'uomo è il più miserabile
degli animali; chi dice che il meglio è non nascere, e per chi è nato, morire in cuna; altri, che uno
che sia caro agli Dei, muore in giovanezza, ed altri altre cose infinite su questo andare. E anche mi
ricordai che da quei tempi insino a ieri o all'altr'ieri, tutti i poeti e tutti i filosofi e gli scrittori grandi
e piccoli, in un modo o in un altro, avevano ripetute o confermate le stesse dottrine. Sicché tornai di
nuovo a maravigliarmi: e così tra la maraviglia e lo sdegno e il riso passai molto tempo: finché
studiando più profondamente questa materia, conobbi che l'infelicità dell'uomo era uno degli errori
inveterati dell'intelletto, e che la falsità di questa opinione, e la felicità della vita, era una delle
grandi scoperte del secolo decimonono. Allora m'acquetai, e confesso ch'io aveva il torto a credere
quello ch'io credeva.
Amico. E avete cambiata opinione?
Tristano. Sicuro. Volete voi ch'io contrasti alle verità scoperte dal secolo decimonono?
Amico. E credete voi tutto quello che crede il secolo?
Tristano. Certamente. Oh che maraviglia?
Amico. Credete dunque alla perfettibilità indefinita dell'uomo?
Tristano. Senza dubbio.
Amico. Credete che in fatti la specie umana vada ogni giorno migliorando?
Tristano. Sì certo. È ben vero che alcune volte penso che gli antichi valevano, delle forze del
corpo, ciascuno per quattro di noi. E il corpo e l'uomo; perché (lasciando tutto il resto) la
magnanimità, il coraggio, le passioni, la potenza di fare, la potenza di godere, tutto ciò che fa nobile
e viva la vita, dipende dal vigore del corpo, e senza quello non ha luogo. Uno che sia debole di
corpo, non è uomo, ma bambino; anzi peggio; perché la sua sorte è di stare a vedere gli altri che
vivono, ed esso al più chiacchierare, ma la vita non è per lui. E però anticamente la debolezza del
corpo fu ignominiosa, anche nei secoli più civili. Ma tra noi già da lunghissimo tempo l'educazione
non si degna di pensare al corpo, cosa troppo bassa e abbietta: pensa allo spirito: e appunto volendo
coltivare lo spirito, rovina il corpo: senza avvedersi che rovinando questo, rovina a vicenda anche lo
spirito. E dato che si potesse rimediare in ciò all'educazione, non si potrebbe mai senza mutare
radicalmente lo stato moderno della società, trovare rimedio che valesse in ordine alle altre parti
della vita privata e pubblica, che tutte, di proprietà loro, cospirarono anticamente a perfezionare o a
conservare il corpo, e oggi cospirano a depravarlo. L'effetto è che a paragone degli antichi noi
siamo poco più che bambini, e che gli antichi a confronto nostro si può dire più che mai che furono
uomini. Parlo così degl'individui paragonati agl'individui, come delle masse (per usare questa
leggiadrissima parola moderna) paragonate alle masse. Ed aggiungo che gli antichi furono
incomparabilmente più virili di noi anche ne' sistemi di morale e di metafisica. A ogni modo io non
mi lascio muovere da tali piccole obbiezioni, credo costantemente che la specie umana vada sempre
acquistando.
Amico. Credete ancora, già s'intende, che il sapere, o, come si dice, i lumi, crescano continuamente.
Tristano. Certissimo. Sebbene vedo che quanto cresce la volontà d'imparare, tanto scema quella di
studiare. Ed è cosa che fa maraviglia a contare il numero dei dotti, ma veri dotti, che vivevano
contemporaneamente cencinquant'anni addietro, e anche più tardi, e vedere quanto fosse
smisuratamente maggiore di quello dell'età presente. Né mi dicano che i dotti sono pochi perché in
generale le cognizioni non sono più accumulate in alcuni individui ma divise fra molti; e che la
copia di questi compensa la rarità di quelli. Le cognizioni non sono come le ricchezze, che si
dividono e si adunano, e sempre fanno la stessa somma. Dove tutti sanno poco, e' si sa poco; perché
la scienza va dietro alla scienza, e non si sparpaglia. L'istruzione superficiale può essere, non
propriamente divisa fra molti, ma comune a molti non dotti. Il resto del sapere non appartiene se
non a chi sia dotto, e gran parte di quello a chi sia dottissimo. E, levati i casi fortuiti, solo chi sia
dottissimo, e fornito esso individualmente di un immenso capitale di cognizioni, è atto ad accrescere
solidamente e condurre innanzi il sapere umano. Ora, eccetto forse in Germania, donde la dottrina
non è stata ancora potuta snidare, non vi par egli che il veder sorgere di questi uomini dottissimi
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divenga ogni giorno meno possibile? Io fo queste riflessioni così per discorrere, e per filosofare un
poco, o forse sofisticare; non ch'io non sia persuaso di ciò che voi dite. Anzi quando anche vedessi
il mondo tutto pieno d'ignoranti impostori da un lato, e d'ignoranti presuntuosi dall'altro, nondimeno
crederei, come credo, che il sapere e i lumi crescano di continuo.
Amico. In conseguenza, credete che questo secolo sia superiore a tutti i passati.
Tristano. Sicuro. Così hanno creduto di sé tutti i secoli, anche i più barbari; e così crede il mio
secolo, ed io con lui. Se poi mi dimandaste in che sia egli superiore agli altri secoli, se in ciò che
appartiene al corpo o in ciò che appartiene allo spirito, mi rimetterei alle cose dette dianzi.
Amico. In somma, per ridurre il tutto in due parole, pensate voi circa la natura e i destini degli
uomini e delle cose (poiché ora non parliamo di letteratura né di politica) quello che ne pensano i
giornali?
Tristano. Appunto. Credo ed abbraccio la profonda filosofia de' giornali, i quali uccidendo ogni
altra letteratura e ogni altro studio, massimamente grave e spiacevole, sono maestri e luce dell'età
presente. Non è vero?
Amico. Verissimo. Se cotesto che dite, è detto da vero e non da burla, voi siete diventato de' nostri.
Tristano. Sì certamente, de' vostri.
Amico. Oh dunque, che farete del vostro libro? Volete che vada ai posteri con quei sentimenti così
contrari alle opinioni che ora avete?
Tristano. Ai posteri? Io rido, perché voi scherzate; e se fosse possibile che non ischerzaste, più
riderei. Non dirò a riguardo mio, ma a riguardo d'individui o di cose individuali del secolo
decimonono, intendete bene che non v'è timore di posteri, i quali ne sapranno tanto, quanto ne
seppero gli antenati. Gl'individui sono spariti dinanzi alle masse, dicono elegantemente i pensatori
moderni. Il che vuol dire ch'è inutile che l'individuo si prenda nessun incomodo, poiché, per
qualunque suo merito, né anche quel misero premio della gloria gli resta più da sperare né in vigilia
né in sogno. Lasci fare alle masse; le quali che cosa sieno per fare senza individui, essendo
composte d'individui, desidero e spero che me lo spieghino gl'intendenti d'individui e di masse, che
oggi illuminano il mondo. Ma per tornare al proposito del libro e de' posteri, i libri specialmente,
che ora per lo più si scrivono in minor tempo che non ne bisogna a leggerli, vedete bene che,
siccome costano quel che vagliono, così durano a proporzione di quel che costano. Io per me credo
che il secolo venturo farà un bellissimo frego sopra l'immensa bibliografia del secolo decimonono;
ovvero dirà: io ho biblioteche intere di libri che sono costati quali venti, quali trenta anni di fatiche,
e quali meno, ma tutti grandissimo lavoro. Leggiamo questi prima, perché la verisimiglianza è che
da loro si cavi maggior costrutto; e quando di questa sorta non avrò più che leggere, allora metterò
mano ai libri improvvisati. Amico mio, questo secolo è un secolo di ragazzi, e i pochissimi uomini
che rimangono, si debbono andare a nascondere per vergogna, come quello che camminava diritto
in paese di zoppi. E questi buoni ragazzi vogliono fare in ogni cosa quello che negli altri tempi
hanno fatto gli uomini, e farlo appunto da ragazzi, così a un tratto senza altre fatiche preparatorie.
Anzi vogliono che il grado al quale è pervenuta la civiltà, e che l'indole del tempo presente e futuro,
assolvano essi e loro successori in perpetuo da ogni necessità di sudori e fatiche lunghe per divenire
atti alle cose. Mi diceva, pochi giorni sono, un mio amico, uomo di maneggi e di faccende, che
anche la mediocrità è divenuta rarissima; quasi tutti sono inetti, quasi tutti insufficienti a quegli
uffici o a quegli esercizi a cui necessità o fortuna o elezione gli ha destinati. In ciò mi pare che
consista in parte la differenza ch'è da questo agli altri secoli. In tutti gli altri, come in questo, il
grande è stato rarissimo; ma negli altri la mediocrità ha tenuto il campo, in questo la nullità. Onde è
tale il romore e la confusione, volendo tutti esser tutto, che non si fa nessuna attenzione ai pochi
grandi che pure credo che vi sieno; ai quali, nell'immensa moltitudine de' concorrenti, non è più
possibile di aprirsi una via. E così, mentre tutti gl'infimi si credono illustri, l'oscurità e la nullità
dell'esito diviene il fato comune e degl'infimi e de' sommi. Ma viva la statistica! vivano le scienze
economiche, morali e politiche, le enciclopedie portatili, i manuali, e le tante belle creazioni del
nostro secolo! e viva sempre il secolo decimonono! forse povero di cose, ma ricchissimo e
larghissimo di parole: che sempre fu segno ottimo, come sapete. E consoliamoci, che per altri
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sessantasei anni, questo secolo sarà il solo che parli, e dica le sue ragioni.
Amico. Voi parlate, a quanto pare, un poco ironico. Ma dovreste almeno all'ultimo ricordarvi che
questo è un secolo di transizione.
Tristano. Oh che conchiudete voi da cotesto? Tutti i secoli, più o meno, sono stati e saranno di
transizione, perché la società umana non istà mai ferma, né mai verrà secolo nel quale ella abbia
stato che sia per durare. Sicché cotesta bellissima parola o non iscusa punto il secolo decimonono, o
tale scusa gli è comune con tutti i secoli. Resta a cercare, andando la società per la via che oggi si
tiene, a che si debba riuscire, cioè se la transizione che ora si fa, sia dal bene al meglio o dal male al
peggio. Forse volete dirmi che la presente è transizione per eccellenza, cioè un passaggio rapido da
uno stato della civiltà ad un altro diversissimo dal precedente. In tal caso chiedo licenza di ridere di
cotesto passaggio rapido, e rispondo che tutte le transizioni conviene che sieno fatte adagio; perché
se si fanno a un tratto, di là a brevissimo tempo si torna indietro, per poi rifarle a grado a grado.
Così è accaduto sempre. La ragione è, che la natura non va a salti, e che forzando la natura, non si
fanno effetti che durino, Ovvero, per dir meglio, quelle tali transizioni precipitose sono transizioni
apparenti, ma non reali.
Amico. Vi prego, non fate di cotesti discorsi con troppe persone, perché vi acquisterete molti
nemici.
Tristano. Poco importa. Oramai né nimici né amici mi faranno gran male.
Amico. O più probabilmente sarete disprezzato, come poco intendente della filosofia moderna, e
poco curante del progresso della civiltà e dei lumi.
Tristano. Mi dispiace molto, ma che s'ha a fare? se mi disprezzeranno, cercherò di consolarmene.
Amico. Ma in fine avete voi mutato opinioni o no? e che s'ha egli a fare di questo libro?
Tristano. Bruciarlo è il meglio. Non lo volendo bruciare, serbarlo come un libro di sogni poetici,
d'invenzioni e di capricci malinconici, ovvero come un'espressione dell'infelicità dell'autore: perché
in confidenza, mio caro amico, io credo felice voi e felici tutti gli altri; ma io quanto a me, con
licenza vostra e del secolo, sono infelicissimo; e tale mi credo; e tutti i giornali de' due mondi non
mi persuaderanno il contrario.
Amico. Io non conosco le cagioni di cotesta infelicità che dite. Ma se uno sia felice o infelice
individualmente, nessuno è giudice se non la persona stessa, e il giudizio di questa non può fallare.
Tristano. Verissimo. E di più vi dico francamente, ch'io non mi sottometto alla mia infelicità, né
piego il capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri uomini; e ardisco desiderare la
morte, e desiderarla sopra ogni cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità, con quanta credo
fermamente che non sia desiderata al mondo se non da pochissimi. Né vi parlerei così se non fossi
ben certo che, giunta l'ora, il fatto non ismentirà le mie parole; perché quantunque io non vegga
ancora alcun esito alla mia vita, pure ho un sentimento dentro, che quasi mi fa sicuro che l'ora ch'io
dico non sia lontana. Troppo sono maturo alla morte, troppo mi pare assurdo e incredibile di dovere,
così morto come sono spiritualmente, così conchiusa in me da ogni parte la favola della vita, durare
ancora quaranta o cinquant'anni, quanti mi sono minacciati dalla natura. Al solo pensiero di questa
cosa io rabbrividisco. Ma come ci avviene di tutti quei mali che vincono, per così dire, la forza
immaginativa, così questo mi pare un sogno e un'illusione, impossibile a verificarsi. Anzi se
qualcuno mi parla di un avvenire lontano come di cosa che mi appartenga, non posso tenermi dal
sorridere fra me stesso: tanta confidenza ho che la via che mi resta a compiere non sia lunga. E
questo, posso dire, è il solo pensiero che mi sostiene. Libri e studi, che spesso mi maraviglio d'aver
tanto amato, disegni di cose grandi, e speranze di gloria e d'immortalità, sono cose delle quali è
anche passato il tempo di ridere. Dei disegni e delle speranze di questo secolo non rido: desidero
loro con tutta l'anima ogni miglior successo possibile, e lodo, ammiro ed onoro altamente e
sincerissimamente il buon volere: ma non invidio però i posteri, né quelli che hanno ancora a vivere
lungamente. In altri tempi ho invidiato gli sciocchi e gli stolti, e quelli che hanno un gran concetto
di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con qualcuno di loro. Oggi non invidio più né stolti
né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. Invidio i morti, e solamente con loro mi
cambierei. Ogni immaginazione piacevole, ogni pensiero dell'avvenire, ch'io fo, come accade, nella
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mia solitudine, e con cui vo passando il tempo, consiste nella morte, e di là non sa uscire. Né in
questo desiderio la ricordanza dei sogni della prima età, e il pensiero d'esser vissuto invano, mi
turbano più, come solevano. Se ottengo la morte morrò così tranquillo e così contento, come se mai
null'altro avessi sperato né desiderato al mondo. Questo e il solo benefizio che può riconciliarmi al
destino. Se mi fosse proposta da un lato la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni
macchia, dall'altro di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir oggi, e non vorrei tempo a
risolvermi.
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JULES LAFORGUE
AMLETO ovvero Le conseguenze della pietà filiale
(da Moralità leggendarie, 1887)
È più forte di me
Dalla finestra diletta, così belante ad aprirsi con i fragili vetri gialli fermati tra losanghe di piombo,
Amleto personaggio bizzarro poteva, quando gli cantava, fare dei cerchi nell'acqua, come dire nel
cielo. Questo fu il punto di partenza del suo cogitare e aberrare.
La torre, dove il giovane principe s'era fermamente costretto a vivere dopo l'anomalo paterno
decesso, s'erge lebbrosa e trascurata scolta in fondo al parco reale, sulla riva del mare che è di tutti.
Tale angolo di parco è la cloaca che convoglia i rifiuti delle serre, gli spenti mazzolini degli effimeri
balli. Il mare è il Sund, ai cui flutti non ci si può affidare, con la costa della Norvegia in vista o la
città di Elsinborg, nido al malagiato e pratico principe Fortebraccio.
L'assise della torre, dove il giovane e sventurato principe si è fermamente costretto a vivere,
funghisce in riva a un'ansa stagnante che lo stesso Sund tende a arricchire con le schiume meno
chiare dei suoi quotidiani e anonimi travagli.
Povera ansa stagnante! Le flottiglie dei cigni regali dall'occhio lepido non vi fanno punto scalo. Dal
fondo, lutulento per masse filamentose, salgono nei crepuscoli piovorni fino alla finestra di questo
principe così umano i cori d'intere schiatte di rospi, viscidi rantoli espettorati da vecchi catarrosi cui
una minima variazione atmosferica basta a rimuovere i reumatismi o le tenaci cove. E gli estremi
risucchi delle navi da carico, come i perpetui acquazzoni, riescono a malapena a rimuovere la
cutanea lebbra di quest'angolo d'acqua decrepita, ossidata da una scia bavosa di fiele (come della
malachite liquida), qua imbrattata da mucchi di foglie piatte a forma di cuore attorno a dei
rudimentali tulipani gialli, là irta di magri ciuffi di giunchi fioriti, di fragili ombrelle che, sia detto
per inciso, ricordano il fiore della carota dei nostri climi.
Povera ansa! Rospi di casa e fioriture irresponsabili. E povero angolo di parco! mazzolini buttati via
da giovani donne proprio al rintocco di mezzanotte. E povero Sund! flutti svillaneggiati dai
capricciosi altani, rimpianti inviliti dalle più che usuali faccende di un Fortebraccio dirimpettaio!...
Ecco perché (salvo burrasche) questo cantuccio d'acqua è davvero lo specchio dello sventurato
principe Amleto, nella sua torre di paria, nella sua camera con due finestre vetrate di giallo che
danno l'una sul grigio sporco dei cieli, sullo slargo e su un'esistenza senz'uscita, e l'altra che si
spalanca al gemito perenne del vento tra gli alberi d'alto fusto del parco. Povera stanza così
strapazzata in seno a un inguaribile, insolvibile autunno! Perfino di luglio, come oggi. È oggi il 14
luglio del 1601, un sabato; e domani è domenica: nel mondo intero le ragazze andranno
candidamente a messa.
Ai muri, una dozzina di vedute dello Jutland, quadri irreprensibilmente ingenui, ordinati tempo
addietro a un pittore condannato alle galere e che le stanze del castello vedono esposti a dozzine.
Tra le due finestre, due ritratti al naturale; il primo è di Amleto, molto mondano, con un pollice
infilato nella cinta di cuoio grezzo e un sorriso accattivante dal fondo di una penombra sulfurea; il
secondo è di suo padre, calato entro una bella armatura nuova, con l'occhio malizioso e faunesco: fu
suo padre il re Orwendill, anomalmente deceduto in stato di peccato mortale e che Dio, secondo la
ben nota misericordia, si tenga l'anima. Su un tavolo, nella luce d'insonnia dei vetri gialli, tutto un
corredo d'acquefortista irrimediabilmente corroso da sporche amenità. Un ricettacolo graveolente di
libri, un piccolo organo, uno specchio alto da terra, una sdraio; e una credenza col suo segreto (la
paura di morire avvelenato dopo il losco paterno decesso). Nella stanza da letto, in prossimità del
letto, un'edicola gotica in ferro battuto che per un gioco di chiavi è in grado di esibire due statuette
di cera: Gheruta madre di Amleto e il suo attuale marito, l'adultero e fratricida usurpatore Fengo,
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modellati entrambi da un pollice ricco in estro vendicativo, e con il cuore puerilmente trafitto da un
ago - il bel vantaggio! In fondo all'alcova, ahimé, una doccia.
Nerovestito, con lo spadino al fianco e con in capo il suo sombrero da nottambulo, Amleto, i gomiti
sul davanzale, contempla il Sund, il vasto e laborioso Sund che smercia il solito flusso di anonimi
flutti, aspettando che il vento e l'ora offrano il destro per qualche superbo scherzo mancino a danno
delle povere barche dei pescatori (unico svago alla fatalità che li opprime).
Dopo il cielo di ieri e in previsione di quello di domani, oggi è una giornataccia livida siennò
alleggerita dal recente acquazzone, che però promette una bella domenica per l'indomani. È già il
crepuscolo, uno di quei crepuscoli che le Cronache del tempo riportano con un'emozione così
contenuta; coi rumori della città di Elsinore, dal vasto specchio d'acqua messo tra sé e i dominii
reali, che s'avvia a disperdere il frastuono del giorno di mercato affogandolo nelle taverne.
- Ah! sospira Amleto, se come questi flutti io potessi spassarmela in lungo e in largo. Ah! dal mare
alle nuvole, dalle nuvole al mare! vada come vada...
E abbracciando con un gesto ad hoc il felice inconsapevole panorama, così divaga:
- Ah! solo che me ne occupassi... Ma tutto per istanti è così ricco e così labile! e niente è più
prezioso d'un bel tacere, tacere, e agire di conseguenza... - Stabilità! Stabilità! il tuo nome è
Donna... La vita, a rigore, posso anche ammetterla! Ma un eroe! Anzitutto essere condizionato dai
tempi e dall'ambiente! La chiami lotta schietta e leale per un eroe, questa?... Un eroe! e tutto il resto
non è che commedia!...
- Quanto a me, se io fossi una giovane per bene, tollererei che solo un puro eroe osasse posare le sue
labbra sul mio destino; un eroe di cui all'occorrenza si possano citare le formule, o le gesta... Ah! in
tempi come questi di 'danno' e di 'vergogna', Michelangelo dixit (uomo ben superiore ai nostrani
Torwaldsen), non vi sono più giovinette; sono tutte samaritane, e tralascio le adorabili pupattole,
ahimé, infrangibili, vipere e oche di prima piuma. - Un eroe! O semplicemente vivere. Metodo,
Metodo, che vuoi da me? Sai bene che ho mangiato il frutto dell'incoscienza! Sai bene che sono io
che annuncio la nuova legge al nato di Donna, e che sto soppiantando l'Imperativo Categorico per
instaurare in sua vece l'Imperativo Climaterico!...
Il principe Amleto ne ha tante sul cuore che non starebbero in cinque atti né in tutta la nostra
filosofia che regge il cielo e la terra; ma ciò che al presente più l'infastidisce è l'attesa di quei
commedianti che non arrivano e sui quali conta in modo così tragico; perdipiù egli ha appena fatto a
pezzi le lettere di Ofelia scomparsa la vigilia, lettere scritte su carta doppia d'Olanda con una smania
di mocciosa venuta su dal nulla, e talmente restie a essere lacerate che le dita gli bruciano ancora
maledettamente. Miseria, e quisquilie!...
- A quest'ora, dove si sarà cacciata? Da dei parenti in campagna, ma sicuro. Tornerà tornerà,
conosce bene la strada. Del resto, e quando mai m'ha capito? Se ci penso! Aveva un bell'essere
adorabile e sensitiva all'eccesso, sotto sotto saltava fuori l'Inglese imbevuta fin dalla nascita della
filosofia egoistica di Hobbes. «Non v'è niente di più piacevole nel possesso dei nostri beni del
pensiero che essi siano superiori a quelli degli altri» dice Hobbes. È così che Ofelia mi avrebbe
voluto, come un suo «bene», anche perché io ero socialmente e moralmente superiore ai «beni»
delle sue piccole amiche. E di che pensierini era capace sul benessere e sul conforto nell'ora in cui
s'accendono le lampade! Un Amleto di comodo! Maledizione! Un po' di pietà almeno per il mio
angelo custode se non per me! Ah! se in una sera come questa m'apparisse qui, nella mia torre
d'avorio, una sorella ma cadetta di quell'Elena di Narbona che seppe andare a conquistarsi a Firenze
il suo adorato Bertrando, conte di Rossiglione, pur conscia del disprezzo di cui era ricambiata!... Ofelia, Ofelia, mio dolce piccolo inganno, ti supplico fa ritorno; non ci tornerò più su. - Insomma
mio caro, hai un bell'essere Amleto, sei sempre una simpatica canaglia. Basta così. - Ah, eccoli!
Sulle rive d'Elsinore, laggiù a sinistra egli scorge (chi non sa dei suoi occhi sorprendenti, da rondine
di mare?) un assembramento, e non v'è dubbio che si tratta di quei famosi commedianti.
Il traghettatore li stava imbarcando sul suo battello piatto; un botolo abbaiava a quegli stracci; un
ragazzino aveva smesso di giocare a rimbalzello. Uno di quei signori, tutto agghindato, afferrò un
paio di remi imitando il traghettatore, col gesto di chi si degrada per divertire la compagnia, e
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puntarono alla volta di... Gli indici tesi indicavano il Castello, una dama lasciava pendere il suo
braccio nudo sul filo dell'acqua; e i latrati le risa le voci giungevano stemperati come all'acquerello.
C'era davvero materia per una bella serata secentesca.
Lasciando la finestra Amleto s'installa davanti un tavolo, poi sfoglia due smilzi quaderni.
- Eppure sì! L'impulso era di affidarmi all'orribile, orribile, orribile avvenimento al fine di esaltare
la pietà filiale, figurarmi il fatto in tutta la sua irrefutabilità poetica, far gridare l'ultimo grido al
sangue di mio padre, per riscaldarmi il piatto della vendetta! Ed ecco invece (ο πόϑος τού είναι) che
ho preso gusto all'opera, io! Poco per volta dimenticai che si trattava di mio padre assassinato,
spogliato di quel che gli restava da vivere in questo bel mondo (pover'uomo, pover'uomo!), di mia
madre prostituita (visione che mi ha distrutto la Donna spingendomi a far morire di vergogna e di
consunzione la celeste Ofelia!), del mio trono, per finire! Me ne andavo a braccetto con le finzioni
di un bel tema. Che sia un bel tema, è indubbio! Rifeci il lavoro in versi giambici, intercalai
accessori profani, espunsi dal mio vecchio Filottete una epigrafe sublime. Sì, scavavo i miei
personaggi più addentro del vero! forzavo i documenti! Con immutato genio ho difeso la causa del
bravo eroe e del pessimo traditore! Poi a sera, dopo aver ribadito un'ultima rima con una tirata a
effetto, mi addormentavo sorridendo beato alle domestiche chimere, come un onest'uomo di lettere
che col lavoro della penna mantiene una ricca prole! Mi addormentavo scordando di rivolgere le
mie preghiere alle due statuine di cera e di ritorcergli l'ago in cuore! Va va, istrione! Guardatelo il
piccolo mostro!
E il giovane insaziabile principe corre a genuflettersi dinnanzi al ritratto di suo padre e ne bacia i
piedi sulla fredda tela.
- Vero che mi perdoni, padre? Tutto sommato tu mi conosci...
E nel rialzarsi, non riuscendo a schivare l'occhio paterno, sempre e comunque ammiccante sotto
un'aria regalmente faunesca:
- Del resto, tutto è ereditarietà. Sii scienza e istinto e finirai col vederci chiaro.
Torna a sedere presso i suoi quaderni, che contempla con uno stesso occhio regalmente faunesco.
- Eppure vi sono delle belle pagine là dentro, se solo i tempi fossero meno grami!... Come vorrei
essere semplice chierico a Parigi, monte Santa Genoveffa, dove oggidì fiorisce una scuola di neoalessandrini! Un semplice misero bibliotecario alla corte brillante dei Valois! invece che in
quest'umido castello, in quest'antro di sciacalli e di rozzi personaggi dove non si è nemmeno sicuri
della propria pelle!...
Hanno battuto due colpi con una chiave d'oro sul martello d'argento della porta. Entra un valletto.
- I due primari della compagnia sono qua, secondo gli ordini di vostra Altezza.
- Che entrino.
- E poi sua Maestà la regina chiede se vostra Altezza persiste a volere che lo spettacolo abbia luogo
proprio questa sera.
- Diamine! e perché no?
- Già ma anche il seppellimento del lord ciambellano Polonio ha luogo proprio questa sera, o vostra
Altezza lo ignora?
- Ma che ragionamenti! C'è chi recita e c'è chi sparisce dietro le quinte, ecco tutto. E l'Ideale si
elegge ugualmente il suo massimino tutte le sere, suvvia, vecchio mio.
Il valletto si fa da parte e chiude la porta dietro la riverenza dei due comprimari annunciati.
- Entrate fratelli. Sedete e servitevi; ecco le sigarette. Qui c'è del Dubeck, e delle Bird's-eye. Niente
cerimonie in casa mia. Tu, come ti chiami?
- William, replica l'attor giovane in farsetto a spicchi ancora impolverati.
- E voi, mia giovane signora? (Dio com'è bella! Ancora dei guai!...).
- Ofelia, riepiloga costei con nel sorriso un che di imbronciato, un sorriso infido da morire e così
malefico che il giovane principe sbotta, tanto per creare un diversivo:
- Come! ancora un'Ofelia nella mia melassa! Oh, questa logora mania dei genitori d'imporre ai
propri figli dei nomi teatrali! Perché Ofelia mica è preso dalla vita, oh, no! Sono tutte storie da
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palcoscenico e da repliche: Ofelia, Cordelia, Lelia, Coppelia, Camelia! Per un paria come me non
avreste un altro nome di battesimo (di Battesimo, sia ben chiaro!), magari per farmi piacere?
- Sì, Signore, mi chiamo Kate.
- Alla buon'ora! e vi sta meglio! Qua le mani, che ve le sbaciucchi Kate, come vuole il cerimoniale.
E si alza, e la bacia in fronte, a lungo, su quella fronte a cui volta brusco le spalle per andare alla
finestra e tuffare un istante il viso tra le mani.
William fa un segno alla compagna:
- Di', non ci avevano ingannato. Lo è davvero.
- Possibile? rispondono con tutta la mansuetudine blu di cui sono capaci gli occhi di Kate che,
paffete!, Amleto t'incontra tornando al suo posto.
Amleto alza le spalle, adulatorio:
- Ebbene, ragazzi miei, basta con le cerimonie. Che cosa avete nel vostro repertorio?
- Abbiamo Le Allegre Comari di Saint-Denis, Il Dottor Faustus, L'Apologo di Menenio Agrippa, Il
Re di Tule.
- Sì, sì, il resto posdomani, al suo momento. Tutte belle concezioni, ma non immacolate come le
mie. Per qui e per stasera, mi studierete in segreto il dramma che vi dico io. D'altronde sarete
regalmente ricompensati. È un mio dramma. Richiede solo tre ruoli principali. C'è un re, di nome
Gonzago e una regina, Battista; il luogo è Vienna. La regina intrattiene relazioni adulterine e
orditrici con il cognato Claudio. Un dopopranzo, il re fa la siesta: cova sotto la pergola i suoi peccati
in fiore; la regina finge austeramente di mondare delle fragole per il risveglio dello sposo.
Sopraggiunge Claudio. I due complici si scambiano un bacio silenzioso, poi fanno fondere del
piombo in un cucchiaio e lo versano delicatamente nell'orecchio del re.
- Che orrore! si lascia sfuggire Kate con un sospiro che finisce in broncio.
- Orribile, vero? orribile! orribile! ... Dunque dicevamo che versano del piombo fuso (questo liquido
pallido!); il povero re Gonzago spira tra le convulsioni ... orribili, orribili; e, badate bene, in stato di
peccato mortale. Allora Claudio gli toglie la corona, se la calca sul capo e offre il braccio alla
vedova. Ne consegue che, a dispetto dei pronostici più incresciosi, William sarà Claudio, e Kate la
regina, due bei mostri, in fede mia.
- È che... esita Kate.
- È che, dichiara William, per consuetudine la mia compagna e io non incarniamo, di preferenza,
che ruoli simpatici.
- Simpatici? Razza di villani! E in base a che voi potete giurare se un essere è simpatico, in questo
mondo? E il Progresso allora, dove lo mettete?
- Sempre agli ordini del nostro grazioso signore.
- William, a voi il manoscritto, ve lo affido e soprattutto non lo smarrite; sul serio, ci tengo.
Studiatelo come si deve per stasera. E badate bene: tutto quello che ho segnato a matita rosso
sangue di bue dovrà essere recitato con foga e sottolineato; e tutto quello che è compreso in una
graffa a matita blu me lo potete sopprimere come troppo episodico, sebbene in fondo... tutto
sommato queste strofe, per esempio:
Un cuore sognante tramite occhiate
Monde da ogni idea di zizzania!
Mie povere forze estenuate dall'arte!
A furia di ripetermi ho l'emicrania!...
O luna di miele
Cala, cala!
E questa:
O animula tanto brava
O carne fiera e incorrotta,
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È la mia indole che lotta
Per essere vostra schiava.
- Toh, com'è grazioso! si lasciano scappare William e Kate guardandosi.
- Lo credo bene. Ah! se i tempi fossero meno grami!...
E questa:
Oh! va in convento!
Coi tempi che corrono l'amore
Lo si scambia incredulo e quieto
Come un saluto.
- Davvero singolare, ne conviene l'attore.
E Amleto, principe di Danimarca e creatura sventurata, esulta!
- E questo graziosissimo girotondo:
C'era una bella blusa;
Ron ron il gattino fa le fusa,
C'era una bella blusa
Con tutti i suoi bottoni... ecc.
Eccetera, eccetera! - Insomma, un destino ben curioso il mio!... Ma questo, lasciatemelo: è il canto
di trionfo dell'usurpatore Claudio, e lo si canta sull'aria di Ingannevoli premonizioni!... ricordate?
Vi garantisco io
Che Domenedio
Avrà gran cura
Di questa avventura!
Dunque intesi. Ecco il manoscritto, ve lo riaffido, mio buon William. Lo spettacolo, del resto, non
ha luogo che alle dieci e io verrò un po' prima dietro le quinte per vedere come vanno le cose. O,
nell'attesa, non vorreste che io mi proverbiassi con voi per farvi accettare questo?
I due comprimari intascano e escono a ritroso.
William declama in sordina alla compagna:
La mattana è dappertutto e senza convenevoli
Tocca il girovago o l'attore di genio
E nemmeno la guardia che veglia alle porte
Salva Amleto dalla malasorte.
- Povero giovane! sospira angelica Kate, e dire che non sembra neanche pericoloso...
Amleto, uomo d'azione, resta un bel po' a sognare sul suo dramma ormai in buone mani. Poi si
esalta:
- Ci siamo. Messer Fengo capirà, a buon intenditore... Non resta che agire e apporre la mia firma!
Agire! Ucciderlo! che vomiti la vita! Uccidere... Mi sono fatto la mano uccidendo ieri Polonio, mi
spiava da dietro quel l'arazzo che raffigura la Strage degli Innocenti. Ah, ho tutti contro io! e
domani Laerte e posdomani il dirimpettaio Fortebraccio! Devo agire, mi è d'uopo uccidere o
evadere da questo luogo. Oh! evadere... Libertà libertà! Amare vivere sognare, essere famoso ma
lontano! Oh, cara la mia aurea mediocritas! Ciò che manca a Amleto è la libertà, proprio così. Non chiedo niente a nessuno io. Non ho amici, non un amico in grado di raccontare la mia storia, un
amico che mi preceda ovunque evitandomi le intollerabili spiegazioni. Non una donna che mi
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sappia apprezzare. Dimenticavo, una samaritana! samaritana per amore dell'arte, che concede i suoi
baci solo ai moribondi, in sull'estremo, che non possano poi vantarsene.
- E pensare che in fondo io esisto! che ho una vita tutta mia! Un'eternità in sé prenatale, un'eternità
in sé dopo morto. Invece passo i miei giorni ingannando il tempo! con la vecchiaia alle porte,
l'orribile vecchiaia venerata e riverita dalle giovinette, da ipocrite ragazze abitudinarie. Mica posso
scalpitare così anonimo! Come se bastasse lasciare delle Memorie... Amleto Amleto, se lo si
sapesse! Tutte le donne verrebbero a singhiozzare sul tuo cuore divino, come in passato andavano a
singhiozzare sul corpo di Adone (con qualche secolo di civiltà in più).
- Bah, che se ne farebbero della mia biografia, attaccate come sono al loro pane quotidiano, ai loro
amori e ai circostanti decessi? Sì certo, per un momento, sulla scena, dopo che hanno banchettato;
ma una volta rientrati alla magione!... - Uomini e donne in coppia ammireranno i mei scrupoli
esistenziali ma non li imiteranno davvero, né perciò proveranno maggior vergogna tra loro, da
uomo amato a donna amata, nell'intimità. Poi, mi si accuserà di aver fatto scuola! E se io lo
nominassi il mio dannato Maestro, il mio Maestro universale! - Tuttavia, ah! come sono solo! È
così, l'epoca non vi può niente. Ho cinque sensi che mi annodano alla vita; ma il sesto senso, quel
senso dell'Infinito! - Fortuna che sono ancora giovane, e fintanto che godrò ottima salute andrà tutto
bene. Ma la Libertà! la Libertà! E sia, me ne andrò, ritornerò anonimo tra la brava gente e farò un
matrimonio valido per la vita e per ogni giorno. Di tutte le mie idee questa sarà stata la più amletica.
Ma stasera bisogna agire, bisogna oggettivarsi! Avanti, passando sulle tombe, come la Natura!
Amleto lascia la sua torre, imbocca un lungo corridoio tappezzato di monotone vedute dello Jutland
(che passando copre di eroici sputi) quindi svolta in un pianerottolo dove i due alabardieri di
guardia hanno appena il tempo di riconoscerlo e di fare il presentatt'arm; altri, su delle panche
giocano agli aliossi. Amleto gli grida passando: Sustine et abstine! Libertà, libertà! e fischiettando
scende ancora una rampa di scale e sbuca sotto il peristilio d'ingresso, davanti alla loggia del
castellano.
La finestra del castellano è aperta, alla persiana è appesa una gabbia. Prima ancora di vedere la
gabbia Amleto ci si butta sopra, la spalanca, vi coglie un tiepido canarino appisolato, gli torce il
collo tra pollice e indice e, sempre fischiettando allegramente, lo scaglia in fondo alla stanza,
proprio in testa (oh, ma per caso) a una bimbetta che sta lì col suo lavoro all'uncinetto, profittando
dell'ultimo sprazzo di luce, e che smette, gli occhi spalancati e le mani giunte, di fronte a quel
fulmineo misfatto!
Amleto scappa senza voltarsi. E di colpo torna indietro, si avvicina alla finestra, entra nella camera.
La piccola è sempre là, a mani giunte. Amleto si getta ai suoi piedi.
- Oh! perdono! perdono! Non l'ho fatto apposta! Espierò ciò che vorrai se me lo ordini. Sapessi
come sono buono! Ho un cuor d'oro come non se ne fanno più. Vero che tu mi capisci?
- O mio signore, mio signore! balbetta la bimba. Oh! se sapeste! Vi capisco tanto! è da tanto che vi
amo! Ho capito tutto!...
Amleto si alza. «Eccone un'altra!» pensa.
- Hai un padre infermo?
- No mio signore.
- Peccato: gli faresti degli ottimi cataplasmi.
- Oh, voi, voi! Saprei curarvi così bene!
- Ma certo, ripasserò lunedì prossimo; il mio cancro non suppura ancora (non so proprio perché). A
lunedì, mio angelo.
Debitamente sollevato Amleto se ne va. «È sempre per allenarmi» pensa «che ho ucciso
quell'uccellino».
Giovane e sventurato principe! Dopo il davvero anomalo decesso del padre, strani impulsi di
distruzione lo afferrano spesso alla gola.
Un giorno Amleto era partito di buon'ora per la caccia. Allora la premeditazione l'aveva tenuto
desto tutta notte (la notte che porta consiglio). Armato di pregevolissimi spilli esordì infilzando gli
scarabei che la Provvidenza gli faceva trovare sul suo cammino, lasciandoli poi proseguire in quello
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stato. Strappò le ali alle futili farfalle, decapitò le lumache, tagliò a rospi e rane le zampe posteriori,
spolverò di salnitro un formicaio e v'appiccò il fuoco, raccolse più e più nidi pigolanti tra le fratte,
per abbandonarli alla corrente, e così vedano il mondo; falciando nel frattempo a dritta a manca
miriadi di fiori, ignorando a bella posta le loro virtù terapeutiche. Dopodiché, a caccia! Lo incantava
la foresta coi suoi mille brusii primaverili, non diversamente da come l'avrebbe incantato una
camera di tortura coi suoi mille sfrigolii sui fornelli! E la sera, finalmente, dopo una vana siesta più
in là sotto gli alberi che non hanno occhi per vedere, ritornando sui suoi passi, uno spasimo residuo
lo spinse a prelevare dalle vittime, che non avevano saputo celarsi per morire e che ritrovò sul suo
cammino, una libbra di occhi perforati; ci si lavò le mani, se ne ingrassò le falangi facendole
scricchiolare, già tutte indolenzite. Ah! IL DEMONE DELLA REALTÀ! il piacere di constatare
che la Giustizia non è che una parola, e che tutto è lecito - con ragione, per Dio! - contro gli esseri
inferiori e muti. Ma avvicinandosi al castello, istupidito dall'insonnia e dalle esaltazioni, Amleto
avvertiva che la diffusa pena del crepuscolo io stringeva dappresso per strangolarlo. Rientrò furtivo
correndo a rinchiudersi nella sua torre, guazzando stralunato ai buio dentro un brulichio di sbatter
d'occhi forati, occhi spenti imbrattati di lacrime inessicabili, finché si rannicchiò così vestito sotto le
coperte, bruciando un sudor freddo, piangendo un elisir di lacrime, disposto a idee quasi suicide o
mutilanti a espiazione; auscultando il suo buon cuore, il suo cuor d'oro sommerso per sempre in
quel pantano di poveri occhi forati, eternamente meditabondi. - E l'indomani: «Bah! Ero davvero
ridicolo! Le guerre allora? E i tornei da mattatoio dei bei tempi andati, e il resto! Povero
provinciale! Ciarlatano! Callista!».
L'irreparabile assassinio dell'uccellino non è che turbi, dunque, più che tanto Amleto, - un semplice
clic di valvola in accordo coi suoi animal spirits. Comodo davvero: e se Amleto non è ancora al
punto di pensare di non aver apprezzato alla stessa stregua la triste Ofelia (oh! non molto
diversamente, povera implume!) il suo Angelo Custode non è da meno.
Il cimitero di Elsinore giace ammucchiato verticalmente sulla strada maestra, a venti minuti dalla
città. Amleto passa sotto la tripla porta di cinta; qui hanno vita cinque o sei stamberghe grazie al
corpo di guardia; poi è la campagna, come dappertutto, triste e piatta, oltre le difese...
Degli operai fanno ritorno; degli oziosi sostano, incerti sul da fare, a quell'ora in città.
A Elsinore il principe Amleto non lo riconoscono proprio. Esitano, non lo salutano. Né la sua esile
figura è fatta... Ma giudicate voi.
Di media statura, costituzionalmente bene in carne, Amleto ha una testa allungata, un po' infantile,
che porta non troppo eretta; dei capelli castani che spiovono a punta sulla fronte nobile, per ricadere
lisci e deboli, spartiti da una bella riga dritta, a nascondere due graziose orecchie di fanciulla; una
maschera imberbe ma senza che dia nel glabro, d'un pallore quasi artificiale eppure giovanile; due
occhi blu-bigi sempre stupiti e candidi, ora frigidi ora scaldati dalle insonnie (ventura vuole che
questi occhi romanzescamente timidi irradino pensieri limpidi e non infangati, perché Amleto, con
la sua aria di guardare sempre all'ingiù come di chi cerca di definire con invisibile antenne il Reale,
farebbe pensare più a un camaldolese che a un principe ereditario di Danimarca); un naso sensuale;
una bocca ingenua normalmente aspirante ma che passa presto dal semichiuso tenero al rictus un po'
losco dei gallinacei, e da una simile grinta stiracchiata agli angoli pei ferri delle odierne galere
all'irresistibile risata tagliata a salvadanaio di un ragazzetto paffuto sui quattordici anni; il mento,
purtroppo, non è affatto sporgente! e ancor meno volitivo è l'angolo del mascellare inferiore, salvo
nei giorni di noia immortale quando con l'avanzare della mascella e, di conseguenza, con l'arretrare
nell'ombra della fronte vinta, l'intera maschera si ritrae come invecchiata di ventanni. E ne ha trenta.
I suoi piedi sono femminili; le mani solide e un po' contorte e contratte, all'indice della sinistra porta
uno scarabeo egizio di un bel verde smalto. Non veste che di nero, e se ne va se ne va con un piglio
strascicato e corretto, corretto e strascicato...
Ed è con un piglio strascicato e corretto che Amleto si dirige verso il cimitero al calar del sole.
Incrocia branchi di proletari, vecchi, donne e bambini che fanno ritorno dalle quotidiane
capitalistiche galere, curvi sotto il peso di un destino sordido.
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- Perdio! cogita Amleto, lo so quanto voi se non meglio; l'attuale ordine sociale è uno scandalo da
far mozzare il fiato alla Natura! e io non sono che un parassita feudale. E con questo? Sono nati là
dentro, è una vecchia storia, il che non impedisce le loro lune di miele, né la loro paura della morte;
e tutto è bene quel che non ha fine. - Ma svegliatevi una buona volta! e fatela finita! Mettete tutto a
ferro e a fuoco! Schiacciate come cimici d'insonnia religioni caste lingue idee! Rifateci un'infanzia
fraterna sulla Terra, che è nostra madre, e si vada tutti a pascolare in climi più temperati.
Nei Giardini dei nostri istinti
Coglieremo di che guarirci.
Sì, stai fino se li aspetti! Sono troppo imbevuti di domestiche tirannie per osare, e non ancora
sufficientemente estetici e chissamai per quanto tempo ancora troppo vili dinnanzi all'Infinito. Che
inghiottano a bocca aperta un Polonio, filantropo da strapazzo, che snocciola loro: «Arricchitevi!» E dire che per un attimo ho avuto anch'io la mia follia apostolica, come Ciakya-Muni figlio di re!
Oh! lallà, io e la mia impagabile esistenziucola (da dividere con un'impagabile donnacola)
dovremmo prendere l'iniziativa? E perciò usare la mia fragorosa testa matta! Via, non siamo più
proletari dei proletari. E tu, Giustizia umana, non sii più forte che Natura! Amici miei, fratelli:
l'approssimativo storico o l'evacuativo apocalittico, il caro vecchio Progresso o il ritorno allo stato
di natura. Nell'attesa, buon appetito e buon divertimento per domani che è domenica.
Ardua è la salita che dal viottolo mena al cimitero. Amleto s'imbroncia gualcendo dei papaveri tra le
dita. È arrivato troppo tardi: la cerimonia che aveva per tema Polonio è seppellita; già se ne vanno
le ultime ombre ufficiali. Accovacciato dietro una siepe Amleto le lascia passare senza essere visto;
c'è chi dà il braccio a Laerte, figlio del defunto, che fa proprio pena. Una voce fuori della grazia di
Dio esclama: «Ma quando si ha un pazzo in casa lo si rinchiude!»
Nel rialzarsi Amleto si accorge di aver disturbato seriamente un formicaio. - «Tanto vale! pensa. E
perché il Caso mi sia debitore...» e lo finisce a colpi di tacco.
Sono usciti tutti. Nel cimitero Amleto non trova che due becchini e si avvicina al primo che sta
sistemando le corone deposte sulla tomba di Polonio.
- Avremo il suo busto solo il mese entrante annuncia, non invitato, l'uomo.
- Di che cosa è morto, si sa?
- Di un urto apoplettico. Era un buontempone.
A questo punto Amleto che, in coscienza e malgrado una natura così artista, non se n'era ancora
avveduto, intuisce che ha davvero ucciso un uomo, soppresso una vita, una vita di cui si può rendere
testimonianza. Il nomato Polonio ... intravvedeva davanti a sé quarantanni buoni almeno (era di
quelli che in ogni occasione vi ricordano di godere di una salute di ferro) e con una stoccata
inconsulta ma fatale Amleto, proprio così, glieli ha cancellati, come si taglia in un preventivo troppo
salato. Derisorie diatribe di fenomeni che non hanno senso alcuno fuori di questa terra!
Amleto si pianta davanti a quel becchino che l'osserva aspettandosi dei complimenti per come ha
disposto le corone; lo squadra dall'alto in basso, poi gli ringhia in faccia: «Words! words!
words! capite? parole parole parole!»
E si dirige verso l'altro becchino, incurante del suo grido: «E vattene fannullone!»
- E voi, brav'uomo, che cosa fate qui?
- Sua Signoria lo vede, risistemo le vecchie tombe. Ah! è da quel dì che i vecchi hanno smesso di
asciugare i muri da queste parti. Il nostro cimitero è rimasto sempre così piccolo, mentre le cortesie
del defunto re hanno raddoppiato quasi la popolazione della sua cara città.
Il becchino, un po' bevuto, cerca l'equilibrio su una zappa.
- Ah, davvero? raddoppiato la popolazione...
- Si vede che Sua Signoria non è di queste parti. Il defunto re (morto pure lui di un urto apoplettico)
era sottaniere ma bell'uomo e cuor d'oro, e dappertutto dove ingravidava si lasciava dietro un buon
ricordo e scudi sonanti con la sua effigie.
- E dite un po', il principe Amleto è proprio il figlio di sua moglie Gheruta?
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- Eh no affatto! Sua Signoria avrà forse sentito parlare del matto mattissimo defunto Yorick...
- Naturalmente.
- Ebbene, il principe Amleto non è altro che suo fratello per parte di madre.
Amleto fratello di un buffone di corte; non s'è poi fatto «tutto da sé» come credeva!...
- E quella madre... lei?
- Sicuro, la madre era la più maledettamente bella zingara che, col vostro rispetto, si sia mai vista.
Era venuta da queste parti dicendo la buona sorte col figlio Yorick. Fu trattenuta al Castello e un
anno dopo morì mettendo al mondo il nobile Amleto; quando dico mettendo al mondo... Morì del
taglio cesareo che le fecero.
- Ah! ah! non è poi stato tanto facile accalappiare Amleto in questo basso mondo!...
- Proprio così. Era seppellita dove Sua Signoria vede che abbiamo sterrato. Un mese fa viene un
ordine della regina di riesumare i resti e di bruciarli malgrado che la zingara fosse cristiana quanto
voi e me, e così quel giorno facemmo a chi più imbotta. Poi è venuto il turno del suo povero Yorick,
di cui Sua Signoria può calpestare qui i resti.
- Non ci penso proprio.
- Devo aggiustarmi per far posto entro un'ora al corpo della nobile figlia di Polonio, Ofelia, che
hanno ritrovato. Eh già, siamo tutti mortali.
- Ah! Ofelia... la damigella è poi stata ritrovata?
- Sissignore, vicino alla chiusa. È suo fratello Laerte che è venuto stamane a avvertirci. Faceva una
pena, povero giovane. È molto amato. Sapete che si occupa del problema degli alloggi degli operai?
Davvero succedono di quelle cose...
- E in giro si dice che il principe Amleto è diventato pazzo, non è così? (Mio Dio, mio Dio! vicino
alla chiusa...)
- Si, è una rovina. L'ho sempre detto che siamo maturi per l'annessione. Un bel mattino il principe
Fortebraccio di Norvegia ci sistema tutti. Io il mio gruzzolo l'ho già convertito in azioni di
Norvegia. Tutto questo non m'impedirà di lisciare il fiasco domani che è domenica.
- Bene bene, continuate il vostro lavoro.
Amleto gli mette in mano uno scudo e raccoglie il cranio di Yorick, poi si perde con la sua andatura
strascicata e corretta tra musolei e cipressi, gravato da destini, da ben loschi destini, non sapendo
troppo che fare per rimettersi con un po' di decenza nel suo ruolo.
Amleto si ferma, col cranio di Yorick accostato all'orecchio e ascolta, ascolta, rapito...
- Alas, poor Yorick! Come uno crede in una sola conchiglia di sentire il gran fracasso dell'Oceano,
sembra a me d'ascoltare qua dentro inestinguibile la sinfonia dell'anima universale di cui questa
scatola fu un crocicchio di echi. Ecco un'idea ben fondata. La vedete voi una specie umana che non
andasse più addentro in fatto di spiegazioni sulla morte, vale a dire in fatto di religione e che si
attenesse a quel fragore vagamente immortale che risuona nei crani? Alas, poor Yorick! I cari
elminti hanno degustato l'intelletto di Yorick... era un ragazzo di un umorismo a dir poco infinito, a
me fratello (una stessa madre per nove mesi) se fratello lo si può usare in una accezione particolare.
Fu qualcuno. Aveva l'io minuzioso, aggrovigliato e ritorto; si vantava. E tuttociò dov'è finito? Né
visto né conosciuto. Neppure più traccia del suo sonnambulismo. Il buonsenso in sé, dicono, non
lascia traccia. C'era una lingua qua dentro, che barbugliava: «Good night, ladies; good night, sweet
ladies! good night, good night!» E che musica, che fioritura spesso di scurrilità. - Egli prevedeva!
(Amleto fa il gesto di buttare avanti il cranio). Egli si ricordava. (Stesso gesto indietro). Parlava,
arrossiva, SBADIGLIAVA! - Orribile orribile orribile! - Ho ancora ventanni, forse trenta da vivere,
e verrà il mio turno come per gli altri. Gli altri? - Oh Tutto! che miseria non esserci più! - Ah!
voglio andarmene già domani e informarmi in giro pel mondo dei processi più adamantini
d'imbalsamazione. - Vissero anch'essi, i piccoli personaggi della Storia, imparando a leggere,
curandosi le unghie, accendendo ogni sera la lampada sporca, innamorati, golosi, vanesii, avidi di
complimenti di strette di mano e di baci, nutrendosi di ciarle di parrocchia, dicendo: «Che tempo
farà domani? Ecco che viene l'inverno... Quest'anno non abbiamo avuto prugne». - Ah, tutto è bene
quel che non ha fine. E tu, Silenzio, perdona alla Terra; la girellona non ha troppo la testa a segno; il
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giorno della grande addizione della Coscienza di fronte all'Ideale essa sarà catalogata con un povero
idem nella colonna evoluzioni-in-miniatura dell'Evoluzione Unica, nella colonna delle entità
trascurabili. - E poi, parole parole parole! Questo il mio motto finché non mi si dimostrerà che le
nostre lingue sposano bene una realtà trascendente. - Quanto a me, potrei col mio genio essere ciò
che comunemente è detto un Messia se non fossi troppo ma troppo viziato come un Beniamino della
Natura. Io intendo tutto, io adoro tutto, io voglio fecondare tutto. Ecco perché, come l'ho inciso sul
muro del mio letto in un distico regolarmente canagliesco:
La facoltà mia rara d'assimilazione
Avversa il corso della mia vocazione.
Mi annoio ma in un modo veramente sublime! - Insomma, che cosa aspetto qui? - La morte! La
morte! E chi mai, con tutto il suo ingegno, trova il tempo di pensarci? Io morire? Via, via! ne
riparleremo con calma domani. - Morire! D'accordo che si muore senza accorgersene come ogni
sera si scivola nel sonno; non si ha coscienza del passaggio dall'ultimo pensiero lucido al sonno alla
sincope alla Morte. D'accordo. Ma non essere più, non esserci più, non esserne più! Solo al pensiero
di non poter più stringere sul cuore, in un pomeriggio qualunque, la secolare tristezza racchiusa nel
più piccolo accordo di piano! - Mio padre è morto, la carne di cui sono un prolungamento non è più.
Giace da quella parte, allungato sul dorso con le mani giunte. Che posso farci, più di passare un
giorno a mia volta per di là? Così anch'io sarò visto, dignitosamente allungato con le mani giunte,
senza ridere! E diranno: «Dunque è finito là anche lui, quel giovane Amleto talmente vezzeggiato,
talmente ricco di un amabile brio? È lui là, fattosi talmente serio, né più né meno come gli altri; che
con tanta dignità ha subìto senza ribellarsi il grandissimo torto di essere là?»
Amleto si prende il futuro cranio di scheletro tra le mani e prova a rabbrividire con tutte le sue ossa.
- Oh! attenzione! Cerchiamo di essere seri in questo luogo! Oh! dovrei saper trovare delle parole
appropriate! Ma che ci posso fare se a tuttociò io resto freddo? - Vediamo un po': se ho fame ho la
netta sensazione del cibo; se ho sete ho la netta sensazione del liquido; se avverto che il mio cuore è
disponibile posso piangere sul sentimento degli occhi amati e della pelle tenera; dunque se l'idea
della morte mi è tanto estranea, vuol dire che sono ebbro di vita, che la vita mi ha in pugno, che la
vita mi riserba qualcosa! Ah! vita mia, a noi due dunque!
- Ehi voi laggiù! gli grida dietro il secondo becchino, sta giusto salendo il corteo funebre di Ofelia!
Il primo impulso del pensatore Amleto è di scimmiottare ad arte il pagliaccio sorpreso nel sonno da
un colpo di mazzuolo di grancassa sulla schiena, ed è a malapena ch'egli riesce a reprimerlo. Poi
scivola dietro una balaustra trilobata a giorno e s'apposta in attesa.
Il malinconico corteo sbuca fuori (una volta per sempre!). Per gli scossoni dell'erta, alcune rose
bianche cascano dal velluto nero che copre il feretro (cascano, ahi noi! una volta per sempre!).
- Non è che pesi poi tanto, cogita partecipe Amleto. Dimenticavo; sarà gonfia d'acqua come un otre,
la sudiciona; ripescata nella chiusa! Doveva finire da quelle parti, avendo dato fondo senza criterio
alla mia biblioteca. - Oh, mio Dio! Ora apprezzo certe sue occhiate blu! Povera sventurata ragazza!
Così magra e così eroica! Cosi inviolata e così modesta! - Ma pazienza! è la rovina delle rovine!
Domani il conquistatore Fortebraccio ne avrebbe fatto la sua amante; quanto a questo è un vero
turco! Ben'inteso, ne sarebbe morta di vergogna, la conosco, l'avevo bene ammaestrata io! Se ne
sarebbe andata all'altro mondo lasciandosi dietro una pessima reputazione di Bella Elena, non fosse
che io...
Per un attimo si smemora Amleto seguendo i gesti dei frati officianti intorno alla fossa; si sbrigano i
fratoni perché domani è domenica e avranno il loro da fare. Una ragazza, è così presto seppellita
che sposata. Ma dove lo trovi il tempo di reagire a tutto ciò? Tanto lunga è l'arte quanto breve è la
vita! E per il suo umile ruolo, Amleto non può che provare un brivido di rimorso a fior di nervi.
- Sebbene! sebbene! Io che sono cosi buono di cuore io che, come tutti sanno, ho un cuor d'oro, aver
fatto questo! Oh, Amleto, vergognati!... - Povera Ofelia, povera Lilì; era la mia piccola amica
d'infanzia, io l'amavo! Proprio così! chiaro e lampante. Inoltre non chiedevo di meglio che di
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rigenerarmi secondo lo sguardo del suo sorriso. Ma tanto grande è l'Arte quanto breve è la vita! E la
praticità è inesistente. Da parte di madre e di fratello, e di tutto, ero dannato in partenza. (Dev'essere
così). Di conseguenza, dunque, la pena che allora non potevo mancare di farle, la rese magra al
punto che la fede che in tempi migliori le avevo infilato al dito cadeva ogni momento, prova celeste
questa che... E poi aveva un'aria di moritura! e ancora, con tutti quei balli a corte dove ci si scolla
già all'età di sedici anni, le sue spalle non furono per me una verginità da saccheggiare; il diavolo
mi porti se ricordo quando vidi per la prima volta le sue spalle! Ora, è risaputo che la verginità delle
spalle per me è tutto, su questo io non transigo. E poi, con tutto il celeste dei suoi sguardi alzati, non
era diversa dalle altre. Avevo le mie buone ragioni per essere deluso. Non mi mancava che di
osservare i suoi piccoli atti di femmina; dentro di me pensavo: «A quali occhi ormai credere,
dannazione! Avrei dovuto cavarglieli, quegli occhi, e lavarmici le mani». Del resto, per finire, c'era
quella voce infernale che arrivava sempre un bel po' prima ai nostri appuntamenti e che m'intronava
la testa fino a farmela perdere coi suoi «l'abbraccerà! No! Assolutamente! No, parole parole
parole!» Era da impazzire; devo risparmiarmi. - Su, su, salmodiate Holy, holy, holy, Lord God
Almighty! La personalità divina, ma che idea! Quando si dice fabbricare una personalità. - Il suo
paradiso è quanto ancora ricordo. Perché, effettivamente, essa aveva ciò che chiederò sempre alla
fidanzata del mio genio, una bocca di un'ingenuità accogliente ma custodita da due occhioni che
sanno, o meglio (come quell'attrice Kate, ammettiamolo) due sottili occhi blu vagabondi e creduli,
custoditi da una bocca devastata con la piega amara agli angoli, immortalmente sulle sue. E il suo
profilo, qui del resto sta il metro per valutare la bellezza della donna, non ricordava il profilo di
nessun animale, dal bull-dog alla gazzella. Ma che nell'intimità io abbia colto in lei una sfumatura
canina. Insomma, era una santa in gonnella. Sarebbe stato un guaio che invecchiasse. Amante di
Fortebraccio poi! Ah, Ofelia, come non eri nata per essermi compagna! come non eri abbastanza
sconosciuta per esserlo! L'ho aiutata ad appassirsi e la Fatalità ha fatto il resto.
Ofelia, Ofelia
Il tuo bel corpo sullo stagno,
Tanti giunchi galleggianti
In preda alla mia rancida follia...
La cerimonia volge al termine (una volta per sempre!). Si sentono risuonare sulla bara le palate di
terriccio, ahi!, risuonano sulla bara una volta per sempre!...
- Ripeto, aveva un torso angelico. C'è forse un rimedio, adesso, a tuttociò? Orsù: dieci anni della
mia vita per risuscitarla! Dio non fiata! Aggiudicato! Vuol dire che non c'è un Dio o che non mi
restano neppure dieci anni di vita. La prima ipotesi, naturalmente, mi sembra la più vitale.
Amleto, uomo d'azione, lascia il suo nascondiglio solo, beninteso, dopo essersi accertato che
quell'animale di Laerte se n'è andato con tutta l'onorata compagnia.
- Fratello mio Yorick, porto a casa il vostro cranio; gli darò un posto d'onore sullo scaffale dei miei
ex-voto, tra il guanto di Ofelia e il mio dente di latte. Ah! con tutto quel che è successo ne avrò del
lavoro quest'inverno! Ho dell'infinito in cartellone.
Cala la notte, è tempo d'agire! Amleto ricalca la via del Castello senza lasciarsi troppo prendere
dalla quotidianità notturna delle grandi strade. Per prima cosa sale sulla torre a posare quel cranio,
ninnolo solenne. Resta un istante, coi gomiti appoggiati alla finestra, a contemplare la bella luna
piena d'oro che si specchia nel mare calmo dove serpeggia una colonna franta di nero velluto e d'oro
liquido, magica e senza scopo.
Riflessi su di un'acqua malinconica... La santa dannata Ofelia ha galleggiato così tutta la notte...
- Oh, non per questo posso uccidermi, privarmi della vita! Ofelia! Ofelia! Perdonami! Non piangere
così!
Amleto rientra in camera sua brancolando febbrilmente.
- Non posso tollerare le lacrime delle ragazze. Sì, far piangere una ragazza mi sembra più
irreparabile che sposarla. Perché le lacrime sono della prima infanzia; perché il versar lacrime
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esprime semplicemente un dispiacere così profondo che tutti gli anni d'incallimento sociale e di
ragione si sgonfiano e vanno a picco dentro questa sorgente zampillata dall'infanzia, dalla creatura
elementare incapace di fare del male. Begli occhi di Ofelia, malgrado tutto inviolati proprio perché
inaddomesticabili, addio! Si fa tardi, è tempo d'agire. Rimandiamo baci e teorie.
Amleto scende a vedere come va il suo dramma.
Un corridoio dove normalmente si conservano i cibi pei gran balli di gala è stato diviso in tante
piccole stanze per servire da camerini agli attori.
Amleto, senza pensarci troppo, spinge con dolcezza la porta di uno di quei camerini e entra. Ma
resta sulla soglia: e chi ti vede là tra i bauli sfatti, piangente come una Maddalena scossa dagli
ultimi singhiozzi di una crisi? proprio lei, Kate, stesa sul pavimento in una veste di broccato rosso
laminato a strisce d'oro, le braccia e le spalle offerte, libera ancora dal corpetto e col seno nudo
sotto una camicetta tutta a pieghe, là, come una povera creatura, forse consolabile.
Dolcemente e con destrezza Amleto si chiude la porta alle spalle e s'approssima alla nuova storia.
- Allora? cosa c'è Kate? Che cosa c'è?
La bella Kate non sembra poi tanto commossa dalla presenza di sua Altezza. Resta ancora a lungo
prostrata nella superiorità delle sue lacrime, nella superiorità della sua infanzia ritrovata. Ma dato
che prima o poi bisogna sempre arrivare al dunque, essa si alza e senz'altro segno d'interessamento
per sua Altezza che di voltargli le spalle, riprende a aggiustare, qua e là nel disordine, il suo
costume di regina di una sera lottando irritata contro i nodi dei lacci in un residuo di lacrime. Malgrado tutto è generosamente bella! Oh certo, se gli parla, se gli parla sfiorando l'amletismo
senza immergervisi, Amleto è perduto! Perduto e vinto!
- Su, non è proprio così; Kate, amica mia, ma che c'è?
E la prende con dolcezza per la vita.
- Ditelo, a me.
Ed ecco che la bella Kate lo fissa immortalmente, poi si lascia andare affondando il viso nel petto
del casto principe e riprende a singhiozzare, a piangere tutte le sue lacrime su quel giubbetto di
velluto nero dove Ofelia ne ha versate, e come, il mese scorso.
Amleto si sente in dovere di picchiettare la sua nuca di baci calmanti e no, e intanto le liscia le
ciocche dei capelli.
Ci vorrebbe la penna di Amleto per ammannirvi il sentimento della bellezza di Kate. Kate è una di
quelle apparizioni che v'inchiodano lì per strada, senza pensare di seguirla (tanto a che serve?
diciamo, chissà quante occasioni ha, quella) e che in un salotto è guardata non con benevolenza,
follia o tenerezza, ma con disinvoltura e distacco (chissà com'è abituata alle teste che si voltano
stordite! meglio non allungare la coda, pensiamo). Poi si viene a sapere che vive come tutte le altre,
o sposata o sola o qua e là. E ci si meraviglia che non sia la tale famosa, oppressa da drammi
internazionali nonostante i suoi venticinque anni e una cert'aria di mostro che ha sempre fatto un
buon sonno il giorno prima.
E Kate, che ha discretamente passeggiato, ha passeggiato tutt'altro che in modo epico. Miseria se ha
passeggiato! O cittadine di provincia, paralumi accesi, sudici intermediari, sbattere di porte! O
miseria, o occasioni! Ne ha fatto di strada, e tuttavia è qui che vi guarda; e la bocca atteggiata a una
campanula appena schiusa, e i suoi grandi occhi sconosciuti balbettano: «Cosa?... Ah?...» e quanta
modestia in quella dolce crocchia sulla sua nuca delicata! - Beh, lasciamo perdere, essa appartiene
all'altro sesso, essa è schiava, essa non sa...
Non sa niente, e a Amleto non resta altro che andare su e giù con la smorfia caritatevole e ghiotta
delle sue labbra adolescenziali, lungo la pelle delicatamente risciacquata delle caste spalle scosse
dal dispiacere, e rivelarsi creatura, creatura senza parole.
E no! a quest'ora le praterie naturali sono lontane! Per prima cosa: tabula rasa, e da stasera!
- Ora Kate, mi direte il perché, di queste lacrime in cui vi ho sorpreso, voi che ancora ieri non mi
conoscevate e che stasera trovate naturali i miei baci. Dovete dire.
- Oh no, mai!
- Così terribile, dunque? Andiamo, proprio a me...
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E siccome la parola gli muore tra le spalle nude nel su e giù delle sue guance, Kate lo guarda in
faccia, abbassa gli occhi, stira le braccia, poi dice con voce strascicata e con un fare annoiato:
- Bene, ecco! Sarò una disgraziata, ma di animo elevato, voglio che lo si sappia. A quante sublimi
eroine ho dato vita sulla scena lo sa solo Dio! Ma quando ho letto il mio ruolo con le scene
dell'infanzia e del primo fidanzamento in quella specie di lavoro che avete scritto, oh! credetemi!...
Com'è così, il nostro povero destino, pietoso e spietato! Oh! dovete essere unico e incompreso! e
mica matto, come quei tipi da stuzzicadenti e speroni d'argento dicono in giro. Ma come dovete
avergliele cantate anche! Insomma, ecco, è molto semplice... No! no!
- Continua, continua, Ofelia.
- Ecco! credetemi, mentre mi vestivo io mi ripetevo il monologo in chiesa, e di colpo il cuore è
scoppiato un'altra volta in lacrime, e mi sono sentita andar giù sul pavimento. Se voi sapeste che
cuore grande che ho! Ah! basta con questa vita sfacciata e vuota! Domani mollo tutto, torno a
Calais e mi faccio monaca per consacrarmi ai poveri feriti della guerra dei Centanni.
Amleto, anche se bene educato, non può proprio contenere la sua allegria d'artista. È il suo
battesimo di poeta! e questa commediante glielo serve sul piatto del primo teatro di Londra. E
eccolo che assilla di spiegazioni la povera Kate, e si fa indicare i passi più insignificanti, per
rispecchiarsi con cosmico cuore in quegli occhi esperti che il suo genio va dilatando di gloria.
- Dunque tu credi che dinnanzi a un pubblico di capitale e sotto le luci, l'effetto sarebbe
sbalorditivo? E che per strada mi guarderebbero passare sorpresi del mio portamento triste? E che
c'è chi si ucciderebbe di fronte all'enigma della mia vita? O Kate, tu sapessi! Questo dramma, non è
niente, l'ho concepito e riscritto in mezzo a ripugnanti preoccupazioni domestiche. Ma ne ho pieni i
cassetti lassù, di drammi e di poemi, di fantasmagorie e di metafisiche, inauditi, folgoranti o
portatori di morte lenta! Ah! vedrai se ci ameremo, lascio tutto anch'io, partiremo, stanotte sotto
questo chiaro di luna tanto terso! Ti leggerò tutto! andremo a vivere a Parigi.
Kate comincia di nuovo a piangere in silenzio.
- No, no Amleto, non fa per me; voglio ritirarmi, farmi monaca, curare i feriti della disgraziatissima
guerra dei Centanni e pregare per voi.
Bussano alla porta.
- Da brava, Kate, asciugate i piacevoli occhi, affrettate la vostra toletta; ritornerò prima che finisca
lo spettacolo. Vi amo! vi amo! So che mi darete ragione di questa immensità. - Avanti!
È il direttore di scena; di sfuggita Amleto gli intima:
- E, naturalmente, mi raccomando il segreto! Questo dramma non è mio. Ma uno dei tanti del vostro
repertorio. Dateci dentro.
- Eh! continua con voce forte Amleto salendo nella sua stanza, me ne infischio di questa
rappresentazione e della sua moralità come del primo amante di Kate! - Il dado è tratto. Ho il mio
piano, io. Sono cose che arrivano quando meno te l'aspetti. A me la vita e il resto, e i più che
gloriosi pessimismi!
Amleto si veste pesante; sistema delle acqueforti che ammucchia con dei manoscritti, dell'oro e dei
preziosi dentro due cofanetti. Sceglie alcune armi maneggevoli. Poi accende uno scaldino, vi posa
sopra un rame da incisione su cui adagia le due statuette di cera dal cuore trafitto infantilmente da
un ago, e le due statuette liquefano presto, unendosi teneramente in un magma ripugnante.
- Me ne infischio anche del trono. Abbruttisce troppo. Fortebraccio di Norvegia mi direbbe che
questo è il miglior partito da prendere. E sia; tutto bene. I morti sono morti. Girerò il mondo. E
Parigi! Sono certo che recita come un angelo, come un mostro. Faremo sensazione. Avremo dei
curiosi nomi di battaglia.
Per un attimo Amleto cerca un curioso nome di battaglia; macché! già lo prende alla gola la
distanza che percorreranno quella notte a cavallo. Già domani, domenica, che le ragazze di Elsinore
staranno come sempre a messa e ai vespri, già domani a quest'ora essi saranno lontano,
malinconicamente lontano dai bastioni di Elsinore!
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Amleto suona al suo scudiero per gli ultimi preparativi. Nell'attesa si diverte a spruzzare con getti di
saliva i quadri appesi ai muri della sua camera, quelle vedute dello Jutland che furono di peso alla
sua giovinezza sterile e denutrita.
Re Fengo e la regina Gheruta volgono intorno un sorriso frollo d'affabilità installandosi nei loro
stalli; in sala si prende posto con un frufru incerto da campo di grano maturo che tende l'orecchio
per sentire da che parte tirerà il vento. I paggi arretrano verso le porte. Il sipario si apre a destra e a
sinistra della scena.
Da un canto in ombra di una tribuna, Amleto cui nessuno fa mai caso, sta osservando, seduto su un
cuscino, la sala e la scena tra le intercolonne della balaustra.
«Pubblico tempestoso» è lo stereotipo che gli viene alle labbra. - Via, Amleto, che tuttociò vi lasci
impenetrabilmente freddo. La sala non ha valore, l'etichetta impedendo di applaudire, e ogni viso si
conforma a quelli della coppia reale che non sarà affatto a suo agio, quindi, niente affatto imparziale
a partire dal secondo atto.
La rappresentazione ha inizio, che Amleto conosce a memoria. È assorto nello studio degli effetti
scenici, controlla in anticipo la risonanza delle sue parole di fronte a un vero pubblico, rumina dei
ritocchi. Finalmente appare Kate e l'opera si fa elettrica.
- Perbacco! Non ero che uno scolaro! Ecco cosa mi mancava, la prova del palcoscenico! Oh! non ho
espresso neanche un quarto di quello che mi cuoce dentro. E lei! com'è decisamente e
chimericamente bella, cosi pettinata alla Tito! E non sembra nemmeno accorgersi di dove sta
andando! e in nome del Cielo! quei suoi occhi che ora sanno tutto, proprio tutto! ora niente, proprio
niente! Giuro che è una creatura forgiata per portare a termine cose di cui si parlerà tra millanni.
Noi c'intendiamo. Faremo furore. Ha anche lei, come Ofelia, quell'aria affettata; ma che in lei si
traduce in fascino (osservazione da ritenere!). Voglio amarla come la vita. - Oh! in che modo ha
detto questo:
Torna quaggiù
Torna a vagire tra i miei capelli miei
Di me, te ne farò bracciali di confiteor,
Vuoi tu? inanéllati...
Vengo, certo che vengo! E io che credevo di conoscere la Donna! la Donna e la Libertà! mentre le
insudiciavo aprioristicamente di luoghi comuni! Tanghero! Callista! - E i due criminali laggiù;
parola mia, sono ben disposti verso lo spettacolo. Ancora non hanno capito donde viene un cosi
orrendo dramma. Forse mi sono cullato un po' troppo tra le fioriture dell'immaginazione e,
malgrado i tagli, ne restano ancora. Ma aspettiamo la scena del giardino. - To', non c'è Laerte.
Ci si alza per l'intervallo. Il re e la regina (i paggi hanno ripreso a reggere lo strascico dei loro
mantelli) fanno circolo e dispensano sorrisi affabili e frolli. Si passano in giro filetti di aringa e
piccoli corni di bue selvatico schiumanti cervogia.
Dalla II scena dell'atto seguente, quella della pergola dove il re Gonzago prende ad assopirsi
ventilato dalla moglie, il pavido cuore di Fengo capisce! E senza attendere l'entrata di Claudio, ecco
che s'accascia svenuto. La regina si erge, molto Erinni alla Paul Delaroche; è un prodigarsi in un
repertorio di moine e di bisbigli. Un colpo di alabarda del ciambellano successore di Polonio (felice
d'inaugurare così le sue funzioni) fa tirare il sipario sul dramma orrendo.
Ritto nel suo angolo Amleto balbetta:
- Musica! Musica! Dunque era vero! E io che ancora non ci credevo!... - Secondo me, in fondo,
sono abbastanza puniti così. Scappo; un giorno di più e mi avvelenerebbero come un topo, un lurido
topo!
E infila di slancio le scale di servizio piene di tintinnii di campanelli e di appelli. I camerini sono
deserti. Per prima cosa Amleto riprende il suo manoscritto lasciato là, aperto al punto interrotto.
Kate lo aspettava.
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- Un semplice svenimento. Ti racconterò poi. Ma lascia che t'abbracci! Hai recitato come un angelo.
Ora non abbiamo un minuto da perdere... come due topi!
L'aiuta a venir fuori dai suoi broccati; che buona idea la sua, di tenere sotto il solito vestito! Amleto
l'avvolge in un mantello e le calca in testa una berretta.
- Seguimi.
Attraversano il parco, facendo svolare gli uccelli assopiti. Amleto fischietta allegramente. Escono
da un portoncino; uno scudiero è là che regge due cavalli per le briglie.
Il tempo d'inserirsi in sella tra quei preziosi cofanetti e eccoli partiti, al trotto, nel più naturale dei
modi. (No, no! Non è possibile! E accaduto così in fretta!).
Vanno per campi, per raggiungere la strada maestra senza passare dalla porta di Elsinore, la grande
strada senza la luna che poi laggiù starà cosi bene attraverso pianure e pianure...
È la strada dove Amleto, qualche ora fa, camminava incrociando i giornalieri del proletariato:
Fa un tempo dolce di termosifone da paradiso. E la luna recita, non senza successo, l'incantesimo
delle notti polari.
- Kate, avete cenato prima dello spettacolo?
- Ah! no, figuratevi se avevo voglia di mangiare.
- È da mezzogiorno che io non tocco cibo. Tra un'ora arriveremo a un ritrovo di caccia dove
mangeremo qualcosa. Il custode è il mio balio. Da lui potrai vedere una miniatura di me infante.
Amleto s'accorge che stanno passando proprio in prossimità del cimitero.
(Il cimitero...)
Come punto da chissacché tarantola, scende dal suo cavallo che lega a un albero, un albero
malinconico e indifferente.
- Solo un minuto, Kate. È per la tomba di quel pover'uomo di mio padre che fu assassinato. Ti
racconterò. Torno subito; il tempo di cogliere un fiore, un semplice fiore di carta che ci farà da
segnalibro quando rileggendo il mio dramma saremo costretti a interromperlo per i baci.
Procede tra le dure ombre dei cipressi sulle pietre al chiaro di luna, va dritto alla tomba d'Ofelia,
della già misteriosa e leggendaria Ofelia. E là, a braccia conserte, attende.
- Indubbiamente,
Da costumati
Al fresco
Dormono
I trapassati.
- Chi va là? Sei tu, Amleto della malora? Cosa vieni a fare in questo luogo?
- Siete voi, mio caro Laerte, qual buon vento?...
- Sì, sono io; e se voi non foste un povero demente, irresponsabile a detta delle ultime conquiste
della scienza, vi farei scontare qui all'istante sulle loro tombe la morte del mio onorevole padre e
quella di mia sorella, giovinetta di rara perfezione!
- O Laerte, niente può turbarmi. Ma state pur certo che prenderò in considerazione il vostro punto di
vista...
- Giusto cielo, che mancanza di senso morale!
- Allora, voi credete che sia successo?
- Basta! Fuori di qui, pazzo, o trascendo! Chi finisce pazzo è segno che è nato ciarlatano.
- ... tua sorella!
- Ah!
A questo punto si leva nella notte dal diffuso chiarore spettrale un abbaiare così sovranamente
solitario di un cane da pagliaio alla luna, che il cuore dell'ottimo Laerte (il quale, ci penso ahimé
troppo tardi, avrebbe meritato piuttosto d'essere l'eroe del nostro racconto) deborda, deborda dal
buio anonimato del destino dei suoi trentanni! È troppo! E afferrando con una mano Amleto per la
gola, con l'altra gli pianta nel cuore un vero pugnale.
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Il nostro eroe piega le orgogliose ginocchia sul prato e vomita boccate di sangue, e mima la bestia
braccata da morte certa, e vuole parlare... stentatamente articola:
- Ah! Ah! qualis... artifex... pereo!
Rendendo la sua anima amletica alla natura indifferente.
Laerte, idiota per troppa umanità, si china, bacia in fronte il povero morto, gli stringe la mano poi, a
tentoni nel vuoto, fugge attraverso il recinto e per sempre, a farsi monaco, forse.
Silenzio e luna... Cimitero e natura...
- Amleto! Amleto! presto chiama la voce brividosa di Kate; Amleto!...
La luna allaga ogni cosa dentro un silenzio polare.
Finalmente Kate viene a vedere.
Kate vede. E palpa quel cadavere livido di luna e di estinzione.
- Si è pugnalato, o Cielo!
Si china su quella tomba e legge:
OFELIA, FIGLIA DL LORD POLONIO E DI LADY ANNA
MORTA DI ANNI DICIOTTO
E la data d'oggi.
- Era lei che egli amava! Allora perché portarmi via con amore? Povero eroe... Che fare?
Si china, lo bacia, lo chiama.
Amleto, my little Hamlet!
Ma la morte è la morte, si sa da che c'è vita.
- Farò ritorno al Castello coi cavalli, ritroverò lo scudiero testimone della nostra partenza, e dirò
tutto.
Riparte allo stesso trotto, voltando le spalle alla luna piena che doveva stare così bene laggiù, sulle
pianure, le pianure, alla volta di Parigi e degli splendidi Valois, che ricevono il gran mondo.
Si seppe tutto, il riprovevole colpo di scena a danno delle personalità, il rapimento, ecc... Si mandò
a cercare il cadavere con fiaccole di prima qualità. - O serata tutto sommato storica!
Ora si dà che Kate fosse l'amante di William.
- Ah! ah! fece l'uomo, così tu volevi mollare Bibì!
(Bibì è un'abbreviazione di Billy, diminutivo di William).
A Kate toccò una bella scarica di botte che non era la prima e non doveva nemmeno essere l'ultima,
purtroppo!
- E tuttavia Kate era così bella che in altri tempi la Grecia le avrebbe alzato degli altari.
E tutto rientrò nell'ordine.
Un Amleto di meno; non per questo la razza si è estinta, diciamocelo pure!
Testo originale:
HAMLET OU LES SUITES DE LA PIÉTÉ FILIALE
C’est plus fort que moi.
De sa fenêtre préférée, si chevrotante à s’ouvrir avec ses grêles vitres jaunes losangées de mailles de plomb,
Hamlet, personnage étrange, pouvait, quand ça le prenait, faire des ronds dans l’eau, dans l’eau, autant dire
dans le ciel. Voilà quel fut le point de départ de ses méditations et de ses aberrations. La tour où, depuis
l’irrégulier décès de son père, le jeune prince s’est décidément arrangé pour vivre, se dresse en lépreuse
sentinelle oubliée, au bout du parc royal, au bord de la mer qui est à tous. Ce coin de parc est le cloaque
où l’on jette les détritus des serres, les décatis bouquets des galas éphémères. La mer est le Sund, aux flots
sur qui on ne peut faire fonds, avec la côte de Norwège en vue ou la ville d’Helsingborg, ce nid de l’indigent
et positif prince Fortimbras.
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L’assise de la tour où le jeune et infortuné prince s’est décidément arrangé pour vivre, croupit au bord d’une
anse stagnante où le Sund s’arrange aussi pour envoyer moisir le moins clair de l’écume d’épave de ses
quotidiens et impersonnels travaux.
Ô pauvre anse stagnante ! Les flottilles des cygnes royaux à l’œil narquois n’y font guère escale. Du fond
vaseux de paquets d’herbages, là, montent, aux pluvieux crépuscules, vers la fenêtre de ce prince si humain,
les chœurs d’antiques ménages de crapauds, râles glaireux expectorés par de catarrheux vieillards dont un
rien de variation atmosphérique dérange les rhumatismes ou les gluantes pontes. Et les derniers remous des
bateaux laborieux viennent troubler à peine, non plus que les perpétuelles averses, la maladie de peau de ce
coin d’eau mûre, oxydée d’une bave de fiel balayée (comme de la malachite liquide), cataplasmée çà et là de
groupes de feuilles plates en forme de cœur autour de rudimentaires tulipes jaunes, hérissée çà et là de
maigres bouquets de joncs fleuris, de frêles ombelles semblables, entre parenthèses, à la fleur de la carotte
dans nos climats.
Ô pauvre anse ! Crapauds chez eux, floraisons inconscientes. Et pauvre coin du parc ! bouquets dont les
jeunes femmes se débarrassèrent comme minuit tintait. Et pauvre Sund ! flots abrutis par les autans
inconstants, nostalgies bornées par les bureaux très quotidiens du Fortimbras d’en face !...
C’est pourquoi (sauf orages) ce coin d’eau est bien le miroir de l’infortuné prince Hamlet, en sa tour paria, en
sa chambre aux deux fenêtres vitrées de jaune, dont l’une montre en gris souillé les ciels, le large et
l’existence sans issue, et l’autre est ouverte à la plainte perpétuelle du vent dans les hautes futaies du parc.
Pauvre chambre tiraillée ainsi au sein d’un inguérissable, d’un, insolvable automne ! Même en juillet,
comme aujourd’hui. C’est aujourd’hui le 14 juillet 1601, un samedi ; et c’est demain dimanche, dans le
monde entier les jeunes filles iront ingénument à la messe.
Aux murs, une douzaine de vues du Jutland, tableaux impeccablement naïfs, commandés jadis à un peintre
aux galères, et dont chaque pièce du château utilise ainsi sa bonne douzaine. Entre les deux fenêtres, deux
portraits en pied : l’un, Hamlet, en dandy, un pouce passé dans sa ceinture de cuir brut, le sourire attirant du
fond d’une pénombre sulfureuse ; l’autre, son père, bardé d’une belle armure neuve, l’œil coquin et
faunesque, feu son père le roi Horwendill, irrégulièrement décédé en état de péché mortel et dont Dieu ait
l’âme selon sa miséricorde bien connue. Sur une table, dans le jour d’insomnie des vitres jaunes, un
laboratoire d’aqua-fortiste irrémédiablement rongé de sales oisivetés. Un fumier de livres, un petit orgue, une
glace en pied, une chaise longue, et un buffet à secret (il a peur d’être empoisonné, depuis le louche décès de
son père). Dans la chambre à coucher, près du lit, un gothique édicule en fer forgé d’où un jeu de clefs peut
faire surgir deux statuettes de cire, Gerutha,mère de Hamlet, et son mari d’aujourd’hui, l’usurpateur adultère
et fratricide Fengo, tous deux modelés d’un pouce plein de verve vengeresse et le cœur puérilement percé
d’une aiguille, la belle avance ! Au fond de l’alcôve, un appareil à douches, hélas !
De noir vêtu, la petite épée au côté, coiffé de son sombrero de noctambule, Hamlet, accoudé à la fenêtre,
regarde le Sund, le large et laborieux Sund coulant son train ordinaire de flots quelconques, attendant le vent
et l’heure de batifoler magistralement avec les pauvres barques de pêcheurs (seul sentiment dont la fatalité
qui pèse sur eux les laisse capables).
Après le ciel d’hier, et en attendant celui de demain, aujourd’hui gros ciel blafard, pas bien soulagé par la
récente ondée, mais promettant un beau dimanche pour demain. Et c’est déjà le crépuscule, un de ces
crépuscules comme les Chroniques du temps nous en rapportent avec une émotion si peu jouée, et les bruits
de la ville d’Elseneur, qu’un vaste bassin sépare des domaines royaux, qui commence à disperser et noyer ses
rumeurs de jour de marché vers les tavernes.
— Ah ! me la couler douce et large comme ces flots, soupire Hamlet. Ah ! de la mer aux nuées, des nuées à
la mer ! et laisser faire le reste...
Et il emballe l’heureux panorama inconscient d’un geste ad hoc, et il divague ainsi :
— Ah ! que je fusse seulement poussé à m’en donner la peine !… Mais tout est si précieux de minutes et si
fugace ! et rien n’est pratique que se taire, se taire, et agir en conséquence… — Stabilité ! Stabilité ! ton nom
est Femme… (’admets bien la vie à la rigueur. Mais un héros ! Et d’abord, arriver domestiqué par un temps
et des milieux ! est-ce une bonne et loyale guerre pour un héros ?… Un héros ! et que tout le reste fût des
levers de rideau !… — Moi, si j’étais une jeune fille bien, je ne permettrais qu’à un pur héros de poser ses
lèvres sur ma destinée ; un héros dont on pourrait citer les hauts faits au besoin, ou les formules… Ah ! par
ce temps de damno et de vergogna, comme dit Michel-Ange (cet homme supérieur à tous nos Thorwaldsen),
il n’y a plus de jeunes filles ; toutes des gardes-malades ; j’oublie les petites poupées adorables, mais, hélas !
incassables, les vipères et les petites oies à duvet pour oreillers. — Un héros ! Ou simplement vivre.
Méthode, Méthode, que me veux-tu ? Tu sais bien que j’ai mangé du fruit de l’Inconscience ! Tu sais bien
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que c’est moi qui apporte la loi nouvelle au fils de la Femme, et qui vais détrônant l’Impératif Catégorique et
instaurant à sa place l’Impératif Climatérique !…
Le prince Hamlet en a comme ça long sur le cœur, plus long qu’il n’en tient en cinq actes, plus long que
notre philosophie n’en surveille entre ciel et terre ; mais il est en ce moment particulièrement agacé par
l’attente de ces comédiens qui n’arrivent pas et sur lesquels il compte si tragiquement ; outre qu’il vient de
réduire en morceaux les lettres d’Ophélie disparue depuis la veille, lettres écrites, par une manie de petite
parvenue, sur du papier de Hollande bis si récalcitrant à déchirer que les doigts de Hamlet lui en cuisent
encore furieusement. Ah ! misère, et petits faits !...
— Où peut-elle bien être, à cette heure ? Sans doute chez des parents à la campagne. Elle saura bien revenir ;
elle connaît le chemin. Elle ne m’eût d’ailleurs jamais compris. Quand j’y songe ! Elle avait beau être
adorable et fort mortellement sensitive, en grattant bien on retrouvait l’Anglaise imbue de naissance de la
philosophie égoïste de Hobbes. « Rien n’est plus agréable dans la possession de nos biens « propres que de
penser qu’ils sont supérieurs à ceux des « autres », dit Hobbes. C’est ainsi qu’Ophélie m’eût aimé, comme
son «bien», et parce que j’étais socialement et moralement supérieur aux « biens » de ses petites amies. Et les
menues phrases qui lui échappaient, aux heures où l’on allume les lampes, sur le bien-être et le confort ! Un
Hamlet confortable ! Ah, malheur ! Grâce au moins pour mon ange gardien sinon pour moi ! Ah ! s’il me
venait par un soir pareil, dans ma tour d’ivoire, une sœur, mais cadette, de cette Hélène de Narbonne qui sut
aller conquérir à Florence son adoré Bertrand, comte de Roussillon, bien que connaissant son mépris pour
elle !... — Ophélie, Ophélie, chère petite glu, reviens, je t’en supplie ; je n’y reviendrai plus. — Tout de
même, mon cher, et tout Hamlet que nous sommes, nous faisons parfois une cordiale crapule. Suffit. — Ah !
les voici.
À gauche, sur les berges d’Elseneur, il aperçoit (qui n’a entendu parler de ses étonnants yeux d’hirondelle de
mer ?) un attroupement qui ne peut être que ces comédiens.
Le passeur dans son large bachot les embarquait ; un roquet aboyait à ces oripeaux ; un gamin s’était arrêté
de faire des ricochets. Un de ces messieurs, très drapé, prit comme le passeur, et du geste d’un qui
s’encanaille pour divertir la compagnie, une paire de rames, et l’on cingla vers... Des index tendus
indiquaient le Château, une des dames laissait pendre un bras nu au fil de l’eau, et les abois, les rires, les
voix, arrivaient clarifiés comme à l’aquarelle. Il y avait certes là l’étoffe d’un beau soir au XVIIe siècle.
Hamlet quitte la fenêtre, et, s’installant devant une table, se met à feuilleter deux cahiers minces.
— Voilà, pourtant ! Mon sentiment premier était de me remettre l’horrible, horrible, horrible événement,
pour m’exalter la pitié filiale, me rendre la chose dans toute l’irrécusabilité du verbe artiste, faire crier son
dernier cri au sang de mon père, me réchauffer le plat de la vengeance ! Et voilà (ῶ Πόθος τού είναι) ! je pris
goût à l’œuvre, moi ! J’oubliai peu à à peu qu’il s’agissait de mon père assassiné, volé de ce qu’il lui restait à
vivre dans ce monde précieux (pauvre homme, pauvre homme !), de ma mère prostituée (vision qui m’a
saccagé la Femme et m’a poussé à faire mourir de honte et de détérioration la céleste Ophélie !), de mon
trône enfin ! Je m’en allais bras dessus, bras dessous avec les fictions d’un beau sujet ! Car c’est un beau
sujet ! Je refis la chose en vers ïambiques : j’intercalai des hors-d’œuvre profanes ; je cueillis une sublime
épigraphe dans mon cher Philoctète. Oui, je fouillais mes personnages plus profond que nature ! je forçais les
documents ! Je plaidais du même génie pour le bon héros et le vilain traître ! Et le soir, quand j’avais rivé sa
dernière rime à quelque tirade de résistance, je m’endormais la conscience toute rosière, souriant à des
chimères domestiques, comme un bon littérateur qui, du travail de sa plume, sait soutenir une nombreuse
famille ! Je m’endormais sans songer à faire mes dévotions aux deux statuettes de cire et leur retourner leur
aiguille dans le cœur ! Ah, cabotin, va ! Voyez le petit monstre !
Et le jeune et insatiable prince court se jeter à genoux devant le portrait de son père dont il baise les pieds sur
la toile froide.
— Pardon ! Pardon, n’est-ce pas, père ? Au fond tu me connais...
Et se relevant, et ne pouvant esquiver cet œil paternel, toujours et quand même clignant en dessous d’un air
royalement faunesque :
— D’ailleurs, tout est hérédité. Soyons médical et nature, et nous finirons par y voir clair...
Il revient s’asseoir devant ses cahiers qu’il couve aussi d’un œil royalement faunesque.
— C’est égal, il y a de belles pages là-dedans, et si les temps étaient moins tristes !... Ah ! que ne suis-je un
simple clerc à Paris, montagne Sainte-Geneviève où fleurit en ce moment une école de néo-Alexandrins ! Un
simple petit bibliothécaire dans cette brillante cour des Valois ! Au lieu de ce château humide, de cet antre à
chacals et à grossiers personnages, où l’on n’est même pas sûr de sa peau !...
On vient de frapper deux coups d’une clef d’or sur le marteau d’argent de la porte. Un valet entre.
— Les deux étoiles de cette troupe sont là, selon les ordres de votre Altesse.
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— Qu’elles entrent.
— Et puis, sa Majesté la reine demande si son Altesse persiste à vouloir faire donner le spectacle ce soir
même.
— Crûment ! Et pourquoi pas ?
— C’est que, son Altesse ne l’ignore pas, l’enterrement du lord chambellan Polonius a lieu aussi ce soir, tout
à l’heure.
— Eh bien ! En voilà des considérations ! Les uns jouent, tandis que les autres rentrent dans la coulisse, voilà
tout. Et l’Idéal se sélecte quand même son petit maximum tous les soirs, va, mon pauvre vieux.
Le valet s’efface, et, derrière la révérence des deux étoiles annoncées, ferme la porte.
— Entrez, mes frères. Asseyez-vous là et prenez des cigarettes. Voici du Dubeck et voici du Bird’s eye.
C’est sans façon, chez moi. Comment t’appelles-tu, toi ?
— William, riposte le jeune premier en pourpoint à crevées encore poudreuses.
— Et vous, ma jeune dame ? (Oh ! mon Dieu, comme elle est belle ! Encore des histoires !…)
— Ophélia, résume celle-ci, dans une sorte de sourire boudeur, un sourire douteux à s’en tordre de malaises,
si maléfique, que le jeune prince doit éclater pour faire diversion.
— Comment ! encore une Ophélia dans ma potion ! Oh ! cette usurière manie qu’ont les parents de coiffer
leurs enfants de noms de théâtre ! Car Ophélia, ce n’est pas de la vie ça ! Mais de pures histoires de planches
et de centièmes ! Ophélia, Cordélia, Lélia, Coppélia, Camélia ! Pour moi, qui ne suis qu’un paria, n’auriezvous pas un autre nom de baptême (de Baptême, entendez-vous !) pour l’amour de moi.
— Si, Seigneur, je m’appelle Kate.
— À la bonne heure ! Et comme ça vous sied mieux ! Que je vous baisote les mains, ô Kate ! pour cette
étiquette.
Il se lève lui-même, et va la baiser au front, longuement, à son front de Kate, dont il se détourne brusquement
pour aller à la fenêtre cacher un instant son visage dans ses mains.
William fait signe à sa camarade :
— Hein ? On ne nous avait pas trompés. Il l’est.
— Est-ce possible ? répondent, de toute leur mansuétude bleue, les yeux de Kate que, vlan, rencontre Hamlet
en revenant à sa place.
Hamlet hausse flatteusement les épaules.
— Eh bien, mes enfants, trêve de culs-de-lampe. Et qu’apportez-vous en fait de répertoire ?
— Nous avons Les Joyeuses Commères de Saint-Denis, Le Docteur Faustus, L’Apologue de Ménénius
Agrippa, Le roi de Thulé.
— Vous médirez le reste après-demain, au débotté. Tout ça c’est des belles conceptions, mais pas des
conceptions immaculées comme les miennes. Pour ici, et pour ce soir, vous allez secrètement mettre à
l’étude le drame que voici. Vous en serez d’ailleurs royalement récompensés. C’est un drame de moi. Il ne
demande que trois principaux rôles. Il y a un roi, il s’appelle Gonzago, et une reine, Baptista ; cela se passe à
Vienne. La reine a des relations adultères et conspiratrices avec son beau-frère Claudius. Une après-midi, le
roi fait sa sieste, cuve ses péchés en fleur sous la tonnelle ; la reine feint d’éplucher austèrement des fraises
pour le réveil de son époux. Survient Claudius. Les deux complices échangent un baiser silencieux, puis ils
font fondre du plomb dans une cuiller et le versent délicatement dans l’oreille du roi.
— Quelle horreur ! laisse échapper Kate dans un sourire mourant en bouderie.
— N’est-ce pas ? horrible ! horrible ! horrible... Nous disons donc, ils versent le plomb fondu (ce pâle
liquide !) ; le pauvre roi Gonzago trépasse dans des convulsions... horribles, horribles, et en état de péché
mortel, notez bien. Claudius, alors, lui enlève sa couronne, s’en coiffe et offre le bras à la veuve. La
conséquence est que, en dépit des plus fâcheux pronostics, William fera Claudius, et Kate la reine, deux jolis
monstres, ma foi.
— C’est que... hésite Kate.
— C’est que, déclare William, notre habitude, à ma camarade et à moi, est de n’incarner que des rôles
sympathiques, de préférence.
— Sympathiques ? Tas de brutes ! Et sur quoi pouvez-vous jurer qu’un être est sympathique, ici-bas ? Et
puis, et le Progrès, alors ?
— Nous sommes aux ordres de notre gracieux seigneur.
— Voici le manuscrit, William, je vous le confie, n’allez pas l’égarer ; sans blague, j’y tiens. Préparez ça
gentiment pour ce soir. Maintenant, vous voyez, tout ce que j’ai marqué au crayon rouge sang-de-bœuf,
devra être lancé et souligné ; et tout ce qui est compris dans une accolade au crayon bleu, vous pouvez le
supprimer comme trop épisodique, bien qu’au fond... enfin, par exemple, tous ces couplets-ci :
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Un cœur rêveur par des regards
Purs de tout esprit de conquête !
Je suis si exténué d’art !
Me répéter, quel mal de tête !...
Ô lune de miel,
Descendez du ciel !
Et ceci :
Ô petite âme brave,
Ô chair fière et droite,
C’est moi que j’convoite
D’être votre esclave.
— Tiens, mais, c’est que c’est charmant ! laissent échapper William et Kate se regardant.
— Je vous crois. Ah ! si les temps étaient plus propres !… Et ceci :
Oh ! cloître-toi ! L’amour, l’amour
S’échange, par le temps qui court,
Simple et sans foi comme un bonjour.
— C’est en effet bien curieux, assure l’acteur.
Et Hamlet, prince de Danemark et créature infortunée, exulte !
— Et cette délicieuse ronde :
Il était un corsage,
Et ron et ron petit pa ta pon,
Il était un corsage
Qui avait tous ses bouton…, etc.
Et cætera, et cætera ! — Enfin, mon sort aura été bien étrange !… Mais ceci, n’allez pas le supprimer, c’est
le chant de triomphe de l’usurpateur Claudius ; ça se chante sur l’air Pressentiments trompeurs !… vous
savez ?
Je suis en mesure
De prouver que Dieu
Fera les doux yeux
À cette aventure !
Allons, c’est entendu. Voici le manuscrit, je vous le reconfie, mon cher William. D’ailleurs le spectacle ne
commence qu’à dix heures et j’irai, un peu avant, voir dans vos coulisses comment ça marche. En attendant,
vous ne voudriez pas que je vous objurgasse d’accepter ceci ?
Les deux étoiles empochent et sortent à reculons.
William déclame en sourdine à sa camarade :
La démence est partout, et, sans cérémonie
Frappe l’humble marchand ou l’acteur de génie,
Et la garde qui veille aux portes du palais,
N’en défend pas Hamlet.
— Pauvre jeune homme ! soupire angéliquement Kate, et c’est qu’il n’a pas du tout l’air dangereux...
Hamlet, homme d’action, perd cinq minutes à rêver devant son drame maintenant en bonnes mains. Et puis il
s’exalte :
— Ça y est. Le sieur Fengo va comprendre. À bon entendeur, salut ! Et je n’aurai plus qu’à agir, qu’à
signer ! Agir ! Le tuer ! lui faire rendre gorge de sa vie ! Tuer !… Hier je me suis fait la main en tuant
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Polonius. Il m’espionnait, caché derrière cette tapisserie qui représente le Massacre des Innocents. Ah ! ils
sont tous contre moi ! Et demain Laërtes et après-demain le Fortimbras d’en face ! Il faut agir ! Il faut que je
tue, ou que je m’évade d’ici ! Oh ! m’évader !… Ô liberté ! liberté ! Aimer, vivre, rêver, être célèbre, loin !
Oh ! chère aurea mediocritas ! Oui, ce qui manque à Hamlet, c’est la liberté. — Je ne demande rien à
personne, moi. Je suis sans ami ; je n’ai pas un ami qui pourrait raconter mon histoire, un ami qui me
précéderait partout pour m’éviter les explications qui me tuent. Je n’ai pas une jeune fille qui saurait me
goûter. Ah ! oui, une garde-malade ! Une garde-malade pour l’amour de l’art, ne donnant ses baisers qu’à
des mourants, des gens in-extremis, qui ne pourraient par conséquent s’en vanter ensuite.
— Et au fond, dire que j’existe ! Que j’ai ma vie à moi ! L’éternité en soi avant ma naissance, l’éternité en
soi après ma mort. Et passer ainsi mes jours à tuer le temps ! Et la vieillesse qui vient, la vieillesse hideuse,
révérée et vénérée des jeunes filles, des hypocrites et routinières jeunes filles. Je ne puis piétiner ainsi,
anonyme ! Et laisser des Mémoires, ça ne me suffit pas. Ô Hamlet ! Hamlet ! Si l’on savait ! Toutes les
femmes viendraient sangloter sur ton divin cœur, comme jadis elles venaient sangloter sur le corps d’Adonis
(avec des siècles de civilisation en plus). — Bah, qu’est-ce que ma biographie leur ferait, avec leur pain de
chaque jour et les amours et les décès autour ? Oui, sans doute, un instant, sur la scène, après dîner ; mais,
dès rentrés chez eux !... — Les hommes et les femmes, par couples, admireront mes scrupules d’existence,
mais ne les imiteront nullement et n’en auront pas plus honte pour cela, entre eux, d’homme aimé à femme
aimée, dans leurs foyers. Plus tard, on m’accusera d’avoir fait école ? Et si je nommais, moi, mon sacré
Maître, mon universel Maître ! — Pourtant, ah ! comme je suis seul ! Et, vrai, l’époque n’y fait rien. J’ai cinq
sens qui me rattachent à la vie ; mais, ce sixième sens, ce sens de l’Infini ! — Ah ! je suis jeune encore ; et
tant que je jouirai de cette excellente santé, ça ira, ça ira. Mais la liberté ! la liberté ! Oui, je m’en irai, je
redeviendrai anonyme parmi de braves gens, et je me marierai pour toujours et pour tous les jours. Ç’aura
été, de toutes mes idées, la plus hamlétique. Mais ce soir, il faut agir, il faut s’objectiver ! En avant pardessus les tombes, comme la Nature !
Hamlet descend de sa tour, enfile un long corridor tapissé de monotones vues du Jutland (auxquelles il lance
en passant des crachats héroïques), puis tourne par un palier où les deux hallebardiers de faction ont à peine
le temps de le reconnaître et de se mettre au port d’arme ; d’autres, sur les banquettes jouent aux osselets !
Hamlet leur crie en passant : Sustine et abstine ! Liberté, liberté ! et sifflotant, il descend encore un escalier,
et se trouve sous le péristyle de sortie, devant la loge du châtelain.
La fenêtre du châtelain est ouverte ; à la persienne pend une cage. Avant même de voir cette cage, Hamlet se
rue dessus, l’ouvre, y cueille un tiède canari qui s’endormait, lui tord le cou entre le pouce et l’index, et
toujours sifflotant plus allegro, le lance au fond de la chambre, à la tête (mais ceci par hasard) d’une petite
fille qui est là, faisant du crochet, profitant du dernier filet du jour, et qui s’arrête, les yeux ronds et les mains
jointes, devant ce foudroyant forfait !
Hamlet s’enfuit sans se retourner. Et soudain il revient, va à cette fenêtre et entre dans cette chambre. La
petite fille est toujours là, les mains jointes. Il se jette à ses pieds.
— Oh ! pardon ! pardon ! Je ne l’ai pas fait exprès ! Ordonne-moi toutes les expiations. Mais je suis si bon !
J’ai un cœur d’or comme on n’en fait plus. Tu me comprends, n’est-ce pas, Toi ?
— Ô monseigneur, monseigneur ! balbutie la petite fille. Oh ! si vous saviez ! Je vous comprends tant ! Je
vous aime depuis si longtemps ! J’ai tout compris !...
Hamlet se lève. « Encore une ! » pense-t-il.
— Est-ce que ton père est malade ?
— Non, monseigneur.
— Tant pis : tu lui poserais des cataplasmes avec génie.
— Oh ! vous, vous ! Je vous soignerais si bien !
— C’est ça : je repasserai lundi prochain ; mon cancer ne suppure pas encore (je ne sais vraiment ce qu’il a).
À lundi, cher ange.
Hamlet s’éloigne, dûment soulagé. « C’est encore pour me faire la main que j’ai tué cet oiseau », pense-t-il.
Jeune et infortuné prince ! Ces étranges impulsions destructives le prennent souvent à la gorge, depuis le
trop, trop irrégulier décès de son père.
Un jour, Hamlet était parti de grand matin pour la chasse. La préméditation, cette fois, l’avait tenu éveillé
toute la nuit (la nuit qui porte conseil). Armé d’on ne peut plus excellentes épingles, il préluda par embrocher
les scarabées que la Providence mettait sur son chemin, les laissant ensuite continuer le leur ainsi. Il arracha
leurs ailes aux papillons futiles, décapita les limaces, trancha les pattes de derrière aux crapauds et
grenouilles, poivra de salpêtre une fourmilière et y mit le feu, recueillit maints nids gazouilleurs dans les
buissons et les abandonna au fil de la rivière prochaine pour leur faire voir du pays ; tout cela en cinglant à
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droite à gauche mille fleurs, sans égards pour leurs vertus pharmaceutiques. Et puis, en chasse ! La forêt, de
ses mille rumeurs printanières, le ravissait, telle l’eût ravi une chambre de torture de ses mille grésillements
sur les réchauds ! Et finalement, le soir, après une vaine sieste plus loin sous les arbres qui n’avaient rien vu,
en revenant sur ses pas, un dernier spasme le poussa à prélever sur les victimes qui n’avaient pu s’aller
cacher pour mourir, et qu’il retrouvait en son chemin, une livre d’yeux crevés : il s’en y lava les mains, il
s’en graissa les phalanges, il faisait craquer ses phalanges, déjà tout tiraillé de malaise. Ah ! c’était Le
Démon de la Réalité ! l’allégresse de constater que la Justice n’est qu’un mot, que tout est permis — et pour
cause, nom de Dieu ! contre les êtres bornés et muets. Mais en approchant du château, Hamlet, fourbu
d’insomnie et de stupides exaltations, avait senti la vaste peine du crépuscule le circonvenir pour l’étrangler.
Il rentra à pas de loup, courut s’enfermer dans sa tour, sans lumière, barbotant halluciné dans un grouillement
clignotant d’yeux crevés, d’yeux crevés barbouillés d’inessuyables larmes, puis se blottit tout habillé sous
ses couvertures, cuisant de sueurs froides, pleurant de l’élixir de larmes, songeant presque à s’assassiner, ou
du moins à se balafrer, en expiation ; sentant bien son bon cœur, son cœur d’or submergé à jamais dans cette
mare de pauvres yeux crevés immortellement pensifs. — Le lendemain : « Bah ! ai-je été assez ridicule ! Et
les guerres ! Et les tournées d’abattoir des siècles du monde antique, et tout ! Piteux provincial ! Cabotin !
Pédicure ! »
Hamlet ne s’affecte donc pas plus que ça de l’irréparable meurtre de ce petit oiseau, — un simple coup de
soupape accordé à ses animal spirits. C’est fort commode : et si Hamlet n’en est pas encore à songer qu’il
n’a guère autrement apprécié la triste Ophélie (oh ! guère autrement, pauvre oiseau !) son Ange Gardien n’en
pense pas moins.
Le cimetière d’Elseneur gît tassé en pente sur le grand chemin à vingt minutes de la ville. Hamlet passe sous
la triple porte d’enceinte ; cinq ou six boutiques vivent là du Corps de Garde ; et puis, c’est la campagne
comme presque partout triste et plate, hors remparts...
Des ouvriers rentrent ; une noce stationne, se concertant sur ce qu’elle pourrait bien faire par la ville à cette
heure.
On ne reconnaît guère le prince Hamlet à Elseneur. On hésite, on ne salue pas. Et d’ailleurs, sa petite
personne... Jugez plutôt.
De taille moyenne et assez spontanément épanoui, Hamlet porte, pas trop haut, une longue tête enfantine ;
cheveux châtains s’avançant en pointe sur un front presque sacré, et retombant, plats et faibles, partagés par
une pure raie droite, celer deux mignonnes oreilles de jeune fille ; masque imberbe sans air glabre, d’une
pâleur un peu artificielle mais jeune ; deux yeux bleu-gris partout étonnés et candides, tantôt frigides, tantôt
réchauffés par les insomnies (fort heureusement, ces yeux romanesquement timides rayonnent en penseurs
limpides et sans vase, car Hamlet, avec son air de regarder toujours en dessous comme cherchant à tâter
d’invisibles antennes le Réel, ferait plutôt l’effet d’un camaldule que d’un prince héritier du Danemark) ; un
nez sensuel ; une bouche ingénue, ordinairement aspirante, mais passant vite du mi-clos amoureux à
l’équivoque rictus de gallinacés, et de cette moue dont les coins sont tirés par les boulets de la galère
contemporaine au rire irrésistiblement fendu d’un joufflu gamin de quatorze ans ; le menton n’est, hélas !
guère proéminent ! guère volontaire, non plus, l’angle du maxillaire inférieur, sauf aux jours d’ennuis
immortels où la mâchoire alors, portant en avant et les yeux par cela même reculant dans l’ombre du front
vaincu, tout le masque rentre, vieilli de vingt ans. Il en a trente. Hamlet a les pieds féminins ; ses mains sont
solides et un peu tortues et crispées ; il porte une bague à scarabée égyptien d’émail vert à l’index de la main
gauche. Il ne s’habille que de noir, et s’en va, s’en va d’une allure traînarde et correcte, correcte et
traînarde...
D’une allure traînarde et correcte, Hamlet chemine donc devers le cimetière au crépuscule.
Il croise des troupeaux de prolétaires, vieux, femmes et enfants, revenant des bagnes capitalistes quotidiens,
voûtés sous leur sordide destinée.
— Parbleu ! songe Hamlet, je le sais aussi bien que vous, sinon mieux ; l’ordre social existant est un
scandale à suffoquer la Nature ! Et moi, je ne suis qu’un parasite féodal. Mais quoi ! Ils sont nés là-dedans,
c’est une vieille histoire, ça n’empêche par leurs lunes de miel, ni leur peur de la mort ; et tout est bien qui
n’a pas de fin. — Eh oui ! Levez-vous un beau jour ! mais pour qu’alors ça finisse ! Mettez tout à feu et à
sang ! Écrasez comme punaises d’insomnies les castes, les religions, les idées, les langues ! Refaites-nous
une enfance fraternelle sur la Terre, notre mère à tous, qu’on irait pâturer dans les pays chauds.
Dans les jardins
De nos instincts,
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Allons cueillir
De quoi guérir.
Oui, va-t’en voir s’ils viennent ! Ils sont trop tyrans domestiques pour cela, et pas encore assez esthétiques et
pour longtemps encore trop lâches devant l’Infini. Qu’ils gobent bouche bée un Polonius, philanthrope
quelconque, qui leur chante : « Enrichissez-vous ! » — Et dire que j’ai eu un instant ma folie d’apôtre,
comme Çakya-Mouni fils de roi ! Oh ! là, là, moi avec ma chère petite vie unique (que j’aurai à partager avec
une chère petite femme unique) attacher ce grelot ! Et prendre pour cela ma folle tête sonore ! Ne soyons pas
plus prolétaire que le prolétaire. Et toi, Justice humaine, ne soyons pas plus forte que Nature. Oui, mes amis,
mes frères ! L’au-petit-bonheur historique, ou la purgation apocalyptique, le bon vieux Progrès ou le retour à
l’état de nature. En attendant, bon appétit et amusez-vous bien demain dimanche.
La montée du sentier qui mène à la grille du cimetière est pénible. Hamlet se renfrogne et froisse des
coquelicots dans ses doigts. Il arrive trop tard ; la cérémonie concernant Polonius est enterrée ; les dernières
silhouettes officielles sortent. Hamlet s’accroupit derrière une haie pour les laisser passer sans être vu.
Quelqu’un donne le bras à Laërtes, fils du défunt, qui fait peine à voir. Une voix dit, comme d’un poussé à
bout : « Hé ! quand on a un fou à la maison, on l’enferme ! »
En se relevant, Hamlet remarque qu’il vient d’endommager gravement une fourmilière. — « Autant que
faire ! pense-t-il. Et pour que le Hasard m’ait des obligations »... Et il achève ladite fourmilière à coups de
talon.
Tout le monde est sorti. Hamlet ne trouve dans le cimetière que deux fossoyeurs. Il s’approche du premier,
lequel arrange les couronnes déposées sur la tombe de Polonius.
— Nous n’aurons son buste que le mois prochain, lui déclare cet homme, sans y être autrement invité.
— De quoi est-il mort ? Sait-on ?
— D’une attaque d’apoplexie. C’était un bon vivant.
Alors, là, Hamlet, qui, en conscience, et malgré son âme si lettrée, ne s’en était pas encore avisé, sent qu’il a
décidément tué un homme, supprimé une vie, une vie dont on peut témoigner. Le nommé Polonius… il
guignait devant lui au moins quarante bonnes années encore (Polonius vous faisait à tout propos tâter sa
santé de fer) et Hamlet les a, d’une estocade irréfléchie mais fatale, ma foi, rayées, comme on biffe dans un
exorbitant devis d’architecte. Est-ce que ces menus conflits de phénomènes riment à quelque chose au delà
d’ici-bas ?
Hamlet se campe devant ce fossoyeur qui l’observe, attendant des compliments sur son arrangement des
couronnes ; il le toise supérieurement et puis lui aboie par la figure : « Words ! words ! words ! entendezvous ! des mots, des mots, des mots ! »
Et il se dirige vers l’autre fossoyeur, sans entendre celui-ci lui crier un : « Eh, va donc, fainéant ! »
— Et vous, mon brave homme, que faites-vous là ?
— Sa Seigneurie le voit, je retape les vieilles tombes. Ah ! il y a beaux jours que les vieux ont séché les
plâtres par ici. Notre cimetière est toujours resté aussi petit, cependant que les bontés du feu roi doublaient
presque la population de sa bonne ville.
Le fossoyeur un peu pris de vin tâche à se caler sur sa bêche.
— Ah ! ah ! vraiment ? doublé la population…
— On voit que sa Seigneurie n’est pas d’ici. Le feu roi (mort aussi d’une attaque d’apoplexie) était coureur
mais bel homme et un cœur d’or, et partout où il progénitait, il laissait de vraies caresses et de bons écus à
son effigie.
— Mais dites-moi, le prince Hamlet est bien le fils de sa femme Gerutha ?
— Hé point ! Sa Seigneurie a peut-être ouï parler de feu l’incomparable fou Yorick...
— Sans doute.
— Eh bien, le prince Hamlet est tout bonnement son frère par la mère.
Hamlet frère d’un fou de cour ; il n’est donc pas « si fils de ses œuvres » qu’il le croyait !…
— Et cette mère, elle ?
— Parfaitement, la mère était bien la plus diaboliquement belle gypsie que, sauf votre respect, on ait jamais
vue. Elle vint ici, disant la bonne aventure avec son fils Yorick. Elle fut retenue au Château, et, un an après,
mourut en mettant au monde le noble Hamlet ; quand je dis en mettant au monde... Elle mourut de
l’opération césarienne qu’on lui fit.
— Ah ! ah ! cet Hamlet ne fut pas facile à attirer dans ce monde d’ici-bas !…
— Parfaitement. Elle était enterrée où sa Seigneurie voit qu’on a déblayé. Un ordre de la reine nous vint
l’autre mois d’exhumer ses restes et de les brûler, bien que la gypsie fût chrétienne aussi bien que vous et
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moi, à preuve que nous pintâmes à tire-larigot ce jour-là. Et puis est venu le tour de la tombe de son pauvre
Yorick, dont sa Seigneurie peut fouler ici les restes.
— Je n’en ferai rien.
— Et que j’arrange pour recevoir dans une heure le corps de la noble fille de Polonius, Ophélie, qu’on a
retrouvé. Hé oui, nous sommes tous mortels.
— Ah ! Ophélie... on a retrouvé cette demoiselle ?...
— Près de l’écluse, monsieur. C’est son frère Laërtes qui ce matin est venu nous avertir. Il faisait bien peine
à voir, ce jeune homme. Il est très aimé. Vous savez qu’il s’occupe de la question des logements d’ouvriers ?
Il faut dire aussi qu’il se passe de drôles de choses.
— Et l’on assure avec cela, n’est-ce pas, que le prince Hamlet est devenu fou ? (Oh ! mon Dieu, mon Dieu !
près de l’écluse...)
— Oui, c’est la débâcle. Oh ! je l’ai toujours dit, nous sommes mûrs pour l’annexion. Le prince Fortimbras
de Norwège va nous faire notre affaire un de ces quatre matins. Moi j’ai déjà converti mon petit pécule en
actions de Norwège. Et tout ça ne m’empêchera pas de boire un bon coup demain dimanche.
— C’est bien, continuez.
Hamlet met un écu dans la main de l’homme et ramasse le crâne de Yorick, et il va se perdre, d’une allure
traînarde et correcte, entre les cyprès et les mausolées, accablé de destinées, de bien louches destinées, ne
sachant plus trop par quel bout reprendre un peu décemment son rôle.
Hamlet s’arrête ; il tient le crâne de Yorick embouché à son oreille, et écoute, perdu...
— Alas, poor Yorick ! Comme on croit entendre dans un seul coquillage toute la grande rumeur de l’Océan,
il me semble entendre ici toute l’intarissable symphonie de l’âme universelle dont cette boîte fut un carrefour
d’échos. Voilà une solide idée. Et, voyez-vous une espèce humaine qui ne s’enquerrait pas davantage, qui
s’en tiendrait à cette rumeur vaguement immortelle qu’on entend dans les crânes, en fait d’explication de la
mort, c’est-à-dire en fait de religion ! Alas, poor Yorick ! Les petits helminthes ont dégusté l’intellect à
Yorick... C’était un garçon d’un humour assez infini : mon frère (même mère pendant neuf mois) si toutefois
ce titre commande une attitude spéciale. Il fut quelqu’un. Il avait le moi minutieux, entortillé et retors ; il se
gobait. Où ça est-il passé ? Ni vu, ni connu. Plus même rien de son somnambulisme. Le bon sens lui-même,
dit-on, ne laisse pas de traces. Il y avait une langue là-dedans ; ça grasseyait : « Good night, ladies ; good
night, sweet ladies ! good night, good night ! » Ça chantait, et souvent des gravelures. — Il prévoyait !
(Hamlet fait le geste de lancer le crâne en avant.) Il se souvenait. (Même geste en arrière.) Il a parlé, il a
rougi, il a BAILLÉ ! — Horrible, horrible, horrible ! — J’ai peut-être encore vingt ans, trente ans à vivre, et
j’y passerai comme les autres. Comme les autres ? — Oh Tout ! quelle misère, ne plus y être ! — Ah ! Je
veux dès demain partir, m’enquérir par le monde des procédés d’embaumement les plus adamantins. — Elles
furent aussi, les petites gens de l’Histoire, apprenant à lire, se faisant les ongles, allumant chaque soir la sale
lampe, amoureux, gourmands, vaniteux, fous de compliments, de poignées de mains et de baisers, vivant de
cancans de clochers, disant : « Quel temps fera-t-il demain ? Voici l’hiver qui vient... Nous n’avons pas eu de
prunes cette année. » — Ah ! tout est bien qui n’a pas de fin. Et toi, Silence, pardonne à la Terre ; la petite
folle ne sait trop ce qu’elle fait ; au jour de la grande addition de la Conscience devant l’Idéal, elle sera
étiquetée d’un piteux idem dans la colonne des évolutions miniatures de l’Évolution Unique, dans la colonne
des quantités négligeables. — Et puis, des mots, des mots, des mots ! Ce sera là ma devise tant qu’on ne
m’aura pas démontré que nos langues riment bien à une réalité transcendante. — Quant à moi, avec mon
génie, je pourrais être ce qu’on appelle communément un Messie ; mais voilà, trop, trop gâté comme un
Benjamin par la Nature. Je comprends tout, j’adore tout, et veux tout féconder. C’est pourquoi, comme je l’ai
gravé au mur de mon lit en un distique également rossard :
Ma rare faculté d’assimilation
Contrariera le cours de ma vocation.
Ah ! que je m’ennuie donc supérieurement ! — Eh bien, qu’est-ce que j’attends ici ? — La mort ! La mort !
Ah ! est-ce qu’on a le temps d’y penser, si bien doué que l’on soit ? Moi, mourir ! Allons donc ! Nous en
recauserons plus tard, nous avons le temps. — Mourir ! c’est entendu, on meurt sans s’en apercevoir comme
chaque soir on entre en sommeil. On n’a pas conscience du passage de la dernière pensée lucide au sommeil,
à la syncope, à la Mort. C’est entendu. Mais ne plus être, ne plus y être, ne plus en être ! Ne plus pouvoir
seulement presser contre son cœur humain, par une après-midi quelconque, la séculaire tristesse qui tient
dans un tout petit accord au piano ! — Mon père est mort, cette chair dont je suis un prolongement n’est plus.
Il gît par là, étendu sur le dos, les mains jointes ! Qu’y puis-je, que passer un jour à mon tour par là ? Et on
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me verra aussi, dignement étendu, les mains jointes, sans rire ! Et l’on se dira : « Quoi ! c’est donc là, là, ce
jeune Hamlet si gâté, si plein d’une verve amère ? C’est lui, là, devenu si sérieux, comme les autres ; il a
accepté sans révolte et de ce grand air si digne cette criante injustice d’être là ? »
Hamlet se prend son futur crâne de squelette à deux mains et essaie de frissonner de tous ses ossements.
— Oh ! voyons ! voyons ! Soyons sérieux ici ! Oh ! je devrais trouver des mots, des mots, des mots ! Mais
qu’est-ce donc qu’il me faut, si ceci me laisse froid ? — Voyons : quand j’ai faim, j’ai la vision intense des
comestibles ; quand j’ai soif, j’ai la sensation nette des liquides ; quand je me sens le cœur tout célibataire,
j’ai à sangloter le sentiment des yeux chéris et des épidémies de grâce ; donc si l’idée de la mort me reste si
lointaine, c’est que je déborde de vie, c’est que la vie me tient, c’est que la vie me veut quelque chose ! —
Ah ! ma vie, donc à nous deux !
— Hé là-bas, vous ! lui crie le second fossoyeur, voilà justement le convoi d’Ophélie qui monte !
Le premier mouvement du penseur Hamlet est de singer à ravir le clown réveillé par un coup de mailloche à
grosse caisse dans le dos ; et c’est tout juste qu’il le réprime. Puis il se glisse derrière une balustrade trilobée
à jour et s’apprête à voir un peu.
Le mélancolique. convoi débouche (une fois pour toutes !) Dans le cahotement de la montée, des roses
blanches tombent du velours noir recouvrant le cercueil (tombent, hélas ! une fois pour toutes !)
— Elle n’est cependant pas si lourde, pense Hamlet avec intérêt. J’oubliais ; elle doit être gonflée d’eau
comme une outre ; petite sale ; repêchée à l’écluse ! Elle devait finir par là, ayant puisé sans méthode dans
ma bibliothèque. — Oh ! mon Dieu ! Maintenant, j’apprécie ses grands regards bleus ! Pauvre, pauvre jeune
fille ! Si maigre et si héroïque ! Si inviolée et si modeste ! — Et tant pis ! C’est la débâcle ! la débâcle ! Le
conquérant Fortimbras en eût fait demain sa maîtresse ; il est turc là-dessus ! Et Elle en serait
incontestablement morte de honte, je la connais, l’ayant bien dressée ! Elle en serait décédée, ne laissant
qu’une bien vilaine réputation de Belle-Hélène, tandis que, grâce à moi…
Hamlet s’oublie un instant à suivre les gestes des moines officiant autour du trou ; ils vont vite en besogne,
les moines, car ils auront fort à faire, demain dimanche. Une jeune fille ; c’est aussi promptement enterré que
marié. Où trouver le temps pour se révolter contre tout cela ? L’art est si long et la vie si courte ! Et Hamlet
ne peut que se sentir crispé d’un remords à fleur de nerfs, pour son humble part.
— Tout de même ! tout de même ! Moi qui ai si bon cœur, moi dont le cœur d’or est si connu, avoir fait ça !
Oh ! fi, Hamlet, fi !... — Pauvre Ophélie, pauvre Lili ; c’était ma petite amie d’enfance. Je l’aimais ! C’est
évident ! Ça tombait sous les sens. Et même, je ne demandais pas mieux que de me régénérer selon le regard
de son sourire. Mais, l’Art est si grand et la vie est si courte ! Et rien n’est pratique. Et par ma mère et mon
frère, et tout, j’étais damné d’avance. (Oui, il y a de ça). Et donc, alors, la peine que, en conséquence, je ne
pouvais manquer de lui faire, la rendit si maigre, si maigre, que l’anneau d’alliance que je lui avais, en des
temps meilleurs, passé au doigt, en tombait à chaque instant, preuve céleste que... Et puis elle avait l’air par
trop périssable ! Et puis avec ces galas de la cour, où l’on se décolleté dès seize ans, ses épaules ne me furent
pas une virginité à saccager ; le diable me confisque si je me rappelle quand j’ai vu ses épaules pour la
première fois ! Or, on le sait, la virginité des épaules, c’est tout pour moi, je ne transige jamais là-dessus. Et
puis, elle en était venue là comme les autres, malgré tout le céleste de ses regards levés. J’étais donc volé. Il
ne me restait plus qu’à observer ses menus gestes de femelle ; je songeais : « À quels yeux croire désormais !
fi ! J’aurais dû lui crever les yeux, ces yeux, et m’y laver les mains. » Et enfin, d’ailleurs, cette infernale voix
qui toujours arrivait bonne première à nos rendez-vous et m’étourdissait à ne m’y plus reconnaître de
« l’embrassera ! Pas ! C’est absolu ! Non, des mots, des mots, des mots ! » J’en serais devenu fou. Je dois me
ménager. — Allez, allez, psalmodiez Holy, holy, holy, Lord Good Almighty ! La personnalité divine, quelle
idée ! Voilà ce qui s’appelle faire des personnalités. Son paradis, c’est encore mon souvenir. Car, en effet,
elle avait ce que je demanderai toujours à la fiancée de mon génie, une bouche ingénument accueillante, mais
gardée par deux grands yeux qui savent, ou bien (comme cette actrice Kate, avouons-le) deux fins yeux bleus
vagabonds et crédules, gardés par une bouche ravagée avec le pli amer du coin immortellement sur la
défensive. Et son profil, et c’est là d’ailleurs le seul étalon pour mesurer la beauté de la femme, ne rappelait
celui d’aucun animal, du bull-dog à la gazelle. Et dans l’intimité, je ne lui ai jamais surpris la nuance
chienne. Bref, c’était une sainte en jupe simple. Il eût été dommage qu’elle vieillît. Et maîtresse de
Fortimbras ! Ah, Ophélie, que n’étais-tu née ma compagne ! que n’étais-tu assez inconnue pour cela ! Je l’ai
aidée à se faner, la Fatalité a fait le reste.
Ophélie, Ophélie
Ton beau corps sur l’étang
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C’est des bâtons flottants
À ma vieille folie…
La cérémonie tire à sa fin (une fois pour toutes !) On entend les boules de terreau sonner sur le cercueil,
sonner sur ce cercueil, hélas ! une fois pour toutes !...
— Elle avait un torse angélique, encore une fois. Que puis-je à tout cela, maintenant ? Allons, je donne dix
ans de ma vie pour la ressusciter ! Dieu ne dit mot ! Adjugé ! C’est donc qu’il n’y a pas de Dieu, ou bien que
c’est moi qui n’aimême plus dix ans à vivre. La première hypothèse me semble la plus viable, et pour cause.
Hamlet, homme d’action, ne quitte sa cachette qu’assuré, bien entendu, que cette brute de Laè’rtes a filé avec
toute l’honorable compagnie.
— Mon frère Yorick, j’emporte votre crâne à la maison ; je lui ferai une belle place sur l’étagère de mes exvoto, entre un gant d’Ophélie et ma première dent. Ah ! comme je vais travailler cet hiver avec tous ces
faits ! J’ai de l’infini sur la planche.
La nuit tombe ! Ah ! il faut agir ! Hamlet reprend le chemin du Château sans trop se laisser envahir par la
quotidienneté de la nuit sur les grandes routes. Il monte d’abord dans sa tour, déposer ce crâne, ce puissant
bibelot. Il s’accoude un instant à la fenêtre, à regarder la belle pleine lune d’or qui se mire dans la mer calme
et y fait serpenter une colonne brisée de velours noir et de liquide d’or, magique et sans but.
Ces reflets sur l’eau mélancolique... La sainte et damnée Ophélie a flotté ainsi toute la nuit...
— Oh ! je ne puis pourtant pas me tuer, me priver de vivre ! Ophélie ! Ophélie ! Pardonne-moi î Ne pleure
pas comme ça !
Hamlet rentre dans sa chambre et tâtonne fébrilement.
— Je ne peux pas voir les larmes de jeunes filles. Oui, faire pleurer une jeune fille, il me semble que c’est
plus irréparable que l’épouser. Parce que les larmes sont de la toute enfance ; parce que verser des larmes,
cela signifie toutsimplement un chagrin si profond que toutes les années d’endurcissement social et de raison
crèvent et se noient dans cette source rejaillie de l’enfance, de la créature primitive incapable de mal. —
Adieu beaux yeux, quand même inviolés car inapprivoisables, d’Ophélie ! Il se fait tard, il faut agir ; à
demain les baisers et les théories.
Hamlet descend pour voir comment sa pièce est mise en train.
Un corridor, où d’ordinaire campe la réserve de buffet des grands bals de gala, a été divisé en cabinets et doit
servir de coulisses à ces comédiens.
Hamlet, sans y trop songer, pousse doucement la porte d’un de ces cabinets et entre. Il s’arrête dès le seuil.
Là, vraiment, parmi les coffres déballés, éplorée comme une Madeleine, toute hoquetante des derniers
sanglots d’une crise, cette actrice Kate gît sur le parquet, en robe de brocart rouge lamé d’or à traîne, mais
sans corsage encore, les bras et les épaules offerts, la poitrine nature en une chemisette à plissés merveilleux,
là, en pauvre créature, peut-être consolable.
Hamlet clôt dextrement et doucement la porte derrière lui, et s’approche de cette nouvelle histoire.
— Eh bien ? qu’est-ce que c’est, Kate ? Qu’est-ce que vous avez ?
La belle Kate ne s’émeut pas plus que cela de la présence de son Altesse. Elle reste encore des minutes ainsi
prostrée dans la supériorité de ses larmes, dans la supériorité de son enfance retrouvée. Puis (comme il faut
toujours bien agir) elle se lève ; et sans plus s’occuper de son Altesse que pour lui tourner le dos, elle se
reprend à organiser, de-ci de-là dans le désordre, sa toilette de reine d’un soir, rageant avec des restes de
larmes contre des nœuds de lacets. — Qu’elle est généreusement belle, malgré tout ! Oh, certes, si elle lui
parle, si elle parle et côtoie l’hamlétisme sans y tremper, Hamlet est perdu ! Perdu et gagné !
— Voyons, c’est pas tout ça ;qu’aviez-vous, Kate, ma mie ? Et il la prend gentiment par la taille.
— Dites-moi cela, à moi.
Et voilà la belle Kate qui le regarde en face immortellement, et puis se laisse aller cachant son visage dans la
poitrine du chaste prince, et se remet à fondre en larmes, à pleurer toutes ses larmes sur ce pourpoint de
velours noir où Ophélie en a déjà pas mal versé le mois passé.
Hamlet croit devoir lui semer la nuque de baisers calmants et autres, en lissant les bandeaux de ses cheveux.
Il faudrait la plume de Hamlet pour vous servir le sentiment de la beauté de Kate. Kate est une de ces
apparitions qui, dans la rue, vous clouent là, sans qu’on songe à la suivre (à quoi bon ? se dit-on, ce que sa
vie doit être prise, à celle-là) et que dans un salon on regarde, non d’un air beau, fou ou tendre, mais
indifférent et lointain (ce qu’elle doit être habituée aux têtes qui se retournent ahuries ! pas la peine d’en
grossir la cohue, pense-t-on). Puis on apprend qu’elle vit comme une autre, ou mariée, ou seule, ou par-ci
par-là. Et l’on s’étonne qu’elle ne soit pas la fameuse une telle, une accablée de drames internationaux
malgré ses vingt-cinq ans et son air de monstre qui a toujours bien dormi la veille.
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Et Kate, qui a passablement roulé, a roulé rien moins qu’épiquement. Elle a roulé, ô misère ! Ô petites villes,
abat-jour des lampes, intermédiaires crasseux, claquements de portes ! Ô misère, ô occasions ! Elle a roulé,
et cependant elle est là, elle vous regarde ; et la moue de sa bouche est une campanule éclose de ce matin, et
ses grands yeux inconnus balbutient : « Quoi ?… Ah ?… » et quelle modestie dans ce doux chignon sur cette
nuque délicate ! — Ah ! laissez donc, elle est de l’autre sexe, elle est esclave, elle ne sait pas...
Elle ne sait guère, et Hamlet ne sait que promener de pitié et de chatterie la moue de ses lèvres adolescentes
sur la peau tendrement rincée de ses chastes épaules abattues de chagrin, et se montrer créature, créature sans
phrases.
Mais non ! les prairies naturelles sont loin, à cette heure ! Il faut d’abord faire table rase, et dès ce soir !
— Maintenant, Kate, vous allez me dire pourquoi ces larmes où je vous ai trouvée, ô vous qui ne me
connaissiez pas hier et trouvez ce soir mes baisers naturels. Il faut me dire.
— Oh ! non, jamais.
— C’est donc bien vilain, alors ? Voyons, à moi…
Et comme il achève ce mot dans ses épaules où il passe et repasse ses joues, elle le regarde en face, baisse les
yeux, s’étire les bras, et dit, très ennuyée, d’une voix maussade :
— Eh bien, voilà ! Je ne suis qu’une malheureuse, mais j’ai l’âme haut placée, qu’on le sache. Dieu sait si
j’en ai consommé, sur les planches, des héroïnes sublimes ! Mais, quand j’ai lu les scènes de l’enfance et des
premières fiançailles de mon rôle, dans votre espèce de pièce, oh, tenez !... Comme c’est ça, notre pauvre
destinée pitoyable et impitoyable ! Oh ! vous devez être unique et incompris ! et non pas fou, comme ces
gens à cure-dent et à éperons le disent. Mais aussi que vous avez dû en faire souffrir ! — Alors, voilà, c’est
bien simple... Non ! non !
— Continue, continue, Ophélia.
— Oh ! tenez, voilà, en m’habillant je me répétais le monologue à l’église, et soudain mon cœur a crevé de
nouveau dans ses larmes, et je me suis laissée aller sur le plancher. Si vous saviez comme j’ai un grand
cœur ! Ah ! j’en ai assez de cette existence cynique et vide ! Demain je quitte tout, je reviens à Calais et
j’entre en religion pour me consacrer aux pauvres blessés de la guerre de Cent Ans.
Hamlet, quoique bien élevé, ne peut guère contenir son allégresse d’artiste. C’est son baptême de poète ! et
cette comédienne le lui apporte, ainsi enveloppé, de la première scène de Londres. Et voilà Hamlet qui
surmène la pauvre Kate d’explications, se fait indiquer les moindres mots, et, de tout son cœur cosmique, se
mire dans ces yeux connaisseurs que son génie vient d’élargir de gloires.
— Alors, tu crois que, devant un public de capitale et aux lumières, l’effet serait renversant ? Et qu’on me
regarderait passer dans les rues en s’étonnant de mon allure triste ? Et que d’aucuns se tueraient devant
l’énigme de ma vie ! Ô Kate, si tu savais ! Ce drame-ci, ce n’est rien, je l’ai conçu et travaillé au milieu de
répugnantes préoccupations domestiques. Mais j’en ai encore, là-haut, des drames et des poèmes, des féeries
et des métaphysiques, inouïs, foudroyants ou donneurs de mort lente ! Ah ! tiens, nous allons nous aimer, je
quitte aussi tout, nous partirons cette nuit sous ce clair de lune si lucide ! Je te lirai tout ! nous irons vivre à
Paris. Kate se reprend à pleurer en silence.
— Non, non, Hamlet, ce n’est pas pour moi, je veux me retirer, entrer en religion, soigner les blessés delà
très lamentable guerre de Cent Ans et prier pour vous.
On toque à la porte.
— Allons, Kate, essuyez vos yeux intéressants, bâclez votre toilette ; je reviendrai à la fin du spectacle. Je
vous aime ! vous aime ! Et vous me direz des nouvelles de cette immensité. — Entrez !
C’est le régisseur ! Hamlet lui intime en passant :
— On me garde le secret, n’est-ce pas ! Ce drame ne vient pas de moi. Il est le premier venu de votre
répertoire. Allez-y carrément.
— Hé ! continue Hamlet, tout haut, en remontant chez lui, je me moque de cette représentation et de sa
moralité comme du premier amant de Kate ! — Le sort est jeté ! Je tiens ma solution. Ces choses-là viennent
toujours d’où on les attendait le moins. À moi la vie et les alentours, et les très glorieux pessimismes quand
même !
Hamlet s’habille solidement ; range des eaux-fortes qu’il entasse avec des manuscrits, de l’or et pierreries
dans deux coffrets. Il choisit de menues armes. Puis, il allume un réchaud, pose dessus une planche de cuivre
à graver sur laquelle il couche ensuite les deux statuettes de cire au cœur puérilement percé d’une aiguille, et
les deux statuettes bientôt coulent, s’unissent tendrement en une mare répugnante.
— Et je me fiche aussi de mon trône. C’est trop abrutissant, Fortimbras de Norwège me dirait que c’est là le
meilleur parti à prendre. Soit ; tout est bien. Les morts sont morts. Je vais voir du pays. Et Paris ! Je suis sûr
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qu’elle joue comme un ange, comme un monstre. Nous ferons sensation. Nous aurons des noms de guerre
bizarres.
Hamlet cherche un instant un nom de guerre bizarre ; mais non ! tout l’espace qu’ils vont dévorer à cheval
cette nuit le prend déjà à la gorge. Comme demain, dimanche, quand les jeunes filles d’Elseneur seront ainsi
que toujours à la messe et à vêpres, comme demain, à cette heure, eux seront loin, mélancoliquement loin des
remparts d’Elseneur !
Hamlet sonne son écuyer pour les derniers préparatifs. En l’attendant, il s’amuse à souffleter de jets de salive
ces toiles pendues aux murs de sa chambre, ces vues du Jutland qui ont pesé sur sa jeunesse stérile et mal
nourrie.
Le roi Fengo et la reine Gerutha promènent un sourire fatigué d’affabilité et s’installent en leurs stalles ; la
salle se rassied, dans le froufrou indécis d’un champ de blés mûrs écoutant d’où va venir le vent. Des pages
se retirent vers les portes. Le rideau de la scène se sépare en deux.
Dans un coin obscur d’une tribune, Hamlet, dont nul jamais ne s’inquiète, assis sur un coussin, observe la
salle et la scène par les baies de la balustrade.
Le cliché « public houleux » lui vient aux lèvres.
— Allons, Hamlet, que tout ceci vous laisse imperméablement froid. La salle est nulle, l’étiquette défend
d’applaudir, et l’on va modeler son visage sur ceux du couple royal, lequel ne sera guère à son aise, et par
conséquent guère impartial, dès le second acte.
La pièce commence, Hamlet la sait par cœur. s’absorbe dans des expériences d’effets scéniques, note
d’avance la portée de ses mots devant un vrai public, rumine des retouches. Kate enfin paraît et électrise
l’œuvre.
— Parbleu ! Je n’étais qu’un écolier ! Voilà ce qui me manquait, l’épreuve de la rampe ! Oh ! je n’ai pas
encore donné le quart de ce que j’ai dans le ventre. Et elle ! comme elle est carrément et chimériquement
belle, ainsi coiffée à la Titus ! Et elle n’a pas l’air de savoir où on la mène ! et ses yeux qui tantôt savent tout,
tout ! tantôt rien, rien, au nom du Ciel ! Vrai, son être est trempé pour l’accomplissement de choses dont on
parlera dans mille ans. Nous nous comprenons. Nous ferons sensation. Elle a, comme Ophélie, cet air colletmonté ; mais à elle, ça lui donne du montant (un mot à noter !) Je veux l’aimer comme la vie. — Oh !
comme elle a dit ça :
Oh ! reviens là,
Reviens vagir parmi mes cheveux, mes cheveux
De moi, je t’y ferai des bracelets d’aveux,
En veux-tu, en voilà…
Oh ! je viens, je viens, va ! Et moi qui croyais connaître la Femme ! la Femme et la Liberté ! et les salissais
de banalités a priori ! Cuistre ! Pédicure ! — Et les deux criminels, là-bas ; ils ont l’air au spectacle, ma
parole. Ils ne comprenaient pas encore d’où vient cet horrible, horrible, horrible drame. Je me suis peut-être
un peu trop livré aux hors d’œuvre de fantaisie, et il en reste malgré ces coupures. Mais attendons la scène du
jardin. — Tiens, Laërtes n’est pas là.
On se lève pour l’entr’acte. Le roi et la reine font cercle, les pages ayant repris les traînes de leurs manteaux,
et promènent leur sourire affable et fatigué. On fait circuler des tranches de hareng et de petites cornes
d’auroch où mousse la cervoise.
Dès la scène II de l’acte suivant et devant ce décor de tonnelle où le roi Gonzago commence à s’assoupir
éventé par sa femme, Fengo au cœur lâche comprend ! et sans attendre l’entrée de Claudius, il s’affaisse
évanoui. La reine se lève, droite, très Paul Delaroche ; on s’empresse avec tout un répertoire de mines et de
chuchotements. Un coup de hallebarde du chambellan successeur de Polonius (heureux d’inaugurer ainsi ses
fonctions) fait tirer le rideau sur l’horrible, horrible, horrible pièce.
Hamlet s’est dressé dans son coin, balbutiant :
— Musique ! Musique ! C’était donc vrai ! Et moi qui n’y croyais pas encore !... Enfin, ils sont assez punis
comme ça, c’est mon avis. Moi je file ! Un jour de plus, et l’on m’empoisonnerait comme un rat, un sale rat !
Il se lance à travers des escaliers de services pleins de tintements de sonnettes et d’appels. Les coulisses sont
désertées. Hamlet reprend d’abord son manuscrit abandonné, là, ouvert à l’endroit interrompu.
Kate l’attendait.
— Un simple évanouissement. Je te raconterai après. Mais que je t’embrasse ! Tu as joué comme un ange.
Maintenant, nous n’avons pas une minute à perdre… comme deux rats !
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Il l’aide à sortir de ses brocarts i Elle a eu la bonne idée de garder sa toilette ordinaire par-dessous. Hamlet
l’enveloppe d’un manteau et la coiffe d’une toque.
— Suis-moi. Ils traversent le parc, faisant s’envoler des oiseaux assoupis.
Hamlet sifflote allègrement. Ils sortent par une petite porte. Un écuyer est là, tenant deux chevaux par la
bride.
Le temps de s’enchâsser en selle entre ces précieux coffrets, et les voilà partis, au trot, tout naturellement.
(Non, non ! Ce n’est pas possible ! Cela s’est fait trop vite !)
Ils vont à travers champs, pour regagner la grand’route sans passer par la porte d’Elseneur, la grand’route
sans la lune, la lune qui doit faire si bien ensuite là-bas par les plaines et les plaines...
C’est la route où, quelques heures auparavant, Hamlet cheminait, croisant des prolétaires quotidiens :
Il fait un suave temps de calorifère du paradis. Et la lune joue, non sans succès, l’enchantement des nuits
polaires.
— Kate, avez-vous soupe avant le spectacle ?
— Non. Ah ! je n’avais guère le cœur à manger, vous pensez bien.
— Moi, je n’ai rien pris depuis midi. Dans une heure nous serons à un rendez-vous de chasse où nous
prendrons quelque chose. Le garde est mon père nourricier. Tu verras chez lui une miniature de moi en bébé.
Hamlet s’aperçoit qu’ils vont justement passer près du cimetière.
(Le cimetière...)
Et le voilà qui, piqué d’on ne sait quelle tarentule, descend de son cheval qu’il attache à un arbre, un arbre
indifférent et mélancolique.
— Kate, attends-moi une minute. C’est pour la tombe de mon père, qui a été assassiné, le pauvre homme ! Je
te raconterai. Je reviens à l’instant ; le temps de cueillir une fleur, une simple rieur en papier, qui nous servira
de signet quand nous relirons mon drame et que nous serons forcés de l’interrompre dans des baisers.
Il s’avance dans le clair de lune parmi les ombres crues des cyprès sur les pierres, il va droit à la tombe
d’Ophélie, de la déjà si mystérieuse et légendaire Ophélie. Et, là, les bras croisés, il attend.
— Décidément,
Les morts
C’est discret ;
Ça dort
Bien au frais.
— Qui va là ? C’est toi, Hamlet de malheur ? Que viens-tu faire ici ?
— C’est vous, mon cher Laërtes, quel bon vent ?…
— Oui, c’est moi ; et si vous n’étiez un pauvre dément, irresponsable selon les derniers progrès de la science,
vous paieriez à l’instant la mort de mon honorable père et celle de ma sœur, cette jeune fille accomplie, là,
sur leurs tombes !
— Ô Laërtes, tout m’est égal. Mais soyez sûr que je prendrai votre point de vue en considération...
— Juste ciel, quelle absence de sens moral !
— Alors, vous croyez que c’est arrivé ?
— Allons ! Hors d’ici, fou, ou je m’oublie ! Quand on finit par la folie, c’est qu’on a commencé par le
cabotinage.
— Et ta sœur !
— Oh !
À ce moment, on entend dans la nuit toute spectralement claire l’aboi si surhumainement seul d’un chien de
ferme à la lune, que le cœur de cet excellent Laërtes (qui aurait plutôt mérité, j’y songe, hélas ! trop tard,
d’être le héros de cette narration) déborde, déborde de l’inexplicable anonymat de sa destinée de trente ans !
C’en est trop ! Et saisissant d’une main Hamlet à la gorge, de l’autre il lui plante au cœur un poignard vrai.
Notre héros s’affaisse sur ses genoux orgueilleux dans le gazon, et vomit des gorgées de sang, et fait l’animal
talonné par une mort certaine, et veut parler... il parvient à articuler :
— Ah ! Ah ! qualis... artifex... pereo !
Et rend son âme hamlétique à la nature inamovible.
Laërtes, idiot d’humanité, se penche, embrasse le pauvre mort au front et lui serre la main, puis, tâtonnant
dans le vide, s’enfuit à travers les clôtures, pour toujours, se faire moine, peut-être...
Silence et lune... Cimetière et nature… Hamlet ! Hamlet ! appelle bientôt la grelottante voix de Kate ;
Hamlet !...
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La lune inonde tout d’un silence polaire.
Kate se décide à venir voir.
Elle voit. Elle palpe ce cadavre livide de lune et de décès.
— Il s’est poignardé, ô Ciel !
Elle se penche sur cette tombe et lit :
OPHÉLIE
FILLE DE LORD POLONIUS ET DE LADY ANNE
MORTE À DIX-HUIT ANS
Et la date d’aujourd’hui.
— C’était celle qu’il aimait ! Alors, pourquoi m’emmenait-il avec amour ? Pauvre héros... Que faire ?
Elle se penche, l’embrasse, l’appelle.
— Hamlet, my little Hamlet !
Mais la mort est la mort, c’est connu depuis la vie.
— Je vais retournerau Château avec les chevaux, retrouver l’écuyer témoin de notre départ, et je dirai tout.
Elle repart au même trot, tournant le dos à la pleine lune qui devait faire si bien, là-bas, sur les plaines, les
plaines, vers Paris et les brillants Valois, tenant cour plénière.
On sut tout, le répréhensible coup du drame à personnalités, l’enlèvement, etc. On envoya chercher le
cadavre avec des flambeaux de première qualité. — Ô soir historique, après tout !
Or, Kate était la maîtresse de William.
— Ah ! ah ! fit cet homme, c’est comme ça qu’on voulait lâcher Bibi !
(Bibi est une abréviation de Billy, diminutif de William.)
Et Kate reçut une belle volée qui n’était pas la première et ne devait pas être la dernière, hélas ! — Et
cependant elle était si belle, Kate, que, en d’autres temps, la Grèce lui eût élevé des autels.
Et tout rentra dans l’ordre.
Un Hamlet de moins ; la race n’en est pas perdue, qu’on se le dise !
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GIAN PIETRO LUCINI
Lai a Melisanda Contessa di Tripoli
Virile robur foemineæ fragilitati subiicens.
HROSWITHA DI SASSONIA.
Amor de tierra londhana! JAUFRÉ RUDEL.
Melisande! Glück und Blüme! Melisande! Was ist Traum? Was ist Tod?... HEINE.
Io vengo messaggio d’amore: la favola breve è finita... G. CARDUCCI.
Il nostro imperialismo è una parata, un bluff nord-americano: è come se li abitanti di Chicago volessero intendersi
d’arte. Noi non ci intendiamo di conquiste; quindici secoli di schiavitù ed una attuale costituzione impropria alla gloria
ed alla dignità nazionale ci hanno capponati opportunamente, per le stie della monarchia e del socialismo.
OLDRADO, Le Cose nuove.
Tra le molte Tripoli, che si incontrano nella nomenclatura geografica, due sono le maggiori: Tripoli dei Garbo (Tarabulissi Garb) questa di Cirenaica, e l’altra Tripoli di Siria, di cui Melisanda fu contessa franca. Il Cantastorie sa che non
bisogna confonderle; ma si prende licenza di rimettere una nuova Melisanda, mosulmana per forza, a Tarabulissi, dove
intendono le nostre cupidigie: comprende di commettere un errore di storia, ma se ne consola facilmente perché rispetta
la verità simbolica e psicologica.
«Oh Contessa, Signora,
son venuto per Voi,
Non indugiai al viaggio;
snelli i piroscafi della Navigazione Generale
han sicuro ancoraggio nel porto tripolino;
rullano, a festa, per il mare a Voi
solleciti e benigni,
e chiari fumano, borghesemente,
nell’azzurro bacino,
godendo e privilegio e sovvenzioni,
vanto, gioja e superbia dei capoccioni
della Nazione.
Tripoli bella! Amore d’avventure:
o bruna Melisanda!
Stracciatevi la benda mosulmana;
Guardate in viso ai Gentiluomini
a viso nudo, o sfolgorante di bellezza, Altezza.
Il fez vi pesa sopra le chiome
grottesco ed indecente:
or gettatelo a mare;
portate cappellini di fiori e di piume,
e fatevi ammirare.
Stia pei giardini, tra le palme espanse,
lungo le calme mestizie dei tramonti,
e sotto ai sicomori orientali,
addormentati al riso delle fonti,
o Melisanda, la Vostra persona,
e riguardi sognando la città:
47
non abbia in torno spioni eunuchi
a guardia invisi, e sfoggi
abiti di Parigi e decolletés di Worth,
giojelli di Lalique, e pelliccie di Bergem,
e si permetta amanti, pardon, amici,
molto intellettuali, assai modern style,
prerafaelliti, tra un verso d’annunziano
e uno scambietto di ciarlatano.
Tal sia, a riguardar le rose autoctone,
muschio ed ambra stillanti
come le treccie Vostre,
tal sia, a riguardar rosea Tangeri,
Anadiomene in riva al fresco mare,
marmi e rose affacciati alle ringhiere
dell’africana sponda:
tal sia a riguardar le vaporiere,
sostituite ai lenti camelli del Corano,
e a mirar i piumetti bersaglieri,
galli bruni ed allobroghi a danzare
la presta monferrina,
invidia all’indolenti Bajadere.
Tal sia, senza turbanti e mezzaluna,
Melisanda Contessa,
or ricongiunta al suo Jaufré Rudel.
D’oltre il mare, Signora, ebbi l’invito.
Ho letto poco fa nelle gazzette
che pativate mal di desiderio,
un male doloroso e molto serio,
per le nostre curiose novità:
ho letto, e, per udita ed anche per pietà,
Cavaliere Rudel, Signor di Blaja,
perché non paja troppo l’ingordigia
venni alla Vostra pena e Vi rassegno,
ai piedi imbabucciati,
amore, protezione e Convenzioni.
Datemi, o Bella affascinante, ascolto.
L’harem promiscuo vi strazia e vi incatena!
E per quanto Gran-Turco e poderoso
non può attendere a tutte, in giusto onore,
il turbato Signore e vi trascura,
livido tra la rabbia e la paura.
Ve’ il Bosforo inquieto che schiumeggia!
E li Armeni straccioni a lamentarsi!
E l’Orsa bianca vicino a braccare!
E un Galletto protervio a schiamazzare!
E un subdolo Leopardo, che si striscia,
dalle Piramidi come una biscia
nell’Anatolia, e guata la migliore giornata
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per balzar sulla preda dell’isole, giojelli
nel mare, aperta gloria di commerci!
Un aquilotto d’Alpe remissivo
s’accontenta di poco;
porto Jaufré Rudel lo scudo divisato
d’un’aquila benigna e d’una croce.
Meglio, Contessa buona,
badar direttamente ai casi nostri,
ed aggiunger la voce armoniosa
all’urlare dei Mostri uggiolanti alla caccia.
La causa è alquanto nobile e speciosa.
Ascoltate il consiglio dell’amico;
attender che vi fa Albanesi e Pascià,
che verran, se verranno, come una sanguinosa carità?
Del resto, ho pure udito
raccontare storielle poco amene...
Un Barba-bleu, Signora, e più non dico:
interrogate i gorghi di Stambul.
Così venni munito.
Pei secoli, Jaufré, che si lagnava
se gli è tolto veder l’amor lontano
e che al Signor per vera e per real donava
l’amor, che lo pungea, così, lontano;
Rudello rugiadoso e trovatore ha fatto esperienza.
E per quanto passato
usando vele e remi col Petrarca;
e per quanto intessuto nelli arazzi
germanici dell’Heine
(dolci notti al castello di Blay, taumaturghe
di figure dipinte e primavere,
a splender, dai topazzi dell’ogive, in faccia all’alba;
amore e gioventù);
e per quanto morente in sulla nave,
in cospetto a Tangeri
(Contessa che è mai la vita!
È l’ombra di un sogno fuggente...)
come ricanta un nostro senatore,
che bebbe in fresco a Cristo e ai porcellini
ed or professa il Re;
Jaufré rimodernato, ha fatto li apparecchi e si presenta,
con suffragio d’armati e compiacenza,
e non sofistica sopra ai perché.
Eccovi il mio codazzo d’ingegneri;
ecco i forzieri vuoti italiani,
pezzenti eterni ed esigenti,
come li stomachi morti di fame.
E verran gli straccioni in lercia schiera,
avidi, macilenti a contendersi il pane,
49
come fanno ad ingombro qua su;
e in sul principio si accontenteranno
di cercarvi lavoro a buon mercato,
poi cresceranno pretese e superbia,
e noi li lasceremo, anche qua giù,
sbasire, in pace, con grandi promesse
a scadenza mirifica e illimitata,
usanza preistorica e civile d’ogni governo,
sulla bilancia al sì ed al no alterno,
della ragion politica e fortunata.
E Voi avrete ferrovie e debiti;
e intricheremo matasse ingarbugliate,
pretesti eleganti e sfoggiati
per carrozzini, inchieste, sinecure,
grassi compensi, facili prebende,
sotto le tende del parlamentarismo.
Ho a dovizia, Signora,
i futuri progetti di colonizzazione,
e Vi prometto, da buon cavaliere,
Cavalier del Lavoro,
di rimondarvi presto dal tesoro,
che giace inerte e lucido
dentro le ferree casse beyliacali
per esserne un compito dispensiere.
Ho rimedii e parvenze di rimedii
per questi ed altri mali;
v’aggiungerò un medico Livraghi,
flebotomo eccellente per li ebrei
che non vogliono rendere;
se costoro s’impuntano e fan la voce grossa.
Vengo armato, sgargiante, vago, propiziatore.
Non avete i Tuaregs abbrunati
di lutto azzurro oscuro e nei veli prolissi,
mistero e anacronismo del Sahara,
ultimi discendenti dei crociati, cavalieri Targuis
imbarbariti dalle Fatme, dal clima e dal deserto?
L’orde africane?
Dei Maometti apocrifi?
Delle teste balzane?
Krumiri, cavallette da fugare, da vincere e da pacificare?
Non avete la febre e la dissenteria,
aspettandomi, Amica, ed il male d’amore?
Quanto a me vi confesso, Signora,
che non posso tentare un’altra volta
l’esperimenti notturni ed ostetrici, .
unico diversivo un po’ piccante alla routine delle guarnigioni,
di tra le coscie divaricate e goffe,
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colla forchetta, a impedir un pleonasmo ingombrante,
di qualch’altra clorotica Isolina Canuti.
Piacere lepido di molto humur, dopo la cena:
se vorrete, Signora, lo sostituiremo
colle danze complesse delle schiave moresche.
Che anzi, mi volsi già colle mie prore
ad una quasi vostra parente vicina,
al di là del Deserto e nera in volto.
Tentando, ho già scoperto la mirifica droga
della valvola aperta al bollir sovversivo della piazza.
Vi dirò, in confidenza, che tra noi
non è più tempo pei veri Eroi.
E per la nera Taitù, che ancor ringrazia,
ho rimesso i quattrini;
e alli Abissini, mostriciattoli gai,
con buona grazia, ho regalato
il segno più maschile e probatorio
de’ nostri giovanotti,
quella cosa da nulla,
quel ninnolo gentile,
donde un garzone, al talamo, non è suppletorio.
E ho fatto tutto per il buon cuore,
per semplice e perfetta cavalleria.
Sono, o non sono, Jaufré Rudel, signore di Blaja
alla pazzia dei viaggi lontani,
per amore di udita e pei mostri africani?
Vecchia spada crociata!
Brillò nell’oriente tra i fiori del betél
ed acciecò del lampo li occhi di porcellana
del pacifico Budda ingiojellato e assorto nel nirvana.
Vecchia spada crociata!
All’impresa di Rodi, che ricorda
un ciondolo e una corda d’appiccato,
una postrema convien ne riannodi,
perché si sruggini in mano ai prodi,
irrequieti nella lunga pace.
In fine, io vi consegno, come prova d’omaggio,
liuto, spada e coraggio temprato
come i cannoni Krupp;
e vi consiglio d’appoggiarvi al mio braccio
per farvi ben vedere nei saloni.
Dal medio evo in poi, salvo cavalleria,
son divenuto pratico.
Arno sfoggiare ginnetti e cavalli
sopra ai turfs e teuf-teuf lungo la via.
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Amo sfoggiar belle donne nei balli,
spalle e seni perfetti e nudità
all’occhio altrui che invidiano.
Amo fare d’amico moderno,
per cortesia e dignità;
bastar per la parata e pei solecchio;
posar per il loggione in pompa magna:
essere una apparenza è quanto fa;
far molto fumo con poca legna.
Quindi, se mai Voi ne avrete vaghezza,
io Vi permetterò, degna Signora,
(nell’aspettar ricamo, come richiede l’ora,
dei monogrammi al fumo delle sigarette,
per non infastidirvi)
qualche capriccio tenero
per chi punto non paga.
Io non abbado, se prude un desiderio più concreto,
oltre alla doverosa soggezione.
Su via, gettate il velo;
calpestate il turbante.
Oh stellare sembiante tra il franco e il saraceno!
Oh, parente, o diletta,
dolce amica perfetta!
Agili i mozzi, color del cielo cupo,
gettan l’ancore argute dentro al porto.
Oh, sfolgori il bel riso barbaresco
alla liberazione, ambigua Castellana,
nell’aer fresco del Vostro rinascere!
Guardate a scintillar le bianche armate
nella rada, aspettate...
scendon nelle scialuppe i bersaglieri;
applaudiamo, Signora, ai forieri dell’italica gente!
Tutto il resto è una baja
Jaufré Rudello il signore di Blaja
è una antica leggenda riassunta,
per arte maga di diplomazia,
nel garbato ufficial d’artiglieria.
Tripoli bella! Amore d’avventure,
Contessa Melisanda,
stracciatevi le bende mosulmane,
ritornate latina,
e, gloriosa ammiranda,
non pensiamo, in codesta mattina eccezionale,
alla giornata che le succederà:
godiam la prima notte in santa ingenuità.
Udiremo tra gli applausi un pianto roco?
Prefiche sulle glorie, all’indomani!
Certo, in Patria, vi sono dei marrani,
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astiosi ed invidiosi, rivoluzionarii.
Non facciamoci scorgere a baciarci
da questi sporchi guasta feste: e poi?...
Infioriamo le bare di alloro e di rose,
perché, dentro, i cadaveri in pompa
si conservino a miglior putrefazione,
i soliti cadaveri d’Eroi
inconsci espressi dalla leva alle glebe;
abbondiamo d’imagini sfarzose
sui tesori scoperti del Califfo:
bella retorica, oh, santo ingegno!
Tutta Italia ha poeti a dovizia,
che raglieranno versi gabriellini,
per l’isterica sua puerizia,
che farnetica imperi levantini;
tutta la Patria è sospesa ai divini
preziosi istanti del nostro amore:
le sabbie del deserto soffici e dorate
son stese e preparate,
cimitero igienico, al carnajo di prossime battaglie,
lenzuolo ultimo, rovente e cortese.
Baciami, Melisanda;
amor non si nasconde, non è reticente,
bellissima Regina di Cirene, dell’Africa romana;
amore ignora disparità di clima e di religione.
Oh, finalmente!
acconsenti al mio bacio eroico, Signora».
(col titolo A Melisanda contessa di Tripoli, in ―Educazione politica‖, 15-1-1902; poi in Revolverate
1909)
53
ALLEGATI A LUCINI
JAUFRE’ RUDEL (1125 – 1148)
AMOR DI TERRA LONTANA
Quando il rio della fontana
si fa chiaro come suole,
e la rosa appar canina,
l'usignolo è già sul ramo;
a sua nota or alta or piana
ch'or ripete ed ora affina
il mio canto s'accompagna.
Quan lo rius de la fontana
s'esclarzis, si cum far sol,
e par la flor aiglentina,
el rossinholetz el ram
volf e refranh et aplana
son doutz chantar et afina,
dreitz es qu'ieu lo mieu refranha
Amor di terra lontana
per voi tutto il cuore mi duole,
né trovar so medicina
s'io non vada al suo richiamo:
traemi amor che dolce affanna
in verziere o fra cortina
alla vaga mia compagna.
"Amors de terra lonhdana,
per vos totz lo cors mi dol!"
E non puesc trobar meizina
si non vau al sieu reclam
ab atraich d'amor doussana
dinz vergier o sotz cortina
ab desiderada companha.
Qua la sorte mi confina,
passan giorni, io n'ardo e bramo,
ché una piú gentil cristiana
mai non fu, né Dio lo vuole,
né giudea né saracina;
ben pagato egli è con manna
chi uno sguardo suo guadagna.
Pus totz jorns m'en falh aizina,
nom meravilh s'ieu n'aflam,
quar anc genser cristiana
non fo, ni Dieu non la vol
juzeva ni sarrazina:
ben es selh pagutz de mana
qui ren de s'amor gazanha!
Nel disio 'l mio cuor s'ostina
verso quella ch'io piú amo;
credo che il voler m'inganna
se cupidità la toglie;
poi che punge piú che spina
il dolor, cui gioia sana,
ma il mio cuore non si lagna.
De dezir mos cors non fina
vas celha ren qu'ieu plus am;
e cre que volers m'engana
si cobezeza lam tol;
que plus es ponhens qu'espina
la dolors que ab joi sana!
Don ja non vuelh qu'om m'en planha.
Senza breve in pergamena
mando il verso che cantiamo
in piana lingua romana
a Ugon Bruno per "Figliole" :
poi che gente peitavina,
di Berry e di Guiana
per lui gode e di Bretagna.
Senes breu de pargamina
tramet lo vers, que chantam
en plana lengua romana,
an Hugo Bru par Filhol;
bom sap quar gens Peitavina
de Berri e de Guiana
s'esgau per lui e Bretanha
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HEINRICH HEINE
GEOFFROH RUDEL UND MELISANDE VON TRIPOLI
(Giaufredo Rudel e Melisenda di Tripoli)
dal Romancero - letze Gedichte (1851)
versione ritmica di Roberto Gagliardi
Nel castello in Blaia di arazzi
le pareti son coperte:
lei che fu contessa a Tripoli
li intrecciò con mani esperte.
Il suo cuore vi intrecciò,
e con lacrime d'amore
ha incantato in quella seta
questa scena di dolore:
la contessa che Rudel
sulla spiaggia ormai morente
vide, e il volto riconobbe
d'ogni suo sogno struggente,
e Rudel, che per la prima
volta, e l'ultima, ora vede
veramente quella Dama
che nel sogno lo possiede.
La contessa a lui si china,
abbracciandolo amorosa,
e l'esangue bocca bacia
che in lodar lei fu gloriosa.
Ahi! quel bacio ora nel bacio
dell'addio si tramutò:
della pena e del piacere
lei la coppa insiem vuotò.
Nel castel in Blaia, le notti
treman frusciano sussurrano:
le figure degli arazzi
tutt'a un tratto in vita tornano.
E la Dama e il Trovatore
le spettrali membra svegliano,
e dal muro giù discesi
nella sala ora passeggiano.
Dolci scherzi, bisbiglii,
confidenze con languori,
e le morte cortesie
care un tempo ai trovatori.
―O Giaufredo! Il morto cuore
si riscalda al tuo parlare:
nei carboni a lungo spenti
sento il fuoco crepitare.‖
―Melisenda! Gioia e fiore!
Nei tuoi occhi io torno in vita.
Morto è solo il dolor mio,
e l'umana mia ferita.‖
―O Giaufredo! Un dí ci amammo
come in sogno, ed ora in morte
noi ci amiamo: è il dio d'Amore
che un prodigio ci dà in sorte.‖
―Melisenda! Cosa è sogno,
morte? Vana voce è quella.
Nell'amore solo è il Vero,
ed io t'amo, o Semprebella!‖
―O Giaufredo! Come è dolce
della luna il quieto raggio!
Non vorrei fuori tornare
sotto il bel sole di maggio.‖
―Melisenda! O dolce e folle,
tu sei sole e tu sei luce;
dove passi, è primavera,
maggio e amor si riproduce.‖
Così quei gentili spettri
su e giù vanno parlando,
mentre il chiaro della luna
passa gli archi e va ascoltando.
Finchè giunge infin l'Aurora
che i soavi spirti scaccia:
negli arazzi alle pareti
timorosi li ricaccia.
[In dem Schlosse Blahe erblickt man / die Tapete an den Wänden, / so die Gräfin Tripolis / einst gestickt mit
klugen Händen. // Ihre ganze Seele stickte / sie hinein, und Liebesthräne / hat geseit das seidne Bildwerk, /
welches dastellt jene Scene: // wie die Gräfin den Rudel / sterbend sah am Strande liegen, / und das Urbild
ihrer Sehnsucht / gleich erkannt in seinen Zügen. // Auch Rudel hat hier zum ersten – / und zum letzenmal
erblicket / in der Wirklichkeit die Dame, / die ihn oft im Traum entzücket. // Über ihn beugt sich die Gräfin, /
hält ihn liebevoll umschlungen, / küßt den todesbleichen Mund, / der so schön ihr Lob gesungen! // Ach! der
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Kuß des Willkomms wurde / auch zugleich der Kuß des Scheidens, / und so leerten sie den Kelch / höchter
Lust und tiesstens Leidens. – // In dem Schlosse Blahe allnächtlich / giebt's ein Rauschen, Knistern, Beben: /
die Figuren der Tapete / dangen plötzlich an zu leben. // Troubadour und Dame schütteln / die verschlafnen
Schattenglieder, / treten aus der Wand und wandeln / durch die Sale auf und nieder. // Trautes Flüstern,
sanftes Tändeln, / wehmutsüße Heimlichkeiten, / und posthume Galantrie / aus des Minnesanges Zeiten: //
―Geoffroh! Mein totes Herz / wird erwämt von deiner Stimme, / in den längst erloschnen Kohlen / fühl' ich
wieder ein Geglimme!‖ // ―Melisande! Glück und Blume! / Wenn ich dir ins Auge sehe, / leb' ich auf –
gestorben ist / nur mein Erdenleid und -Wehe.‖ // ―Geoffroh! Wir liebten uns / einst im Traume, und
jetzunder / lieben wir uns gar im Tode – / Gott Amor that dieses Wunder!‖ // ―Melisande! Was ist Traum? /
Was ist Tod? Nur eitel Töne. / In der Liebe nur ist Wahreit, / und dich lieb' ich, ewig Schöne‖ // ―Geoffroh!
Wie traulich ist es / hier in stillen Mondscheinsaale / möchte nicht mehr draußen wandeln / in des Tages
Sonnerstrahle.‖ // ―Melisande! teure Närrin, / du bist selber Licht und Sonne, / wo du wandelst, blüht der
Frühling, / sprossen Lieb' und Maienwonne!‖ // Also kosen, also wandeln / jene zärtlichen Gespenster / auf
und ab, derweil das Mondlicht / lauschet durch die Bogenfenster. // Doch den holden Spuk vertreibend /
kommt am End' die Morgenröte – / jene huschen scheu zurück / in die Wand, in die Tapete.]
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GIOSUE CARDUCCI, JAUFRE' RUDEL (1888, in Rime e ritmi 1899)
Dal Libano trema e rosseggia
su 'l mare la fresca mattina:
da Cipri avanzando veleggia
la nave crociata latina.
– Signor che volesti creare
per me questo amore lontano,
deh fa che a la dolce sua mano
commetta l'estremo respir! –
A poppa di febbre anelante
sta il prence di Blaia, Rudello,
e cerca co 'l guardo natante
di Tripoli in alto il castello.
Intanto co 'l fido Bertrando
veniva la donna invocata;
e l'ultima nota ascoltando
pietosa ristè su l'entrata:
In vista a la spiaggia asiana
risuona la nota canzone:
―Amore di terra lontana,
per voi tutto il cuore mi duol‖.
Ma presto, con mano tremante
il velo gettando, scoprì
la faccia; ed al misero amante
– Giaufredo, – ella disse, – son qui. –
Il volo di un grigio alcione
prosegue la dolce querela,
e sovra la candida vela
s'affligge di nuvoli il sol.
Voltossi, levossi co 'l petto
su i folti tappeti il signore,
e fiso al bellissimo aspetto
con lungo sospiro guardò.
La nave ammaina, posando
nel placido porto. Discende
soletto e pensoso Bertrando,
la via per al colle egli prende.
– Son questi i begli occhi che amore
pensando promisemi un giorno?
E' questa la fronte ove intorno
il vago mio sogno volò? –
Velato di funebre benda
lo scudo di Blaia ha con sè:
affretta al castel: – Melisenda
contessa di Tripoli ov'è?
Sì come a la notte di maggio
la luna da i nuvoli fuora
diffonde il suo candido raggio
su'l mondo che vegeta e odora,
Io vengo messaggio d'amore,
io vengo messaggio di morte:
messaggio vengo io del signore
di Blaia, Giaufredo Rudel.
tal quella serena bellezza
apparve al rapito amatore,
un'alta divina dolcezza
stillando al morente nel cuore.
Notizie di voi gli fur porte,
v'amò vi cantò non veduta:
ei viene e si muor. Vi saluta,
Signora, il poeta fedel. –
– Contessa, che è mai la vita?
E' l'ombra d'un sogno fuggente.
La favola breve è finita,
il vero immortale è l'amor.
La dama guardò lo scudiero
a lungo, pensosa in sembianti:
poi surse, adombrò d'un vel nero
la faccia con gli occhi stellanti:
Aprite le braccia al dolente.
Vi aspetto al novissimo bando.
Ed or, Melisenda, accomando
a un bacio lo spirto che muor –
– Scudier, – disse rapida – andiamo.
Ov'è che Giaufredo si muore?
Il primo al fedele rechiamo
e l'ultimo motto d'amore. –
La donna su 'l pallido amante
chinossi recandolo al seno,
tre volte la bocca tremante
co 'l bacio d'amore baciò.
Giacea sotto un bel padiglione
Giaufredo al conspetto del mare:
in nota gentil di canzone
levava il supremo desir.
E il sole dal cielo sereno
calando ridente ne l'onda
l'effusa di lei chioma bionda
su 'l morto poeta irraggiò.
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VIRGINIA WOOLF
da Le tre ghinee (1938)
Lasci che Le mostri, per cominciare, una fotografia senza mezze tinte del vostro mondo quale
appare a noi che lo ve diamo dalla soglia della casa paterna; attraverso il velo che an cora San Paolo
ci tiene steso sugli occhi; dal ponte che unisce la casa paterna con il mondo della vita pubblica.
Bisogna ammettere che, visto da quest'angolo, il vostro mondo, il mondo del lavoro, della vita
pubblica, appare strano. A prima vista fa una grande impressione. Entro una area limitata si
affollano la cattedrale di St Paul, la Banca d'Inghilterra, il Municipio, gli imponenti seppure funerei
bastioni del Palazzo di Giustizia e, più in là, l'Abbazia di Westminster e il Parlamento. E' lì,
pensiamo sostando un attimo sul ponte in questo momento di transi zione, è lì che nostro padre e i
nostri fratelli hanno passato la vita. Da centinaia di anni salgono quelle scalinate, entrano e escono
da quel le porte, ascendono a quei pulpiti a tenere disc orsi, a fare quattrini, ad amministrare la
giustizia. Da quel mondo la nostra casa ha tratto il suo credo, le sue leggi, i vestiti, i tappeti e
l'arrosto. Quindi, poiché ora ci è concesso, spingendo con grande cautela il portale di uno di quei
templi, entriamo in punta di piedi a osservare la scena più da vicino. La prima impressione di
colossali dimensioni, di maestose architetture si frantuma in mille moment i di stupore. Gli abiti,
innanzitutto, ci lasciano a bocca aperta dalla meraviglia. Come sono vari e sontuosi e ricchi di
ornamenti gli abiti indossati dagli uomini colti nella loro f unzione di uomini pubblici! Ora siete
vestiti di viola e una croce tempestata di gemme vi ciondola sul petto, sulle spalle portate ora una
sciarpa di pizzo ora una stola di ermellino, ora festoni di catene intrecciate, incastonate di pietre
preziose. A volte portate la parrucca, e fi le di boccoli sempre più fitti vi scendono sino al collo. A
volte calzate la feluca o il tricorno; altre volte dal vostro copricapo si elevano coni di pelliccia nera;
a volte esso è fatto di bronzo e ha la forma di un secchio; a volte lo sormontano pennacchi di crini
ora rossi ora azzurri. Talvolta le gambe so no nascoste dalla toga; tal'altra sono modellate da ghette .
Cotte ricamate con leoni e unicorni vi scendono dalle spalle e sul petto vi luccicano ornamenti di
metallo a forma di stella o di cerchio. Nastri variopinti - blu, porpora, cremisi - sono drappeggiati da
una spalla all' altra. A paragone con la relativa semplicità con cui vestite a casa, lo splendore delle
vostre uniformi pubbliche ci abbaglia. Di gran lunga più strani ancora sono due altri fatti di cui ci
rendiamo conto via via che i nostri occhi si abituano a tanto fulgore. Non solo intere categorie di
uomini vestono allo stesso modo d'estate come d'inverno - caratteristica ben strana per un sesso che
afferma di mutare d'abito a seconda della stagione e per motivi di gusto e di comodità personali ma ogni bottone, ogni fiocco, ogni nastro sembra posseder e un significato simbolico. Alcuni hanno
diritto a indossare soltanto bottoni lisci; altri dei fiocchi; alcuni possono fregiarsi di un solo nastro,
altri di tre, quattro, cinque o sei, e ogni alamaro o barretta è cuci to esattamente alla distanza dovuta;
per uno sarà di un centimetro, per l'altro di un centimetro e mezzo. Pure le spalline, le trecce lungo i
pantaloni, le coccarde sul cappello ubbidiscono a regole precise, anche se nessun occhio mortale
potrebbe discernere tutte queste distinzioni di grado, e tanto meno dare conto di ciascuna. E ancora
più strane dello splendore simbolico delle vostre uniformi sono le cerimonie nel corso delle quali le
indossate. A un certo punto vi inginocchiate; poi fate un inchino; ora invece incedete al seguito di
un uomo che reca in mano una mazza d'argento; ora ascendete a uno scranno intagliato; ora sembra
che rendiate omaggio a un pezzo di legno dipinto; ora vi prostrate dinnanzi a tavole ricoperte di
arazzi preziosi. E, quale che sia il senso di queste cerimonie, voi le eseguite sempre coralmente,
sempre a tempo, sempre indossando l'uniforme adatta alla persona e all'occasione. Anche a parte le
cerimonie, tali decorativi paludamenti ci paiono a prima vista di una bizzarria estrema. L'abito,
58
come lo usiamo noi, è una cosa relativamente semplice. Oltre al suo compito primario, quello di
ricoprire il corpo, svolge altre due funzioni: dare piacere all'occhio con la bellezza che crea, e
suscitar e l'ammirazione del vostro sesso. Poiché, fino all'anno 1919 - meno di vent'anni fa - l' unica
professione che ci fosse aperta era il matrimoni o, non si corre certo il rischio di sopravvalutare
l'importanza dell'abito per la donna. Rappresentava per lei quello che la clientela è per voi: l'unico
modo per diventare Lord Cancelliere. Ma è evidente che il vostro abito, così enormemente
elaborato, ha un'altra funzione ancora. Non solo nasconde le nudità, gratifica la vanità e dà piacere
agli occhi; serve anche a da re pubblicità alla posizione sociale, professionale o intellettuale di chi
lo indossa. Chiedo scusa per l'umile esempio, ma l'abito per voi svolge la medesima funzione dei
cartellini nella vetrina del lattaio. Solo che, anziché dire "Questa è margarina; questo è burro
finissimo; questo è il burro migliore sul mercato", i vostri vestiti significano: "Quest' uomo è
intelligente, è Dottore in Lettere; questo è molto intelligente, è Dottore in Filosofia quest'altro è il
più intelligente di tutti, è membro dell'Ordine al Merito di Sua Maestà". E' questa funzione - la
funzione pubblicitaria - che a noi pare la più curiosa. Secondo San Paolo tale uso dell'abito era
sconveniente e impudico, per il nostro sesso almeno; tant'è che fino a pochi anni fa ci era negato. E
ancor oggi sopravvive la tradizione, o la credenza, che esprimere il valore, sia esso intellettuale o
mora le, mettendosi addosso pezzettini di metallo, nastri, cappucci o mantelli colorati sia una
barbarie degna del ridicolo che riserviamo ai riti dei selvaggi. Una donna che per fare pubblicità alla
sua condizione di madre si mettesse un ciuffo di crini di cavallo sulla spalla sinistra non
susciterebbe, Lei ne converrà, nessun senso di venerazione.
Testro originale:
THREE GUINEAS
Let us then by way of a very elementary beginning lay before you a photograph—a crudely coloured
photograph—of your world as it appears to us who see it from the threshold of the private house; through the
shadow of the veil that St. Paul still lays upon our eyes; from the bridge which connects the private house
with the world of public life. Your world, then, the world of professional, of public life, seen from this angle
undoubtedly looks queer. At first sight it is enormously impressive. Within quite a small space are crowded
together St. Paul’s, the Bank of England, the Mansion House, the massive if funereal battlements of the Law
Courts; and on the other side, Westminster Abbey and the Houses of Parliament. There, we say to ourselves,
pausing, in this moment of transition 16 on the bridge, our fathers and brothers have spent their lives. All
these hundreds of years they have been mounting those steps, passing in and out of those doors, ascending
those pulpits, preaching, money-making, administering justice. It is from this world that the private house
(somewhere, roughly speaking, in the West End) has derived its creeds, its laws, its clothes and carpets, its
beef and mutton. And then, as is now permissible, cautiously pushing aside the swing doors of one of these
temples, we enter on tiptoe and survey the scene in greater detail. The first sensation of colossal size, of
majestic masonry is broken up into a myriad points of amazement mixed with interrogation. Your clothes in
the first place make us gape with astonishment.16 How many, how splendid, how extremely ornate they
are—the clothes worn by the educated man in his public capacity! Now you dress in violet; a jewelled
crucifix swings on your breast; now your shoulders are covered with lace; now furred with ermine; now
slung with many linked chains set with precious stones. Now you wear wigs on your heads; rows of
graduated curls descend to your necks. Now your hats are boat-shaped, or cocked; now they mount in cones
of black fur; now they are made of brass and scuttle shaped; now plumes of red, now of blue hair surmount
them. Sometimes gowns cover your legs; sometimes gaiters. Tabards embroidered with lions and unicorns
swing from your shoulders; metal objects cut in star shapes or in circles glitter and twinkle upon your
breasts. Ribbons of all colours—blue, purple, crimson—cross from shoulder to shoulder. After the
comparative simplicity of your dress at home, the splendour of your public attire is dazzling. But far stranger
are two other facts that gradually reveal themselves when our eyes have recovered from their first
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amazement. Not only are whole bodies of men dressed alike summer and winter—a strange characteristic to
a sex which changes its clothes according to the season, and for reasons of private taste and comfort—but
every button, rosette and stripe seems to have some symbolical meaning. Some have the right to wear plain
buttons only; others rosettes; some may wear a single stripe; others three, four, five or six. And each curl or
stripe is sewn on at precisely the right distance apart; it may be one inch for one man, one inch and a quarter
for another. Rules again regulate the gold wire on the shoulders, the braid on the trousers, the cockades on
the hats— but no single pair of eyes can observe all these distinctions, let alone account for them accurately
Even stranger, however, than the symbolic splendour of your clothes are the ceremonies that take place when
you wear them. Here you kneel; there you bow; here you advance in procession behind a man carrying a
silver poker; here you mount a carved chair; here you appear to do homage to a piece of painted wood; here
you abase yourselves before tables covered with richly worked tapestry. And whatever these ceremonies may
mean you perform them always together, always in step, always in the uniform proper to the man and the
occasion. Apart from the ceremonies such decorative apparel appears to us at first sight strange in the
extreme. For dress, as we use it, is comparatively simple. Besides the prime function of covering the body, it
has two other offices—that it creates beauty for the eye, and that it attracts the admiration of your sex. Since
marriage until the year 1919—less than twenty years ago—was the only profession open to us, the enormous
importance of dress to a woman can hardly be exaggerated. It was to her what clients are to you— dress was
her chief, perhaps her only, method of becoming Lord Chancellor. But your dress in its immense elaboration
has obviously another function. It not only covers nakedness, gratifies vanity, and creates pleasure for the
eye, but it serves to advertise the social, professional, or intellectual standing of the wearer. If you will
excuse the humble illustration, your dress fulfils the same function as the tickets in a grocer’s shop. But,
here, instead of saying, ―This is margarine; this pure butter; this is the finest butter in the market,‖ it says,
―This man is a clever man—he is Master of Arts; this man is a very clever man—he is Doctor of Letters; this
man is a most clever man—he is a Member of the Order of Merit.‖ It is this function—the advertisement
function—of your dress that seems to us most singular. In the opinion of St. Paul, such advertisement, at any
rate for our sex, was unbecoming and immodest; until a very few years ago we were denied the use of it. And
still the tradition, or belief, lingers among us that to express worth of any kind, whether intellectual or moral,
by wearing pieces of metal, or ribbon, coloured hoods or gowns, is a barbarity which deserves the ridicule
which we bestow upon the rites of savages. A woman who advertised her motherhood by a tuft of horsehair
on the left shoulder would scarcely, you will agree, be a venerable object.
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BERTOLT BRECHT
Dialoghi di profughi (1940-42)
VI
TRISTE DESTINO DELLE GRANDI IDEE. - IL PROBLEMA DELLA POPOLAZIONE
CIVILE.
Ziffel osservava malinconicamente i giardinetti polverosi davanti al ministero degli Esteri, dove
dovevano farsi rinnovare il permesso di soggiorno. In una vetrina aveva visto esposto un giornale
svedese con le notizie sull'avanzata dei tedeschi in Francia.
ZIFFEL Tutte le grandi idee falliscono per colpa degli uomini.
KALLE Mio cognato le darebbe ragione. Perso un braccio, che era finito negli organi di
trasmissione di una macchina, gli era venuta l'idea di aprire un negozio di sigarette con annessa
vendita dell'oc-corrente per cucire, aghi, filo e cotone da rammendo, perché le donne fumano, sí,
volentieri, ma non entrano volentieri in una tabaccheria; ma l'idea fallí, perché non gli diedero la
licenza. Non che importasse molto, tanto non sarebbe comunque riuscito a mettere insieme i soldi
necessari.
ZIFFEL Non è questo che io chiamo una grande idea. Una grande idea è la guerra totale. Ha letto
che in Francia la popolazione civile ha messo i bastoni fra le ruote alla guerra totale? Ha mandato a
monte tutti i piani degli stati maggiori, si dice. Ha ostacolato le operazioni militari, perché le
fiumane di profughi hanno ingorgato le strade e impedito i movimenti delle truppe. I carri armati si
sono impantanati nella massa umana — dopo che finalmente si era riusciti a inventare delle macchine, appunto i carri armati, che non si impantana-no nemmeno nel fango alto fino al ginocchio e
possono abbattere boschi interi. La gente affamata ha divorato le provviste delle truppe, cosicché la
popolazione civile si è rivelata una vera piaga delle cavallette. Un esperto militare scrive con
preoccupazione sui giornali che la popolazione civile è di-ventata un problema serio per i militari.
ZIFFEL No, per i propri: la popolazione francese per i militari francesi.
KALLE Questo è sabotaggio.
ZIFFEL Certo, almeno negli effetti. A che servono i calcoli piú minuziosi degli stati maggiori, se la
folla si ficca sempre tra i piedi, rendendo malsicuro il teatro di guerra? Pare che né ordini, né
ammonimenti, né discorsi persuasivi, né appelli alla ragione abbiano potuto farci niente. Bastava
che apparissero bombardieri nemici sopra una città per-ché tutto ciò che aveva gambe se ne
scappasse via alla svelta, senza preoccuparsi minimamente del grave intralcio alle operazioni
militari. Gli abitanti si son dati alla fuga proprio senza nessun riguardo.
KALLE Di chi è la colpa ?
ZIFFEL Si sarebbe dovuto pensare in tempo all'evacuazione del continente. Solo il totale
allontanamento dei popoli potrebbe permettere una condotta di guerra ragionevole e il totale
sfruttamento delle nuove armi. E dovrebbe essere un'evacuazione permanente, perché le guerre oggi
scoppiano con la velocità del fulmine, e se non è pronto tutto, cioè non c'è piú nulla, allora tutto è
perduto. Inoltre l'evacuazione dovrebbe esser fatta in tutto il mondo, perché le guerre si estendono a
velocità folle e non si sa mai in quale direzione si spingano le avanzate.
KALLE Evacuazione permanente in tutto il mondo? Ci vorrebbe una bella organizzazione.
ZIFFEL Esiste un suggerimento del generale Amedeo Stulpnagel che potrebbe essere preso in considerazione come soluzione provvisoria di compromesso. Il generale propone di paracadutare la
propria popolazione civile dietro le linee del fronte, in territorio nemico. Ciò produrrebbe un duplice
effetto nel senso desiderato. Anzitutto si terrebbe sgombro il proprio campo di operazioni, sicché lo
spostamento delle truppe al fronte avverrebbe senza difficoltà e i generi alimentari andrebbero tutti
all'esercito; in secondo luogo si porterebbe confusione nelle retrovie nemiche. Le strade di accesso e
le linee di comunicazione del nemico sarebbero bloccate.
61
KALLE Ma questo è l'uovo di Colombo! Come ha detto il Führer: le uova di Colombo si trovano
per strada. Manca solo che arrivi uno a metterle su ritte, e naturalmente intendeva se stesso.
ZIFFEL L'idea è prettamente tedesca per audacia e originalità. Ma non è una soluzione definitiva
del problema. Ché naturalmente per ritorsione il nemico butterebbe giú subito la sua popolazione in
territorio nemico, perché la guerra comincia e finisce con la massima: «Occhio per occhio, dente
per dente». Una cosa è certa: se non si vuole che la guerra totale resti nel regno dei sogni, qui si
deve trovare una soluzione. Il dilemma è questo: o si elimina la popolazione, o la guerra diventa
impossibile. Presto o tardi, ma piuttosto presto che tardi, la scelta deve essere fatta.
Ziffel vuotò il suo bicchiere piano piano, come se bevesse per l'ultima volta. Poi si separarono e se
ne andarono, ciascuno per la propria strada.
Testo orginale:
Flüchtlingsgespräche
6
TRAURIGES SCHICKSAL GROSSER IDEEN / DIE ZIVILBEVÖLKERUNG EIN PROBLEM
Ziffel blickte düster auf die staubigen Anlagen vor dem Außenministerium, wo sie die
Aufenthaltsbewilligung erneuern lassen mußten. In einem Schaufenster hatte er die schwedische Zeitung mit
den Berichten über das Vorrücken der Deutschen in Frankreich ausgehängt gesehen.
ZIFFEL Alle großen Ideen scheitern an den Leuten.
KALLE Mein Schwager würd Ihnen beistimmen. Er hat den Arm in die Transmission gekriegt und die Idee
gehabt, er könnt einen Zigarrenladen mit Nebenverkauf von Nähzeug, Nadeln, Zwirn und Stopfgarn
aufmachen, weil die Frauen schon gern rauchen, aber nicht in Tabakladen gehn möchten, aber die Idee ist
daran gescheitert, daß er die Lizenz nicht gekriegt hat. Es hat nicht soviel gemacht, weil er das Geld doch nie
zusammenbekommen hätt.
ZIFFEL Das ist nicht, was ich eine große Idee nenne. Eine große Idee ist der totale Krieg. Haben Sie gelesen,
wie jetzt in Frankreich die Zivilbevölkerung dem totalen Krieg in die Quere gekommen ist? Sie hat alle
Pläne der Heeresleitungen über den Haufen geworfen, heißt es. Sie hat die militärischen Operationen gehindert, indem die Flüchtlingsströme den Truppenbewegungen die Straßen verstopft haben. Die Tanks sind in
den Menschen steckengeblieben, nachdem man endlich Konstruktionen erfunden hat, die nicht einmal in
knietiefem Morast steckenbleiben und einen Wald umreißen können. Die hungrigen Leut haben den Truppen
die Eßvorräte weggefressen, so daß sich die Zivilbevölkerung geradezu als eine Heuschreckenplage erwiesen
hat. In der Zeitung schreibt ein Militärsachverständiger besorgt, die Zivilbevölkerung ist zu einem ernsten
Problem für die Militärs geworden.
KALLE Für die Deutschen?
ZIFFEL Nein, für die eigenen; die französische Bevölkerung für die französischen Militärs.
KALLE Das ist Sabotage.
ZIFFEL Jedenfalls im Effekt. Was nützen die gewissenhaftesten Berechnungen der Stäbe, wenn sich immer
wieder das Volk dazwischendrängt und den Kriegsschauplatz unsicher macht? Kein Kommando, keine
Verwarnung, kein gütliches Zureden, kein Appell an die Vernunft scheint da geholfen zu haben. Kaum sind
feindliche Flieger mit Brandbomben über einer Stadt erschienen, so ist schon alles, was Beine hatte, aus ihr
herausgelaufen, ohne sich den geringsten Gedanken darüber zu machen, daß dadurch die militärischen
Operationen empfindlich gestört wurden. Rücksichtslos haben sich die Bewohner zur Flucht gewandt.
KALLE Was ist da schuld?
ZIFFEL Man hätt rechtzeitig an die Evakuierung des Kontinents denken müssen. Nur die restlose Entfernung
der Völker könnt eine vernünftige Kriegsführung mit voller Ausnützung der neuen Waffen ermöglichen.
Und es müßte eine Dauerevakuierung sein, denn die neuen Kriege brechen blitzschnell aus, und wenn dann
nicht alles bereit, das heißt weg ist, ist alles verloren. Und die Evakuierung müßt auf der ganzen Welt vorgenommen werden, denn die Kriege breiten sich rasend aus und man weiß nie, wohin die Vorstöße erfolgen.
KALLE Evakuierung auf der ganzen Welt für dauernd? Das bräucht Organisation.
62
ZIFFEL Es existiert eine Anregung des Generals Amadeus Stulpnagel, die wenigstens als provisorische
Zwischenlösung in Betracht käm. Der General schlägt vor, daß man die eigene Zivilbevölkerung mit
Transportflugzeugen und Fallschirmen hinter die feindliche Frontlinie in Feindesland absetzt. Das hätt eine
doppelte Wirkung im erwünschten Sinn. Erstens würd so der eigene Operationsraum freigemacht, so daß der
Aufmarsch reibungslos erfolgen kann und die Lebensmittel dem Heer restlos zugut kommen, zweitens würd
die Verwirrung in die feindliche Etappe getragen. Die Zumarschstraßen und Kommunikationslinien des
Gegners würden blockiert.
KALLE Das ist das Ei des Kolumbus! Wie der Führer gesagt hat: die Kolumbuseier liegen auf der Straße
herum, es muß nur einer kommen und sie auf den Kopf stellen, womit er auf sich angespielt hat.
ZIFFEL Die Idee ist echt deutsch in ihrer Kühnheit und unkonventionellen Art. Aber sie ist keine endgültige
Lösung des Problems. Denn natürlich würd zur Wiedervergeltung der Feind sofort seine Bevölkerung
ebenfalls in Feindesland werfen, denn der Krieg steht und fällt mit dem Satz »Auge um Auge, Zahn um
Zahn«. Eins ist sicher: wenn der totale Krieg nicht Zukunftsmusik bleiben soll, muß da eine Lösung
gefunden werden. Die Frage steht einfach so: entweder wird die Bevölkerung abgeschafft, oder Krieg wird
unmöglich. Irgendwann, und das bald, muß die Entscheidung getroffen werden.
Ziffel leerte sein Glas so langsam, als wäre es sein letztes. Dann schieden sie voneinander und entfernten
sich, jeder an seine Statt.
63
JUAN GOYTISOLO
Karl Marx Show
(1993)
Dal Capitolo DUE:
1
Mano a mano che procedevi nella stesura di questo manoscritto, ti lasciavi prendere dall'ansia,
immaginavi il momento in cui saresti andato a depositarlo nell'ufficio dell'editore e prevedevi la sua
reazione sorpresa e contrariata mentre si immergeva nella lettura, prendeva frettolose annotazioni,
accompagnate di tanto in tanto da punti interrogativi a margine del testo e da furiosi punti
esclamativi di condanna!
lo vedevi introdurti con un'affabilità esagerata nel suo moderno e confortevole ufficio, avvertire la
segretaria di non passargli chiamate, adagiarsi comodamente nella poltrona da direttore dopo essersi
assicurato che avevi preso posto sul morbido sofà in pelle, elegante e sobrio nella giacca di tweed, i
baffi curati e la pipa di raffinata foggia faulkneriana, pieno di cordialità e simpatia verso un vecchio
autore della casa, amico di una vita, i cui gusti letterari condivideva come si suol dire sin
dall'infanzia, oltre che ammiratore della sua opera malgrado le difficoltà intrinseche e lo spirito
elitario e di nicchia, profondamente sensibile, insomma, al suo talento, alle sue peculiarità
espressive e all'ansia di originalità
(perché questi lunghi paragrafi senza punteggiatura? ti aveva già detto in un'altra occasione, non ti
rendevi conto che sconcertavano il lettore e lo allontanavano dal libro? amichevolmente, proprio
come un medico di famiglia, avrebbe ascoltato la tua sconclusionata difesa, che era questione di
ritmo, adattamento uditivo, musicalità, respirazione del testo, senza perdere una virgola della sua
compostezza e del suo atteggiamento comprensivo, accentuando senza volerlo l'impressione che ti
stesse trattando come un malato)
uno dei suoi consulenti, piccolo e con gli occhiali, sarebbe entrato in quel momento in ufficio, non
sai se per puro caso o obbedendo a un piano prestabilito, certo è che dopo averti salutato, essersi
scusato e aver accennato a uscire, l'editore lo avrebbe invitato a restare: ma no, non disturbi affatto!
sei anche tu un suo ammiratore e hai letto come me il manoscritto, possiamo parlarne tutti e tre
assieme, l'opinione di una sola persona, come diceva la Vecchia Celestina, non vale mai quanto
quella di due, e così, una volta istituito quel minitribunale in cui a te spettava il ruolo di accusato,
avreste intavolato come preambolo un'anodina conversazione su amici comuni e successi di vendita
di autori più giovani
(stanno sfondando, avrebbe detto l'editore)
avreste commentato la triste notizia della scomparsa di un conoscente, qualche piccante storia di
corna di un esponente del mondo culturale o gli incidenti causati dall'ultima sbornia di un popolare
quanto calamitoso poeta della generazione degli anni cinquanta
il manoscritto pesava sul banco del giudice, prova irrefutabile del tuo delitto, e l'editore avrebbe
forzato ancora di più l'affabilità del sorriso abbozzando una smorfia che avresti giudicato di cattivo
augurio, prima di affrontare l'argomento che vi aveva riuniti davvero
eccoli dunque, la creatura e il signor padre! il suo più grande desiderio sarebbe stato approfittare di
quella visita per congratularsi con lui, celebrare le sue riconosciute doti di scrittore, dirgli che il suo
romanzo su Marx era davvero straordinario! lo aveva letto con la massima attenzione, senza perdere
una virgola, nella speranza di trovare, alla fine, un filo conduttore, di veder emergere dalle pagine,
come persone in carne e ossa, Moro e la sua famiglia, immergersi nelle vicissitudini della sua vita
da rivoluzionario, i periodi di miseria, le lotte politiche, i cambiamenti di fortuna, l'elaborazione del
corpo di dottrine che per un secolo avrebbe messo a soqquadro il mondo, insomma, un racconto
reale come la vita stessa, con la descrizione psicologica di Karl, di Jenny e delle tre figlie, del
lugubre appartamento di Dean Street, della nascita e della sventurata morte dei due figli maschi e
della piccola Franziska, della provvidenziale eredità della madre di Jenny, del successivo trasloco
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nella villa di Maitland Park a Grafton Terrace reso possibile da nuovi e sostanziosi lasciti
testamentari, dell'amicizia vigile e generosa di Engels, insomma, tu conoscevi la storia meglio di
lui, il tutto ordito in una trama che avrebbe commosso il lettore e sarebbe arrivata dritta al cuore,
avrebbe reso giustizia al personaggio con fermezza e rigore, ma anche con umanità e simpatia!
l'idea di ambientarlo ai giorni nostri dopo la caduta del comunismo non era male in sé, lavorandoci
bene avresti potuto scrivere un'opera con spunti creativi capaci di far riflettere sull'esattezza delle
sue denunce e sul fallimento delle sue profezie! nel proporti il tema, si dava per scontato che non ti
saresti presentato con un romanzo banale sotto il braccio ma avresti introdotto elementi di novità,
penetrando a fondo, come alcuni scrittori anglosassoni che nessuno si azzarderebbe a tacciare di
anacronismo, l'animo di Moro e dei suoi familiari, dando voce magari alla sua soggettività in forma
di monologhi interiori e combinando poi con abilità i diversi punti di vista, configurando in questo
modo, non so se mi spiego, un'opera che sarebbe stata allo stesso tempo inventata e autentica,
drammatica e comica, amena e istruttiva, ecco cosa ci si aspettava date, un'innovazione di genere,
non una serie di abbozzi a volte divertenti ma sempre insensati, un miscuglio delirante di fantasia e
situazioni assurde!
(con lo sguardo inchiodato al pavimento, il consulente avrebbe approvato con un cenno della testa)
sorvoliamo la questione dell'acronia e dell'atopia che tanto ti piacciono e che la tua piccola
confraternita di adepti si incarica di chiosare per te! ma questo gioco, una volta accettato, e lui non
lo rifiutava a priori, doveva sottostare a certe regole, mantenere un minimo di coerenza! se la
visione del mondo attuale, di questo villaggio globale alla Mc Luhan, la metti a fuoco dal tugurio di
Dean Street dove la famiglia Marx visse a partire, credo, dalla rivoluzione del 1848, giusto?
il consulente: dal 185o, per la precisione
per quanto tempo?
(puntuale, efficiente, il giovane con gli occhiali avrebbe anticipato i tuoi calcoli
l'aveva studiata bene la lezione)
sei anni!
bene, sei anni, ne convieni?
(non potevi far altro che annuire in silenzio)
diciamo le cose come stanno, allora! in questo lasso di tempo compreso tra il 185o e il 1856,
Jennychen e Laura erano due ragazzine e Tussy non era ancora nata!
il consulente: è nata nel 1855!
eppure nel tuo romanzo sono già adulte e, anche a voler dimenticare questa enorme incongruenza,
ne commetti una ancor più grave nella scena in cui Moro si sveglia e vede Jenny porgere il seno al
bambino! qui, ti confesso, sono stato sul punto di chiudere il libro esclamando: ma questa è una
presa per i fondelli! lo stesso dicasi per la visita di Anselmo Lorenzo, che tu collochi a Dean Street
quando invece ebbe luogo a Modena Villas molti anni dopo!
consulente: durante la conferenza dell'Internazionale a Londra, dopo la Comune!
in altre parole, una solenne castroneria!
il telefono avrebbe forse suonato tempestivamente e l'editore avrebbe premuto, seccato e
controvoglia, un tasto del quadro di comando
le ho già detto che
è il capo!
gli dica che lo richiamo tra dieci minuti!
interrotta la comunicazione, avrebbe di nuovo accennato un sorriso che però stavolta non si
accordava al suo volto e sembrava stampato, artificiale, come disegnato dalla mano insicura di un
bambino
il suo consueto aspetto faulkneriano sarebbe svanito lentamente e avresti spulciato nel deposito di
immagini della memoria fino a trovare quello che cercavi
il tuo editore sembrava essersi trasformato nell'illustre Thomas Gradgring di Tempi difficili!
ciò che mi serve, egregio signore, sono Fatti! quello che esigono i nostri lettori sono Fatti! lasci
perdere le elucubrazioni e le visioni oniriche che al pubblico non interessano e gli dia i Fatti! mille
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digressioni poetiche e qualche scena di fantasia non valgono un solo Fatto! d'ora in avanti, se vuole
che accettiamo il suo manoscritto, si attenga scrupolosamente ai Fatti!
(il piccolo consulente con gli occhiali, vestito da scolaro dell'epoca vittoriana, rimaneva docile in
silenzio e tu hai approfittato della sua uscita autorizzata al bagno per eclissarti dietro di lui dal
fondo della classe).
2
Per cautelarti ed evitare i commenti sarcastici dell'editore dopo una lettura che avrebbe potuto
mettere in pericolo il filo già tenue delle mensilità grazie alle quali vivevi durante la stesura del
libro, hai deciso di spedirgli per posta un paio di cartelle con un ritratto fisico-morale di Marx e una
descrizione minuziosa del suo domicilio, con tutti gli ingredienti di un verbale di polizia o di un
romanziere discepolo di Balzac, nonché sapiente conoscitore dell'opera di Dickens
il compito non era difficile
bastava mettere mano ad alcune testimonianze delle persone che lo avevano frequentato, copiarle
con cura e mandarle all'editore come presunto saggio del tuo lavoro al posto dell'autentico e
scioccante manoscritto!
3
Marx è di statura media, ha trentaquattro anni, ma ha già qualche capello bianco, la sua
corporatura robusta e i lineamenti del viso ricordano quelli di Sgemere, il rivoluzionario
ungherese, anche se la carnagione è più scura e i capelli più neri
porta una lunga barba e i suoi occhi grandi, brillanti e per' spicaci, hanno qualcosa di demoniaco,
sinistro
tutta la sua figura dà l'impressione di un uomo dotato di ingegno e vigore e la sua superiorità
intellettuale esercita un potere irresistibile su chi gli sta attorno
nella vita privata è una persona cinica ed estremamente disordinata, pessimo anfitrione e
irriducibile bohémien lavarsi, pettinarsi e cambiarsi di abito sono per lui avvenimenti eccezionali!
come sposo e padre di famiglia pare sia tenero e premuroso, nonostante il carattere irritabile e
scorbutico
vive in uno dei quartieri più poveri e modesti di Londra
la sua dimora si compone di due stanze, una, il salone che si affaccia sulla strada, e l'altra, più
interna, che fa da camera da letto
in questo appartamento, non si trova nemmeno per sbaglio un mobile pulito e in buono stato, è tutto
sfasciato, rotto o fuori posto, uno spesso strato di polvere ricopre cose e oggetti e nel complesso
tutto è sottosopra
al centro del salone c'è un grande tavolo, all'apparenza antico, coperto da una tovaglia di plastica
e seminascosto da una montagna di manoscritti, giornali, libri, giocattoli dei bambini, stracci e
lavori a maglia di Frau Marx
entrando in casa, il visitatore si troverà davanti una tale nuvola di carbone e tabacco da dover
avanzare a tentoni come in una caverna, finché gli occhi si abituano e, come attraverso la nebbia,
si comincia a intravedere qualche cianfrusaglia! la sporcizia e il disordine imperanti trasformano il
semplice fatto di sedersi in un'impresa rischiosa! c'è una sedia con soli tre piedi mentre sopra
un'altra, che solo per puro caso si è conservata integra, i bambini giocano a cucinare! e sarà
proprio questa che verrà offerta all'ospite senza prima ripulirla dai pasticci dei bambini e, una
volta seduto, addio pantaloni!
ma niente di tutto ciò turba nella maniera più assoluta Marx e sua moglie! vi ricevono con cortesia
offrendovi amabilmente una pipa, del tabacco e la prima bibita che si trovano tra le mani! una
conversazione amena e intelligente finisce per compensare i difetti della casa e rendere sopportabile la mancanza di comodità
alla fine ci si abitua alla compagnia e si trova l'ambiente curioso e originale
ecco il ritratto fedele della vita domestica del capo comunista Karl Marx
66
4
Avevi finito di copiare il rapporto inviato da Stieber, la spia prussiana, alla polizia del proprio paese
dopo aver fatto visita al numero 28 di Dean Street
l'editore e i suoi collaboratori avrebbero senza dubbio apprezzato questo piccolo assaggio della sua
scrittura e ti avrebbero incoraggiato a continuare
(che ricchezza di dettagli e che osservazioni acute! era esattamente quello che cercava il lettore!)
ma come spiegargli che non eri un agente segreto in missione né un diligente discepolo di Balzac?
che le descrizioni realistiche e i dialoghi teatrali ti annoiavano e ti sembravano il colmo
dell'artificioso e dell'incartapecorito? che solo il volo di un'immaginazione totalmente libera poteva
rendere conto della realtà dell'epoca e dei suoi legami con il passato?
lo stridente ricordo dell'editore che ti rimproverava la disinvoltura con cui tratti i dati reali,
confondendoli con visioni, scherzi e fantasticherie, suscitava nella tua coscienza l'inevitabile
domanda basandosi sulle sue più che giustificate denunce, non aveva giocato, lo stesso Marx, con
fantasie ideologiche e sogni utopistici per tutta la sua feconda e movimentata vita?
(…)
8
Ti è arrivata per corriere una lettera del tuo editore che fosse l'assegno del tuo compenso mensile?
hai strappato la busta con dita tremanti e hai trovato solo un
appunto scritto a mano che annunciava l'arrivo immediato del suo consulente in compagnia di una
tale Ms LewinStrauss, femminista, sessuologa e professoressa della Ucla, specializzata nello studio
della famiglia Marx disgraziatamente l'imminenza della visita non ti concedeva la possibilità di
preparati in maniera adeguata al prevebile assalto di domande della misteriosa dottoressa
californiana la quale è entrata subito dopo come Mia Farrow in casa sua (assomigliava molto all'ex
attrice favorita di Woody Allen)
e, senza chiedere il permesso, ha dato una rapida occhiata alle cartelle del tuo testo sparse sul tavolo
(il consulente rimaneva in secondo piano, come smarrito, sempre piccolo e con gli occhiali)
Ms Lewin-Strauss (ironica): Lenchen, Lenchen, "la fedele Lenchen"! non ha trovato altro modo di
definire la sua condizione a parte questa frusta etichetta paternalistica?
tu: be', in realtà mi sono limitato a ripetere ciò che scrivono gli storici, basandosi sulla
testimonianza unanime di familiari e amici
Ms Lewin-Strauss (severa): non le è mai venuto in mente di indagare, al di là dei cliché, lo
sfruttamento spietato di una donna di umili origini, entrata a servizio in casa di Jenny all'età di sette
anni, da parte dell'aristocratica progenie di Ludwig von Westphalen?
tu: be', qualcosa di vero c'è, ma per quanto abbia cercato negli archivi e nelle lettere dell'epoca, non
ho trovato una sola lamentela riguardo al trattamento a lei riservato, anzi, al contrario, e a tal
proposito tutte le testimonianze coincidono, fu sempre considerata come un membro della famiglia!
Ms Lewin-Strauss (sarcastica): e questo le basta?
tu: be', come la stessa Lenchen
Ms Lewin-Strauss (sarcastica): ma la smetta una buona volta con questo bel se ha letto sul serio
Marx, dovrebbe sapere che è oggettivamente impossibile denunciare l'alienazione a partire da
un'esistenza tipicamente alienata! come definirebbe il caso di una domestica che si lasciava
spennare da quello sfacciato di Lafargue e che, dopo quarantadue anni di leale servizio e
abnegazione alla famiglia Marx, e in seguito a Engels, lasciò a suo figlio come unica eredità
l'irrisoria somma di novantacinque sterline?
tu: be' sì, ma io volevo solo dire che
Ms Lewin-Strauss (sprezzante): il fondamento della civiltà consiste secondo Marx nello
sfruttamento di una classe da parte di un'altra e il suo progredire deriva proprio dall'opposizione
permanente fra le due!
(ha estratto dalla tasca del suo k-way una copia dell'AntiDiihring con la prefazione di Godelier)
67
Ms Lewin-Strauss (melliflua): ogni progresso della civiltà implica sempre un progresso della
disuguaglianza, ma questi cambiamenti sono di solito graduali, impercettibili e sfociano in forme
complesse di gerarchia sociale, in classi dai contorni fluidi, giacché è difficile determinare il punto
in cui cessa la funzione e comincia lo sfruttamento, dove il servizio prestato viene remunerato meno
di quanto vale! conosceva l'esegesi di questo illustre studioso di Marx?
tu: probabilmente l'avrò letto, ma
Ms Lewin-Strauss (incisiva): e non ha colto il nesso con lo sfruttamento a vita della sua fedele
Lenchen?
tu: la verità è che l'amore e la devozione che dimostrò nei momenti più duri
Ms Lewin-Strauss (implacabile): lei dimentica che in una famiglia patriarcale come quella di Marx
la suddivisione del lavoro avviene in funzione delle differenze di età e di sesso, secondo criteri
fisiologici e non filosofici! il paterfamilias si faceva servire dalle donne, scaricava su di loro le
mansioni più umili, affidandogli persino il compito di procurare i mezzi di sostentamento, mentre
lui scriveva le sue opere redentrici nella quiete del British Museum, partecipava a una lotta di
emancipazione esclusivamente maschile e si arrogava, colmo dei colmi, lo ius primae noctis!
consulente (esterrefatto): lo ius primae noctis?
Ms Lewin-Strauss (trionfante): sì, l'ancestrale ius primae noctis! non si accontentò di approfittare
dell'ignoranza di Lenchen, né di aver fatto fare a Jenny sette figli! doveva ingravidare anche la
domestica!
consulente: non ne sapevo nulla!
(si è girato verso di te con visibile sconcerto)
tu: ma sì, certo, pensavo di affrontare l'argomento più avanti perché l'enigma
Ms Lewin-Strauss (esultante): non c'è nessun enigma! poté forse esserci all'epoca, quando si
conosceva solo la lettera di Marx a Engels in cui si alludeva a un'oscura vicenda tragicomica della
quale doveva parlargli, cosa che senza dubbio fece più tardi, a quattr'occhi! Lenchen era incinta e si
rifiutava ostinatamente di rivelare il nome del padre, Jenny cominciava a nutrire sospetti sul marito
e, per salvare il matrimonio e l'onore del comunismo, Engels si assunse la responsabilità del figlio
illegittimo! Frederick Demuth, questo era il vero cognome di Lenchen, fu mandato a balia e
trascorse tutta l'infanzia con i genitori adottivi! Engels in persona, come raccontò la sua segretaria
Louise Kautsky al dirigente socialista August Bebel, scrisse sul letto di morte sopra una lavagna:
«Frederick Demuth è figlio di Marx»
consulente: diamine, non ne avevo idea!
per contrastare l'effetto negativo di queste rivelazioni sulla sua futura valutazione del romanzo, gli
hai spiegato che si trattava di un benevolo compromesso, allo scopo di evitare l'accusa di parzialità,
gli agiografi di Marx parlavano con indulgenza di sbornie giovanili e primi passi poetici, si soffermavano con tenerezza sulle goffe poesie dedicate a Jenny e arrivavano a evocare come prova
irrefutabile della sua indipendenza il periplo tabernario con Edgar Bauer e Liebknecht, culminato in
un'allegra sassaiola ai lampioni londinesi finché l'arrivo della polizia mise in fuga il terzetto costringendo l'ideatore del socialismo scientifico a scappare con insospettata agilità! ma la storia del figlio
era troppo grave, l'unione ideale con Jenny doveva rimanere intoccabile! alla morte di Marx Engels
bruciò buona parte delle sue lettere e quello che giunse ai posteri fu scrupolosamente censurato da
Bebel e Bernstein! gli storici marxisti formavano una congrega che convertiva gli eroi del santorale
comunista in veri Padri della Chiesa! così Breznev, nelle sue ineffabili memorie, confessava di
essersi divertito a colpire i passeri con la fionda e di essere goloso di ravioli, ma ometteva ogni
riferimento alla sua assai più interessante e rivelatrice mania di collezionare Rolls Royce, Jaguar,
BMW, Mercedes Benz e altri blasoni dell'industria automobilistica offertigli in dono dai suoi pari in
occasione delle visite al mondo capitalista!
(lui ti ascoltava pulendosi gli occhiali e a poco a poco si è ripreso, rianimato dal calore di un'idea
brillante)
consulente: l'argomento ideale per un romanzo! la seduzione della povera Lenchen, i sospetti di
Jenny, l'incredibile vita di Marx in quel tugurio, con due donne incinte!
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Ms Lewin-Strauss (glaciale): noi lettrici siamo stufe di biografie romanzate che trattano la vita di un
eroe maschile, con le donne inchiodate al ruolo tradizionale di vittime e comparse proprio nel
momento in cui il concetto stesso di virilità comincia a fare acqua da tutte le parti ed è
universalmente messo in discussione!
cercando di contrattaccare
(il tuo romanzo era in serio pericolo!)
hai frugato nella pila dei libri che avevi consultato la testimonianza inconfutabile di Wilhelm
Liebknecht
tu (leggendo): Marx non provava nemmeno a darle degli ordini, Lenchen conosceva tutti i suoi
capricci e le sue debolezze e poteva metterselo in tasca quando voleva! quando era furioso e
scagliava tali fulmini e saette che nessuno si azzardava ad andargli vicino, lei entrava nella gabbia
del leone ed era capace parlandogli di farlo diventare docile come un agnellino!
(hai fatto il gesto di porgere il libro alla dottoressa ma non si è minimamente degnata di toccarlo
il consulente se n'è impossessato avidamente)
tu: come vede, le cose non erano così semplici!
Ms Lewin-Strauss (olimpica): l'uomo iracondo e la donna che lo pacifica ricorrendo ad astuzie
femminili! non si stanca mai di riprodurre a ogni piè sospinto i peggiori stereotipi sessisti?
tu: la sua opinione non le sembra un po' anacronistica? all'epoca di Marx
Ms Lewin-Strauss (tagliente): proprio a questo mi riferivo! questo illustre borghese, che descrisse e
condannò con eloquenza le condizioni di vita dei lavoratori e i soprusi della borghesia durante la
Rivoluzione industriale, non ha mai preso in considerazione il duplice sfruttamento delle donne,
condannate non solo a giornate estenuanti in fabbrica e nelle officine, ma anche a rivestire un ruolo
servile in seno alla famiglia patriarcale in virtù di una presunta legge di natura! lui, che denunciava
con orrore l'alienazione capitalista, era incapace di vedere quella che imponeva nella sua stessa
casa! tu: alcuni storiografi mettono in dubbio l'autenticità della testimonianza di Louise Kautsky!
l'originale non c'è, si è conservata solo una copia con dettagli palesemente erronei, come quello
della presunta fuga di Jenny in Germania, o quello dell'allontanamento sessuale della coppia in anni
in cui la promiscuità regnante a Dean Street e le gravidanze di Jenny smentiscono la veridicità di
simili affermazioni!
Ms Lewin-Strauss (mielosa): se il padre non era Moro, chi poteva essere? non pretenderà che il
bambino fu concepito per opera dello Spirito Santo? l'aspetto tipicamente ebreo di Frederick
Demuth e i suoi capelli neri non avevano niente in comune con Engels! a meno che, per salvare il
buon nome di Moro, lei non intende sostenere, come Heinz Monz e altri fondamenmachisti
marxiani, che la sua fedele Lenchen fosse la puttana della compagnia e si portasse a letto il primo
venuto! tu: guardi, signorina
Ms Lewin-Strauss (oltraggiata): non mi chiami signorina! se vuole parlare con una donna
consapevole, dia prima una ripulita al suo vocabolario!
tu: be', dottoressa, o comunque lei preferisca
Ms Lewin-Strauss (gravida di autosufficienza): mi ascolti bene! il sistema creato dal suo
personaggio non ha liberato le donne di umili origini dalla loro doppia e asfissiante alienazione! al
contrario, ne ha prolungato lo sfruttamento da parte di governi formati esclusivamente da uomini e
le ha mantenute in pratica sottomesse al giogo domestico, alla solita routine: cucinare, cucire,
rigovernare, chiudere il becco e sfornare figli a rischio di lasciarci le penne! questo è stato il destino
della sua fedele Lenchen e dell'esemplare Jenny, due vite sacrificate all'immensa opera del suo
idolatrato signore! (volevi protestare, opporti alla sua feroce demolizione del libro e ti sei svegliato
di soprassalto al suono della sveglia!)
9
Santo cielo! si era alle solite, eri ritornato alle tue cattive abitudini, moltiplicando le situazioni
inverosimili, confondendo tempi e luoghi, seguendo la strada della tua spudorata immaginazione,
allungando l'impubblicabile manoscritto!
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ti sembrava di vedere l'editore, installato nel suo ufficio con la giacca di tweed, i baffi curati e la
pipa di raffinata foggia faulkneriana, mentre puntava il dito inquisitorio contro le cartelle
incriminate
(…)
16
L'accoglienza di Mr Faulkner sarebbe stata glaciale!
il testo che mi proponi è una mera successione di studi, schizzi, note, appunti, abbozzi, bozzetti
(per ribadire il chiodo avrebbe esaurito l'elenco del Dizionario dei sinonimi che appariva in bella
mostra sulla sua scrivania?) senza un filo conduttore e senza una trama, il lettore si sente sperduto in
un maremagnum di dati contradditori e assurdi anacronismi! ogni volta che sembra finalmente
prendere piede una storia, tu fai in modo di sviarla dal cammino imboccato per tornare di nuovo al
punto di partenza, al punto zero, al nulla! trovi qualcosa da obiettare?
tu: è solo la prima stesura del manoscritto!
lui: questa io non la chiamerei una prima stesura, ma un ammasso di sgorbi, una sfilza di pagine
scarabocchiate! il mio consulente e io ci aspettavamo da te una storia, reale come la vita stessa, con
gloria e miserie, speranze e sconfitte di Marx e della sua famiglia, non un guazzabuglio di
annotazioni o un'accozzaglia di idee!
il consulente piccolo e con gli occhiali: non c'è progressione
drammatica ma piuttosto un abuso della excusatio propter
infirmitatem!
Mr Faulkner: proprio così! i lettori di romanzi, come gli spettatori dei serial televisivi, vogliono una
trama di interesse sostenuto, con scene umane e dense, cariche di emozione!
(…)
Mr Faulkner: senti, vecchio mio, così non si può andare avanti! in base a quanto stabilito nel
contratto, possiamo sospendere il pagamento delle mensilità prima della data fissata per la consegna
se il prodotto offerto non ci soddisfa e, da come si mettono le cose, ricorreremo a questa clausola, a
meno che tu non ci offra nel prossimo capitolo un bel piatto forte! una scena trepidante d'azione, in
uno scenario più bello e attraente, come quello che fece da cornice ai nuovi drammi familiari,
quando Engels elargì all'implacabile accusatore del Capitale una rendita vitalizia annuale di 35
sterline!
(alla fine del foglio, ti sei reso conto con sollievo che tutto il dialogo era stato solo il frutto
dell'incurabile mania di mettere in ridicolo il tuo lavoro, di inquietarti in maniera malata per il
futuro e, in fin dei conti, di divagare)
Testo originale:
La saga de los Marx
1
A MEDIDA que avanzabas en la redacción de este manuscrito la ansiedad te embargaba, imaginabas el
momento en que irías a depositarlo en la oficina del editor y preveías su reacción de sorpresa y contrariedad
conforme se internaba en sus páginas, tomaba notas apresuradas dirigidas a su artífice, acompañadas a veces de
interrogantes al borde del texto y furiosos, condenatorios signos de exclamación!
le veías introducirte en su moderno y confortable despacho con afabilidad exagerada, prevenir a la secretaria
que no le pasara ninguna llamada, arrellanarse en su butaca de ejecutivo después de asegurarse de que habías
tomado asiento en el mullido sofá de cuero, sobria y elegantemente compuesto con la chaqueta de tweed,
recortado bigote y la pipa de su cultivada estampa faulkneriana, lleno de cordialidad y simpatía hacia un viejo
autor de la casa, amigo de toda la vida cuyas aficiones literarias compartía como quien dice desde la infancia,
admirador además de su obra no obstante sus dificultades intrínsecas e índole elitista y minoritaria, alguien en
fin profundamente receptivo a su talento, peculiaridades expresivas y afán de originalidad
(por qué esos largos párrafos sin puntuación? te había dicho en otra circunstancia, no veías acaso que
desconcertaban al lector y lo alejaban del libro?
amistosamente, como un médico de cabecera, había escuchado tu deshilvanada defensa, lo de que era
70
cuestión de ritmo, ajuste auditivo, música, respiración del texto, sin perder un ápice de su compostura ni
actitud comprensiva, acentuando involuntariamente la impresión de que te trataba como a un enfermo)
uno de sus asesores, menudo y con gafas, entraría en aquel momento en el despacho, no sabes si por mero
azar u obedeciendo a un plan trazado, lo cierto es que después de saludarte, excusarse y hacer ademán de
salir, el editor le invitaría a quedarse, que no, que no molestas!, tú eres también admirador suyo y has
leído como yo el manuscrito, así podremos hablar de él los tres juntos, la opinión de uno, como decía
Celestina la Vieja, no vale en ningún caso la de dos e, instalado en aquel minitribunal en el que te
correspondía a ti el papel de acusado, iniciaríais de preámbulo una anodina conversación sobre amigos
comunes, éxitos de venta de autores más jóvenes
(están arrasando, diría el editor)
comentaríais la triste noticia del fallecimiento de algún conocido, quizás alguna picante historia de cuernos
protagonizada por una figura del mundillo cultural o los incidentes provocados por la última borrachera de
un popular y calamitoso poeta de la generación del medio siglo
el manuscrito sobrecargaba la mesa del juez, como prueba irrefutable de tu delito y el editor forzaría aún la
amabilidad de su sonrisa en un gesto que estimarías de mal augurio, antes de abordar el asunto que
en verdad os reunía
bueno, allí estaban la criatura y su señor padre! su mayor deseo habría sido aprovechar la visita para
felicitarle, celebrar sus bien probadas dotes de creador, decirle que su novela sobre Marx era realmente
magnífica!, la había leído con atención extrema, sin perderse una tilde, con la esperanza de encontrar al
fin un hilo conductor, ver surgir de sus páginas como personajes de carne y hueso a Moro y su familia,
embeberse en las vicisitudes de su vida revolucionaria, etapas de miseria, luc has políticas, cambios de
fortuna, elaboración del cuerpo doctrinal que trastornaría al mundo durante un siglo, en suma, una
novela real como la vida misma, con la descripción sicológica de Karl, Jenny y las tres hijas, del lúgu bre apartamento de Dean Street, nacimiento y muerte desdichada de los dos varones y la pequeña
Franziska, herencia providencial de la madre de Jenny, instalación posterior en Grafton Terrace y la
villa de Maitland Park gracias a nuevas y sustanciosas donaciones testamentarias, amistad vigilante y
generosa de Engels, bueno, tú conocías la historia mejor que él, todo ello urdido en una novela que
conmoviera al lector y le llegara al corazón, hiciera justicia al personaje con severidad y rigor, pero
también con humanidad, simpatía!, la idea de trasladarlo a la época actual tras el derrumbe del
comunismo no era mala en sí, manejándola bien podrías haber escrito una obra con elementos de
imaginación capaces de hacernos reflexionar sobre la justicia de sus denuncias y fracaso de sus
profecías! al proponerte el tema se daba por supuesto que no aparecerías con una novela ordinaria bajo
el brazo sino introducirías en ella componentes de novedad, calando por ejemplo, como al gunos
escritores anglosajones a quienes nadie podría tildar de anticuados, en el fondo del alma de Moro y de
su familia, expresando quizá su subjetividad en forma de monólogos interiores y barajando luego con
destreza los diferentes puntos de vista, configurando así, no sé si me explico, una obra que sería a la
vez inventada y auténtica, dramática y cómica, amena e instructiva, eso era justamente lo que esperaba
de ti, una innovación del género, no una serie de esbozos a veces jocosos, pero siempre disparatados,
mezcla delirante de fantasía y situaciones absurdas!
(con la vista clavada en el suelo, el asesor aprobaría con la cabeza)
pasemos lo de la acronía y atopía que tanto te gustan y se encarga de glosar tu pequeña cofradía de
adeptos! mas este juego, una vez admitido, y él no lo rechazaba a priori ni mucho menos, debía
someterse a ciertas reglas, mantener un mínimo de coherencia! si la visión del mundo actual, de esa
aldea global de Mc Luhan, la enfocas desde el cuchitril de Dean Street en el que vivió la familia Marx
creo que a partir de la revolución de 1848, no es así?
el asesor: en 1850, exactamente
durante cuánto tiempo?
(puntual, eficiente, el joven de las gafas se adelantaría a tus cálculos
tenía bien empollada la lección)
seis años!
bien, seis años, estás de acuerdo?
(no te quedaría otro remedio que asentir en silencio) veamos entonces las cosas como son! en este
período comprendido entre 1850 y 56, Jennychen y Laura eran dos chiquillas y Tussy no había nacido
aún!
el asesor: nació en 1855!
pues en tu novela, las pintas mayores y, olvidando esta enorme incongruencia, añades otra todavía más
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grave en la escena en la que Moro se despierta y ve a Jenny ofreciendo su pecho al crío! aquí, te
confieso, estuve a punto de cerrar el libro y exclamar esto es una tomadura de pelo! y lo mismo puedo
decirte de la visita de Anselmo Lorenzo, que tú sitúas en Dean Street siendo así que tuvo lugar en Modena
Villas muchos años más tarde!
asesor: durante la conferencia de la Internacional en Londres, después de la Comuna!
en otras palabras, un solemne disparate!
el teléfono sonaría tal vez oportunamente y el editor apretaría un botón del cuadro de mandos con
malhumorada desgana ya le dije que
es el jefe!
dígale que le llamo dentro de diez minutos!
cortaría la comunicación y esbozaría de nuevo una sonrisa que esta vez no se adaptaría fielmente a su
rostro y permanecería en él sobreimpuesta, como artificial y toscamente pintada por un niño
su habitual apariencia faulkneriana se habría disipado sutilmente y espigarías en el almacén de imágenes de
la memoria hasta dar con la que buscabas
tu editor parecía haberse trasmutado en el ilustre Thomas Gradgrind de Tiempos difíciles!!
lo que me hace falta, señor mío, son Hechos! lo que exigen nuestras lectoras y lectores son Hechos! déjese
usted de elucubraciones y visiones oníricas inútiles para el público y suminístrele Hechos! mil digresiones
poéticas y escenas fantásticas no valen un Hecho! si de aquí en adelante quiere que aceptemos su
manuscrito, aténgase estrictamente a los Hechos!
(el diminuto asesor de las gafas callaba dócilmente vestido de alumno de las escuelas de la época
victoriana y aprovechaste su salida autorizada al lavabo para eclipsarte tras él por el fondo de la clase).
2
A fin de curarte en salud y evitar los comentarios sarcásticos del editor después de una lectura que podría
poner en peligro el tenue hilo de las mensualidades merced a las cuales vivías durante la compostura del
libro, decidiste enviarle por correo unas cuartillas con un retrato fisicomoral de Marx y una descripción
minuciosa de su domicilio, con todos los ingredientes de un informe policial o de un novelista discípulo de
Balzac, conocedor asimismo de la obra de Dickens
la tarea era fácil
bastaría para ello echar mano de algunos de los testimonios de quienes le frecuentaron, copiarlo con
esmero y mandarlo al editor como presunta muestra de tu trabajo en vez del auténtico y perturbador
manuscrito!
3
Marx es de talla media, tiene treinta y cuatro años, pero ya peina canas, y su complexión recia y los rasgos faciales
evocan los de Sgemere, el revolucionario húngaro, aunque de tez más oscura y cabellos más negros,
gasta una luenga barba y los grandes ojos, brillantes y perspicaces, tienen algo de demoniaco, siniestro
toda su figura transmite la impresión de un hombre dotado de genio y potencia y su superioridad intelectual ejerce un
poder irresistible en quienes le rodean
en su vida privada es una persona cínica y extremadamente desordenada, mal anfitrión y empedernido bohemio,
su limpieza, peinado y muda de ropa son acontecimientos excepcionales!
como esposo y padre de familia parece ser afable y tierno, no obstante su carácter de un natural irritable y salvaje
vive en uno de los barrios más pobres y económicos de Londres
su domicilio se compone de dos piezas, una, el salón que da a la calle, y otra, detrás, que sirve de dormitorio
en
esta
vivienda,
no
se
encuentra
ni
por
casualidad
un
solo
mueble
limpio y en buen estado, todo está en jirones, roto y dislocado, una espesa capa de polvo cubre cosas y objetos y el
conjunto se halla patas arriba
en medio del salón hay una gran mesa de apariencia antigua cubierta con un mantel de hule y casi oculta bajo una
montaña de manuscritos, diarios, libros, juguetes de los niños, trapos y labores de costura de Frau Marx
al entrar en la casa, la visita se enfrenta a tal nube de carbón y tabaco que hay que caminar a tientas como en
una caverna hasta que la mirada se habitúe y permita vislumbrar algunos chismes como a través de la niebla! la suciedad y
descuido reinantes, convierten el mero hecho de sentarse en un ejercicio lleno de peligro! una silla tiene solamente tres patas
y los niños juegan a hacer la cocina sobre otra que por puro azar se conserva entera! y será precisamente ésta la que se
brindará al visitante sin limpiarla de los guisos de los críos y, como te sientes en ella, adiós pantalón!
pero nada de eso perturba en absoluto a Marx ni a su esposa! os reciben cortésmente y traen con amabilidad una
pipa, tabaco y el primer refrigerio que hallen a mano! una conversación inteligente y amena acaba por contrapesar los
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defectos domésticos y hacer soportable la falta de comodidad
a la postre uno se habitúa a su compañía y halla el entorno curioso y original
tal es el retrato fiel de la vida doméstica del jefe comunista Karl Marx
4
Terminaste de copiar el informe enviado a la policía de su país por Stieber, el soplón prusiano, tras su
visita al 28 de Dean Street el editor y su equipo apreciarían sin duda el botón de muestra de su escritura, te
animarían a coro a seguir adelante (qué riqueza de detalles y observaciones perspicaces! aquello era
cabalmente lo que buscaba el lector!)
pero, cómo decirles que no eras un agente de seguridad en misión de espionaje ni un aplicado discípulo de
Balzac? que las descripciones verídicas y diálogos teatrales te jeringaban y parecían el colmo de lo
artificioso y acartonado? que únicamente el vuelo de una imaginación libérrima podía dar cuenta de las
realidades de la época y su conexión con el pasado?
la evocación chirriante del editor mientras te reprochaba la desenvoltura con la que utilizabas los datos
reales, al barajarlos con visiones, zumbas y fantasías, suscitaba en tu fuero interior la inevitable pregunta
apoyado en sus bien justificadas denuncias, no había jugado también el propio Marx con fantasías
ideológicas y ensueños utópicos a lo largo de su fecunda y zarandeada vida?
(...)
8
Recibiste por mensajero urgente una carta de tu editor sería el cheque de tu mensualidad?
rasgaste el sobre con dedos temblorosos y hallaste sólo una nota a mano en la que anunciaba la visita
inmediata de su asesor en compañía de una tal Ms. Lewin-Strauss, feminista, sexóloga y profesora en
UCLA, especializada en el estudio de la familia Marx
la inmediatez de la cita no te concedía por desgracia la posibilidad de prepararte a resistir de manera adecuada el
previsible asalto de preguntas de la misteriosa doctora californiana
ésta entró al cabo de poco como Farrow por su casa
(se parecía mucho a la actriz ex favorita de Woody Allen) y, sin pedirte permiso, examinó brevemente las
cuartillas de tu texto desparramadas sobre la mesa
(el asesor permanecía en segundo término, algo cohibido, otra vez diminuto y con gafas)
Ms. Lewin-Strauss (irónica): Lenchen, Lenchen, la fiel Lenchen! no ha dado Vd. con otro modo de definir su
condición fuera de esa etiqueta paternalista y sobada?
tú: bueno, en realidad me he limitado a reproducir lo que escriben los historiadores, basándose en testimonio
unánime de la familia y sus amistades
Ms. Lewin-Strauss (severa): no se le ha ocurrido a Vd. escudriñar, bajo el clisé, la explotación despiadada de
una mujer de clase humilde, sirvienta desde la edad de siete años en la casa de Jenny, por la muy
aristocrática progenie de Ludwig von Westphalen?
tú: bueno, algo de eso hay, pero por mucho que he buscado en los archivos y cartas de la época, no he
descubierto una sola queja respecto al trato que recibía, muy al contrario, y en ello coinciden todos los
testimonios, fue siempre considerada como un miembro de la familia!
Ms. Lewin-Strauss (sarcástica): y ello le basta?
tú: bueno, como la misma Lenchen
Ms. Lewin-Strauss (sarcástica): deje Vd. de una vez esa muletilla de bueno! no sabe Vd., si ha leído a Marx en
serio, que resulta objetivamente imposible denunciar la alienación a partir de una existencia típicamente
alienada? cómo definiría el caso de una sirvienta que se dejaba sablear por ese caradura de Lafargue y, tras
cuarenta y dos años de leales y abnegados servicios a la familia Marx y luego a Engels, dejó como única
herencia a su hijo la irrisoria suma de 95 libras?
tú: bueno, lo que quería decir es
Ms. Lewin-Strauss (despectiva): el fundamento de la civilización según Marx consiste en la explotación de una
clase por otra y su dinámica procede justamente de la contradicción permanente entre ambas!
(sacó del bolsillo de su anorak un ejemplar del Anti-Dühring, con prólogo de Godelier)
Ms. Lewin-Strauss (suave): todo progreso de la civilización implica así un progreso en la desigualdad, pero estos
cambios son de ordinario graduales, imperceptibles y desembocan en formas complejas de jerarquía social, en
clases de contornos fluidos, ya que es difícil determinar el punto en el que la función cesa y la explotación
comienza, en el que el servicio prestado recibe a cambio menos de lo que vale! conocía Vd. la exégesis de este
preclaro estudioso marxiano?
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tú: probablemente lo habré leído, pero
Ms. Lewin-Strauss (incisiva): y no advirtió Vd. la relación existente entre ella y la explotación vitalicia de
su fiel Lenchen?
tú: la verdad es que el amor y devoción que mostró en los momentos más duros
Ms. Lewin-Strauss (implacable): Vd. olvida que en una familia patriarcal como la de Marx la división
del trabajo se crea en función de las diferencias de sexo y edad, en criterios fisiológicos no filosóficos!
el paterfamilias se hacía servir por las mujeres, se descargaba en ellas de las tareas más bajas, les
confiaba incluso la búsqueda de medios de subsistencia mientras él escribía sus obras redentoras en la
calma del Museo Británico, participaba en una lucha emancipadora exclusivamente masculina y se
arrogaba para colmo el derecho de pernada!
asesor (sobresaltado): el derecho de pernada?
Ms. Lewin-Strauss (triunfante): sí, el ancestral derecho de pernada! no se contentaba con explotar la
ignorancia de Lenchen ni hacerle siete hijos a Jenny! tenía que preñar además a la criada!
asesor: yo no sabía nada de eso!
(se volvió a ti con visible desconcierto) asesor: estabas tú al corriente?
tú: sí, claro, pensaba tratar del tema más tarde porque el enigma
Ms. Lewin-Strauss (jubiloso.): no hay ningún enigma! lo pudo haber en su tiempo, cuando sólo se
conocía la carta de Marx a Engels sobre un nebuloso asunto tragicómico del que debía hablarle, y le
habló sin duda, de viva voz! Lenchen estaba encinta y se negaba obstinadamente a revelar el nombre del
padre, Jenny empezaba a sospechar del marido y, para salvar el matrimonio y el honor del comunismo,
Engels apechó con la responsabilidad del bastardo! Frederick Demuth, el verdadero apellido de
Lenchen, fue enviado a un ama de cría y permaneció toda la infancia con los padres adoptivos! Engels
en persona, según contó su secretaria Louise Kautsky al dirigente socialista August Bebel, escribió en su
lecho de
muerte sobre una pizarra «Frederick Demuth es hijo de Marx»
asesor: jolines! pues no tenía ni idea!
a fin de contrarrestar el efecto negativo de las revelaciones en su futura apreciación de la novela, le
explicaste que se trataba de un piadoso escamoteo, los hagiógrafos de Marx para evitar el cargo de
parcialidad, hablaban indulgentemente de borracheras juveniles y pinitos poéticos, se detenían con terneza
en los poemas cursis a Jenny y llegaban a evocar como prueba irrefutable de su independencia su periplo tabernario con Edgar Bauer y Liebknecht, periplo jalonado de una alegre pedrea a las farolas londinenses
hasta que la llegada de la policía puso en fuga al trío y obligó a correr con inesperada ligereza al descubridor
del socialismo científico! pero lo del hijo era demasiado grave, su pareja modelo con Jenny debía mantenerse
intocable! Engels quemó a la muerte de Marx una buena parte de su epistolario y el que llegó a la posteridad
fue cuidadosamente censurado por Be-bel y Bernstein! los historiadores marxistas formaban un gremio que
convertía a los héroes del santoral comunista en verdaderos Padres de la Iglesia! así Brejnev, en sus inefables
memorias, confesaba haber disparado con tirachinas a los gorriones y ser aficionado a los raviolis pero omitía
toda referencia a su mucho más interesante y reveladora manía de coleccionista de Rolls, Jaguar, BMW,
Mercedes Benz y otros blasones de la industria automovilística ofrendados por sus pares en sus visitas al
mundo capitalista!
(él te escuchaba, limpiándose las gafas y se esponjó poco a poco al calor de una idea brillante)
asesor: qué materia genial para una novela! la seducción de la pobre Lenchen, las dudas de Jenny, la
increíble vida de Marx en aquel cuchitril con dos mujeres embarazadas!
Ms. Lewin-Strauss (glacial): las lectoras estamos hartas de ficciones biográficas en torno a un héroe masculino,
con las mujeres enclavadas en su papel tradicional de víctimas y comparsas justo en el momento en que el
concepto mismo de masculinidad hace agua y se pone en todas partes en tela de juicio!
con ánimo de contratacar
(tu novela corría serio peligro!)
buscaste en el rimero de tus obras de consulta el testimonio irrecusable de Wilhelm Liebknecht
tú (leyendo): Marx no intentaba siquiera imponerse a ella, Lenchen conocía todos sus caprichos y
flaquezas y podía metérselo en el bolsillo cuando le daba la gana! si estaba furioso y despedía tales rayos
y centellas que nadie se atrevía a acercarse a él, entraba en la jaula del león y le hablaba de tal modo que
se volvía manso como un cordero!
(hiciste ademán de tender el libro a la doctora pero no se dignó tocarlo
el asesor lo cogió ávidamente)
tú: como ve, las cosas no eran tan simples!
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Ms. Lewin-Strauss (olímpica): el hombre iracundo y la mujer que lo apacigua con mañas femeninas! no
se cansa Vd. de reproducir a cada paso los peores estereotipos sexistas?
tú: su opinión no es un tanto anacrónica? en tiempos de Marx Ms. Lewin-Strauss (contundente):
justamente me refería a ello! este burgués esclarecido, que describió y condenó con elocuencia las
condiciones de vida de los trabajadores y atropellos de la burguesía durante la Revolución industrial, no
reparó en ningún momento en la doble explotación de las mujeres, condenadas no sólo a jornadas
extenuantes en fábricas y talleres sino a cumplir un papel servil en el seno de la familia patriarcal por una
supuesta ley de la naturaleza! él, que denunciaba con horror la alienación capitalista era incapaz de ver la
que imponía en su propia casa! tú: algunos historiadores ponen en duda la autenticidad del testimonio de
Louise Kautsky! su original no existe y sólo se conserva una copia con detalles manifiestamente erróneos
como el de la presunta fuga de Jenny a Alemania o el distanciamiento sexual de la pareja en unos
años en los que la promiscuidad reinante en Dean Street y embarazos de Jenny desmienten la verdad de
tales afirmaciones!
Ms. Lewin-Strauss (toda mieles): si Moro no fue el padre quién lo fue? no pretenderá Vd. que fue
concebido por obra del Espíritu Santo! el aspecto típicamente judío de Frederick Demuth y sus cabellos
negros no le debían nada a Engels! a menos que, para salvar la buena fama de Marx, no sostenga Vd.
como Heinz Monz y otros fundamenmachistas marxianos que su fiel Lenchen era la puta de la
compañía y se acostaba con cualquiera!
tú: mire Vd. señorita
Ms. Lewin-Strauss (ultrajada): no me llame Vd. señorita! si quiere Vd. dialogar con una mujer
consciente purgue primero su vocabulario!
tú: bueno, doctora, o lo que Vd. prefiera
Ms. Lewin-Strauss (grávida de autosuficiencia): escúcheme bien! el sistema creado por su personaje no
liberó a las mujeres de clase humilde de su doble y asfixiante alienación! antes bien, prolongó su
explotación por gobiernos compuestos exclusivamente de'hombres y las mantuvo sometidas en la
práctica al yugo doméstico, a la rutina de guisar, coser, fregar, candor el pico y parir hijos a riesgo de
morir en el intento! tal fue el destino de su fiel Lenchen y la ejemplar Jenny, dos vidas sacrificadas a la
obra magna de su idolatrado señor!
(querías protestar, replicar a su saña demoledora del libro e inopinadamente te sobresaltó el
timbre del despertador!)
9
Cielos! habías vuelto de nuevo a las andadas, multiplicado en situaciones inverosímiles, entreverado
espacios y tiempos, seguido el camino de tu imaginación desbocada, prolongado el impublicable
manuscrito!
te parecía ver al editor, instalado en su despacho con la chaqueta de tweed, el recortado bigote y la pipa de
cultivada estampa faulkneriana mientras apuntaba con dedo fiscal a las condenadas cuartillas
(...)
16
la acogida de Mr. Faulkner sería glacial
el texto que me presentas es una mera sucesión de diseños, croquis, notas, apuntes, esbozos, bosquejos
(iría a agotar la lista del Diccionario de Sinónimos que figuraba sobre la mesa para remachar bien el
clavo?)
sin hilo conductor ni argumento, el lector se siente perdido en un maremagnum de datos contradictorios y
absurdos anacronismos! cada vez que parece arrancar una historia te las arreglas para desviar su camino y
volver de nuevo al principio, al punto cero, a la nada! tienes algo que objetar a cuanto digo?
tú: el manuscrito es sólo un borrador!
él: a eso no le llamo yo un borrador sino una sucesión de borrones, de páginas emborronadas! mi asesor y
yo esperábamos de ti una historia, real como la vida misma, con la gloria y miseria, esperanza y fracasos
de Marx y su familia, no un cajón de sastre de anotaciones ni un batiburrillo de ideas!
el asesor diminuto y con gafas: no hay progresión dramática y sí un abuso de la excusatio propter
infirmitatem!
Mr. Faulkner: exactamente! los lectores de novelas, como los espectadores de seriales televisivos,
quieren seguir una trama de interés sostenido, con escenas humanas y tensas, sobrecargadas de emoción!
(...)
75
Mr. Faulkner: mira, majo, las cosas no pueden seguir así! conforme a lo estipulado en el contrato,
podemos interrumpir el abono de las mensualidades a la mitad de la fecha fijada para la entrega si no nos
satisface el producto ofrecido y, tal como se vislumbra el asunto, nos acogeremos a esta cláusula a
menos de que nos ofrezcas un verdadero plato fuerte en el próximo capítulo! una escena trepidante de
acción en un cuadro más bello y atractivo, como lo fue el que enmarcó los nuevos dramas de la
familia, cuando Engels otorgó al denunciador implacable de El capital una renta vitalicia anual de 350
libras!
(acabada la hoja, comprobaste aliviado que todo el diálogo había sido obra de la incurable manía de
poner tu trabajo en solfa, de inquietarte de modo enfermizo por lo futuro y, a fin de cuentas, de
divagar)
76
Fly UP