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Anche nella sventura la salvezza
█ L’EVANGELO NEL QUOTIDIANO ANCHE NELLA SVENTURA ............................................................. LA SALVEZZA FELICE SCALIA* Messina Non ti abbandonerò mai, dice il Signore, ………………………………………………………………………………. ti consolerò nel tuo pianto, per te ho progetti di gioia, ………………………………………………………………………………. non affliggerti, spera contro ogni speranza, fidati di me, sono tuo padre. …………………………………………………………………………………….. Il mistero della vita che siamo chiamati ad accogliere ……………………………………………. Si può dire che il confortante messaggio di Geremia a gente provata da una sventura immane come la distruzione di una città santa ed una deportazione, è “la” buona notizia di tutta la Scrittura. Non c’è pagina che non ripeta con insistenza la Parola fondante di Dio all’uomo: “Sei mio figlio, ti amo, non ti abbandono mai, ti consolerò nel tuo pianto”. E tuttavia non c’è esperienza più comune per noi credenti di oggi che quella dell’estraneità di Dio ai nostri problemi, della sua indifferenza, dell’abbandono in cui siamo lasciati quando la “sventura” sconvolge la nostra vita. “Dio è fuori della storia - mi ripete un amico – ed è bene che non c’entri con noi; sarebbe responsabile della nostra infelicità”. La nostra davvero è una difficile fede. L’incessante vegliare di Dio ……………………………………………… Prendiamone coscienza ancora una volta. Dio non è seduto nel suo trono nell’alto dei cieli, in attesa di giudicare questi “vermi” umani che lo disonorano. Dio non è quell’essere beffardo e cinico di cui parla Jago nell’Otello, che ha creato noi per la cattiveria e la crudeltà, dato che lui stesso è crudele e cinico. Dio non è l’Offeso che esige ……………………… * Biblista. “Nuovi Orizzonti” - Messina puntigliosamente sangue di espiazione perché la sua legge venga reintegrata ogni giorno nella sua maestà. Ma Dio non è neppure il salvacondotto, la cedola assicurativa contro gli infortuni, le malattie, le nostre fragilità nei rapporti affettivi. L’unico Dio che conosciamo è il “Dio con noi”, “che ha progetti di gioia e non di afflizione” (cf. Ger 31,13), coinvolto nella nostra storia fin “dalle midolla”, legato al nostro destino di umani più che alla sorte delle stelle, ma anche in qualche modo “impotente” di fronte ad un uomo chiuso nel suo egoismo e che si nega ad ogni relazione di amore. Tutto ciò per dire che qui ci si muove su un piano di “speranza contro ogni speranza” (Rm 4,18), di un attaccamento indiscusso al Padre, anche quando lo si percepisce sideralmente lontano. Ci muoviamo su un piano di fede testarda e cristiana. Quella fede che intravede spiragli di luce tra le tenebre e vita anche mentre si sprofonda nel fango. È la “fede” di Gesù di Nazareth quando esulta perché il Padre si rivela ai piccoli e quando si sente abbandonato da Lui in croce. Se la vicinanza di Dio ai suoi figli è un dato indiscusso di fede, se tutta l’economia di salvezza è questo suo incessante vegliare perché i suoi figli raggiungano la pienezza dell’umanità, il modo con cui tutto questo avviene non sempre ci è chiaro e spesso è una 1 sorta di segreto intimo tra Dio e l’uomo, “non narrabile” all’esterno. Possiamo fidarci di Dio? ……………………………………………….. Nella mia lunga esperienza di accompagnamento di famiglie in difficoltà, ho partecipato a storie di tutti i colori, con esiti diversi. Perché se il progetto di Dio è “salvezza”, si tratta sempre di una salvezza intanto proposta e mai imposta, e poi di una salvezza “austera” che scioglie la disgrazia aprendo però a prospettive nuove, diverse dalle condizioni che hanno provocato il disastro. Mentre scrivo penso ad una coppia di amici. Persone eccezionali singolarmente, ma coppia quasi impossibile. La loro è una storia di creature “ferite”. Tutti e due stanno male separati, e stanno male insieme. Con scialo di confusione tra i figli. La “crisi” dura già da sette anni e non corre sul filo del tradimento, ma del mancato “affidamento”. Nessuno dei due riesce a consegnare la propria storia nelle mani dell’altro, ad abbandonarsi alla tenerezza. Sono fermi all’amara delusione di non ricevere dall’altro ciò che il singolo si aspetterebbe. Insomma l’amore è soddisfazione del bisogno di ciascuno e non dono “folle” di chi una sola cosa vuole, che l’altro sia e cresca e si realizzi e viva nella gioia di sapersi “unico” al mondo. Conoscono bene il Vangelo questi sposi, e da questa loro crisi sono chiamati ad accoglierlo, ma continuano quasi a ripetere, senza mai verbalizzarlo, che essi nel Dio del vangelo ci credono, ma di Lui non si fidano. Ci sarà il giorno in cui questa coppia che pure assapora l’Infinito cederà a questa nostalgia di pienezza? Farà il salto verso la “salvezza”? Mentre scrivo trepido. Come amico e prete, posso solo pregare. Un “assedio” di sette anni da parte di Dio dietro la porta di questa famiglia di amici, mi ricorda che la Gerusalemme idolatra ed empia fu assediata a lungo dagli Assiri, “verga del furore di Dio”. Ce ne vuole perché un popolo cada nelle maglie della sventura e possa poi di nuovo intravedere gli approdi di bellezza a cui Dio lo chiama. Grazie a Dio non sempre è così. Durò un anno la crisi di una famiglia spezzatasi nel rancore reciproco, nella incomunicabilità di due spiriti tanto diversi quanto irretiti da attaccamenti familiari che non avevano mai permesso ai due di “sposare” veramente l’altro. Ma la sventura che portò i figli – piccoli – sull’orlo della nevrosi, si risolse in un nuovo incontro nella fede e nell’amore “riscoperto”. Bruciarono finalmente “le navi” dietro a loro, come i conquistatori spagnoli nelle Americhe da conquistare. Niente più ripensamenti. Chiusero alle spalle la porta di ogni indebito legame con le famiglie di origine, ciascuno “risposò” l’altro con un amore “vergine”, come se si fossero incontrati per la prima volta e nell’amore reciproco, nell’affidamento senza “se” e senza “ma”, volessero finalmente ritrovarsi. Non cedere alla sventura ……………………………………….. Storie di “salvezza” come queste ne potrei raccontare tante. Ma forse stanno sotto gli occhi di tutti. A me preme sottolineare un’altra cosa. Non è salvezza il semplice ritorno alla “condicio ante quam” del “disastro”. Le “sventure” che possono abbattersi su una famiglia, sono tante: la perdita di un posto di lavoro, una malattia, l’incomprensione tra i coniugi, una debolezza affettiva, una “storia” che ci coinvolge e ci aliena da antichi e consolidati affetti, la tiepidezza di un rapporto, la delusione dei figli, una separazione, un divorzio… Tutto ciò che tocca l’uomo nella sua fragilità tocca la coppia e la famiglia, con l’aggravante che il dolore si espande quasi per osmosi e coinvolge più persone, colpevoli o innocenti che siano, in un unico destino. Se questi sono i guai prevedibili, se molti di essi non dipendono dalla nostra buona volontà e si abbattono con la furia di una tempesta, è anche chiaro che il modo di sopportare la sventura varia. Se anzi prendiamo la parola “sventura” secondo la profonda accezione di Simone Weil, possiamo dire che il dolore, il dispiacere in una famiglia diventano “sventura”, immane disastro senza appello, quando tra i genitori non c’è più quella intesa che ne fa una fortezza, una rupe inattaccabile, 2 un’ancora nel mare tumultuante. È nel presupposto della tenuta di una coppia che noi possiamo testimoniare la realtà della promessa divina: “Realizzerò la mia buona promessa di concedervi un futuro pieno di speranza” – come leggiamo in Geremia 29,11. Ed è in questo caso che mi pare di dovere affermare come la salvezza sia da cercare in un cammino verso la pienezza dell’amore e la ricerca della statura dell’”Uomo perfetto”, una tensione resa possibile proprio da quell’ammanco di intesa e di unità che aveva fatto nascere la sventura. Considero miei amici quei coniugi che ho tentato di aiutare a non cedere. Così ricordo quegli amici, un lui ed una lei cristiani convinti benché senza fronzoli e fanatismi, che un giorno si fanno prendere dal gorgo della gelosia. È rottura. “Non c’è sacramento che tenga!” – blatera lui. “Questo non è matrimonio!” – rintuzza lei. Scoprono dopo mesi di dolore (distribuito a larghe mani anche ai figli e parenti) che la verità era un’altra: non erano sposi cristiani benché uniti con rito religioso. Amare per tutti e due era poco più che un piacevole e comodo possedere l’altro. Dio, in fondo era il grande assente, sostituito dal “desiderio” come unico collante. Oggi i loro orizzonti sono diversi, rivelati nella sventura della separazione forzata. Ed è anche amico mio quella straordinaria persona che ogni giorno va a fare colazione e pranzo con la sposa ammalata di Alzheimer che non lo riconosce più ma accetta la sua “gentile” compagnia ai pasti. “Lei non sa chi sono io, ma io so chi è lei!” – ripete questo marito fedele fino in fondo, capace di amare “usque in finem” proprio come Gesù di Nazareth, convinto che la tenerezza provata oggi, l’unione sentita con quella larva di donna, è l’approdo di ciò che confusamente cercava nei limiti e nelle estrosità di un giovinezza turbolenta. Dalla sventura il volo, la salvezza di una intera vita. Non sto dicendo affatto che appaiono in famiglia angeli consolatori quando la sofferenza bussa ad una porta di casa. Né che questa salvezza di Dio offerta nella sventura sia sempre percepita come un influsso soprannaturale che fa cadere dagli occhi come squame e ci restituisce finalmente la vista, un po’ come capitò a Paolo di Tarso. Nella improvvisa povertà di un operaio licenziato in tronco come “esubero”, la salvezza non è una manciata di banconote trovate miracolosamente nella buca delle lettere, che fanno onorare il mutuo di casa o pagare i libri al figlio universitario. Queste cose possono capitare, al limite si possono impetrare nella preghiera. Ma molto spesso Dio agisce in modo molto più discreto, ed a noi tocca accogliere umilmente il suo dono, atteso nella speranza. Forse abbiamo percepito anche noi la sorpresa di trovarci quasi senza volerlo di fronte ad una prospettiva nuova, pista difficile e unica per uscire dal “tunnel”, direzione che si impone come una chiamata senza replica, impellente, che ci trova consenzienti e disarmati, felici per la luce intravista ma timorosi per l’atmosfera rarefatta a cui dovremo adattarci. Esempi a iosa. Quell’amico prete tormentato da una voglia di abbandono o di suicidio che riscopre il senso autentico della sua umanità consacrata e solo oggi vi vede la mano del Dio “soccorrevole”. Quella coppia che oggi parla di “grazia della sterilità” perché, superato il confine di una genitorialità biologica, si è aperta a bambini e ragazzi infelici di cui hanno piena la casa “extra large”. Quella famiglia di emigrati di terza generazione che nella crudele discriminazione sofferta nel cattolico Nord Est “padano”, sente come vocazione vivere di inclusione e di accoglienza, anche sfidando le ironie malevole dei vicini. “Beati gli afflitti”… Può essere per l’oggi questa parola? ……………………………………….. Concludendo. Un giorno fu detto all’umanità feriale delle strade palestinesi ed al mondo intero: “Beati gli afflitti perché saranno consolati”. Conveniamo che si tratta di parole strane per l’uomo di oggi che pone la sua sicurezza altrove. Non sarebbe meglio se Dio ci facesse da parafulmine contro le sventure? Non manifesterebbe meglio il suo amore per noi? Un po’ di “metodo preventivo” non lo renderebbe più credibile? Forse prima di parlare di “salvezza nella sventura” dovremmo sgomberare il campo da 3 queste accuse al Padre. Noi ci siamo mossi non nell’ottica di un Dio che per purificarci ci caccia nella valle di lacrime e ci manda “bei dolori” nel corpo per salvare le nostre anime. Neppure nella prospettiva di quel Dio che “permette” il male, sempre per vedere se gli siamo fedeli e se abbandoniamo il nostro attaccamento carnale. Senza volere entrare nel mistero del male nel mondo, accettandolo come un dato di fatto anche quando questo dipende dalla cattiveria umana, mi pare che ci siamo interrogati su cosa pensa Dio, che fa Lui quando ci vede nella sventura. Con la vita tra noi del Verbo incarnato, noi una risposta l’abbiamo: Dio non è indifferente al nostro dolore. Dio non si volta dall’altro lato pensando che un torturato di Guantanamo è roba che non lo riguarda. C’è una parola sublime detta da Gesù: “Il Padre mio agisce (lavora) anche ora e anch’io agisco” (Gv 5,17). Il “lavoro” del Padre è condurci a salvezza, farci vivere del suo Spirito, portare a pienezza la nostra umanità, aiutarci a diventare ciò che siamo: figli amati da Lui, destinati alla vita, creati per essere sempre nella luminosità della gioia divina. Un lavoro duro il suo, e “costoso”. Chi sa, forse per questo ogni donna genera nel “dolore” un bambino ed una coppia fa nascere un uomo vero da un moccioso solo con fatica, tenerezza ed immensa pazienza. Chi sa, forse è questo il Mistero Santo della Vita che siamo chiamati ad accogliere. FELICE SCALIA 4