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il problema dell`empatia in edith stein
IL PROBLEMA DELL’EMPATIA IN EDITH STEIN INTRODUZIONE Nel 1917, ad Halle, E. Stein pubblica la dissertazione di laurea con il titolo Zum Problem der Einfühlung; aveva scelto il tema dell’empatia come unico argomento da trattare sia per gli esami di Stato che per gli esami di laurea. Per la pubblicazione l’opera sarà privata della prima parte riguardante una esposizione storica della intera letteratura empatica. Dopo essersi recata a Gottinga, E. Stein acquisisce rapidamente gli elementi costitutivi della fenomenologia; inserita nel circolo dei discepoli di Husserl discute insieme ai giovani fenomenologi l’ultima pubblicazione del maestro, il primo libro delle “Idee”1, fonte di quella lunghissima controversia in merito ad una possibile svolta idealistica del padre della “scienza delle essenze”. Coinvolta in questo clima, fa proprio il nuovo atteggiamento di ricerca filosofica, apprende i fondamenti per una indagine gnoseologica al punto da decidersi per un lavoro atto a sperimentare le proprie capacità nell’ambito della pura ricerca fenomenologica. La scelta non cade a caso sul tema dell’empatia: seguendo le lezioni di Husserl intravede una lacuna in merito al fenomeno del coglimento dell’esperienza estranea; questo argomento così fondante per la costituzione del mondo oggettivo2, di un mondo comune di appartenenza, non era stato ulteriormente sviluppato ed analizzato. E. Stein decide, così, di lavorare sul tema dell’empatia dimostrando fin da subito il suo interesse predominante per la persona umana all’interno del suo imprescindibile legame con la dimensione sociale. Giungere ad una piena comprensione di se stessi pone le basi per una fedele apertura all’altro, al fine di vivere in pienezza la propria appartenenza ad una comunità: ogni forma di chiusura solipsistica predispone alla “dimenticanza” di quell’essenza della natura umana che rimanda, ultimamente, ad essere membro di un popolo, frammento di un “noi”, bisognoso di procedere comunitariamente con gli “altri”, sorretto da una incessante comunicazione intersoggettiva, sostenuto dalla sua intrinseca dimensione dialogica. L’empatia rappresenta una delle tante possibilità che l’essere umano, in quanto persona, ha a disposizione per “entrare” e, finalmente, “vivere” fino in fondo la sua dimensione comunitaria. Roman Ingarden, un amico di Edith con il quale maturerà un lunghissimo rapporto di amicizia, ci assicura che “il problema che la tormentava di più era chiarire le possibilità di una comprensione tra gli uomini, la possibilità di creare una comunità umana che non solo teoricamente, ma anche vitalmente, esistenzialmente le era molto necessaria”3. L’ESSENZA DELL’EMPATIA “Per capire a fondo l’essenza dell’atto empatico facciamo questo esempio: un amico viene da me e mi dice di aver perduto un fratello ed io mi rendo conto del suo dolore. Che cos’è questo rendersi conto?”4 Mi viene dato un Soggetto estraneo (l’amico che viene da me) e la sua esperienza vissuta (il dolore per la perdita del fratello); io faccio esperienza di questo suo vissuto interiore, colgo l’esperienza vissuta estranea 1 Husserl E., Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Allgemeine Einfühlung indie reine Phänomenologie, Martinus Nijhoff, Den Haag 1950; trad. Italiana a cura di Enrico Filippini, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Introduzione generala alla fenomenologia pura, ed. Einaudi, Torino 1976 2 Husserl E., Idee I, op. cit., p. 61 3 R. Ingarden, Il problema della persona umana. Profilo filosofico di E. Stein, ne “Il nuovo aeropago”, anno 6, n. 1, 1987, p. 33 4 E. Stein, Zum Problem der Einfühlung, Halle 1917; trd. Italiana, Il problema dell’empatia, a cura di E. Costantini, ed. Studium, Roma 1985, p. 71 con un atto “sui generis”: tale atto viene indicato con il termine “empatia” (Einfühlung), ovvero atto mediante il quale facciamo esperienza del vissuto di una coscienza estranea e della sua personalità5. Tale vissuto non scaturisce in maniera viva dal mio Io, ma da un altro Soggetto, quello che prova in maniera viva (o originaria6) l’esperienza vissuta. Eppure tale esperienza, che è estranea a me, si annunzia in me, si rende manifesta al mio Io, nella mia esperienza vissuta7. “E’ in questo modo che l’uomo coglie la vita psichica dell’altro, è in questo modo che egli coglie pure, in qualità di credente, l’amore, l’ira e i comandamenti del suo Dio; non diversamente Dio può cogliere la vita dell’uomo”8. Ma tra Io proprio ed Io estraneo non può realizzarsi mai una identificazione totale intesa come costituzione di un unico Io: l’empatia non potrà mai divenire unipatia (Eins-fühlung = sentirsi uno)9, poiché vana è la pretesa di captare in pienezza l’esperienza dell’altro e di coltivare l’illusione di potervisi sostituire. Il Soggetto dell’empatia è il “Noi” che racchiude la distinzione ineliminabile dell’Io e del Tu, ovvero della individualità del soggetto che empatizza e del soggetto che viene empatizzato. Di fronte ad un avvenimento particolarmente coinvolgente una intera comunità, sottolinea E. Stein, proviamo gli “stessi” sentimenti, ci sentiamo accomunati dal vivere uno “stesso” stato d’animo, esultiamo o ci disperiamo allo “stesso” modo per quello “stesso” avvenimento; ma “la gioia che ci riempie non è del tutto la stessa: forse per l’altro la gioia si è dischiusa in maniera più ricca; empatizzando colgo questa diversità; empatizzando giungo a quei “lati” che erano rimasti chiusi alla mia propria gioia, ed ora la mia gioia si accende e solo ora avviene la piena copertura con la gioia empatizzata”10. L’unificazione di più Io nel fenomeno dell’empatia non è l’equivalente della somma delle singole esperienze individuali: il Noi è una unità di natura superiore poiché incarna l’essere “comunità” che presuppone il riconoscimento della diversità di ognuno, la capacità di valutare il mondo interiore dell’altro, la volontà di entrare in reciproca comunicazione. Già dall’analisi di queste prime pagine dell’opera giovanile della Stein emerge l’interesse preponderante per la dimensione comunitaria dell’essere umano: non a caso esaminando tutte quelle teorie elaborate per spiegare il fenomeno dell’empatizzare, le critica proprio per il mancato riconoscimento dell’alterità. Secondo la teoria dell’imitazione11, infatti, empatizzare vuol dire dar vita all’impulso di “imitare” interiormente l’azione estranea richiamando il “proprio” vissuto corrispondente, considerandolo come se fosse un vissuto estraneo. Così come avviene per la teoria dell’associazione12 secondo la quale associamo alle immagini ottiche dei gesti estranei, sempre un “proprio” vissuto. Anche la teoria dell’inferenza per analogia13 cade nello stesso errore: considerare se stessi ed il proprio vissuto come unica misura per la comprensione del soggetto estraneo; difatti in questo caso si suppone solo per analogia con se stessi che negli altri siano presenti vissuti interiori. L’empatia si attualizza solo presupponendo la salvaguardia dell’altro nella sua diversità: ciò che ci distingue gli uni dagli altri non può essere solo la nostra corporeità, bensì il nostro nucleo di vissuti, le diverse esperienze che facciamo nello scorrere della quotidianità, l’insieme dei sentimenti e degli stati d’animo che accumuliamo, un mondo di valori verso cui indirizziamo la nostra volontà. Questo insieme costituisce il nucleo personale di ognuno, ciò che ci rende persone irripetibili, totalmente diverse ma altamente capaci, per natura, di entrare in comunicazione tra di noi. Non è lecito, allora, cogliere l’altro, valutare i suoi vissuti in base alle proprie esperienze, al proprio personale sentire e atteggiarsi di fronte al reale: l’altro mi dona direttamente la sua immagine prima ancora che io mi arroghi il diritto di costruirla a mia discrezione. LA COSTITUZIONE DELL’INDIVIDUO PSICO-FISICO 5 E. Stein, Il problema dell’empatia, op. cit., p. 80 Ibid., p. 77 7 Ibid., p. 79 8 Ibid., pp. 79-80 9 Ibid., pp. 86-89 10 Ibid., p. 89 11 Ibid., p. 96 12 Ibid., p. 98 13 Ibid., p. 101 6 “Noi amiamo e odiamo, vogliamo e agiamo, ci rallegriamo e ci rattristiamo e lo esprimiamo; tutto ciò in un certo senso ci è cosciente senza essere colto né essere oggettivato. Noi non ci fermiamo a fare su ciò delle considerazioni, non ne facciamo Oggetto di attenzione o finanche di osservazione e conseguentemente di valutazione, né lo guardiamo al fine di mettere in evidenza quale “carattere” manifesti. Al contrario facciamo tutto questo, quando si tratta della vita psichica estranea che fin dall’inizio sta davanti ai nostri occhi come Oggetto, in virtù del fatto che essa è legata ad un corpo percepito”14 Dopo aver elaborato una descrizione sull’essenza dell’empatia, E. Stein esamina il soggetto implicato in tale atto percettivo: la seconda parte del Problema dell’empatia considera tale Soggetto come individuo psicofisico. Innanzitutto, la nostra giovane filosofa, sottolinea l’individualità dell’Io, l’ipseità che “costituisce la base di tutto ciò che è mio”15 ulteriormente attestato dal suo flusso di coscienza (l’insieme dei vissuti) che aggiunge all’Io una differenza qualitativa rispetto a qualunque altro Io16. Ma, per E. Stein, è necessario compiere un passo ulteriore per cogliere l’Io individuale così come viene comunemente inteso: inscindibile dal flusso coscienziale vi è l’anima, ovvero ciò che mi dona la certezza che gli Erlebnisse (vissuti) che vivo sono miei vissuti poiché sostanzialmente uniti da un identico portatore17. L’anima, però, è necessariamente anima di un corpo proprio senziente18; tramite le sensazioni si stabilisce l’unione tra corpo proprio ed anima nell’io individuale. E. Stein non considera il corpo e l’Io come due realtà totalmente separate, estranee fra loro e fuse secondariamente insieme; le sensazioni rappresentano l’elemento comune che ne garantisce l’unità inscindibile: le sensazioni, in quanto elementi della coscienza19 appartengono all’Io, in quanto localizzate spazialmente nelle varie parti del corpo20 appartengono necessariamente al corpo proprio. L’io individuale viene così affermato come unità e non come duplice essere, anche se ci sembra riduttiva una unione garantita esclusivamente dalle sensazioni21. Dopo la conversione, quando farà propria la dottrina di S. Tommaso, svilupperà ulteriormente ciò che è già presente ne Il problema dell’empatia riconoscendo all’essere umano una unità sostanziale data, oltre che dal corpo e dall’anima, anche da una realtà spirituale, arricchendo così il concetto di anima elaborato in precedenza che, da semplice principio unitario dei vissuti psichici, diviene il “centro” vitale che abbraccia in sé psiche, corpo e spirito. Comunque, alla base di tutta questa descrizione dell’individuo psico-fisico, è possibile rintracciare una intuizione fondamentale: l’io psicofisico è Leib, ovvero corpo vivente, unità inscindibile di materia e anima, unità di un corpo sostanzialmente animato e di un’anima necessariamente fondata in un corpo, unità di un corpo dotato di sensibilità e di un Io che lo anima e che, a sua volta, è arricchito e animato dal suo stesso corpo. L’essere umano inteso, dunque, come unità inscindibile che in virtù del suo essere Leib entra incessantemente in comunicazione con l’altro da sé, utilizzando il linguaggio del suo corpo: corpo continuamente vivente nei suoi sentimenti espressi senza sosta per mezzo della sua esteriorità e comunicati al proprio simile con il dono di un sorriso, di uno sguardo carichi di una interiorità particolare. Attraverso il suo linguaggio, il Leib, rende possibile l’esperienza empatica, quella maniera totalmente umana di incontrare l’altro essere umano nel tentativo di accorciare le distanze tra il proprio io e l’io del tu e giungere ad un comune sentire, facendo propria la gioia, la sofferenza, la speranza di chi ci passa accanto. Con l’atto empatico sopraggiunge la possibilità di cogliere una nuova immagine del mondo22, acquisendo, così, coscienza della limitatezza della propria visione della realtà e scorgendo la necessità di arricchirla in un 14 Ibid., p. 191 Ibid., p. 120 16 Ibid., p. 121 17 Ibid., p. 123 18 Ibid., p. 124 19 Ibid., p. 134 20 Ibid., p. 126 21 Ibid., p. 134 22 Ibid., p. 154 15 continuo riferimento ai centri di orientamento estranei: è indispensabile porsi in atteggiamento di apertura al coglimento di ciò che l’altro può donarci sempre, ripudiando la tendenza ad assolutizzare il proprio punto di vista, riconoscendolo come concezione evidentemente relativa. Inoltre, accostandoci alla persona estranea, sottolinea E. Stein, bisognerebbe essere motivati dal tentativo di comprensione fedele del suo mondo interiore, delle sue autentiche proprietà; per cui “se uno mi racconta qualcosa sul modo disonorevole di agire da parte di un uomo che io ho conosciuto come persona onesta, non gli presterò alcuna fede” poiché comprendo che “un uomo veramente buono non può essere vendicativo, un uomo compassionevole non può essere crudele, un uomo franco non può essere diplomatico”23. Gli inganni nell’esperienza empatica potranno scaturire solo se, nel coglimento dell’altro, consideriamo come punto di partenza il proprio modo di essere applicandolo, falsamente, all’individuo estraneo: “già il buon senso indica che non è un metodo da adottare quello di giudicare gli altri con il proprio metro per giungere alla conoscenza della vita psichica estranea”24. Solo in quanto l’altro è un Leib io “vedo”, oltre che un oggetto materiale, tutti i suoi elementi essenziali: “vedo” delle sensazioni distribuite su quell’oggetto, “vedo” una particolare immagine del mondo diversa dalla mia, “vedo” pure un corpo dotato di un movimento vivo, così come “vedo” delle espressioni significative dell’interiorità estranea. Corpo ed anima vivificati da un legame di compenetrazione reciproca fondano un unico essere personale; l’incapacità di guardare l’individuo estraneo come un Leib provoca dei rapporti che, privati della indispensabile componente comunicativa, riducono l’altro ad un elemento cosale. E. Stein ribadisce che, contrariamente ad un tale atteggiamento, il coglimento dell’alterità è il presupposto per la piena comprensione di se stessi: “è possibile che un altro mi giudichi meglio di quanto io giudichi me stesso e mi dia maggior chiarezza su me stesso. Ad esempio egli si rende conto che io, nel compiere una buona azione, mi guardo attorno e cerco di riscuotere approvazione, mentre io stesso credo di agire per pura compassione. In questo modo l’empatia e la percezione interna collaborano insieme per rendere me più chiaro a me stesso”25. L’EMPATIA COME COMPRENSIONE DELLE PERSONE SPIRITUALE “Solo chi vive se stesso come persona, come un tutto significante, può capire le altre persone”26 Dopo aver analizzato il Soggetto dell’empatia sotto la caratteristica di individuo psicofisico, E. Stein lo indaga considerandolo come persona spirituale27. Ciò che caratterizza un Soggetto spirituale è il possedere, attraverso i suoi atti, una propria visione del mondo; ma gli atti dello spirito che portano alla formazione di tale visione non si ritrovano sommati l’uno all’altro senza alcun legame reciproco. Ogni atto scaturisce da un altro in una maniera tale che lo stesso Io fluisce dall’uno all’altro in quanto legati da un nesso significativo: la motivazione. “La motivazione è la legalità della vita dello spirito; il nesso dei vissuti dei Soggetti spirituali è una totalità significativa vissuta (originariamente o in modo empatico) e come tale comprensibile”28. Ciò che cogliamo nei vissuti dello spirito non è una sequenza di tipo causale, bensì un nesso significativo, un rapporto intelligibile, per cui il flusso dei vissuti non si manifesta come determinato naturalmente ma motivato da un tendete verso un oggetto e l’Io, considerato come Soggetto spirituale, si apre ad un nuovo regno di oggetti: il mondo dei valori. Tramite i sentimenti, intesi quali atti dell’Io in direzione di un oggetto appartenente alla sfera assiologia, si rivela la profondità del Soggetto, la sua capacità di elevarsi verso i valori supremi, le sue proprietà personali: “nella gioia prorompente, nel dolore sconvolgente m’accorgo, nel momento stesso della loro 23 Ibid., p. 188 Ibid., p. 190 25 Ibid., p. 192 26 Ibid., p. 227 27 Ibid., p. 195 28 Ibid., p. 202 24 attuazione, della mia passionalità e della posizione che questa occupa nell’Io”29. Questa stretta correlazione tra sentimento e valore fonda, a sua volta, la correlazione tra gerarchia dei valori e strati della persona, poiché quanto più vengono incarnati i valori supremi, maggiormente si acquisisce conoscenza della propria personalità. Tale intreccio di rapporti rende possibile la legalità razionale dei sentimenti, la comprensione cioè di ciò che è “giusto” o “sbagliato” in merito alle personali reazioni emotive; non necessariamente, dice E. Stein, sentiamo in maniera razionale perché spesso ribaltiamo la gerarchia dei valori dando maggior importanza ad un valore che, in realtà, è situato ad un livello inferiore della scala30. “Alla piena gerarchia dei valori corrisponderebbe la persona ideale che sente tutti i valori nel loro ordine e in modo adeguato”31. Quando, empaticamente, ci rivolgiamo ad un “altro” inteso come persona spirituale, cogliamo da ogni estrinsecazione estranea una decisione di tipo motivazionale, ovvero vi leggiamo quella legalità intelligibile che manifesta l’altrui penetrazione in un universo assiologico per cui ogni azione estranea va sempre valutata come altamente significativa: “una singola azione e altrettanto una singola espressione corporale – uno sguardo o un sorriso – possono offrirmi la possibilità di gettare uno sguardo nel nucleo della persona”32. Ma tutto ciò che posso portarmi a visione riempiente del vissuto estraneo dipende dalla mia personale struttura, non nel senso di divenire misura per la costruzione dell’immagine estranea, ma nel senso che il coglimento della struttura personale estranea è in correlazione con la mia capacità di sentire e di incarnare un universo amplissimo di valori. Se una tale apertura è radicata nella mia personalità potrò cogliere empaticamente quei valori che, in me, non sono ancora giunti ad un pieno sviluppo. E. Stein riassume in un piccolo paragrafo tutto ciò che di significativo possiede l’empatia per la costituzione della propria persona: “essa non solo ci insegna, come abbiamo in precedenza visto, a porci come Oggetto di noi stessi, ma porta a sviluppo, in quanto empatia di nature affini ossia di persone del nostro tipo, quel che in noi sonnecchia e perciò ci rende chiaro, in quanto empatia di strutture personali diversamente formate, quel che non siamo e quel che siamo in più o in meno rispetto agli altri. Con ciò è dato al tempo stesso, oltre all’autoconoscenza, un importante aiuto per l’autovalutazione. Il fatto di vivere un valore è fondante rispetto al proprio valore. In tal modo, con i nuovi valori acquisiti per mezzo dell’empatia, lo sguardo si dischiude simultaneamente sui valori sconosciuti della propria persona. Mentre, empatizzando, ci imbattiamo in sfere di valore a noi precluse, ci rediamo coscienti di un proprio difetto o disvalore”33. L’EMPATIA NEL CAMMINO DI FEDE “Ma come stanno adesso le cose in rapporto alle persone puramente spirituali, la cui rappresentazione non implica di per sé alcuna contraddizione? E’ forse impossibile pensare che tra loro non vi sia qualche relazione? Ci sono stati degli uomini che, in un improvviso cambiamento della loro persona, hanno creduto di esperire l’influsso della grazia divina; altri che nelle loro azioni si sentivano guidati da uno spirito protettore”34. Prima di tentare una risposta a questo ultimo interrogativo cerchiamo di chiarire le condizioni dell’atto empatico. Per E. Stein il presupposto per l’attuazione di ogni atto empatico è l’appartenenza di ogni individuo psicofisico ad un “tipo” comune, al tipo “essere umano”35; ovvero è l’esistenza di una matrice comune che permette l’afferramento del corpo senziente estraneo considerato non come oggetto privo di “anima e di vita”36, ma come corpo proprio (Leib) simile ad ogni corpo appartenente alla stessa tipologia umana. 29 Ibid., p. 206 Ibid., p. 208 31 Ibid., p. 217 32 Ibid., p. 218 33 Ibid., p. 228 34 Ibid., p. 229 35 Ibid., p. 150 36 Ibid., p. 102 30 Se poi consideriamo il Soggetto come persona spirituale, la condizione dell’atto empatico è l’appartenenza ad un tipo più generale che è quello del “Soggetto che vive i valori”37. Ma ora noi ci chiediamo: perché tale appartenenza genera un fenomeno del tipo “empatia”; cioè perché tale appartenenza favorisce uno scambio continuo e diretto di esperienze vissute tra individui estranei? Una risposta più esauriente la possiamo rintracciare in una conferenza che E. Stein ha tenuto qualche anno più tardi; testo38 al quale ora ci rifaremo poiché sembra essere il naturale approfondimento delle tematiche analizzate nella sua opera giovanile. “L’unica natura umana si differenzia in tipi, che vivono in comunità più ristrette: razza, popolo, ceto, occupazione, famiglia, ecc., e così emergono nel grande organismo dell’umanità organismi parziali che, in sé compiuti e circoscritti nei confronti dell’esterno, degli altri, sono però ulteriormente suddivisi al loro interno. Da ultimo, però, ogni singolo non è solo essere umano e rappresentante di questo o quel tipo, ma individuo, unico nel suo genere e di conseguenza incentrato su di sé e separato da tutti gli altri”39. Emerge la sottolineatura di una “duplice” natura dell’essere umano, il quale appare individuo –“impostazione individuale”– e membro di una comunità –“impostazione genericamente umana”-40. La comune appartenenza al genere umano, o meglio alla comunità umana, produce naturalmente il coglimento del vissuto estraneo; processo favorito ulteriormente dall’impostazione individuale che porta in sé una incompletezza, un limite che, per essere colmato, necessita dell’apertura all’altro. “L’individuo è imperfetto –ciò significa: è per sua stessa natura un frammento…Inoltre significa: ciò che l’individuo…dev’essere, egli non lo è sin dall’eternità, e non lo è neppure dall’esordio del suo essere, lo è in potenza, ma non in realtà; prima lo deve divenire”41. Pertanto l’apertura all’altro è necessaria per la realizzazione piena del proprio fine ultimo espresso nella definizione data da E. Stein sulla persona ideale42 intesa come colui/colei che è capace di sentire tutti i valori nel loro ordine e in modo adeguato. Ogni individuo “nella misura in cui egli pensa, sente, opera con gli altri, cioè vive comunitariamente, egli impara a pensare, sentire, operare, vi concresce come membro della comunità, ma al tempo stesso anche come individuo, giacché la natura individuale, che con lui viene al mondo, comincia a destarsi, vive e si concretizza negli atti che egli compie nella e colla comunità, e conferisce loro la sua impronta”43. Senza comunità il fine ultimo dell’uomo, la realizzazione del suo ideale, non è raggiungibile44. La persona ideale è l’uomo nuovo. Interessantissimi spunti sono presenti in un saggio di Reinhard Korner45: “Dio si è fatto a noi empatibile in quanto persona umana. Se in Gesù, Dio si è fatto simile a noi in tutto, eccetto il peccato, …allora egli è diventato, per dirla con le parole di E. Stein, il ‘typos Essere umano’, con la stessa costituzione psicofisica e spirituale-personale che abbiamo noi. Ciò che E. Stein ha elaborato sull’empatia negli esseri umani, è valido allora senza eccezioni anche in relazione a Gesù Cristo fatto uomo”46. La corporeità di Cristo apre ad ogni essere umano la possibilità di incontrare in pienezza Dio resosi visibile ed empatibile dagli uomini del suo tempo e da noi grazie alla testimonianza che di Lui quegli uomini ci hanno lasciato, alle opere che Lui ha compiuto, alla grazia di cui ci ha inondato con il suo Spirito nel suo Corpo Mistico. Cristo è l’uomo nuovo, poiché “ciò che distingue l’Uomo-Cristo da tutti gli altri uomini facendo di lui il capo dell’umanità, non è solo il suo essere esente dal peccato, ma anche ciò che abbiamo cercato di esprimere 37 Ibid., p. 226 E. Stein, Theoretische Grundlagen der Bildungsarbeit, in “Zeit und Schule”, Organ des Verein Katholischer bayerischer Lehrerinnen, München, 01/06/1930 pp. 81-85 e 16/06/1930 pp. 90-93; trad. It., Fondamenti teorici di una educazione sociale costruttiva, a cura di Teresa Franzosi, in La vita come totalità, Città Nuova, Roma, 1994, pp. 49-70 39 E. Stein, Fondamenti teorici di una educazione sociale costruttiva, op. cit., p. 52 40 Ibid., p. 58 41 Ibid., p. 53 42 E. Stein, Il problema dell’empatia, op. cit., p. 217 43 E. Stein, Fondamenti, op. cit., p. 53 44 Ibid., p. 50 45 R. Körner, L’empatia nel senso di E. Stein. Un atto fondamentale della persona nel processo cristiano della fede, in Edith Stein. Testimone oggi profeta per domani, Atti del Simposio Internazione, Roma-Teresianum, 7-9 ottobre 1998, Libreria Editrice Vaticana, 1999, pp. 159-180 46 R. Körner, op. cit., p. 176 38 dicendo che tutta la pienezza dell’umanità era in Lui. In lui l’essenza specifica dell’umanità era realizzata in pieno”47. Se Cristo è realizzazione piena di ciò che noi siamo chiamati ad essere è a Cristo che dobbiamo guardare; tramite l’atto empatico penetriamo nella sua persona che ci dona il suo “valore”, unico capace di arricchire in pienezza la nostra persona portandola a compimento: “chi sei tu, Gesù, quando hai parlato così e così, hai fatto questo e questo? Empatizzando, io origlio dietro le sue parole e le sue azioni, nella stessa persona di chi parla e di chi agisce. Solo empatizzando, mi porto veramente alla sua altezza”48. L’empatia in Dio è “orazione”, dialogo silenzioso in un rapporto di amicizia con Lui49, ascolto contemplativo della sua Parola nella notte dei sensi e dello spirito. Inseriti nell’Amore divino si è resi capaci di comprendere come ogni essere umano sia immagine riflessa della Trinità, come ogni essere umano conservi l’amore trinitario nell’intimità della sua anima: è solo la fede che permette di guardare empaticamente Dio nell’altro. Tramite l’incontro con Anna Reinach, E. Stein empaticamente riceve la visione della croce; pone Cristo al centro della sua vita, ne abbraccia liberamente la sua essenza, il suo essere amore per gli altri nell’abbandono totale alla volontà del Padre. “Mi rivolsi al Redentore e gli dissi che sapevo come fosse la sua Croce che veniva posta in quel momento sulle spalle del popolo ebraico: la maggior parte di esso non lo comprendeva, ma quelli che avevano la grazia d’intenderlo avrebbero dovuto accettarla con pienezza di volontà a nome di tutti. Mi sentivo pronta e domandavo al Signore che mi facesse vedere come dovevo farlo. Terminata l’Ora Santa, ebbi l’intima certezza di essere stata esaudita”50. Ogni anima, pervasa dai frutti derivanti dal contatto divino, può comunicare alle altre anime la propria ricchezza interiore: l’incontro con un uomo ricco di fede, ricolmo dell’amore di Dio, non ha solo la forza di donare dei valori profondi quali certezza, gioia, felicità, libertà; esso possiede la capacità di manifestare Cristo vivente in lui, di far conoscere la potenza della Sua presenza nell’essere umano, di comunicare lo sguardo dell’amore eterno. L’Einfühlung, che in se stesso è un atto prettamente umano, in virtù dell’incarnazione divina acquista la capacità di penetrare fin nel nucleo più intimo di ogni anima, luogo dove Dio ha stabilito la sua dimora; agli occhi di un’anima “amante”, il vissuto estraneo, colto con un atto di presentificazione empatizzante, manifesta esteriormente l’immagine di Cristo suscitando il desiderio sublime di un legame di amore: Cristo è colui che apporta il contributo decisivo all’azione dell’empatia nella vita dell’uomo, rendendo la moltitudine di coloro che sono uniti nella fede “un cuor solo ed un’anima sola”51. M. Concetta Bomba 47 E. Stein, Endliches und ewiges Sein. Versuch eines Aufstiegs zum Sinn des Seins, Verlag Herder, Freiburg im Breisgau, 1986; trad. It., Essere finite e Essere eterno. Per una elevazione al senso dell’essere, a cura di Luciana Vigone, Città Nuova, Roma, 1988, p. 532 48 R. Körner, op. cit., p. 178 49 S. Teresa d’Avila, Libro della mia vita, ed. Paoline, Milano, 1988, 8,5 p. 119 50 E. Stein, In profonda pace varcai la soglia della casa del Signore, in “Rivista spirituale”, 1992, pp. 178-179 51 At 4,32