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il ruolo della toscana nella

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il ruolo della toscana nella
IL RUOLO DELLA
TOSCANA NELLA
“QUESTIONE DELLA
LINGUA”
l dibattito sulla questione della lingua si apre con il poema
De Vulgari Eloquentia (sulla retorica in volgare) di Dante,
DANTE – DE VULGARI ELOQUENTIA
dove si riprendeva la teoria dell’origine comune di tutte le lingue del
mondo e si spiegava il volgare come conseguenza dello sviluppo dei
dialetti locali già parlati nell'antichità a seguito dell'episodio della Torre di
Babele.
LA TORRE DI BABELE
Nel libro I, cap.VIII, Dante esamina le varie lingue d’Europa e le divide in tre gruppi:
Greco/Slavo, Germanico e Latino. Poi si concentra sulle lingue neo-latine.
A quel tempo alcuni pensavano che fosse possibile creare un’unica lingua volgare, comune alla
Francia, all’Italia e alla Spagna. Dante inizia la sua analisi riferendosi al “volgare latino”, come se
fosse un’unica lingua, ma subito dopo deve precisare che tale volgare è “un idioma oggi tripartito,
poiché alcuni per affermare dicono “oc”, altri “oil”, altri “sì”, e cioè gli Ispani, i Franchi e i Latini”.
Il latino, allora adoperato nelle scritture e nei discorsi ufficiali, era definito da Dante come
“gramatica per antonomasia”, cioè lingua convenzionale, creata artificialmente e perfetta, ma
secondo l’autore irrimediabilmente destinata ad essere utilizzata dai pochi dotti che la conoscevano
e studiavano e quindi poco adatta a coinvolgere la borghesia emergente in un processo di crescita
culturale.
Dante nella propria opera letteraria (si vedano La Divina Commedia, Il Convivio…)
non tentò di "inventare" un volgare italiano, bensì utilizzò il nativo
fiorentino, pur criticando a livello teorico il toscano tanto da considerarlo
lingua municipale (locale) e non curiale (nazionale):
In pieno Umanesimo, la questione della lingua si fece più
accesa, anche in conseguenza dell'avvento della stampa la
quale rendeva necessaria, ovviamente, una lingua coerente e
omogenea a livello nazionale
A quel tempo Venezia era la capitale europea dell'editoria, in contrasto con
Firenze.
Fu proprio da queste due città che nacquero le due maggiori scuole di
pensiero, quella veneta e quella toscana: la prima affermava il suo
predominio a livello europeo nell'editoria e quindi nella comunicazione, la
seconda rivendicava la cittadinanza dei grandi letterati trasformatori della
lingua (Dante, Petrarca, Boccaccio).
Sempre al modello fiorentino, ma a quello contemporaneo, si ispirava la
posizione espressa da Niccolò Machiavelli nel “Discorso o dialogo
intorno alla nostra lingua”.
MACHIAVELLI
Punto di svolta rappresentò la pubblicazione delle “Prose della volgar lingua” di Pietro
Bembo, il quale, seppur veneziano di nascita, propose come lingua il toscano trecentesco,
lingua letterale per eccellenza, punto di comunicazione tra gli autori del passato e i posteri.
Nel terzo libro del suo trattato egli elaborò una vera e propria grammatica del toscano
letterario, fondato essenzialmente sull'uso dei grandi autori trecenteschi: Dante, ma
soprattutto Boccaccio e Petrarca, di cui Bembo possedeva tra l'altro l'autografo del
Canzoniere.
Le Prose della volgar lingua scritte al Cardinale de Medici sono
un trattato di Pietro Bembo; in esse si ragiona della volgar lingua
e sono divise in tre libri e rappresentano un’opera fondamentale
nella Questione della lingua. L'idea di base espressa negli scritti
è che, per la stesura di opere letterarie, gli italiani debbano
prendere come modello due grandi autori trecenteschi:
Francesco Petrarca per la poesia e Giovanni Boccaccio per la
prosa.
A livello storico il trattato può essere considerato come un primo
tentativo di storia della letteratura italiana.
L'opera si fonda sulla cancellazione della tradizione più recente:
pur conoscendo a fondo la letteratura del suo tempo, Bembo
non riprende nessun esempio di questa origine, anche se fa
riferimento ad alcuni poeti quattrocenteschi: in particolare
Lorenzo de' Medici (I,1) padre del suo interlocutore Giuliano de'
Medici, duca di Nemours, e i veneziani Niccolò Cosmico e
Leonardo Giustinian (I, 15; questi ultimi soprattutto per rilevare
l'inferiorità della tradizione veneta rispetto a quella toscana).
Un altro autore a cui occorre fare riferimento quando si argomenta dell’
uso del volgare in opere scritte è senz’altro Galileo Galilei(Pisano di
nascita).
Lo scienziato ha bisogno di utilizzare il volgare perché i suoi scritti no vengono letti
solo da una ristretta cerchia di eruditi, ma anche da tecnici, ingegneri e meccanici
che non conoscevano la lingua latina. La forma dei suoi trattati è costituita da
dialoghi attraverso cui si tratta l’argomento scientifico .Tale argomento è trattato
anche per mezzo di lettere che Galilei indirizza a persone colte che siano in grado di
comprendere le sue teorie.
L’Opera Galileiana letterariamente più interessante è “Il Saggiatore”, che, pur
essendo un’opera non priva di contenuti scientifici si presenta come mirabile
modello di prosa polemica e rigorosa. Nel complesso delle sue opere,Galilei apprezza
la ricerca teorica e letteraria propria degli scrittori in epoca barocca, precisando che
il modo di scrivere di questi autori non è in grado di garantire al suo messaggio
scientifico la totale chiarezza. Il suo obiettivo è proprio quello di comunicare il suo
pensiero,con rigorosi passaggi logici dalle premesse alle conclusioni. E’ necessaria
perciò una certa evidenza nelle proposizioni, abbinata ad una coerente sensibilità
estetica,in modo da costruire uno stile elegante e misurato ricco di figure retoriche e
di elementi barocchi.
Un altro autore che diede un contributo importante all’affermarsi del fiorentino come lingua italiana
fu Alessandro Manzoni. Celebre è la sua espressione “vado a risciacquare i panni in Arno”.
Manzoni insoddisfatto della seconda stesura dei Promessi Sposi che riteneva ancora troppo legata
al dialetto lombardo, nello stesso 1827 si recò a Firenze per sottoporre il suo romanzo ad
un'ulteriore e più accurata revisione linguistica, ispirata al dialetto fiorentino considerato lingua
unificatrice.
Manzoni espose le sue tesi in materia linguistica anche con opere teoriche. Scrisse la lettera a
Giacinto Carena “Sulla lingua italiana” e avviò il “Saggio di vocabolario italiano secondo l’uso di
Firenze”.
Un aspetto singolare dell’Italia, infatti è che conquistò l’unità politica molto tardi. Questo determinò
un ritardo nel processo d’unità linguistica. Da Dante Alighieri in poi fino a Manzoni, è sempre
rimasto vivo il dibattito sull’unità linguistica che ha proposto varie soluzioni.
Sin da Dante, è prevalsa l’idea che la regione che ha sempre mantenuto una
continuità della lingua italiana fosse la Toscana, in modo particolare la città di
Firenze. Le tesi manzoniane, perfettamente in sintonia col pensiero di Dante,
incontrarono il favore della classe politica dello Stato unitario. Secondo Manzoni
bisognava diffondere la lingua fiorentina con un vocabolario, insieme all’impiego
dei maestri fiorentini nelle scuole elementari. La proposta manzoniana fu seguita
dallo Stato nella sua politica scolastica, ma la lingua dell’Italia unita, quella che
parliamo oggi, si formò attraverso processi più lunghi e complessi, assumendo una
forma ben diversa dal fiorentino. Manzoni ha quindi portato ad un’innovazione a
livello scolastico che sarà realizzata più avanti dalla scolarizzazione vera e propria
e, nel tardo Novecento, dai Mass Media.
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