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La Reggia di Diana

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La Reggia di Diana
La Reggia di Diana
Il nucleo centrale de La Venaria Reale progettata da Amedeo di Castellamonte era la cosiddetta
Reggia di Diana, realizzata fra il 1660 e il 1663 e in parte ancor
oggi esistente al fondo del cortile d'onore.
Il palazzo presenta un impianto simmetrico, con al centro il
grande salone dedicato a Diana e quattro padiglioni angolari a
conclusione delle ali: al piano nobile sono ricavati due grandi
appartamenti ducali, ai piani superiori gli ambienti destinati alle
dame ed ai cavalieri.
Nel corso delle trasformazioni promosse da Vittorio Amedeo II per
mezzo dei progetti di Michelangelo Garove, la Reggia di Diana
viene interessata da un processo di riplasmazione che avrebbe dovuto modificarla completamente.
L'interruzione del cantiere legato alla morte di Garove (1713) e al maggior interesse rivolto da Juvarra
verso altre zone del Palazzo, ha risparmiato circa i due terzi del corpo castellamontiano, ma la parte
adiacente al nuovo padiglione garoviano è stata comunque demolita e ricostruita nel 1709 c.a., la
frattura che segna in verticale la facciata lo mostra chiaramente.
Si è inoltre conservato, nei sotterranei, il cosiddetto "infernotto", sala ovale voltata in cui conservare i vini
e allestire freschi convivi nella stagione estiva.
Il progetto del Castellamonte
Concepita inizialmente a soli tre piani fuori terra e priva delle maniche laterali, la Reggia viene modificata
già in corso d'opera con l'aggiunta di un piano e del Belvedere (al cui interno viene realizzato un teatro
per le commedie), mentre nel 1669 si aggiungono i padiglioni verso il giardino e - infine - nel 1671 i
quattro padiglioncini che chiudevano a tenaglia i due cortiletti.
La facciata era caratterizzata da due fornici gemelli posti ai lati della loggia, dalla quale si accede ancor
oggi al salone centrale a doppia altezza, fulcro dell'edificio dedicato a Diana.
Elemento tipico dell'architettura aulica del XVII secolo in Piemonte, la grande sala si fissa come spazio
"passante", mettendo in comunicazione il fronte con la terrazza posteriore rivolta allo spettacolo dei
giardini.
Le sequenze di sale erano distribuite simmetricamente, e consistevano di due appartamenti maggiori
formati da anticamera, camera di parata, camera e gabinetto e da quattro minori, a manica semplice,
sviluppati intorno ai due cortiletti, concepiti per permettere ai duchi di variare la fruizione degli ambienti in
rapporto alle stagioni e all'uso relativo.
L'impianto castellamontiano
La disposizione della planimetria, il volume a blocco compatto che
solo in corso d'opera viene maggiormente articolato e il ricco
trattamento decorativo dei fronti, denotano l'influenza delle fonti
romane tardocinquecentesche nella cultura di Amedeo di
Castellamonte: confronti s'impongono con l'impianto planimetrico di
villa Borghese in Roma (Flaminio Ponzio, Giovanni Vasanzio, 16081621) e quello di Villa Mondragone a Frascati (Martino Longhi il
vecchio, Giovanni Vasanzio, 1573-1620), con la ricchezza decorativa
delle facciate della stessa Villa Borghese e - in particolare per quanto
riguarda l'uso delle cornucopie sui timpani delle finestre - con il
Palazzo Madama in Roma.
Su di un altro versante e di nuovo per il dato decorativo delle cornucopie, risulta fonte certa il Livre
d'Architecture di Alexandre Francini, pubblicato a Parigi nel 1631. In effetti l'elemento caratterizzante
della Reggia di Diana è la ricchezza e la raffinatezza dell'apparato a stucco di cornicioni e cornici di
finestre, timpani e nicchie, eseguito da maestranze luganesi.
Il Salone di Diana
È il cuore del palazzo seicentesco, edificato su progetto di Amedeo di Castellamonte. L'architetto crea
un ampio salone, con funzioni di rappresentanza, dotato di ricco apparato decorativo, composto di
affreschi allegorici e stucchi, con erme di satiri, ninfe, trofei di caccia e pesca.
Le decorazioni sviluppano un tema ideato da Emanuele Tesauro, che vede nelle gesta di Diana, dea
della caccia, una metafora morale del vivere civile. È un discorso narrato da un triplice registro
descrittivo. Si conclude sulla volta, dove un affresco raffigura Giove che dona a Diana "delle cacce il
sommo impero". Attorno si dispongono scene di cacce e dieci storie di Diana.
Al di sotto, nei partiti decorativi a stucco delle pareti, la narrazione
prosegue con dieci tele dove sfilano ritratti equestri della famiglia
ducale e della nobiltà.
Il tutto è completato, nel registro inferiore, da altre dieci tele che
illustrano le cacce ricordate dal Theatrum Sabaudiae.
Il programma iconografico
Il progetto decorativo della Reggia di Caccia di Venaria rimanda alla Reggia di Diana, dea della caccia,
sorella di Apollo e figura della duchessa Maria Giovanna Battista, che nel 1665 aveva sposato Carlo
Emanuele II. Risulta evidentissimo il nesso celebrazione-propaganda con la vitalità delle iscrizioni latine
o motti d'impresa per la persuasione. Nelle Inscriptiones del Tesauro, per quasi trenta pagine, si
distende l'ornamentum, la decorazione delle sale, con la sequenza di affreschi raffiguranti episodi-chiave
del mito di Diana (Diana e Atteone, Diana e Orione, ecc.), alternati a trofei e armi venatorie.
La sfilata delle sale offre, nella parte destra della reggia, verso nord, le scene legate al mito di Diana,
desunte dalle Metamorfosi di Ovidio con motti allusivi in italiano - tratti dai classici antichi - che
continuano anche nel salone di parata (il Regium cubiculum), dove si susseguono dodici scene
allegoriche della vita di Diana, dalla nascita al volo trionfale, con le ninfe, verso l'Olimpo.
Il teatro della caccia, nell'intreccio di mitologia, immagine dipinta, motti allusivi, allegorie, simboli e
metafore, riporta da un lato alla tradizione dell' Institutio principis, di Senofonte, che propone a Ciro il
Grande la caccia come esercizio dell'ottimo re, sino al Botero, per il De regia sapientia e per i Prencipi
cristiani. Dall'altro, nella simbologia di Carlo Emanuele II, venator et triumphans, e di Maria Giovanna
Battista 'nuova e moderna' Diana, riafferma e dilata il potere dei principi, non solo identificati con gli eroi
antichi, ma "consegnati alla gloria" dalla Reggia stessa, dove idea e costruzione, letteratura e
programma iconografico si saldano nell'insieme di architettura monumentale, decorazione d'interni e il
parco immenso, quasi un "labirinto".
La volta del Salone di Diana
Con un crescendo di tipo retorico, passando dai racconti venatori (le Cacce) all'aristocratico corteo (i
Ritratti equestri), si arrivava all'ampia volta del salone, dove, entro cornici di stucco, gli affreschi
mitologici di Jan Miel (1661-1663) alludevano alle virtù celebrate a corte.
Attorno al riquadro centrale che raffigura Giove che presenta Diana fanciulla come dea di tutte le cacce
(con il motto "Delle cacce ti dono il sommo impero"), ruotavano le scene, in parte perdute, con le Cacce
degli uccelli, dei pesci, delle fiere maggiori e delle fiere minori e dieci Storie di Diana, rappresentate
come metafore morali. Era evidente la simbolica identificazione di Diana con le Madame Reali, Cristina
di Francia e Maria Giovanna Battista.
In queste storie il Miel, nominato nel 1659 pittore di corte, si afferma come uno dei protagonisti del
rinnovamento della pittura in Piemonte del XVII secolo, sottolineando il gusto sostenuto dal classicismo.
Le cacce del Salone di Diana
Nel registo inferiore erano collocate le dieci grandi tele con le Cacce che nel 1932 furono trasportate per
sottrarle all'incuria presso il Museo Civico d'Arte Antica di Palazzo Madama.
Furono dipinte nel 1658 dal pittore fiammingo Jan Miel, giunto in quell'anno a Torino da Roma dove
aveva lavorato come "bambocciante"; visualizzano lo "svago" della corte, cioè la pratica venatoria che
aveva portato alla creazione della Reggia di Diana.
Le sei tele sono dedicate alla caccia al cervo, l'animale più nobile: l'Andar al bosco, il Lasciar correre,
l'Assemblea, la Caccia del cervo, la Morte del cervo e la Curea (con data 1661), mentre, le altre quattro
rappresentano la caccia all'orso (con data 1659), al cinghiale, alla volpe e alla lepre.
La presenza di personaggi della corte, chiaramente riconoscibili, con eleganti abiti e cappelli piumati,
nobilita queste pitture, promuovendole dal rango di semplici scene di genere.
I ritratti equestri del Salone di Diana
Entro cornici a stucco opera di maestranze luganesi, trovavano posto le dieci tele, realizzate tra il 1658 e
il 1663, con i ritratti equestri dei personaggi della famiglia ducale e della nobiltà, quasi una sorta di
aristocratica parata.
Cinque esemplari, ritrovati recentemente, vanno ad integrare i due già noti rappresentanti le coppie
equestri di Enrichetta Adelaide di Savoia e Ferdinando di Baviera, opera del Miel (Castello di Racconigi)
e di Cristina di Fleury ed Emanuele Filiberto di Savoia Carignano, opera di Charles Dauphin (Palazzo
Reale di Torino). I tre dispersi, tra cui quello raffigurante Carlo Emanuele II e Cristina di Francia, sono
invece noti grazie alle incisioni del Tasnière, su disegno di Giovanni Battista Brambilla, per il libro del
Castellamonte.
I ritratti furono commissionati dal duca ai migliori pittori attivi alla corte sabauda: Jean Miel, Charles
Dauphin, Balthasar Mathieu, Esprit Grandjean, Bartolomeo Caravoglia, e Giorgio Sandro Trotti di
Mombasilio, membri e priori della torinese Compagnia di San Luca.
Le Sale delle Cacce
Quattro ampie camere si aprono agli angoli, sporgenti rispetto al corpo centrale, mentre da due sale con
volta ovale si accede alla loggia aperta sui giardini.
Per quanto riguarda la decorazione, anche in questi ambienti, come
nel Salone di Diana, fin dal 1662 era stato avviato il cantiere che
vedeva affiancati, in un lavoro congiunto, scultori, stuccatori, pittori,
intagliatori, doratori, minusieri, artigiani.
E anche per questi appartamenti fu il Tesauro a fornire il dettagliato
programma iconografico, che prevedeva episodi aventi per soggetto
scene legate a Diana, le cui gesta culminavano nelle Cacce celesti,
in quelle terrene, acquatiche e infernali, destinate alle quattro sale
angolari.
La scelta dell'affresco e dello stucco bianco, anziché del più dispendioso legno intagliato e dorato tipico
dei soffitti del Palazzo Reale di Torino, indica la volontà di creare per questa residenza extraurbana
ambienti meno aulici rispetto alla reggia cittadina; scelta confermata anche nei motti per l'uso dell'
italiano al posto del latino.
L'apparato decorativo delle Sale delle Cacce
Mentre il fiammingo Jan Miel era impegnato nel salone di Diana, vennero chiamati per la decorazione
delle altre sale del Castello i comaschi Giovanni Paolo Recchi e Giovanni Antonio, suo nipote e i
luganesi Giacomo e Giovanni Andrea Casella, forse cugini, pittori presenti negli stessi anni anche in
Palazzo Reale, nel Castello del Valentino e nel Palazzo di Città.
Per quanto riguarda gli stucchi, viene tradizionalmente fatto il nome di Bernardino Quadri, documentato
in effetti a La Venaria Reale insieme ad altri stuccatori luganesi, che si sostituirono alla vecchia
generazione degli artisti già operosi al Castello del Valentino.
All' intervento dei Recchi si deve il soffitto (1660-1663) della sala delle Cacce acquatiche, con al centro
della volta Diana pescatrice, dove la pittura di gusto narrativo è felicemente integrata dall'apparato in
stucco con delfini, putti cavalcanti cavallucci marini o mutati in animali acquatici.
Sempre ai Recchi sono attribuiti gli affreschi della stanza delle Cacce infernali, strettamente connessi
agli stucchi del fregio, con draghi e mostri tricefali, e della stanza ovata con i Cervi famosi, dove
l'esuberanza dello stucco invade le storie dipinte, piuttosto dilavate: nella scena con Il cervo di
Alessandro il Grande è evidente il riferimento al fregio della sala della Caccia al Valentino.
L'apparato decorativo delle stanze ducali
Le stanze più grandi e più auliche della Reggia erano le due anticamere e le due camere disposte ai lati
del salone di Diana, con soffitto ligneo, fregio affrescato diviso in dodici riquadri e pareti interamente
ricoperte di quadri con cornici dorate. A parte qualche brano, sono oggi conservati solo gli affreschi della
sala dei Templi di Diana (1660-1663), denominata "Regium cubiculum" dal Tesauro, che attraverso le
didascalie che corrono sotto ogni scena intendeva comunicare un insegnamento morale. Perduto il
fregio della parete nord e in parte quello della parete est, restano leggibili nella loro sequenza logica,
quasi una storia a puntate, i templi fatti edificare da Diana, ed episodi vari.
La bella incorniciatura a monocromo, con figure virili che tengono i drappi come un sipario, e alcuni
riquadri come Diana e le ninfe che uccidono Ligdamo, Ligdamo incendia il tempio di Diana e Britomarte
consacra un tempio, sono da assegnare a Giovanni Andrea Casella e da confrontare con i suoi
affreschi nella sala delle Congregazioni nel Palazzo di Città a Torino.
A Giovanni Paolo Recchi va invece riferita la scena con Sarmona regina delle Amazzoni, non lontana
dai lavori del pittore nel Castello del Valentino e a Palazzo Reale. Nella stanza delle "Fiere feroci rese
mansuete dall'Ingegno umano", le dieci scene con animali esotici (tigre, leone, elefante, delfino) o
fantastici (drago), legate da una cornice a finto stucco, propongono uno stile più narrativo, quasi
anedottico, da avvicinare a Giovanni Antonio Recchi. Infine, nelle stanze dell'ala aggiunta verso il
giardino nel 1669, come l'anticamera dei Saettatori famosi, la camera degli Animali quadrupedi, l'alcova
con i Cacciatori e il Gabinetto degli Uccelli, i soggetti degli affreschi commissionati ai Recchi sono
ricavabili solo più dal testo del Castellamonte, mentre resta l'intelaiatura plastica documentata da
Bernardino Quadri: più grafica e semplificata rispetto a quella esuberante delle sale realizzate già nel
1660-1663.
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