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Dovere di collaborazione e contumacia Autore
DOVERE DI COLLABORAZIONE E CONTUMACIA (*) 1. Parlare del dovere di collaborazione nel processo civile a quasi cinquant’anni — di distanza dalla prolusione che Eduardo Grasso tenne in materia nell’Università di Catania, poi tradotta nel noto saggio(1) ancora oggi ovunque citato quando si tratta di questo tema, richiama immediatamente alla mente il brocardo ivi citato in apertura. Iudicium est actus ad minus trium personarum: actoris, rei, iudicis, questo l’aforisma di Bulgaro, che riassume il congiunto operare del giudice e delle parti che è l’essenza del principio di collaborazione quale criterio organizzativo di forze che operano nel processo(2). Ad attuare il principio di collaborazione, che ha trovato oggi compiuta elaborazione normativa nell’art. 101, comma 2, cod. proc. civ., non è sufficiente la piena esplicazione del principio del contraddittorio. Quest’ultimo infatti, pur elemento cardinale di rango costituzionale del nostro sistema processuale, è capace di realizzare solo una sfumata immagine di un sistema di collaborazione( 3), laddove il sistema normativo sia costruito in modo tale che quest’ultima sia possibile( 4), ma non positivamente favorita(5). Così, se il processo è costruito in modo tale da garantire l’uguaglianza delle parti, nella pienezza del contraddittorio, ma rimane legato a un modello in cui l’attività del giudice entra in gioco solo nel ruolo solitario di chi decide, non vi è spazio, se non meramente residuale e volontario, per l’esplicarsi del principio di collaborazione. I valori in gioco in un modello processuale del genere, pur con la garanzia costituzionale del diritto di difesa, restano quelli legati agli interessi indiv iduali delle parti antagoniste, che si confrontano, ognuna responsabile del suo operare. Il giudice resta invece voce fuori campo, cui è demandato il solo compito autoritativo del decidere, in uno schema triangolare ove si pone quale vetta solitaria. Laddove invece il modello processuale voglia favorire la cooperazione tra i soggetti privati e il giudice, quest’ultimo si porta al livello delle parti nello sviluppo del dialogo processuale e nella formazione del materiale di causa. L’attività dei tre soggetti che sono protagonisti del processo si fonde in un’azione combinata e quando l’intera materia del contendere prima della decisione subisce gli effetti delle forze esercitate dall’attore, dal convenuto e dal giudice tra di loro in concorso, nei limiti delle rispettive attribuzioni, il risultato diviene il prodotto di una collaborazione (*) TESTO PROVVISORIO (1) Cfr. E. Grasso, La collaborazione nel processo civile, in Riv. dir. proc. 1966, pag. 580 e seg. (2) Chiovenda e i classici (3) Così E. Grasso, La collaborazione cit., pag. 590. (4) Un sistema normativo in cui la collaborazione è soltanto possibile è, nella sistematica del saggio citato, quello che trova il suo presupposto essenziale, ma anche il suo unico o principale mezzo di attuazione, nel principio del contraddittorio. Questo sistema è capace di assicurare l’equilibrio delle forze in contesa in una concezione della meccanica del processo civile in parte contraria al suo svolgimento nel senso della cooperazione. Così il contraddittorio è “il mezzo che consente di scoprire i piani dell’avversario, di neutralizzare le sue azioni, di trarre profitto dai suoi errori”. La concezione del processo è individualistica e l’ufficio del giudice si risolve nella pronuncia della sentenza (cfr. E. Grasso, La collaborazione cit., pag. 592 - 596). (5) Un sistema normativo in cui la collaborazione è positivamente favorita è invece quello in cui il materiale di causa si forma nel dialogo tra le parti e il giudice e le innovazioni apportate dal nostro codice del 1940 nell’organizzazione delle attività processuali, già esprimevano, ad avviso di Eduardo Grasso, un principio tendenziale di collaborazione integrale (Cfr. E. Grasso, La collaborazione cit., pag. 599 e seg., con esame delle singole disposizioni che, nel testo del codice di rito allora in vigore, consentivano di tracciare questa conclusione). 1 totale (6). Lo schema organizzativo del processo è allora lineare, perché il giudice si porta al livello delle parti e l’elaborazione del materiale di causa matura quale frutto dell’agire congiunto delle parti col giudice. Il dialogo si pone come perno dell’elaborazione della res in iudicium deducta e i valori in gioco tendono alla costruzione di un’unica forza operosa che penetra la materia del contendere alla ricerca delle verità(7). Lo sviluppo del principio di collaborazione passa attraverso il pensiero dei classici, per illuminare la formulazione originaria del nostro codice di rito, fino ai giorni nostri, ove si insedia a pieno titolo con l’art. 101, comma 2, cod. proc. civ. tra i principi generali immanenti all’intero sistema del processo civile, nella dinamica del dialogo tra il giudice e le parti. Tuttavia, mentre il compito della prolusione da cui ho preso l’avvio era quello di scandagliare proprio il principio di collaborazione nel processo civile, quello che a me è stato affidato in questa sede è in larga parte diverso. Il titolo che mi è stato assegnato non riguarda infatti il principio di collaborazione in sé, ma il suo rapporto con la contumacia. Non nascondo che se la collaborazione è data, nella sistematica del processo civile, dall’operare congiunto dei tre soggetti che ne sono protagonisti nella formazione del materiale di causa, a prima lettura ho avuto più di una perplessità nell’inquadrare il tema di cui trattare. Il contumace è per definizione il soggetto che non si costituisce in giudizio e, se la parola del linguaggio comune non avesse ben altro significato giuridico, verrebbe da dire il grande assente dalla scena processuale. Nessun dubbio dunque che sia parte del processo, ma anche che sia ben difficile, in quanto è parte non costituita, parlare del suo operare congiunto con quello dell’altra parte e del giudice. Mi sono poi chiesta a chi dovesse essere riferito il dovere di collaborazione. Se allo stesso contumace, per riprendere e verificare l’osservazione, oggi diventata un po’ scontata, che il sistema positivo, che già ai tempi della citata prolusione non appariva idoneo a favorire l’effettiva partecipazione al processo dei suoi soggetti naturali(8), dopo il conio del novellato art. 115 cod. proc. civ.(9), pone addirittura il contumace in posizione privilegiata rispetto alla parte costituita( 10). Oppure, con maggiore aderenza all’idea che il principio di collaborazione implica l’operare della parte congiuntamente con gli altri soggetti del processo e non il suo rimanere inerte, se il dovere stesso dovesse invece riferirsi alla parte costituita e così agli oneri di notifica che l’art. 292 cod. proc. civ. impone nei confronti del contumace, che possono essere letti in senso stretto e massimamente restrittivo( 11), oppure ampliati in una visione non tassativa delle prescrizioni della norma in questione( 12). Da ultimo e con maggiore aderenza alla nozione di collaborazione delle parti col giudice, di cui è emblema il novellato art. 101, comma 2, cod. proc. civ., ho pensato che il riferimento potesse essere anche a un’indagine circa i doveri del giudice di colloquiare comunque con entrambe le parti, siano le stesse o meno costituite. (6) Così E. Grasso, La collaborazione cit., pag. 587. (7) Così E. Grasso, La collaborazione cit., pag. 609. (8) Così E. Grasso, La collaborazione cit., pag. 590 - 591 sulla base di una lettura restrittiva dell’art. 292 cod. proc. civ., anche riferita alla dottrina e alla prassi in tema di modificazione della domanda. (9) Che riferisce, com’è noto, solo alle parti costituite gli effetti della non contestazione, generalizzando una nozione già propria del meno nuovo art. 186 bis cod. proc. civ.. Sulla non contestazione [Nota da completare] (10) D. D’Adamo, Contributo allo studio della contumacia nel processo civile, Milano 2012, prefazione (11) In questo senso E. Grasso, La collaborazione cit., pag. 590 - 591 ecc. [Nota da completare] (12) In questo senso D. D’Adamo, Contributo cit., pag. 94 e seg. 2 Credo che tutte le scelte fossero plausibili, ma alla fine quest’ultima mi è parsa la prospettiva di maggiore interesse, sia perché implica, come si vedrà, anche una presa di posizione sugli altri due aspetti citati della questione, che sono capaci di influire notevolmente sulla sua soluzione, sia perché è tema di maggiore attualità, nel suo legame con una norma che non solo è di ultima generazione, ma è stata anche foriera di una serie di contributi dottrinali di elevato spessore e portata. Principale tema di indagine, intorno al quale ruota la soluzione di diverse altre questioni, sarà dunque il quesito se il dovere del giudice di sottoporre al contraddittorio delle parti le questioni che rilevi d’ufficio operi solo nei confronti delle parti costituite, oppure riguardi anche il contumace. La mia prima risposta istintiva è stata di carattere negativo, ma gli esempi concreti di ciò che deve essere oggetto del dovere del giudice di cui all’art. 101, comma 2, cod. proc. civ. mi hanno poi indotto a qualche riflessione dubitativa. Prendo ad esempio il caso - in consapevole disallineamento con le Sezioni Unite della Cassazione(13), su questo punto non condivise dai più( 14) - della diversa qualificazione giuridica dei fatti di causa, mai precedentemente prospettata, ove il giudice in via solitaria qualifichi in termini di responsabilità extracontrattuale la domanda pacificamente riportata dalle parti nell’ambito di una prospettiva contrattuale. In questo caso cambiano notoriamente sul piano degli effetti sia i termini della prescrizione che gli oneri probatori che gravano sulle parti, che, ancora, la misura possibile del risarcimento. Si può dunque pensare che tale questione appartenga a quelle che il giudice deve segnalare alle parti prima di prendere una decisione della terza via(15), consentendo loro di essere rimesse in termini con (13) Mi riferisco a Cass., Sez. Un., 30 settembre 2009, n. 20935 che ha risolto il contrasto giurisprudenziale, di cui infra nel testo, circa le conseguenze di una sentenza c.d. della terza via nel senso che solo le questioni di fatto, ovvero quelle miste di fatto e di diritto quando siano decise a sorpresa dal giudice comportano la nullità della sentenza, mentre quelle di puro diritto, pur comportando la violazione di un dovere “funzionale” del giudice, comporterebbero solo un error iuris in iudicando, la cui denuncia in cassazione consentirebbe la cassazione della sentenza solo laddove tale error iuris risultasse in concreto consumato. (14) Per la convinzione che anche la soluzione a sorpresa di questioni di diritto che importino una diversa qualificazione della fattispecie rientrino nel dettato dell’art. 101, comma 2, cod. proc. civ. cfr. C. Consolo, Le Sezioni Unite sulla causalità del vizio nelle sentenze della terza via: a proposito della nullità, indubbia ma peculiare poiché sanabile allorchè emerga l’assenza in concreto di scopo del contraddittorio eliso, in Corr. giur. 2010, pag. 355 e seg., in particolare pag. 361; G. Costantino, Questioni processuali tra poteri del giudice e facoltà delle parti, in Riv. dir. proc. 2010, pag. 1012 e seg., in particolare pag. 1035 - 1036; M. Fornaciari, Il contraddittorio in seguito a un rilievo ufficioso e la non contestazione (nel più generale contesto della problematica concernente allegazione, rilievo e prova), in Rass. for. 2011, pag. 527 e seg., in particolare pag. 553; M. Gradi, Il principio del contraddittorio e la nullità della sentenza della “terza via”, in Riv. dir. proc. 2010, pag. 826 e seg., in particolare pag. 838; D. Buoncristiani, Il nuovo art. 101, comma 2° c.p.c. sul contraddittorio e sui rapporti tra parti e giudice, in Riv. dir. proc. 2010, pag. 399 e seg., in particolare pag. 409 (15) La soluzione, come chiarito alla nota precedente, è quella prevalente in dottrina. Il punto è uno di quelli nodali nell’interpretazione dell’art. 101, comma 2, cod. proc. civ. perché non risolto dalla disposizione. Personalmente, pur essendo incline a condividere l’impostazione maggioritaria, qualche dubbio mi nasce in relazione al principio di autoresponsabilità della parte, se mi confronto con fattispecie come quella riportata alla successiva nota 18 e riterrei di dover sottoporre la questione a maggiore elaborazione. In proposito, vi è infatti da chiedersi se, ad esempio, a fronte dell’allegazione di fatti specifici inquadrabili nell’ambito della responsabilità contrattuale, i doveri difensivi del convenuto costituito non si estendano ex se, sulla base del principio richiamato, fino a ricomprendere oneri difensivi collegati ai fatti comunque allegati dall’attore, capaci in una corretta prospettiva di reggere una diversa qualificazione giudiziale. Mi tornano in mente in proposito i richiami di E.F. Ricci, La sentenza “della terza via” e il contraddittorio, in Riv. dir. proc. 2006, pag. 750 e seg. al tema dell’autoresponsabilità della parte costituita per il tramite del suo difensore 3 riferimento alle preclusioni già maturate( 16). Più dubbio può essere invece se tale soluzione debba riguardare solo le parti costituite o anche il contumace volontario. Quest’ultimo potrebbe infatti aver scelto di non costituirsi in relazione alla dedotta responsabilità perché posta sul piano del contratto, ritenendo di non avere ragioni liquide di eccezione, quale potrebbe essere la prescrizione del diritto, se i fatti allegati dall’attore fossero avvenuti in tempi di poco eccedenti i cinque anni e quindi tali da non giustificare l’eccezione stessa sul piano della responsabilità contrattuale(17), ma capaci invece di rilievo fondato qualora la stessa questione sia posta sul piano extracontrattuale. Oppure, nel caso inverso in cui il convenuto fosse stato citato a titolo di responsabilità extracontrattuale, con mutamento successivo a sorpresa di tale qualificazione da parte del giudice, lo stesso convenuto potrebbe aver scelto di non costituirsi confidando sugli oneri probatori incombenti sul preteso attore danneggiato, ma potrebbe pensarsi che, se informato della diversa qualificazione giuridica dei fatti di causa operata dal giudice, sia indotto a costituirsi per spendere elementi probatori in ordine alla non imputabilità a sé del preteso inadempimento (18). e ai valori sottesi a questa impostazione e, pur essendo la stessa chiaramente superata dal novellato art. 101, comma 2, cod. proc. civ. con riferimento alle conseguenze della violazione del dovere di collaborazione che sono chiaramente riportate alla nullità della sentenza, mi chiedo se, per il resto, non residui un nucleo argomentativo da tenere in considerazione. Il nostro sistema processuale è infatti dispositivo e pone un forte accento anche sul principio di autoresponsabilità della parte, circostanza quest’ultima che induce a riflettere sul bilanciamento tra il principio di collaborazione e quello di autoresponsabilità.Non si tratta certo in questo caso di negare la portata innovativa dell’art. 101, comma 2, cod. proc. civ., ma solo di chiedersi quale ne sia l’estensione, posto che credo sia ancora oggi vero, sulla base dei diversi principi che con quello di collaborazione concorrono a fondare il sistema delle garanzie su cui poggia il nostro ordinamento, che non è il giudice il soggetto chiamato a correggere l’errore dei difensori delle parti. Il tema non riguarda all’evidenza il rapporto tra il principio di collaborazione e la contumacia, ma il principio di collaborazione in sé, nel rapporto con gli altri principi fondanti il sistema del processo civile e, pur meritevole di ben altro approfondimento, non può quindi essere oggetto di analisi in questa sede. (16) Cfr. G. Costantino, Questioni processuali cit., pag. 1036, con riferimento per questa fattispecie all’eccezione di prescrizione e a quella della sua interruzione, nonché alla allegazione di nuove circostanze in fatto in ordine alla sussistenza della colpa, al nesso di causalità e così via. (17) Anche in ragione dell’intervenuta interruzione in termini dell’interruzione della prescrizione per il tramite della domanda giudiziale. (18) Non è facile trarre esempi dalla prassi, ma ciò solo perché le numerosissime pronunce in tema di diversa qualificazione del titolo della responsabilità sono rese a fronte della parte costituita e mai del contumace. Volendo trarre comunque spunto da queste per quanto riguarda i fatti e immaginando la situazione di contumacia del convenuto, mi pare si adatti bene all’esemplificazione, tra le più recenti, Cass. 11 giugno 2012, n. 943. In quel caso, il genitore di un ragazzino infortunato nell’ambito di un corso di sci aveva agito contro la scuola. Si apprende dalla sentenza che l’attore aveva premesso alle sue domande un'analitica espositiva in fatto, nella quale aveva dato atto che il minore aveva subito l'infortunio durante un corso di sci organizzato da una certa scuola di sci convenuta, a seguito di regolare iscrizione, documentata dalla ricevuta di pagamento del corrispettivo, prodotta in giudizio. L’attore aveva inoltre specificato che l'assegnazione del minore al corso - nella classe dei principianti - era avvenuta sulla base della selezione effettuata dalla maestra di sci indicata dalla scuola, e aveva fondato l'azione di responsabilità sulla pretesa responsabilità di quest'ultima per aver portato il figlio, ancora inesperto, su una pista impegnativa, in un giorno in cui la neve era pesante e in pessime condizioni e aveva dedotto in diritto una responsabilità extracontrattuale qualificata come derivante dagli art. 2048 e 2049 cod. civ. A fronte di questa domanda immaginiamo che la scuola di sci, valutata la domanda, decida di non costituirsi in giudizio sulla base della convinzione che sia impossibile ascrivere alla maestra qualunque fatto colposo causativo del danno dedotto in giudizio. Supponiamo ora che il giudice del merito nei due gradi di giudizio, invece che respingere la domanda, come avvenuto, non ritenendo applicabile né l'art. 2048 cod. civ., perché il danno non era stato provocato all'attore da altro allievo della scuola, ma si trattava di danno che il minore 4 Poiché anche il contumace è parte del processo e le norme che involgono il dovere di collaborazione del giudice sono da questo punto di vista asettiche, riferendosi alle “parti” senza altre specificazioni, potrebbe anche pensarsi che i principi del giusto processo impongano di ritenere che quel dovere di sollecitazione del contraddittorio sulle questioni rilevate in modo solitario dal giudice abbracci anche il contumace. E ciò soprattutto laddove si pensi che il nostro sistema processuale attuale, dopo la già richiamata novellazione dell’art. 115 cod. proc. civ., è improntato non più al valore della neutralità della contumacia, ma addirittura a quello della sua tutela(19). Pur non avendo trovato, salvo errore, specifiche prese di posizione sul tema in esame, mi sembra che un’impronta del genere informi la convinzione espressa di recente da Giuseppe Ruffini sul diverso tema dell’overruling giurisprudenziale in materia di processo civile(20). Secondo questo Autore, la cui posizione sul tema oggetto di studio mi sembra fino a quel punto pienamente condivisibile, una volta esclusa l’operatività di una decadenza portata dall’insorgenza di un orientamento giurisprudenziale nuovo in relazione a un atto già posto in essere da una parte nel rispetto di tutti i suoi requisiti formali, con sostanziale rimessione in termini della parte che avesse fatto incolpevole affidamento sull’orientamento precedente, andrebbe notificato al contumace il provvedimento di esclusione della decadenza, con conseguente rimessione in termini dello stesso contumace per la costituzione in giudizio. In altri termini, per andare al caso più clamoroso che tanta parte ha avuto nel dibattito su questa questione, posto che l’opposto non costituitosi nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo potrebbe essere rimasto contumace confidando nel rilievo officioso della decadenza dell’opponente dovuta al noto orientamento modificativo inaugurato dalle Sezioni Unite nel 2010, allora un’esigenza di garanzia che ha fondamento nell’art. 111 Cost., dovrebbe fare sì che il contumace volontario venga tutelato dalla “sorpresa” della rimessione in termini della controparte. Con la stessa logica, se la si condivide, mi sembra allora dovrebbe concludersi che la tutela del contumace si debba spingere fino alla comunicazione delle questioni a sorpresa di cui all’art. 101, comma 2, cod. proc. civ. Dico subito che, nonostante i legittimi dubbi in materia, personalmente aveva arrecato a se stesso, né esistente la responsabilità di cui agli artt. 2049 e 2043 cod. civ., perché non era stata sufficientemente dimostrata dall'appellante la colpa dell'insegnante, rilevi d’ufficio che la responsabilità in questione ha carattere contrattuale - sulla base della giurisprudenza consolidata richiamata dalla Cassazione - e che pertanto è applicabile alla fattispecie il regime probatorio desumibile dall'art. 1218 cod. civ., sicchè, mentre l'attore deve provare che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, è sull’altra parte che incombe l'onere di dimostrare che l'evento dannoso è stato determinato da causa non imputabile né alla scuola né all'insegnante. In un caso del genere risulta evidente che il convenuto costituito, avvertito della diversa qualificazione che, sulla base degli stessi fatti, lo stesso giudice intende dare alla domanda, sarà indotto ad adeguare la propria linea di difesa in ordine alla dimostrazione che l’evento dannoso non è imputabile né alla scuola né all’insegnante, ovviamente nei limiti in cui ciò è possibile alla luce dell’art. 115 cod. proc. civ. che renderà non più discutibile se non contestata la circostanza che la neve quel giorno era pesante e in pessime condizioni ecc. Ma, al di là di questo, il convenuto costituito potrà ad esempio provare che l’evento dannoso non è a sé imputabile perché l’incidente è occorso a causa di uno skateborder imprudente, di pregressa malattia dell’infortunato, di accidente della pista ecc. Ma quid iuris in relazione al convenuto contumace? Non è dubbio che anche questo soggetto potrebbe, se avvertito, assumere determinazioni divergenti in ordine alla propria costituzione in giudizio, ma il punto è proprio se il garantismo, da molti denunciato, che il nostro ordinamento accorda al contumace si estenda anche al diritto di essere informato del rilievo ufficioso che il giudice faccia di una questione non rilevata dalla controparte. (19) Cfr. in particolare D. D’Adamo, Contributo cit., in particolare pag. 202 e seg. (20) Cfr. G. Ruffini, Mutamenti di giurisprudenza nell’interpretazione delle norme processuali e “giusto processo”, in Riv. dir. proc. 2011, pag. 1390 e seg., in particolare pag. 1405 - 1406. 5 ritengo che l’analisi che segue debba confermare la convinzione istintiva iniziale, nel senso che il dovere di collaborazione del giudice di cui all’art. 101, comma 2 , cod. proc. civ. non si estende al contumace. Tuttavia sono consapevole che una diversa soluzione potrebbe essere fondata su alcuni elementi esegetici che appartengono al sistema, ma che a mio avviso sono dotati di fondamento minore rispetto a quelli opposti. 2. - Andando per gradi inizierei a valutare la portata dell’art. 101, comma 2, cod. proc. civ. e del principio ivi affermato. Si tratta infatti di capire se il sistema di questa norma e di quelle alla stessa collegate offra di per sé qualche risposta positiva al problema in discussione e anche quali conseguenze derivino dall’ammettere o meno che il dovere del giudice abbracci anche la parte non costituita. E’ noto che l’art. 101, comma 2, cod. proc. civ. costituisce il punto di arrivo di un dibattito dottrinale e giurisprudenziale, dai toni anche sentitamente accesi, circa la sorte della c.d. decisione della terza via. In sintesi estrema ricordo quanto segue(21). In origine, vi era il solo art. 183, comma 2, cod. proc. civ. (corrispondente all’attuale comma 4 della stessa norma), che la giurisprudenza leggeva quale norma che, pur implicando un dovere del giudice di non utilizzare per decidere una questione non sottoposta al contraddittorio delle parti stesse, non costituiva, se violata, motivo di nullità della sentenza(22). Poi intervenne in materia la pronuncia della Cassazione n. 14637/2001 ad affermare in modo forte e chiaro la nullità della sentenza fondata su una questione rilevata d’ufficio e non sottoposta dal giudice al contraddittorio delle parti(23). Seguì un certo disorientamento che, con alterna fortuna e stimolando rilievi dottrinali di indubbia portata(24), ha finito col provocare la rimessione della questione alle Sezioni Unite. Queste ultime si sono pronunciate con sentenza 30 settembre 2009, n. 20935, con riferimento tuttavia alla normativa anteriore alla riforma del 2009, rilevando la scorrettezza della decisione non preceduta dalla segnalazione della questione, ma ritenendo che la nullità processuale in questione “non possa essere, ipso facto, sempre e comunque predicata, quale conseguenza indefettibile di tale omissione”. In questo contesto la Cassazione ha ritenuto quindi che solo le questioni di fatto, ovvero quelle miste di fatto e diritto - e non quindi quelle di puro diritto neanche sotto il profilo della diversa qualificazione giuridica del fatto - possano dare luogo, se rilevate a sorpresa, a una sentenza viziata. Tuttavia tale vizio è stato collegato all’incidenza della mancata segnalazione della questione rilevata d’ufficio sull’attività difensiva delle parti, quale risultante realisticamente e comprovatamente possibile e congrua nel prosieguo (25), e quindi al pregiudizio arrecato all’esercizio di specifici poteri assertivi e probatori delle parti, da censurare con l’impugnazione(26). (21) Per un maggiore approfondimento della questione anche nella sua evoluzione giurisprudenziale faccio rinvio agli scritti citati in nota 13. (22) La dottrina invece da tempo segnalava il tema [Nota da completare] (23) Cfr. Cass. 21 novembre 2001, n. 14637, in Giust. civ. 2002, pag. 1611 con nota adesiva di F.P. Luiso, Questione rilevata d’ufficio e contraddittorio: una sentenza “rivoluzionaria”? e in Giur. it. 2002, pag. 1363 con nota critica di S. Chiarloni, La sentenza “della terza via” in cassazione: un altro caso di formalismo delle garanzie?, che riprende le considerazioni svolte nel precedente saggio, Questioni rilevabili d’ufficio, diritto di difesa e “formalismo delle garanzie”, in Riv. trim. dir. e proc. civ. 1987, pag. 569 e seg. (24) Mi riferisco in particolare alle sentenze contrastanti di Cass. 27 luglio 2005, n. 15705 e 5 agosto 2005, n. 16577, entrambe pubblicate in Riv. dir. proc. 2006, pag. 747 e seg. con le opposte visioni sul tema oggetto di analisi di E.F. Ricci, La sentenza “della terza via” e il contraddittorio e di L.P. Comoglio, “Terza via” e processo “giusto”. (25) Così C. Consolo, Le Sezioni Unite sulla causalità cit., pag. 357. (26) Cfr. G. Costantino, Questioni processuali tra poteri cit., pag. 1032. 6 Nel frattempo il legislatore aveva modificato il codice di rito, introducendo la disposizione di cui all’art. 384, comma 4, cod. proc. civ. e completando successivamente il sistema con la novellazione dell’art. 101, comma 2, ora in discussione. Entrambe queste disposizioni, l’una con riferimento al giudizio di cassazione, l’altra collocata tra i principi generali che regolano il processo, disciplinano oggi un meccanismo per cui il giudice adito “Se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio” “riserva la decisione” e deve assegnare alle parti (e al pubblico ministero con riferimento alla cassazione) un dato termine per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione. La norma di più recente elaborazione, intervenendo in modo autoritativo nel dibattito richiamato, ha poi specificato che la sanzione posta per la violazione di tale dovere è quella della “nullità”. A me sembra che le tre disposizioni in discussione vadano lette come un sistema che è espressione di un unico principio, che riterrei ricognitivo di una regola già precedentemente esistente(27). E invero, la collocazione della regola enunciata dall’art. 101, comma 2, cod. proc. civ. tra i principi generali che informano il processo è di particolare rilievo e ne dimostra la valenza generale. Ciò, nonostante la non felice formulazione della disposizione, che invece che cristallizzare il principio in questione(28), ne regola a livello formale l’attuazione con riferimento alla sola fase decisoria(29). Non c’è dubbio infatti che l’art. 101, comma 2, cod. proc. civ. enunci un principio che informa l’intero iter processuale, illuminando il dovere del giudice di stimolare il contraddittorio sulle questioni che rilevi d’ufficio quale obbligo che caratterizza l’intero corso del processo civile. Non a caso, una recente sentenza della Cassazione, pur pronunciando anch’essa sulla base della normativa precedente, ha ritenuto di dover confermare il principio - che ha dichiarato espressamente ribadito dalla nuova formulazione dell’art. 384 e da quella dell’art. 101 del codice di rito secondo cui il Giudice, che ritenga di decidere la lite in base ad una questione rilevata di ufficio, ha il dovere costituzionale di provocare il contraddittorio delle parti in ordine alla questione stessa al fine di evitare la "sentenza a sorpresa" o della "terza via", che viola la parità delle armi. La Cassazione ha inoltre ricordato che questo ordine concettuale trova fondamento nell’art. 183 cod. proc. civ., che è espressivo di un principio operante per l'intero corso del processo, perché il giudice deve osservare per tutto il suo sviluppo, in posizione di terzietà, il dovere di collaborazione con le parti, intrinseco al corretto svolgimento di un giusto processo (30). I rilievi che precedono valgono a chiarire la valenza di principio dell’art. 101, (27) Analogamente G. Costantino, Questioni processuali tra poteri cit., pag. 1036; C. Consolo, Le Sezioni Unite sulla causalità cit., pag. 357. (28) Cfr. M. Fornaciari, Il contraddittorio in seguito a un rilievo ufficioso, pag. 551 che rileva che meglio sarebbe stato in quella sede enunciare il principio per cui il giudice non può, a pena di nullità, fondare la decisione su una questione sollevata d’ufficio, se su di essa le parti non siano state poste in grado di contraddire, o formule equivalenti. (29) Che l’articolo 101, comma 2, cod. proc. civ. regoli l’attuazione del principio di collaborazione dopo che la causa è già stata trattenuta in decisione è osservazione comune. Cfr. C. Consolo, Le Sezioni Unite sulla causalità cit., pag. 362 e seg. che pone l’accento sull’inciso “riservata la decisione” e ritiene quindi che si tratti di uno strumento che “ha natura sussidiaria e residuale, destinato com’è a operare nei soli casi ‘patologici’ di tardiva attivazione dell’organo giudicante”; G. Costantino, Questioni processuali tra poteri cit., pag. 1036 per il quale parimenti la norma in questione “offre la cura per un malato terminale , ma appare più utile e comunque doveroso orientare l’attenzione e le energie sulla prevenzione” e quindi sul corretto uso delle disposizioni fra i poteri del giudice e le facoltà delle parti nel corso del processo; A. Chizzini, Legitimation durch Verfahren. Il nuovo 2° comma dell’art. 101 c.p.c., in Pensiero e azione nella storia del processo civile. Studi, Milano 2013, pag. 258; M. Fornaciari, Il contraddittorio in seguito a un rilievo ufficioso, pag. 551 (30) Così Cass. 4 giugno 2013, n. 14039. 7 comma 2, cod. proc. civ. e consentono di escludere che si possa ritenere che la regola della collaborazione non si estenda al contumace solo perché l’art. 101, comma 2, cod. proc. civ. ne disciplina l’attuazione con riferimento alla fase in cui il giudice ha già trattenuto la causa in decisione e quindi in un momento del processo in cui il contumace, ai sensi dell’art. 293, comma 3, cod. proc. civ., non può più costituirsi. Qualora si dovesse concludere che il dovere di collaborazione si estende anche verso la parte contumace, si dovrebbe infatti anche ritenere che tale dovere, poiché implica anche quello di riaprire il contraddittorio violato, con rimessione in termini in relazione alle attività che non si sono potute compiere in relazione alla perpetrata violazione, importa anche quello di un ritorno del processo a una fase capace di consentire il pieno svolgimento del contraddittorio sulla questione non trattata( 31), compatibile quindi anche con l’ingresso del contumace nella lite. Dal sistema delle norme che regolano il dovere di collaborazione del giudice con le parti mi sembra dunque si ricavi solo un principio generale che informa l’intero processo e la sua sanzione per il caso in cui, la mancata sanatoria del vizio nell’iter processuale, confluisca in una pronuncia della terza via. Né l’art. 101, comma 2, cod. proc. civ., né le altre due disposizioni che sono espressione dello stesso principio forniscono invece la risposta al quesito se il dovere di collaborazione del giudice verso le parti implichi anche la sua estensione verso il contumace, oppure presupponga, al contrario, una forma di reciprocità dovuta all’operare effettivo delle parti nel giudizio, e vada quindi escluso con riferimento al contumace volontario, che è soggetto che sceglie per definizione di non collaborare né con il giudice, né con la controparte costituita. Prima di passare all’analisi delle norme che regolano la contumacia, per vedere se le stesse possano indirizzare la risposta, vorrei ancora sottolin eare poche cose in ordine al principio di collaborazione, capaci di chiarire la rilevanza pratica dell’una o dell’altra impostazione. La sanzione di nullità della sentenza per la violazione dell’obbligo di collaborazione è ben chiara e deve quindi considerarsi superato ogni dubbio in materia. Residuano tuttavia margini di discussione sul contenuto dell’obbligo stesso, che riguardano in particolare, oltre al tema già richiamato delle questioni che ne costituiscono l’oggetto, anche e soprattutto i suoi svolgimenti in fase di gravame. Secondo i principi generali, dalla nullità della sentenza che abbia violato l’obbligo di non pronunciare secondo lo schema della “terza via”, non può che derivare la sottoposizione della disciplina delle impugnazioni alla regola della conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione e, più in generale, a quella dell’ammissibilità dell’impugnazione in questione ai presupposti tipici dell’interesse e della legittimazione all’impugnazione. Confrontato tutto ciò con la contumacia, questo significa che se il contumace, in quanto parte del processo nel grado precedente del giudizio, è sicuramente legittimato all’impugnazione della sentenza della “terza via”, perché la possa in concreto anche impugnare occorrerà anche il requisito dell’interesse. Il rilievo d’ufficio di una questione su cui sia poi fondata la decisione sarà infatti, non necessariamente ma facilmente, a favore del convenuto, comportando il rigetto in rito o in merito della domanda dell’attore(32). Ciò significa all’evidenza che unico (31) Cfr. A. Chizzini, Legitimation durch Verfahren. Il nuovo 2° comma dell’art. 101 c.p.c. cit., pag. 251; M. Gradi, Il principio del contraddittorio cit., pag. 835 e seg.; M. Fornaciari, Il contraddittorio in seguito a un rilievo ufficioso, pag. 555 e seg. (32) Così sarà, ad esempio, nel caso in cui il giudice, in contumacia del convenuto, rilevi d’ufficio ai sensi dell’art. 11 della l. 218/1995 senza segnalare in via preventiva all’attore la questione e nel caso in cui il giudice, parimenti nella contumacia del convenuto, a fronte di una domanda di adempimento del contratto, ne rilevi d’ufficio la nullità senza previa segnalazione all’attore della 8 soggetto che potrà impugnare la sentenza sarà l’attore, che potrà lamentare proprio e anche la violazione dell’art. 101, comma 2, cod. proc. civ., al fine di essere ammesso a spendere nel grado successivo del giudizio(33) gli argomenti che avrebbero a suo avviso consentito, nell’ambito del contraddittorio, il rigetto della questione (34). La posizione del convenuto vincitore contumace è in questo caso più sfumata in quanto, ammesso che in grado d’appello questo soggetto decida di partecipare attivamente alla lite, mi sembra segua i principi della soccombenza virtuale(35) solo se si ammette che vi fosse un dovere del giudice di interloquire anche con lui sulla questione rilevata d’ufficio e non sottoposta al contraddittorio delle parti. Nel caso contrario, il convenuto contumace volontario avrebbe invece perso al momento del maturarsi delle diverse preclusioni il potere di spendere le circostanze volontariamente non dedotte nel grado precedente del giudizio. Nei casi invece in cui la parte contumace fosse soccombente(36), o almeno parzialmente soccombente, non c’è dubbio che possa impugnare la sentenza che ritiene errata, ma il punto è se possa o meno impugnarla per violazione dell’art. 101, comma 2, cod. proc. civ. Qua la differenza tra un’impostazione che estenda il dovere di collaborazione anche al contumace e quella che lo escluda di fa sensibile. Solo nel primo caso infatti il contumace potrà impugnare la sentenza e spendere in grado d’appello gli elementi difensivi che avesse avverso la soluzione negativa della questione rilevata d’ufficio per cercare di cambiare il segno della pronuncia; nel secondo caso ne sarebbe invece impedito sia dalle preclusioni già maturate che dall’impossibilità di lamentare la violazione di un dovere che nei suoi confronti non c’è. Questi, dunque, le conseguenze dell’una e dell’altra risposta che proverei a questo punto a ricercare nel sistema delle regole che disciplinano il procedimento questione. (33) Impregiudicata la differenza, segnalata da tutti gli autori che si sono occupati dell’argomento, tra giudizio di primo grado e giudizio di cassazione. (34) Che il soggetto costituito nei cui confronti sia violato il disposto dell’art. 101, comma 2, cod. proc. civ. possa spendere in appello le ragioni di cui è stato privato in primo grado è opinione generale e da condividere. Le differenze [Nota da completare] (35) Del problema della soccombenza teorica, ma con riferimento al soggetto costituito in primo grado, si occupa A. Chizzini, Legitimation durch Verfahren. Il nuovo 2° comma dell’art. 101 c.p.c. cit., pag. 264 (36) Per tornare all’esempio di cui alla nota 18, supponiamo che il convenuto contumace in primo grado abbia volontariamente deciso di non costituirsi perché nell’atto di citazione che gli è stato notificato l’attore ha prospettato una responsabilità extracontrattuale, ma non ha in alcun modo dedotto l’esistenza di uno stato soggettivo di colpa o dolo e il giudice qualifichi poi diversamente il fatto, condannando il convenuto a titolo contrattuale perché non risulterebbe provato che l’inadempimento non è a lui imputabile. In questo caso il convenuto soccombente può sicuramente impugnare la sentenza, ma, se si ritiene che vi fosse un dovere di avvertire anche il contumace che il giudice avrebbe basato la propria decisione sul titolo contrattuale, allora il convenuto, in qualità di appellante potrà lamentare anche la violazione dell’art. 101, comma 2, cod. proc. civ. e così in appello allegare e provare che l’inadempimento non è a lui imputabile. In caso contrario non solo non vi sarebbe nei suoi confronti alcuna violazione di un principio fondamentale, ma subirebbe le preclusioni già maturate nel grado precedente del giudizio. Il principio espresso da Cass. 23 giugno 2009, n, 14623 che ammette il contumace a contestare per la prima volta in appello i fatti allegati dall’attore, a parte la sua discutibilità, non è sicuramente applicabile in relazione alle altre attività precluse, come facilmente argomentabile ex art. 293 cod. proc. civ. Per una critica vibrata a questa sentenza e all’impostazione generale ad essa sottesa cfr. B. Sassani, L’onere della contestazione, in www.judicium.it, par. 13 -14. Per la problematica della contestazione in appello da parte di chi era contumace nel grado precedente del giudizio e nella prospettiva di ravvisare l’esistenza di una preclusione cfr. F. De Vita, Onere di contestazione e modelli processuali, Roma, 2012, pag. 144 e seg. 9 contumaciale. 3. - Com’è fin troppo noto, nel disappunto dei più, il nostro sistema processuale non solo è ancorato a una visione della contumacia quale ficta litiscontestatio, di stampo tendenzialmente neutro, ma le recenti modifiche del codice di rito e in particolare quella contenuta nell’art. 115 cod. proc. civ., laddove dispone che “… il giudice deve porre a fondamento della decisione … i fatti specificamente non contestati dalla parte costituita”, paiono avere messo il contumace nella posizione privilegiata di chi può starsene tranquillamente alla finestra ad attendere la piega delle cose, mentre il convenuto costituito è oggi onerato di una contestazione specifica, sotto pena di subire l’automatico accertamento dei fatti addotti dall’attore alla stregua di fatti provati(37). E ciò al punto tale che si è anche ipotizzato che quella della contumacia possa essere trasformata in una vera e propria strategia processuale dello stesso contumace( 38), pienamente in barba verrebbe da dire, al principio di collaborazione di cui stiamo discutendo. Altrettanto noto è che il modello opposto, portato dall’art 13, comma 2, d. lgs. n. 5/2003, della contumacia quale ficta confessio, cui andava la tendenziale approvazione della dottrina, è caduto ancor prima che il legislatore travolgesse l’intero impianto normativo del rito societario che si svolgeva davanti al giudice ordinario, sotto la mannaia della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di quella norma per eccesso di delega, lasciandosi tuttavia sfuggire in motivazione quella che appare come una vera e propria bocciatura del sistema, laddove afferma che l’attribuzione alla contumacia di un valore non neutrale è del tutto estranea alla “tradizione del diritto processuale italiano, nel quale alla mancata o tardiva costituzione mai è stato attribuito valore di confessione esplicita”( 39). Lascio agli studi in materia smentire questa affermazione(40), limitandomi a rammentare, a proposito della nostra tradizione, che l’art. 80 del Progetto Chiovenda del 1920 stabiliva che “se il convenuto regolarmente citato non comparisca in giudizio … i fatti affermati dall’attore saranno considerati come ammessi in quanto non siano contraddetti da prove già raccolte, e se i medesimi giustificano la domanda questa sarà accolta con sentenza contumaciale”(41). Dato atto che, comunque, dopo l’abrogazione del rito societario le successive riforme non si sono preoccupate di toccare l’istituto della contumacia e che la lettera dell’art. 115 cod. proc. civ., che si pone su una linea di continuità rispetto all’art. 186 bis cod. proc. civ., è comunque vincolante, quello che mi propongo di capire è se l’indicato favore per il contumace sia espressione di un sistema che ne richieda anche la tutela ai sensi dell’art. 101, comma 2, cod. proc. civ. In proposito, nonostante l’indubbio peso delle due disposizioni da ultimo richiamate nel senso di un sistema che esprime un valore (indebito) di tutela del soggetto contumace, che non intendo disconoscere, a me sembra che altri indici depongano comunque in senso contrario e vadano debitamente sottolineati. (37) Così B. Sassani, L’onere della contestazione cit, par. 13. L’opinione è largamente condivisa, cfr. [nota da completare] (38) Questa è l’idea che muove la monografia di D’Adamo, Contributo allo studio della contumacia cit., in particolare pag. 202. Sull’istituto in generale cfr. anche F. Ferrari, Commento agli artt. 290 - 294 cod. proc. civ., in commentario del cod. proc. civ, diretto da ComoglioConsolo-Sassani-Vaccarella. (39) Cfr. Corte cost. 12 ottobre 2007, n. 340. (40) Cfr. F. De Vita, Onere di contestazione cit., pag. 66 e seg. e pag. 82 e seg., ove l’Autore, sulla base dei lavori parlamentari ipotizza che il riferimento alla parte costituita contenuto nel nuovo art. 115 sia in realtà andato oltre le intenzioni del legislatore. (41) Cfr. in proposito F. De Vita, Onere di contestazione cit., pag. 69 e seg.; D’Adamo, Contributo allo studio della contumacia cit., in particolare pag. 17. 10 Mi riferisco in primo luogo ad alcune disposizioni che non appartengono al processo di cognizione e che fanno conseguire ben altri effetti all’inattività della parte, quali sono massimamente l’art. 663 cod. proc. civ., che nel procedimento per convalida di sfratto ricollega alla mancata comparizione dell’intimato il ben diverso effetto della convalida della licenza o dello sfratto; l’art. 499, comma 6 cod. proc. civ., che in materia esecutiva, con riferimento all’intervento dei creditori privi di titolo esecutivo, ricollega alla mancata comparizione del debitore in udienza il riconoscimento dei crediti stessi ai fini dell’esecuzione e, ancora e da ultimo, pur con riferimento non al contumace ma al terzo, il nuovo art. 548 cod. proc. civ. in tema di pignoramento presso terzi. E’ noto che la caratteristica essenziale di quest’ultima norma si può riassumere nel rilievo che il silenzio o l’assenza del terzo all’udienza per rendere la propria dichiarazione hanno assunto un significato e una portata antitetica a quella avuta sino ad oggi. Infatti, nel sistema da ultimo inaugurato, la mancata dichiarazione del terzo, che è sempre stata circostanza tale da impedire il perfezionamento del pignoramento per difetto di oggetto (salva la possibilità di procedere a instaurare il giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo), ha acquistato oggi una portata totalmente opposta: il silenzio del terzo vale come riconoscimento della debenza delle somme indicate dal creditore o della sussistenza delle cose pignorate(42). La situazione si è quindi capovolta rispetto al passato perché la mancata dichiarazione del terzo è divenuta un riconoscimento dell’esistenza dei beni indicati dal creditore nel suo atto di pignoramento(43). Certo, in questo caso non viene in gioco la parte contumace, ma il terzo e il riconoscimento in questione non dice quindi nulla di per sé sul tema in esame. Tuttavia si tratta di una norma fortemente espressiva di una linea di tendenza, che, pur nelle condivisibili critiche e ridefinizioni già avanzate dalla dottrina(44) mi sembra indice di un cambiamento rilevante di impostazione. Non a caso, le notizie ancora “di corridoio” che giungono dai lavori della Commissione ministeriale che è oggi al lavoro per un’ulteriore revisione del nostro codice di rito, parlano dell’idea dell’inserimento di un procedimento di stampo germanico, che si discosta quindi nettamente da quello che risulterebbe ancorato alla classica visione della contumacia, edulcorata dalla particolare esclusione del contumace dal raggio di azione dell’art. 115 cod. proc. civ. Ancora l’art. 8, comma 4 bis del d.l. 4 giugno n. 69, convertito in legge 9 agosto 2013 n. 98, ha reintrodotto la mediazione obbligatoria nel nostro ordinamento e, insieme con questa la previsione che “Dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione, il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell'articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile. Il giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall'articolo 5, non ha partecipato al procedimento senza giustificato motivo, al versamento all'entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio”. E’ rimasta così nella legge sia la sanzione economica per la parte che abbia rifiutato la sua partecipazione alla mediazione obbligatoria, che sta anch’essa a indicare uno sfavore dell’ordinamento per l’inerzia della parte, che la contraddizione del sistema che nel successivo giudizio sanziona solo la parte costituita e non quella contumace, quasi che l’inerzia al quadrato non avesse un significato ben maggiore di quella relativa alla sola fase preliminare della mediazione. Probabilmente ha giocato in (42) Così A. Saletti, Le novità dell’espropriazione presso terzi, in www.judicium .it, par 3. (43) Cfr. A. Saletti, op. loc. cit. (44) Cfr., oltre all’articolo di Saletti citato nelle note precedenti, A. Briguglio, Note brevissime sull’”onere di contestazione” per il terzo pignorato (nuovo art. 548 c.p.c.), in www.judicium.it; S. Vincre, Brevi osservazioni sulle novità introdotte dalla l. 228/2012nell’espropriazionepresso terzi: la mancata dichiarazione del terzo (art. 548 c.p.c.) e la contestazione della dichiarazione (art. 549 c.p.c.), in Riv. es. 2013, pag. _ 11 materia la convinzione della neutralità dell’istituto della contumacia, senza che il legislatore si avvedesse che nulla avrebbe tolto a questo principio, pur volendolo rispettare, se avesse imposto al giudice del merito di condannare parimenti per la “contumacia” in mediazione anche la parte contumace nel giudizio di merito. Se la “contumacia” nella fase preliminare si può sanzionare senza che violi il principio di neutralità in questione, allora non c’è contraddizione nel condannare per quella mancata partecipazione anche il contumace in senso proprio, trattandosi di sanzione accessoria che può accompagnare la sentenza di qualunque segno essa sia, mentre la contraddizione è profonda e lesiva del principio di uguaglianza laddove a essere sanzionata è solo la parte successivamente costituita e non il contumace nel giudizio di merito(45). Al di là di questo rilievo, tuttavia, non c’è dubbio che la norma in questione, con riferimento alla mediazione, suona quale stimolo impositivo alla partecipazione. Ci sono poi altre norme la cui interpretazione va a discapito del contumace, segnalando che il guanto con cui viene trattato dall’art. 115 cod. proc. civ. non è poi sempre così morbido. Mi viene in mente in proposito la lettura dell’art. 186 ter secondo la quale l’ordinanza di ingiunzione emessa nei confronti della parte contumace acquista efficacia di giudicato automaticamente una volta decorsi i venti giorni dalla notifica se il contumace non si sia costituito, grazie allo specifico riferimento all’art. 647 cod. proc. civ., contenuto nell’art. 186 ter, comma 5, cod. proc. civ. (46). Mi sovviene poi l’attuale lettura dell’art. 346 cod. proc. civ. operata dalla prevalente giurisprudenza, che con corretto ripensamento rispetto a un precedente orientamento, ritiene oggi che il principio enunciato dalla norma da ultimo richiamata che intende rinunciate e non più riesaminabili le domande ed eccezioni non accolte dalla sentenza di primo grado che non siano state espressamente riproposte in appello, trova applicazione anche nei riguardi dell'appellato rimasto contumace in sede di gravame, in coerenza con il carattere devolutivo dell'appello, ponendosi in questo modo appellato e appellante su un piano di parità. Si legge nelle motivazioni delle sentenze che affermano questo principio che in questo modo non si attribuisce alla parte rimasta inattiva ed estranea alla fase di appello una posizione sostanzialmente di maggior favore rispetto alla parte attiva e costituita, facendo gravare su entrambe, e non solo sull'appellante, l'onere di prospettare al giudice del gravame le questioni (domande ed eccezioni in senso stretto) risolte in senso ad esse sfavorevole, con la sola differenza che il soccombente soggiace ai vincoli di forme e di tempo previsti per l'appello, mentre la parte vittoriosa ha solo un onere di riproposizione, in difetto della quale deve presumersi che manchi un interesse alla decisione, mancanza quest’ultima imputabile anche alla parte contumace(47). Il diverso orientamento in materia, che per alcuni anni era prevalso, era invece nel senso di favore per il contumace poiché consentiva al giudice d’appello il rilievo d’ufficio della questione(48), con coordinamento errato tra le disposizioni che regolano la contumacia e quelle che disciplinano l’effetto devolutivo dell’appello ed è oggi a mio avviso correttamente superato riportando il contumace sul corretto piano di un qualsiasi appellato. (45) Il problema era ben segnalato da M. Bove, Le sanzioni per la mancata cooperazione in mediazione, in www.judicium .it, pag. 2 e seg. (46) Cfr. Cass. 6 giugno 2006, n. 13252. La lettura contraria, anche se successiva proposta da Cass. 29 gennaio 2007, n. 1829 non appare sufficientemente meditata. Cfr. in proposito la nota critica a quest’ultima sentenza di J. Polinari, La Suprema Corte torna sulla natura e sull’efficacia delle ordinanze ex art. 186 ter nei confronti del contumace, in Riv. dir. proc. ___, pag. 1656 e seg. (47) Cfr. Cass. 12 novembre 2007, n. 23489; Cass. 4 maggio 2007, n. 10236; Cass. 13 settembre 2006, n. 19555 e, recentemente in materia tributaria Cass. 22 gennaio 2013, n. 1443 (48) Cfr. Cass. 30 ottobre 2001, n. 13482 conforme a un orientamento precedente che appare del tutto superato. 12 Ancora viene in rilievo, per riprendere un esempio sviluppato da altri(49), il caso della contumacia del chiamato all’eredità, convenuto nell’ambito di un giudizio concernente i beni del de cuius, cui la giurisprudenza conferisce il rilievo sostanziale dell’accettazione tacita dell’eredità ex art. 746 cod. civ., caso questo in cui la contumacia perde la caratteristica di ficta litiscontestatio che esplica efficacia solo processuale, per divenire una vera e propria ficta acceptio degli effetti sostanziali( 50). Da ultimo, ma la riflessione potrebbe evidentemente portare all’emersione di altre situazioni, vale in argomento la riflessione, di recente sviluppata dalla Cassazione, sul rapporto tra contumacia e ragionevole durata del processo. Sollecitata in materia, la Suprema Corte ha infatti statuito( 51) che solo la parte costituita, in quanto ha partecipato attivamente al processo, ha diritto all’indennizzo per la sua irragionevole durata, non anche il contumace che ha consapevolmente scelto di non costituirsi in giudizio e quindi di disinteressarsi dello stesso. La motivazione è forte e chiara: secondo la Cassazione la legge n. 89 del 2001 presuppone che la parte abbia partecipato attivamente al giudizio, ovvero che non sia rimasta contumace per tutta la sua durata, poiché qualora abbia assunto consapevolmente tale posizione, non può ritenersi che essa abbia acquisito la posizione di parte danneggiata in conseguenza della possibile durata irragionevole del processo. Il contumace è, secondo la Cassazione, incurante degli effetti di una possibile decisione negativa nei suoi confronti ed insensibile ai tempi di svolgimento del processo, che non di rado, pur rimanendo alla finestra, auspica si protraggano oltre a quella che dovrebbe essere la loro fisiologica durata. Il contumace non ha sofferto dunque quel patema d’animo o quella sofferenza psichica causata dal superamento del limite ragionevole di durata del processo che causalmente è la ragione dell’indennizzo previsto dalla legge. Il contumace è parte neutra del giudizio, ma proprio per questo non può aver risentito per la sua non ragionevole durata. Anche in questo caso la Cassazione non tutela, ben a ragione, la parte inerte e la riporta sul piano in cui deve stare. Insomma, nel suo insieme, l’ordinamento oscilla tra le ragioni di tutela del contumace e le opposte ragioni che vorrebbero indurne la costituzione e il risultato è alla fin fine neutro e tale da non consentire un allargamento delle maglie della tutela della contumacia al di là dei limiti previsti dal sistema. 4.- Si tratta allora di esaminare la disciplina della disposizione che mi sembra davvero centrale in materia, quella cioè che regola i doveri di collaborazione della controparte costituita col contumace e che specifica anche fino a che punto l’ufficio deve spingersi nei suoi doveri di comunicazione, la disposizione cioè dell’art. 292 cod. proc. civ. Ho lasciato volutamente questa norma in coda, non certo perché non sia davvero centrale nell’esegesi del problema in esame, ma perché la stessa non regola all’evidenza alcun onere di comunicazione o notificazione al contumace dell’ordinanza di cui all’art. 101, comma 2, cod. proc. civ., né lo potrebbe fare posto che è disposizione anteriore alla sua formulazione. Tuttavia, per capire se la norma stessa sia interpretabile in modo elastico, ritenendo che oggi il sistema di garanzie nei confronti del contumace deve indurre a estendergli la tutela in questione, bisogna in primo luogo capire fino a che punto il sistema attuale sia davvero improntato a una tutela esacerbata del contumace quale sembrerebbe emergere dagli articoli 115 e 186 bis del codice di rito. Personalmente mi sono convinta che l’ordinamento sia in proposito, nel suo complesso, per lo meno neutro, bilanciando gli elementi a favore del contumace con quelli contrari e che quindi vada ribadito che la tutela del contumace si estende solo (49) Cfr. D’Adamo, Contributo allo studio della contumacia cit., pag. 232. (50) Così D’Adamo, op. loc. cit. (51) Cfr. Cass. 21 febbraio 2013, n. 4474. 13 entro i limiti delineati dall’art. 292 cod. proc. civ., subendo per il resto un allargamento solo laddove lo stesso è previsto, com’è per il caso della non contestazione. Tuttavia, anche l’art. 292 cod. proc. civ. è disposizione dall’interpretazione non univoca di cui bisogna capire la ratio per confrontarla poi col problema in esame. In proposito, credo che, tra le tre interpretazioni della logica su cui si muovono i poteri regolati dalla norma in esame, cui sono state ricondotte(52) le analisi dottrinali in materia, quella cioè della tutela del contraddittorio a favore della parte non costituita, quella della tutela del diritto di autodeterminazione del contumace che ha deciso liberamente di non costituirsi sulla base dell’esame di quanto a lui noto e infine quella che ne fa invece norma di salvaguardia di entrambe le parti e della loro uguaglianza, quella corretta sia quest’ultima. Mi sembra infatti che la disposizione in questione, per come è costruita, tuteli il contumace limitatamente a pochi atti raggruppati in due categorie la cui ratio è diversa, che hanno riguardo gli uni a dati provvedimenti che il legislatore ha ritenuto evidentemente gravidi di conseguenze onerose per il contumace e gli altri volti a imporre di dare notizia al contumace di ciò che è idoneo a incidere sull’oggetto del processo ampliandone la portata. Per il resto, invece, la norma tutela la controparte processuale che, in relazione alla scelta del contumace di non partecipare al giudizio, è onerata di ben poche notificazioni e non risulta particolarmente gravata. Non riesco quindi a ravvisare nell’art. 292 cod, proc. civ. una disposizione dal carattere elastico(53) che ne consenta un’interpretazione estensiva, né una disposizione da cui si possa ricavare un reale favore dell’ordinamento nei confronti del contumace. Al contrario, a me pare che proprio l’articolo 292 cod. proc. civ. sia l’indice normativo più forte che il contumace, con riferimento agli atti che devono essergli resi noti perché incidono sull’oggetto del giudizio, ampliandone la sfera, è tutelato dall’ordinamento nei limiti e solo in quelli della conoscenza di ciò che andrà a costituire giudicato e, per nulla invece, in relazione a ciò che sta dentro l’oggetto della cognizione che, se anche subisce delle modificazioni, è soggetto alla regola della presunzione di conoscenza di cui al comma 2 della disposizione in questione. Stabilire che “ … le comparse contenenti domande nuove o riconvenzionali da chiunque proposte sono notificate personalmente al contumace” e che “le altre comparse si considerano comunicate col deposito in cancelleria” significa proprio ciò e cioè legare il dovere di collaborazione con il contumace all’ambito oggettivo e soggettivo del giudizio. Per il resto, le modificazioni consentite sono “affar suo”, nel senso che l’ordinamento non prevede (52) Cfr. D’Adamo, Contributo allo studio della contumacia cit., pag. 84 e seg. (53) In questo senso invece B. Ciaccia Cavallari, voce Contumacia, in Digesto, Disc. priv. , Sez. civ., IV, Torino 1989, pag. 320 e seg., in particolare pag. 327 per la quale, pur essendo indubbio il carattere tassativo della disposizione ritiene che “non per questo si potrà concludere nel senso di un diniego all’assunzione nella previsione normativa speciale di ogni fattispecie non espressamente menzionata, perché i limiti qui precisati devono essere individuati avendo presenti situazioni in cui possa derivare una lesione al diritto di difesa del contumace”. Sulla scorta di un’interpretazione della norma a tutela massima del contumace, l’Autrice estende quindi la ratio dell’art. 292 alle “comparse contenenti cosiddette eccezioni riconvenzionali, o eccezioni di compensazione, o, ancora, istanze di accertamento incidentale”, nonché l’istanza di pagamento di somme di cui all’art. 423 cod. proc. civ. (in un regime anteriore all’art. 186 bis contenente la specificazione già richiamata di non pronunciabilità dell’ordinanza nei confronti della parte contumace). Ora, io penso, come chiarito infra nel testo, che il criterio interpretativo dell’art. 292 cod. proc. civ. sia quello della notificazione o comunicazione di ciò che amplia l’oggetto del giudizio e del giudicato e che, quindi, la domanda di accertamento incidentale rientri sicuramente in questa categoria, ma mi sembra che le eccezioni, pur “riconvenzionali”, ne vadano espunte proprio in quanto tese a provocare il mero rigetto della domanda. Nel senso della non tassatività D’Adamo, Contributo allo studio della contumacia cit., pag. 94 e seg. 14 che il contumace ne sia informato, perché si è assunto la responsabilità di non costituirsi in giudizio e quindi anche quella di non difendersi rispetto a eventuali modificazioni non ampliative dell’oggetto del giudizio. Certo la problematica in esame finisce con l’avere molto a che fare con la vasta problematica della modificazione della domanda, ma la ratio della disposizione è ben chiara nel senso di imporre la notifica al contumace delle sole domande capaci di incidere in senso ampliativo sull’oggetto del giudizio(54) e non di altro. Né mi sembra che in materia potrebbe essere applicato il ragionamento svolto dalla Corte costituzionale con riferimento al provvedimento di convocazione delle parti per l’esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione di cui all’art. 13, comma 2, l. 22 luglio 1997, n. 276(55), perché la logica dell’estensione della normativa in discussione all’atto che si è ritenuto già ricompreso tra quelli indicati dall’art. 292 cod. proc. civ., è quella dell’appartenenza dell’atto stesso a quelli che gravano il contumace rispetto a date attività e non a quelli che incidono sull’oggetto del processo. Solo i primi fanno infatti parte di una categoria che in astratto può essere intesa con maglia capace di essere integrata, mentre i secondi fanno riferimento a ciò che è capace di ampliare la sfera del giudizio e del giudicato e sono suscettibili quindi di risolversi esclusivamente nella nozione della “domanda nuova”, quale che sia in concreto la visione che si abbia di di ciò che questo significa. Così se la Corte costituzionale ha potuto in quell’occasione ritenere tacitamente modificata e integrata la norma di cui all’art. 292 cod. proc. civ. per il tramite di una norma successiva(56), includendo tra i provvedimenti da comunicare al contumace quello di convocazione delle parti per l’esperimento del tentativo di conciliazione, non credo potrebbe riproporsi la stessa modalità argomentativa con riferimento all’ordinanza di cui all’art. 101, comma 2, cod. proc. civ., che ha riguardo (54) Cfr. F. P. Luiso, Diritto processuale civile, II, 6° ed., Milano 2011, pag. 224 e seg. per il quale “Alla base della decisione di rimanere contumace, c’è una valutazione della parte riferita all’oggetto del processo, cioè alla situazione sostanziale dedotta in giudizio con la domanda. La parte ritiene che, in relazione a quella situazione sostanziale, non ha interesse a difendersi: gli sta bene anche rimanere soccombente. Va da sé che, per il rispetto del diritto di difesa, debbono essere quindi notificati al contumace tutti gli atti, che contengono domande nuove, perché in relazione al diverso oggetto del processo il contumace deve essere messo in grado di valutare ex novo se ha interesse a costituirsi, oppure se mantiene l’interesse a non costituirsi”. L’Autore ritiene dunque “non ragionevole” la disciplina legislativa che impone la comunicazione di alcuni provvedimenti istruttori al contumace in quanto si tratta di provvedimenti che si muovono pur sempre nell’ambito dell’oggetto del giudizio. (55) Cfr. Corte cost. 22 aprile 2002, n. 130 (56) Il ragionamento della Consulta, nella sentenza citata nella nota che precede è infatti il seguente: “ … secondo la giurisprudenza di questa Corte, dinanzi ad una scelta interpretativa suscettibile di determinare un contrasto fra la norma censurata e la Costituzione, l'interprete deve cercarne una diversa che eviti il supposto conflitto, dato che le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali, ma perché è impossibile darne di costituzionali; … ad avviso del rimettente, una interpretazione della norma censurata nel senso che la convocazione delle parti per l'esperimento del tentativo di conciliazione debba essere comunicata anche al contumace, pur conforme a Costituzione oltre che alla lettera della norma, sarebbe tuttavia preclusa dalla mancata inclusione di tale atto nell'elencazione tassativa di quelli che, a norma dell'art. 292 del codice di procedura civile, devono essere comunicati al contumace; … il supposto impedimento alla suddetta interpretazione è, invece, inesistente in quanto l'art. 292 del codice di procedura civile, attesa la sua anteriorità alla norma censurata, non avrebbe potuto evidentemente riferirsi a quest'ultima; … risulta, invece, del tutto conforme ai principi che regolano la successione delle leggi nel tempo ritenere l'art. 292 cod. proc. civ. tacitamente modificato dalla norma impugnata con la previsione di un ulteriore atto da comunicare al contumace, rappresentato dal provvedimento di convocazione delle parti per l'esperimento del tentativo di conciliazione”. 15 al diverso fronte del diritto del contumace di venire a conoscenza degli atti che riguardano la delimitazione del tema del contendere, che sono elencati dall’art. 292 cod. proc. civ. in relazione ai soli atti di carattere ampliativo della situazione sostanziale dedotta in giudizio con la domanda. L’ordinanza in questione si muove invece di necessità all’interno dell’oggetto della cognizione, perché certo non è il giudice ad avere nel nostro sistema il potere di ampliare la sfera di ciò che diverrà , per il tramite della sua pronuncia, oggetto di giudicato e quindi non è inclusa, neppure implicitamente, nella logica dell’art. 292 cod. proc. civ. L’orientamento giurisprudenziale di legittimità che ricomprende nell’ambito dei provvedimenti da comunicare anche al contumace il decreto con cui, ai sensi dell’art. 789 cod. proc. civ., viene ordinata la comparizione dei condividenti e dei creditori intervenuti per la discussione del progetto di divisione, recentemente posto a base di analoga pronuncia della Consulta(57), si muove anch’esso sul piano della diretta lesione del diritto sostanziale del contumace, assumendo rilievo l’acquiescenza delle parti quale presunzione di consenso al progetto divisionale, ragione quest’ultima per la quale i compartecipanti assumono rilievo nello status di comunisti e non di parti costituite(58). Entrambe le pronunce richiamate hanno alla base quindi ragioni analoghe a quelle che hanno portato all’estensione dell’art. 292 cod. proc. civ. per il tramite delle pronunce di accoglimento della censura di illegittimità costituzionale della disposizione, da un lato, nella parte in cui non prevede la notificazione al contumace del verbale in cui si dà atto della produzione della scrittura privata nei procedimenti di cognizione ordinaria dinanzi al pretore ed al conciliatore, di cui al titolo II del libro secondo del codice di procedura civile(59) e, dall'altro lato, in relazione all'art. 215, n. 1, cod. proc. civ., nella parte in cui non prevede la notificazione al contumace del verbale in cui si dà atto della produzione della scrittura privata non indicata in atti notificati in precedenza(60). Sul fronte della comunicazione o notificazione delle comparse con cui si determina un ampliamento della materia del contendere con solo riferimento a quelle che contengono domande nuove, con riferimento cioè al solo materiale capace di estendere l’oggetto del giudizio ampliando la sfera di ciò che passa in giudicato, la giurisprudenza di legittimità è invece monolitica(61), sottolineando così che il contumace, in linea con quanto previsto dall’art. 292 cod. proc. civ. è soggetto a una (57) Cfr. Corte Cost. 29 ottobre 2009, n. 276. (58) Così Cass. 2 agosto 1990, n. 7751. A diversa logica appartiene invece Cass. 10 ottobre 1997, n. 9849 dove si pone un problema effettivo di novità della domanda . (59) Cfr. Corte cost. 28 novembre 1986 n. 250 (60) Cfr. Corte cost. 6 giugno 1989 n. 317 (61) Cfr. Cass. 27 febbraio 2007 n. 4440, che ha escluso dovesse essere notificato al contumace il provvedimento di integrazione del contraddittorio; Cass. 19 dicembre 2006 n. 27165, che nella specie ha deciso che, al fine della valida introduzione nei confronti della parte contumace, di una domanda nuova o riconvenzionale, che tragga titolo dal medesimo fatto posto a fondamento della domanda principale, non è necessario ricorrere ad un'autonoma citazione, ripetendo la vocatio in ius, ma, a norma dell'art. 292, comma 1, cod. proc. civ. è sufficiente notificare la comparsa contenente detta domanda al contumace medesimo, il quale ha l'onere di accertare l'udienza di rinvio senza ulteriori comunicazioni; Cass. 23 maggio 2003 n. 8162, che ha avuto modo di chiarire non deve essere notificato al contumace neppure l'atto riassuntivo del processo con il pedissequo decreto di fissazione dell'udienza, atteso che tale atto è rivolto a provocare la ripresa del procedimento nello stato in cui si trovava nel momento in cui è sopravvenuto l'evento interruttivo; Cass. 2 aprile 2003 n. 5057, che ha escluso vi fosse necessità di notificare al contumace la comparsa con cui si costituisce volontariamente in causa, ai fini della prosecuzione del processo, il successore universale della parte costituita deceduta nelle more del giudizio. Su altro fronte si veda Cass. 26 settembre 2012, n. 16413 che ha escluso dovesse essere notificato al contumace il provvedimento di ammissione della consulenza tecnica d'ufficio, ben chiarendo in motivazione che “L’art. 292 c.p.c. prevede espressamente la notifica di atti, tassativamente indicati, che producono un ampliamento dell’oggetto della causa o gravi conseguenze a carico del contumace”. 16 regola di autoresponsabilità. La scelta di non costituirsi non gli dà quindi diritto di essere informato delle modificazioni ammissibili, gravando su di lui la responsabilità di aver deciso di non costituirsi in relazione a quei fatti dedotti dall’attore con la domanda, quale ne sia poi la qualificazione. 5. - Venendo dunque a una conclusione a me sembra che nulla nel sistema autorizzi a pensare che il contumace debba essere tutelato al punto di essere destinatario dell’obbligo di collaborazione del giudice che si sostanzia, ai sensi dell’art. 101, comma 2, cod. proc. civ., nel dovere di comunicare alle parti una questione rilevata d’ufficio prima di porla a fondamento della propria decisione. Né lo stesso art. 101, comma 2, cod. proc. civ. e le norme ad esso collegate, che nulla dicono sulla questione, ma impongono al giudice un dovere che si muove di necessità, in relazione ai diversi principi cardinali che regolano il processo, all’interno del suo oggetto delimitato con la domanda dell’attore; né il sistema generale, che fa della contumacia ancora oggi qualcosa che oscilla tra la tutela del contumace e quella del collegamento alla mancata costituzione di effetti gravidi di conseguenze che dovrebbero sollecitare una diversa posizione; né infine i doveri di collaborazione imposti verso il contumace dall’art. 292 cod. proc. civ., il cui ambito di applicazione è ben diverso e quasi antitetico rispetto a quello dell’art. 101, comma 2, cod. proc. civ . perché impone di rendere noti al contumace solo gli elementi che esorbitano la sfera di ciò che, di necessità, gli deve essere reso noto e gli è stato reso noto all’inizio del processo e sulla cui base ha assunto la determinazione di non costituirsi, non altro. Certo, ciò non significa che dall’applicazione dell’art. 101, comma 2, cod. proc. civ. non deriveranno mai conseguenze anche per il contumace, ma ciò nell’ambito della previsione dell’art. 292 cod. proc. civ. Così qualora in giudice rilevi d’ufficio la nullità del contratto di cui l’attore costituito avesse chiesto l’annullamento potrà ben avvenire che quest’ultimo, stimolato al contraddittorio, formuli anche una domanda di accertamento incidentale della predetta nullità perché su di essa si formi il giudicato, ma è chiaro che ciò che dovrà essere notificato al contumace è la comparsa contenente la domanda in questione ai sensi dell’art. 292 cod. proc. civ. e non di per sé il provvedimento di sollecitazione del giudice. E se si torna all’esempio iniziale di chi ha scelto di non costituirsi confidando nel rigetto della domanda sulla base di una qualificazione dei fatti di causa poi smentita dal giudice, viene spontaneo dire che questo soggetto, cui sono stati resi noti i fatti allegati dall’attore attraverso la notificazione dell’atto di citazione, gravidi di tutte le conseguenze giuridiche che agli stessi possono essere connesse, ha fatto una scommessa sul contenuto della futura sentenza del giudice, confidando che l’orientamento dell’ufficio leggesse l’atto di citazione nella stessa prospettiva posta a base della scelta di non costituzione. Ma qualsiasi persona avveduta, soprattutto in un sistema in cui la difesa tecnica è obbligatoria, sa bene che i fatti sono soggetti all’interpretazione del giudice e la scommessa circa il contenuto della sua decisione non può essere oggetto di tutela da parte dell’ordinamento. Rimane dunque vero che il principio di collaborazione implica l’agire congiunto di tre persone nel processo e che la collaborazione verso il contumace, che per definizione rifiuta di prestarla, è delimitata all’interno della sfera piuttosto angusta di applicazione dell’art. 292 cod. proc. civ. Laura Salvaneschi 17 18