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CAPITOLO SEDICESIMO LA MONARCHIA ASSOLUTA (O

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CAPITOLO SEDICESIMO LA MONARCHIA ASSOLUTA (O
CAPITOLO SEDICESIMO
LA MONARCHIA ASSOLUTA (O DOMINATO)
ED IL PERIODO GIUSTINIANEO (270 d.C.-568 d.C.)
Sommario: 1. Dal Principato alla monarchia assoluta. - 2. Le diverse fasi della monarchia
assoluta (Dominato). - 3. Diocleziano (285-305 d.C.). - 4. Costantino (312-323 e 324-337 d.C.).
- 5. La fine dell’Impero romano. - 6. I fermenti culturali tra Occidente e Oriente. Il cristianesimo
ellenizzato. - 7. I rapporti tra Chiesa e Stato. - 8. Il generale Stilicone e l’invasione dei «barbari».
- 9. Romanità e mondo germanico. - 10. Giustiniano.
1. DAL PRINCIPATO ALLA MONARCHIA ASSOLUTA
A) La fine dell’anarchia militare
Con la fine della dinastia dei Severi, ebbe inizio un’epoca di anarchia, durante la quale
gli imperatori investiti dall’esercito si susseguirono ad un ritmo frenetico. Per ritrovare
un certo ordine dovettero trascorrere circa cinquanta anni: nel 270 d.C. le truppe elevarono
al comando il capo della cavalleria Lucio Domizio Aureliano, e i suoi cinque anni di
potere possono essere definiti di «restaurazione dell’ordine imperiale» (GUARINO).
Dopo mezzo secolo di disordini si tentò di restaurare l’Impero (vedi cap. 14, par.
6, lett. D) nel segno della concordia; durante tale fase i principi:
— si ispirarono ad una concezione democratico-militare del comando;
— seguirono una politica di agevolazioni sociali per gli humiliores;
— si considerarono i restitutores (restauratori) dell’unità dello Stato;
— costituirono due distinte gerarchie fra loro indipendenti, quella civile e quella
militare, entrambe facenti capo ad un unico vertice, l’Imperatore;
— ridimensionarono le autonomie provinciali.
B) Le cause della crisi del Principato
Il regime che caratterizzò il III sec. d.C. fino all’ascesa di Diocleziano (285) fu
profondamente diverso dal Principato classico. Le trasformazioni, già visibili verso
la fine della dinastia dei Severi, si attuarono completamente nel periodo successivo,
nel quale le istituzioni repubblicane scomparvero del tutto (anche dal punto di vista
formale), per far posto ad un Impero dai tratti assolutistici.
I motivi di questa evoluzione furono molteplici:
— la prima causa è nella struttura stessa del Principato: la situazione di
compromesso tra prìncipi ed organi repubblicani, inaugurata da Augusto e dai
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Capitolo Sedicesimo
suoi successori, era destinata a non durare all’infinito. La burocrazia imperiale,
infatti, effettiva detentrice del potere politico e militare, andava inevitabilmente
a sovrapporsi agli organismi costituzionali e in particolare al Senatus, nel quale
sopravvivevano gli ultimi resti della Repubblica.
Il Senato vide progressivamente compressa la sua autonomia, esercitando le sue funzioni per lo più
in binari precostituiti dal princeps (ad esempio, votando le leggi volute dal princeps), e comunque
in modo sempre più sporadico, fino a scomparire definitivamente. Anche alcune magistrature
sopravvissero (il consolato, la pretura), ma ebbero, per lo più, un contenuto meramente simbolico:
il consolato, infatti, era ambito solo perché il console continuava a dare il nome all’anno in corso,
mentre i pretori si ridussero principalmente ad organizzare i pubblici spettacoli.
Sulla scena politica rimase solo il princeps forte del suo naturale sostegno,
l’esercito. Dalle milizie, infatti, provennero le migliori figure di imperatori del
III sec.: nacque così la figura dell’imperatore-soldato scelto dai soldati stessi;
— la decadenza economica e la contrazione demografica del III sec. ebbe un ruolo
molto rilevante, perché determinò la decadenza dell’Italia e di Roma, non più rifornite
di ricchezze dalle province, ma costrette ad acquistare i beni necessari altrove.
Il crescente fabbisogno economico dell’impero costrinse i principi a coniare
monete adulterandone la lega con metalli poveri: così ai denari in argento
furono sostituiti denari di rame ricoperti d’argento imponendo alla moneta un
valore legale molto più alto del valore reale (si pensi che nelle monete ai tempi
di Settimio Severio il metallo pregiato era già ridotto al 50% che scese all’1,50
durante il regno di Galleno) (GARBARINO).
L’Italia divenne un peso nella economia dell’Impero e non poté risollevarsi
perché, mentre Roma era affollata da circa un milione di cittadini, la penisola
era disabitata, divisa in latifondi scarsamente coltivati e, quindi, totalmente
improduttiva (1). La susseguente contrazione demografica divenne inevitabile;
— la decadenza del sistema schiavista: terminate le guerre di conquista era
venuta meno la più grande fonte di reclutamento di schiavi.
L’esaurimento della mano d’opera servile provocò un’ingente diminuzione di
produttività delle campagne e una forte urbanizzazione.
Si dovette, pertanto, ricorrere al lavoro libero, che comunque non fu valorizzato
adeguatamente: la posizione di alcuni lavoratori liberi non differiva da quella
degli schiavi. Infatti lo Stato interveniva autoritariamente per vincolare determinate categorie di cittadini all’esercizio di particolari attività trascurate o
dismesse, stabilendo che i figli e i discendenti dovessero proseguire l’attività del
padre. Ne sono un esempio peculiare i coloni, destinati alla coltivazione del loro
terreno fino alla morte;
(1) Mentre l’Italia e le province occidentali si impoverivano, quelle d’Oriente — grazie alla buona tenuta del
lavoro artigianale — accrescevano la loro produzione e i loro guadagni (v. infra cap. 6, par. 5, lett. E).
La monarchia assoluta (o Dominato) ed il periodo giustinianeo (270 d.C.-568 d.C.)
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— la decadenza culturale dell’Occidente: mentre l’Italia e la Grecia erano in crisi
nuove culture — la capta, la siriaca, la punica — cominciarono a penetrare nella
civilitas classica dando luogo ad una grande democratizzazione culturale che
permise l’affermarsi di scrittori, filosofi, movimenti culturali e religiosi dell’Oriente (elioteismo, filosofia neoplatonica, etc.) nell’impero (vedi cap. 16,
par. 5);
— la provincializzazione dell’esercito e della pubblica amministrazione: il
primo ambiente occupato dai provinciali fu quello delle forze armate; progressivamente l’Italia e Roma contarono sulle risorse provinciali non solo per la
difesa militare, ma per ogni necessità di vita.
Tale provincializzazione determinò tendenze autonomistiche nell’esercito e
una diffusa anarchia nell’ambito dell’Impero, legate però anche ad altri fattori:
— la diffusione del cristianesimo: l’imperatore era tradizionalmente considerato espressione terrena della divinità e padrone dello Stato, cioè dominus et
deus. A tale visione si contrappose il cristianesimo, che si diffuse tra le classi
sociali deboli facendosi portavoce di nuovi valori etico-religiosi, molto
diversi da quelli tradizionali. Tutto ciò comportò necessariamente la separazione fra i due poteri: politico e religioso. Tale separazione implicava
che là dove le leggi dello Stato erano contrarie alle leggi cristiane, i seguaci
della nuova religione erano portati a seguire le seconde.
Questo atteggiamento era inconciliabile con la concezione sacrale dell’imperatore: per tale motivo i cristiani furono duramente perseguitati.
Sebbene ostacolato dalle classi dirigenti e dagli stessi imperatori il cristianesimo cresceva e portava con sé «il sentimento della decadenza e dell’imminente catastrofe» (ARANGIO-RUIZ);
— la disgregazione politica ed economica: l’Italia, non potendo più reggere
le sorti dell’intero Impero, dovette gradatamente riconoscere autonomia
politica a molte province. A questa disgregazione politica fece riscontro una
«paurosa rovina economica» determinata dalle resistenze delle province a
versare i tributi a Roma, dallo sfruttamento irrazionale delle residue risorse,
dalle pestilenze che decimavano intere regioni dell’Impero e, infine, dalla
minaccia sempre più pressante delle popolazioni germaniche.
C) Il nuovo regime politico e sociale
L’evoluzione politica di Roma nel II - III sec. d.C. dal Principato alla monarchia
assoluta e non fu il frutto di una trasformazione improvvisa: molti degli elementi
nuovi erano già presenti allo stato embrionale all’epoca del Principato.
Dal punto di vista sociale, la monarchia assoluta (Dominato) può essere
considerata come il frutto dell’esigenza sempre più pressante di un dominio forte
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Capitolo Sedicesimo
ed accentrato in grado di frenare gli innumerevoli elementi di dissoluzione che
si presentavano all’esterno e all’interno dell’Impero romano.
D) La riorganizzazione delle classi sociali
Fra i cives romani fu conservata la distinzione, già affermatasi durante il
Principato, fra honestiores ed humiliores.
1) Rientravano nella categoria degli honestiores i seguenti ordini:
— l’Ordine Senatorio: si trattava dell’ordine di gran lunga più privilegiato. Vi
si accedeva per nomina imperiale, per aver ricoperto determinate cariche
pubbliche, nonché, come del resto avveniva già durante l’età del Principato,
per nascita, in virtù della trasmissione ereditaria del titolo. A seconda della
diversità di rango, gli appartenenti all’ordo venivano distinti in illustres,
spectabiles e clarissimi: diversamente i membri dell’ordo per diritto ereditario ricevevano tutti indistintamente il rango più basso di clarissimi;
— l’Ordine Equestre: durante l’impero di Diocleziano aveva goduto di notevole autorità in campo politico, perse invece di importanza con Costantino;
— i militari, i funzionari dell’amministrazione centrale e periferica, gli
esercenti le professioni liberali (es. avvocati), il clero e i decurioni.
In questa categoria (fatta, ovviamente, eccezione per il clero) tende ad
affermarsi il principio della ereditarietà della carica o della professione.
2) Rientravano, invece, nella categoria degli humiliores i negozianti, gli artigiani,
gli operai della città ed i lavoratori dei campi. Rientravano altresì nella
categoria i «coloni vincolati alla terra»: si tratta di una nuova classe la cui
nascita era la diretta conseguenza della riduzione del numero degli schiavi.
La condizione dei coloni (pur essendo uomini liberi), nella sostanza fu molto
simile alla schiavitù. A differenza dello schiavo, però, il colono non può essere
manomesso, né il proprietario può allontanarlo dalla terra. Il colono, infine, è
tenuto nei confronti del proprietario al pagamento del canone di fitto ed alla
prestazione di servizi personali.
La distinzione tra Principato e monarchia assoluta si basa diversi fattori:
— il Principato poggiava le sue basi politiche sulla indiscussa supremazia di Roma (ed in genere,
dell’Italia) su tutte le altre province dell’Impero; al contrario, nel periodo della monarchia
assoluta il rilievo e l’influenza delle province extra-italiane dell’Impero aumentò grandemente
(e molti imperatori furono di estrazione non italica);
— il Principato si collegava idealmente, alle istituzioni della tradizione repubblicana; la
monarchia assoluta, al contrario, si fondava essenzialmente sulla potenza militare dell’imperatore (e, quindi, sul suo legame con l’esercito) e sulla sua consacrazione religiosa, sotto
l’influsso, per quest’ultimo profilo, delle monarchie orientali.
La monarchia assoluta (o Dominato) ed il periodo giustinianeo (270 d.C.-568 d.C.)
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2. LE DIVERSE FASI DELLA MONARCHIA ASSOLUTA (DOMINATO)
Con la conquista del potere da parte di Diocleziano (285 d.C.) si aprì il periodo
di decadenza della civiltà romana.
Dal IV al VI sec. d.C. l’Impero attraversa un lento processo di dissoluzione
scandito da diverse fasi:
— fase dell’Impero unico (285-395 d.C.);
— fase dell’Impero duplice (395-527 d.C.) nella quale si delinea la distinzione tra
parte orientale e parte occidentale;
— fase Giustinianea (527-565 d.C.) nella quale si verificò il grandioso, ma
effimero, tentativo di Giustiniano I di restaurare l’unità dell’Impero e ripristinare i valori tipici della romanità. Con il fallimento di questo disegno la storia
di Roma può considerarsi conclusa.
3. DIOCLEZIANO (285-305 d.C.)
A) L’opera di Diocleziano
Nel 285 d.C., salì al trono imperiale Gaio Aurelio Valerio Diocleziano,
generale di origine dalmata (2) che mantenne il potere fino al 305 d.C.
Diocleziano, nei suoi venti anni di regno (un periodo lunghissimo se lo si
confronta con quelli dei suoi predecessori), fu allo stesso tempo difensore della
tradizione e profondo innovatore. Cercando la sintesi tra vecchio e nuovo egli
ricostruì l’unità dell’Impero romano e del suo ordinamento giuridico e politico; tale
obiettivo non si sarebbe potuto realizzare con il ripristino delle istituzioni repubblicane, ma solo mettendo il potere nelle mani di una istituzione fortemente
accentrata ed autoritaria, per superare, una crisi che avrebbe potuto essere fatale
per l’impero.
Con l’avvento di Diocleziano, tradizionalmente, si ritiene abbia inizio il periodo
della monarchia assoluta.
Secondo molti studiosi, Diocleziano sarebbe stato il primo monarca di tipo orientale e avrebbe dato
al suo potere un fondamento teocratico. Di certo dalle monarchie orientali egli ereditò il gusto per la
fastosità dei cerimoniali.
Viceversa, secondo altri, Diocleziano mirò alla restaurazione dell’Impero e alla difesa della
romanità costituendo una monarchia su base militare per un periodo di emergenza (DE MARTINO).
Nonostante la sua attività riformatrice la politica di Diocleziano era ispirata ad un ideale conservatore, cioè la restaurazione di uno Stato romano e pagano.
(2) Si noti che gli immediati predecessori di Diocleziano erano anche essi di origine balcanica (Claudio II,
Aureliano, Probo, Caro che si alternarono al potere dal 268 al 283).
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Capitolo Sedicesimo
B) Le riforme di Diocleziano
Diocleziano attuò un piano di riforme tendenti a rafforzare organicamente la
stabilità militare, politica ed economica dell’Impero (FREZZA).
Tra le principali riforme dioclezianee, ricordiamo:
— la riforma militare, per adeguare la struttura dell’esercito alla difesa dei
confini: alla pluralità di eserciti Diocleziano sostituì un unico esercito mobile,
detto «exercitus praesentalis»;
— la riforma tributaria per distribuire equitariamente su tutte le regioni il carico
tributario.
La nuova imposta fondiaria (annona) gravava su ciascun iugum (unità fiscali in cui fu diviso il
territorio, di estensione diversa in ragione del tipo di coltura a cui erano destinati). L’imposta teneva
conto di ciò che era stanziato sui fondi: gli animali, gli schiavi e i coloni.
Coloro che non possedevano fondi pagavano un’imposta personale (capitatio plebeia), in denaro.
L’ammontare dell’imposta era determinata in modo molto semplice. Era stabilita e accertata la
quantità di denaro di cui aveva bisogno lo Stato; tale somma era poi divisa per le unità fiscali e
ripartita tra le diocesi e le province dell’Impero;
— l’imposizione di un prezzo di calmiere su tutti i beni, attraverso l’emanazione
di un edictum de pretiis rerum venalium (c.d. editto sui prezzi) nel 301 d.C.,
che comminava pene gravissime per i trasgressori. Ciò comportò conseguenze
disastrose: le merci scomparvero dal mercato ufficiale, la produzione diminuì,
i prezzi salirono e prosperò un ampio mercato nero;
— il riordinamento delle gerarchie centrali della burocrazia imperiale, attuato
raccogliendo in una sorta di «gabinetto di ministri» una serie di funzionari che
formarono il Consistorium sacrum, organo consultivo del principe. Tale opera
fu proseguita e completata da Costantino, che diede all’amministrazione un
assetto rimasto inalterato nell’Impero d’Oriente fino alle riforme del sec. VII;
— riforma delle province (vedi par. seguente).
C) La riorganizzazione dell’Impero
Nella riorganizzazione territoriale dell’Impero fu evidente l’applicazione dei
principi gerarchici e la tendenza accentratrice del nuovo regime, che creò una
forte, fedele ed unitaria burocrazia imperiale a scapito delle forme di autonomia
locale.
Caratteristiche essenziali della organizzazione furono:
— uniformità del regime interno: l’intero territorio venne diviso in circoscrizioni
territoriali uniformemente governate da funzionari dell’unica gerarchia burocratica dello Stato. La funzione guida dell’Italia tramontò e fu abolita la
distinzione tra province imperiali e senatorie;
La monarchia assoluta (o Dominato) ed il periodo giustinianeo (270 d.C.-568 d.C.)
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— divisione delle province in distretti minori: al fine di frenare eventuali
sedizioni i territori provinciali furono ridimensionati e frazionati in quattro
prefetture; ogni prefettura conteneva più diocesi (12 in totale); ogni diocesi
costituiva una circoscrizione di province;
— riduzione dei poteri dei governatori provinciali: essi, privati dei loro poteri
militari, furono ridotti al rango di semplici funzionari (rectores), mentre la
difesa militare fu affidata a nuovi funzionari (duces) fedeli all’imperatore;
In particolare, a capo delle prefetture furono posti i prefetti del pretorio, mentre
a capo delle diocesi, i vicarii praefectorum praetorio.
L’Italia fu una delle quattro prefetture dell’Impero (Gallia, Italia, Illirico, Oriente) e venne divisa
in vicariati (vicariatus urbis Romae e Italia annonaria). Solo Roma rimase sottoposta ad un regime
speciale e fu governata dalle magistrature repubblicane, ridiventate meramente municipali, come
nella loro lontana origine (FREZZA).
— l’istituzione dei curatores civitatis: la necessità di controllo sulle amministrazioni condusse alla creazione del curator civitatis, controllore governativo
dello stato delle finanze imperiali.
Tale curator, divenuto un magistrato municipale, fu dapprima eletto in seno all’ordo decurionum,
in seguito, essendo la carica meramente onoraria e molto onerosa (in quanto i curatores erano addetti
alla riscossione delle imposte ed erano garanti del pagamento globale), si sancì una rotazione
annuale obbligatoria tra gli iscritti all’ordo. Per evitare la diserzione dalla carica nel basso Impero
si giunse a configurare come un obbligo l’appartenenza all’ordo decurionum, si sancì la trasmissione ereditaria dell’obbligo e furono previste sanzioni contro le evasioni fraudolente.
La politica di Diocleziano, in linea con la concezione sacrale che l’imperatore
ebbe della propria persona, si caratterizzò anche per le feroci persecuzioni dei
cristiani.
Con l’aiuto di Cesare Galerio, Diocleziano promulgò quattro editti tra il 303 e il 304 attuando una
intensa, feroce e sistematica politica di persecuzione contro i cristiani, ritenuti inoltre la causa
scatenante della crisi economica perché contrari al sistema schiavistico; il cristianesimo, tuttavia,
non poteva essere sradicato né con le stragi né con il terrore. Ciò spinse proprio Galerio, convintosi
di tale realtà, ad emanare nel 311 un editto di tolleranza verso i cristiani.
— il trasferimento della Capitale da Roma a Nicomedia (vicino Bisanzio).
D) La tetrarchia
L’aspetto più importante del regime di Diocleziano fu la riforma della stessa
carica imperiale, che egli volle costituire come tetrarchia.
In particolare Diocleziano nominò un collega (Massimiano), dotato di par
potestas, a cui fu attribuito il titolo di Augustus, affidandogli il governo delle
prefetture occidentali, e tenendo per sé quelle orientali. Accanto ai due augusti
furono nominati anche due Caesares (filii Augustorum, successori designati):
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Capitolo Sedicesimo
Galerio e Costanzo, anch’essi provenienti dalle file dell’esercito, con il potere di
governare determinate regioni.
Prima di diventare troppo vecchi, i due Augusti avrebbero lasciato volontariamente il potere e abdicato ai successori già designati (Caesares), i quali a loro volta,
assunto il titolo di Augusti, avrebbero cooptato due nuovi successori.
Scopo della tetrarchia era essenzialmente:
— rendere il supremo comando presente ovunque fosse necessario per la difesa e il controllo delle
province;
— assicurare una soluzione precostituita alla successione al trono, sottraendo la scelta dei capi
all’arbitrio dei soldati e sostituendo il criterio della trasmissione ereditaria familiare.
La riforma ideata da Diocleziano tuttavia non funzionò. Nel 305 d.C. egli
abdicò, così come Massimiano, ma il loro esempio non fu seguito dai successori.
Morto Costanzo, il successore che Diocleziano aveva cooptato come Caesar,
l’esercito non rispettò la designazione operata dai nuovi Augusti, acclamando come
imperatore il giovane figlio di Costanzo, Costantino.
Conclusioni
Il governo di Diocleziano è stato caratterizzato da un lungo periodo di stabilità,
da attenta amministrazione e tutela dalla sicurezza dei confini; tuttavia le
riforme (soprattutto il sistema tetrarchico ed il frazionamento delle circoscrizioni)
che avevano consentito tali risultati, si riveleranno instabili e causa di disgregazione
alla scomparsa della figura carismatica del loro ideatore.
4. COSTANTINO (312-323 e 324-337 d.C.)
A) Il regime di Costantino
Costantino era salito al potere insieme a Licinio e nei primi due anni di regno
il trono imperiale fu regolarmente tenuto da entrambi, secondo le regole della
“tetrarchia”; presto, però, i rapporti si inasprirono e ne derivarono forti conflitti:
Licinio fu costretto all’abdicazione e fu poi assassinato.
Costantino si trovò così a governare da solo un impero con due capitali: Roma
e la cd. «Roma nova» (Costantinopoli, l’antica Bisanzio).
Costantino, rispetto al suo predecessore, ebbe una concezione più assolutistica
del dominio imperiale: introdusse definitivamente il dispotismo orientale con i suoi
fasti esteriori e affermò definitivamente il principio dinastico.
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Mentre Diocleziano si era illuso di poter mediare l’opera di rafforzamento dell’autorità imperiale con
la restaurazione dei valori tradizionali della civiltà romana, Costantino impresse all’Impero un
carattere esclusivamente monarchico.
B) L’attività di Costantino e l’ascesa del Cristianesimo
Quanto all’organizzazione burocratico-amministrativa dell’Impero, Costantino continuò l’opera accentratrice di Diocleziano.
Grazie all’opera riformatrice dei due imperatori si formò un’organizzazione
burocratica che divenne forza di governo autonoma subentrando al disorganico
governo senatorio-repubblicano.
Costantino, in particolare, introdusse nel consistorium:
— i due capi dell’amministrazione finanziaria imperiale: il comes sacrorum largitionum per l’erario
e il comes rerum privatarum per il patrimonio della corona;
— il capo dei servizi della casa imperiale: il magister officiorum (funzionario di creazione costantiniana);
— il capo del tribunale imperiale: il quaestor sacri palatii.
Costantino allontanò dal consistorium i praefecti praetorio e vi accolse una serie di funzionari detti
comites consistoriani.
La periferia e il governo centrale rimasero collegati attraverso i prefetti e
attraverso una complessa rete di organismi burocratici, detti comites Augusti.
Allo scopo di fissare una carriera e un trattamento economico uniforme per i
burocrati, la politica dioclezianeo-costantiniana fissò definitivamente gerarchia,
onori, stipendio e carriera dei funzionari.
Dove, invece, l’opera di Costantino si distaccò, differenziandosi nettamente da
quella del suo predecessore, è nel campo religioso.
Infatti, mentre Diocleziano era stato spietato e instancabile persecutore dei
cristiani, Costantino tentò di attirare verso l’orbita statale l’immensa forza
politica che il Cristianesimo potenzialmente rappresentava: pur avendo abbracciato molto più tardi la fede cristiana, il suo atteggiamento pubblico fu chiaramente
filocristiano.
Momento di avvio di tale politica fu l’Editto di Milano del 313 d.C., con cui
l’imperatore rese libero il culto cristiano, sancendo il principio della tolleranza in
materia religiosa: in tal modo il Cristianesimo veniva equiparato a tutte le altre
professioni religiose.
Tuttavia interventi imperiali successivi mirarono ad attribuire al Cristianesimo
una condizione privilegiata: Costantino effettuò ricche donazioni alle comunità
cristiane, favorì la costruzione di chiese, riconobbe la giurisdizione dei Vescovi
ingraziandosi a tal punto i cristiani che sua madre, Elena, fu santificata.
Al contrario, i pagani e il paganesimo furono colpiti da numerose limitazioni:
furono vietate le cerimonie sacrificali in case private, così come fu vietato di
prendere auspici in casa di estranei, mentre alcuni templi furono demoliti.
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Capitolo Sedicesimo
Sempre più penetrante si fece l’intervento imperiale in materia religiosa e nelle
questioni interne della Chiesa (Cesaropapismo). Preoccupato per le fratture che
colpivano la Chiesa cristiana a causa delle dottrine eretiche che potevano turbare la
pace sociale, Costantino dispose inoltre la convocazione di alcuni concili, al fine di
riconfermare i dogmi fondamentali e l’unità della Chiesa stessa.
Di importanza fondamentale fu proprio il Concilio di Nicea del 325 d.C.,
convocato per combattere l’eresia ariana, diffusasi ormai largamente in Oriente, ed
affermare la dottrina “ufficiale” della Chiesa di Roma.
5. LA FINE DELL’IMPERO ROMANO
A) I successori di Costantino (337-379 d.C.)
Alla morte di Costantino, che pure aveva già diviso l’Impero tra i suoi figli Costanzo e Costante,
nominati entrambi Caesares, si aprirono le lotte per la successione aggravate da una fosca sequela di
delitti e di discordie familiari.
Particolarmente grave si presentava, inoltre, il problema della difesa dei confini sottoposti ad una
sempre più insistente pressione barbarica.
Dotati di pari autorità e tutt’altro che animati da sentimenti fraterni, Costanzo e Costante regnarono
adottando politiche di governo differenti.
Morto Costante a causa di una congiura, Costanzo designò come suo Augustus, Gallo.
Il regno di Gallo durò ben poco; avendo abusato dei poteri attribuitigli, fu destituito da Costanzo
e giustiziato: Costanzo nominò al suo posto il proprio fratellastro, Giuliano.
Nel 361 d.C., morto anche Costanzo, e già acclamato Augustus dalle truppe, Giuliano rimase unico
detentore del potere imperiale; oltre ad essere un buon condottiero, fu un assennato imperatore: tentò di
ridurre le spese pubbliche, ridusse il numero dei funzionari di palazzo e le imposizioni fiscali.
Essenzialmente Giuliano è ricordato per la sua politica religiosa sfavorevoli ai cristiani: la religione
cristiana fu messa in second’ordine e si tentò di restaurare i tradizionali culti pagani.
Durante il suo regno, infatti, furono abolite tutte le concessioni elargite in precedenza ai cristiani in
materia fiscale e giurisdizionale; fu per questo che fu denominato l’Apostata, ossia il «rinnegatore»
della fede.
Ma anche il suo regno ebbe breve durata: nel 363 d.C., dopo la vittoriosa campagna militare contro
i Persiani, fu ucciso durante uno scontro ai confini dell’Impero. La sua morte provocò un nuovo periodo
di anarchia, durante il quale ancora una volta furono le truppe ad eleggere i nuovi imperatori.
Valentiniano e Valente, entrambi militari, assunsero un atteggiamento di favore verso l’esercito,
ammettendo alle più alte cariche dell’Impero soprattutto gli ufficiali.
Al pari di Giuliano, Valentiniano e Valente cercarono di risolvere la grave crisi economica che aveva
colpito l’Impero e di annullare l’enorme divario sociale tra le classi più abbienti e meno abbienti. Vari furono
i provvedimenti emanati al fine di proteggere coloro che appartenevano ai ceti più umili dalle vessazioni dei
potenti: tra essi, va ricordata la creazione di un funzionario apposito (defensor plebis o civitatis).
Intanto ai confini dell’Impero sempre più frequenti si facevano le incursioni barbariche: i Goti,
sotto la spinta delle orde degli Unni, erano giunti fino alla penisola balcanica.
Molte furono, quindi, le campagne belliche condotte, durante il regno di Valentiniano e Valente, per
arginare l’avanzata dei barbari. In una di queste trovò la morte nel 375 d.C. lo stesso Valentiniano; tre
anni più tardi ad Adrianopoli anche Valente fu ucciso, dopo esser stato sconfitto dagli Unni.
La monarchia assoluta (o Dominato) ed il periodo giustinianeo (270 d.C.-568 d.C.)
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Graziano, figlio di Valentiniano, nominato Augustus dal padre prima della sua morte, designò come
suo collega lo spagnolo Teodosio (379 d.C.) dimostratosi valoroso generale nella guerra contro i Goti.
B) L’opera di Teodosio il grande (379-385 d.C.)
Proveniente dalle file dell’esercito, Teodosio dimostrò di essere innanzitutto un
abile e brillante stratega: grazie alle sue capacità l’esercito imperiale sconfisse i
Visigoti, riuscendo a salvare la stessa Costantinopoli, quasi assediata.
Fu il primo, peraltro, a consentire l’arruolamento di Visigoti nell’esercito,
soprattutto nelle postazioni di frontiera, dando luogo alla cd. barbarizzazione
dell’esercito, che fu una delle cause del crollo dell’Impero romano.
A Teodosio si deve, inoltre, la definitiva e ufficiale proclamazione della
religione cristiana come «religione di Stato», con l’Editto di Tessalonica del 380
d.C. e l’interdizione del culto pagano, la chiusura dei templi ed il divieto di
celebrazione dei sacrifici nonché la condanna dell’arianesimo nel Concilio di
Costantinopoli (381).
Con la sua morte, avvenuta nel 395 d.C., la frattura fra Oriente e Occidente
divenne insanabile, tanto che egli è considerato l’ultimo imperatore dell’impero
unificato (3).
I figli di Teodosio, Arcadio e Onorio, a cui spettarono, rispettivamente,
l’Oriente e l’Occidente, adottarono politiche indipendenti e spesso ostili; per la
prima volta nella storia dell’Impero si giunse ad un conflitto armato tra le due parti.
C) L’Impero d’Occidente
Le convulse vicende dell’Impero di Occidente portarono quest’ultimo in meno
di un secolo alla fine (476 d.C.).
Le cause di tale dissoluzione furono molteplici, ma fra le principali vanno
annoverate la dissoluzione economica, morale, sociale e politica, nonché la
mancanza di un legame culturale, romano o non romano, tra le varie parti
dell’Impero.
Il conflitto fra i due imperi si concluse con la morte di Onorio nel 432 d.C., in
seguito alla quale l’Impero d’Occidente iniziò il suo inarrestabile declino, a causa
della cattiva amministrazione e delle continue invasioni barbariche. Nel 476 d.C.,
con la deposizione di Romolo Augustolo l’impero «chiuse per sempre il suo
ciclo vitale» (GUARINO).
Il titolo di imperatore d’Occidente fu assunto formalmente dagli imperatori
d’Oriente; in realtà l’Occidente era ormai dominato dai barbari ed ebbe, da quel
momento in poi, una storia del tutto autonoma.
(3) L’insanabilità della frattura Oriente-Occidente è legata soprattutto a motivi religiosi: mentre l’Occidente
continuava ad essere cristiano, in Oriente prevalse l’arianesimo. Ciò determinò il distacco definitivo tra le due parti
dell’Impero.
152
Capitolo Sedicesimo
D) L’Impero d’Oriente
Il distacco dall’Occidente, che era stato un gravoso peso economico e politico
per l’Oriente, consentì a questa parte dell’Impero una apprezzabile ripresa.
Dopo essersi staccati da Roma gli imperatori d’Oriente diedero vita ad una nuova
organizzazione politica, legata alla tradizione ellenistica e chiamata «Impero bizantino».
Anche in Oriente, peraltro, gli imperatori dal 395 al 527 d.C. si susseguirono
senza compiere alcuna significativa azione politica fino al 527, anno dell’incoronazione di Giustiniano.
6. I FERMENTI CULTURALI TRA OCCIDENTE E ORIENTE. IL CRISTIANESIMO ELLENIZZATO
Come detto innanzi, le diversificazioni economiche e culturali tra Oriente ed
Occidente divennero sempre più evidenti in quanto l’Oriente godeva di una
situazione economica più fiorente, basata soprattutto sull’artigianato, con la quale
si riuscirono a fronteggiare le esigenze dell’impero.
Sul piano culturale, mentre l’Italia e la Grecia assunsero ruoli secondari,
l’Africa, l’Egitto, la Siria e la Pannonia divennero le culle di origine dei più
importanti movimenti letterari, filosofici e religiosi del secolo III.
«Queste nuove culture si collegano quasi sempre a motivi “religiosi e mistici”, come nel caso
dell’ermetismo, della filosofia neoplatonica, dell’elioteismo, dell’astrologia. Inoltre, alla crisi definitiva
della tradizionale cultura greco-romana, si accompagna nelle province, tra gli strati inferiori della società
presso i quali la romanizzazione si era diffusa assai meno che presso i gruppi dirigenti, una rinascita di
stili di vita, lingue, cerimonie· religiose, forme artistiche anteriori alla conquista romana. Culture
popolari regionali, quali la copta, la siriaca, la punica, la celtica, cominciano a penetrare nella civilitas
classica, trasformandola in un gioco complesso di relazioni e di interrelazioni, dando luogo a quel
grandioso processo che è stato definito democratizzazione della cultura». (GARBARINO).
Contro i cristiani, accusati di minare l’unità dell’impero e di rifiutare il culto
della persona dell’imperatore, alcuni principi, come Massimino, Decio, Valeriano
e Diocleziano, indirizzarono feroci persecuzioni ma la nuova religione resistette.
Essa anzi, nelle province orientali (Asia Minore, Siria, Egitto), passò da una
repulsione quasi totale verso la cultura classica ad un atteggiamento di apertura.
I membri delle gerarchie ecclesiastiche tentarono infatti una difficile sintesi tra
cristianesimo e paganesimo, presentando gli elementi principali di quest’ultimo
come anticipazioni della verità compiutamente rivelata dai vangeli.
«Ciò spiega perché il cristianesimo si diffuse, nel III sec. in vari contesti sociali: tra gli strati più
umili della popolazione, ai quali continuava a offrire un concreto aiuto morale e materiale, ma anche tra
le classi abbienti, la cui adesione alla nuova fede non presupponeva più un rifiuto totale della propria
esperienza passata e della propria cultura, ma anzi la loro piena valorizzazione alla luce della nuova
dottrina» (GARBARINO).
La monarchia assoluta (o Dominato) ed il periodo giustinianeo (270 d.C.-568 d.C.)
153
7. I RAPPORTI TRA CHIESA E STATO
Con la nascita dello Stato confessionale, che prese le mosse dall’età di
Costantino e venne formalizzato con l’editto di Tessalonica, divenne copiosa la
legislazione riguardante gli ecclesiastici. A questi furono concessi privilegi di varia
natura, dai donativi in denaro all’esonero dai tributi. Venne anche riconosciuta dal
III secolo una giurisdizione esclusiva del tribunale ecclesiastico, formato da
vescovi (episcopalis audientia), che li sottraeva alla giurisdizione comune anche
per materie di carattere non religioso. Inoltre, in virtù di una legge emanata da
Onorio nel 408, le decisioni emanate dal vescovo avevano la stessa efficacia di
quelle del prefetto del pretorio.
«Dinanzi all’ordinamento giuridico, il chierico acquista uno status privilegiato in quanto ministro
di una fede il cui rispetto è posto a fondamento delle fortune dello Stato. Assai radicato era nell’età
tardoantica il convincimento di una interdipendenza tra lo spirituale e il temporale e che il bene
dell’impero dipendesse dalla religione. L’identificazione degli interessi dell’impero con quelli della
fede cattolica fa sì che vengano condannati gli eretici. Eretico è chi attenta non solo all’integrità di una
fede religiosa che è stata riconosciuta come unica religione dello Stato, ma anche agli interessi di tutta
la società. L’eresia è dunque un crimine pubblico» (AMARELLI).
8. IL GENERALE STILICONE E LE INVASIONI DEI «BARBARI»
A) I Goti entrano a Roma (410)
Le invasioni barbariche divennero in Occidente più massiccie già dagli inizi del V sec.
Nel 401 i Visigoti, capeggiati da Alarico, penetrarono in Italia e dilagarono nella pianura padana.
Furono però sconfitti da Stilicone prima a Pollenzo, nella valle del Tanaro, e poi a Verona. In
quell’occasione Onorio trasferì la capitale da Milano a Ravenna, più facilmente difendibile.
Nel 405 penetrarono in Italia altre popolazioni barbariche, guidate dal re ostrogoto Radagaiso,
ricacciate (ancora una volta da Stilicone) al di là delle Alpi.
Nel 406 una nuova ondata di popoli (Alamanni, Alani, Burgundi e Vandali), sospinti dagli Unni
dilagò ovunque mentre nelle Gallie si accendevano tumulti. Stilicone non affrontò subito questi popoli,
ritenendo necessario acquisire le risorse finanziarie per salvare l’impero. Gli oneri di tali operazioni
belliche ricaddero soprattutto sui grandi proprietari e sui senatori che, per questo, lasciarono solo
Stilicone, accusandolo di tradimento e premettero presso Onorio per la sua decapitazione.
Alla morte di Stilicone, Alarico invase nuovamente l’Italia, giungendo fino a Roma nel 410 e
saccheggiandola per tre giorni. Proseguì poi verso sud, con l’intenzione di raggiungere l’Africa ma
morì nei pressi di Cosenza.
Il suo successore, Ataulfo, risalì la Penisola e occupò la Gallia meridionale.
Nel 418 i Visigoti ottennero dal governo romano il permesso di insediarsi stabilmente, come
federati, nella regione dell’Aquitania, che si estendeva da Tolosa all’Oceano Atlantico. Ebbe in tal modo
origine il primo stato romano-barbarico.
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Capitolo Sedicesimo
B) I «barbari» dilagano nell’Impero. La caduta dell’Occidente
La dissoluzione dell’Impero era ormai inevitabile.
Nel 422 la Britannia fu invasa da Angli e Sassoni. Nel 438 gran parte della Spagna fu occupata dagli Svevi.
Nel 443 i Burgundi si stanziarono a sud del lago di Ginevra, come federati del governo romano.
Frattanto, nel 429, i Vandali di Genserico erano penetrati in Africa, conquistando la Mauretania, la
Numidia e l’Africa proconsolare. In seguito si stanziarono lungo le coste del Mediterraneo occidentale
e conquistarono la Sardegna e la Corsica.
Nel 455 saccheggiarono Roma. Il dominio dei Vandali fu particolarmente duro: la vecchia classe
dirigente fu completamente esautorata e le terre furono requisite totalmente.
Nel 475 il goto Oreste depose l’imperatore d’Occidente Giulio Nepote e fece eleggere il proprio
figlio tredicenne Romolo.
Nel 476, tuttavia, quest’ultimo fu deposto dal re degli Eruli Odoacre. A differenza degli altri
generali barbari, Odoacre non nominò un successore a Romolo, ma inviò le insegne imperiali
all’imperatore d’Oriente Zenone rivendicando per sé il titolo di “patrizio dei romani”. Il titolo imperiale,
dunque, restava in Oriente; la parabola dell’Impero romano d’Occidente si era definitivamente conclusa.
9. ROMANITÀ E MONDO GERMANICO
«La storia europea, che ha inizio dalla caduta dell’impero d’Occidente e dalla
formazione dei nuovi regni è soprattutto la storia di un grande incontro tra popoli.
Si trattò, tuttavia, di un’integrazione particolarmente difficile e complessa, che
spesso sfociò in episodi di intolleranza e di odio» (AMARELLI).
I Germani, discendenti dei popoli ariani e originari dell’Asia, si erano stanziati
nel cuore dell’Europa, nei territori al di là dei fiumi Reno e Danubio. Erano divisi
in uomini liberi (arimanni, componenti gli eserciti), semiliberi o aldii, a cui era
vietato l’uso delle armi e il possesso di schiavi, addetti al lavoro dei campi.
Gli arimanni si riunivano in assemblea per decidere la pace e la guerra, per
discutere i problemi, eleggere i capi, decidere le controversie. Dopo il loro
stanziamento nei confini dell’impero, tale assemblea perse d’importanza e fu
sostituita da riunioni periodiche (Diete).
I Germani non avevano il concetto di proprietà privata della terra, considerata
patrimonio comune della collettività. Essi conoscevano tre forme di raggruppamento: la· familia (sippe) il vicus o villaggio e il pagus, che costituiva l’insieme delle
varie sippe.
La soluzione delle controversie avveniva in forme per lo più private, attraverso
la faida, ossia la vendetta di sangue; il guidrigildo, ossia una somma di denaro da
pagarsi, come risarcimento, dall’offensore; l’ordàlia (o giudizio di Dio), per cui i
due contendenti dovevano affrontare prove particolarmente pericolose e solo chi ne
usciva indenne era considerato innocente.
«Già queste brevi osservazioni ci fanno comprendere quanto ampia fosse la distanza tra le
popolazioni germaniche e la società e le istituzioni romane. Malgrado ciò, tuttavia, e sia pure attraverso
La monarchia assoluta (o Dominato) ed il periodo giustinianeo (270 d.C.-568 d.C.)
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un processo storico lento e tutt’altro che lineare, questa situazione di stallo cominciò a sbloccarsi per una
serie di ragioni. In primo luogo, i barbari ebbero la lungimiranza di conservare il prezioso patrimonio
delle strutture aniministrative romane. In secondo luogo, sul piano più specificamente economico, la
redistribuzione delle terre tra vinti e vincitori non ebbe un impatto dirompente, essenzialmente perché,
nei vari regni, gli invasori rappresentavano una quota minoritaria della popolazione. In terzo luogo, la
Chiesa, in linea con la sua vocazione universalistica, cominciò a svolgere un ruolo di primo piano
nell’avvicinare i popoli» (AMARELLI).
10. GIUSTINIANO
Il lungo impero di Flavio Giustiniano (527-565 d.C.) segnò «l’ultima ripresa
della romanità nella storia del mondo antico» (ARANGIO-RUIZ).
Dal punto di vista militare, Giustiniano riuscì a ripristinare l’unità dell’Impero,
unificando Oriente e Occidente sotto il suo dominio e determinando, attraverso un
concilio indetto a Costantinopoli, la pacificazione religiosa all’insegna del cattolicesimo.
L’Impero d’Oriente, al contrario di quello d’Occidente ebbe vita molto più
lunga: Costantinopoli, infatti, assediata dai Turchi cadde solo nel 1453, circa mille
anni dopo Roma.
La durata dell’impero d’Oriente è dovuta a diversi fattori: la posizione
geografica, la «tenuta» dell’economia di fronte alla crisi che aveva affamato
l’Occidente, l’efficienza della burocrazia e il prestigio dell’imperatore che impersonò equamente sia il potere civile che quello religioso (cesaropapismo).
A cementare questa opera si aggiunse la compilazione di quelle raccolte
giuridiche (le Institutiones, il Codex Iustiniani, i Digesta Iustiniani Augusti) che i
posteri, in segno di ammirazione, chiamarono Corpus Iuris Civilis (vedi cap.
seguente).
Nonostante i notevoli successi, l’opera di Giustiniano non fu duratura per
molteplici motivi:
— la riunione delle due parti dell’Impero si rivelò fragile a causa delle pressioni
barbariche sulle regioni occidentali;
— la pace religiosa si rivelò effimera;
— il ritorno alle tradizioni genuinamente romane si rivelò impossibile dato
l’influsso sempre più profondo, in Occidente, degli elementi germanici.
Tre anni dopo la morte di Giustiniano (568 d.C.) l’Italia inoltre fu invasa dai
Longobardi: l’Impero d’Occidente si dissolse definitivamente. Bisanzio, formalmente capitale imperiale e romana, si allontanò sempre più dall’eredità culturale
dell’antica Roma e dal suo Impero, divenendo il centro da cui si irradiò una nuova
cultura (non più romana, ma orientale).
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