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Catturare le storie
INDICE:
L. Gorgolini, Nota introduttiva
G. Nataloni, Archivio delle voci: raccolta e conservazione
delle storie di vita
p.
3
p.
8
Racconti scelti
p.
12
Giovanna Tiengo, Arriva l’alluvione
Chiara Chiaradia, All’interno del collegio si fantasticava molto
Lorella Messina, Così sono nate le borgate di Roma
Marisa Marisi, Volevano che mi chiamassi Edera
Enzo Soravia, La sera alle 10 ero già stato fatto prigioniero
Vittorio Balli, La facoltà era molto militaresca
Domenica Vaccarini, Quelle povere donne erano schiave
Francesco Pirini, La strage è stata una cosa improvvisa
Aurelio Guardigli, Acthung
Giacomo Russo, Mio papà era disperato
p.
p.
p.
p.
p.
p.
p.
p.
p.
p.
13
18
23
29
34
39
43
48
54
58
Appendice, a cura di G. Di Giangirolamo
p.
63
Elenco delle interviste raccolte
p.
68
2
Catturare le storie
Nota introduttiva
di Luca Gorgolini
Nel corso del Novecento, la progressiva affermazione della storia
sociale ha prodotto una duplice rivoluzione nell’ambito della ricerca storica.
Si è infatti assistito, per così dire, all’ingresso in scena di attori per lungo
tempo esclusi dalla Storia: coloro i quali, non avevano accettato
“consapevolmente di essere materiale da costruzione di una storia che si
innalza al di sopra delle loro teste, al di là delle loro intenzioni”1; i riflettori
sono stati così puntati in direzione di coni d’ombra, affollati di categorie di
individui in precedenza ignorati: alla storia politica e diplomatica
dell’istituzione statale e delle classi dominanti, ai protagonisti delle biografie
e agli interpreti della storia delle idee (non solo politiche ed economiche, ma
anche teologiche e scientifiche) si sono inizialmente aggiunti gli animatori
delle lotte operaie, a seguire la massa dei contadini, gli analfabeti, gli
individui con una vita incerta e con un lavoro precario, le donne, i bambini e
altri soggetti “senza storia”.
Contestualmente si è assistito, da parte degli storici, al ricorso a nuove
fonti: carte processuali, testamenti, storie orali, testimonianze folkloriche,
testi letterari, immagini fotografiche. “Per Croce (ma anche per la storia
positivista) gli “oggetti” della storia erano infatti coloro che
contemporaneamente risultavano anche “soggetti” della storia in quanto
produttori di documenti scritti, considerati uniche fonti degne di rilievo
storiografico in quanto prove obbiettive del passato e fondamento del fatto
storico. Ma oggi consideriamo fonti, con uguale dignità e con lo stesso
interesse, tutte le testimonianze lasciate dagli esseri umani del passato: i
documenti scritti e le testimonianze orali (comprese favole e leggende), la
conformazione del paesaggio e il manufatto, le espressioni artistiche e
l’iconografia popolare, le illustrazioni scientifiche e gli “archivi della
natura”, la fotografia e il cinema, i nomi geografici, i reperti archeologici, la
produzione letteraria, che fornisce uno spaccato dell’ambiente sociale e
intellettuale in cui lo scrittore è vissuto, e, ancora, giornali, pubblicazioni
ufficiali, discorsi parlamentari, registri commerciali e lettere private, processi
e testamenti”2. Un processo che inevitabilmente ha spinto i ricercatori ad
attivare contatti con altre scienze sociali, sia per giungere alla misurazione
dei fenomeni storici (da qui il ricorso all’economia e alla demografia), sia
per giungere ad una definizione e ad una comprensione della cosiddetta
psicostoria (con il ricorso alla psicoanalisi). Ecco che, solo per fare un
esempio, la storia della prima guerra mondiale ha cessato di essere articolata
1
2
Sorcinelli P., Il quotidiano e i sentimenti. Introduzione alla storia sociale, Bruno
Mondadori, Milano, 1996, p. 13.
Ivi, p. 14.
3
Catturare le storie
esclusivamente sullo studio delle scelte politiche e diplomatiche che hanno
determinato e accompagnato gli eventi militari, assumendo una dimensione
più ampia che includesse anche i comportamenti e le reazioni emotive dei
combattenti di fronte alla realtà quotidiana della guerra; aspetti ricostruiti e
analizzati attraverso documenti autobiografici redatti dagli stessi
combattenti, quali le lettere e i diari, o per mezzo del contenuto delle cartelle
cliniche degli ospedali psichiatrici al cui interno centinaia di migliaia di
questi soldati vennero ricoverati.
Alla base di questo mutamento nelle modalità di approccio alla ricerca
scientifica e nella definizione di una nuova metodologia di indagine vi è
stato l’emergere di una doppia consapevolezza: in primo luogo tutti i
documenti, sotto qualunque forma essi si presentino, possono “parlare”,
solamente se li sappia “interrogare”: “ogni ricerca storica presuppone, sin dai
primi passi, una direzione di marcia. In principio, c’è una mente pensante.
Mai, in nessuna scienza, l’osservazione passiva – sempre nell’ipotesi che
essa sia possibile – ha prodotto alcunché di fecondo”1; in secondo luogo, per
usare le parole di Lucien Febrve, tra i fondatori nel 1929 della rivista
“Annales d’histoire économique et sociale”, “la storia si fa con i documenti
scritti, certamente. Quando esistono. Ma la si può fare, la si deve fare senza
documenti scritti se non ce ne sono. Con tutto ciò che l’ingegnosità dello
storico gli consente di utilizzare per produrre il suo miele se gli mancano i
fiori consueti. Quindi con delle parole. Dei segni. Dei paesaggi e delle
tegole. Con le forme del campo e delle erbacce. Con le eclissi di luna e gli
attacchi dei cavalli da tiro. Con le perizie su pietra fatte dai geologi e con le
analisi dei metalli fatte dai chimici. Insomma con tutto ciò che, appartenendo
all’uomo, dipende dall’uomo, serve all’uomo, esprime l’uomo, dimostra la
presenza, l’attività, i gusti e i modi di essere dell’uomo. Forse che tutta una
parte, la più affascinante, del nostro lavoro di storici non consiste proprio
nello sforzo continuo di far parlare le cose mute, di far dir loro ciò che da
sole non dicono sugli uomini, sulle società che le hanno prodotte, e di
costituire finalmente quella vasta rete di solidarietà e di aiuto reciproco che
supplisce alla mancanza del documento scritto”2. Date queste premesse, “la
migliore storiografia – osservava a metà degli anni novanta del secolo scorso
Vito Fumagalli – tende oggi a privilegiare il contenuto, il messaggio delle
fonti storiche rispetto al “genere” di queste; non ritiene cioè che esistano in
via generale fonti storiche buone o cattive, ma che tutte ci forniscano la loro
parte di informazioni sul passato”3.
Eppure, nonostante queste illustri prese di posizione, alcuni
documenti hanno faticato non poco per vedersi riconosciuto, soprattutto in
1
Chabod F. (1983), Lezioni di metodo storico, Bari-Roma: Laterza, p. 142.
Brano citato in Le Goff J. (1982), Storia e memoria, Torino: Einaudi, p. 447.
3
Fumagalli V. (1995), Scrivere la storia, Roma-Bari: Laterza, p. 5.
2
4
Catturare le storie
Italia e in particolar modo in ambito accademico, lo status di fonte storica.
Così è stato per la fonte orale. In Italia, dopo alcuni importanti ma isolati
precedenti (citiamo il lavoro di Gianni Bosio, Ernesto De Martino, Danilo
Montaldi), la storia orale ha trovato terreno fertile per assumere un certo
grado di visibilità solo nel corso degli anni sessanta, complice un clima
culturale e politico favorevole: le fonti orali “sembravano quasi un passaggio
obbligato per ricostruire una storia “alternativa”, partendo da testimonianze
“dal basso” raccolte dalla viva voce di coloro che non figuravano nella
documentazione istituzionale”1. Si trattava però di una storia orale in gran
parte espressione di un lavoro politico di gruppo, “prodotta quasi
integralmente all’interno di piccoli gruppi critici, laboratori di esperienze
esemplari alla ricerca di nuove forme di cultura e di politica”2. In seguito,
l’etichetta di documento privilegiato da una certa storiografia “militante”, ha
fatto si che le testimonianze orali siano state a lungo considerate “fuori
luogo” in ambito accademico. D’altra parte, l’ingenuità metodologica di
alcuni ricercatori, che hanno manifestato la tendenza ad utilizzare nel loro
percorso di indagine e ricostruzione di determinati processi o eventi storici
esclusivamente le fonti orali, evitando di sottoporle ad una adeguata critica
supportata dalla interazione con altri tipologie di documenti, ha pesato non
poco nel processo di inclusione delle stesse all’interno dell’insieme di fonti
che lo storico può utilizzare convintamente come strumenti idonei.
Un ulteriore aspetto che ha determinato, per un periodo relativamente
lungo, la scarsa fortuna di questi documenti e della stesa storia orale in
genere si fonda sulla particolarità di questa fonte, atipica e
conseguentemente, almeno all’apparenza, più difficile da “trattare”. Atipica
perché non può esistere indipendentemente dallo storico, si concretizza per
opera del ricercatore attraverso “un’indagine verbale, una intervista a
persone che hanno partecipato attivamente a un evento o anagraficamente
hanno vissuto la propria vita in un determinato periodo storico”3. E’ un
documento che ha due autori: l’intervistato e l’intervistatore. Atipica perché
è “costruita” nel presente. Sollecitata in momenti diversi, la stessa persona
non fornirà mai il medesimo racconto: quest’ultimo è sensibilmente
condizionato dal legame con i processi della memoria (dimenticanza,
selezione) e dalle influenze del contesto storico. La dimensione soggettiva,
1
2
3
Sorcinelli P. (2010), Prefazione a L. Gorgolini e M. Costantini (a cura di), Capitani
d’impresa. Storia sociale dell’imprenditoria pesarese (1946-1978), Milano: Bruno
Mondadori-Pearson, p. 1.
Bermani C. (1999), Le origini e il presente. Fonti orali e ricerca storica, in C. Bermani
(a cura di) Introduzione alla storia orale. Storia, conservazione delle fonti e problemi di
metodo, Roma: Odradek, p. 20.
Fischetti A. (2008), Creazione e gestione della fonte orale, in C. Bermani, A. De Palma
(a cura di), Fonti orali. Istruzioni per l’uso, Società di Mutuo Soccorso Ernesto De
Martino.
5
Catturare le storie
infatti, è un elemento fondante delle testimonianze orali: “le fonti orali – è
stato opportunamente osservato - non ci dicono semplicemente quello che le
persone hanno fatto, ma anche quello che volevano fare, quello che
credevano di fare e quello che oggi pensano di avere fatto”1. Senza
dimenticare inoltre il diritto all’autorappresentazione che chi viene
intervistato può esercitare; rispetto alla memoria, l’autorappresentazione
riveste “una funzione normativa, ne delimita la struttura, la incanala in certe
direzioni, ne condiziona le finalità e contribuisce
più o meno
2
inconsciamente alla selezione dei ricordi” . Tutto ciò rende le fonti orali
poco attendibili e comunque meno attendibili di quelle scritte? Se è vero che
la dimensione narrativa insita nella narrazione orale lascia trasparire una
dimensione soggettiva superiore a quella che traspare dalla documentazione
scritta, sappiamo bene che nessuna fonte è oggettiva. Il “pregiudizio
egemonico” che vorrebbe “l’attendibilità fattuale monopolio delle fonti
scritte”3, appare così privo di fondamento: tutte le fonti, a prescindere dalla
loro tipologia, vanno sottoposte ad un’attenta critica che attraverso il
confronto con altri documenti, permetta di valutare la veridicità del loro
contenuto.
Nel corso degli ultimi anni, in conseguenza di un minor ricorso agli
schematismi ideologici all’interno della ricerca storica e di una maggior
riflessione interna al gruppo degli storici attenti a questo genere di
documento in ordine alle modalità di raccolta e di approccio allo stesso, le
testimonianze orali sembrano essere le destinatarie di un rinnovato interesse,
manifestatosi non solo tra le file degli storici sociali.
Rifacendosi alla lezione di L. Febvre, le fonti orali hanno confermato
in più ambiti la loro forza epistemologica e in qualche caso la loro
insostituibilità. Anche terreni di indagine all’apparenza distanti dalla storia
orale, hanno finito con il beneficiare in modo evidente dei documenti che i
ricercatori di storia orale hanno via via raccolto. Così è stato, all’interno
della storia economica, per la storia d’impresa, nello specifico per la storia
della piccola e media impresa, ossia per quella che viene considerata la spina
dorsale del sistema economico produttivo industriale nazionale. Nella
stragrande maggioranza dei casi, queste importanti realtà economiche non
conservano documentazione e, salvo rarissime eccezioni, non la rendono
disponibile; in questa situazione, le testimonianze degli attori attivi
all’interno delle fabbriche, siano essi operai, impiegati ovvero imprenditori,
1
2
3
Stille A. (2001), La storia e la memoria, “la Repubblica”, 14 marzo 2001, citato in A.
Fischetti (2008), Creazione e gestione della fonte orale, cit. .
Martini A. (2000), Percorsi biografici e strategie di impresa nelle testimonianze degli
imprenditori edili, in R. Covino (a cura di), Fonti orali e storia d’impresa, Soveria
Mameli: Rubettino, p. 83.
Portelli A. (1999), Sulla diversità della storia orale, in C. Bermani (a cura di)
Introduzione alla storia orale, cit., p. 156.
6
costituiscono un insieme di informazioni particolarmente prezioso per
ricostruire la storia di quelle attività, prestando magari attenzione a elementi
che sfuggono ad un’analisi prettamente economicistica: il racconto
autotestimoniale può, ad esempio, rispetto alla vicenda professionale dei
“capitani d’impresa”, consentire di acquisire informazioni sulle origini
familiari, sul retroterra sociale e professionale, sulle mentalità, sui sistemi di
valori e sulla cultura dei soggetti che hanno saputo dare vita ad una
significativa esperienza imprenditoriale1.
Oggi, mentre continua ad affinarsi (grazie soprattutto al lavoro di
coloro che operano all’interno dell’Aiso, Associazione Italiana di Storia
Orale) il dibattito attorno alla costruzione di un apparato teorico e pratico di
strumenti e metodologie di approccio sempre più idonei al trattamento di
questi documenti (della raccolta, alla catalogazione, alla conservazione e
infine, alla loro accessibilità), si registra un allargamento della rete di
soggetti che a vari livelli si occupano di raccogliere e analizzare criticamente
le testimonianze orali.
Tra questi vi è, all’interno del laboratorio di storia sociale ‘Memoria
del quotidiano’, l’Archivio delle voci. Attivo da alcuni anni presso il Polo di
Rimini (Università di Bologna), il laboratorio ha promosso, in accordo e
grazie al sostegno di diverse istituzioni pubbliche e private, numerosi
progetti di ricerca che hanno privilegiato la raccolta e lo studio delle fonti
orali (per un riferimento puntuale a questi progetti, si rinvia alle diverse
sezioni tematiche presenti sul sito web www.laboratoriodistoriasociale.eu).
Contestualmente, l’Archivio delle voci ha sviluppato all’interno delle lezioni
dell’insegnamento di storia sociale (prof. Paolo Sorcinelli) esperienze
didattiche che hanno dimostrato come la ricostruzione del passato attraverso
le “storie di vita” (ragionamento analogo vale per le fotografie con
riferimento alle finalità didattiche insite nel progetto ImaGo on line)
favoriscano la costruzione, da parte degli studenti coinvolti, di una più ampia
“ragnatela di conoscenze storiche”. Le fonti orali, infatti, si presentano come
un materiale “vivace”, particolarmente “stimolante”, in grado di “innescare
quel meccanismo simile alla curiosità antropologica”2 che spinge gli studenti
a mettere in relazione la vicenda individuale dell’intervistato con gli eventi e
i processi economici e sociali che hanno più in generale segnato il periodo
storico cui si riferisce il racconto dell’intervistato. I brani presentati in questa
breve antologia, introdotti dal testo di Giulia Nataloni e seguiti da un
appendice statistica curata da Gianluigi Di Giangirolamo, vogliono solo
rappresentare la qualità dei materiali raccolti dagli studenti e messi a
disposizione dei ricercatori.
1
2
Sorcinelli P. (2010), Prefazione, cit. p. 2.
Contini G., Fonti orali e didattica della storia,
http://osp.provincia.pisa.it/cds/gestione_cds/quaderni/q9_cap3.pdf.
pubblicato
in
Catturare le storie
Archivio delle voci: raccolta e conservazione delle storie di vita1
di Giulia Nataloni
“Catturale le storie” è un progetto di ricerca inserito all’interno del
Laboratorio di storia sociale 'Memoria del quotidiano' (Università di Bologna
- Polo di Rimini). Nell'ambito del corso di Storia Sociale (Prof. Paolo
Sorcinelli), agli studenti viene chiesto di elaborare una “storia di vita” sulla
base delle necessarie nozioni metodologiche fornite durante l'anno
accademico. L'intervistato, individuato tramite un primo incontro con
l'intervistatore, può far parte sia della sua cerchia parentale che essere un suo
conoscente ed è preventivamente informato dell’utilizzo pubblico che verrà
fatto della sua testimonianza. Durante l'intervista non si prevede l'impiego di
un questionario prestabilito; il testimone è lasciato libero di parlare e, solo
all'occorrenza, è stimolato e guidato da domande mirate. Poiché “le fonti
orali sono sempre il risultato del rapporto a due, di un lavoro comune cui
prendono parte informatore e ricercatore insieme”2, da questo rapporto
dipende buona parte dell’esito dell’intervista. Alcuni intervistati limitano il
loro racconto a un momento storico ben determinato della loro vita (ad
esempio la guerra), mentre altri preferiscono seguire un ordine cronologico,
cominciando dalla descrizione della famiglia di origine, dell'infanzia fino ad
arrivare all’oggi. Alcuni sono spigliati e ripercorrono la loro vita senza
bisogno di alcuna indicazione, altri invece ricordano meno le esperienze
vissute e necessitano di domande precise. Questo indipendentemente dalla
loro età. Da ciò si capisce quanto la fonte orale per sua natura sia
estremamente complessa da raccogliere; richiede quindi un notevole
impegno da parte dell’intervistatore che dovrebbe “intervenire in modo
pertinente, creativo, tempestivo ed informativo, nel racconto del testimone”.
Infatti “l’intervistatore è insieme archivista e storico, raccoglie e fissa la
conversazione, ma contemporaneamente la suscita, la sollecita, la orienta”3.
Data l'imprevedibilità dell'intervista è impossibile stabilire preventivamente
quali siano i risultati della stessa, che rappresenta quindi sempre una nuova
“esperienza di apprendimento”4.
La “storia di vita” è registrata tramite dispositivo audiovisivo
analogico o digitale e viene successivamente riversata su DVD al fine di
1
2
3
4
Il presente testo è già stato pubblicato in “ALMATOURISM” (vol. 1 n. 3 2011) con il
seguente titolo: “Oral History Archives: collection and preservation of life stories”.
Portelli A. (2006), Sulla diversità della storia orale, in C. Bermani (a cura di),
Introduzione alla storia orale. Storia, conservazione delle fonti e problemi di metodo,
Roma: Odradek, vol. I, p. 160.
Contini G., Martini A. (1993), Verba Manent: l’uso delle fonti orali per la storia
contemporanea, Roma: La Nuova Italia Scientifica, p. 14.
Portelli A. (2007), Storie Orali: racconto, immaginazione, dialogo, Roma: Donzelli, p.
79.
8
Catturare le storie
rendere meglio fruibile il documento audiovisivo e più facile la
conservazione all'interno del fondo di riferimento. Infatti, con l'elevato
sviluppo della tecnologia, unitamente all'abbassamento dei costi della stessa,
si sono moltiplicati i supporti tramite i quali è possibile effettuare la
registrazione. Dalle più comuni telecamere munite di Mini Dv, dvd e
memoria interna, alla webcam del PC, al telefonino. Per questo è
fondamentale fin dall'inizio rendere note, a chi dovrà effettuare le riprese,
delle linee guida che permettano di conservare al meglio sia il supporto
fisico che le informazioni in esso registrate1. Il trasferimento dei dati è
comunque eseguito senza manipolare in alcun modo le informazioni presenti
nel video originale. La videoregistrazione dell'intervista, benché possa
influenzare in vari modi l'esito del racconto, ha indubbi vantaggi che
riguardano l'intervistatore, l'intervistato e anche i ricercatori futuri. Infatti,
oltre ad “aumentare la fissazione di particolari essenziali dell'intervista”
fornisce una serie di altre informazioni molto importanti per lo studioso in
quanto “permette di contestualizzare l’immagine nel luogo dove l’intervista
si è svolta” e “consente di intervistare più persone contemporaneamente
identificando i parlanti”2. Inoltre, permettendo ai ricercatori futuri di
controllare l'uso che è stato fatto della testimonianza, se ne potrà garantire
l'utilizzo anche nel momento in cui i testimoni saranno ormai scomparsi e
non potranno più esercitare il controllo su di essa3. Questo con la
consapevolezza che “il rapporto dello storico con il passato è soggetto a
continui ripensamenti e aggiustamenti”4 poiché per lo storico “sarà quasi
impossibile essere 'obiettivo', in quanto l'interpretazione delle fonti è
condizionata dalle idee e dai metodi di elaborazione derivati dal suo
ambiente sociale di formazione e di appartenenza” 5.
Per contestualizzare l'ambito in cui è stata raccolta la testimonianza, la
videoregistrazione viene corredata da una “Scheda” nella quale sono
riportate informazioni inerenti l'intervistato e l'ambiente in cui è stata
realizzata. Oltre quindi ai dati anagrafici del testimone, sono indicati
“luogo”, “data e durata” del colloquio, la “lingua usata” e il “nome
dell'intervistatore”. Per dare informazioni più dettagliate riguardo al livello
di rapporto fra i soggetti che danno vita all'intervista, è annotata la “modalità
di presa di contatto con l'intervistato” e la presenza di “eventuali mediatori”.
In alcuni casi al colloquio partecipano anche altre persone, spesso dei
1
2
3
4
5
Cavallari P. (2008), Metodologie di acquisizione e conservazione delle fonti sonore di
storia orale, in C. Bermani e A. De Palma (a cura di), Fonti orali: istruzione per l’uso,
Venezia: Società di Mutuo Soccorso Ernesto De Martino, pp. 293-302.
Contini G., Martini A. (1993), Verba Manent, cit., pp. 23-27.
Ravesi G. B. (2007), I custodi delle voci. Archivi orali in Toscana: I Censimento,
Firenze: Centro stampa Regione Toscana, pp.11-14.
Sorcinelli P. (2009), Viaggio nella storia sociale, Milano: Bruno Mondadori, p. 6.
Ivi, p. 1
9
Catturare le storie
familiari, i figli o il coniuge, o anche dei conoscenti, che possono intervenire
in vario modo e che sono indicati nella scheda al fine di facilitare la
consultazione del documento sonoro. Altre informazioni necessarie sono la
“descrizione dell'ambiente nel quale si è svolta l'intervista” e le “osservazioni
sul rapporto con l'intervistato”.
Mentre raccontano la loro “storia di vita”, alcuni testimoni mostrano delle
fotografie dell'album di famiglia o appese alle pareti della stanza. Queste
possono aiutare il testimone in vario modo, guidando ad esempio il
racconto, focalizzando la sua memoria su alcuni momenti, eventi, persone
che altrimenti avrebbero fatto fatica a ricordare1. Le stesse immagini
fotografiche, oltre ed essere riprese con la videocamera, spesso sono
digitalizzate, salvate su CD, e fornite al Laboratorio unitamente al DVD con
la videoregistrazione.
L'intervistatore redige poi una trascrizione integrale di tutta la “storia
di vita”, il più possibile attinente all'originale, e indica i criteri usati per la
sua stesura nella “Scheda relativa all'intervista” sopra descritta. Insieme alla
trascrizione viene redatto anche un riassunto della testimonianza, che
permetterà allo studioso di individuare rapidamente quali sono gli argomenti
prevalenti nell'intervista. Sia la trascrizione che il riassunto sono conservati
nel Laboratorio di storia sociale in formato cartaceo e digitale. Va da sé che i
due scritti tratti dall'intervista “debbono essere considerati come degli ausili,
delle semplificazioni all'analisi che va comunque fatta sul documento
originale” 2.
La “Scheda relativa all'intervista”, il riassunto e la trascrizione,
insieme ad eventuali fotografie o materiale di altro genere (libri, articoli di
giornale, ecc.) fanno parte dell' “apparato critico-informativo” dell'intervista
e, insieme alla sua videoregistrazione, sono catalogati e collocati. Su ogni
DVD audiovisivo è indicato un codice identificativo progressivo, (DVD n.) e
l'anno accademico. Lo stesso codice viene attribuito al materiale cartaceo
(scheda relativa all'intervista, trascrizione e riassunto), ai CD con i files dello
stesso e d’altro materiale di corredo (Fotografie, libri ecc.). Le registrazioni
audiovisive sono poi inventariate in un file Excel dove vengono riportati gli
stessi dati presenti nella “Scheda relativa all'intervista” e il codice di
classificazione; in questo modo è immediata l'associazione delle varie
informazioni tratte dall’intervista alla fonte orale ad esse collegata. Le
stampe di queste tabelle vanno a costituire un unico catalogo cartaceo che
rende possibile la ricerca all'interno dell’archivio audiovisivo del
Laboratorio. Ad oggi infatti sono catalogate e conservate 479 interviste, per
un totale di circa 590 ore di registrazione audiovisiva.
1
2
Contini G., Martini A. (1993), Verba Manent, cit., p.25-27.
Ivi, p.130.
10
Catturare le storie
Al fine di rendere maggiormente fruibile la documentazione
conservata
nel
Laboratorio
di
storia
sociale
(www.laboratoriodistoriasociale.eu) è nato il progetto “Archivio delle voci”.
Nel sito web ad esso dedicato (www.archiviodellevoci.eu/home.html) si
possono visionare i diversi progetti di ricerca elaborati a partire dal 2005 dal
Laboratorio; all'interno di questi, sono consultabili le schede dei singoli
intervistati, un breve riassunto della loro “storia di vita”, eventuali fotografie
appartenenti ai relativi album di famiglia e alcuni minuti della registrazione
effettuata. All'interno del sito una maschera di ricerca rende più veloce e
mirata la consultazione dei vari fondi in base agli interessi tematici dello
studioso.
Nel sito del Laboratorio di storia sociale confluisce inoltre un altro
importante progetto, imaGo online (www.imago.rimini.unibo.it/default.htm),
inaugurato nel 2004 nel Polo Scientifico Didattico di Rimini che ha
l'obbiettivo di catalogare una parte delle raccolte fotografiche familiari
inedite. Le immagini raccolte e inserite nel suo data-base sono ad oggi
23.000 in continuo aggiornamento.
I diversi progetti di ricerca hanno dato vita anche a due libri, Lascerei
respirare le colline1 e Capitani d’impresa2, e a due dvd multimediali
Eravamo i peggio trattati3 e Memorie al femminile4. Lascerei respirare le
colline è un racconto collettivo della memoria di un paese della collina
marchigiana in cui 120 abitanti hanno parlato di se stessi e della loro vita.
Capitani d’impresa ricostruisce invece la vicenda esistenziale e
professionale di un rappresentativo gruppo di imprenditori attivi nello
sviluppo industriale che la provincia di Pesaro e Urbino ha conosciuto nel
secondo dopoguerra. Nel DVD Eravamo i peggio trattati un internato
militare racconta la sua esperienza nei campi di concentramento mentre
Memorie al femminile raccoglie quattordici racconti di donne nate tra il 1915
e il 1958.
L'intenso lavoro di pubblicizzazione e catalogazione che viene svolto
in fieri dal Laboratorio procede quindi parallelamente alla nascita di sempre
nuovi progetti.
1
Sorcinelli P. (2008), Lascerei respirare le colline. Storie di vita e di paese, Milano:
Bruno Mondadori.
2
Gorgolini L. e Costantini M. (a cura di), (2010), Capitani d’impresa, Milano: Bruno
Mondadori.
3
Gorgolini L. (2008), Eravamo i peggio trattati, [DVD video].
4
Calanca D. (2008), Memorie al femminile, [DVD video].
11
Catturare le storie
Racconti scelti
In questa sezione vengono riproposti una serie di brani relativi ad
alcuni racconti raccolti nel corso degli anni da parte degli studenti che hanno
partecipato al laboratorio didattico, “Catturare le storie” (insegnamento di
storia sociale, prof. Paolo Sorcinelli, Università di Bologna, Polo di Rimini,
Corso di laurea in culture e tecniche della moda).
Nel riproporre queste narrazioni, non si è seguito un rigoroso criterio
filologico, nel senso che a volte non si sono rispettati né la forma né il
procedere del racconto originale. Tuttavia, durante la trasposizione in lingua,
si è cercato in tutti i modi di non alterare la spontaneità discorsiva che ha
caratterizzato la quasi totalità delle interviste recuperate.
In questo senso, i brani qui presentati, sono il frutto di un’intenzionale
rivisitazione che ha spinto i curatori ad alcune, seppur contenute,
modificazioni lessicali e grammaticali dei passaggi che altrimenti sarebbero
risultati di difficile lettura, e comprensione, e a mettere insieme spezzoni di
uno stesso argomento che, in alcuni casi, nella narrazione dal vivo sono
collocati in contesti più o meno lontani fra loro.
Gorizia, 1940
12
Catturare le storie
Giovanna Tiengo1
“Arriva l’alluvione”
Mi chiamo Giovanna Tiengo, sono nata ad Adria in provincia di Rovigo il 5
agosto 1940. Provengo da una famiglia di sette fratelli, numerosa; dunque il
papà la mamma e i sette fratelli, l'età differente è un anno e mezzo, due anni,
tre anni.
Il papà avendo ereditato da suo nonno paterno undici ettari di terra, faceva il
coltivatore diretto, invece la mamma era casalinga anche perché avendo da
allevare sette figli ne aveva già abbastanza.
Dove abitavamo in campagna nella casa che era abbastanza grande, attorno
avevamo l'orto, avevamo un frutteto, avevamo conigli, anatre, maiali,
tacchini... e poi il terreno che mio papà gestiva era soprattutto barbabietole
ad agosto e grano a giugno.
Dunque la nostra famiglia, noi fratelli pur essendo in sette c'era un
buonissimo rapporto, perché i nostri genitori, specialmente il papà, anche la
mamma, erano molto vicino a noi figli. Siamo venuti su con un'educazione
che la gelosia fra noi non c'è mai stata.
Mio papà era molto tradizionalista perché proveniva anche lui da una
famiglia molto numerosa, perché il nonno paterno si era sposato due volte:
cinque figli dalla prima moglie e altri cinque figli dalla seconda. La mamma
invece aveva solo un fratello.
Nella casa dove abitavamo in campagna purtroppo non c'era la luce, si
doveva avere sempre o un lume a petrolio o la candela. Però noi non è che
sentivamo il freddo, noi stavamo bene, eravamo abituati. Essendo a due
chilometri da Adria, durante il periodo invernale della scuola, ecco lì ci
dovevamo staccare dai nostri genitori per andare a vivere, io la sorella,
quella più vecchia di me, dai nonni materni; il mio fratello invece andava dai
nonni paterni. Comunque ricordo dei momenti belli trascorsi con la nonna
materna a cui eravamo, io e mia sorella, molto legati. Che per farci star lì il
posto, c'era lo zio, avevano una camera dove si dormiva, c'era il letto
matrimoniale, il letto dello zio e c'era un armadio sempre grande e io e mia
sorella Sofia dormivamo in quest'armadio. Per noi era una felicità dentro
quest'armadio come se fossimo nei vestiti. E al sabato e la domenica durante
le feste ci mancavano molto i nostri genitori però tutti i giorni papà e
mamma ci venivano a trovare anche perché là in campagna, non è che
c'erano negozi di genere alimentari, dovevano per forza venire nel paese,
insomma diciamo ad Adria, in centro. E lì siamo arrivati, io frequentavo lì
vicino, ho fatto le elementari. Poi dopo ad Adria era più che altro come una
cittadina. Dunque i nostri nonni ed anche i miei genitori erano molto
religiosi ma più che altro praticanti una cosa giusta ma molto religiosa era la
1
Intervista realizzata da Francesca Manzoni, Argenta, 20 dicembre 2010.
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Catturare le storie
nonna materna che lì, obbligava a me e la Sofia tutti i santi giorni ad andare
alla messa; lì insomma ci diventava un po' pesante però per accontentarla ci
andavamo.
Eravamo ad Adria per la scuola, io frequentavo la prima avviamento, mia
sorella frequentava la seconda media, mio fratello Giorgio stava ultimando la
terza media, quando arriva l'alluvione: noi dopo ci avevano mandato a casa
da scuola e siccome eravamo dalla nonna materna siamo andati da lei. I
nostri genitori nel mentre, perché l'acqua arrivava, aveva rotto ad
Occhiobello, mio papà e la mamma assieme agli altri mie fratelli lì con una
barca avevano cominciato ad andare via perché l'acqua stava salendo. Noi
essendo lì ad Adria, non volevamo andare via, metterci in salvo come
dicevano perché dopo c'era la protezione civile e poi c'erano i militari e poi
c'era tutto un fuggi fuggi; la gente cercava di portare via un po' di roba
perché eravamo terrorizzati. Io e mia sorella Sofia, a noi sembrava una cosa
talmente strana che noi l'avevamo presa nel ridere, si rideva invece non era
proprio il caso di ridere. Allora per metterci in salvo siamo andati dalla
nonna paterna che lei abitava, aveva una casa che era a tre piani. Poi lo zio ci
ha portato là e ha detto: “Adesso staremo a vedere”. Intanto ci eravamo
messi in comunicazione coi miei genitori. Papà, con la mamma e con gli altri
quattro figli, con una barca si sono messi in salvo poi sull'argine dove ancora
non era scoppiata l'alluvione, con delle bestie si son messi in cammino per
sfollare verso Padova. Una sorella di mio padre abitava a Mestre, una abitava
a Venezia e loro avevano gentilmente detto al papà: “guarda che i tuoi figli li
ospitiamo noi, adesso tu cerca di metterti in salvo con gli altri quattro e
Giorgio lo prendo io” , che sarebbe andato a Mestre, la Sofia a Venezia da
una zia e io, siccome l'altra zia abitava ad Adria, presso una famiglia molto
facoltosa che abitava proprio lì nel Canal Grande a Venezia, mi avrebbero
preso loro. Io poi non me la son sentita, perché io ero molto legata alla
famiglia, poi io non volevo andar via da casa mia, se era una zia ci sarei
anche andata, però da queste persone non le conoscevo, insomma io non ci
volevo andare e mi ero nascosta. Ero con la nonna, ma alla fine poi son
venuti quelli della protezione civile, i soldati e han detto: “qui bisogna venir
via perché l'acqua sta salendo”. Allora io la Sofia e mia nonna, che intanto si
era procurata un sacco dove aveva messo due galline, aveva messo delle
uova, chissà poveretta con queste galline là dentro che starnazzavano, allora
dopo ci siamo messe in viaggio; dovevamo andare a Porto Tolle che là c'era
la zia Bettina, che lui lo zio Giacomo era direttore dello zuccherificio di
Porto Tolle. Solo che essendo molto agitata la nonna, non essendo abituata
andare, a viaggiare, si è scordata che dovevamo andare a Porto Tolle.
Insomma ad un certo momento non sapevamo più dove andare, allora con
questo barcone, non dico la desolazione, si vedevano delle mucche morte, si
vedevano dei gatti, si vedevano le persone un po' anziane che piangevano,
che non volevano lasciare la loro casa; allora lì io e la Sofia ci guardavamo e
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Catturare le storie
io sinceramente ricordo che non mi rendevo conto di questa situazione così
brutta e grave, dicevo tra me e me prima o poi si risolverà, avevo solo in
mente i miei genitori e il pensiero di non poter andare da questi signori.
Siamo arrivati a Goro, la nostra meta era finita, adesso lì dovevamo dire a
queste jeep con questi militari di portarci a destinazione a Porto Tolle, solo
che a noi non era venuto in mente Porto Tolle chiaramente, la nonna Albina
non faceva altro che piangere disperata. Allora dalla mattina alle nove e
mezza fino alla sera che erano circa le 18,30 e in novembre era un buio,
facevamo la spola Goro, Gorino andavamo a Goro poi si ritornava indietro
Gorino, poi ci prendevano su degli altri e ci dicevano: “ma dove dovete
andare?”, noi eravamo come se fossimo delle povere dementi, la nonna ci
sgridava, ci diceva: “lo dovete sapere voi!”, sempre con questo sacco con
due galline dentro e non so cosa avesse dentro, forse aveva un po' di
biancheria. Ad un certo momento, un militare, ha detto: “care ragazze,
bambine...” e perché io avevo 11 anni, mia sorella ne aveva 12 e mezzo, non
è che fossimo molto adulte; dice: “adesso qui vi mettete, .al primo vigile,
cercate di spiegarvi dove dovete andare”. Allora poi dopo non ci siamo
messe più a ridere, allora ci siamo messi a piangere, che la nonna ci
sgridava: “Adesso piangete, adesso piangete, chissà dove andremo a finire!”.
Allora si ferma un signore con la macchina, allora la nonna in quel momento
riesce a dire: “Porto Tolle, zuccherificio ho una figlia là”. Questo signore che
lavorava proprio lì, ci dice: “ma io conosco bene Di Lorenzo”, dice, “io
lavoro nello zuccherificio!” e così siamo saliti con questo signore e siamo
andati a destinazione a Porto Tolle, alle sette e mezza, alle 19,30, di sera.
Nel mentre, mio papà e la mamma si erano interessati presso le zie se
eravamo arrivate a destinazione, specialmente la Sofia dalla zia Silvia,
Giorgio era già a destinazione e io da questi signori Zorzi. Niente, non
avevan visto nessuno, per radio ci avevano dati dispersi. Solo il giorno dopo
lo zio è riuscito a comunicare con i nostri genitori dicendo: “tutto bene sono
qui”. “E adesso”, ha detto papà, “cosa facciamo?”. Allora la Sofia è andata
dalla zia Silvia a Venezia, io invece non ci sono voluta andare. Nel mentre il
papà era sfollato ad Ania, che era vicino a Padova, con le sue belle bestie
perché prudente, aveva detto: “ce le portiamo dietro!”, perché bisognava
dopo anche mangiare, perché naturalmente la casa era andata tutta sotto
acqua, perso tutto, dopo col tempo l'acqua si sarebbe riassorbita, ma cosa
avrebbe trovato? tutta malta!. Allora, gli zii mi hanno portato ad Ania e così
ho raggiunto mia mamma, gli altri miei fratelli e il papà e lì abbiamo
incominciato ad andare alla Caritas per prendere intanto gli indumenti,
coperte. Avevamo perso tutto. Come ho detto coperte vestiti perché eravamo
in cinque, avevamo perso tutto; lì son sincera, quello che abbiamo trovato, a
parte le coperte che erano coperte da militare, però come indumenti, io non
ero tanto d'accordo perché dicevo ma da dove vengono questi vestiti, se poi
prendo i pidocchi se; però mia mamma mi diceva: “insomma mica vuoi
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Catturare le storie
andar nuda, dopo la laveremo!”, allora mi sono adattata, però non tanto
volentieri. E lì alla Caritas c'era poi un centro di suore perché naturalmente lì
siamo stati un anno ad Ania, da questa signora. Lì a scuola non ci si poteva
andare e da queste suore la mamma ci mandava perché così eravamo
impegnate a ricamare, ci insegnavano a lavorare ai ferri, poi si facevano
delle commedie, insomma ci tenevano impegnati. Io non ci andavo tanto
volentieri perché non ero molto comunicativa, poi mi mancava molto la mia
sorella, però ci si doveva andare, mica si doveva stare tutto il giorno in ozio,
anche perché la casa dove abitavamo da questa signora era piccola, lei era
una signora vedova e dunque la mamma riusciva lei a riordinare la casa e
dare una mano e lì intanto le giornate passavano. Il papà mi ricordo che era
andato ad Adria per vedere come era messa la sua casa ma ancora non si
risolveva niente. Intanto aveva venduto il bestiame perché dovevamo
mangiare, perché questa signora poverina non è che fosse benestante,
insomma eravamo cinque figli, più papà e la mamma.
In seguito, io e l'Anna siamo partite e siamo andati su in Trentino, in questa
colonia che c’era a Onigo di Peterobba. Io e mia sorella Anna eravamo
assieme, nella cameretta assieme, eran cameroni poi. Lì è passato in fretta, io
ho ricominciato a fare la prima avviamento e la mia sorella credo facesse la
terza elementare. I nostri genitori non potevano venire spesso, a distanza di
due o tre mesi veniva la mamma e il papà, perché insomma era abbastanza
costoso in treno venir su. E siamo arrivati a giugno, finalmente è finita anche
la colonia. Nel mentre mio papà, grazie all’aiuto dello zio materno, aveva
trovato un lavoro come impiegato, come agente agricolo, al Delta Padano,
l'ente Delta Padano che era ad Argenta in provincia di Ferrara. Sempre con
l'aiuto dei nonni materni, siamo andati ad abitare in una casa, proprio nel
centro di Adria, una casa per poi vedere se il papà si sarebbe spostato come
impiego o se doveva rimanere là. E lì in questa casa, dopo io ho ripreso
appunto l'avviamento. E lì ci siamo stati, in quella casa lì circa un anno, il
tempo di finire le scuole, un anno e mezzo. Poi mio papà in campagna non
poteva più fare quello che faceva prima, allora quegl’undici ettari di terra li
aveva dati in affitto a un signore, a un coltivatore perché lui non poteva più,
la casa era persa, non poteva più gestire e poi effettivamente il posto che ci
aveva trovato lo zio era molto buono insomma. E però da Argenta ad Adria
c'erano un bel po' di chilometri allora il papà cosa faceva, andava via il
lunedì, dormiva in una pensione e tornava il venerdì sera. Lì il papà si era
visto che lui voleva, come giusto, perché noi eravamo una famiglia molto
unita, molto unita, “io non ce la faccio!”, allora la mamma ha detto: “va bene
verremo via da Adria a malincuore e verremo ad abitare ad Argenta”. Così il
papà si è messo in giro per cercare una casa adatta ai sette figli e più loro
due.
Quando siamo arrivati ad Argenta, dunque io avevo 13 anni, la Sofia ne
aveva 15, quasi; mi ricordo che era il mese di ottobre perché dovevamo
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Catturare le storie
iniziare ancora la scuola, sennò perdevamo sempre queste benedette scuole.
Allora siamo arrivati. Come siamo arrivati ad Argenta siamo scesi dalla
stazione, ci siamo guardati intorno, abbiam detto: “ma dove siamo arrivati?”.
La stazione, la strada principale della stazione era tutta un rudere perché lì
durante la guerra erano stati bombardati. Argenta non era ancora stata
ricostruita. La casa però era abbastanza confortevole perché era in una bella
posizione solo che non c'era neanche l'acqua potabile, avevamo l'acqua del
pozzo, anche lì abbiam detto: “ma dove siamo venuti a finire?”. Poi dopo per
andar a prender l'acqua dovevamo fare della strada, dunque, perciò essendo
così una famiglia numerosa, eravamo sempre avanti e indietro con questi
secchi d'acqua. Però l'armonia c'era sempre, si doveva andare avanti.
Ad Argenta c'erano solo le scuole medie e basta, non c'erano scuole,
geometra, non c'erano ragioneria, scuole quelle che si andava ad imparare un
lavoro, scuole industriali e così se volevo finire la mia avviamento dovevo
andare a Conselice. Lì poi era un po' complicato, perché dovevo andare in
treno, oltre che costoso, e bisognava vedere perchè i miei fratelli più grandi
studiavano ma a spese tutte degli zii, dunque noi bisognava vedere anche un
attimino. Allora lì io, intanto avevo messo insieme 13 anni e mezzo 14, io ho
detto: “io mamma a scuola non ci vado più, io ti do una mano in casa, ti
aiuto poi magari faccio dei corsi, mi interesso...”, perché lì anche ad Argenta,
dunque, i veneti erano un po' derisi, ci prendevano un po’ in giro per la
nostra parlata. Insomma non ci siamo trovati bene, abbiamo faticato molto,
per fortuna che avevamo i nostri genitori, la mamma specialmente che ci
aiutava. Nostro fratello lui era anche lui un tipo molto socievole come il papà
e aveva messo insieme una bella compagnia di ragazzi. Dopo, piano piano
con le amiche di scuola di Sofia, io frequentavo la casa della giovane perché
ho fatto la scuola di taglio e cucito per tre/quattro mesi, abbiamo
incominciato ad avere delle amicizie. Il sabato e la domenica mio fratello
riuniva i suoi amici, noi le nostre amiche e facevamo i pinzini, ci si trovava e
allora si incominciava a ballare e cominciavamo ad abituarci a quello che era
il clima argentano, di Argenta.
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Catturare le storie
Chiara Chiaradia1
“All’interno del collegio si fantasticava molto”
Sono nata il 24 settembre del 1971 a Cropalati, un paese della provincia di
Cosenza. Cropalati è un paese prettamente agricolo. Si trova ai piedi della
Sila ed è a 20 minuti dal mare, quindi come posizione geografica diciamo è
molto bella. Il nostro paese è perlopiù abitato da persone anziane, poiché i
ragazzi per poter conseguire gli studi devono necessariamente spostarsi nei
paesi limitrofi o, per l’università, spostarsi nella provincia più grande.
Sono laureata in sociologia all’università degli studi di Urbino. Ho
conseguito il diploma di Istituto Magistrale presso un istituto gestito
dall’Ordine delle Suore Basiliane in un paese dal nome San Giorgio
Albanese, sempre della provincia di Cosenza.
La scelta appunto dei miei genitori, mandarmi in collegio, è stata innanzi
tutto legata alla posizione del nostro paese poiché è molto disagiata nel senso
che non vi è presente sul territorio nessuna struttura per le scuole superiori e
quindi necessariamente mia mamma e mio padre hanno ritenuto opportuno
evitarmi il disagio del viaggiare. C’era la struttura del collegio che distava
dal nostro paese circa 40 km e quindi hanno preso questa decisione ma la
decisione diciamo che è stata legata anche da una questione caratteriale mia
nel senso che ero da ragazzina, da adolescente, ero molto ribelle, e quindi
avendo mio padre che viveva in Germania per questioni di lavoro e mia
mamma era da sola nel gestire la famiglia, per evitare problemi e
preoccupazioni inutili hanno ritenuto opportuno iscrivermi al collegio.
Quando mi hanno comunicato la loro decisione, è stato un colpo al cuore: in
quel periodo noi, io insieme alle mie compagne delle scuole medie stavamo
decidendo di iscriverci all’istituto superiore a Rossano, il paese vicino
Cropalati. Naturalmente incominciavamo a progettare, ad organizzare la
nostra vita in un certo senso e mentre le altre hanno proseguito il progetto
organizzato insieme io ho dovuto rinunciare.
All’interno del collegio, la giornata tipo era praticamente uguale giorno per
giorno, settimana per settimana, mese per mese, anno per anno perché
comunque era una giornata dove c’erano delle regole alle quali non si poteva
assolutamente trasgredire. La mattina la sveglia suonava come una
campanella alle 6 e mezza dove ti sentivi nel sonno la voce della vigilante
che veniva a svegliarti perché ti dovevi alzare e ti dovevi recare
necessariamente in bagno per poterti lavare. Alle ore 7 c’era la seconda
campanella che ti indicava che era pronta la colazione, quindi dovevi
scendere in refettorio. Poi c’era la terza campanella che ti diceva che era
l’ora per entrare in cappella per fare le preghiere della mattina. Finita la
preghiera c’era una quarta campanella che segnalava l’ingresso in classe. Li
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Intervista realizzata da Marianna Chiaradia, Bologna, 20 dicembre 2010.
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Catturare le storie
trovavamo i professori ad attenderci ed iniziava la nostra giornata scolastica.
La nostra giornata scolastica era fatta come un orario delle normali scuole
pubbliche, facevi le tue ore fino alle 10 e mezza, c’era l’intervallo e dopo
iniziavi nuovamente a lavorare. All’una meno dieci suonava l’altra
campanella che indicava che ci dovevamo preparare per il pranzo
naturalmente le ragazze che erano addette ad apparecchiare si accingevano
ad andare in refettorio ad apparecchiare per tutte quante, all’una suonava
l’altra campanella dove ci indicava che si doveva scendere nel refettorio per
poter pranzare. Durante il pranzo naturalmente la regola che vigeva era
quella del silenzio assoluto, non si poteva assolutamente parlare perché non
era da galateo parlare con la bocca piena e non si poteva assolutamente
comunicare con la compagna affianco e nel momento in cui questo accadeva
perché tra ragazze di 13/14 anni succedono anche di queste cose perché è
naturale, c’era la punizione. Dopo aver finito, il gruppo che era addetto, i
camerieri li chiamavamo noi, dovevano appunto sistemare il refettorio e
avevamo circa mezz’ora di ricreazione. Dopo di che c’era la campanella che
ci diceva praticamente che era l’ora di andare in aula studio, li iniziava il
nostro studio pomeridiano per prepararci alle interrogazioni del giorno. Lo
studio durava circa 2 ore e mezza, c’era una campanella poi verso le 17,
l’altra ennesima campanella, che indicava la merenda, quindi si andava
nuovamente in refettorio a far merenda; avevamo mezz’ora di pausa dopo di
che si rientrava nuovamente in aula studio. Si terminava il lavoro che si
aveva da fare, si ripeteva e quindi dopo di che c’era un’altra mezz’oretta di
intervallo per poi andare in cappella e recitare i vespri nell’attesa che le
nostre compagne e i cosiddetti camerieri preparavo il refettorio, si cenava e
dopo aver cenato si stava un pochino a chiacchierare nel corridoio del piano
terra dopo di che alle nove suonava la campanella per andare in bagno e
quindi per andare nel dormitorio. La nostra giornata era articolata in questa
maniera, fatta di campanelle, di orari e di regole da rispettare.
All´interno del collegio, l´unica figura maschile che si vedeva era quella del
parroco che ci insegnava appunto religione ed era l´unica persona che io
vedevo all´interno di questo collegio. Una figura diciamo tra virgolette
paterna, ma di paterno non c´era assolutamente nulla, perché comunque
l´aspetto paterno lo puoi collocare con una persona che si dimostra anche
con un atteggiamento paterno verso di te, e non con questa figura che era
comunque una persona rigida in tutto e per tutto.
Per quel che riguarda i “i primi amori”, all’interno del collegio si
fantasticava molto, vedevi i ragazzini dell’altro sesso solo la domenica
quando andavi in chiesa, l´unico occasione in cui noi uscivamo dal collegio.
Io lí mi ero innamorata di un ragazzino, avevo preso una bella cotta per un
ragazzino e diciamo che era un amore platonico sia da parte sua che da parte
da parte mia. Aspettavo la domenica per poterlo vedere nel tragitto dal
collegio alla chiesa e dalla chiesa al collegio, l´unica cosa che magari si
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Catturare le storie
poteva comunicare perché comunque cellulari non ce n´erano, internet non
ce n´era, quindi non si poteva in nessun modo comunicare, era soltanto il
darsi un´occhiata particolare, farsi qualche gesto nella speranza che nessuno
ti vedesse. Una volta, durante il tragitto dal collegio alla chiesa, gli ho dato il
fogliettino dove dicevo che la settimana prossima, sarei andata a casa con la
corriera e non con mio fratello ed era lí che davo un appuntamento in un
paesino vicino. Sfortunatamente dietro di me c´era la Madre Superiora che è
riuscita a prendere questo biglietto e a leggerlo davanti a tutti. Quindi le
lascio immaginare l´umiliazione, le mortificazioni che comunque ho subito
ma anche la rabbia perché comunque era stata invasa una parte importante
della mia vita e quindi sono stata davvero male in quell´occasione.
Tra le mura dell’istituto, i rapporti erano particolarmente intensi, perché non
sono le amicizie tipo l´amica che incontri a scuola, poi la lasci all´uscita
della scuola, poi magari al pomeriggio andate a mangiare un gelato insieme
oppure si va al cinema insieme. Non erano questi i rapporti che si venivano a
creare all´interno di un collegio; il rapporto che noi vivevamo era un
rapporto fatto di una complicità assoluta nel senso che noi vivevamo dalla
mattina fino alla sera che andavamo a letto, vivevamo sempre insieme,
condividevamo tutto, qualsiasi cosa, momenti belli e momenti brutti, era
un´amicizia vissuta a 360° in tutti i sensi; conoscevamo tutto anche
nell´intimità, non c´era più la vergogna di andare in bagno insieme, oppure
di dormire nello stesso letto, oppure di condividere anche un qualsiasi
desiderio che magari una ragazza di 13/14 anni poteva.
Avevo un´amica del cuore. Ce l´ho, ce l´ho tutt´ora questa amica ed era
Isabella, una ragazza originaria di un paesino vicino il mio. Mi ricordo il
primo giorno in cui sono arrivata con mia mamma e stavo nell´androne del
collegio e stavo lí e stavo piangendo perché mia mamma stava andando via,
ricordo questa ragazza dai capelli biondi lunghissimi, é la cosa che più mi ha
colpito, che era appena arrivata con i genitori, lei era arrivata con il padre e
con la mamma, io purtroppo ero solo con mia mamma perché mio padre era
in Germania e ricordo che lei mi guardò in quel momento, si avvicinò e mi
disse: “Non ti preoccupare vedrai che passeranno subito 4 anni”.
All’interno del collegio, l’educazione era molto rigida, fatta di regole,
assolutamente nessuna trasgressione era possibile, anche una semplice
sigaretta che si fumava di nascosto era una grande e forte trasgressione. Lí
bisognava vivere in maniera dignitosa loro dicevano, secondo un rispetto di
Dio e delle regole della vita, perché da lí si doveva uscire come donne
formate in tutto e per tutto.
Le difficoltà maggiori sono state per l’appunto nell´accettare le regole, la
difficoltà di non avere degli spazi miei, la difficoltà di non poter telefonare
ogni qual volta avevo necessità e voglia di ascoltare la voce di mia mamma,
le difficoltà di andare di dormire anche quando non avevo voglia di dormire,
la difficoltà di alzarmi anche quando non volevo alzarmi, o come quando
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Catturare le storie
durante le festività si andava a casa naturalmente, sapevamo che uscivamo
da quell´ambiente e quindi volevamo anche sistemarci, truccarci, farci anche
un semplice shampoo, ma non era possibile perché lo shampoo si faceva
soltanto al sabato e quindi se capitava la festività del mercoledì e che io
dovevo andare a casa il mercoledì io se volevo fare lo shampoo lo dovevo
fare di nascosto e quindi trasgredire.
Mi sono scontrata molte volte con le regole dell’istituto. Mi ricordo che una
volta mi arrivò una lettera dal mio migliore amico di Cropalati; questa lettera
prima che arrivasse a me era stata aperta, era stato letto il contenuto e
richiusa senza preoccuparsi di metterci la colla. Quando mi sono resa conto
che praticamente questa lettera era stata aperta, ho chiesto alla Madre
Superiora chi avesse potuto fare una cosa del genere visto che la lettera era
intestata a me e lei mi ha risposto, la Madre Superiora: “Tu non lo sai che
quello che arriva in collegio deve essere da noi controllato? Perché non
possiamo permettere che si venga letto qualcosa se prima la Madre Superiora
non ne è al corrente”. Allora io quella cosa sinceramente me la sono legata al
dito perché mi ha dato particolarmente fastidio, perché in quella lettera non
c´era niente, non c´erano segreti assurdi, non c´erano delle cose che
compromettevano qualcuno, era soltanto una lettera scritta di confidenze tra
me e il mio migliore amico. Allora mi sono sentita toccata dentro e
soprattutto toccata la mia privacy, come se un ladro entra in casa tua e ti
tocca le tue cose, allora quella cosa me la sono legata al dito. Mi ricordo che
un giorno stavo male, un pomeriggio in sala studio, e chiedo all´assistente
che ci vigilava in quel momento che volevo andare in dormitorio a
riposarmi, lei ha chiamato la suora gli ha spiegato la situazione, la suora mi
ha accompagnato su nel dormitorio; il dormitorio praticamente era adiacente
proprio alla clausura dove le suore dormivano e stavano, allora mi ricordo
che dopo un´oretta mi sono ripresa e volevo scendere giú per raggiungere le
mie. Passando per scendere le scale, c´era la clausura e lí praticamente ho
visto del fumo e mi sono preoccupata, pensavo che fosse scoppiato un
incendio, ad un certo punto entro nella clausura, era vietatissimo entrare
nella clausura, entro nella clausura e vedo la Madre Superiora che si era tolta
il velo, era vicino ad una finestra e stava fumando una sigaretta. Mi ricordo
la sua faccia, la sua espressione, la sua paura ed è lí che io ho capito di avere
fatto centro, che adesso, da quel momento, tante cose all´interno del collegio
almeno per me sarebbero cambiate ed effettivamente è stato così perché da
allora con tacito assenso di entrambe: io riuscivo a fare le mie telefonate ai
miei amici a Cropalati, la mia posta non veniva toccata più, se mi trovava in
bagno che fumavo io non pagavo più le 10 mila lire, ma non solo io non le
pagavo più, neanche le mie amiche, il mio gruppo di amiche che lei
conosceva bene ed è lì.
Tra gli adulti, il mio punto di riferimento era la mia insegnante di educazione
tecnica, la professoressa Oranges. Me la ricordo benissimo, lei era esterna,
21
Catturare le storie
non faceva parte delle insegnanti dell´ordine delle Basiliane, veniva dal
paese vicino a San Giorgio, veniva solo nelle giornate del suo orario, ed era
lei alla quale io spesso e volentieri mi rivolgevo per chiedergli consiglio, per
parlargli delle mie cose. Lei aveva un carattere simile al mio, era ribelle
anche il suo. In molte occasioni anche durante le lezioni capiva che
comunque eravamo ragazze e che avevamo bisogno di scioglierci e di non
avere gli schemi fissi che in un certo senso ci stavano condizionando e ci
stavano formando la nostra vita.
L'evento che mi ha più segnata e che ancora oggi ricordo con tanta tristezza e
malinconia è stato quello legato ad una radiolina. Una radiolina che è un
semplice oggetto, per chiunque potrebbe rappresentare un semplice oggetto,
ma per me in quel momento rappresentava un cosa molto importante. Mio
fratello in quel periodo era appena tornato dalla Germania e per regalo mi
portò questa radiolina e un paio di cuffiette per poter ascoltare la musica. In
febbraio, mi ricordo, allora trasmettevano alla tv il festival di Sanremo. Noi
il festival di Sanremo non potevamo assolutamente vederlo perché veniva
trasmesso dopo le nove e mezza e noi già a quell'ora eravamo a dormire. E
allora io quella sera non vedevo l'ora di andare a letto di mettermi sotto il
piumone per potermi ascoltare la radio, e quindi ascoltare le canzoni. Mi
ricordo che quella sera sfortunatamente due nostre compagne litigarono tra
di loro durante la notte e l'assistente che allora vigilava nel dormitorio
pensando che fossi io a litigare incominciò a chiamarmi per cognome. Io
naturalmente non sentivo la sua voce perché ero immersa nelle canzoni che
allora stavano trasmettendo e lei dopo due o tre volte che chiamò si rese
conto che non rispondevo, si è alzata dal letto e venendo verso il mio letto si
accorse che stavo ascoltando della musica. Prese violentemente la radiolina,
me la strappò, strappò le cuffie dalle orecchie e in quel gesto che lei fece la
radiolina cadde per terra e si ruppe. Naturalmente io ero disperata, ero
disperata non solo perché aveva rotto la radiolina, ma anche perché per me,
quel semplice oggetto, rappresentava qualcosa che mi permetteva di
ascoltare la musica nonostante i loro divieti. E lei senza curarsi del mio
pianto e della mia disperazione tornò a letto tranquillamente, spense la luce e
continuò a dormire. Quello ogni tanto, anzi spesso ci penso, ci penso perchè
comunque mi ha segnata profondamente.
Ancora oggi, sono in contatto con le mie amiche di collegio. Ancora oggi ci
sentiamo, ma molte di queste amicizie io oggi le ho ritrovate con internet,
con il famoso “Facebook”, mettendo, digitando nome e cognome ci siamo
quasi tutte ritrovate perché in ognuno di noi è rimasto comunque il ricordo, il
ricordo di questo affetto e di questo legame forte e profondo di questi 4 anni.
22
Catturare le storie
Lorella Messina1
“Così sono nate le borgate di Roma”
Sono nata nel 1961 da due genitori che erano figli di emigranti. Sono nata a
Roma. Mio padre veniva dalla Sicilia, da un piccolo paese dell’entroterra
siciliano e i suoi genitori erano emigrati a Roma per motivi di lavoro perché
nel dopoguerra purtroppo nei paesi del sud lavoro per i contadini non ce ne
era ed emigrare era l’unico modo per sopravvivere ed assicurare un futuro
alla propria famiglia e i propri figli. Mia madre è di origini abruzzesi e anche
lei è venuta a Roma negli anni cinquanta con i suoi genitori e tutti i suoi
fratelli e loro si sono appunto conosciuti a Roma. Vivevamo in una borgata
della periferia, quelle borgate che sono nate appunto a Roma nel dopoguerra
per raccogliere tutto quella massa di immigranti che venivano in cerca di
fortuna nella capitale. La borgata, Fidene, dove ero io, come tutte le altre, era
uno di quei luoghi poveri, privi di strutture, servizi, dove gli abitanti si
costruivano la casa con le loro mani; si aiutavano l’uno con l’altro: magari
lavoravano tutta la settimana poi la domenica ci si chiamava fra famiglie di
vicinato e si andava ad aiutare il vicino, a dare una mano per costruire la casa
che magari era soltanto una stanza dove si abitava e intanto si ampliava
intorno tutto il resto, appunto per fare spazio e per poi poter costruire
un’abitazione decente per tutta la famiglia. Così sono nate le borgate di
Roma. All’inizio il degrado era grande perché non c’erano servizi, non
c’erano strade. Io ricordo quando ancora non c’era neanche l’asfalto, né
illuminazione pubblica. Non c’erano grandi mezzi di comunicazione,
nemmeno gli autobus. Poi pian piano con gli anni le cose sono migliorate.
Ricordo quando andavo alle scuole elementari, non c’erano scuole vere:
erano edifici affittati dal comune in abitazioni private e arrangiate alla meno
peggio, dove si stava dentro a studiare in condizioni molto precarie, non
c’erano palestre, non c’era possibilità di fare attività, non c’era mensa.
Semplicemente si cercava di fare lezione. Ricordo che durante un anno
scolastico avevamo una stanza che era molto grande ma siccome c’erano
molti bambini (perché al contrario di adesso noi eravamo tanti, i genitori i
figli ancora ne facevano parecchi), con le borgate che si affollavano sempre
di più, non c’era spazio per tutti quanti. Quindi questo stanzone così grande
venne diviso a metà da una parete che era di legno compensato, credo o mi
ricordo che fosse, per questo se nell’altra aula a fianco c’era un po’ di
confusione o un insegnante che parlava a voce alta sentivamo due lezioni
contemporaneamente e devo dire che forse era anche divertente, ma certo
non era proprio il massimo della possibilità di apprendere a scuola. Però
erano anni spensierati perché le borgate non erano quelle di adesso; intorno
1
Intervista realizzata da Teresa Amato, Civitella del Tronto, 16 gennaio 2011.
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Catturare le storie
c’era sempre tanta campagna per cui quando poi si usciva da scuola e si
andava a giocare lì fuori, si stava tutti insieme e si andava in mezzo ai prati a
correre, a giocare.
Non avevamo biciclette o monopattini o altre cose, però ci divertivamo
davvero tanto e ci bastava davvero poco; c’era un po’ di televisione, la tv dei
ragazzi un’ora, due ore al giorno che si guardavano, poi per il resto la
televisione era al massimo Carosello la sera prima di andare a dormire; non
c’erano tante ore da passare davanti alla televisione anche perché non c’era
tanto tanto da vedere. Questo però diciamo che ci aiutava tantissimo nella
creatività per cui i giochi ce li inventavamo.
E quindi ho avuto un’infanzia molto felice, ricordo veramente con gioia la
mia infanzia nonostante tante privazioni e poche cose che avevamo. Poi
ricordo con grande gioia che finalmente in seconda media fu completata la
costruzione del nuovo plesso scolastico. Finalmente avevamo una scuola
vera ed era grande, era bella, c’erano dentro tutte le attrezzature, i servizi,
una palestra grande dove poter fare ginnastica, un campo all’aperto anche,
dove stare fuori a giocare, fare ricreazione, fare sport all’aperto e c’erano
aule per fare attività ricreative anche in orari extrascolastici. Quindi, la
mattina si faceva scuola, poi il pomeriggio si rimaneva a mangiare tutti
quanti insieme e poi si facevano delle attività extra-curriculari. Mi ricordo
che in quel periodo arrivarono tantissimi insegnanti; furono assunti tanti
giovani neo-laureati che appunto dovevano stare con noi nei pomeriggi a fare
queste nuove attività nei laboratori ed erano divertentissimi perché facevamo
laboratorio di ceramica, il laboratorio di animazione, tante attività diverse
nuove; sport diversi come la pallavolo, tanti tipi di attività che a noi
divertivano tantissimo. D’inverno in borgata, se non potevi uscire perché
faceva freddo, dovevi stare dentro casa, invece adesso stavamo a scuola
insieme a fare un sacco di cose divertenti e creative con questi giovani
insegnanti che avevano voglia come noi di fare cose nuove, di crescere con
noi perché erano anche loro pieni di entusiasmo e quindi fu un grande
cambiamento per noi, di crescita, e lo ricordo ancora con grande gioia.
Mio padre lavorava come operaio nei cantieri edili; all’epoca a Roma il
lavoro che più si trovava sicuramente era quello nell’edilizia: Roma si stava
sviluppando e quindi c’era lavoro per tutti all’epoca nel settore delle
costruzioni. Mia madre era casalinga. Però mi ricordo i primi anni in realtà,
per guadagnare qualcosa in più e per riuscire a costruire la casa, siamo andati
a vivere in una palazzina dove mia madre faceva la portiera mentre mio
padre invece faceva il suo lavoro di operaio. Anche quello fu un bel periodo
perché all’interno di quel palazzo conobbi i miei primi amici e le mie prime
compagne di giochi. Questo posto era a Ostia, Ostia lido dove c’è la spiaggia
di Roma in pratica; ricordo che per esempio da bambina io era quella che
portava la posta; la mamma mi dava la posta e io facevo tutto il palazzo che
era sei o sette piani credo, me ne andavo su per il palazzo a consegnare la
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Catturare le storie
posta a tutti quanti gli inquilini. La cosa bella è che quando ognuno di loro
mi vedeva, mi salutava magari mi faceva entrare, chi mi dava una caramella
chi mi raccontava qualcosa; è stato un periodo che ricordo poco perché ero
piccola, però lo ricordo molto divertente, molto allegro. Poi ricordo anche
che mio padre lavorava spesso in cantieri dove si costruivano case al mare;
noi non potevamo avere la possibilità di andare in vacanza perché
economicamente non ce lo potevamo permettere, così, d’estate noi
andavamo con lui la mattina: ci alzavamo prestissimo per andare e siccome
lui andava a lavorare al mare in questi cantieri edili di case al mare ci portava
a me e alla mamma e a mio fratello piccolo, ci lasciava in spiaggia e lui
andava a lavorare e noi passavamo tutta la giornata in spiaggia al mare e
quelle erano le nostre vacanze. Poi di sera quando lui aveva finito di lavorare
e tornava per rifare il suo giro e riportare gli operai a casa passava anche da
noi sulla spiaggia e noi tornavamo col pulmino insieme a tutti gli operai.
Devo dire che erano vacanze divertentissime bellissime; così sulla spiaggia
libera portavamo da mangiare, si stava tutto il giorno e ci si divertiva tanto
veramente con poco.
Nel 1974 mi sono iscritta al primo anno delle superiori e forse anche
sull’onda di tutte queste esperienze creative che ci avevano fatto fare negli
ultimi anni delle scuole medie avevo scoperto in me una vena artistica e così
decisi di iscrivermi al liceo artistico. Devo dire che l’impatto fu traumatico
se si può dire così, perché io venivo da una borgata romana; il liceo artistico
a Roma si trova al centro quindi arrivai per la prima volta in contatto con
ragazzi che venivano da tutte le zone soprattutto centrali di Roma e avevano
vissuto esperienze molto diverse dalle mie. Perciò mi trovai come un po’
come un pesce fuor d’acqua; mi resi conto che in fondo vivere in borgata
aveva significato anche crescere in una zona come dire emarginata, cioè,
difficilmente noi si aveva contatto con le zone del centro di Roma, era un po’
un grosso paese e anche le relazioni fra le persone e le famiglie della borgata
erano molto sullo stile del vecchio paese, perché appunto le persone che vi
abitavano erano tutte venute da fuori e si erano insediate in questi sobborghi
romani e avevano costruito delle piccole realtà abbastanza chiuse. Quindi
feci molta fatica ad inserirmi perché i miei compagni erano molto più aperti
di me, avevano avuto molto più contatto con le realtà della città e
inizialmente mi trovai un po’ emarginata però poi, come sempre succede nel
periodo dell’adolescenza, si ha una grande capacità sia di recupero sia di
relazione, quindi diciamo che ho cominciato a frequentare questi ragazzi, a
conoscere altre situazioni ed altri ambienti che sebbene diversi dai miei
comunque erano molto stimolanti. Tutto il periodo del liceo fu per me di
grande crescita, soprattutto a livello culturale sia per il fatto che frequentavo
molti giovani che come me avevano voglia di esprimersi creativamente e sia
per il fatto che i nostri insegnanti erano molto aperti.
25
Catturare le storie
Diciamo che quello fu uno dei periodi più contrastati della storia del nostro
paese. Noi giovani l’abbiamo vissuto proprio così. Erano gli anni che
andavano, quelli del liceo, dal ’74 al ’78 e perciò gli anni più terribili del
terrorismo e ricordo che non passava giorno che sul giornale non si leggesse
di attentati, di giovani che sparavano. Era il periodo delle Brigate Rosse, di
tutti i movimenti estremisti, sia di sinistra che di destra; c’erano talmente
tante sigle, noi eravamo molto disorientati perché eravamo ancora in un’età
in cui non capivamo bene cosa stesse succedendo, però capivamo, sentivamo
questa tensione che c’era continuamente. La vivevamo anche. Fra l’altro,
andando a scuola al centro, spesso capitava che sentivi anche sirene, per cui
pensavi subito “ecco qualcun altro magari è stato ammazzato o gambizzato”.
Io non riuscivo ancora bene a capire tutte queste situazioni; vedevo che c’era
tanta violenza, capivo che c’erano tante situazioni terribili intorno a noi e lo
vivevo anche attraverso la scuola perché ad esempio durante l’anno
scolastico c’erano frequentemente manifestazioni, scioperi per rivendicare
sia diritti ma anche per protestare contro il governo, le leggi, lo Stato in sé
perché era un periodo di grandi contestazioni. Ricordo che durante il
secondo anno del liceo ci fu la vera prima occupazione della scuola, la prima
autogestione e devo dire che inizialmente fu anche una bella esperienza: noi,
attraverso queste autogestioni, tentavamo di creare all’interno della scuola
delle situazioni di dialogo anche con i professori, almeno quelli disponibili,
di parlare del momento storico in cui vivevamo, delle motivazioni che
avevano portato questa situazione di grande confusione e di grande violenza
che c’era e che stavamo vivendo. E contemporaneamente eravamo anche
spensierati per l’età che vivevamo. Era un periodo molto contrastante, con
molte indecisioni, contraddizioni ma contemporaneamente molto stimolante.
Avevamo voglia di capire, di crescere, di conoscere. Spesso ci si vedeva
anche all’esterno, fuori dalla scuola; si andava alle manifestazioni; si
protestava ma contemporaneamente, finalmente, si usciva la sera, si faceva
anche tardi e diciamo che la mia è stata la prima generazione che veramente
ha avuto quella libertà di muoversi e di stare insieme senza dover rendere
conto ai proprio genitori, alla propria famiglia. Sulla scia del ’68 c’era molta
più autonomia, molta più libertà dei ragazzi. E anche noi ragazze eravamo
molto libere di viverci le nostre storie, i nostri amori, di uscire e di fare
esperienze. Una cosa che ricordo terribilmente fu il giorno in cui andammo a
scuola e ci fecero uscire in anticipo; tutta la città risuonava di sirene, era un
giorno di primavera, una bella giornata di sole e mi ricordo che tutti si
chiedevano cosa stesse succedendo; era il giorno in cui le Brigate Rosse
avevano rapito l’onorevole Aldo Moro. Noi tornammo a casa; più di tanto
non ci rendevamo conto dell’importanza di questo fatto, poi col passare dei
giorni e delle situazioni che venivano a crearsi, capivamo che l’Italia stava
vivendo un momento terribile. Poi per fortuna negli anni successivi, dopo
questo che fu il momento culminante del terrorismo, questo clima pian piano
26
Catturare le storie
venne meno perché fortunatamente poi furono arrestati i capi delle B.R., lo
Stato finalmente riuscì ad avere ragione del terrorismo. Nel frattempo io
avevo anche finito il liceo e mi ero iscritta all’Accademia delle Belle Arti e
ormai ero anche più matura e cosciente. decisi di entrare a far parte di un
movimento politico giovanile di sinistra anche perché sentivo l’esigenza di
far parte di qualcosa che nella nostra società potesse intervenire o comunque
partecipare ad una possibilità di rinnovamento, di cambiamento e che io
sentivo fortissimo. Quindi cominciai a frequentare assemblee, riunioni
politiche con i giovani a parlare di politica andare alle manifestazioni. La
cosa che ricordo più interessante ma anche con più emozione erano le
riunioni che facevamo tra donne; quelli sono stati anni in cui il movimento
femminile era molto attivo; erano appena state votate le leggi sul divorzio,
poi la 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza e quindi si erano istituiti
i primi consultori. Le donne finalmente avevano preso piena coscienza del
loro essere una parte attiva e fondamentale della società. Sentivano
l’esigenza, il bisogno di partecipare in maniera attiva ai cambiamenti che
stavano avvenendo e soprattutto sentivano una grande esigenza di riscatto
nei confronti della società fino allora fortemente maschilista. Quindi ci si
incontrava spesso per parlare soprattutto di noi. Le chiamavamo riunioni di
autocoscienza: parlavamo di noi, dei nostri problemi, di politica, delle nostre
aspettative ed era bello perché eravamo donne di tutte le età: c’erano giovani
come ero io ma c’erano anche signore con le loro famiglie, i figli piccoli ma
anche donne anziane, magari anche con una lunga esperienza di militanza
che per noi erano anche dei punti di riferimento molto importanti e questo mi
ha aiutata tantissimo a maturare e soprattutto a rendermi conto di quanta
voglia avessi sia di partecipare sia di credere che ci potesse essere una
società migliore per tutti e soprattutto per le donne. Era molto bello anche
quando partecipavamo alle manifestazioni delle donne; l’8 Marzo non era
come adesso, con tante donne si riuniscono per andare a cena fuori con le
amiche. Per noi l’8 Marzo era soprattutto la manifestazione. Andavamo tutte
quante in piazza con la nostra mimosa a manifestare sul serio,
arrabbiatissime, e a gridare le nostre rivendicazioni i nostri diritti e credo che
questa sia stata una parte importante della crescita della nostra società; se le
mie figlie adesso hanno la capacità di autogestirsi di credere in loro stesse e
di mettere al primo posto il loro futuro e quello che veramente vogliono loro
dalla vita per se stesse, questo è anche perché in tutto quel periodo, noi
abbiamo preso autocoscienza che la donna si deve veramente
autodeterminare. Non era più la donna che voleva crearsi una famiglia con i
figli e avere un marito che andasse a lavorare; noi volevamo veramente
contare nella società.
Quello era il periodo in cui studiavo all’Accademia delle Belle Arti
scenografia ed era un bel periodo: la scuola era molto molto vivace molto
attiva e con i compagni di corso oltre a condividere lo studio condividevamo
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Catturare le storie
anche tante esperienze. Si usciva spesso insieme, Roma era molto bella, si
andava in centro, la sera ci si riuniva nei locali. Non eravamo ragazzi da
discoteca. Il nostro modo di divertirsi era diverso da quello di oggi, non
c’erano le grandi discoteche. Magari noi ci riunivamo in piccoli locali al
centro di Roma dove si faceva della buona musica, jazz magari o c’erano dei
gruppi emergenti e si stava insieme a chiacchierare ad ascoltare buona
musica. Non c’era quella voglia di divertirsi con lo sballo; il nostro sballo era
stare insieme, magari parlare di noi, di quello che ci accadeva intorno.
Crescevamo insieme, capivamo insieme, c’era molto dialogo c’era molta
voglia di capire quello che c’era intorno.
San Nicandro Garganico (FG), 1970
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Catturare le storie
Marisa Marisi1
“Volevano che mi chiamassi Edera”
Quando sono nata, mio padre e mia madre erano molto giovani, avevano 20,21
anni, volevano che mi chiamassi Edera, ma gli impiegati del comune dissero che
Edera era un nome antifascista e quindi non potevo chiamarmi Edera. Da lì è nato
il fatto che mi chiamo Marisa perché mio padre disse che sua mamma voleva che
mi chiamassi Marisa. Il prossimo anno saranno 80 anni da quella data, per cui di lì
è iniziata tutta la storia della mia vita.
Provengo da una famiglia di due tipi. Da parte di mia madre una famiglia di
antifascisti. Mio nonno era un vecchio socialista. Lui per non fare la guerra si
tagliò con le tenaglie tutti i denti, mi ricordo questo nonno senza denti. Da parte
del padre, gli zii erano antifascisti ma loro padre era un padre padrone fascista, che
arrivò persino a denunciare i figli. Io ho aderito al PCI non per questioni
filosofiche o di orientamento, ma per un senso di giustizia. Io vedevo che in quel
periodo quel partito fosse il partito migliore. Poi allora sai, non era come adesso.
Per aderire al partito bisognava avere almeno 18 anni, dovevi avere almeno due
persone che garantivano per te, dovevano essere due persone conosciute.
Stiamo parlando del ’46-’47. In quel periodo ho gestito anche i miei 16 anni: balli,
feste, e ste cose. Poi ho chiuso con la scuola perchè mi pareva, che il socialismo
fosse lì a due passi, che si potesse realizzare, dare ad ognuno in base alle sue
necessità. Poi nel partito, ovviamente, ci sono state le battaglie in particolare per le
donne. Però devo dire che le donne erano abbastanza considerate, forse anche più
di adesso. C’erano le donne che avevano meno capacità politiche di quelle di oggi,
però erano molto attive, molto sensibili, anche perché avevano partecipato alla
Resistenza, alle lotte partigiane e non è stato una cosa da poco, hanno rischiato
tanti uomini, ma le donne hanno rischiato nelle case più degli uomini stessi.
Iscriversi al PCI in quel periodo, voleva dire essere a disposizione per qualsiasi
attività. Probabilmente chi ha scelto dalla segreteria del partito, che ha scelto che io
potessi andare alla CGIL, a fare il lavoro del Sindacato Commercio, del Sindacato
dell’Ortofrutticolo, ha pensato che potessi essere adatta a fare quel lavoro e io sono
andata con entusiasmo. In quel periodo economicamente importante per Cesena,
andare a lavorare nei magazzini della frutta, significava che le donne potevano
avere a casa uno stipendio. Significava che tutta l’economia cesenate, quella dei
contadini in particolare, aveva potuto svilupparsi: perché le aziende contadine
avevano trovato un canale per produrre, per avere una risorsa. Infatti dopo 4-5 anni
molti contadini furono in grado di comprare le case, i poderi dall’ECA e dal ROIR.
Andavo da Forlì a Cesena tutte le mattine in pullman e poi la notte andavo a casa.
Molte volte dovevo cercare qualcuno che mi ospitasse a dormire, ecc. . Sono state
cose interessanti, bellissime, per le esperienze personali, però hanno sempre
1
Intervista realizzata da Eleonora Pergreffi, Cesena, 5 dicembre 2009.
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Catturare le storie
costato un po’ di sacrificio. Poi mi sono sposata nel ’52 e ho durato un anno a
venire su in treno e in pullman così per lavorare alla CGIL e poi nel ’54 è nato un
figlio. Ci siamo trasferiti direttamente a Cesena.
Però ritornando al problema delle operaie ortofrutticole, le prime battaglie del
Sindacato Ortofrutticole sono state fatte per arrivare ad una perequazione delle
tariffe, per le ragazze, le operaie ortofrutticole. Gli uomini avevano uno stipendio
superiore, non facevano quel lavoro lì, facevano al massimo carico e scarico dal
camion. Le tariffe erano che le ragazze dai 14 ai 16 anni avevano uno stipendio
quasi 0, pochissimo, dai 16 ai 18 e poi dai 18 in avanti e quindi c’erano 3 tipi di
stipendio. E’ ovvio che i commercianti preferivano assumere ragazze molto
giovani perché così potevano pagarle di meno. Le ragazze giovani non avevano il
problema dell’orario, di andare a casa, per cui andavano a lavorare un po’ prima,
uscivano dopo, cioè erano anche meno sindacalizzate. Di li è iniziata tutta una
battaglia per avere una perequazione, affinché ci fossero due fasce di salari, anzi
noi pensavamo che dovesse esserci una tariffa unica. Non siamo mai riuscite ad
avere questo, però la tariffa dopo è stata dai 14 ai 20 anni e dai 20 ai 40. Si
potrebbero raccontare degli aneddoti su questo punto. Quando abbiamo chiesto una
tariffa unica mi ricordo che M. D., è stato presidente degli esportatori, disse:
”Vabbe’ noi facciamo aumentare la tariffa delle ragazze, però dopo 40 anni le
diminuiamo”. Ricordo un episodio di una signora bellissima di 40 anni, veniva alle
riunioni, agli incontri operai, che disse: “Io ho 41 anni mi scarterebbe?”. E rimase
un silenzio così, rimasero gelati perché era molto molto bella. Quindi la battaglia
ortofrutticola era stata quella; poi da questa cosa qui è nato il Sindacato
Commercio e noi abbiamo valorizzato le nostre attività nel cesenate anche a livello
nazionale per cui ad un certo punto, il congresso Sindacato Nazionale del
Commercio si è fatto proprio a Cesena.
I primi scioperi sono stati difficili da organizzare perché far scioperare un’operaia
ortofrutticola, che non aveva lavoro, non era una cosa semplice. Su questo punto,
io penso che valga la pena raccontare come avvenivano assunte le operaie. Le
operaie, entrava il padrone, il direttore insomma o il ragioniere. Da M. D. era il
ragioniere che veniva fuori, diceva: “Tu, tu, tu venite dentro”. Ed ovviamente
sceglieva quelle più forti, quelle che rendevano di più, che non avevano problemi a
stare li un’ora in più, perché poi non c’era che suonava la sirena e uscivi da
lavorare. Li entravi e poi il padrone ti diceva esci e ti segnava lui le ore che facevi,
ed era l’unico introito che avevano le famiglie di Cesena quello e la stagionalità
delle operaie della frutta all’Arrigoni.
Il Sindacato Commercio, il sindacato delle ortofrutticole aveva raggiunto un buon
livello, insomma un buon livello di maturità politica e sindacale, ecc. . Al
sindacato Commercio, oltre alla sottoscritta, c’era un uomo che faceva tutta l’altra
parte del commercio, le piccole aziende. In quel periodo mi chiesero di andare
all’UDI, non c’era nessuna che lavorava a tempo pieno, perché funzionava così, il
partito, chi dirigeva, diceva: “tu a questo punto potresti andare a questo posto, anzi
ci dovresti andare!”. Io ci sono andata volentieri, perché mi interessava il lavoro
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Catturare le storie
delle donne, anche li c’è stata qualche novità, perché in quel periodo, parliamo
dell’UDI come manifestazione di carattere femminile, c’era il problema delle
manifestazioni dell’ 8 marzo. Adesso quando voi vedete l’8 Marzo, il ramoscello
di mimose è una cosa naturale, è diventata una cosa commerciale, ma in quel
periodo la mimosa chi non era di sinistra non la voleva, insomma ti cacciava
quando suonavano il campanello. All’UDI dissi: “Facciamo un direttivo, qui
bisogna che sfondiamo, facciamo una cosa diversa, insomma, se no che cosa ci
stiamo a fare?”. Allora ci facemmo coraggio. Allora era sindaco Antonio Manuzzi,
e chiedemmo di fare un 8 Marzo in cui fosse l’Amministrazione Comunale ad
invitare in Comune una rappresentanza delle donne di tutte le categorie:
l’ospedale, le scuole, le aziende ecc. .
Mio marito è stato nel consiglio comunale, è stato assessore, è stato parlamentare
ecc.. Noi siamo stati in consiglio comunale assieme, io sono entrata prima in
consiglio comunale di mio marito, poi successivamente siamo stati insieme 5 anni,
quindi io sono stata 10 anni in consiglio comunale, poi dopo io sono uscita, perché
c’era un problema di coppia. Io sono uscita dal Consiglio comunale, ci è rimasto
mio marito, non solo per una questione di opportunità, ma anche perché mio
marito ha avuto anche la possibilità di farlo, era più preparato, ha studiato di più,
per molti aspetti, dal punto di vista intellettuale è molto superiore a me, non lo dico
per essere umile, ma facendo una constatazione. Noi ci siamo conosciuti nel
partito, ci siamo conosciuti quando io sono tornata dal Festival di Berlino nel ’51 e
nell’anno dopo ci siamo sposati. Non aspettavamo i figli, i figli sono nati dopo 3
anni.
Dopo l’esperienza dell’UDI ad un certo punto, io sono leale ma non sono fedele
per principio, non so se rendo l’idea, per cui all’UDI non mi trovavo più. Allora
si faceva così, sono andata al partito e ho detto: “Guarda, adesso non mi sento più
di stare all’UDI, non è il mio posto, non mi piace amministrare le cose così come
vanno, però non cerco niente dal partito: ho l’età per andare a fare un’altra cosa,
per cercarmi un lavoro per conto proprio”. Mi fu fatta la proposta di andare a
lavorare al partito. Io dissi di no, perché c’era la Vittorina Amadori, era una mia
amica, avevamo un rapporto di amicizia, mi fu detto che lei sarebbe uscita e che
sarebbe andata a fare un altro lavoro. Insomma io non ci andai. Per qualche mese,
cinque, sei mesi ho lavorato con il “Calendario del Popolo”.
E’ una cosa che mi è sempre piaciuta molto, perché era una rivista scientifica, più
storica più, che storia e scienze, insomma una rivista molto importante, molto
bella, fatta molto bene, la dirigeva Trevisani, mi pare che si chiamasse così il
direttore di allora. E avevano fatto un’enciclopedia. Io telefonai a questo Teti di
Milano,e gli dissi: “Guardi io sono una così così che non vuole più stare all’UDI.”.
Lui mi chiamò a Milano e per 5/6 mesi, ho fatto questo lavoro che è stata
un’esperienza interessante. Il mio lavoro consisteva nel fare la vendita e la
diffusione delle enciclopedie che avevamo fatto della Storia d’Italia, storia vista da
un certo punto di vista, le aveva fatte Giulio Trevisani.
31
Catturare le storie
Successivamente, ho fatto prima un passaggio al partito; poi dopo mi e’ stato
chiesto di andare all’ARCI. E’ stato un periodo bello, un’ esperienza
interessantissima.
A un certo punto una mattina, eravamo io e il maestro Ciccarese, leggiamo nel
giornale che Dario Fo era stato cacciato dalla televisione in quel periodo e
l’avevano rifiutato persino nelle Case del Popolo. Lui era al Grand Hotel di
Cesenatico, lui Dario Fo, ci diede appuntamento per il pomeriggio, ci siamo andati
e gli abbiamo parlato. E di li e’ nato questo sodalizio con Dario Fo, con Nuova
Scena, erano due compagnie e la cosa ha funzionato; diciamo così, che il circuito
alternativo di Dario Fo e Nuova Scena è partito da Cesena, le prove le hanno fatte
qui. Durante il periodo delle prove, venivano da tutte le parti del mondo a vedere
le prove, ad intervistare Dario Fo, i giovani in particolare, mi ricordo dalla
Scandinavia, venivano dai paesi più impensati, dalla Scozia, in particolare anche
gli americani, che non so come facessero ad arrivare a Cesena.
E venivano e dormivano qui, dormivano dentro la sede dell’Arci, dormivano dove
potevano coi sacchi a pelo. E questa cosa del circuito alternativo di Dario Fo, fatto
nelle Case del Popolo, secondo me, ha segnato anche per le stesse Case del Popolo
una forte presa di coscienza di cosa queste potessero rappresentare per la gente.
Per cui sono stati fatti diversi spettacoli di Dario Fo, di Nuova Scena. Poi di li sono
nati i doposcuola fatti nelle Case del Popolo. Per la prima volta i ragazzi dei
contadini sono andati a fare i corsi di nuoto al mare con l’Arci, e’ stato tutto un
susseguirsi di iniziative che raccontarle adesso si vede solo l’aspetto positivo. Ma
allora non era tanto semplice. Intanto perché Dario Fo aveva amministratori come
Fulvio Fo e Nanni Ricordi che aveva messo fuori i soldi, era sempre qua a
controllare, quindi non ci regalavano niente, dovevamo prima convincere,
discutere coi consigli direttivi delle Case del Popolo l’importanza di questo per la
cultura dei contadini, dei braccianti e della gente comune. Dopo che avevi
affrontato questo problema dovevi dire: “Dobbiamo vendere i biglietti”. Perchè lo
spettacolo costa tanto e vendere i biglietti per lo spettacolo significava mettere in
movimento della gente che non avresti mai pensato che avrebbero fatto quel
lavoro. Però è un lavoro che ha dato soddisfazione.
Per esempio siamo stati invitati ad alcuni manifestazioni ed incontri nazionali,
perchè nel frattempo che si faceva quel lavoro con Dario Fo per gli spettacoli
teatrali, ci aveva interpellato Volonte’: organizzarono una assemblea del cinema a
Porretta Terme e ci avevano contattato per fare un circuito alternativo del cinema.
A Cesena dopo il circolo del cinema, l’unica cosa fatta è stato un convegno
nazionale dei Circoli del Cinema con Zavattini ed altri personaggi del cinema.
Ricordo che c’era fermento culturale. Mi ricordo che la mattina che si fece il
convegno nella sede del Pci non c’era più posto e così siamo finiti al Ridotto del
Teatro Comunale. C’era gente da ogni parte d’Italia. Dopo sai, era un periodo che i
ragazzi prendevano su il sacco a pelo e andavano e dormivano dove potevano,
così, mangiavano quando potevano. Quindi si andò al Teatro Comunale perché
nella sala del PCI non c’era sufficiente posto. Non è che il PCI allora ci avesse
32
Catturare le storie
tanto volentieri la sala. Io dico che quella sala ci è stata data perché Enzo Ceredi
che conoscete in molti, fece un po’ di casino, perché sai un circuito alternativo, una
cosa, insomma…. .
Ancona, 1968
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Catturare le storie
Enzo Soravia1
“La sera alle 10 ero già stato fatto prigioniero”
Era proprio il 10 giugno 1940. In paese c’erano poche radio e noi avevamo
una radio, la Hunda, che veniva fatta, fabbricata a Dobbiaco. Quel giorno del
10 giugno eravamo io, il più giovane indubbiamente, mio padre, mio zio,
altre persone un po’ anziane. Una di queste, sentendo la dichiarazione di
guerra ha detto: “l’abbiamo già persa”. io penso che avesse detto così per via
della differenza che può esserci tra la nostra mentalità, cioè il nostro
carattere, come italiani, e il carattere diciamo pure tedesco o prussiano … a
parte il fatto che non eravamo preparati per la guerra perché nessuno la
voleva.
Il 18 di Settembre del 1942 sono stato chiamato alle armi e mandato al 4°
Genio, al 4° Genio di Bolzano, quale aggregato alle truppe alpine. Io ho
sempre portato il cappello da alpino, hai capito. Lì ho fatto il corso di radio
marconista e praticamente il 4° Genio militare. Io da Bolzano non mi sono
mai allontanato, abbiamo fatto dei collegamenti perché avevamo radio
portatili che andavano a batteria e la nostra radio poteva eventualmente avere
una portata sui 10 km; abbiamo fatto un collegamento Bressanone –
Bolzano, Bolzano – Mendola, Mendola – Merano: Ognuno si collegava con
l’altro: io trasmettevo a Bolzano, Bolzano a Mendola, da Mendola a Merano.
Lì io sono rimasto fino all’8 settembre del 1943.
La sera alle 10 ero già stato fatto prigioniero. Quella sera è sceso nella stanza
che avevamo nel seminterrato della stazione di Bolzano un ufficiale tedesco
dicendo che noi avevamo cessato la guerra e che di conseguenza non
avevamo più bisogno delle armi. Abbiamo depositato le armi, dal momento
che non ne valeva la pena, tanto più che ti dirò una cosa, avevamo dei
moschetti ‘91 vecchi della guerra del ’15 - ’18 e avevamo tre caricatori con
solo 18 colpi. Sicché non eravamo per niente armati, non potevamo
comunque affrontare nessuno.
Quella sera ci hanno radunati tutti in una sala della stazione e siamo rimasti
lì. L’indomani mattina ci hanno condotto attraverso le strade di Bolzano al
campo sportivo e durante il tragitto sul ponte Druso ho visto il primo morto.
Da lì ci hanno condotti sul ponte sul Talvera, un fiume che passa proprio in
mezzo alla città di Bolzano, e tra un ponte e l’altro con le mitragliatrici
puntate ci hanno radunati un po’ lì.
Io essendo in servizio alla stazione io avevo la semplice divisa. Non avevo
altro e lì mi hanno tenuto fino al giorno 10 sera. Il 10 sera ci hanno
accompagnati alla caserma della G.a.f., Guardia alla frontiera che era di là
del Talvera. In quella caserma ho potuto racimolare uno zaino, mi sembra tre
lenzuola, quattro o cinque strofinacci e altrettante pezze da piedi perché
1
Intervista realizzata da Chiara Tabacchi, Valle di Cadore, 1 gennaio 2011.
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Catturare le storie
quella volta venivano date in dotazione delle pezze che erano bianche di
cotone. Sono rimasto lì fino al giorno 11 mattina, ci hanno accompagnato in
stazione e ci hanno fatto salire sui carri bestiame. Lì praticamente ci avevano
tolto ogni volontà, il nostro cervello praticamente non esisteva più, la tua
volontà era sparita, sparita completamente. Tu non potevi sapere da un
momento all’altro che cosa ti poteva succedere. Eri diventato un nulla, un
nulla.
Praticamente li a Bolzano saremmo stati in minimo 4-5000 soldati. Quanti
sono tornati vivi in Italia? Questo non lo so. Sappiamo perfettamente però
che i prigionieri italiani in Germania, mandati al lavoro coatto, erano circa in
600/650.000. Sono rimasti lì, rinunciando ai benefici eventualmente che si
poteva avere se entrando nel nuovo esercito della Repubblica Sociale
Italiana, che aveva cercato di mettere in piedi Mussolini una volta liberato
nel Gran Sasso.
Siamo arrivati a Fallinboster il giorno 13 mattina e lì siamo passati per gli
uffici. Ci chiedevano nome cognome, eventualmente quello che facevi
durante la tua vita civile. Lì dopo ci hanno messo in baracche, baracche
indubbiamente con castelli di tre/quattro piani: castelli fatti a suo modo, neri
ormai neri da quanto erano stati adoperati, e lì sono rimasto fermo fino al 30
di settembre. Nel frattempo mi hanno mandato con piccone e pala a sterrare
sotto un capannone. Il mangiare era poco o niente: un mestolo, un mestolo di
barbabietole da zucchero, quelle pressate ormai. erano talmente amare che
non le potevi neanche affrontare. Il 1° di ottobre mi hanno caricato, si vede
che hanno preso il mio nome e mi hanno caricato su un camion e mi hanno
portato a lavorare in fabbrica: era una fabbrica dove si producevano motori
di aeroplano.
In fabbrica portavo il numero 396 e sulla schiena c’era scritto IMI, I-M-I.
Sveglia alle 6:30, partenza alle 7:15; bisognava rimanere in fabbrica fino a
mezzogiorno, poi si correva in baracca, lontana 150-200 metri, per prendere
un mestolo di quella roba: 120 litri d’acqua, 1kg e mezzo di margarina e dei
cetrioli sott’aceto. Sai quei cetriolini che comperate voi adesso? Ecco di
quelli e basta. Alle una bisognava ritornare in fabbrica fino alle 7 meno venti
della sera e da lì si ritornava in baracca. In baracca eravamo in 83 e lì alla
sera ci davano un altro mestolo sempre della stessa cosa, un filone da 2 kg di
pane da dividersi in otto, un cucchiaio di marmellata, oppure un altro
pezzettino, 20 grammi o 30 grammi, di margarina, oppure una fetta di
salame. Quello era il mangiare giornaliero praticamente ecco. Lì in fabbrica
stavamo in stanze sempre piccole: in sedici in una stanza di 6 per 4; per
entrare tra un castello e l’altro bisognava andar dentro diciamo in sbiego, in
cortel come se dise da noi capisci. Perché se no, se uno voleva entrare così
non ce la faceva, perché da un lato e l’altro della stanza c’erano due castelli e
altri due castelli messi insieme nel mezzo, sicché era larga 6 metri e poi
avevamo sti 50 centimetri per poter passare. Nel mezzo diciamo pure dalla
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Catturare le storie
stanza, c’era uno spazio da potersi sedere diciamo insomma: c’erano delle
sedie, delle panche, qualche cosa capisci. Dentro c’era un fornello, siamo
stati dotati di un materasso di paglia e un cuscino di paglia con due coperte,
una sotto e una sopra. Questo è quanto avevamo in dotazione. Lì ho lavorato
fino a dicembre del ’44. Io pulivo, mettevo a posto, dal mio reparto partiva
appunto proprio il motore per andare nella sala di prova e io avevo questa
incombenza: mettere a posto i tubi della benzina, i tubi dell’olio, il motorino
di avviamento del motore; dovevo sistemarlo e poi portarlo in deposito e
ogni volta che ne serviva uno dovevamo andare a prenderlo. Per quanto poco
si cercava di fare anche del boicottaggio. C’eran di quelli che mettevano
dentro un dado, una ranella, l’olio non arrivava più e allora il motore si
bloccava completamente, doveva essere smontato e rimandato nel reparto di
demolizione.
In fabbrica avevamo una pulizia comandata da un maggiore per controllare
tutta la fabbrica: c’era una baracca di francesi, una baracca di russi e noi. In
tutte le baracche per quanto poco c’erano dentro sempre un centinaio di
persone; noi eravamo in 83 ma le altre saremo state uguali insomma. hai
capito. io per esempio. Vicino a me lavorava un prigioniero russo, tanto è
vero che avevo cominciato anche a parlare russo. Lì sono rimasto fino al 22
di dicembre e poi mi hanno spostato, sono arrivato in Sassonia vicino a
Dresda. Lì ho lavorato in una fabbrica di ali di aeroplano però io non ero
dentro direttamente in fabbrica: mi avevano dato l’incarico di mettere a
posto, di tenere a disposizione la macchina del capo fabbrica sicché
praticamente ero in garage. Non facevo niente, non facevo niente, quando il
capo doveva partire, dovevo lavare la macchina, dovevo vedere se era tutto a
posto, procurare la benzina, e quando ritornava dovevo lavarla, pulirla e
rimetterla dentro in garage. Facevo la vita da signore insomma. Ti dirò una
cosa: abbiamo anche trovato della gente buona, però era tutta gente di una
certa età. In fabbrica erano pochi i giovani. Erano rari quelli sotto i
cinquant’anni. E lì sono rimasto fino al 15 di luglio del ’45. In quei giorni
quando sono andati a bombardare Dresda, sono passati sopra di noi: sentivi
proprio il motore degli aeroplani proprio benissimo. Ho visto una battaglia
tra due caccia, passavano via a piena velocità, 30-40 metri da terra, per
esempio è venuto via un quadrimotore, è caduto a 150 metri dalla fabbrica.
tanto per dirti.
Il primo che ci ha comandato in baracca, perché in baracca avevamo un
comandante e delle guardie, era un maresciallo che era stato ferito in Russia.
Posso dirti una degnissima persona, veramente una degnissima persona. Ha
tanto fatto che ai primi di dicembre ci ha portato le prime cartoline da poter
spedire in Italia.
Poi dopo sono stato liberato dai russi, perché lì sono arrivati i russi l’8 di
maggio. I russi non mi hanno fatto niente, ma non si sono neanche poi
interessati eh, hai capito?. Perché bastava che tu dicevi che eri italiano e ti
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Catturare le storie
lasciavano andare dove volevi, tanto è vero che io avevo potuto avere un
permesso speciale dal generale che comandava la piazzaforte di Dresda di
poter viaggiare su tutto il territorio occupato dai russi; sono partito il 15 di
luglio su un treno qualsiasi e sono andato a Dresda. Da Dresda mi hanno
portato giù verso la Cecoslovacchia e siamo passati per Praga e siamo
arrivati a Bratislava. Ci han fermati perché dovete sapere che tutte le
industrie belliche che trovavano nelle zone che attraversavano, i russi le
smantellavano completamente e le portavano tutte in Russia; sicché avendo
bisogno del treno ci hanno fatto scendere e hanno adoperato il treno per
portare tutta quella roba. Allora noi siamo andati alla stazione di Bratislava:
c’era un ufficiale russo, gli abbiamo fatto vedere i permessi e lui ci ha detto:
“dobra dobra”, buono, buono. Allora abbiamo preso il primo treno che
passava; però era pieno e allora noi siamo saliti sul tetto del treno.
Sapete dove siamo arrivati?! a Budapest, in Ungheria. Ma nel frattempo
durante la notte siamo stati assaltati dai soldati russi perché dovete sapere
che in fabbrica dove lavoravamo c’era del rame, c’era dell’ottone e ognuno
aveva fatto dei cuori, degli anelli. I russi ci han portato via tutto lì eh, perché
sono saliti su con tanto di rivoltella e ci hanno portato via tutto
completamente, il portafoglio.
Io avevo fatto il commercio nero, mi ero procurato del pane, loro me l’hanno
buttato giù dal treno, avevo una valigia con dentro due camicie di flanella
nuove di zecca che mi aveva dato un vecchietto tedesco che avevo aiutato.
Me l’hanno presa e buttata giù dal treno. Per fortuna nell’angolo del vagone
era rimasto un sacco con dentro dei pastrani e delle coperte e con quelle ci
siamo salvati perché arrivati a Budapest abbiamo trovato un vecchio che
vendeva delle pere, quelle selvatiche: gli abbiamo dato una coperta e lui ci
ha dato circa 3 kg di pere. Poi in un panificio ci hanno regalato un pane, un
pane grande che avrà pesato senz’altro un paio di kg e allora sono corso in
stazione e ho diviso tutto con gli altri. Abbiamo ripreso il treno. Dovevamo
andare a Belgrado per farci fare un permesso definitivo per andare in Italia.
E lì siamo stati fortunati.
Quando si è fortunati si è fortunati, sono qui anche per quello. Va be’
avevamo ancora coperte e pastrani e fuori della stazione di Subotiz abbiamo
trovato uno che aveva un carro, un carretto, con un asino. Lo abbiamo
noleggiato, siamo saliti su tutti per andare a Belgrado. Va be’, arrivati
all’imbocco del ponte, a circa 150 metri, vediamo un soldato con una divisa,
una persona ad ogni modo un soldato vestito con una divisa italiana che
viene giù. Noi andiamo su da questa parte e lui viene giù dall’altra; arrivati
diciamo pure allo stesso livello uno che era sul carretto con me e questo
soldato si sono riconosciuti: erano paesani. Mamma mia. fioi io ve la
racconto, non podé savé, non potete sapere l’emozione. Lui era militare e
quando è stato l’8 settembre è passato con i partigiani e lui ha fatto il cuoco
dei partigiani. Arrivati lì ci chiede dove dovevamo andare e ci dice non
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Catturare le storie
andate dentro in città se non vi fanno prigionieri. E allora ci ha detto: “venite
con me”. Dietrofront e siamo ritornati a Subotiz, ci hanno condotto in una
famiglia che conosceva e lì ci hanno dato una veranda da poter dormire e ci
hanno dato quello che avevano: povera gente, anche troppo, avevano
dell’insalata fresca e con un po’ di pane. Insomma, abbiamo cenato quella
sera con quel pochino che potevamo fare e l’indomani mattina sveglia. siamo
andati in stazione. abbiamo preso il primo treno che andava per Lubiana.
Arrivati, ci han fatti scendere perché dovevamo aspettare il treno che veniva
da Fiume e prendere quel treno lì per venire in Italia. Ci hanno fatto scendere
e siamo andati diciamo pur dentro nella sala della stazione e lì sono venuti
dentro in due, un sergente e un altro soldato, c’han chiesto i permessi.
Ognuno ha fatto vedere il permesso, loro non han detto niente. Arriva il
treno da Fiume, saliamo sul treno, arriviamo all’ultima stazione,
Sant’Antonio, me lo ricorderò finché vivo: era l’ultima stazione sotto la
giurisdizione slava, perché dopo di là entravano gli americani. E lì si ferma il
treno, vengono su sempre questi due e ci chiedono i permessi. Loro
parlavano slavo, sul predellino del vagone c’era un ragazzo 15-16 anni, era
un italo-istriano, anche lui aveva il permesso di venire in Italia, chissà cosa si
son detti sti due, ad ogni modo abbiamo visto che sto ragazzo ha levato fuori
dal portafoglio un biglietto con un permesso come il nostro. Preciso come il
nostro. Che cosa abbia detto sto ragazzo, che cosa abbiano capito loro,
insomma sti due militari si sono guardati in faccia e ci hanno dato indietro i
biglietti per venire in Italia. Se non fosse stato per quello, ancora due anni
dovevamo rimanere lì, ancora due anni.
Qua in paese, in genere possiamo capire una cosa: indubbiamente finita la
guerra tutti stavano male. Noi però più degli altri. perché oltre tutto, là siamo
stati umiliati. Bisognava essere lì, essere lì in Germania dove i primi periodi
c’erano dei ragazzi di 7-8-10 anni che ci sputavano addosso.
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Catturare le storie
Vittorio Balli1
“La facoltà era molto militaresca”
Per milioni, milioni di italiani che hanno la mia età, essere “Balilla” è stato
certamente rilevante della sua vita infantile. Il Duce era una figura di
incredibile rilievo. Il Duce, che è il capo del Governo, rappresentava per noi
bambini, una specie di essere superiore anche perché leggevamo sui muri,
per esempio, “il Duce ha sempre ragione”. D’altra parte, l’epoca aveva
originato ad un certo momento, per motivi di propaganda politica, una
trasformazione anche nei bambini; perché io ero un bambino, poco più che
un bambino, quando venne deciso che i bambini, anche piccoli, dovevano
essere istruiti in modo tale che fossero fedeli al motto che si diceva, che cioè
“il duce ha sempre ragione”. Naturalmente per questo dovevano essere bene
allineati anche nel pensiero, ammesso che a uno di 8 anni si possa chiedere
un pensiero politico, cosa che certamente non si sapeva che cosa fosse, anche
perché non si sapeva che cosa fosse la politica.
Allora questo bambino di 8 anni, curioso come ero io a quell’epoca, come si
trovava vestito?
Secondo non quello che sarebbe piaciuto alla sua mamma e al suo papà o
anche a lui, ammesso che potesse scegliere come si volesse vestire, ma si
doveva vestire in un modo stranissimo, da Balilla. Tutti avevano una divisa
perché non ero solo io, tutti i bambini la portavano; i bambini intanto erano
suddivisi per età; per esempio, c’erano i più piccoli che si chiamavano “i
figli della Lupa”, una cosa dal morire dal ridere.
All’epoca la storia della divisa, era un fatto molto naturale; per esempio, i
bambini a scuola dovevano essere vestiti tutti uguali, cioè avevano un
camice nero o bianco, un fiocco colorato al collo, i maschi divisi dalle
femmine e questo succedeva nelle scuole. Il Balilla era così vestito: in testa
aveva una cosa stranissima che si chiamava fez il quale non è nient’altro che
un copricapo arabo, il fez, lo sanno tutti. Un fez color amaranto, ricordo; poi
aveva la camicia nera, la camicia nera perché tutti a quell’epoca, non solo i
bambini, ma i fedeli al regime, i fedeli alla patria avevano la camicia nera.
Poi avevamo dei pantaloni corti, verdi mi ricordo, ed erano fatti con un
panno che mi faceva prudere le gambe, ma non solo a me, perché erano di un
tessuto che il Duce faceva produrre in Sardegna e si chiamava orbace, pensa
un pò te; questo perché in tempi di isolamento dell’Italia dal resto del
mondo, si faceva lavorare in questo modo anche le attività artigianali locali.
Quindi, immaginatevi questo individuo, questo bambino, questi bambini, che
erano così vestiti: in testa il fez, la camicia nera, i pantaloni corti e così via e
questi erano i Balilla normali fino diciamo ad arrivare ai 12-13 anni. A quel
momento diventavano “Balilla moschettieri”: venivano ancora più
1
Intervista realizzata da Federica Balli, Bologna, 8-9 gennaio 2011.
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Catturare le storie
militarizzati sul piano del vestire, avevano un fuciletto, finto naturalmente
che si portava a tracolla, e le giberne. Io francamente mi vergognavo un po’
di girare così. Ricordo un giorno, c’erano a quell’epoca i tram, i tram
elettrici, il conduttore mi chiese “dove vai poi con quel fucile lì?”
prendendomi chiaramente in giro, io mi vergognai, ma cosa potevo
rispondere? vestito così dovevo partecipare alle adunate: il sabato
pomeriggio invece di lasciarmi in pace di giocare, come mi sarebbe piaciuto,
a pallone o a fare le corse come un bambino qualunque, dovevo partecipare a
queste marcette che facevo su e giù per le strade delle città; e con questo,
non so quale fosse il tipo di contributo che portavo alla mia cultura militare,
marciando in fila ordinati e cantando delle canzoncine sceme. Comunque
quello era il bambino, bambinetto poco più di un ragazzino che sfilava per le
vie della città; anche perché trovavo sempre dei giovanotti più stupidi di me
che erano i comandanti fino ad arrivare agli alti gradi. E questa è la
dimostrazione di come, forse, un regime politico, può portare alla
degenerazione anche dell’infanzia.
Dopo la guerra, ho ricominciato a studiare perché, durante la guerra,
ovviamente, tutto era saltato, ho ricominciato a studiare, mi sono diplomato,
ho dato un esame di maturità, (c’era anche a quell’epoca) e mi sono iscritto
all’università. Approfittando del fatto che avevo a Milano uno zio, fratello di
mio padre, mi sono iscritto a una facoltà che mi era sempre piaciuta,
architettura. Quando comincio a frequentare il Politecnico di Milano era
l’anno 1949.
Milano per me rappresentava un traguardo, una conquista. Prima di tutto ero
l’unico bolognese che frequentasse la facoltà a quell’epoca; per doverosa
informazione eravamo in 129 iscritti al primo anno di architettura, 129 e ce
ne erano ben 7-8 che venivano dall’estero, erano figli di italiani magari
immigrati in Argentina o Cile o altrove che avevano deciso di frequentavano
l’Università in Italia.
La facoltà era ancora legata a una concezione molto militaresca: ogni mattina
veniva fatto l’appello e a mezzogiorno e mezza per vedere se qualcuno era
andato via (il cosiddetto lavativo) facevano il contrappello. Cose che a me
facevano ridere, dicevo: “Ma come l’università è una scelta, io vengo qui
apposta per studiare, per imparare e viceversa sono ci fanno appelli e
contrappelli?”. Che fosse una facoltà, dicevo, militaresca è dimostrato anche
dal fatto che, accanto ai voti riportati durante le prove grafiche, che duravano
ben 8 ore, ci fosse una colonna su cui veniva descritto il “comportamento
tenuto durante le prove”. Io ero a cattivo, ero sempre fra i cattivi perché mi
sembrava incredibile che mentre uno disegnava non potesse, che ne so io,
cantare per esempio, o raccontarsi delle storie. Eppure l’università era quella.
Io vivevo alla casa dello studente, allora per una volta o due, durante queste
prove, ci arrangiammo con dei panini, poi la cosa non ci piaceva; quindi
decidemmo di farci da mangiare in aula, con tanto di fornello a spirito e
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Catturare le storie
cuocere le uova con la pancetta in classe, vi lascio immaginare l’esito: un
fumo, una cosa incredibile. I bidelli così si rifiutarono di consentire che la
cosa continuasse.
L’università era davvero rigida e ancorata a una gerarchia molta precisa. Me
ne accorsi quando pensai di organizzare un sopralluogo in un cantiere: pensa
un po’ eravamo degli architetti che non avevano mai visto in vita loro un
mattone, non sapevamo nemmeno come fosse fatto, conoscevamo tutte le
misure del mattone, avevamo tutta una serie di conoscenze tecniche molto
precise, ma non avevamo mai visto lavorare, non conoscevamo un cantiere.
Allora pensai, organizzai una visita al cantiere, una visita a un cantiere con
quello che allora era il nostro assistente, uno dei nostri assistenti, quello più
simpatico e disposto a seguirci in questa uscita. Andammo in un cantiere e al
ritorno, sulla porta dell’aula dove noi lavoravamo c’era un documento in cui
si minacciava di espulsione tutti coloro i quali avessero organizzato visite a
un cantiere al di fuori dell’ordinamento delle autorità accademiche. Senza
saperlo ero un sovversivo, un criminale, da minacciare d’espulsione.
Questa cosa ebbe un seguito, dopo aver frequentato con profitto, devo dire,
fino al terzo anno, non mi sentii di continuare a frequentare il Politecnico,
non andava bene per me: mi sembrava che la mia libertà fosse menomata da
questo tipo di Università, insisto a dire, militaresca.
E guarda che il corpo docente era per molti aspetti anche di pregio rilevante,
però sotto altri profili, i professori appartenevano a una concezione di scuola
che non condividevo. Ricordo sempre quando andai a prendere la firma di
frequenza ad un corso, il professore dice: “Balli, lei ha fatto soltanto 9 prove,
erano prove scritte, per essere ammessi alla firma, bisognava che lei ne
facesse almeno 16 oppure per essere ammessi alla sessione successiva per lo
meno 10”; io invece ne avevo fatte 8, guardai il professore in faccia e gli
dissi queste parole: “professore lei ha visto le mie 8 prove? sa che valgono
molto di più di quelli che ne hanno fatte 16?” a quel punto il professore mi
firmò il libretto.
Così andai ad iscrivermi, con altri tre amici, all’università di Venezia.
Quando arrivai all’università di Venezia, avemmo l’impressione di essere
noi i professori. Cioè Venezia da un punto di vista urbanistico era al polo
opposto rispetto al Politecnico di Milano. Nel frattempo, il nostro assistente,
quello che mi aveva accompagnato alla visita al cantiere, divenne professore
a Venezia. Ricordo benissimo il primo esame che diedi, era un esame di
urbanistica; esame di urbanistica che per solito si svolge attraverso delle
tesine, degli studi, delle statistiche, delle comparazioni; io ed i miei amici,
invece, decidemmo viceversa che l’esame l’avremmo dato con un film, un
film? dunque, primo non avevamo un soldo, quindi fare un film già era
un’impresa; era un’impresa perché disponevamo di una macchina da presa
che era servita, pensa un po’, per la spedizione del K2 ed era arrivata sino a
essere usata per fare questo film. Si trattava di un film musicato, dato che
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Catturare le storie
uno dei nostri amici era molto amante della musica; per la parte parlata ci
servimmo di mio cugino che frequentava a quell’epoca il piccolo teatro di
Milano, quindi una voce perfetta. Quindi il giorno dell’esame dicemmo che
noi ci saremmo presentati così, naturalmente la cosa ebbe un effetto
sconvolgente, nel senso che nessuno mai si era presentato all’esame di
urbanistica con un film. Viceversa la cosa ebbe un grandissimo successo,
venne proiettato in aula magna con gli applausi e le ghignate dei nostri
colleghi perché era un prodotto nuovo e tra l’altro ben riuscito.
E tanto per dare un’idea di come i tempi siano molto, ma molto cambiati,
parlo del 1950 e rotti, l’ultimo esame si svolge in un pomeriggio caldissimo
di Venezia, con il professore che era sbronzo, sbronzo, ma proprio duro.
Il professore aveva con sé l’assistente, il quale poveretto guardava fuori dalla
finestra perché l’unica parte che poteva guardare era quella. Io mi presento
all’esame, e prima di me altri otto erano stati cacciati via, immaginatevi lo
spirito con cui mi presento. Io avevo già preparato la tesi.
Comunque alla prima domanda rispondo in un qualche modo, ma la seconda
domanda era incomprensibile, io dico “professore era incomprensibile la
domanda”, potete immaginare cosa sia successo, si può immaginare la scena;
quando io dico “no, professore, io non vado via (perché mi era già stato detto
due volte “vada via”) io non vado via” e aggiungo: “professore io ho diritto
ad un’altra domanda”; la parola diritto l’ha svegliato, è diventato rosso
paonazzo, è andato alla lavagna, ha fatto tre scarabocchi, io gli altri quattro,
con un “18 e vada con Dio”, sono uscito dall’aula, ho preso il mio libretto,
l’ho fatto volare per l’anticamera e sono andato a laurearmi.
È evidente e molto chiaro altrettanto che la laurea era già pronta e se ben
ricordo, anzi è meglio consultare il calendario che è appeso in cucina dove ci
sono tutte le dati importanti, mi sono laureato “il 19 novembre di 55 anni fa”.
È altrettanto evidente, che oltre alla laurea c’era pronto anche la svolta
fondamentale della mia vita, della nostra vita, cioè il matrimonio.
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Catturare le storie
Domenica Vaccarini1
“Quelle povere donne erano schiave”
Noi eravamo di famiglia molto uniti ma c’era una gran miseria. All’età di 9
anni, cioè sarebbe stato il tempo della guerra, m’hanno mandato a servizio,
sono andata a servizio a Riccione, anzi, da una famiglia molto per bene, ero
andata a badare una bambina, che poi ero bambina anch’io: prima mi
preparavano a me, mi lavavano, mi facevano le treccine, poi andavamo a
spasso con la carrozzina con questa bambina. A me piaceva di andare a
servizio dalle persone ricche che mi tenevano molto bene e mi volevano
molto bene
Stavo bene, mi volevano bene mi trattavano bene, ma io soffrivo proprio per
soffrire perchè mi mancavano i miei fratelli e io avrei voluto andarli a
trovare sti fratelli, ma purtroppo quando mi ha portato giù mio babbo a
lavorare laggiù mi ha portato giù con un cavallo, con un cavallo proprio, mi
ha fermato lì dicendomi io adesso Domenica ti lascio qui, io devo andare a
fare dei giri ma presto prima che faccia notte, ti vengo a prendere. Invece si è
fatto notte e non è venuto a prendermi: io sognavo, sognavo, da dire ormai
arriva ormai arriva ormai arriva, si è fatto notte, sono andata a dormire e io
ho pianto tutta la notte, sempre con la speranza che arrivasse il mio babbo,
poverino. Allora eravamo di Montefiore, io ero a servizio a Riccione quando
la mattina che era di venerdì che c’era il mercato a Riccione venivano giù
quelli di Montefiore che andavano al mercato a Riccione coi cavalli, che io
sentivo camminare il cavallo sotto la finestra, io andavo alla finastra per
vedere se era il mio babbo che arrivava col cavallo, se mi veniva a prendere
e invece lui non si è mai visto. Io ho lasciato passare un po’ di tempo
fintanto che io ho preso e sono scappata via e sono andata a casa. Una bella
mattina arrivano sti signori dove io ero a lavorare e arrivano in casa e io ero
una bambinetta, mi sono nascosta sotto il letto per non farmi vedere e per
non farmi portare via. Loro poverini sono venuti su, porta il regalo a una,
porta il regalo all’altro, per riportarmi via e io ci sono andata dopo, dai e dai,
dai e dai, ma a malincuore. Piangevo, mi trovavo male. Sono stata poco lì,
un annetto, poi sono andata sempre a Riccione dai signori che si chiamavano
Fantini. Erano ricchi, ma proprio i veri ricchi. Ero lì e loro mi imparavano di
tutto, io avevo imparato tante di quelle cose, mi piaceva imparare a me e
allora io ci tenevo mi facevano fare la cameriera e questi signori ricchi, mi
facevano mettere il grembiulino bianco, mi facevano mettere la ghirlandina
in testa, insegnare a servire a tavola, come si faceva a mangiare, come si
faceva a bere, come si faceva a apparecchiare. Allora un giorno quella
signora mi fa: “dai, adesso mangi a tavola con noi” ma io non ci sapevo fare
1
Intervista realizzata da Alessia Santella, Montefiore Conca, 27 gennaio 2007.
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Catturare le storie
a stare a tavola con loro, perché a casa mia molte cose non le avevo
conosciute. Due bicchieri, che cosa si fa con 2 bicchieri?
Mi diceva: “va a prendere il prezzemolo”, ma io il prezzemolo non sapevo
che cos’era. Io dico che cosa sarà sto prezzemolo!. Incontro una mia amica e
ci dico alla mia amica: “Maria vieni con me”, “Cosa devi fare?”, “devo
andare a prendere il prezzemolo, dai vieni con me che mi fai compagnia” e
io mi tenevo in mente prezzemolo, prezzemolo, così che non mi dimenticassi
sta parola che mi sembrava una parolona. Vado là e la Maria mi fa: “dai
entra, è lì il prezzemolo, vallo a prendere” e io dicevo: “io vado oltre, vieni
anche te con me”, io non volevo mai fare una figuraccia brutta, “vieni con
me che io non mi arrischio di chiederlo”; allora entra con me e dice:
“prendilo su, prendilo su”, ma cosa prendo su? io non sapevo che cos’era il
prezzemolo; allora va lì e me lo prende lei.
Dopo ho ricambiato. Ho ricambiato, ma per cambiare non era facile. Vado in
una pensione: ah, Madonna, lì è successo la fine del mondo, cominciavo ad
avere 14-15 anni. Vado lì, ma a me m’hanno imparato tante cose, io so fare
tante cose, so fare quello, so fare da mangiare, so servire i tavoli, so stare in
mezzo alla gente, mi hanno insegnato un po’ di tutto, diciamo, però è stata
tutto un traffico la mia vita, tutto un traffico, tutto un traffico. Poi, sono
andata a servizio con una signora, cominciavo a essere una ragazzina. Era
una sarta. Questa sarta mi ha imparato a cucire, mi ha imparato di fare tutto,
ma io carina, ero sempre una bambina, come posso dire, avevo tutto da
imparare. Allora vado lì da questa sarta che mi ha imparato a far la sarta,
dopo io avevo fatto il ragazzino, sapevo poco scrivere, e mi scriveva lei a
questo morosino, mi insegnava lei come si doveva fare quando lui mi
scriveva e dopo lui copiava nei libri per scrivermi. Dopo anche lì sono stata
un bel po’, sono diventata grande, sono andata in albergo. Questa signora,
che sono andata a lavorare in questo albergo, questo dottore come si chiama,
adesso non mi ricordo, che è in via Pogna, comunque sono andata a lavorare
da questi due signori che erano loro due cugini, mi avevano preso come per
figlia, mi avevano domiciliato con loro, mi volevano bene, mi avevano fatto
proprio come un testamento che se io rimanevo con loro, loro mi davano
tutto quello che avevano, ma loro erano ricconi, ricchi, veramente ricchi e
tutto mi lasciavano a me. Dopo invece io mi sono sposata ma come sono
entrata lì come contadina a lavorare con loro mi sono ammalata perché non
ero capace a fare quei lavori, tira avanti, tira avanti. Quando lei mi ha fatto
sto testamento che io dovevo sposarmi e rimanere lì, io non sono rimasta lì
però mi hanno detto che se io venivo via non prendevo niente; Hanno messo
un’altra donna lì, un’altra signora. Lì ho avuto una bella fregata perché sono
andata ad abitare lassù con sti contadini, con mio marito con tutto, ma io
come sono stata lassù mi sono ammalata subito.
Io non ce la facevo ad andare in campagna perché proprio non avevo la
resistenza, non l’avevo mai fatto e stavo male. Mia suocera poverina era da
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Catturare le storie
sola, loro mi volevano bene ma io ero la schiava di tutti io non ce la facevo a
fare una vita così anche se mi volevano bene, così ho preso e sono andata a
cercare una casa per conto mio e sono andata a abitare per conto mio.
A mio marito ho detto: “sta a sentire Lino, se te vuoi venire con me vieni, io
però non voglio guastare niente, la tua mamma è la tua mamma, ci devi voler
bene alla tua mamma ma io qui non ce la faccio a stare, non resisto a stare
qui”. Ho preso una bella mattina, la sera gliel’ho detto, la mattina sono
andata via, ma io ero malata, ero diventata proprio una morta, niente, ero
diventata niente, niente, ma io sono stata operata, tante cose, non capivano
cosa avevo, era tutta sta depressione che avevo preso per stare in famiglia e
per andare in campagna. E allora vado giù, trovo la casa però io ho detto,
dico adesso mi salva la parola, che la venga a vedere anche mio marito. La
mattina gliel’ho detto: “se vuoi venire con me vieni, se non vuoi venire con
me io non voglio guastare niente, faremo come si può fare meglio e in
qualche modo tiriamo avanti”. E invece lui ha accettato, siamo andati a
abitare a Rimini, dopo è nata anche la Mariangela e via e via e così abbiamo
tirato avanti, ma sacrifici su sacrifici, dopo è venuto il bello, lavoro giorno e
notte, sacrifici, miseria, un po’ di tutto, dopo 4 figli e io sono sempre andata
a lavorare lo stesso, sono sempre andata d’accordo molto con mio marito, mi
ha sempre voluto molto bene, ho sempre fatto quello che mi pareva, ma lui
me l’ha sempre lasciato fare, io non posso dire niente, perché in fin dei conti
non mi ha mai trattato male nessuno, diciamo, m’ha voluto sempre bene
perché anche lui ha dato retta a me, ha visto che io non ce la facevo, dopo è
venuto dietro anche lui. Poi dopo siamo stati un bel po’ a Rimini, io a
lavorare lo stesso, lui a lavorare lo stesso, tutti abbiamo lavorato, un figlio
dietro l’altro, sacrifici che ne abbiamo fatti un casino, non dico di aver
sofferto la fame, ma abbiamo tirato per tirare. Dopo capirai la situazione si
complicava sempre di più dopo, dove andavamo dovevamo pagare l’affitto e
l’affitto era caro e abbiamo tentato di fare sta casa, diciamo con sacrifici a
lavorare giorno e notte e via via. I figli sono sempre stati tutti bravi, hanno
lavorato tutti. Siamo stati sempre uniti e d’accordo e abbiamo tirato avanti
fino a che si è potuto. Abbiamo fatto la casa, abbiamo avuto il coraggio di
farne un’altra di sotto dove c’è Santino, e abbiamo tirato avanti, ma credete
che è stata durissima, è stata durissima perché c’è solo stata la tranquillità e
la pace che siamo sempre andati d’accordo. Dopo abbiamo avuto il coraggio
di fare ancora quella casa lì di sotto e di lì si è ricominciato coi debiti, si è
ricominciato con tutto e si è sempre partiti così. Tornando indietro, a quando
ero nella famiglia con mia suocera, anche i bambini quando nascevano, non
eravamo noi che decidevamo di mettere il nome ai bambini, tutto le suocere
facevano, tutto. Io non ho mai deciso. Perché Santino si chiamava Santino?
Perché è nato il giorno dei santi, perché la Luigina si chiama Luigina?
Perché il nonno era già morto e ci ha messo il nome del nonno. Ma non è che
loro ti dicevano, te dici, io voglio metterci sto nome, è loro che dicevano
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Catturare le storie
cosa ci mettevano ai figli. La donna, la nuora che entrava in casa, era dopo
del cane, te sei l’ultima a comandare perché sei l’ultima arrivata; perché il
cane c’era già. Te non comandavi niente, sai cosa vuol dire niente? Se te
andavi nel campo, col marito, così, a mandare avanti i lavori, facevi fatica a
tornare indietro perché pensavano che andavi a osservare la nonna se trattava
bene la tua figlia, diciamo. Eravamo schiavi quella volta, che poi si prendeva
le botte anche dalla mattina alla sera dagli uomini, io no, perché io non le
avrei prese proprio, io scappavo, non è che io ero una, sono sempre stata
così. Quante volte quelle povere donne. Loro, gli uomini di una volta, si
facevano servire. Quelle povere donne erano schiave: non potevi parlare, non
contavi niente, non avevi una lira, te non comandavi niente, non avevi
niente, non avevi una lira in tasca. Io una volta, io ad esempio, quando ero
incinta della Luigina, mi era venuta voglia della mortadella, la mortadella
cos’è, niente, la minima cosa che costa; io non ce l’ho fatta a mandarmi via
questa voglia di mortadella perché la mia suocera non aveva i soldi da
comperarla; me l’ha portata una fetta la mia mamma tanto per dirti, e di lì
non potevi dire. Le donne una volta, non si spiega, erano trattate male,
proprio schiave, hai capito? era tutto un disastro, un macello una volta,
adesso le donne fanno bene, farei anch’io così. E’ tutto un insieme. Io l’avrei
fatto anche quella volta, e l’ho fatto; sono scappata io, sono andata via, come
no!. Tante cose, tante cose che ci sono. Ad esempio succedevano delle cose,
te non ti potevi permettere di fare niente. Io ho avuto un’infanzia brutta,
perchè sono sempre stata sotto gli altri, ma l’ho anche avuta brutta perché mi
sono sposata, che ho sposato un contadino che io non ero abituata. Io sono
nata che i miei erano operai, un contadino stava già molto meglio di un
operaio, io la fame non l‘ho mai sofferta perché il mio babbo era un uomo
che si dava da fare, però a mano a mano che noi venivamo su, andavamo a
servizio. Dopo io ero abituata a stare sempre in mezzo a sti signori,
veramente signori, che dopo io ero diventata proprio che ci tenevo a andare a
lavorare per imparare tante cose. Io quando tornavo, ero una regina di lassù,
diciamo, anche se ero una donna di servizio, vedevo quelle povere donne che
zappavano dalla mattina alla sera, io invece tutta fresca.
Come ti dicevo sono stata poco con mia suocera, sono stata 3-4 anni, a mo
morivo se no, io proprio ero diventata proprio niente, niente, io ho detto sta
vita proprio non ce la faccio a farla perchè non è come il contadino di adesso
che ha tutti gli attrezzi; quella volta, lì, zappare, vangare, mietere, era tutto a
mano, adesso, adesso cos’è?. Il contadino adesso è meglio che un impiegato,
perché monti lì sopra e fai tutto con i trattori, con tutto, ma quella volta,
quella volta ci voleva la salute, ci si alzava alle 4 e si andava a letto alle 11.
Perché era tutto... anche il fieno ... adesso voi ste cose non le conoscete, si
tagliava tutto con la falce, tutti per fare il pagliaio, il grano tutto a mano,
tutto a mano si faceva; quella volta c’erano le mucche che avevi nella stalla,
che aravi con l’aratro diciamo. Tempo ancora più indietro, non c’era l’aratro
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Catturare le storie
di ferro come adesso, c’era l’aratro di legno. Quei poveri contadini nei
greppi, che lassù erano tutti greppi, tutti, tutte salite e discese, tutti dalla
mattina alla sera, dalla mattina alla sera a zappare lì, magari seminavano un
quintale di grano e ne raccoglievano un quintale perché in mezzo a quella
terraccia così, la roba non fa, però dalla mattina alla sera disperati così e quel
pezzo di pane e basta si mangiava. Perché se c’era un po’ di vino, toccava
venderlo se volevi vivere, se c’era una gallina che faceva l’uovo ti toccava
venderlo per comperare il sale, per comperare lo zucchero, per comperare
quello che serviva. Non è che te avevi uno stipendio, che ti arrivava lo
stipendio; lì non c’era niente, lì si mangiava sulla terra; quello che c’era:
c’eran le bietole, si mangiavano le bietole, c’eran i pomodori, si faceva da
mangiare coi pomodori. La nonna, mi viene sempre in mente poverina,
arrivava dalla campagna alle 11-11.30; poi, passava nel campo, se c’era la
fava, se c’era le bietole, se c’era quello che c’era, raccoglieva su quello che
c’era, poi metteva su un tegame o quello che c’era per mettere su l’acqua per
cuocere da mangiare, prendeva un po’ di conserva … . Il pane si faceva una
volta alla settimana, quel pane; mica andavi tutti i giorni a prendere il pane al
forno! E mangiavi il pane senza niente. Quella volta era una gara dura. Poi
noi andavamo a casa che da mangiare che la nonna aveva fatto era sempre
quello, sempre quello, due bietole, due fave, un pollo se c’era dovevi
venderlo per comperare altre cose, se la domenica riuscivi ad ammazzare un
pollo ma proprio proprio proprio… .
Emilia Romagna, 1950
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Catturare le storie
Francesco Pirini1
“La strage è stata una cosa improvvisa”
La mia famiglia vive in questa casa dal 1 maggio 1795, veniva da una
località che si chiama Rioveggio, facevano i contadini, vendettero là e
comprarono qui. Quando avvengono i fatti che vanno sotto il nome “strage
di Marzabotto” la mia famiglia abitava qui. Erano due fratelli che pur
essendosi sposati erano rimasti in un unico nucleo familiare. Mio padre si
chiamava Orlando, suo fratello si chiamava Filippo. Mio padre aveva 3 figli,
io ero il più grande, mio zio aveva sei figli. Anche con la guerra e le
restrizioni che c'erano, il fascismo, non abbiamo mai avuto grossi problemi
dato che lavoravamo la terra di nostra proprietà. Ma quando l'Italia fascista e
la Germania nazista stavano “prendendole sonoramente”, finalmente gli
alleati sbarcarono in Sicilia e incominciarono a salire lo stivale. La nostra
chiesa parrocchiale si chiamava S.Maria Assunta di Casaglia, io fui
battezzato lì, feci anche la cresima e la comunione lì, la domenica si andava
a messa perché allora guai a mancare, e si andava sempre lassù. Il 18 Maggio
1944 mio padre rimase a casa, perché quando la famiglia andava in chiesa, a
casa rimaneva una persona adulta ad accudire il bestiame, che quando ci
sentiva tornare andava a messa a Vado. Quel giorno mio padre partì con la
bicicletta e andò a Vado, quel mattino gli Americani (Alleati) vollero
distruggere il ponte di Vado. Questi sbagliarono bersaglio (come capitava
spesso) e in quell'occasione morì mio padre, con altre 17-18 persone (quasi
mezzo paese). In seguito all'8 settembre ci fu l'occupazione militare tedesca.
Allora si lavorava a braccia e ogni uomo che partiva erano due braccia in
meno che lavoravano, perché erano dei contadini, quindi incominciarono a
nascondersi e nacque il gruppo partigiano che va sotto il nome di “Brigata
Stella Rossa”, che poi è stata sfruttata politicamente, dicono: Stella Rossa
tutti comunisti, non era affatto vero, assolutamente; c'erano persone di tutti i
tipi, 40 o 42 carabinieri che non avevano aderito alla Repubblica Sociale, e
che successivamente divennero partigiani in questo gruppo, c'erano soldati
inglesi sfuggiti dai campi di concentramento, c'era anche un indiano che si
chiamava Ashad, e che aveva il turbante tutto sporco ma lui lo portava lo
stesso.
Quando pensavo ai tedeschi avvertivo un senso di pericolo. Fu per questo
che il giorno dopo che morì mio padre, ci trasferimmo in una località che si
chiamava Cerpiano. Una sorella di mio padre, Margherita, la quale aveva
una casa ereditata perché era stata domestica di un sacerdote, nativo di
Cerpiano (figura importante poiché portò lassù la scuola elementare e
l'asilo), che la ricompensò per il servizio, regalandole questa casa con un po'
di terreno, dove noi ci trasferimmo. Noi ci trasferimmo lì dopo che sembrava
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Intervista realizzata da Gianluca Rafanelli, Marzabotto, 13 novembre 2010.
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Catturare le storie
impossibile vivere dove abitavamo, per colpa dei ponti stradali e ferroviari
distrutti, ma anche perché i tedeschi venivano con i cacciabombardieri, ad
ispezionare e a mitragliare, per cui risultava difficile addirittura stare fuori di
casa senza fare niente. Allora la gente, compresi noi, ci trasferimmo più in
alto. L'alto numero di morti è causato dal fatto che da Gardelletta, le persone
si trasferirono sul monte pensando che non vi fossero obbiettivi militari e che
sarebbero arrivati gli Americani.
Noi eravamo a mangiare a casa in cucina, quando mia madre sentì le mucche
muggire, corse fuori e vide un soldato tedesco che si stava portando via una
delle nostre tre mucche. Mia madre vedendo questa azione disse: “Adesso
rimediamo, porterò le mucche su a Cerpiano e tu andrai ad accudirle”, questo
fu il motivo che determinò il nostro trasferimento a Cerpiano. Quindi andai a
Cerpiano, mia madre e le mie due sorelle mi raggiunsero poco dopo. In
quella zona vi era un gruppo partigiano, che aveva subito un rastrellamento
più a Nord presso il monte Santa Barbara. In quell'occasione i tedeschi si
comportarono anche bene, entrando in un asilo di bambini chiesero alla
maestra di scrivere sopra la porta di entrata “asilo infantile” anche in tedesco.
Inseguiti, i partigiani se ne andarono e tornarono all'inizio di Agosto del '44.
I partigiani, questi giravano, perché il più grande errore che può fare un
gruppo partigiano è quello di restare fermo in un posto. Non restare attaccati
ad un particolare posto era importante per i partigiani al fine di non essere
scoperti. Questi partigiani avevano qualche anno più di me, si nascondevano
nelle stalle e facevano la guardia. Tra loro c'era un ragazzo di nome
Magnani, egli aveva un binocolo e io mi divertivo a guardare quando era il
suo turno di guardia. Le cose sembravano andare bene fino al 28 Settembre,
giorno prima della strage. Lo stesso giorno arrivò un Professore delle AldiniValeriani, scuola superiore di Bologna, chiamato Fabris, venuto a Cerpiano
con la moglie e i due figli. Sempre quel giorno sentimmo sul versante est i
colpi di cannone degli Americani che colpivano la montagna, sfondando la
linea gotica. Tutti pensammo “Fra qualche giorno sono qui”, invece le cose
andarono molto diversamente. Il mattino del 29 Settembre, andai a
raccogliere l'erba per i conigli prima che piovesse, ma fu proprio quando mi
trovai nella discesa per raccogliere il cibo per i conigli che vidi quattro case
in fiamme, capii subito che si trattava di un rastrellamento, poiché nella
stessa zona ce ne furono anche durante l'estate ma senza alcun morto tra i
civili, solo case bruciate. Tornai indietro e vidi mia madre davanti la porta di
casa che mi disse di prendere qualcosa da vestire per coprirmi se avesse
piovuto. Io ero abituato a nascondermi tutte le volte che vi erano soldati
Tedeschi o della Repubblica di Salò, perchè era già capitato che mi
utilizzassero per fare dei lavori pesanti. Quando stavo andando a
nascondermi, contrariamente a quello che molti dicono, anche i partigiani
che si trovavano a Cerpiano stavano andandosene. A quel punto decisi di
andare con loro, più in alto di Cerpiano vi era un altro paesino chiamato
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Catturare le storie
Rizzola, mentre lo stavamo raggiungendo un partigiano nascose nell'erba la
sua pistola a tamburo tanto era niente in confronto alle armi dei tedeschi. Il
comandante di questo gruppo si chiamava Tito Commellini, ed era parente di
mia madre. Fu sorpreso a vedermi, e successivamente decise di recarsi a
Monte Sole. Lungo il sentiero, tutt'ora presente, per arrivare a Monte Sole,
dove sono presenti varie rocce, i Tedeschi ci scorsero in lontananza e
incominciarono a sparare, i tonfi dei proiettili erano udibili per il suono delle
pietre che si sgretolavano. Io, preso dalla paura, decisi di non andare e decisi
di tornare a Cerpiano per vedere cosa stava succedendo. Nascondendomi in
un fosso dove riuscivo a controllare quello che accadeva vidi un gruppo di
soldati tedeschi delle SS procedere in fila indiana, questi erano 14.
Prelevarono tutte le persone dalle case le portarono in chiesa chiudendo la
porta (la piccola chiesa di Cerpiano era dedicata agli angeli custodi, e
tutt'oggi è ancora presente il rudere). Una volta che le persone erano tutte
dentro lanciarono una bomba a mano, che non appena fu lanciata dentro
spaccò i vetri delle finestre provocando un gran frastuono. Solo tre le
persone si salvarono; tra questi civili vi era anche una suora Orsolina,
maestra di un asilo qui vicino. Prima, nessuno aveva immaginato che le cose
potessero andare in quel senso. Noi tutti eravamo tranquilli, era stata una
cosa molto dura trasferirsi lassù a Cerpiano,tutto l'occorrente, i vestiti, letti, il
necessario per mangiare fu portato con fatica, attraverso gli sforzi delle
persone e del carro a trazione animale, e ci volle molto tempo.
Tornando all’eccidio e alla strage, i partigiani alla fine della settimana si
erano ritirati sul Monte Sole, quindi non vi era un vero e proprio conflitto in
atto. C'è stato un solo punto di resistenza, nella località chiamata Cadotto. Lì
un gruppo di partigiani guidati da “il Lupo”, Mario Musolesi, che abitava qui
vicino, avevano conquistato il monte Cataretto e si fermarono lì a 4-5 km dai
luoghi della strage inconsapevoli di quello che sarebbe accaduto. L'errore dei
partigiani fu proprio quello di fermarsi in quel posto, in quanto il versante est
ed ovest di Monte Sole era pieno di Tedeschi, così anche le zone limitrofe
come Monzuno. Una fatto che mi rimase molto impresso, fu che quando i
tedeschi furono costretti a ritirarsi, si portarono via con loro il bestiame e
tutto ciò che potevano. Una volta i partigiani sottrassero ai Tedeschi un
gruppo di bestie, con corni enormi, provenienti dalla maremma, per darle ai
contadini per arare i campi. I Tedeschi sapevano bene che quelle bestie erano
state date dai partigiani ai contadini, e sapevano dove si trovavano i
partigiani casa per casa, sapevano anche dov'era il comando, anche se era
stato detto che si trovava a Cadotto invece che a San Martino.
I partigiani non potevano evitare la strage. Non potevano fare niente. I
partigiani non avevano esperienze militari, non avevano un comando
unificato, poiché si riunivano tutti all'interno delle stalle, e in posti lontani
senza avere comunicazioni tra di loro, poiché vi era qualche km di distanza
tra di loro.
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Catturare le storie
La strage è stata una cosa improvvisa, che non si aspettavano, i Tedeschi da
Monte Sole, Caprara e Monte Castellino, avevano un punto di vista
strategico, questi erano gli ultimi ostacoli naturali prima della pianura. Basta
dire che, dopo la strage, le SS avevano il controllo dal fiume Reno al Savena.
Grazie a questo, i Tedeschi riuscirono a fermare l'avanzata degli alleati
(Americani e Sesta divisione della corazzata Africana) verso la pianura
dall'inizio di Ottobre, fino alla metà dell'Aprile 1945. Fu grazie ai
Sudafricani che sparando 35.000 bombe al napam su Monte Sole, Monte
Caprara e Monte Castellino, riuscirono a fare ritirare i tedeschi, il 15 Aprile
1945, avanzando su di un territorio pieno di mine.
In totale ho perso 13 persone della mia famiglia a Cerpiano, una nel cimitero
di Casaglia, e mio padre sotto i bombardamenti di guerra. Sono quelle cose
che segnano la vita.
I miei parenti li chiusero dentro la chiesa di Cerpiano, e dopo aver gettato la
bomba li lasciarono li, io continuai a guardare nascosto, ad un certo punto,
una persona adulta uscì dalla chiesa, allora i tedeschi spararono una piccola
raffica, uccidendolo e facendo cadere il cadavere sull'ultimo scalino della
chiesa. Dopo ho saputo che quell'uomo era Orlandi Pietro, un contadino di
Cerpiano. Qualche ora dopo anche una donna leggermente ferita o incolume
uscì, avviandosi verso le case, venne colpita e uccisa da una guardia
Tedesca.
In,seguito venne sera e notte, i Tedeschi erano sempre lì, incominciarono a
derubare le case, io ne approfittai per scappare. Il mattino del 30 Settembre,
affamato, bagnato ed esausto, cercai di nascondermi nelle case vicine, ma
non mi accolsero, per paura che i tedeschi mi scambiassero per partigiano e
ammazzassero me e i proprietari.
Otto giorni dopo assistetti ad uno scontro tra Tedeschi e altri soldati.
Realizzai che gli altri erano Americani. Andai nella loro direzione, eravamo
io e altri due ragazzi, e arrivammo alle prime linee americane. Era la 34°
divisione di fanteria dell'esercito Americano. Dopo avermi parlato in Inglese
andai con la loro Jeep nel paese di Monzuno, e lì dopo essere stato
interrogato sui possibili parenti che non avevo in quella zona mi affidarono
ad una famiglia di contadini con la quale rimasi sette mesi.
A quel punto, io non avevo nessuno con me. Nel cimitero di Casaglia, la mia
sorella Lidia, di 16 anni, e mio cugino Giorgio, di 15, quella mattina di
Settembre decisero di andare nella chiesa parrocchiale, dove il parroco era
morto nel 1942 (e io dico fortunatamente, perché così non vide il massacro
che successe), con lo scopo di essere più sicuri, perché si pensava che
potessero bruciare i fienili o le stalle, ma la chiesa mai. Lì quel mattino
arriva il parroco di San Martino, Don Marchioni, a celebrare la messa,
poiché la chiesa di Cerpiano era dedicata agli Angeli Custodi e il 29
Settembre era la festa di S.Michele Arcangelo, e lui fu invitato a celebrare la
messa.
51
Catturare le storie
Lui quando parte da San Martino avrà anche visto in lontananza le case che
bruciavano, e quando arriva a Casaglia trova la chiesa piena di gente e si
ferma con loro a recitare il rosario. Mia sorella, che si salvò, ha raccontato
che i soldati appena arrivarono, chiusero tutte le porte, per impedire che
qualcuno scappasse, ma da una porticina della sagrestia, tre persone
riuscirono a scappare nel bosco e si salvarono. Due uomini e una donna (la
sorella del parroco morto), invece, scapparono nel campanile, ma due soldati
li inseguirono e uccisero la donna e uno dei due uomini, mentre l'altro era
salito sulla campana e non fu visto. Quindi fu aperta la porta principale della
chiesa e furono fatti uscire tutti, compreso il prete, ma nella chiesa rimase
una donna,Vittoria Nanni, paralitica, i tedeschi pensavano che non volesse
ubbidire e uno le spara e la uccide. Il prete fu costretto a ritornare in chiesa:
Don Marchioni andò sull'altare a consumare le ostie consacrate, come è
obbligo fare per i preti in situazioni di pericolo. In quel momento gli sparano
e lo uccidono.
Le persone della chiesa furono portate al cimitero di Cerpiano, fecero entrare
tutti, mettendoli a ridosso del muro della Cappella, secondo l'altezza, quelli
più altri di dietro e davanti i bambini. Tutti piangevano disperati. Intanto mio
cugino Giorgio doveva urinare, e mia sorella gli disse di andare a ridosso del
muro. Appena lui si mosse gli spararono e fu il primo ad essere ucciso. Poi i
tedeschi si misero inginocchiati agli angoli del muro di cinta e col mitra
iniziarono a sparare sulla gente, mia sorella ebbe un proiettile conficcato
sull'anca destra e cadde a terra svenuta, gli altri le caddero addosso. In questo
modo si salvò sotto un mucchio di cadaveri e rimase sotto la pioggia tutta la
notte del 29 e poi solo nel pomeriggio del 30, quando i tedeschi se ne erano
andati, un contadino che andò a cercare la propria famiglia e sentì i lamenti
di mia sorella, tolse i cadaveri che le erano addosso e riuscì a tirarla fuori.
Così lei, appoggiandosi su un bastone si allontanò.
Gli altri miei familiari, sono tutti morti a Cerpiano. Quando gettarono la
bomba nella chiesa, buona parte delle 43 persone che erano lì morirono sul
colpo. Alcuni, invece, rimasero feriti, e i tedeschi li lasciarono lì tutto il 29 e
30 di settembre. Il 30 tornarono i tedeschi nella chiesetta per vedere chi era
ancora vivo ed ucciderlo. Si salvò Antonietta Benni, che poi racconterà
l'accaduto, lei rimase sotto ai cadaveri solamente ferita ad un braccio,
Fernando Piretti di 9 anni coperto dal corpo della madre, e Paola Ruffi, una
bambina di sette anni avvolta da una coperta. I tedeschi derubarono i
cadaveri da anelli, orecchini, collane, portafogli, borsette.. tanto che un
tedesco disse che misero insieme un piccolo tesoro.
Mia sorella, intanto, arrivò a Cerpiano, dove non avevano bruciato nulla
perché pensavano di mettere lì il comando. Tutti si rifugiarono nella casa più
grande di Cerpiano. Il 10 Ottobre '44 quando arrivò Reder nel paese,
s'installò in quella casa e mandò tutti in cantina, dove era rifugiato anche un
mio zio. Reder e gli altri ufficiali incominciarono ad approfittarsene delle
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Catturare le storie
donne, così mio zio nascose in un tino mia sorella e una ragazza di nome
Paolina. Tutte le donne furono portate di sopra e costrette a denudarsi,
comprese le suore, furono tutte violentate e poi cacciate fuori di casa, nude
nella campagna, siamo alla metà di Novembre del '44.
Quando vidi gli americani, mi sentii molto sollevato. Quando andai con loro
nella casa a Monzuno, ed ero lercio e pieno di pidocchi, la prima cosa che
fecero fu di scaldare l'acqua in un pentolone di rame e mi dissero di
spogliarmi, che avrei dovuto fare il bagno, mi diedero saponetta e una
polvere tipo DDT per togliere i pidocchi dai capelli. Poi buttarono via i miei
vestiti sporchi e mi dettero una linda divisa americana. Ho poi lavorato nei
loro magazzini e nella cucina. Ho di loro un gran bel ricordo. E ricordo
anche l'abbondanza di cibo che c'era.
Dopo l’eccidio, molta parte del paese era distrutto, il 18-19 Aprile 1945
quando ci fu la ritirata dei tedeschi, e io tornai nella mia casa, la trovai quasi
tutta distrutta. Lì c'erano stati anche i sudafricani a dormire. Poi seppi che
mio zio e mia sorella erano vivi e andai a Bologna a piedi per incontrarli e
insieme tornammo qui.
C'era tanto odio, pensare che erano stati uccisi donne e bambini... poi l'odio
passa col tempo ed io ero giovane e avevo tanta voglia di fare.
Filo d’Argenta (FE), 1945
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Catturare le storie
Aurelio Guardigli1
“Acthung”
Dunque, io figlio di operai sono andato a scuola. Eravamo pochi.
Addirittura, al tempo della resistenza, avevano più o meno un nome di
battaglia: “E student”. Lo studente, perché di quanti amici di qui, ero l’unico
che andava a scuola. Ecco, questo è un particolare. Mio padre, mio nonno e
mio zio erano antifascisti: io, bambino di sedici sì diciassette anni, non
capivo niente eh! E delle volte, dicevo: “Ha ragione il regime o mio padre?”
Io il 25 luglio del 1943 avevo diciassette anni e mezzo, noi giovani ci siamo
illusi che fosse finita la dittatura, che stesse finendo la guerra, che fosse
finito tutto. Invece era solo l’inizio dell’ultima parte, che è statala peggiore.
Mi ricordo che noi giovani, un po’ tutti, andavano in giro, dove c’erano delle
effigi di Mussolini per demolirle. Ricordo un particolare, nel quartiere di Cà
Ossi (Forlì), in Via Don Minzoni, c’è quella aiuola con un pino in mezzo. Lì
c’era un pilastro di cemento con sopra, in bronzo, la testa di Alessandro
Mussolini, il padre di Benito. E ci furon dei ragazzi di Cà Ossi che la
buttarono giù, poi la legarono, non era piena questa testa era vuota, e la
portarono in giro per tutta la città, legata dietro alla bicicletta, per spregio.
Quella è stata una reazione di noi giovani; i vecchi, invece, in un certo senso,
ci contestavano: “è inutile che vi illudete, non è finito niente! Comincia
adesso”.
E poi dopo è nata la resistenza. Io ho lasciato la scuola a gennaio del ‘44, a
metà anno. Noi eravamo 14 o 15 nella mia sezione, non molti. Circa la metà
non andarono nella repubblichina, l’altra metà andò nella repubblichina
fascista. Di quelli che non andarono nella repubblichina, molti riuscirono ad
andare fuori, nelle montagne, a casa di qualcuno. Si nascosero e qualcuno,
invece, aderì alla resistenza, di cui, ci sono stati due miei compagni morti,
che non erano nella mia classe. Quindi, abbiamo pagato per quello che
abbiamo fatto. Però io, personalmente, non sono pentito di quello che ho
fatto.
Io facevo parte delle squadre SAP, Squadre di Azione Patriottiche, che
avevamo il compito di creare disturbo ai tedeschi. Io abitavo qui in pianura,
però cercavamo di nasconderci. Io non andai in montagna per il semplice
motivo che mio zio, essendo un comandante della brigata. Mi disse: “No tu
non vieni in montagna, perché è troppa fatica in montagna!”. Io ero il
bambino di casa, insomma, anche a diciotto anni. Però era rischioso qui
come là. Là almeno combattevi fronte a fronte, qui invece facevi fatica a
sopravvivere. Comunque ho tirato avanti, ho rischiato due o tre volte ….
Ad esempio, dunque una sera dovevamo portar via dei chiodi, senza saperlo
incontrammo a distanza di cento metri una pattuglia tedesca, “ACTHUNG”
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Intervista realizzata da Martina Di Salvatore, Forlì, 18 dicembre 2010.
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Catturare le storie
non aveva ancora finito di dire “ATTENZIONE” che cominciarono a
sparare. E noi, a gambe levate insomma, il mio compagno cominciò a
sparare anche lui, ma non per colpire i tedeschi. Io mi sono trovato una volta
con una pattuglia fascista, i quali erano tre ragazzi di 17 o 18 anni, e niente,
si lasciarono disarmare e poi li mandammo via, non dico a sculacciate ma
insomma …
Il compito che avevamo noi, era quello di procurare armi alla brigata. Tutte
quante le caserme dei carabinieri o della milizia, tutte le frazioni, da San
Martino in Strada, che mi ricordo che si andava a piedi, a conquistare la
stazione per avere le armi. A Meldola, una grossa caserma, ricordo che si
procurarono più di 50 armi, che poi si radunavano in certi posti, per poi
andare a rinforzare la brigata.
I nascondigli erano tanti, il nostro, qui di Bussecchio (frazione di Forlì n.d.r.)
era il nostro cimitero, il cimitero di Bussecchio era. Fu un’idea di uno dei
nostri capi, “perché” uno dei giovani disse “perché fa paura, perché di notte
dormono tutti” (in dialetto romagnolo n.d.r.) Ricordo che di notte faceva
effetto entrarci.
Della nostra squadra, non ricordo azioni pericolose che si fece, perché nella
Via Emilia si mettevano quasi tutte le notti i chiodi. Lì, di fronte alla Via
Cerchia, sulla Via Emilia, una sera, io ero poco lontano, misero due bombe e
quando arrivò il primo camion saltò per aria. Però non ci fu nessun morto dei
tedeschi. Il camion portava rifornimenti al fronte, dalle armi alle munizioni,
viveri soprattutto. Quindi, era importante fermare questi carri.
Quando questo camion saltò per aria, dopo ci fu una grossa opposizione.
Rastrellarono tutte le persone anziane, oltre i 70 anni, anche mio nonno lo
presero, gli consegnarono un fucile a testa, da caccia, senza cartucce e li
fecero schierare lungo la Via Emilia, ogni cento metri, dicendo che dovevano
badare i ribelli che andavano a mettere le bombe. Come se, poi,
l’organizzazione partigiana non sapesse che questi vecchietti erano senza
cartucce.
A seguire, ci fu una grossa reazione e i compagni del Ronco fecero saltare la
ferrovia. Misero una mina sotto un binario della ferrovia e per due giorni la
ferrovia fu interrotta, la Forlì - Rimini. Lì, dopo il fiume del Ronco, misero
una mina sotto e la ferrovia saltò per aria. Dopo alcuni giorni ancora fecero
saltare anche un traliccio dell’alta tensione. Quello interrupe la fornitura
dell’energia elettrica. Io a questi due fatti non ho partecipato ma li conoscevo
bene. Poi, l’azione più importante fu fatta, fu la liberazione dei prigionieri
nelle carceri.
Andarono, con una organizzazione fatta molto bene, con due dei compagni
che si erano vestiti da guardia carceraria, bussarono alla porta, e subito dietro
il muro c’erano tutti gli altri. Allora, la guardia che c’era aprì la porta e
andarono tutti dentro. Uno dei nostri rimase al posto di guardia, si mise il
berretto di quello che era lì di guardia, armato naturalmente, e gli altri
55
Catturare le storie
andarono su nelle celle. Bloccarono tutte le guardie, fu una cosa molto facile
anche perché c’erano alcune guardie che erano state informate. Erano vicine
a noi, insomma. Liberarono 36 prigionieri, nelle carceri c’erano 200
prigionieri ma liberarono solo i partigiani e i politici, 36 persone che
uscirono e li fu un errore non organizzarli bene. Fu di pomeriggio alle 4 e
queste persone si sbandarono in giro per la città, perché non erano di Forlì.
Ce n’erano due di Piangipane di Ravenna … . Figurati te questo smacco per
la polizia fascista, andare a assaltare le carceri … e quella lì fu una grossa
vittoria. Tra i nostri c’era anche la Liliana, Liliana era poi il nome di
battaglia, si chiamava Elma. Eravamo molto amici, era amica anche con mia
moglie. Addirittura siamo andati in viaggio insieme con la Liliana a Cuba e
in Cina. È morta, cinque anni fa la poverina è morta. Era una ragazza, al
tempo della guerra, coraggiosa. Tutti quanti avevano armi nascoste, pistole.
Lei aveva una sporta con sopra della verdura e sotto c’erano bombe a mano.
Perché in mano tenevano posto, erano quelle tedesche con il manico.
Lei ne aveva 7 o 8 in fondo alla sporta e sopra c’erano dei finocchi. Era una
ragazza molto, molto sveglia e questo è l’evento più importante della nostra
squadra, quella della liberazione dei prigionieri. Io ho un libro che spiega
tutto quello che è successo quella volta lì. Ecco, un’altra volta che abbiamo
avuto paura, è stato quando hanno circondato la zona qui, Via Decio Raggi,
Via Cerchia, Campo di marte (le indica con movimenti della mano),
insomma tutta quanta questa zona qui, e hanno arrestato alcune persone. Noi
fummo informati prima e siamo riusciti a sgarzolare via. Di noi, della nostra
squadra, che non abbiamo mai potuto capire, due cugini che si chiamavano
tutti e due Rossi Gino, si erano nascosti, ma poi sono stati trovati esono stati
deportati in Germania. Sono tornai tutti e due. Uno però era messo male, che
dopo è morto poveretto, perché era rimasto 30 chili era rimasto così (fa un
segno con l’indice). Invece, dell’altro cugino, di cui io ero molto amico,
anzi, sono molto amico ancora, vedo spesso la sorella Silvana, che ha un
anno in meno di me. Avevamo fatto i ragazzi insieme, dopo la guerra siamo
andati a ballare insieme. La vedo sempre, nonostante i suoi 84 ancora è una
signora molto molto …
Eravamo una ventina qui a Bussecchio, Via Cerchia, Via Decio Raggi, qui
nella zona. Qui sulla Via Campo di Marte, io abitavo in Via Biagio Bernardi,
ma la prima casa che faceva angolo con la Campo di Marte. Eravamo un
gruppo in cui c’era: Mario, Domenico, Sergio, Tassinari, Colauto …
eravamo sette – otto qui, da questa parte qui, più quelli che erano di là. Tutti
quanti, più o meno, della stessa età. La maggioranza eravamo del ’25 e del
’26. Quindi avevamo 18 e 19 anni. L’unico più vecchio era Mario. Lui è del
’22, perché è ancora al mondo.
Dopo la guerra ci siamo organizzati, per fare il circolo a Bussecchio. Fu il
primo circolo qui a Forlì ad essere riattivato. Lo chiamavano il Camerone.
Prima era stato un teatrino, bello, costruito nel 1908. Era il circolo dei
56
Catturare le storie
socialisti, circolo intestato a Edmondo De Amicis, dove il suo motto, io anzi
ho ancora di sopra l’azione, il suo motto è “Il sole sorgerà ancora”. Era un
bel circolo. Sennonché tutti i circoli socialisti, anche comunisti, pochi allora,
furono bruciati dai fascisti. Quello lì però si salvò per un motivo
semplicissimo, che un gerarca fascista, imprenditore edile, disse:
“Lasciatemelo a me, che ne faccio un magazzino, non mi costa niente, ci
faccio un magazzino, piuttosto”. Allora, ha tenuto questo locale per
vent’anni, per tutto il regime. L’ha preso nel ’24, l’ha tenuto e l’ha utilizzato.
Appena passata la guerra, il fronte era ancora a Faenza, siamo andati a dire:
“Caro signore, tu hai sfruttato sto locale per vent’anni, ma questo è nostro”.
Perché la cooperativa era registrata al catasto, allora. “Ma io adesso non ho
soldi” perché noi abbiamo chiesto “Tu devi ripristinarlo” perché era tenuto
male. Lui disse: “Io vi offro tutto il materiale che volete. Pietre, cemento,
pavimenti, tutto”. Questo è stato nel ’45, subito. Il fronte qui da noi è passato
a novembre del ’44, anzi, subito dopo ci siamo messi a lavorare in questo
circolo.
Era bellissimo, con la galleria sopra, il palco in fondo. E abbiamo cominciato
subito nella primavera del ’45, era l’unico circolo dove si ballava. E poi,
altro circolo che fu costituito fu il cosiddetto “Rifugio dello studente”. Era
un capannone, che era in Via Volta: era un magazzino chiuso e allora si
organizzarono, andavo anch’io a ballare lì. Ma non ci andavo volentieri
perché c’erano tutti i “fighetti”, c’erano gli studenti del liceo, ricordo, che
con noi non avevano niente a che fare, perché c’era anche la guerra fra i
geometri, i periti e il liceo. Ma non andavamo d’accordo e quindi andavamo
più volentieri al Camerone, dove in aprile del ’46 ho conosciuto mia moglie.
Sì, mia moglie l’ho conosciuta lì. Era la seconda volta che usciva di casa, di
straforo, di domenica pomeriggio.
Ma per tutto il periodo del ’45 e prima, era una cosa meravigliosa. Ci siamo
trovati tutti questi ragazzi, le ragazze. Degli uomini qualcuno era ancora via,
di giovani, le femmine erano tutte a casa. Andavamo a ballare e c’erano dieci
femmine e sei maschi.
57
Catturare le storie
Giacomo Russo1
“Mio papà era disperato”
A Palermo, mi ricordo che noi abitavamo, all’inizio quando sono nato io, in
un palazzo di tre piani, e il palazzo aveva un terrazzo molto ampio dove ci si
poteva giocare.
Mi ricordo che ho vissuto in casa di mia nonna, allora non c’era la scuola
materna, però mi ricordo che sono andato a una specie di prescolastica a
cinque anni, dove ho iniziato già a scrivere. Quando sono andato a scuola
nella prima elementare, è stato favoloso perché sapevo già scrivere e mi
ricordo che sulla pagella c’erano tutti lodevole.
Dopo, nella stessa scuola ho fatto la seconda, la terza e la quarta, ho fatto la
quarta a Palermo, che è stato nel ’43.
Intanto nel 1942, verso la fine del 1942, per colpa dei bombardamenti, la
“Caproni”, la fabbrica dove mio papà faceva l’operaio è stata smantellata e
trasferita da Palermo sulle montagne della Sicilia, nelle Madonie.
Noi avevamo un mio zio che lavorava alle ferrovie, ed era qui a Bergamo,
lavorava alla Fervet, come capo meccanico. La Fervet era un’azienda che
lavorava per conto delle ferrovie dello stato, mio zio era dipendente delle
ferrovie dello stato, diciamo che era il controllore dei lavori. Lui ha detto, a
mio papà: “Guarda qui c’è la Caproni, c’é la Caproni qui a Ponte San Pietro,
fatti trasferire, qui non c’è la guerra, qui si è tranquilli, non suona mai
neanche l’allarme…”.
Mio padre ottenne il trasferimento e verso la fine di giugno, i primi di luglio
abbiamo deciso di lasciare la Sicilia. Allora con 'sto mio zio ci siamo messi
d’accordo, mio papà ha iniziato tutte le pratiche per potersi trasferire; e
volevano portar via qualcosa, quello che si poteva perché non è che si
potesse molto portar via allora … mentre si preparavano i bagagli da spedire,
infatti, hanno chiuso le spedizioni, per cui non si poteva più partire. Però mio
papà ormai aveva deciso, aveva già l’autorizzazione per venir su, allora è
stato li in attesa, ha chiesto di essere informato del momento in cui le
spedizioni sarebbero riprese. La nostra partenza coincise con lo sbarco in
Sicilia degli americani, quando le spedizioni sono state riaperte per 24 ore,
mio papà è riuscito a spedire tutto.
Così siamo partiti e siamo arrivati a Bergamo il 7 di luglio del ’43. Mi
ricordo che abbiamo fatto un viaggio tremendo: in treno fino a Catania, dopo
a Catania siamo andati a prendere mia nonna, abbiamo preso un treno che
sarebbe dovuto andare a Messina, però si è fermato molto prima perché
Messina era stata molto bombardata. Per traghettare, per portarci a Villa San
Giovanni, abbiamo dovuto prendere un battello, me lo ricordo, sembrava un
1
Intervista realizzata da Marzia Agnello, Bergamo, 4 gennaio 2011.
58
Catturare le storie
battello di pescatori che poi io mi sono anche sentito male; lì a Villa San
Giovanni abbiamo preso il treno, oltretutto un tragitto abbastanza
tormentato. Mi sembra che siamo partiti il 2 luglio, ma non ricordo bene, so
però che siamo arrivati a Bergamo il 7 luglio. In Calabria il treno si è
fermato tutta la notte in una galleria per i bombardamenti, dopo a Napoli,
anche li fermi perché c’erano i bombardamenti. E’ stata una tragedia.
C’abbiamo impiegato come minimo cinque sei giorni ad arrivare a Bergamo,
ci siamo fermati a Napoli, poi a Roma per due giorni perché non c’era il
treno. Arrivati a Bergamo mio papà è andato alla Caproni ed è stato subito
assunto.
Dopo siamo andati ad abitare a casa di una mia zia, ma l’appartamentino era
piccolo. Mio papà andava avanti e indietro con la bicicletta, c’era il tram
però non c’erano neanche i soldi per poterlo prendere. Allora dopo essere
stati una ventina di giorni a casa di mio zio, mio papà ha cercato di avere
un’abitazione magari qui a Ponte San Pietro, visto che lavorava qua. Qui a
Ponte però non si trovava casa, allora noi essendo degli sfollati ci hanno
sistemato qui a Ponte, in una palestra. Siamo andati lì verso la fine di luglio e
ci siamo rimasti per una decina di mesi. L’inverno lo abbiamo passato lì.
Intanto io frequentavo la quinta elementare. La quinta elementare l’ho fatta
qui, dal settembre del ’43 al giugno del ’44. Poi a luglio, tramite la Caproni,
siamo andati in colonia in montagna, siamo andati a Piazza Torre. Il mese di
agosto, venti giorni, è li ho imparato il bergamasco. Allora, in quinta mi
ricordo ancora la mia maestra che si chiamava Maccetti. Era una classe mista
la quinta, ragazze e ragazzi. Era una classe in cui provenivano persone da
altri paesi. Per cui io sono stato inserito visto che venivo da Palermo, sono
stato inserito in quella classe lì. E c’avevamo due capi classe, c’era una
donna e un uomo. Quando entrava il direttore, quando entrava la gente
dovevo chiamare: “Attenti!” e fare il saluto romano.
Nel 1944, Ponte San Pietro è stata bombardata quattro volte. Una è stata il 24
luglio, il bombardamento dove hanno colpito la zona dei giurati, che erano
case dei lavoratori della Legler, al di la del fiume, al di là del fiume ci son le
case che chiamavano i giurati, e hanno preso quella zona li e la zona di
Sant’Anna, al di qua della ferrovia, diciamo dietro le scuole elementari. Lì
c’era una chiesina, hanno bombardato anche la chiesina lì. Poi,
successivamente, c’è stato un bombardamento molto pesante, quello del 20
ottobre, dove hanno colpito la parte della ferrovia, colpito la casa di riposo.
L’hanno distrutta, ci sono stati anche i morti. Con quel bombardamento,
volevano colpire il ponte, perché allora non c’era il ponte, la strada che
collega Bergamo a Lecco non c’era allora. Si doveva passare … c’era solo la
ferrovia. Volevano colpire il ponte per interrompere il passaggio dei treni
verso Como, verso Lecco, verso la frontiera insomma. E hanno distrutto
anche la zona dove abitavo io, che abitavo … sa dove c’è il comune? il
comune c’ha le due ali e dopo c’è il palazzo del comune. In una di quelle li
59
Catturare le storie
c’erano i carabinieri, quando loro si sono spostati, si è liberato un
appartamento e l’hanno dato a noi. Ecco perché dopo mi sono spostato, ci
siamo spostati. E li solo con lo spostamento d’aria si è aperta la finestra.
Allora si usavano le coperte per coprire, per oscurare all’interno,
specialmente la sera quando si accendeva la luce. E li si erano aperte, e tutte
'ste coperte sono volate via e sono state usate per raccogliere i feriti. E noi
eravamo nel rifugio. Successivamente c’è stato un altro bombardamento che
è quello del 4 di novembre, e quello ha colpito la cooperativa, dove c’è
adesso la cooperativa, ha distrutto la palestra, ha distrutto casa mia.
Non si è fatto male nessuno perché noi, era di giorno, perché era verso l’una.
Eravamo sopra e abbiamo visto arrivare da ovest gli aerei, abbiamo visto le
bombe scendere e di corsa siamo andati nel rifugio. Quando siamo usciti
abbiamo trovato la casa distrutta. E li dopo, mio papà si chiedeva: “dove
andiamo, dove andiamo?”. Mio papà era disperato, ma un giovanotto che
lavorava con lui gli disse: “guarda io c’ho una …- abitava a Locate, quella
frazione qui di Locate - abbiamo una stanza libera che c’è un mio zio che è
stato deportato in Germania, se vuoi puoi venire lì”. Difatti siamo andati ad
abitare in quella casa li a Locate, per cui gli ultimi mesi, diciamo da
novembre, 4 novembre sera, fino a fine aprile, quando è finita la guerra,
siamo stati lì. Poi a Ponte c’è stato un successivo bombardamento, quello è
stato ai primi di gennaio del ’45, quando finalmente sono riusciti a colpire il
ponte. Finalmente sono riusciti a colpire il ponte, però quello sulla strada,
non quello sul fiume. Quello sulla strada. Infatti questo in ventiquattro ore
era già stato recuperato. Dopo è servito per la ritirata delle truppe tedesche.
Allora c’era il razionamento, c’erano le tessere. Va be’ adesso si può
raccontare… mi ricordo che dopo un bombardamento, sono capitato nella via
adiacente a dove abitavo io, una traversa, e ho visto piovevano giù delle
carte, erano delle tessere annonarie, sono andato a recuperarne un po’. Tanto
per dire. C’erano le tessere annonarie con dei bollini che tu andavi, tagliavi,
ti davano la pasta, il riso, la carne. A questo proposito vorrei raccontarle un
aneddoto di mio papà che andava alle tre di notte a mettersi in fila davanti a
quello che vendeva la carne per poter avere quel pezzo di carne, quella
quantità di carne. Noi eravamo in cinque persone. E mi ricordo che aprivano
alle sette e mezzo, sette. E mi ricordo che dopo quattro ore di fila, toccava
quasi a mio papà, arriva uno in divisa, però non saprei dirle il nome,
cognome, niente perché non lo sapeva neanche mio papà. Arriva uno in
divisa, è entrato ed è andato dal carneziere per farsi servire, a quel punto mio
padre si è arrabbiato e ha reagito. Lo sa che l’avevano denunciato e lo
volevano mandare al confine mio padre? C’era mio zio morto, l’altro mio
zio… si è messa in mezzo mia nonna, una cognata di mio papà che
conosceva qualche persona e sono riusciti a evitarlo. Tanto per dire cosa
poteva succedere in quel periodo li. Si andava a prendere il pane. Dopo sa
magari, conosci il fornaio, se ti doveva dare due panini, se ne aveva uno che
60
Catturare le storie
gli avanzava te lo dava. Grazie a Dio non ho mai sofferto la fame. Certo, non
è che mangiavo carne tutti i giorni. Mangiavi il pesce. A me piaceva il pesce
piccolino, mio papà andava dal pescivendolo e diceva: “mi dia due centesimi
di pesciolini piccolini che devo darli al gatto, invece erano per me no?. Mio
papà faceva una vita discreta, come si suol dire, ceto medio. Non so, tra
normale e il medio.
Qui mi ricordo, dunque, alla fine di aprile sono passati gli americani. Finita
la guerra, hanno fatto il primo sindaco, che però non c’è stata occupazione di
militari qui da noi. Mio papà dopo ha continuato a lavorare alla Caproni.
Anche se non faceva più aeroplani, ci state un po’ di problematiche perché
dopo, lo stabilimento andava in deperimento insomma, ecco. Quindi noi
abitavamo in una casa, qui al villaggio, abitavamo nelle case dove c’erano
solo gli infissi e basta, all’interno c’era lo scheletro ma mattoni a vista cioè,
senza strade, senza fogne, senza acqua. Non c’era luce, non c’era gas, non
c’era niente. Quindi, diciamo che come tutto il dopo guerra è stato
problematico. Io ho iniziato ad andare, il primo anno sono andato con il
pullman a scuola, dopo andavo con la ferrovia perché si pagava di meno e
andavamo con i così detti carri-bestiame, carri di trasporto. C’erano solo
quelli che trasportavano le persone, non c’erano le carrozze.
Noi siamo riusciti a tornare in Sicilia per qualche giorno nel ’50, perché
prima, per un po’ di tempo, non si poteva … anzi tutto mio papà lavorava,
quindi non poteva lasciare. Dopo il 7 luglio del ’43, sono sbarcati gli
americani in Sicilia, per cui si sono interrotte tutte le comunicazioni, infatti
noi in Sicilia la casa l’avevamo chiusa e avevamo, mio papà aveva dato la
caparra di un paio d’anni perché mio papà pensava di ritornare una volta
finita la guerra. Mio papà diceva: “va be’, quando finisce la guerra…”. Se
fossimo partiti dieci giorni più tardi, venivano gli alleati, noi saremmo
rimasti in Sicilia. Non so se sarebbe stato meglio o peggio, questo non glie lo
so dire. La vita che abbiamo fatto qui mi soddisfa. Però non so, se magari se
fossi stato giù… qui siamo stati lontani dai parenti, perché dopo, mio zio
finita la guerra è tornato a Messina, perché loro abitavano a Messina, e noi
siamo rimasti soli.
Io ho conosciuto mia moglie nel ’45, lei era stata sfollata a Valbrembo.
Quando ci furono i bombardamenti a Sant’Anna, qui a Ponte, il primo
bombardamento ha fatto venir giù la loro casa. Mia moglie era del ’39 quindi
l’ho conosciuta che aveva sei anni. Più avanti quando io frequentavo le
scuole superiori, in quel momento li le insegnavo, la aiutavo anche a fare i
compiti. Durante il periodo delle vacanze per esempio c’era una signora, una
ragazza che abitava qui, in quelle villette qui e le avevo insegnato a fare, a
scrivere in stenografia. Quindi l’ho conosciuta, quando io sono andato
militare nel ’56, lei aveva già diciassette anni per cui l’anno dopo ci siamo
cominciati … dall’amicizia è diventato qualcosa di più importante, per cui ci
siamo fidanzati nel ’58-59. Io ci ho sempre tenuto di fare le cose per bene, sa
61
Catturare le storie
in Sicilia si usava che il fidanzamento doveva essere ufficiale doveva essere
il genitore che andava a chiedere la mano prima di fidanzarsi. Mi ricordo che
mia suocera chiedeva al figlio più piccolino: “ti do una lira se mi dici cosa
c’è tra Giacomino (mi chiamava Giacomino perché io mi chiamo Consolato
Russo, però io sono conosciuto come Giacomo) e tua sorella. Nel ’54 c’era
un circolo la sotto i portici, è stato il primo circolo dove c’hanno messo la
televisione, e allora si andava il giovedì a vedere “Lascia e raddoppia” e la
domenica sera si andava a vedere un’altra trasmissione ancora di quiz. E
allora io magari le tenevo il posto, ci sedevamo. Anche se ci conoscevamo, il
primo, chiamiamolo abbraccio è stato nel ‘58. Quando è bruciato lo
stabilimento del Bolis, me lo ricordo perché l’ho presa con la mano dietro il
fianco e l’ho accompagnata la. Il primo bacio è stato sulla guancia. Mio
suocero lavorava in svizzera, dove si era trasferito in seguito alla chiusura
della Caproni. Però quando è venuto a casa nel periodo di Pasqua, sono
andati su mio papà e mia mamma, io e mia moglie siamo rimasti in un’altra
camera, adesso fa ridere no? Questo qui succedeva nel ’58-59, succedeva
allora. Mio papà e mia mamma, loro hanno discusso. Siamo d’accordo,
fidanzamento ufficiale. Però mi vanto, mi vanto di questo. Mi sono sempre
vantato che sono sempre stato corretto con mia moglie fino a che mi sono
sposato. E non ho vergogna a dirlo.
Dopo va be’ ci siamo sposati nel ’63. Poi è nata Anna Maria, nel ’77,
quattordici anni, tredici anni dopo il matrimonio.
Roma, 1940
62
Catturare le storie
APPENDICE
a cura di Gianluigi Di Giangirolamo
Partendo dall’esperienza dei progetti di ricerca condotti all’interno del
Laboratorio di storia sociale-“Memoria del quotidiano”, a partire dall’anno
accademico 2007-2008 si è svolto, nell’ambito dell’insegnamento di Storia
Sociale del Prof. Paolo Sorcinelli, il laboratorio didattico “Catturare le
storie”.
Al fine di avere un quadro quantitativo e qualitativo dei materiali raccolti
dagli studenti, è stata realizzata un’indagine statistica in grado di riassumere
alcuni elementi, quali il sesso, la distribuzione geografica, l’età e le
professioni dei soggetti intervistati.
Nel corso dei quattro anni accademici, sono state raccolte 216 storie di vita
(113 uomini e 103 donne) realizzate sull’intero territorio nazionale, in 18
Regioni e 50 province. Il maggior numero di interviste sono state condotte in
Emilia Romagna, a seguire nelle Marche, in Veneto e in Puglia.
Le classi d’età degli intervistati vanno dal 1910 al 1971, ma più della metà di
essi sono nati tra il 1921 e il 1930, mentre sono 63 le persone nate nel
decennio 1931-1940.
Per quanto riguarda le professioni svolte, la distribuzione percentuale degli
intervistati appare la seguente: 47% servizi, 24% industria, 19% agricoltura.
Uomini e donne intervistati
Donne; 103; 48%
Uomini; 113; 52%
Uomini
Tav.1
63
Donne
Catturare le storie
Numero degli intervistati per periodo di nascita
120
113
100
80
63
60
nr. intervistati
40
21
14
20
5
0
1910-1920
1921-1930
1931-1940
1941-1950
periodo di nascita
Tav.2
64
1951-1971
Catturare le storie
Numero di interviste in base al luogo di nascita dell'intervistato e al luogo in cui è stata raccolta l'intervista
Sardegna
Piemonte
Molise
Calabria
Toscana
Trentino Alto Adige
Sicilia
Lazio
luogo nascita
luogo intervista
Friuli Venezia Giulia
Basilicata
Campania
Umbria
Lombardia
Abruzzo
Puglia
Veneto
Marche
Emilia-Romagna
0
20
40
60
Tav.3
65
80
100
120
Catturare le storie
Regione
Numero di interviste
in base al luogo di raccolta
Numero di interviste
in base al luogo di nascita dell’intervistato
Emilia-Romagna
79
103
Marche
34
36
Veneto
14
14
Puglia
18
12
Abruzzo
8
9
Lombardia
8
9
Umbria
4
5
Campania
7
4
Basilicata
3
3
Friuli Venezia Giulia
3
4
Lazio
4
3
Sicilia
8
3
Trentino Alto Adige
3
3
Toscana
5
2
Calabria
2
1
Molise
2
1
Piemonte
0
1
Sardegna
2
1
Tab.1 Numero delle interviste in base al luogo di raccolta e luogo di nascita dell’intervistato
66
Catturare le storie
Suddivisione degli intervistati per settore occupazionale
10%
19%
Agricoltura
Industria
Servizi
Altre attività
24%
47%
Tav.4
Settori produttivi Nr. Intervistati
Agricoltura
46
Industria
60
Servizi
116
Altre attività
24
Percentuale intevistati
19%
24%
47%
10%
Tab.2 Suddivione degli intervistati per settore occupazionale
67
Catturare le storie
Elenco delle interviste divise per anno accademico
Durata in min.
1938
69
Belmonte
Piceno
Marche
Monottone
2007
46
Eleuteri Maria
Sapigni Elsa
F
F
1930
1924
78
84
Pescara
Roma
Abruzzo
Lazio
2008
2008
40
62
Barro Sara
Natrone Carmen
F
1949
58
Buenos Aires
2007
99
Bergamo Carlotta
Bianco Maria
Bizzarro Veronica
Savio Maddalena
Bendotti Battista
Da Lima Maria
F 1926
M 1928
F 1939
81
79
69
2007
2007
2008
82
10
56
Brugnini Valentina
Buonafede
Francesca
Calciolari Eva
Belfiglio Mario
M 1926
82
Venezia
Lanciano
Foggia
Civitanova
Marche
2008
70
Bendazzi Leda
Calciolari Giancarlo
F 1928
M 1926
80
81
Ravenna
Bologna
2008
2007
34
40
Casieri Maura
Sacchi Vincenzo
M 1922
85
Ravenna
Mantova
S.Vito
deiNormanni
Marche
Emilia
Romagna
Lombardia
Carassai
Rimini
Cordenons
(Pn)
CavallinoTreporti
Lanciano
Foggia
Civitanova
Marche
75
Lugatti Milton
M 1922
85
Ferrara
Roma
Savignano sul
Rubicone
2007
Castellano Cinzia
D'alessandro
Alessandra
Puglia
Emilia
Romagna
2007
64
Sacco Michele
M 1921
86
Cerignola
Puglia
Cerignola
2007
91
Intervistato
Età
F
Anno nascita
Morlacchetti Lida
Sesso
Agostini Elisa
Andrenacci
Gianluca
Astolfi Federico
Intervistatore
Anno int.
Luogo nascita
Regione nascita
Luogo intervista
Catturare le storie, a.a. 2007-2008
68
Veneto
Abruzzo
Puglia
Catturare le storie
S.Martino in
Rio
Emilia
Romagna
S:Martino in
Rio
Campania
Molise
71
Monte Corice
Portocannone
Sant'Agata di
Puglia
S. Giovanni in
Marignano
Partinico
S. Ferdinando
di Puglia
M 1927
80
Marzabotto
Aliverti Francesco
M 1922
85
Lovere
Randi Bruno
Papa Raffaele
Capraro Lina
M 1927
M 1924
F 1928
81
83
79
Bagnacavallo
Lucera
Mozzagrogna
Potito Elena
Primucci Wilma
F
F
1931
1944
76
63
Mereu Ilaria
Morbidelli Martina
Musumeci Sara
Fadda Giuseppina
Piagnani Gaetano
Bellucci Giuliana
F 1917
M 1926
F 1935
91
81
73
Orlandini Donato
Scotti Antonio
M 1932
76
Paro Federica
Lombardini Primo
M 1930
78
Campobasso
Fano
SiurgusDonigala
Chiusi (Si)
Ancona
Acquarica del
Capo
Sant'Arcangelo
di Romagna
Polacchi Yasmin
Morresi Gina
F
1939
68
Macerata
Prota Martina
Walpurga Saxer
F
1929
78
Val di Vizze
Dallari Stefania
De Gregorio
Valentina
De Nicolò Angela
Terenziani Renato
M 1921
86
Pasca Fernando
Pezone Bruno
M 1938
M 1943
69
64
Galli Elisa
De Leo Maria
F
1933
74
Genghini Cristina
Cecchini Maria Teresa
Iacobbelis Valentina Casarubbia Giuseppe
F 1935
M 1940
72
68
Ida Natalicchio
Paoletti Giovanna
F
1936
Laghi Sara
Legnaioli
Margherita
Pirini Francesco
Maini Elena
Maizzi Prisca
Maramieri Isabella
Marchegiani
Stefano
Marianna Rondine
69
2007
90
Bologna
Modena
Sant'Agata di
Puglia
2007
2007
60
30
San Clemente
Argenta
2007 106
2008 99
Cerignola
2007
81
EmiliaRomagna Marzabotto
2007
42
Lombardia
Emilia
Romagna
Puglia
Abruzzo
Roma
2007
92
Bagnacavallo
Lucera
Montesilvano
2008 57
2007 81
2007 120
Molise
Marche
Campobasso
Falconara
2007
2007
Sardegna
Toscana
Marche
Arixi-Senorbì
Foligno
Castelbellino
Acquarica del
Capo
Sant'Arcangelo
di Romagna
Civitanova
Marche
2008 120
2007 60
2008 76
Puglia
Emilia
Romagna
Sicilia
Puglia
Puglia
Emilia
Romagna
Marche
Trentino Alto
Adige
Vipiteno
2007 120
90
82
2008
57
2008
11
2007 112
2007
40
Catturare le storie
Santella Alessia
Scotese Anna
Serena Eleonora
Serena Eleonora
Vaccarini Domenica
Lucchetti Giuseppe
Mandolini Anna Maria
Buscarini Pierino
F 1920 1920 Bologna
F 1932 75 Porto Recanati
M 1915 92 Schio
Montefiore
F 1933 74 Conca
M 1919 88 Montelabbate
F 1937 70 Osimo
M 1931 76 Osimo
Sforza Francesca
Malagoli Lauro
M 1925
83
Modena
Soavi Carolina
Sonda Chiara
Randi Luigi
Contessa Giovanni
M 1924
M 1917
83
90
Vaira Paola
Valentini Federica
Pepe Maria
Paone Antonio
F 1929
M 1922
79
85
Vandelli Ottavia
Adolfo Vandelli
M 1923
85
Bagnacavallo
Rosà
Castelnuovo
della Daunia
Arielli
Pavullo nel
Frignano
Zaffi Cristina
Bartolini Guglielmo
M 1925
82
Zamagna Beatrice
Zamagna Antonio
M 1944
63
Saludecio
S. Mauro
Pascoli
Zamagna Beatrice
Ballarini Bruna
F
59
Sogliano
Roncadori Federica De Manzoni Francesca
Rossi Eleonora
Grilli Giuseppina
Ruaro Giulia
Ruaro Domenico
1948
70
Emilia
Romagna
Marche
Veneto
Emilia
Romagna
Marche
Marche
Marche
Emilia
Romagna
Emilia
Romagna
Veneto
Puglia
Abruzzo
Emilia
Romagna
Emilia
Romagna
Emilia
Romagna
Emilia
Romagna
Coriano
Porto Recanati
Santorso
Montefiore
Conca
Fano
Osimo
Osimo
2007 68
2007 120
2007
2007
2007
2007
94
50
44
44
Modena
2008
60
Bagnacavallo
Rosà
2007
2007
36
95
Brindisi
Arielli
Pavullo nel
Frignano
2008
2007
66
90
2008
72
Saludecio
S. Mauro
Pascoli
S. Mauro
Pascoli
2007
96
2007
50
2007
50
Catturare le storie
Emilia
Romagna
Emilia
Rimini
Romagna
Emilia
Romagna
Bologna
Emilia
Ro Ferrarese Romagna
S.Arcangelo di Emilia
Romagna
Romagna
Porto Viro
Veneto
Milano
Lombardia
Perugia
Umbria
Emilia
Ravenna
Romagna
Rocca San
Cassano
Gradara
Marche
Chiaravalle
Marche
San Giovanni Emilia
in Persiceto
Romagna
Accialini Giulia
Mariani Bianca
F
1937
71
Alves Lino Zarife
Fiorani Giacomo
M 1925
83
Antolini Clelia
Alberti Giuseppe
M 1926
82
Antolini Clelia
Benini Lucinda
F
1910
99
Ballarin Nicole
Ballarin Nicole
Battagin Alessia
Bottini Lavinia
Fabbri Adele
Naia Mario
Boccalari Celestino
Innamorati Francesco
F
M
M
M
1915
1928
1928
1924
94
81
81
85
Bruno Barbara
Isotta Fusaroli
F
1926
82
Caccamo Shejla
Caroli Chiara
Coacci Sonia
Giuseppa Boschi
Osvaldo Fabbri
Mandolini Romano
F 1923
M 1933
M 1939
85
75
69
Cocchi Valentina
M 1923
85
Cuna Elisa
Cocchi Giovanni
Marsella Addolorata
Antonia
F
1929
80
Dal Maistro Anna
Dall'Amico Luigi
M 1947
61
Melpignano
San Vito di
Leguzzano
De Nale Martina
Orioli Alfredo
M 1920
88
Borghi
Luzzara
71
Puglia
Veneto
Emilia
Romagna
Durata in min.
Anno int.
Luogo intervista
Regione di
nascita
Luogo nascita
Età
Anno nascita
Sesso
Intervistato
Intrervistatore
Catturare le storie, a.a. 2008-2009
Luzzara
2008 60
Rimini
2008 60
Ferrara
2008 60
Ferrara
S.Arcangelo
di Romagna
Porto Viro
Milano
Perugia
2009 51
2009
2009
2009
2009
Cervia
2008 62
Bagnacavallo
Gradara
Chiaravalle
San Giovanni
in Persiceto
Credera
Rubbiano
San Vito di
Leguzzano
2008 105
2008 85
2008 60
Rimini
2008 71
60
60
61
60
2008 82
2009 94
2008 95
Catturare le storie
Di Iacovo Luana
Casadio Armida
F
1921
88
Faenza
Di Sette Serena
Etoumbe Eliane
Dolice
Cicognani Marisa
F
1931
77
Grotti Santa
F
1924
84
Bertinoro
Savignano sul
Rubicone
Follieri Giulia
Caso Clementina
F
1925
83
Lucera
F
1934
Gardelli Giovanna Salaroli Oriana
74 Forlì
Monte
M 1935 1935 Colombo
Ghasemi Atefeh
Carlini Vasco
Ghidini Giulia
1931
77
Melara
Girelli Cristina
Soriani Gaetana
Berti Arnoaldi
Francesco
M 1926
82
Bologna
Gnoni Eleonora
Burani Giuseppe
M 1913
95
Reggio Emilia
Gnoni Valentina
Montanari Otello
M 1926
82
Livorno Maria
Querques Pompeo
M 1920
F
Puglia
Emilia
Romagna
Emilia
Romagna
Ravenna
2009 90
Bertinoro
2008 65
Rimini
2008 76
Lucera
2008 64
Forlì
2008 75
Riccione
90
Melara
2008 40
Bologna
Reggio
Emilia
Reggio
Emilia
2008 50
Reggio Emilia
Veneto
Emilia
Romagna
Emilia
Romagna
Emilia
Romagna
88
Alberona
Puglia
Troia
2008 100
Sicilia
Porto Paolo
di Capo
Passero
2009 60
Lazio
Pescara
2008 70
Camerano
2009 65
Luciano Elettra
Schifitto Salvatore
M 1934
75
Porto Paolo di
Capo Passero
Marini Gaia
D'Annunzio Genoveffa
F
1930
78
Roma
Marzocchini Giulia Casaccia Nerina
F
1923
86
Sirolo
Mazzoli Diletta
Nazli Rezagholi
Beigi
Toni Alberto
M 1915
Episco Paolo
Olivieri Francesca Arpinati Filomena
Ortenzio
Benedetta
Antonella
Stecconi Oddo Dario
Emilia
Romagna
Emilia
Romagna
Emilia
Romagna
2008 75
2008 80
94
Marche
Emilia
Baganacavallo Romagna
Bagnacavallo 2009 104
M 1938
70
Trani
Rimini
2008 60
F
1927
81
Galeata
Puglia
Emilia
Romagna
Fano
2008 105
M 1923
85
Ancona
Marche
Ancona
2008 106
72
Catturare le storie
Pambianchi
Dorothy
Vicentini Gina
F
1943
65
Taglio de Po
Veneto
Pasanisi Lisa
Provenzano Cosima
F
1929
79
Parabita
Puglia
Pia Donatella
D' Amico Maria
F
1919
89
Carosino
Piersanti Veronica Bernardi Egisto
M 1930
78
Pozzi Giulia
Savini Maddalena
F
1930
Reni Ottavia
Neri Zara
F
Ricci Raffaella
Giraldi Dorina
F
Rinaldini Priscilla
Ariano
Polesine
2008 65
2008 60
Puglia
Saronno
Sant'Agata
Bolognese
Borgo Pace
Marche
Pesaro
2008 60
78
Riolo Terme
Emilia
Romagna
Riolo Terme
2008 50
1925
84
Urbania
Marche
Ancona
2009 60
1925
84
Monteciccardo marche
Pesaro
2009 60
Rinaldini Antonio
M 1925
83
Napoli
Campania
Napoli
2008 25
Rinaldini Priscilla
Esposito Salvatore
M 1921
87
Napoli
campania
Napoli
2008 58
Rosato Raffaela
Papandrea Raffaele
M 1926
82
Procida
Procida
2008 60
Russo Nicola
Sabatini Chiara
Ceneri Enzo
Cosso Luigi
Di Cocco Maria
Domenica
M 1932
M 1925
76
84
Bologna
Mignanego
Campania
Emilia
Romagna
Liguria
Bologna
Spoleto
2008 57
2009
F
1929
79
Guardiagrele
Abruzzo
Guardiagrele 2008 76
M 1929
79
Guardiagrele
Abruzzo
Guardiagrele 2008 76
Scarinci Stella
2008 60
Di Martino Palmerino
Scarinci Stella
Schiuma Giada
Brignani Giuseppe
M 1919
90
Lugo
Emilia
Romagna
Lugo
2009 75
Scoleri Karien
Romeo Maria Antonia
F
1930
79
Galatro
Calabria
Galatro
2009 84
Stocco Irene
Sartin Agnese
F
1923
85
Villadose
Veneto
Villadose
2008 73
Tassani Federica
Mazzani Fosca
F
1925
83
Castrocaro
Emilia
Romagna
San Martino
2008 65
73
Catturare le storie
Toccaceli Ilaria
Cesaroni Albina
F
1930
78
Ancona
Marche
Ancona
2008 60
Torriti Letizia
Zampagni Federico
M 1928
81
Cortona
Toscana
Cortona
2009 60
74
Catturare le storie
Anno int.
Durata in min.
Bracci Elena
Castelgrande
Antonella
Del Romano Sabina
Luogo intervista
2009
90
Coghi Roberta
F
Lombardia
Milano
2009
60
Pellegrino Luigi
Cirillo Eva
Basilicata
Abruzzo
Venosa
Lanciano
2009
2009
80
70
Veneto
Ponte San
nicolò
2009
65
2009
70
2009
80
M 1930 79 Trapani
1925 84 Milano
Intervistato
Regione di
nascita
Bagno di
Romagna
Età
Bagno di Emilia
Locatelli Giovanni M 1930 79 Romagna Romagna
Anno nascita
90
Sesso
2009
Intervistatore
Senigallia
Giacalone
Ambrosone Domingos Giuseppe
Bellavista Alessia
Luogo nascita
Catturare le storie, a.a. 2009-2010
Sicilia
Gambalunga Anna
Gammone Rossella
Ester
Ruzzo Italo
M 1924 85 Venosa
F 1926 83 Pescara
Ponte
San
M 1929 80 Nicolò
Pescuma Felice
M 1922 87 Venosa
Basilicata
Gigli Federico
Di Landri Mario
M 1953 56 Lucca
Toscana
Venosa
Mogliano
Veneto
Lia Federica
Ciacci Nella
F
San
Marino
Rimini
2009 100
Manzotti Maria Laura
Giorgini Bruno
Marche
Ancona
2009
80
Montagano Ida Ada
M 1923 86 Ancona
San
Paolo di
Ciaraldi Leonardo M 1923 86 Cividale
Puglia
2009
40
Ninni Sara
Gasperi Luigi
M 1941 68 Pesaro
2009
60
Pergreffi Eleonora
Marisi Marisa
F
Marche
Emilia
Romagna
Roma
Gabicce
Mare
Cesena
2009
60
San
1928 81 Marino
1930 79 Forlì
75
Catturare le storie
Pifferi Serena
Pipitone Flavia Maria
Ridone Rosetta
Bartolozzi Emilia
F
F
1921 88 Mori
1928 81 Gela
Romano Jolanda
Tadei Adele
F
1923 86 Rimini
Sartore Gaja
Spoletini Loretta
Sieff Primo
Pinchi Massimo
M 1924 85 Bolzano
M 1953 56 Foligno
Vellonio Chiara
Bellucci Natalia
F
Zitelli Lisa
Luminari Ciro
Trentino
Alto Adige
Sicilia
Emilia
Romagna
Trentino
Alto Adige
Umbria
1920 89 Lucera
Puglia
Falconara
M 1939 70 Marittima Marche
76
Mori
Palermo
2009
2009
61
53
Rimini
2009 140
Brennero
Rimini
2009
2009
54
60
Milano
Falconara
marittima
2009
40
2009 100
Catturare le storie
durata min.
20
M 1933 78 Palermo
Sicilia
Ponte San Pietro 2011
80
Messina Lorella
F
1961 50 Roma
Lazio
Civitella del
Tronto
2011
60
Assirelli Giulia
Cavina Romana
F
1938 72 Brisighella
Emilia
Romagna
Lugo
2010
34
Balli Federica
Balli Vittorio
M 1927 84 Pisa
Toscana
Bologna
2011
50
Bassi Eugenia
Bartoli Ezio
M 1924 87 Pesaro
Marche
Pesaro
2011
62
Bassoli Alice
Zappador
Antonio
M 1939 71 Verteneglio
Carpi
2010
60
San Mauro
Pascoli
2010
75
Agnello Marzia
Russo Consolato
Giacomo
Amato Teresa
Giovagnoli
Bellomo Jesiica Nazario
Luogo di
nascita
F
Intervistatore
(studente)
Frescina Antonia
Regione di
nascita
2011
Acquaviva
Valeria
Età
Melfi
Sesso
Basilicata
Intervistato
Anno
Luogo intervista
Anno nascita
Catturare le storie, a.a. 2010-2011
1932 79 Potenza
San Mauro
M 1933 77 Pascoli
Emilia
Romagna
77
Catturare le storie
Bendini Jessica Pesaresi Daria
F
1933 78 Verrucchio
Emilia
Romagna
Rimini
2011
80
Berardi Andrea
Borghini Anna
Paola
F
1932 79 Ancona
Marche
Ancona
2011
60
Bianchi
Stephanie
Ciccone Mosè
M 1930 81 Capestrano
Abruzzo
Pescara
2011
65
Biondo Giulia
Cerfogli Antonio
M 1922 88 Sestola
Emilia
Romagna
Bologna
2010
60
F
Emilia
Romagna
Reggio Emilia
2011
63
Emilia
Romagna
Ravenna
2010 155
Cupramontana
2011
67
Emilia
Romagna
Forlì
2011
75
M 1923 88 Monfalcone
FriuliaVenezia
Giulia
Monfalcone
2011
90
Caminiti Monica Biagini Mario
M 1931 79 Rimini
Emilia
Romagna
Rimini
2010
45
Carretti Cristina Pelloni Anita
F
Emilia
Romagna
Conselice
2011
35
Morini
Bonacini Chiara Giuseppina
1915 96 Reggio Emilia
Bottoni Gianna
Zanchini Arride
Giuseppe
M 1911 99 Ravenna
Bracaccini
Marika
Piccioni Daniela
F
1949 62 Cupramontana Marche
Brancaleoni
Arianna
Raggi Roldana
F
1933 78 Forlì
Broggian
Valentino
Bacicchi Silvano
1939 72 Lugo
78
Catturare le storie
Cavina Brigida
Argellani Paolo
M 1920 91 Faenza
Emilia
Romagna
Pieve Cesato
2011
60
Celotti
Mariasole
Squarzoni Aldo
M 1922 89 Bologna
Emilia
Romagna
Bologna
2011
40
Chiaradia
Marianna
Chiaradia
Chiarina
F
Calabria
Bologna
2010
60
Puglia
Foggia
2011
60
Foggia
2011
60
Sicilia
Castelvetrano
2011
53
1971 39 Cropalati
Ciavarella
Ciavarella Luisa Raffaele
Torre
M 1922 89 Maggiore
Domanchiuk
Ciavarella Luisa Dmitrievna Maria
F
Novyy Mir
1925 86 (Russia)
Curia Angela
Siragusa Angela
F
1926 85 Castelvetrano
D'Angelo
Gianmarco
Cannella Mario
M 1930 81 Pedaso
Marche
Campofilone
2011
60
De Benedictis
Federica
Paci Fausto
M 1924 87 Ancona
Marche
Porto San
Giorgio
2011
45
Del Favero
Genny
Gei Anna
F
Valle di
1935 76 Cadore
Veneto
Pieve di Cadore
2011
60
Di Salvatore
Martina
Guardigli Aurelio
M 1925 85 Forlì
Emilia
Romagna
Forlì
2010
70
Di Santo Lucia
Di Santo
Salvatore
Sessa
M 1934 76 Aurunca
Campania Rimini
79
2010 150
Catturare le storie
Dimida Danila
Mitrugno Benito
Vittorio
M 1935 76 Mesagne
Puglia
Mesagne
2011 100
Dragonetti
Roberta
Affronto Anita
F
1933 78 Catania
Sicilia
Foggia
2011
61
Farinazzo Virna Fascioli Adele
F
1924 86 Casalinga
Lombardia Mantova
2010
66
Federici Martina Pasetto Nilde
F
1933 78 Castel D'Ario
Lombardia Villimpenta
2011
50
Fratini Rebecca Tintori Enrica
F
1936 75 Perugia
Umbria
Perugia
2011
61
1930 81 Salboro
Veneto
Verona
2011
80
Bologna
2010
65
Frizzera Irene
Trevisan
Giovannina
F
Fusini Arianna
Larini Dante
Salsomaggiore Emilia
M 1927 83 Terme
Romagna
Galassi Giorgia
Fabbri Nella
F
1943 67 Bologna
Emilia
Romagna
San Mauro
Pascoli
2010
50
Generi Ilaria
Falappa Dina
F
1935 76 Filottrano
Marche
Osimo
2011
55
Ghezzi Marta
Evangelisti
Bruno
M 1925 86 Cesena
Emilia
Romagna
Cesena
2011
86
Ghin Nicola
Pajer Elena
F
Veneto
Conegliano
Veneto
2010
65
Puos D'
1930 80 Alpago
80
Catturare le storie
Gruppioni
Beatrice
Mancini Manlio
M 1931 79 Bologna
Gruppioni
Beatrice
Meyvaert
Genevieve
F
Ismenghi
Susanna
Barbini Giuseppe
M 1919 91 Filottrano
Jusic Majda
Falcioni Ines
F
Kuci Filloreta
Surro Raimondo
M 1952 59 Irpino
La Cecilia
Barbara
Di Gennaro
Francesco
Lagomarsini
Michela
Emilia
Romagna
Bologna
2010
75
Bologna
2010
75
Marche
Appignano
2010
70
Marche
Fano
2011
68
Campania Rimini
2011
68
M 1932 79 Aversa
Campania Modena
2011
77
Lagomarsini
Annunzio
Castelnuovo
M 1932 79 Magra
Liguria
Castelnuovo
Magra
2011
56
Lecce Silvana
Marini Caterina
F
1930 81 Sarsina
Emilia
Romagna
Cesena
2011
65
Lefemine Silvia
Silvestri Luciana
F
1932 78 Finale Emilia
Emilia
Romagna
Reggio Emilia
2010
98
Lorizzo
Francesca
Guadagno
Scelza
F
1937 74 Andria
Puglia
Andria
2011
79
Mancini Erika
Riminucci Mino
M 1934 76 Sassocorvaro
Marche
Novafeltria
2010 220
1932 78 Bruxelles
1929 82 Fano
81
Catturare le storie
Manzoni
Francesca
Tiengo Giovanna
F
1940 70 Adria
Veneto
Argenta
2010
45
Marcantoni
Francesca
Zaghini Maria
F
1928 82 Rimini
Emilia
Romagna
Bellaria
2010
73
Martinozzi
Federica
Orsatti Ivano
M 1932 79 Bondeno
Emilia
Romagna
Bondeno
2011
50
Mazza Anna
Bassetta Iolanda
F
Marche
Montesilvano
2011
65
Mazzotta
Daniela
Borettini Pietro
M 1928 83 Viadana
2011
80
1928 83 Montesilvano
Lombardia Viadana
F
FriuliaVenezia
1920 91 Pavia di Udine Giulia
Pavia di Udine
2011
60
De Santis Elena
F
1928 82 Macerata
Marche
Macerata
2010
76
Ortelli Vito
M 1921 90 Faenza
Emilia
Romagna
Faenza
2011
72
M 1925 86 Bologna
Emilia
Romagna
Bologna
2011
58
Casola Valsenio
2010
71
2011
73
Mocchiutti
Critina
Beltrame Isolina
Montanari
Laura
Montevecchi
Alessandra
Morselli
Morselli Melissa Giuseppe
Naldi Sara
Ricciardelli
Aurelio
Casola
M 1924 86 Valsenio
Emilia
Romagna
Paderni
Federica
Musazzi
Gianfranco
M 1941 70 Milano
Lombardia Milano
82
Catturare le storie
Palestini
Arianna
Mancini Leo
M 1930 80 Offida
Marche
San Benedetto
del Tronto
2010
63
Panacea Giulia
Mongiusti
Francesco
M 1942 69 Longiano
Emilia
Romagna
Gambettola
2011
66
Pandolfi
Cristina
Pesaresi Alba
F
San Mauro
1933 78 Mare
Emilia
Romagna
Bellaria - Igea
Marina
2011
80
Panicali Sara
Carnevali Elide
F
1922 89 Rubiera
Emilia
Romagna
Fontana di
Rubiera
2011
65
Pareschi
Francesca
Torricelli
Umberto
M 1930 81 Bologna
Emilia
Romagna
Bologna
2011
60
Pareschi
Francesca
Verri Adriana
F
Emilia
Romagna
Bologna
2011
60
Piscaglia
Vanessa
De Carli
Agostino
M 1934 76 Roversano
Emilia
Romagna
Gatteo
2010
56
Porti Chiara
Paola
Lai Giovanni
M 1945 65 Ozieri
Sardegna
Fiorano
Modenese
2010
65
Postica Tamara Rocca Adelaide
F
1915 96 Palermo
Sicilia
Fano
2011
61
Quaranta Giulia Ruscelli Ada
F
1935 76 Sarsina
Emilia
Romagna
Sarsina
2011
60
Rafanelli
Gianluca
M 1927 83 Marzabotto
Emilia
Romagna
Marzabotto
2010
60
Pirini Francesco
1932 79 Bologna
83
Catturare le storie
Ranieri Flavia
Taddia
Ermogene
Castello
M 1944 66 D'Argile
Emilia
Romagna
Pieve di Cento
2010
Ricci Giada
Mastrangelo
Glauco
M 1929 81 Isola del Liri
Lazio
Napoli
2010 110
Righi Valentina
Paci Ida
F
Sant'Agata
1930 81 Feltria
Emilia
Romagna
Rimini
2011
60
Rossi Alioscia
Gottardi
Cesarina
F
1938 73 Bologna
Emilia
Romagna
Pesaro
2011
33
Ruini Valentina
Davoli Dilva
F
1920 90 Novellara
Emilia
Romagna
Novellara
2010
75
Santunione
Alice
Trenti Filomena
F
1926 85 Modena
Emilia
Romagna
Spilamberto
2011
60
F
1938 72 Baiso
Emilia
Romagna
Cadelbosco
Sopra
2010
67
1932 79 Fossombrone
Marche
Calcinelli di
Saltara
2011
73
Saponara Laura Ugoletti Alda
90
Stefani Priscilla
Francolini
Pasquina
F
Tabacchi
Chiara
Soravia Enzo
Valle di
M 1923 88 Cadore
Veneto
Valle di Cadore
2011
60
Testa Giulia
Mancini Enio
M 1938 72 Stazzena
Toscana
Pietrasanta
2010
63
Tittarelli Lucia
Gianfelici Idesma
Maria
F
Marche
Jesi
2011
57
1927 84 Jesi
84
Catturare le storie
Tripolini Erika
Seghetti Nello
M 1933 78 Ascoli piceno
Marche
Ascoli Piceno
2011
54
Vicini Gloria
Vicini Gino
Sant'Agata
M 1927 83 Feltria
Emilia
Romagna
Sant'Agata
Feltria
2010
95
Vitali linda
Crostolo
Gualtieri Flora
F
Carpinello di
1933 78 Forlì
Emilia
Romagna
Talamello
2011
70
1928 82 Gorizia
FriuliaVenezia
Giulia
Gorizia
2010
60
Zille Martina
Brajnik Vilma
F
Zini Ylenia
Tito Grazia
M 1925 86 Bologna
Emilia
Romagna
Bologna
2011
60
Zocca Lorenzo
Foschi Sergio
M 1931 79 Cesena
Emilia
Romagna
Bologna
2010
63
Zoffoli Camilla
Caporali Rina
F
Emilia
Romagna
Cesena
2010
43
1921 89 Cesena
85
Catturare le storie
Hanno collaborato:
Luca Gorgolini [email protected]
Gianluigi Di Giangirolamo [email protected]
Giulia Nataloni [email protected]
86
Fly UP