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Catturare le storie INDICE: L. Gorgolini, Nota introduttiva G. Nataloni, Archivio delle voci: raccolta e conservazione delle storie di vita p. 3 p. 8 Racconti scelti p. 12 Giovanna Tiengo, Arriva l’alluvione Chiara Chiaradia, All’interno del collegio si fantasticava molto Lorella Messina, Così sono nate le borgate di Roma Marisa Marisi, Volevano che mi chiamassi Edera Enzo Soravia, La sera alle 10 ero già stato fatto prigioniero Vittorio Balli, La facoltà era molto militaresca Domenica Vaccarini, Quelle povere donne erano schiave Francesco Pirini, La strage è stata una cosa improvvisa Aurelio Guardigli, Acthung Giacomo Russo, Mio papà era disperato p. p. p. p. p. p. p. p. p. p. 13 18 23 29 34 39 43 48 54 58 Appendice, a cura di G. Di Giangirolamo p. 63 Elenco delle interviste raccolte p. 68 2 Catturare le storie Nota introduttiva di Luca Gorgolini Nel corso del Novecento, la progressiva affermazione della storia sociale ha prodotto una duplice rivoluzione nell’ambito della ricerca storica. Si è infatti assistito, per così dire, all’ingresso in scena di attori per lungo tempo esclusi dalla Storia: coloro i quali, non avevano accettato “consapevolmente di essere materiale da costruzione di una storia che si innalza al di sopra delle loro teste, al di là delle loro intenzioni”1; i riflettori sono stati così puntati in direzione di coni d’ombra, affollati di categorie di individui in precedenza ignorati: alla storia politica e diplomatica dell’istituzione statale e delle classi dominanti, ai protagonisti delle biografie e agli interpreti della storia delle idee (non solo politiche ed economiche, ma anche teologiche e scientifiche) si sono inizialmente aggiunti gli animatori delle lotte operaie, a seguire la massa dei contadini, gli analfabeti, gli individui con una vita incerta e con un lavoro precario, le donne, i bambini e altri soggetti “senza storia”. Contestualmente si è assistito, da parte degli storici, al ricorso a nuove fonti: carte processuali, testamenti, storie orali, testimonianze folkloriche, testi letterari, immagini fotografiche. “Per Croce (ma anche per la storia positivista) gli “oggetti” della storia erano infatti coloro che contemporaneamente risultavano anche “soggetti” della storia in quanto produttori di documenti scritti, considerati uniche fonti degne di rilievo storiografico in quanto prove obbiettive del passato e fondamento del fatto storico. Ma oggi consideriamo fonti, con uguale dignità e con lo stesso interesse, tutte le testimonianze lasciate dagli esseri umani del passato: i documenti scritti e le testimonianze orali (comprese favole e leggende), la conformazione del paesaggio e il manufatto, le espressioni artistiche e l’iconografia popolare, le illustrazioni scientifiche e gli “archivi della natura”, la fotografia e il cinema, i nomi geografici, i reperti archeologici, la produzione letteraria, che fornisce uno spaccato dell’ambiente sociale e intellettuale in cui lo scrittore è vissuto, e, ancora, giornali, pubblicazioni ufficiali, discorsi parlamentari, registri commerciali e lettere private, processi e testamenti”2. Un processo che inevitabilmente ha spinto i ricercatori ad attivare contatti con altre scienze sociali, sia per giungere alla misurazione dei fenomeni storici (da qui il ricorso all’economia e alla demografia), sia per giungere ad una definizione e ad una comprensione della cosiddetta psicostoria (con il ricorso alla psicoanalisi). Ecco che, solo per fare un esempio, la storia della prima guerra mondiale ha cessato di essere articolata 1 2 Sorcinelli P., Il quotidiano e i sentimenti. Introduzione alla storia sociale, Bruno Mondadori, Milano, 1996, p. 13. Ivi, p. 14. 3 Catturare le storie esclusivamente sullo studio delle scelte politiche e diplomatiche che hanno determinato e accompagnato gli eventi militari, assumendo una dimensione più ampia che includesse anche i comportamenti e le reazioni emotive dei combattenti di fronte alla realtà quotidiana della guerra; aspetti ricostruiti e analizzati attraverso documenti autobiografici redatti dagli stessi combattenti, quali le lettere e i diari, o per mezzo del contenuto delle cartelle cliniche degli ospedali psichiatrici al cui interno centinaia di migliaia di questi soldati vennero ricoverati. Alla base di questo mutamento nelle modalità di approccio alla ricerca scientifica e nella definizione di una nuova metodologia di indagine vi è stato l’emergere di una doppia consapevolezza: in primo luogo tutti i documenti, sotto qualunque forma essi si presentino, possono “parlare”, solamente se li sappia “interrogare”: “ogni ricerca storica presuppone, sin dai primi passi, una direzione di marcia. In principio, c’è una mente pensante. Mai, in nessuna scienza, l’osservazione passiva – sempre nell’ipotesi che essa sia possibile – ha prodotto alcunché di fecondo”1; in secondo luogo, per usare le parole di Lucien Febrve, tra i fondatori nel 1929 della rivista “Annales d’histoire économique et sociale”, “la storia si fa con i documenti scritti, certamente. Quando esistono. Ma la si può fare, la si deve fare senza documenti scritti se non ce ne sono. Con tutto ciò che l’ingegnosità dello storico gli consente di utilizzare per produrre il suo miele se gli mancano i fiori consueti. Quindi con delle parole. Dei segni. Dei paesaggi e delle tegole. Con le forme del campo e delle erbacce. Con le eclissi di luna e gli attacchi dei cavalli da tiro. Con le perizie su pietra fatte dai geologi e con le analisi dei metalli fatte dai chimici. Insomma con tutto ciò che, appartenendo all’uomo, dipende dall’uomo, serve all’uomo, esprime l’uomo, dimostra la presenza, l’attività, i gusti e i modi di essere dell’uomo. Forse che tutta una parte, la più affascinante, del nostro lavoro di storici non consiste proprio nello sforzo continuo di far parlare le cose mute, di far dir loro ciò che da sole non dicono sugli uomini, sulle società che le hanno prodotte, e di costituire finalmente quella vasta rete di solidarietà e di aiuto reciproco che supplisce alla mancanza del documento scritto”2. Date queste premesse, “la migliore storiografia – osservava a metà degli anni novanta del secolo scorso Vito Fumagalli – tende oggi a privilegiare il contenuto, il messaggio delle fonti storiche rispetto al “genere” di queste; non ritiene cioè che esistano in via generale fonti storiche buone o cattive, ma che tutte ci forniscano la loro parte di informazioni sul passato”3. Eppure, nonostante queste illustri prese di posizione, alcuni documenti hanno faticato non poco per vedersi riconosciuto, soprattutto in 1 Chabod F. (1983), Lezioni di metodo storico, Bari-Roma: Laterza, p. 142. Brano citato in Le Goff J. (1982), Storia e memoria, Torino: Einaudi, p. 447. 3 Fumagalli V. (1995), Scrivere la storia, Roma-Bari: Laterza, p. 5. 2 4 Catturare le storie Italia e in particolar modo in ambito accademico, lo status di fonte storica. Così è stato per la fonte orale. In Italia, dopo alcuni importanti ma isolati precedenti (citiamo il lavoro di Gianni Bosio, Ernesto De Martino, Danilo Montaldi), la storia orale ha trovato terreno fertile per assumere un certo grado di visibilità solo nel corso degli anni sessanta, complice un clima culturale e politico favorevole: le fonti orali “sembravano quasi un passaggio obbligato per ricostruire una storia “alternativa”, partendo da testimonianze “dal basso” raccolte dalla viva voce di coloro che non figuravano nella documentazione istituzionale”1. Si trattava però di una storia orale in gran parte espressione di un lavoro politico di gruppo, “prodotta quasi integralmente all’interno di piccoli gruppi critici, laboratori di esperienze esemplari alla ricerca di nuove forme di cultura e di politica”2. In seguito, l’etichetta di documento privilegiato da una certa storiografia “militante”, ha fatto si che le testimonianze orali siano state a lungo considerate “fuori luogo” in ambito accademico. D’altra parte, l’ingenuità metodologica di alcuni ricercatori, che hanno manifestato la tendenza ad utilizzare nel loro percorso di indagine e ricostruzione di determinati processi o eventi storici esclusivamente le fonti orali, evitando di sottoporle ad una adeguata critica supportata dalla interazione con altri tipologie di documenti, ha pesato non poco nel processo di inclusione delle stesse all’interno dell’insieme di fonti che lo storico può utilizzare convintamente come strumenti idonei. Un ulteriore aspetto che ha determinato, per un periodo relativamente lungo, la scarsa fortuna di questi documenti e della stesa storia orale in genere si fonda sulla particolarità di questa fonte, atipica e conseguentemente, almeno all’apparenza, più difficile da “trattare”. Atipica perché non può esistere indipendentemente dallo storico, si concretizza per opera del ricercatore attraverso “un’indagine verbale, una intervista a persone che hanno partecipato attivamente a un evento o anagraficamente hanno vissuto la propria vita in un determinato periodo storico”3. E’ un documento che ha due autori: l’intervistato e l’intervistatore. Atipica perché è “costruita” nel presente. Sollecitata in momenti diversi, la stessa persona non fornirà mai il medesimo racconto: quest’ultimo è sensibilmente condizionato dal legame con i processi della memoria (dimenticanza, selezione) e dalle influenze del contesto storico. La dimensione soggettiva, 1 2 3 Sorcinelli P. (2010), Prefazione a L. Gorgolini e M. Costantini (a cura di), Capitani d’impresa. Storia sociale dell’imprenditoria pesarese (1946-1978), Milano: Bruno Mondadori-Pearson, p. 1. Bermani C. (1999), Le origini e il presente. Fonti orali e ricerca storica, in C. Bermani (a cura di) Introduzione alla storia orale. Storia, conservazione delle fonti e problemi di metodo, Roma: Odradek, p. 20. Fischetti A. (2008), Creazione e gestione della fonte orale, in C. Bermani, A. De Palma (a cura di), Fonti orali. Istruzioni per l’uso, Società di Mutuo Soccorso Ernesto De Martino. 5 Catturare le storie infatti, è un elemento fondante delle testimonianze orali: “le fonti orali – è stato opportunamente osservato - non ci dicono semplicemente quello che le persone hanno fatto, ma anche quello che volevano fare, quello che credevano di fare e quello che oggi pensano di avere fatto”1. Senza dimenticare inoltre il diritto all’autorappresentazione che chi viene intervistato può esercitare; rispetto alla memoria, l’autorappresentazione riveste “una funzione normativa, ne delimita la struttura, la incanala in certe direzioni, ne condiziona le finalità e contribuisce più o meno 2 inconsciamente alla selezione dei ricordi” . Tutto ciò rende le fonti orali poco attendibili e comunque meno attendibili di quelle scritte? Se è vero che la dimensione narrativa insita nella narrazione orale lascia trasparire una dimensione soggettiva superiore a quella che traspare dalla documentazione scritta, sappiamo bene che nessuna fonte è oggettiva. Il “pregiudizio egemonico” che vorrebbe “l’attendibilità fattuale monopolio delle fonti scritte”3, appare così privo di fondamento: tutte le fonti, a prescindere dalla loro tipologia, vanno sottoposte ad un’attenta critica che attraverso il confronto con altri documenti, permetta di valutare la veridicità del loro contenuto. Nel corso degli ultimi anni, in conseguenza di un minor ricorso agli schematismi ideologici all’interno della ricerca storica e di una maggior riflessione interna al gruppo degli storici attenti a questo genere di documento in ordine alle modalità di raccolta e di approccio allo stesso, le testimonianze orali sembrano essere le destinatarie di un rinnovato interesse, manifestatosi non solo tra le file degli storici sociali. Rifacendosi alla lezione di L. Febvre, le fonti orali hanno confermato in più ambiti la loro forza epistemologica e in qualche caso la loro insostituibilità. Anche terreni di indagine all’apparenza distanti dalla storia orale, hanno finito con il beneficiare in modo evidente dei documenti che i ricercatori di storia orale hanno via via raccolto. Così è stato, all’interno della storia economica, per la storia d’impresa, nello specifico per la storia della piccola e media impresa, ossia per quella che viene considerata la spina dorsale del sistema economico produttivo industriale nazionale. Nella stragrande maggioranza dei casi, queste importanti realtà economiche non conservano documentazione e, salvo rarissime eccezioni, non la rendono disponibile; in questa situazione, le testimonianze degli attori attivi all’interno delle fabbriche, siano essi operai, impiegati ovvero imprenditori, 1 2 3 Stille A. (2001), La storia e la memoria, “la Repubblica”, 14 marzo 2001, citato in A. Fischetti (2008), Creazione e gestione della fonte orale, cit. . Martini A. (2000), Percorsi biografici e strategie di impresa nelle testimonianze degli imprenditori edili, in R. Covino (a cura di), Fonti orali e storia d’impresa, Soveria Mameli: Rubettino, p. 83. Portelli A. (1999), Sulla diversità della storia orale, in C. Bermani (a cura di) Introduzione alla storia orale, cit., p. 156. 6 costituiscono un insieme di informazioni particolarmente prezioso per ricostruire la storia di quelle attività, prestando magari attenzione a elementi che sfuggono ad un’analisi prettamente economicistica: il racconto autotestimoniale può, ad esempio, rispetto alla vicenda professionale dei “capitani d’impresa”, consentire di acquisire informazioni sulle origini familiari, sul retroterra sociale e professionale, sulle mentalità, sui sistemi di valori e sulla cultura dei soggetti che hanno saputo dare vita ad una significativa esperienza imprenditoriale1. Oggi, mentre continua ad affinarsi (grazie soprattutto al lavoro di coloro che operano all’interno dell’Aiso, Associazione Italiana di Storia Orale) il dibattito attorno alla costruzione di un apparato teorico e pratico di strumenti e metodologie di approccio sempre più idonei al trattamento di questi documenti (della raccolta, alla catalogazione, alla conservazione e infine, alla loro accessibilità), si registra un allargamento della rete di soggetti che a vari livelli si occupano di raccogliere e analizzare criticamente le testimonianze orali. Tra questi vi è, all’interno del laboratorio di storia sociale ‘Memoria del quotidiano’, l’Archivio delle voci. Attivo da alcuni anni presso il Polo di Rimini (Università di Bologna), il laboratorio ha promosso, in accordo e grazie al sostegno di diverse istituzioni pubbliche e private, numerosi progetti di ricerca che hanno privilegiato la raccolta e lo studio delle fonti orali (per un riferimento puntuale a questi progetti, si rinvia alle diverse sezioni tematiche presenti sul sito web www.laboratoriodistoriasociale.eu). Contestualmente, l’Archivio delle voci ha sviluppato all’interno delle lezioni dell’insegnamento di storia sociale (prof. Paolo Sorcinelli) esperienze didattiche che hanno dimostrato come la ricostruzione del passato attraverso le “storie di vita” (ragionamento analogo vale per le fotografie con riferimento alle finalità didattiche insite nel progetto ImaGo on line) favoriscano la costruzione, da parte degli studenti coinvolti, di una più ampia “ragnatela di conoscenze storiche”. Le fonti orali, infatti, si presentano come un materiale “vivace”, particolarmente “stimolante”, in grado di “innescare quel meccanismo simile alla curiosità antropologica”2 che spinge gli studenti a mettere in relazione la vicenda individuale dell’intervistato con gli eventi e i processi economici e sociali che hanno più in generale segnato il periodo storico cui si riferisce il racconto dell’intervistato. I brani presentati in questa breve antologia, introdotti dal testo di Giulia Nataloni e seguiti da un appendice statistica curata da Gianluigi Di Giangirolamo, vogliono solo rappresentare la qualità dei materiali raccolti dagli studenti e messi a disposizione dei ricercatori. 1 2 Sorcinelli P. (2010), Prefazione, cit. p. 2. Contini G., Fonti orali e didattica della storia, http://osp.provincia.pisa.it/cds/gestione_cds/quaderni/q9_cap3.pdf. pubblicato in Catturare le storie Archivio delle voci: raccolta e conservazione delle storie di vita1 di Giulia Nataloni “Catturale le storie” è un progetto di ricerca inserito all’interno del Laboratorio di storia sociale 'Memoria del quotidiano' (Università di Bologna - Polo di Rimini). Nell'ambito del corso di Storia Sociale (Prof. Paolo Sorcinelli), agli studenti viene chiesto di elaborare una “storia di vita” sulla base delle necessarie nozioni metodologiche fornite durante l'anno accademico. L'intervistato, individuato tramite un primo incontro con l'intervistatore, può far parte sia della sua cerchia parentale che essere un suo conoscente ed è preventivamente informato dell’utilizzo pubblico che verrà fatto della sua testimonianza. Durante l'intervista non si prevede l'impiego di un questionario prestabilito; il testimone è lasciato libero di parlare e, solo all'occorrenza, è stimolato e guidato da domande mirate. Poiché “le fonti orali sono sempre il risultato del rapporto a due, di un lavoro comune cui prendono parte informatore e ricercatore insieme”2, da questo rapporto dipende buona parte dell’esito dell’intervista. Alcuni intervistati limitano il loro racconto a un momento storico ben determinato della loro vita (ad esempio la guerra), mentre altri preferiscono seguire un ordine cronologico, cominciando dalla descrizione della famiglia di origine, dell'infanzia fino ad arrivare all’oggi. Alcuni sono spigliati e ripercorrono la loro vita senza bisogno di alcuna indicazione, altri invece ricordano meno le esperienze vissute e necessitano di domande precise. Questo indipendentemente dalla loro età. Da ciò si capisce quanto la fonte orale per sua natura sia estremamente complessa da raccogliere; richiede quindi un notevole impegno da parte dell’intervistatore che dovrebbe “intervenire in modo pertinente, creativo, tempestivo ed informativo, nel racconto del testimone”. Infatti “l’intervistatore è insieme archivista e storico, raccoglie e fissa la conversazione, ma contemporaneamente la suscita, la sollecita, la orienta”3. Data l'imprevedibilità dell'intervista è impossibile stabilire preventivamente quali siano i risultati della stessa, che rappresenta quindi sempre una nuova “esperienza di apprendimento”4. La “storia di vita” è registrata tramite dispositivo audiovisivo analogico o digitale e viene successivamente riversata su DVD al fine di 1 2 3 4 Il presente testo è già stato pubblicato in “ALMATOURISM” (vol. 1 n. 3 2011) con il seguente titolo: “Oral History Archives: collection and preservation of life stories”. Portelli A. (2006), Sulla diversità della storia orale, in C. Bermani (a cura di), Introduzione alla storia orale. Storia, conservazione delle fonti e problemi di metodo, Roma: Odradek, vol. I, p. 160. Contini G., Martini A. (1993), Verba Manent: l’uso delle fonti orali per la storia contemporanea, Roma: La Nuova Italia Scientifica, p. 14. Portelli A. (2007), Storie Orali: racconto, immaginazione, dialogo, Roma: Donzelli, p. 79. 8 Catturare le storie rendere meglio fruibile il documento audiovisivo e più facile la conservazione all'interno del fondo di riferimento. Infatti, con l'elevato sviluppo della tecnologia, unitamente all'abbassamento dei costi della stessa, si sono moltiplicati i supporti tramite i quali è possibile effettuare la registrazione. Dalle più comuni telecamere munite di Mini Dv, dvd e memoria interna, alla webcam del PC, al telefonino. Per questo è fondamentale fin dall'inizio rendere note, a chi dovrà effettuare le riprese, delle linee guida che permettano di conservare al meglio sia il supporto fisico che le informazioni in esso registrate1. Il trasferimento dei dati è comunque eseguito senza manipolare in alcun modo le informazioni presenti nel video originale. La videoregistrazione dell'intervista, benché possa influenzare in vari modi l'esito del racconto, ha indubbi vantaggi che riguardano l'intervistatore, l'intervistato e anche i ricercatori futuri. Infatti, oltre ad “aumentare la fissazione di particolari essenziali dell'intervista” fornisce una serie di altre informazioni molto importanti per lo studioso in quanto “permette di contestualizzare l’immagine nel luogo dove l’intervista si è svolta” e “consente di intervistare più persone contemporaneamente identificando i parlanti”2. Inoltre, permettendo ai ricercatori futuri di controllare l'uso che è stato fatto della testimonianza, se ne potrà garantire l'utilizzo anche nel momento in cui i testimoni saranno ormai scomparsi e non potranno più esercitare il controllo su di essa3. Questo con la consapevolezza che “il rapporto dello storico con il passato è soggetto a continui ripensamenti e aggiustamenti”4 poiché per lo storico “sarà quasi impossibile essere 'obiettivo', in quanto l'interpretazione delle fonti è condizionata dalle idee e dai metodi di elaborazione derivati dal suo ambiente sociale di formazione e di appartenenza” 5. Per contestualizzare l'ambito in cui è stata raccolta la testimonianza, la videoregistrazione viene corredata da una “Scheda” nella quale sono riportate informazioni inerenti l'intervistato e l'ambiente in cui è stata realizzata. Oltre quindi ai dati anagrafici del testimone, sono indicati “luogo”, “data e durata” del colloquio, la “lingua usata” e il “nome dell'intervistatore”. Per dare informazioni più dettagliate riguardo al livello di rapporto fra i soggetti che danno vita all'intervista, è annotata la “modalità di presa di contatto con l'intervistato” e la presenza di “eventuali mediatori”. In alcuni casi al colloquio partecipano anche altre persone, spesso dei 1 2 3 4 5 Cavallari P. (2008), Metodologie di acquisizione e conservazione delle fonti sonore di storia orale, in C. Bermani e A. De Palma (a cura di), Fonti orali: istruzione per l’uso, Venezia: Società di Mutuo Soccorso Ernesto De Martino, pp. 293-302. Contini G., Martini A. (1993), Verba Manent, cit., pp. 23-27. Ravesi G. B. (2007), I custodi delle voci. Archivi orali in Toscana: I Censimento, Firenze: Centro stampa Regione Toscana, pp.11-14. Sorcinelli P. (2009), Viaggio nella storia sociale, Milano: Bruno Mondadori, p. 6. Ivi, p. 1 9 Catturare le storie familiari, i figli o il coniuge, o anche dei conoscenti, che possono intervenire in vario modo e che sono indicati nella scheda al fine di facilitare la consultazione del documento sonoro. Altre informazioni necessarie sono la “descrizione dell'ambiente nel quale si è svolta l'intervista” e le “osservazioni sul rapporto con l'intervistato”. Mentre raccontano la loro “storia di vita”, alcuni testimoni mostrano delle fotografie dell'album di famiglia o appese alle pareti della stanza. Queste possono aiutare il testimone in vario modo, guidando ad esempio il racconto, focalizzando la sua memoria su alcuni momenti, eventi, persone che altrimenti avrebbero fatto fatica a ricordare1. Le stesse immagini fotografiche, oltre ed essere riprese con la videocamera, spesso sono digitalizzate, salvate su CD, e fornite al Laboratorio unitamente al DVD con la videoregistrazione. L'intervistatore redige poi una trascrizione integrale di tutta la “storia di vita”, il più possibile attinente all'originale, e indica i criteri usati per la sua stesura nella “Scheda relativa all'intervista” sopra descritta. Insieme alla trascrizione viene redatto anche un riassunto della testimonianza, che permetterà allo studioso di individuare rapidamente quali sono gli argomenti prevalenti nell'intervista. Sia la trascrizione che il riassunto sono conservati nel Laboratorio di storia sociale in formato cartaceo e digitale. Va da sé che i due scritti tratti dall'intervista “debbono essere considerati come degli ausili, delle semplificazioni all'analisi che va comunque fatta sul documento originale” 2. La “Scheda relativa all'intervista”, il riassunto e la trascrizione, insieme ad eventuali fotografie o materiale di altro genere (libri, articoli di giornale, ecc.) fanno parte dell' “apparato critico-informativo” dell'intervista e, insieme alla sua videoregistrazione, sono catalogati e collocati. Su ogni DVD audiovisivo è indicato un codice identificativo progressivo, (DVD n.) e l'anno accademico. Lo stesso codice viene attribuito al materiale cartaceo (scheda relativa all'intervista, trascrizione e riassunto), ai CD con i files dello stesso e d’altro materiale di corredo (Fotografie, libri ecc.). Le registrazioni audiovisive sono poi inventariate in un file Excel dove vengono riportati gli stessi dati presenti nella “Scheda relativa all'intervista” e il codice di classificazione; in questo modo è immediata l'associazione delle varie informazioni tratte dall’intervista alla fonte orale ad esse collegata. Le stampe di queste tabelle vanno a costituire un unico catalogo cartaceo che rende possibile la ricerca all'interno dell’archivio audiovisivo del Laboratorio. Ad oggi infatti sono catalogate e conservate 479 interviste, per un totale di circa 590 ore di registrazione audiovisiva. 1 2 Contini G., Martini A. (1993), Verba Manent, cit., p.25-27. Ivi, p.130. 10 Catturare le storie Al fine di rendere maggiormente fruibile la documentazione conservata nel Laboratorio di storia sociale (www.laboratoriodistoriasociale.eu) è nato il progetto “Archivio delle voci”. Nel sito web ad esso dedicato (www.archiviodellevoci.eu/home.html) si possono visionare i diversi progetti di ricerca elaborati a partire dal 2005 dal Laboratorio; all'interno di questi, sono consultabili le schede dei singoli intervistati, un breve riassunto della loro “storia di vita”, eventuali fotografie appartenenti ai relativi album di famiglia e alcuni minuti della registrazione effettuata. All'interno del sito una maschera di ricerca rende più veloce e mirata la consultazione dei vari fondi in base agli interessi tematici dello studioso. Nel sito del Laboratorio di storia sociale confluisce inoltre un altro importante progetto, imaGo online (www.imago.rimini.unibo.it/default.htm), inaugurato nel 2004 nel Polo Scientifico Didattico di Rimini che ha l'obbiettivo di catalogare una parte delle raccolte fotografiche familiari inedite. Le immagini raccolte e inserite nel suo data-base sono ad oggi 23.000 in continuo aggiornamento. I diversi progetti di ricerca hanno dato vita anche a due libri, Lascerei respirare le colline1 e Capitani d’impresa2, e a due dvd multimediali Eravamo i peggio trattati3 e Memorie al femminile4. Lascerei respirare le colline è un racconto collettivo della memoria di un paese della collina marchigiana in cui 120 abitanti hanno parlato di se stessi e della loro vita. Capitani d’impresa ricostruisce invece la vicenda esistenziale e professionale di un rappresentativo gruppo di imprenditori attivi nello sviluppo industriale che la provincia di Pesaro e Urbino ha conosciuto nel secondo dopoguerra. Nel DVD Eravamo i peggio trattati un internato militare racconta la sua esperienza nei campi di concentramento mentre Memorie al femminile raccoglie quattordici racconti di donne nate tra il 1915 e il 1958. L'intenso lavoro di pubblicizzazione e catalogazione che viene svolto in fieri dal Laboratorio procede quindi parallelamente alla nascita di sempre nuovi progetti. 1 Sorcinelli P. (2008), Lascerei respirare le colline. Storie di vita e di paese, Milano: Bruno Mondadori. 2 Gorgolini L. e Costantini M. (a cura di), (2010), Capitani d’impresa, Milano: Bruno Mondadori. 3 Gorgolini L. (2008), Eravamo i peggio trattati, [DVD video]. 4 Calanca D. (2008), Memorie al femminile, [DVD video]. 11 Catturare le storie Racconti scelti In questa sezione vengono riproposti una serie di brani relativi ad alcuni racconti raccolti nel corso degli anni da parte degli studenti che hanno partecipato al laboratorio didattico, “Catturare le storie” (insegnamento di storia sociale, prof. Paolo Sorcinelli, Università di Bologna, Polo di Rimini, Corso di laurea in culture e tecniche della moda). Nel riproporre queste narrazioni, non si è seguito un rigoroso criterio filologico, nel senso che a volte non si sono rispettati né la forma né il procedere del racconto originale. Tuttavia, durante la trasposizione in lingua, si è cercato in tutti i modi di non alterare la spontaneità discorsiva che ha caratterizzato la quasi totalità delle interviste recuperate. In questo senso, i brani qui presentati, sono il frutto di un’intenzionale rivisitazione che ha spinto i curatori ad alcune, seppur contenute, modificazioni lessicali e grammaticali dei passaggi che altrimenti sarebbero risultati di difficile lettura, e comprensione, e a mettere insieme spezzoni di uno stesso argomento che, in alcuni casi, nella narrazione dal vivo sono collocati in contesti più o meno lontani fra loro. Gorizia, 1940 12 Catturare le storie Giovanna Tiengo1 “Arriva l’alluvione” Mi chiamo Giovanna Tiengo, sono nata ad Adria in provincia di Rovigo il 5 agosto 1940. Provengo da una famiglia di sette fratelli, numerosa; dunque il papà la mamma e i sette fratelli, l'età differente è un anno e mezzo, due anni, tre anni. Il papà avendo ereditato da suo nonno paterno undici ettari di terra, faceva il coltivatore diretto, invece la mamma era casalinga anche perché avendo da allevare sette figli ne aveva già abbastanza. Dove abitavamo in campagna nella casa che era abbastanza grande, attorno avevamo l'orto, avevamo un frutteto, avevamo conigli, anatre, maiali, tacchini... e poi il terreno che mio papà gestiva era soprattutto barbabietole ad agosto e grano a giugno. Dunque la nostra famiglia, noi fratelli pur essendo in sette c'era un buonissimo rapporto, perché i nostri genitori, specialmente il papà, anche la mamma, erano molto vicino a noi figli. Siamo venuti su con un'educazione che la gelosia fra noi non c'è mai stata. Mio papà era molto tradizionalista perché proveniva anche lui da una famiglia molto numerosa, perché il nonno paterno si era sposato due volte: cinque figli dalla prima moglie e altri cinque figli dalla seconda. La mamma invece aveva solo un fratello. Nella casa dove abitavamo in campagna purtroppo non c'era la luce, si doveva avere sempre o un lume a petrolio o la candela. Però noi non è che sentivamo il freddo, noi stavamo bene, eravamo abituati. Essendo a due chilometri da Adria, durante il periodo invernale della scuola, ecco lì ci dovevamo staccare dai nostri genitori per andare a vivere, io la sorella, quella più vecchia di me, dai nonni materni; il mio fratello invece andava dai nonni paterni. Comunque ricordo dei momenti belli trascorsi con la nonna materna a cui eravamo, io e mia sorella, molto legati. Che per farci star lì il posto, c'era lo zio, avevano una camera dove si dormiva, c'era il letto matrimoniale, il letto dello zio e c'era un armadio sempre grande e io e mia sorella Sofia dormivamo in quest'armadio. Per noi era una felicità dentro quest'armadio come se fossimo nei vestiti. E al sabato e la domenica durante le feste ci mancavano molto i nostri genitori però tutti i giorni papà e mamma ci venivano a trovare anche perché là in campagna, non è che c'erano negozi di genere alimentari, dovevano per forza venire nel paese, insomma diciamo ad Adria, in centro. E lì siamo arrivati, io frequentavo lì vicino, ho fatto le elementari. Poi dopo ad Adria era più che altro come una cittadina. Dunque i nostri nonni ed anche i miei genitori erano molto religiosi ma più che altro praticanti una cosa giusta ma molto religiosa era la 1 Intervista realizzata da Francesca Manzoni, Argenta, 20 dicembre 2010. 13 Catturare le storie nonna materna che lì, obbligava a me e la Sofia tutti i santi giorni ad andare alla messa; lì insomma ci diventava un po' pesante però per accontentarla ci andavamo. Eravamo ad Adria per la scuola, io frequentavo la prima avviamento, mia sorella frequentava la seconda media, mio fratello Giorgio stava ultimando la terza media, quando arriva l'alluvione: noi dopo ci avevano mandato a casa da scuola e siccome eravamo dalla nonna materna siamo andati da lei. I nostri genitori nel mentre, perché l'acqua arrivava, aveva rotto ad Occhiobello, mio papà e la mamma assieme agli altri mie fratelli lì con una barca avevano cominciato ad andare via perché l'acqua stava salendo. Noi essendo lì ad Adria, non volevamo andare via, metterci in salvo come dicevano perché dopo c'era la protezione civile e poi c'erano i militari e poi c'era tutto un fuggi fuggi; la gente cercava di portare via un po' di roba perché eravamo terrorizzati. Io e mia sorella Sofia, a noi sembrava una cosa talmente strana che noi l'avevamo presa nel ridere, si rideva invece non era proprio il caso di ridere. Allora per metterci in salvo siamo andati dalla nonna paterna che lei abitava, aveva una casa che era a tre piani. Poi lo zio ci ha portato là e ha detto: “Adesso staremo a vedere”. Intanto ci eravamo messi in comunicazione coi miei genitori. Papà, con la mamma e con gli altri quattro figli, con una barca si sono messi in salvo poi sull'argine dove ancora non era scoppiata l'alluvione, con delle bestie si son messi in cammino per sfollare verso Padova. Una sorella di mio padre abitava a Mestre, una abitava a Venezia e loro avevano gentilmente detto al papà: “guarda che i tuoi figli li ospitiamo noi, adesso tu cerca di metterti in salvo con gli altri quattro e Giorgio lo prendo io” , che sarebbe andato a Mestre, la Sofia a Venezia da una zia e io, siccome l'altra zia abitava ad Adria, presso una famiglia molto facoltosa che abitava proprio lì nel Canal Grande a Venezia, mi avrebbero preso loro. Io poi non me la son sentita, perché io ero molto legata alla famiglia, poi io non volevo andar via da casa mia, se era una zia ci sarei anche andata, però da queste persone non le conoscevo, insomma io non ci volevo andare e mi ero nascosta. Ero con la nonna, ma alla fine poi son venuti quelli della protezione civile, i soldati e han detto: “qui bisogna venir via perché l'acqua sta salendo”. Allora io la Sofia e mia nonna, che intanto si era procurata un sacco dove aveva messo due galline, aveva messo delle uova, chissà poveretta con queste galline là dentro che starnazzavano, allora dopo ci siamo messe in viaggio; dovevamo andare a Porto Tolle che là c'era la zia Bettina, che lui lo zio Giacomo era direttore dello zuccherificio di Porto Tolle. Solo che essendo molto agitata la nonna, non essendo abituata andare, a viaggiare, si è scordata che dovevamo andare a Porto Tolle. Insomma ad un certo momento non sapevamo più dove andare, allora con questo barcone, non dico la desolazione, si vedevano delle mucche morte, si vedevano dei gatti, si vedevano le persone un po' anziane che piangevano, che non volevano lasciare la loro casa; allora lì io e la Sofia ci guardavamo e 14 Catturare le storie io sinceramente ricordo che non mi rendevo conto di questa situazione così brutta e grave, dicevo tra me e me prima o poi si risolverà, avevo solo in mente i miei genitori e il pensiero di non poter andare da questi signori. Siamo arrivati a Goro, la nostra meta era finita, adesso lì dovevamo dire a queste jeep con questi militari di portarci a destinazione a Porto Tolle, solo che a noi non era venuto in mente Porto Tolle chiaramente, la nonna Albina non faceva altro che piangere disperata. Allora dalla mattina alle nove e mezza fino alla sera che erano circa le 18,30 e in novembre era un buio, facevamo la spola Goro, Gorino andavamo a Goro poi si ritornava indietro Gorino, poi ci prendevano su degli altri e ci dicevano: “ma dove dovete andare?”, noi eravamo come se fossimo delle povere dementi, la nonna ci sgridava, ci diceva: “lo dovete sapere voi!”, sempre con questo sacco con due galline dentro e non so cosa avesse dentro, forse aveva un po' di biancheria. Ad un certo momento, un militare, ha detto: “care ragazze, bambine...” e perché io avevo 11 anni, mia sorella ne aveva 12 e mezzo, non è che fossimo molto adulte; dice: “adesso qui vi mettete, .al primo vigile, cercate di spiegarvi dove dovete andare”. Allora poi dopo non ci siamo messe più a ridere, allora ci siamo messi a piangere, che la nonna ci sgridava: “Adesso piangete, adesso piangete, chissà dove andremo a finire!”. Allora si ferma un signore con la macchina, allora la nonna in quel momento riesce a dire: “Porto Tolle, zuccherificio ho una figlia là”. Questo signore che lavorava proprio lì, ci dice: “ma io conosco bene Di Lorenzo”, dice, “io lavoro nello zuccherificio!” e così siamo saliti con questo signore e siamo andati a destinazione a Porto Tolle, alle sette e mezza, alle 19,30, di sera. Nel mentre, mio papà e la mamma si erano interessati presso le zie se eravamo arrivate a destinazione, specialmente la Sofia dalla zia Silvia, Giorgio era già a destinazione e io da questi signori Zorzi. Niente, non avevan visto nessuno, per radio ci avevano dati dispersi. Solo il giorno dopo lo zio è riuscito a comunicare con i nostri genitori dicendo: “tutto bene sono qui”. “E adesso”, ha detto papà, “cosa facciamo?”. Allora la Sofia è andata dalla zia Silvia a Venezia, io invece non ci sono voluta andare. Nel mentre il papà era sfollato ad Ania, che era vicino a Padova, con le sue belle bestie perché prudente, aveva detto: “ce le portiamo dietro!”, perché bisognava dopo anche mangiare, perché naturalmente la casa era andata tutta sotto acqua, perso tutto, dopo col tempo l'acqua si sarebbe riassorbita, ma cosa avrebbe trovato? tutta malta!. Allora, gli zii mi hanno portato ad Ania e così ho raggiunto mia mamma, gli altri miei fratelli e il papà e lì abbiamo incominciato ad andare alla Caritas per prendere intanto gli indumenti, coperte. Avevamo perso tutto. Come ho detto coperte vestiti perché eravamo in cinque, avevamo perso tutto; lì son sincera, quello che abbiamo trovato, a parte le coperte che erano coperte da militare, però come indumenti, io non ero tanto d'accordo perché dicevo ma da dove vengono questi vestiti, se poi prendo i pidocchi se; però mia mamma mi diceva: “insomma mica vuoi 15 Catturare le storie andar nuda, dopo la laveremo!”, allora mi sono adattata, però non tanto volentieri. E lì alla Caritas c'era poi un centro di suore perché naturalmente lì siamo stati un anno ad Ania, da questa signora. Lì a scuola non ci si poteva andare e da queste suore la mamma ci mandava perché così eravamo impegnate a ricamare, ci insegnavano a lavorare ai ferri, poi si facevano delle commedie, insomma ci tenevano impegnati. Io non ci andavo tanto volentieri perché non ero molto comunicativa, poi mi mancava molto la mia sorella, però ci si doveva andare, mica si doveva stare tutto il giorno in ozio, anche perché la casa dove abitavamo da questa signora era piccola, lei era una signora vedova e dunque la mamma riusciva lei a riordinare la casa e dare una mano e lì intanto le giornate passavano. Il papà mi ricordo che era andato ad Adria per vedere come era messa la sua casa ma ancora non si risolveva niente. Intanto aveva venduto il bestiame perché dovevamo mangiare, perché questa signora poverina non è che fosse benestante, insomma eravamo cinque figli, più papà e la mamma. In seguito, io e l'Anna siamo partite e siamo andati su in Trentino, in questa colonia che c’era a Onigo di Peterobba. Io e mia sorella Anna eravamo assieme, nella cameretta assieme, eran cameroni poi. Lì è passato in fretta, io ho ricominciato a fare la prima avviamento e la mia sorella credo facesse la terza elementare. I nostri genitori non potevano venire spesso, a distanza di due o tre mesi veniva la mamma e il papà, perché insomma era abbastanza costoso in treno venir su. E siamo arrivati a giugno, finalmente è finita anche la colonia. Nel mentre mio papà, grazie all’aiuto dello zio materno, aveva trovato un lavoro come impiegato, come agente agricolo, al Delta Padano, l'ente Delta Padano che era ad Argenta in provincia di Ferrara. Sempre con l'aiuto dei nonni materni, siamo andati ad abitare in una casa, proprio nel centro di Adria, una casa per poi vedere se il papà si sarebbe spostato come impiego o se doveva rimanere là. E lì in questa casa, dopo io ho ripreso appunto l'avviamento. E lì ci siamo stati, in quella casa lì circa un anno, il tempo di finire le scuole, un anno e mezzo. Poi mio papà in campagna non poteva più fare quello che faceva prima, allora quegl’undici ettari di terra li aveva dati in affitto a un signore, a un coltivatore perché lui non poteva più, la casa era persa, non poteva più gestire e poi effettivamente il posto che ci aveva trovato lo zio era molto buono insomma. E però da Argenta ad Adria c'erano un bel po' di chilometri allora il papà cosa faceva, andava via il lunedì, dormiva in una pensione e tornava il venerdì sera. Lì il papà si era visto che lui voleva, come giusto, perché noi eravamo una famiglia molto unita, molto unita, “io non ce la faccio!”, allora la mamma ha detto: “va bene verremo via da Adria a malincuore e verremo ad abitare ad Argenta”. Così il papà si è messo in giro per cercare una casa adatta ai sette figli e più loro due. Quando siamo arrivati ad Argenta, dunque io avevo 13 anni, la Sofia ne aveva 15, quasi; mi ricordo che era il mese di ottobre perché dovevamo 16 Catturare le storie iniziare ancora la scuola, sennò perdevamo sempre queste benedette scuole. Allora siamo arrivati. Come siamo arrivati ad Argenta siamo scesi dalla stazione, ci siamo guardati intorno, abbiam detto: “ma dove siamo arrivati?”. La stazione, la strada principale della stazione era tutta un rudere perché lì durante la guerra erano stati bombardati. Argenta non era ancora stata ricostruita. La casa però era abbastanza confortevole perché era in una bella posizione solo che non c'era neanche l'acqua potabile, avevamo l'acqua del pozzo, anche lì abbiam detto: “ma dove siamo venuti a finire?”. Poi dopo per andar a prender l'acqua dovevamo fare della strada, dunque, perciò essendo così una famiglia numerosa, eravamo sempre avanti e indietro con questi secchi d'acqua. Però l'armonia c'era sempre, si doveva andare avanti. Ad Argenta c'erano solo le scuole medie e basta, non c'erano scuole, geometra, non c'erano ragioneria, scuole quelle che si andava ad imparare un lavoro, scuole industriali e così se volevo finire la mia avviamento dovevo andare a Conselice. Lì poi era un po' complicato, perché dovevo andare in treno, oltre che costoso, e bisognava vedere perchè i miei fratelli più grandi studiavano ma a spese tutte degli zii, dunque noi bisognava vedere anche un attimino. Allora lì io, intanto avevo messo insieme 13 anni e mezzo 14, io ho detto: “io mamma a scuola non ci vado più, io ti do una mano in casa, ti aiuto poi magari faccio dei corsi, mi interesso...”, perché lì anche ad Argenta, dunque, i veneti erano un po' derisi, ci prendevano un po’ in giro per la nostra parlata. Insomma non ci siamo trovati bene, abbiamo faticato molto, per fortuna che avevamo i nostri genitori, la mamma specialmente che ci aiutava. Nostro fratello lui era anche lui un tipo molto socievole come il papà e aveva messo insieme una bella compagnia di ragazzi. Dopo, piano piano con le amiche di scuola di Sofia, io frequentavo la casa della giovane perché ho fatto la scuola di taglio e cucito per tre/quattro mesi, abbiamo incominciato ad avere delle amicizie. Il sabato e la domenica mio fratello riuniva i suoi amici, noi le nostre amiche e facevamo i pinzini, ci si trovava e allora si incominciava a ballare e cominciavamo ad abituarci a quello che era il clima argentano, di Argenta. 17 Catturare le storie Chiara Chiaradia1 “All’interno del collegio si fantasticava molto” Sono nata il 24 settembre del 1971 a Cropalati, un paese della provincia di Cosenza. Cropalati è un paese prettamente agricolo. Si trova ai piedi della Sila ed è a 20 minuti dal mare, quindi come posizione geografica diciamo è molto bella. Il nostro paese è perlopiù abitato da persone anziane, poiché i ragazzi per poter conseguire gli studi devono necessariamente spostarsi nei paesi limitrofi o, per l’università, spostarsi nella provincia più grande. Sono laureata in sociologia all’università degli studi di Urbino. Ho conseguito il diploma di Istituto Magistrale presso un istituto gestito dall’Ordine delle Suore Basiliane in un paese dal nome San Giorgio Albanese, sempre della provincia di Cosenza. La scelta appunto dei miei genitori, mandarmi in collegio, è stata innanzi tutto legata alla posizione del nostro paese poiché è molto disagiata nel senso che non vi è presente sul territorio nessuna struttura per le scuole superiori e quindi necessariamente mia mamma e mio padre hanno ritenuto opportuno evitarmi il disagio del viaggiare. C’era la struttura del collegio che distava dal nostro paese circa 40 km e quindi hanno preso questa decisione ma la decisione diciamo che è stata legata anche da una questione caratteriale mia nel senso che ero da ragazzina, da adolescente, ero molto ribelle, e quindi avendo mio padre che viveva in Germania per questioni di lavoro e mia mamma era da sola nel gestire la famiglia, per evitare problemi e preoccupazioni inutili hanno ritenuto opportuno iscrivermi al collegio. Quando mi hanno comunicato la loro decisione, è stato un colpo al cuore: in quel periodo noi, io insieme alle mie compagne delle scuole medie stavamo decidendo di iscriverci all’istituto superiore a Rossano, il paese vicino Cropalati. Naturalmente incominciavamo a progettare, ad organizzare la nostra vita in un certo senso e mentre le altre hanno proseguito il progetto organizzato insieme io ho dovuto rinunciare. All’interno del collegio, la giornata tipo era praticamente uguale giorno per giorno, settimana per settimana, mese per mese, anno per anno perché comunque era una giornata dove c’erano delle regole alle quali non si poteva assolutamente trasgredire. La mattina la sveglia suonava come una campanella alle 6 e mezza dove ti sentivi nel sonno la voce della vigilante che veniva a svegliarti perché ti dovevi alzare e ti dovevi recare necessariamente in bagno per poterti lavare. Alle ore 7 c’era la seconda campanella che ti indicava che era pronta la colazione, quindi dovevi scendere in refettorio. Poi c’era la terza campanella che ti diceva che era l’ora per entrare in cappella per fare le preghiere della mattina. Finita la preghiera c’era una quarta campanella che segnalava l’ingresso in classe. Li 1 Intervista realizzata da Marianna Chiaradia, Bologna, 20 dicembre 2010. 18 Catturare le storie trovavamo i professori ad attenderci ed iniziava la nostra giornata scolastica. La nostra giornata scolastica era fatta come un orario delle normali scuole pubbliche, facevi le tue ore fino alle 10 e mezza, c’era l’intervallo e dopo iniziavi nuovamente a lavorare. All’una meno dieci suonava l’altra campanella che indicava che ci dovevamo preparare per il pranzo naturalmente le ragazze che erano addette ad apparecchiare si accingevano ad andare in refettorio ad apparecchiare per tutte quante, all’una suonava l’altra campanella dove ci indicava che si doveva scendere nel refettorio per poter pranzare. Durante il pranzo naturalmente la regola che vigeva era quella del silenzio assoluto, non si poteva assolutamente parlare perché non era da galateo parlare con la bocca piena e non si poteva assolutamente comunicare con la compagna affianco e nel momento in cui questo accadeva perché tra ragazze di 13/14 anni succedono anche di queste cose perché è naturale, c’era la punizione. Dopo aver finito, il gruppo che era addetto, i camerieri li chiamavamo noi, dovevano appunto sistemare il refettorio e avevamo circa mezz’ora di ricreazione. Dopo di che c’era la campanella che ci diceva praticamente che era l’ora di andare in aula studio, li iniziava il nostro studio pomeridiano per prepararci alle interrogazioni del giorno. Lo studio durava circa 2 ore e mezza, c’era una campanella poi verso le 17, l’altra ennesima campanella, che indicava la merenda, quindi si andava nuovamente in refettorio a far merenda; avevamo mezz’ora di pausa dopo di che si rientrava nuovamente in aula studio. Si terminava il lavoro che si aveva da fare, si ripeteva e quindi dopo di che c’era un’altra mezz’oretta di intervallo per poi andare in cappella e recitare i vespri nell’attesa che le nostre compagne e i cosiddetti camerieri preparavo il refettorio, si cenava e dopo aver cenato si stava un pochino a chiacchierare nel corridoio del piano terra dopo di che alle nove suonava la campanella per andare in bagno e quindi per andare nel dormitorio. La nostra giornata era articolata in questa maniera, fatta di campanelle, di orari e di regole da rispettare. All´interno del collegio, l´unica figura maschile che si vedeva era quella del parroco che ci insegnava appunto religione ed era l´unica persona che io vedevo all´interno di questo collegio. Una figura diciamo tra virgolette paterna, ma di paterno non c´era assolutamente nulla, perché comunque l´aspetto paterno lo puoi collocare con una persona che si dimostra anche con un atteggiamento paterno verso di te, e non con questa figura che era comunque una persona rigida in tutto e per tutto. Per quel che riguarda i “i primi amori”, all’interno del collegio si fantasticava molto, vedevi i ragazzini dell’altro sesso solo la domenica quando andavi in chiesa, l´unico occasione in cui noi uscivamo dal collegio. Io lí mi ero innamorata di un ragazzino, avevo preso una bella cotta per un ragazzino e diciamo che era un amore platonico sia da parte sua che da parte da parte mia. Aspettavo la domenica per poterlo vedere nel tragitto dal collegio alla chiesa e dalla chiesa al collegio, l´unica cosa che magari si 19 Catturare le storie poteva comunicare perché comunque cellulari non ce n´erano, internet non ce n´era, quindi non si poteva in nessun modo comunicare, era soltanto il darsi un´occhiata particolare, farsi qualche gesto nella speranza che nessuno ti vedesse. Una volta, durante il tragitto dal collegio alla chiesa, gli ho dato il fogliettino dove dicevo che la settimana prossima, sarei andata a casa con la corriera e non con mio fratello ed era lí che davo un appuntamento in un paesino vicino. Sfortunatamente dietro di me c´era la Madre Superiora che è riuscita a prendere questo biglietto e a leggerlo davanti a tutti. Quindi le lascio immaginare l´umiliazione, le mortificazioni che comunque ho subito ma anche la rabbia perché comunque era stata invasa una parte importante della mia vita e quindi sono stata davvero male in quell´occasione. Tra le mura dell’istituto, i rapporti erano particolarmente intensi, perché non sono le amicizie tipo l´amica che incontri a scuola, poi la lasci all´uscita della scuola, poi magari al pomeriggio andate a mangiare un gelato insieme oppure si va al cinema insieme. Non erano questi i rapporti che si venivano a creare all´interno di un collegio; il rapporto che noi vivevamo era un rapporto fatto di una complicità assoluta nel senso che noi vivevamo dalla mattina fino alla sera che andavamo a letto, vivevamo sempre insieme, condividevamo tutto, qualsiasi cosa, momenti belli e momenti brutti, era un´amicizia vissuta a 360° in tutti i sensi; conoscevamo tutto anche nell´intimità, non c´era più la vergogna di andare in bagno insieme, oppure di dormire nello stesso letto, oppure di condividere anche un qualsiasi desiderio che magari una ragazza di 13/14 anni poteva. Avevo un´amica del cuore. Ce l´ho, ce l´ho tutt´ora questa amica ed era Isabella, una ragazza originaria di un paesino vicino il mio. Mi ricordo il primo giorno in cui sono arrivata con mia mamma e stavo nell´androne del collegio e stavo lí e stavo piangendo perché mia mamma stava andando via, ricordo questa ragazza dai capelli biondi lunghissimi, é la cosa che più mi ha colpito, che era appena arrivata con i genitori, lei era arrivata con il padre e con la mamma, io purtroppo ero solo con mia mamma perché mio padre era in Germania e ricordo che lei mi guardò in quel momento, si avvicinò e mi disse: “Non ti preoccupare vedrai che passeranno subito 4 anni”. All’interno del collegio, l’educazione era molto rigida, fatta di regole, assolutamente nessuna trasgressione era possibile, anche una semplice sigaretta che si fumava di nascosto era una grande e forte trasgressione. Lí bisognava vivere in maniera dignitosa loro dicevano, secondo un rispetto di Dio e delle regole della vita, perché da lí si doveva uscire come donne formate in tutto e per tutto. Le difficoltà maggiori sono state per l’appunto nell´accettare le regole, la difficoltà di non avere degli spazi miei, la difficoltà di non poter telefonare ogni qual volta avevo necessità e voglia di ascoltare la voce di mia mamma, le difficoltà di andare di dormire anche quando non avevo voglia di dormire, la difficoltà di alzarmi anche quando non volevo alzarmi, o come quando 20 Catturare le storie durante le festività si andava a casa naturalmente, sapevamo che uscivamo da quell´ambiente e quindi volevamo anche sistemarci, truccarci, farci anche un semplice shampoo, ma non era possibile perché lo shampoo si faceva soltanto al sabato e quindi se capitava la festività del mercoledì e che io dovevo andare a casa il mercoledì io se volevo fare lo shampoo lo dovevo fare di nascosto e quindi trasgredire. Mi sono scontrata molte volte con le regole dell’istituto. Mi ricordo che una volta mi arrivò una lettera dal mio migliore amico di Cropalati; questa lettera prima che arrivasse a me era stata aperta, era stato letto il contenuto e richiusa senza preoccuparsi di metterci la colla. Quando mi sono resa conto che praticamente questa lettera era stata aperta, ho chiesto alla Madre Superiora chi avesse potuto fare una cosa del genere visto che la lettera era intestata a me e lei mi ha risposto, la Madre Superiora: “Tu non lo sai che quello che arriva in collegio deve essere da noi controllato? Perché non possiamo permettere che si venga letto qualcosa se prima la Madre Superiora non ne è al corrente”. Allora io quella cosa sinceramente me la sono legata al dito perché mi ha dato particolarmente fastidio, perché in quella lettera non c´era niente, non c´erano segreti assurdi, non c´erano delle cose che compromettevano qualcuno, era soltanto una lettera scritta di confidenze tra me e il mio migliore amico. Allora mi sono sentita toccata dentro e soprattutto toccata la mia privacy, come se un ladro entra in casa tua e ti tocca le tue cose, allora quella cosa me la sono legata al dito. Mi ricordo che un giorno stavo male, un pomeriggio in sala studio, e chiedo all´assistente che ci vigilava in quel momento che volevo andare in dormitorio a riposarmi, lei ha chiamato la suora gli ha spiegato la situazione, la suora mi ha accompagnato su nel dormitorio; il dormitorio praticamente era adiacente proprio alla clausura dove le suore dormivano e stavano, allora mi ricordo che dopo un´oretta mi sono ripresa e volevo scendere giú per raggiungere le mie. Passando per scendere le scale, c´era la clausura e lí praticamente ho visto del fumo e mi sono preoccupata, pensavo che fosse scoppiato un incendio, ad un certo punto entro nella clausura, era vietatissimo entrare nella clausura, entro nella clausura e vedo la Madre Superiora che si era tolta il velo, era vicino ad una finestra e stava fumando una sigaretta. Mi ricordo la sua faccia, la sua espressione, la sua paura ed è lí che io ho capito di avere fatto centro, che adesso, da quel momento, tante cose all´interno del collegio almeno per me sarebbero cambiate ed effettivamente è stato così perché da allora con tacito assenso di entrambe: io riuscivo a fare le mie telefonate ai miei amici a Cropalati, la mia posta non veniva toccata più, se mi trovava in bagno che fumavo io non pagavo più le 10 mila lire, ma non solo io non le pagavo più, neanche le mie amiche, il mio gruppo di amiche che lei conosceva bene ed è lì. Tra gli adulti, il mio punto di riferimento era la mia insegnante di educazione tecnica, la professoressa Oranges. Me la ricordo benissimo, lei era esterna, 21 Catturare le storie non faceva parte delle insegnanti dell´ordine delle Basiliane, veniva dal paese vicino a San Giorgio, veniva solo nelle giornate del suo orario, ed era lei alla quale io spesso e volentieri mi rivolgevo per chiedergli consiglio, per parlargli delle mie cose. Lei aveva un carattere simile al mio, era ribelle anche il suo. In molte occasioni anche durante le lezioni capiva che comunque eravamo ragazze e che avevamo bisogno di scioglierci e di non avere gli schemi fissi che in un certo senso ci stavano condizionando e ci stavano formando la nostra vita. L'evento che mi ha più segnata e che ancora oggi ricordo con tanta tristezza e malinconia è stato quello legato ad una radiolina. Una radiolina che è un semplice oggetto, per chiunque potrebbe rappresentare un semplice oggetto, ma per me in quel momento rappresentava un cosa molto importante. Mio fratello in quel periodo era appena tornato dalla Germania e per regalo mi portò questa radiolina e un paio di cuffiette per poter ascoltare la musica. In febbraio, mi ricordo, allora trasmettevano alla tv il festival di Sanremo. Noi il festival di Sanremo non potevamo assolutamente vederlo perché veniva trasmesso dopo le nove e mezza e noi già a quell'ora eravamo a dormire. E allora io quella sera non vedevo l'ora di andare a letto di mettermi sotto il piumone per potermi ascoltare la radio, e quindi ascoltare le canzoni. Mi ricordo che quella sera sfortunatamente due nostre compagne litigarono tra di loro durante la notte e l'assistente che allora vigilava nel dormitorio pensando che fossi io a litigare incominciò a chiamarmi per cognome. Io naturalmente non sentivo la sua voce perché ero immersa nelle canzoni che allora stavano trasmettendo e lei dopo due o tre volte che chiamò si rese conto che non rispondevo, si è alzata dal letto e venendo verso il mio letto si accorse che stavo ascoltando della musica. Prese violentemente la radiolina, me la strappò, strappò le cuffie dalle orecchie e in quel gesto che lei fece la radiolina cadde per terra e si ruppe. Naturalmente io ero disperata, ero disperata non solo perché aveva rotto la radiolina, ma anche perché per me, quel semplice oggetto, rappresentava qualcosa che mi permetteva di ascoltare la musica nonostante i loro divieti. E lei senza curarsi del mio pianto e della mia disperazione tornò a letto tranquillamente, spense la luce e continuò a dormire. Quello ogni tanto, anzi spesso ci penso, ci penso perchè comunque mi ha segnata profondamente. Ancora oggi, sono in contatto con le mie amiche di collegio. Ancora oggi ci sentiamo, ma molte di queste amicizie io oggi le ho ritrovate con internet, con il famoso “Facebook”, mettendo, digitando nome e cognome ci siamo quasi tutte ritrovate perché in ognuno di noi è rimasto comunque il ricordo, il ricordo di questo affetto e di questo legame forte e profondo di questi 4 anni. 22 Catturare le storie Lorella Messina1 “Così sono nate le borgate di Roma” Sono nata nel 1961 da due genitori che erano figli di emigranti. Sono nata a Roma. Mio padre veniva dalla Sicilia, da un piccolo paese dell’entroterra siciliano e i suoi genitori erano emigrati a Roma per motivi di lavoro perché nel dopoguerra purtroppo nei paesi del sud lavoro per i contadini non ce ne era ed emigrare era l’unico modo per sopravvivere ed assicurare un futuro alla propria famiglia e i propri figli. Mia madre è di origini abruzzesi e anche lei è venuta a Roma negli anni cinquanta con i suoi genitori e tutti i suoi fratelli e loro si sono appunto conosciuti a Roma. Vivevamo in una borgata della periferia, quelle borgate che sono nate appunto a Roma nel dopoguerra per raccogliere tutto quella massa di immigranti che venivano in cerca di fortuna nella capitale. La borgata, Fidene, dove ero io, come tutte le altre, era uno di quei luoghi poveri, privi di strutture, servizi, dove gli abitanti si costruivano la casa con le loro mani; si aiutavano l’uno con l’altro: magari lavoravano tutta la settimana poi la domenica ci si chiamava fra famiglie di vicinato e si andava ad aiutare il vicino, a dare una mano per costruire la casa che magari era soltanto una stanza dove si abitava e intanto si ampliava intorno tutto il resto, appunto per fare spazio e per poi poter costruire un’abitazione decente per tutta la famiglia. Così sono nate le borgate di Roma. All’inizio il degrado era grande perché non c’erano servizi, non c’erano strade. Io ricordo quando ancora non c’era neanche l’asfalto, né illuminazione pubblica. Non c’erano grandi mezzi di comunicazione, nemmeno gli autobus. Poi pian piano con gli anni le cose sono migliorate. Ricordo quando andavo alle scuole elementari, non c’erano scuole vere: erano edifici affittati dal comune in abitazioni private e arrangiate alla meno peggio, dove si stava dentro a studiare in condizioni molto precarie, non c’erano palestre, non c’era possibilità di fare attività, non c’era mensa. Semplicemente si cercava di fare lezione. Ricordo che durante un anno scolastico avevamo una stanza che era molto grande ma siccome c’erano molti bambini (perché al contrario di adesso noi eravamo tanti, i genitori i figli ancora ne facevano parecchi), con le borgate che si affollavano sempre di più, non c’era spazio per tutti quanti. Quindi questo stanzone così grande venne diviso a metà da una parete che era di legno compensato, credo o mi ricordo che fosse, per questo se nell’altra aula a fianco c’era un po’ di confusione o un insegnante che parlava a voce alta sentivamo due lezioni contemporaneamente e devo dire che forse era anche divertente, ma certo non era proprio il massimo della possibilità di apprendere a scuola. Però erano anni spensierati perché le borgate non erano quelle di adesso; intorno 1 Intervista realizzata da Teresa Amato, Civitella del Tronto, 16 gennaio 2011. 23 Catturare le storie c’era sempre tanta campagna per cui quando poi si usciva da scuola e si andava a giocare lì fuori, si stava tutti insieme e si andava in mezzo ai prati a correre, a giocare. Non avevamo biciclette o monopattini o altre cose, però ci divertivamo davvero tanto e ci bastava davvero poco; c’era un po’ di televisione, la tv dei ragazzi un’ora, due ore al giorno che si guardavano, poi per il resto la televisione era al massimo Carosello la sera prima di andare a dormire; non c’erano tante ore da passare davanti alla televisione anche perché non c’era tanto tanto da vedere. Questo però diciamo che ci aiutava tantissimo nella creatività per cui i giochi ce li inventavamo. E quindi ho avuto un’infanzia molto felice, ricordo veramente con gioia la mia infanzia nonostante tante privazioni e poche cose che avevamo. Poi ricordo con grande gioia che finalmente in seconda media fu completata la costruzione del nuovo plesso scolastico. Finalmente avevamo una scuola vera ed era grande, era bella, c’erano dentro tutte le attrezzature, i servizi, una palestra grande dove poter fare ginnastica, un campo all’aperto anche, dove stare fuori a giocare, fare ricreazione, fare sport all’aperto e c’erano aule per fare attività ricreative anche in orari extrascolastici. Quindi, la mattina si faceva scuola, poi il pomeriggio si rimaneva a mangiare tutti quanti insieme e poi si facevano delle attività extra-curriculari. Mi ricordo che in quel periodo arrivarono tantissimi insegnanti; furono assunti tanti giovani neo-laureati che appunto dovevano stare con noi nei pomeriggi a fare queste nuove attività nei laboratori ed erano divertentissimi perché facevamo laboratorio di ceramica, il laboratorio di animazione, tante attività diverse nuove; sport diversi come la pallavolo, tanti tipi di attività che a noi divertivano tantissimo. D’inverno in borgata, se non potevi uscire perché faceva freddo, dovevi stare dentro casa, invece adesso stavamo a scuola insieme a fare un sacco di cose divertenti e creative con questi giovani insegnanti che avevano voglia come noi di fare cose nuove, di crescere con noi perché erano anche loro pieni di entusiasmo e quindi fu un grande cambiamento per noi, di crescita, e lo ricordo ancora con grande gioia. Mio padre lavorava come operaio nei cantieri edili; all’epoca a Roma il lavoro che più si trovava sicuramente era quello nell’edilizia: Roma si stava sviluppando e quindi c’era lavoro per tutti all’epoca nel settore delle costruzioni. Mia madre era casalinga. Però mi ricordo i primi anni in realtà, per guadagnare qualcosa in più e per riuscire a costruire la casa, siamo andati a vivere in una palazzina dove mia madre faceva la portiera mentre mio padre invece faceva il suo lavoro di operaio. Anche quello fu un bel periodo perché all’interno di quel palazzo conobbi i miei primi amici e le mie prime compagne di giochi. Questo posto era a Ostia, Ostia lido dove c’è la spiaggia di Roma in pratica; ricordo che per esempio da bambina io era quella che portava la posta; la mamma mi dava la posta e io facevo tutto il palazzo che era sei o sette piani credo, me ne andavo su per il palazzo a consegnare la 24 Catturare le storie posta a tutti quanti gli inquilini. La cosa bella è che quando ognuno di loro mi vedeva, mi salutava magari mi faceva entrare, chi mi dava una caramella chi mi raccontava qualcosa; è stato un periodo che ricordo poco perché ero piccola, però lo ricordo molto divertente, molto allegro. Poi ricordo anche che mio padre lavorava spesso in cantieri dove si costruivano case al mare; noi non potevamo avere la possibilità di andare in vacanza perché economicamente non ce lo potevamo permettere, così, d’estate noi andavamo con lui la mattina: ci alzavamo prestissimo per andare e siccome lui andava a lavorare al mare in questi cantieri edili di case al mare ci portava a me e alla mamma e a mio fratello piccolo, ci lasciava in spiaggia e lui andava a lavorare e noi passavamo tutta la giornata in spiaggia al mare e quelle erano le nostre vacanze. Poi di sera quando lui aveva finito di lavorare e tornava per rifare il suo giro e riportare gli operai a casa passava anche da noi sulla spiaggia e noi tornavamo col pulmino insieme a tutti gli operai. Devo dire che erano vacanze divertentissime bellissime; così sulla spiaggia libera portavamo da mangiare, si stava tutto il giorno e ci si divertiva tanto veramente con poco. Nel 1974 mi sono iscritta al primo anno delle superiori e forse anche sull’onda di tutte queste esperienze creative che ci avevano fatto fare negli ultimi anni delle scuole medie avevo scoperto in me una vena artistica e così decisi di iscrivermi al liceo artistico. Devo dire che l’impatto fu traumatico se si può dire così, perché io venivo da una borgata romana; il liceo artistico a Roma si trova al centro quindi arrivai per la prima volta in contatto con ragazzi che venivano da tutte le zone soprattutto centrali di Roma e avevano vissuto esperienze molto diverse dalle mie. Perciò mi trovai come un po’ come un pesce fuor d’acqua; mi resi conto che in fondo vivere in borgata aveva significato anche crescere in una zona come dire emarginata, cioè, difficilmente noi si aveva contatto con le zone del centro di Roma, era un po’ un grosso paese e anche le relazioni fra le persone e le famiglie della borgata erano molto sullo stile del vecchio paese, perché appunto le persone che vi abitavano erano tutte venute da fuori e si erano insediate in questi sobborghi romani e avevano costruito delle piccole realtà abbastanza chiuse. Quindi feci molta fatica ad inserirmi perché i miei compagni erano molto più aperti di me, avevano avuto molto più contatto con le realtà della città e inizialmente mi trovai un po’ emarginata però poi, come sempre succede nel periodo dell’adolescenza, si ha una grande capacità sia di recupero sia di relazione, quindi diciamo che ho cominciato a frequentare questi ragazzi, a conoscere altre situazioni ed altri ambienti che sebbene diversi dai miei comunque erano molto stimolanti. Tutto il periodo del liceo fu per me di grande crescita, soprattutto a livello culturale sia per il fatto che frequentavo molti giovani che come me avevano voglia di esprimersi creativamente e sia per il fatto che i nostri insegnanti erano molto aperti. 25 Catturare le storie Diciamo che quello fu uno dei periodi più contrastati della storia del nostro paese. Noi giovani l’abbiamo vissuto proprio così. Erano gli anni che andavano, quelli del liceo, dal ’74 al ’78 e perciò gli anni più terribili del terrorismo e ricordo che non passava giorno che sul giornale non si leggesse di attentati, di giovani che sparavano. Era il periodo delle Brigate Rosse, di tutti i movimenti estremisti, sia di sinistra che di destra; c’erano talmente tante sigle, noi eravamo molto disorientati perché eravamo ancora in un’età in cui non capivamo bene cosa stesse succedendo, però capivamo, sentivamo questa tensione che c’era continuamente. La vivevamo anche. Fra l’altro, andando a scuola al centro, spesso capitava che sentivi anche sirene, per cui pensavi subito “ecco qualcun altro magari è stato ammazzato o gambizzato”. Io non riuscivo ancora bene a capire tutte queste situazioni; vedevo che c’era tanta violenza, capivo che c’erano tante situazioni terribili intorno a noi e lo vivevo anche attraverso la scuola perché ad esempio durante l’anno scolastico c’erano frequentemente manifestazioni, scioperi per rivendicare sia diritti ma anche per protestare contro il governo, le leggi, lo Stato in sé perché era un periodo di grandi contestazioni. Ricordo che durante il secondo anno del liceo ci fu la vera prima occupazione della scuola, la prima autogestione e devo dire che inizialmente fu anche una bella esperienza: noi, attraverso queste autogestioni, tentavamo di creare all’interno della scuola delle situazioni di dialogo anche con i professori, almeno quelli disponibili, di parlare del momento storico in cui vivevamo, delle motivazioni che avevano portato questa situazione di grande confusione e di grande violenza che c’era e che stavamo vivendo. E contemporaneamente eravamo anche spensierati per l’età che vivevamo. Era un periodo molto contrastante, con molte indecisioni, contraddizioni ma contemporaneamente molto stimolante. Avevamo voglia di capire, di crescere, di conoscere. Spesso ci si vedeva anche all’esterno, fuori dalla scuola; si andava alle manifestazioni; si protestava ma contemporaneamente, finalmente, si usciva la sera, si faceva anche tardi e diciamo che la mia è stata la prima generazione che veramente ha avuto quella libertà di muoversi e di stare insieme senza dover rendere conto ai proprio genitori, alla propria famiglia. Sulla scia del ’68 c’era molta più autonomia, molta più libertà dei ragazzi. E anche noi ragazze eravamo molto libere di viverci le nostre storie, i nostri amori, di uscire e di fare esperienze. Una cosa che ricordo terribilmente fu il giorno in cui andammo a scuola e ci fecero uscire in anticipo; tutta la città risuonava di sirene, era un giorno di primavera, una bella giornata di sole e mi ricordo che tutti si chiedevano cosa stesse succedendo; era il giorno in cui le Brigate Rosse avevano rapito l’onorevole Aldo Moro. Noi tornammo a casa; più di tanto non ci rendevamo conto dell’importanza di questo fatto, poi col passare dei giorni e delle situazioni che venivano a crearsi, capivamo che l’Italia stava vivendo un momento terribile. Poi per fortuna negli anni successivi, dopo questo che fu il momento culminante del terrorismo, questo clima pian piano 26 Catturare le storie venne meno perché fortunatamente poi furono arrestati i capi delle B.R., lo Stato finalmente riuscì ad avere ragione del terrorismo. Nel frattempo io avevo anche finito il liceo e mi ero iscritta all’Accademia delle Belle Arti e ormai ero anche più matura e cosciente. decisi di entrare a far parte di un movimento politico giovanile di sinistra anche perché sentivo l’esigenza di far parte di qualcosa che nella nostra società potesse intervenire o comunque partecipare ad una possibilità di rinnovamento, di cambiamento e che io sentivo fortissimo. Quindi cominciai a frequentare assemblee, riunioni politiche con i giovani a parlare di politica andare alle manifestazioni. La cosa che ricordo più interessante ma anche con più emozione erano le riunioni che facevamo tra donne; quelli sono stati anni in cui il movimento femminile era molto attivo; erano appena state votate le leggi sul divorzio, poi la 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza e quindi si erano istituiti i primi consultori. Le donne finalmente avevano preso piena coscienza del loro essere una parte attiva e fondamentale della società. Sentivano l’esigenza, il bisogno di partecipare in maniera attiva ai cambiamenti che stavano avvenendo e soprattutto sentivano una grande esigenza di riscatto nei confronti della società fino allora fortemente maschilista. Quindi ci si incontrava spesso per parlare soprattutto di noi. Le chiamavamo riunioni di autocoscienza: parlavamo di noi, dei nostri problemi, di politica, delle nostre aspettative ed era bello perché eravamo donne di tutte le età: c’erano giovani come ero io ma c’erano anche signore con le loro famiglie, i figli piccoli ma anche donne anziane, magari anche con una lunga esperienza di militanza che per noi erano anche dei punti di riferimento molto importanti e questo mi ha aiutata tantissimo a maturare e soprattutto a rendermi conto di quanta voglia avessi sia di partecipare sia di credere che ci potesse essere una società migliore per tutti e soprattutto per le donne. Era molto bello anche quando partecipavamo alle manifestazioni delle donne; l’8 Marzo non era come adesso, con tante donne si riuniscono per andare a cena fuori con le amiche. Per noi l’8 Marzo era soprattutto la manifestazione. Andavamo tutte quante in piazza con la nostra mimosa a manifestare sul serio, arrabbiatissime, e a gridare le nostre rivendicazioni i nostri diritti e credo che questa sia stata una parte importante della crescita della nostra società; se le mie figlie adesso hanno la capacità di autogestirsi di credere in loro stesse e di mettere al primo posto il loro futuro e quello che veramente vogliono loro dalla vita per se stesse, questo è anche perché in tutto quel periodo, noi abbiamo preso autocoscienza che la donna si deve veramente autodeterminare. Non era più la donna che voleva crearsi una famiglia con i figli e avere un marito che andasse a lavorare; noi volevamo veramente contare nella società. Quello era il periodo in cui studiavo all’Accademia delle Belle Arti scenografia ed era un bel periodo: la scuola era molto molto vivace molto attiva e con i compagni di corso oltre a condividere lo studio condividevamo 27 Catturare le storie anche tante esperienze. Si usciva spesso insieme, Roma era molto bella, si andava in centro, la sera ci si riuniva nei locali. Non eravamo ragazzi da discoteca. Il nostro modo di divertirsi era diverso da quello di oggi, non c’erano le grandi discoteche. Magari noi ci riunivamo in piccoli locali al centro di Roma dove si faceva della buona musica, jazz magari o c’erano dei gruppi emergenti e si stava insieme a chiacchierare ad ascoltare buona musica. Non c’era quella voglia di divertirsi con lo sballo; il nostro sballo era stare insieme, magari parlare di noi, di quello che ci accadeva intorno. Crescevamo insieme, capivamo insieme, c’era molto dialogo c’era molta voglia di capire quello che c’era intorno. San Nicandro Garganico (FG), 1970 28 Catturare le storie Marisa Marisi1 “Volevano che mi chiamassi Edera” Quando sono nata, mio padre e mia madre erano molto giovani, avevano 20,21 anni, volevano che mi chiamassi Edera, ma gli impiegati del comune dissero che Edera era un nome antifascista e quindi non potevo chiamarmi Edera. Da lì è nato il fatto che mi chiamo Marisa perché mio padre disse che sua mamma voleva che mi chiamassi Marisa. Il prossimo anno saranno 80 anni da quella data, per cui di lì è iniziata tutta la storia della mia vita. Provengo da una famiglia di due tipi. Da parte di mia madre una famiglia di antifascisti. Mio nonno era un vecchio socialista. Lui per non fare la guerra si tagliò con le tenaglie tutti i denti, mi ricordo questo nonno senza denti. Da parte del padre, gli zii erano antifascisti ma loro padre era un padre padrone fascista, che arrivò persino a denunciare i figli. Io ho aderito al PCI non per questioni filosofiche o di orientamento, ma per un senso di giustizia. Io vedevo che in quel periodo quel partito fosse il partito migliore. Poi allora sai, non era come adesso. Per aderire al partito bisognava avere almeno 18 anni, dovevi avere almeno due persone che garantivano per te, dovevano essere due persone conosciute. Stiamo parlando del ’46-’47. In quel periodo ho gestito anche i miei 16 anni: balli, feste, e ste cose. Poi ho chiuso con la scuola perchè mi pareva, che il socialismo fosse lì a due passi, che si potesse realizzare, dare ad ognuno in base alle sue necessità. Poi nel partito, ovviamente, ci sono state le battaglie in particolare per le donne. Però devo dire che le donne erano abbastanza considerate, forse anche più di adesso. C’erano le donne che avevano meno capacità politiche di quelle di oggi, però erano molto attive, molto sensibili, anche perché avevano partecipato alla Resistenza, alle lotte partigiane e non è stato una cosa da poco, hanno rischiato tanti uomini, ma le donne hanno rischiato nelle case più degli uomini stessi. Iscriversi al PCI in quel periodo, voleva dire essere a disposizione per qualsiasi attività. Probabilmente chi ha scelto dalla segreteria del partito, che ha scelto che io potessi andare alla CGIL, a fare il lavoro del Sindacato Commercio, del Sindacato dell’Ortofrutticolo, ha pensato che potessi essere adatta a fare quel lavoro e io sono andata con entusiasmo. In quel periodo economicamente importante per Cesena, andare a lavorare nei magazzini della frutta, significava che le donne potevano avere a casa uno stipendio. Significava che tutta l’economia cesenate, quella dei contadini in particolare, aveva potuto svilupparsi: perché le aziende contadine avevano trovato un canale per produrre, per avere una risorsa. Infatti dopo 4-5 anni molti contadini furono in grado di comprare le case, i poderi dall’ECA e dal ROIR. Andavo da Forlì a Cesena tutte le mattine in pullman e poi la notte andavo a casa. Molte volte dovevo cercare qualcuno che mi ospitasse a dormire, ecc. . Sono state cose interessanti, bellissime, per le esperienze personali, però hanno sempre 1 Intervista realizzata da Eleonora Pergreffi, Cesena, 5 dicembre 2009. 29 Catturare le storie costato un po’ di sacrificio. Poi mi sono sposata nel ’52 e ho durato un anno a venire su in treno e in pullman così per lavorare alla CGIL e poi nel ’54 è nato un figlio. Ci siamo trasferiti direttamente a Cesena. Però ritornando al problema delle operaie ortofrutticole, le prime battaglie del Sindacato Ortofrutticole sono state fatte per arrivare ad una perequazione delle tariffe, per le ragazze, le operaie ortofrutticole. Gli uomini avevano uno stipendio superiore, non facevano quel lavoro lì, facevano al massimo carico e scarico dal camion. Le tariffe erano che le ragazze dai 14 ai 16 anni avevano uno stipendio quasi 0, pochissimo, dai 16 ai 18 e poi dai 18 in avanti e quindi c’erano 3 tipi di stipendio. E’ ovvio che i commercianti preferivano assumere ragazze molto giovani perché così potevano pagarle di meno. Le ragazze giovani non avevano il problema dell’orario, di andare a casa, per cui andavano a lavorare un po’ prima, uscivano dopo, cioè erano anche meno sindacalizzate. Di li è iniziata tutta una battaglia per avere una perequazione, affinché ci fossero due fasce di salari, anzi noi pensavamo che dovesse esserci una tariffa unica. Non siamo mai riuscite ad avere questo, però la tariffa dopo è stata dai 14 ai 20 anni e dai 20 ai 40. Si potrebbero raccontare degli aneddoti su questo punto. Quando abbiamo chiesto una tariffa unica mi ricordo che M. D., è stato presidente degli esportatori, disse: ”Vabbe’ noi facciamo aumentare la tariffa delle ragazze, però dopo 40 anni le diminuiamo”. Ricordo un episodio di una signora bellissima di 40 anni, veniva alle riunioni, agli incontri operai, che disse: “Io ho 41 anni mi scarterebbe?”. E rimase un silenzio così, rimasero gelati perché era molto molto bella. Quindi la battaglia ortofrutticola era stata quella; poi da questa cosa qui è nato il Sindacato Commercio e noi abbiamo valorizzato le nostre attività nel cesenate anche a livello nazionale per cui ad un certo punto, il congresso Sindacato Nazionale del Commercio si è fatto proprio a Cesena. I primi scioperi sono stati difficili da organizzare perché far scioperare un’operaia ortofrutticola, che non aveva lavoro, non era una cosa semplice. Su questo punto, io penso che valga la pena raccontare come avvenivano assunte le operaie. Le operaie, entrava il padrone, il direttore insomma o il ragioniere. Da M. D. era il ragioniere che veniva fuori, diceva: “Tu, tu, tu venite dentro”. Ed ovviamente sceglieva quelle più forti, quelle che rendevano di più, che non avevano problemi a stare li un’ora in più, perché poi non c’era che suonava la sirena e uscivi da lavorare. Li entravi e poi il padrone ti diceva esci e ti segnava lui le ore che facevi, ed era l’unico introito che avevano le famiglie di Cesena quello e la stagionalità delle operaie della frutta all’Arrigoni. Il Sindacato Commercio, il sindacato delle ortofrutticole aveva raggiunto un buon livello, insomma un buon livello di maturità politica e sindacale, ecc. . Al sindacato Commercio, oltre alla sottoscritta, c’era un uomo che faceva tutta l’altra parte del commercio, le piccole aziende. In quel periodo mi chiesero di andare all’UDI, non c’era nessuna che lavorava a tempo pieno, perché funzionava così, il partito, chi dirigeva, diceva: “tu a questo punto potresti andare a questo posto, anzi ci dovresti andare!”. Io ci sono andata volentieri, perché mi interessava il lavoro 30 Catturare le storie delle donne, anche li c’è stata qualche novità, perché in quel periodo, parliamo dell’UDI come manifestazione di carattere femminile, c’era il problema delle manifestazioni dell’ 8 marzo. Adesso quando voi vedete l’8 Marzo, il ramoscello di mimose è una cosa naturale, è diventata una cosa commerciale, ma in quel periodo la mimosa chi non era di sinistra non la voleva, insomma ti cacciava quando suonavano il campanello. All’UDI dissi: “Facciamo un direttivo, qui bisogna che sfondiamo, facciamo una cosa diversa, insomma, se no che cosa ci stiamo a fare?”. Allora ci facemmo coraggio. Allora era sindaco Antonio Manuzzi, e chiedemmo di fare un 8 Marzo in cui fosse l’Amministrazione Comunale ad invitare in Comune una rappresentanza delle donne di tutte le categorie: l’ospedale, le scuole, le aziende ecc. . Mio marito è stato nel consiglio comunale, è stato assessore, è stato parlamentare ecc.. Noi siamo stati in consiglio comunale assieme, io sono entrata prima in consiglio comunale di mio marito, poi successivamente siamo stati insieme 5 anni, quindi io sono stata 10 anni in consiglio comunale, poi dopo io sono uscita, perché c’era un problema di coppia. Io sono uscita dal Consiglio comunale, ci è rimasto mio marito, non solo per una questione di opportunità, ma anche perché mio marito ha avuto anche la possibilità di farlo, era più preparato, ha studiato di più, per molti aspetti, dal punto di vista intellettuale è molto superiore a me, non lo dico per essere umile, ma facendo una constatazione. Noi ci siamo conosciuti nel partito, ci siamo conosciuti quando io sono tornata dal Festival di Berlino nel ’51 e nell’anno dopo ci siamo sposati. Non aspettavamo i figli, i figli sono nati dopo 3 anni. Dopo l’esperienza dell’UDI ad un certo punto, io sono leale ma non sono fedele per principio, non so se rendo l’idea, per cui all’UDI non mi trovavo più. Allora si faceva così, sono andata al partito e ho detto: “Guarda, adesso non mi sento più di stare all’UDI, non è il mio posto, non mi piace amministrare le cose così come vanno, però non cerco niente dal partito: ho l’età per andare a fare un’altra cosa, per cercarmi un lavoro per conto proprio”. Mi fu fatta la proposta di andare a lavorare al partito. Io dissi di no, perché c’era la Vittorina Amadori, era una mia amica, avevamo un rapporto di amicizia, mi fu detto che lei sarebbe uscita e che sarebbe andata a fare un altro lavoro. Insomma io non ci andai. Per qualche mese, cinque, sei mesi ho lavorato con il “Calendario del Popolo”. E’ una cosa che mi è sempre piaciuta molto, perché era una rivista scientifica, più storica più, che storia e scienze, insomma una rivista molto importante, molto bella, fatta molto bene, la dirigeva Trevisani, mi pare che si chiamasse così il direttore di allora. E avevano fatto un’enciclopedia. Io telefonai a questo Teti di Milano,e gli dissi: “Guardi io sono una così così che non vuole più stare all’UDI.”. Lui mi chiamò a Milano e per 5/6 mesi, ho fatto questo lavoro che è stata un’esperienza interessante. Il mio lavoro consisteva nel fare la vendita e la diffusione delle enciclopedie che avevamo fatto della Storia d’Italia, storia vista da un certo punto di vista, le aveva fatte Giulio Trevisani. 31 Catturare le storie Successivamente, ho fatto prima un passaggio al partito; poi dopo mi e’ stato chiesto di andare all’ARCI. E’ stato un periodo bello, un’ esperienza interessantissima. A un certo punto una mattina, eravamo io e il maestro Ciccarese, leggiamo nel giornale che Dario Fo era stato cacciato dalla televisione in quel periodo e l’avevano rifiutato persino nelle Case del Popolo. Lui era al Grand Hotel di Cesenatico, lui Dario Fo, ci diede appuntamento per il pomeriggio, ci siamo andati e gli abbiamo parlato. E di li e’ nato questo sodalizio con Dario Fo, con Nuova Scena, erano due compagnie e la cosa ha funzionato; diciamo così, che il circuito alternativo di Dario Fo e Nuova Scena è partito da Cesena, le prove le hanno fatte qui. Durante il periodo delle prove, venivano da tutte le parti del mondo a vedere le prove, ad intervistare Dario Fo, i giovani in particolare, mi ricordo dalla Scandinavia, venivano dai paesi più impensati, dalla Scozia, in particolare anche gli americani, che non so come facessero ad arrivare a Cesena. E venivano e dormivano qui, dormivano dentro la sede dell’Arci, dormivano dove potevano coi sacchi a pelo. E questa cosa del circuito alternativo di Dario Fo, fatto nelle Case del Popolo, secondo me, ha segnato anche per le stesse Case del Popolo una forte presa di coscienza di cosa queste potessero rappresentare per la gente. Per cui sono stati fatti diversi spettacoli di Dario Fo, di Nuova Scena. Poi di li sono nati i doposcuola fatti nelle Case del Popolo. Per la prima volta i ragazzi dei contadini sono andati a fare i corsi di nuoto al mare con l’Arci, e’ stato tutto un susseguirsi di iniziative che raccontarle adesso si vede solo l’aspetto positivo. Ma allora non era tanto semplice. Intanto perché Dario Fo aveva amministratori come Fulvio Fo e Nanni Ricordi che aveva messo fuori i soldi, era sempre qua a controllare, quindi non ci regalavano niente, dovevamo prima convincere, discutere coi consigli direttivi delle Case del Popolo l’importanza di questo per la cultura dei contadini, dei braccianti e della gente comune. Dopo che avevi affrontato questo problema dovevi dire: “Dobbiamo vendere i biglietti”. Perchè lo spettacolo costa tanto e vendere i biglietti per lo spettacolo significava mettere in movimento della gente che non avresti mai pensato che avrebbero fatto quel lavoro. Però è un lavoro che ha dato soddisfazione. Per esempio siamo stati invitati ad alcuni manifestazioni ed incontri nazionali, perchè nel frattempo che si faceva quel lavoro con Dario Fo per gli spettacoli teatrali, ci aveva interpellato Volonte’: organizzarono una assemblea del cinema a Porretta Terme e ci avevano contattato per fare un circuito alternativo del cinema. A Cesena dopo il circolo del cinema, l’unica cosa fatta è stato un convegno nazionale dei Circoli del Cinema con Zavattini ed altri personaggi del cinema. Ricordo che c’era fermento culturale. Mi ricordo che la mattina che si fece il convegno nella sede del Pci non c’era più posto e così siamo finiti al Ridotto del Teatro Comunale. C’era gente da ogni parte d’Italia. Dopo sai, era un periodo che i ragazzi prendevano su il sacco a pelo e andavano e dormivano dove potevano, così, mangiavano quando potevano. Quindi si andò al Teatro Comunale perché nella sala del PCI non c’era sufficiente posto. Non è che il PCI allora ci avesse 32 Catturare le storie tanto volentieri la sala. Io dico che quella sala ci è stata data perché Enzo Ceredi che conoscete in molti, fece un po’ di casino, perché sai un circuito alternativo, una cosa, insomma…. . Ancona, 1968 33 Catturare le storie Enzo Soravia1 “La sera alle 10 ero già stato fatto prigioniero” Era proprio il 10 giugno 1940. In paese c’erano poche radio e noi avevamo una radio, la Hunda, che veniva fatta, fabbricata a Dobbiaco. Quel giorno del 10 giugno eravamo io, il più giovane indubbiamente, mio padre, mio zio, altre persone un po’ anziane. Una di queste, sentendo la dichiarazione di guerra ha detto: “l’abbiamo già persa”. io penso che avesse detto così per via della differenza che può esserci tra la nostra mentalità, cioè il nostro carattere, come italiani, e il carattere diciamo pure tedesco o prussiano … a parte il fatto che non eravamo preparati per la guerra perché nessuno la voleva. Il 18 di Settembre del 1942 sono stato chiamato alle armi e mandato al 4° Genio, al 4° Genio di Bolzano, quale aggregato alle truppe alpine. Io ho sempre portato il cappello da alpino, hai capito. Lì ho fatto il corso di radio marconista e praticamente il 4° Genio militare. Io da Bolzano non mi sono mai allontanato, abbiamo fatto dei collegamenti perché avevamo radio portatili che andavano a batteria e la nostra radio poteva eventualmente avere una portata sui 10 km; abbiamo fatto un collegamento Bressanone – Bolzano, Bolzano – Mendola, Mendola – Merano: Ognuno si collegava con l’altro: io trasmettevo a Bolzano, Bolzano a Mendola, da Mendola a Merano. Lì io sono rimasto fino all’8 settembre del 1943. La sera alle 10 ero già stato fatto prigioniero. Quella sera è sceso nella stanza che avevamo nel seminterrato della stazione di Bolzano un ufficiale tedesco dicendo che noi avevamo cessato la guerra e che di conseguenza non avevamo più bisogno delle armi. Abbiamo depositato le armi, dal momento che non ne valeva la pena, tanto più che ti dirò una cosa, avevamo dei moschetti ‘91 vecchi della guerra del ’15 - ’18 e avevamo tre caricatori con solo 18 colpi. Sicché non eravamo per niente armati, non potevamo comunque affrontare nessuno. Quella sera ci hanno radunati tutti in una sala della stazione e siamo rimasti lì. L’indomani mattina ci hanno condotto attraverso le strade di Bolzano al campo sportivo e durante il tragitto sul ponte Druso ho visto il primo morto. Da lì ci hanno condotti sul ponte sul Talvera, un fiume che passa proprio in mezzo alla città di Bolzano, e tra un ponte e l’altro con le mitragliatrici puntate ci hanno radunati un po’ lì. Io essendo in servizio alla stazione io avevo la semplice divisa. Non avevo altro e lì mi hanno tenuto fino al giorno 10 sera. Il 10 sera ci hanno accompagnati alla caserma della G.a.f., Guardia alla frontiera che era di là del Talvera. In quella caserma ho potuto racimolare uno zaino, mi sembra tre lenzuola, quattro o cinque strofinacci e altrettante pezze da piedi perché 1 Intervista realizzata da Chiara Tabacchi, Valle di Cadore, 1 gennaio 2011. 34 Catturare le storie quella volta venivano date in dotazione delle pezze che erano bianche di cotone. Sono rimasto lì fino al giorno 11 mattina, ci hanno accompagnato in stazione e ci hanno fatto salire sui carri bestiame. Lì praticamente ci avevano tolto ogni volontà, il nostro cervello praticamente non esisteva più, la tua volontà era sparita, sparita completamente. Tu non potevi sapere da un momento all’altro che cosa ti poteva succedere. Eri diventato un nulla, un nulla. Praticamente li a Bolzano saremmo stati in minimo 4-5000 soldati. Quanti sono tornati vivi in Italia? Questo non lo so. Sappiamo perfettamente però che i prigionieri italiani in Germania, mandati al lavoro coatto, erano circa in 600/650.000. Sono rimasti lì, rinunciando ai benefici eventualmente che si poteva avere se entrando nel nuovo esercito della Repubblica Sociale Italiana, che aveva cercato di mettere in piedi Mussolini una volta liberato nel Gran Sasso. Siamo arrivati a Fallinboster il giorno 13 mattina e lì siamo passati per gli uffici. Ci chiedevano nome cognome, eventualmente quello che facevi durante la tua vita civile. Lì dopo ci hanno messo in baracche, baracche indubbiamente con castelli di tre/quattro piani: castelli fatti a suo modo, neri ormai neri da quanto erano stati adoperati, e lì sono rimasto fermo fino al 30 di settembre. Nel frattempo mi hanno mandato con piccone e pala a sterrare sotto un capannone. Il mangiare era poco o niente: un mestolo, un mestolo di barbabietole da zucchero, quelle pressate ormai. erano talmente amare che non le potevi neanche affrontare. Il 1° di ottobre mi hanno caricato, si vede che hanno preso il mio nome e mi hanno caricato su un camion e mi hanno portato a lavorare in fabbrica: era una fabbrica dove si producevano motori di aeroplano. In fabbrica portavo il numero 396 e sulla schiena c’era scritto IMI, I-M-I. Sveglia alle 6:30, partenza alle 7:15; bisognava rimanere in fabbrica fino a mezzogiorno, poi si correva in baracca, lontana 150-200 metri, per prendere un mestolo di quella roba: 120 litri d’acqua, 1kg e mezzo di margarina e dei cetrioli sott’aceto. Sai quei cetriolini che comperate voi adesso? Ecco di quelli e basta. Alle una bisognava ritornare in fabbrica fino alle 7 meno venti della sera e da lì si ritornava in baracca. In baracca eravamo in 83 e lì alla sera ci davano un altro mestolo sempre della stessa cosa, un filone da 2 kg di pane da dividersi in otto, un cucchiaio di marmellata, oppure un altro pezzettino, 20 grammi o 30 grammi, di margarina, oppure una fetta di salame. Quello era il mangiare giornaliero praticamente ecco. Lì in fabbrica stavamo in stanze sempre piccole: in sedici in una stanza di 6 per 4; per entrare tra un castello e l’altro bisognava andar dentro diciamo in sbiego, in cortel come se dise da noi capisci. Perché se no, se uno voleva entrare così non ce la faceva, perché da un lato e l’altro della stanza c’erano due castelli e altri due castelli messi insieme nel mezzo, sicché era larga 6 metri e poi avevamo sti 50 centimetri per poter passare. Nel mezzo diciamo pure dalla 35 Catturare le storie stanza, c’era uno spazio da potersi sedere diciamo insomma: c’erano delle sedie, delle panche, qualche cosa capisci. Dentro c’era un fornello, siamo stati dotati di un materasso di paglia e un cuscino di paglia con due coperte, una sotto e una sopra. Questo è quanto avevamo in dotazione. Lì ho lavorato fino a dicembre del ’44. Io pulivo, mettevo a posto, dal mio reparto partiva appunto proprio il motore per andare nella sala di prova e io avevo questa incombenza: mettere a posto i tubi della benzina, i tubi dell’olio, il motorino di avviamento del motore; dovevo sistemarlo e poi portarlo in deposito e ogni volta che ne serviva uno dovevamo andare a prenderlo. Per quanto poco si cercava di fare anche del boicottaggio. C’eran di quelli che mettevano dentro un dado, una ranella, l’olio non arrivava più e allora il motore si bloccava completamente, doveva essere smontato e rimandato nel reparto di demolizione. In fabbrica avevamo una pulizia comandata da un maggiore per controllare tutta la fabbrica: c’era una baracca di francesi, una baracca di russi e noi. In tutte le baracche per quanto poco c’erano dentro sempre un centinaio di persone; noi eravamo in 83 ma le altre saremo state uguali insomma. hai capito. io per esempio. Vicino a me lavorava un prigioniero russo, tanto è vero che avevo cominciato anche a parlare russo. Lì sono rimasto fino al 22 di dicembre e poi mi hanno spostato, sono arrivato in Sassonia vicino a Dresda. Lì ho lavorato in una fabbrica di ali di aeroplano però io non ero dentro direttamente in fabbrica: mi avevano dato l’incarico di mettere a posto, di tenere a disposizione la macchina del capo fabbrica sicché praticamente ero in garage. Non facevo niente, non facevo niente, quando il capo doveva partire, dovevo lavare la macchina, dovevo vedere se era tutto a posto, procurare la benzina, e quando ritornava dovevo lavarla, pulirla e rimetterla dentro in garage. Facevo la vita da signore insomma. Ti dirò una cosa: abbiamo anche trovato della gente buona, però era tutta gente di una certa età. In fabbrica erano pochi i giovani. Erano rari quelli sotto i cinquant’anni. E lì sono rimasto fino al 15 di luglio del ’45. In quei giorni quando sono andati a bombardare Dresda, sono passati sopra di noi: sentivi proprio il motore degli aeroplani proprio benissimo. Ho visto una battaglia tra due caccia, passavano via a piena velocità, 30-40 metri da terra, per esempio è venuto via un quadrimotore, è caduto a 150 metri dalla fabbrica. tanto per dirti. Il primo che ci ha comandato in baracca, perché in baracca avevamo un comandante e delle guardie, era un maresciallo che era stato ferito in Russia. Posso dirti una degnissima persona, veramente una degnissima persona. Ha tanto fatto che ai primi di dicembre ci ha portato le prime cartoline da poter spedire in Italia. Poi dopo sono stato liberato dai russi, perché lì sono arrivati i russi l’8 di maggio. I russi non mi hanno fatto niente, ma non si sono neanche poi interessati eh, hai capito?. Perché bastava che tu dicevi che eri italiano e ti 36 Catturare le storie lasciavano andare dove volevi, tanto è vero che io avevo potuto avere un permesso speciale dal generale che comandava la piazzaforte di Dresda di poter viaggiare su tutto il territorio occupato dai russi; sono partito il 15 di luglio su un treno qualsiasi e sono andato a Dresda. Da Dresda mi hanno portato giù verso la Cecoslovacchia e siamo passati per Praga e siamo arrivati a Bratislava. Ci han fermati perché dovete sapere che tutte le industrie belliche che trovavano nelle zone che attraversavano, i russi le smantellavano completamente e le portavano tutte in Russia; sicché avendo bisogno del treno ci hanno fatto scendere e hanno adoperato il treno per portare tutta quella roba. Allora noi siamo andati alla stazione di Bratislava: c’era un ufficiale russo, gli abbiamo fatto vedere i permessi e lui ci ha detto: “dobra dobra”, buono, buono. Allora abbiamo preso il primo treno che passava; però era pieno e allora noi siamo saliti sul tetto del treno. Sapete dove siamo arrivati?! a Budapest, in Ungheria. Ma nel frattempo durante la notte siamo stati assaltati dai soldati russi perché dovete sapere che in fabbrica dove lavoravamo c’era del rame, c’era dell’ottone e ognuno aveva fatto dei cuori, degli anelli. I russi ci han portato via tutto lì eh, perché sono saliti su con tanto di rivoltella e ci hanno portato via tutto completamente, il portafoglio. Io avevo fatto il commercio nero, mi ero procurato del pane, loro me l’hanno buttato giù dal treno, avevo una valigia con dentro due camicie di flanella nuove di zecca che mi aveva dato un vecchietto tedesco che avevo aiutato. Me l’hanno presa e buttata giù dal treno. Per fortuna nell’angolo del vagone era rimasto un sacco con dentro dei pastrani e delle coperte e con quelle ci siamo salvati perché arrivati a Budapest abbiamo trovato un vecchio che vendeva delle pere, quelle selvatiche: gli abbiamo dato una coperta e lui ci ha dato circa 3 kg di pere. Poi in un panificio ci hanno regalato un pane, un pane grande che avrà pesato senz’altro un paio di kg e allora sono corso in stazione e ho diviso tutto con gli altri. Abbiamo ripreso il treno. Dovevamo andare a Belgrado per farci fare un permesso definitivo per andare in Italia. E lì siamo stati fortunati. Quando si è fortunati si è fortunati, sono qui anche per quello. Va be’ avevamo ancora coperte e pastrani e fuori della stazione di Subotiz abbiamo trovato uno che aveva un carro, un carretto, con un asino. Lo abbiamo noleggiato, siamo saliti su tutti per andare a Belgrado. Va be’, arrivati all’imbocco del ponte, a circa 150 metri, vediamo un soldato con una divisa, una persona ad ogni modo un soldato vestito con una divisa italiana che viene giù. Noi andiamo su da questa parte e lui viene giù dall’altra; arrivati diciamo pure allo stesso livello uno che era sul carretto con me e questo soldato si sono riconosciuti: erano paesani. Mamma mia. fioi io ve la racconto, non podé savé, non potete sapere l’emozione. Lui era militare e quando è stato l’8 settembre è passato con i partigiani e lui ha fatto il cuoco dei partigiani. Arrivati lì ci chiede dove dovevamo andare e ci dice non 37 Catturare le storie andate dentro in città se non vi fanno prigionieri. E allora ci ha detto: “venite con me”. Dietrofront e siamo ritornati a Subotiz, ci hanno condotto in una famiglia che conosceva e lì ci hanno dato una veranda da poter dormire e ci hanno dato quello che avevano: povera gente, anche troppo, avevano dell’insalata fresca e con un po’ di pane. Insomma, abbiamo cenato quella sera con quel pochino che potevamo fare e l’indomani mattina sveglia. siamo andati in stazione. abbiamo preso il primo treno che andava per Lubiana. Arrivati, ci han fatti scendere perché dovevamo aspettare il treno che veniva da Fiume e prendere quel treno lì per venire in Italia. Ci hanno fatto scendere e siamo andati diciamo pur dentro nella sala della stazione e lì sono venuti dentro in due, un sergente e un altro soldato, c’han chiesto i permessi. Ognuno ha fatto vedere il permesso, loro non han detto niente. Arriva il treno da Fiume, saliamo sul treno, arriviamo all’ultima stazione, Sant’Antonio, me lo ricorderò finché vivo: era l’ultima stazione sotto la giurisdizione slava, perché dopo di là entravano gli americani. E lì si ferma il treno, vengono su sempre questi due e ci chiedono i permessi. Loro parlavano slavo, sul predellino del vagone c’era un ragazzo 15-16 anni, era un italo-istriano, anche lui aveva il permesso di venire in Italia, chissà cosa si son detti sti due, ad ogni modo abbiamo visto che sto ragazzo ha levato fuori dal portafoglio un biglietto con un permesso come il nostro. Preciso come il nostro. Che cosa abbia detto sto ragazzo, che cosa abbiano capito loro, insomma sti due militari si sono guardati in faccia e ci hanno dato indietro i biglietti per venire in Italia. Se non fosse stato per quello, ancora due anni dovevamo rimanere lì, ancora due anni. Qua in paese, in genere possiamo capire una cosa: indubbiamente finita la guerra tutti stavano male. Noi però più degli altri. perché oltre tutto, là siamo stati umiliati. Bisognava essere lì, essere lì in Germania dove i primi periodi c’erano dei ragazzi di 7-8-10 anni che ci sputavano addosso. 38 Catturare le storie Vittorio Balli1 “La facoltà era molto militaresca” Per milioni, milioni di italiani che hanno la mia età, essere “Balilla” è stato certamente rilevante della sua vita infantile. Il Duce era una figura di incredibile rilievo. Il Duce, che è il capo del Governo, rappresentava per noi bambini, una specie di essere superiore anche perché leggevamo sui muri, per esempio, “il Duce ha sempre ragione”. D’altra parte, l’epoca aveva originato ad un certo momento, per motivi di propaganda politica, una trasformazione anche nei bambini; perché io ero un bambino, poco più che un bambino, quando venne deciso che i bambini, anche piccoli, dovevano essere istruiti in modo tale che fossero fedeli al motto che si diceva, che cioè “il duce ha sempre ragione”. Naturalmente per questo dovevano essere bene allineati anche nel pensiero, ammesso che a uno di 8 anni si possa chiedere un pensiero politico, cosa che certamente non si sapeva che cosa fosse, anche perché non si sapeva che cosa fosse la politica. Allora questo bambino di 8 anni, curioso come ero io a quell’epoca, come si trovava vestito? Secondo non quello che sarebbe piaciuto alla sua mamma e al suo papà o anche a lui, ammesso che potesse scegliere come si volesse vestire, ma si doveva vestire in un modo stranissimo, da Balilla. Tutti avevano una divisa perché non ero solo io, tutti i bambini la portavano; i bambini intanto erano suddivisi per età; per esempio, c’erano i più piccoli che si chiamavano “i figli della Lupa”, una cosa dal morire dal ridere. All’epoca la storia della divisa, era un fatto molto naturale; per esempio, i bambini a scuola dovevano essere vestiti tutti uguali, cioè avevano un camice nero o bianco, un fiocco colorato al collo, i maschi divisi dalle femmine e questo succedeva nelle scuole. Il Balilla era così vestito: in testa aveva una cosa stranissima che si chiamava fez il quale non è nient’altro che un copricapo arabo, il fez, lo sanno tutti. Un fez color amaranto, ricordo; poi aveva la camicia nera, la camicia nera perché tutti a quell’epoca, non solo i bambini, ma i fedeli al regime, i fedeli alla patria avevano la camicia nera. Poi avevamo dei pantaloni corti, verdi mi ricordo, ed erano fatti con un panno che mi faceva prudere le gambe, ma non solo a me, perché erano di un tessuto che il Duce faceva produrre in Sardegna e si chiamava orbace, pensa un pò te; questo perché in tempi di isolamento dell’Italia dal resto del mondo, si faceva lavorare in questo modo anche le attività artigianali locali. Quindi, immaginatevi questo individuo, questo bambino, questi bambini, che erano così vestiti: in testa il fez, la camicia nera, i pantaloni corti e così via e questi erano i Balilla normali fino diciamo ad arrivare ai 12-13 anni. A quel momento diventavano “Balilla moschettieri”: venivano ancora più 1 Intervista realizzata da Federica Balli, Bologna, 8-9 gennaio 2011. 39 Catturare le storie militarizzati sul piano del vestire, avevano un fuciletto, finto naturalmente che si portava a tracolla, e le giberne. Io francamente mi vergognavo un po’ di girare così. Ricordo un giorno, c’erano a quell’epoca i tram, i tram elettrici, il conduttore mi chiese “dove vai poi con quel fucile lì?” prendendomi chiaramente in giro, io mi vergognai, ma cosa potevo rispondere? vestito così dovevo partecipare alle adunate: il sabato pomeriggio invece di lasciarmi in pace di giocare, come mi sarebbe piaciuto, a pallone o a fare le corse come un bambino qualunque, dovevo partecipare a queste marcette che facevo su e giù per le strade delle città; e con questo, non so quale fosse il tipo di contributo che portavo alla mia cultura militare, marciando in fila ordinati e cantando delle canzoncine sceme. Comunque quello era il bambino, bambinetto poco più di un ragazzino che sfilava per le vie della città; anche perché trovavo sempre dei giovanotti più stupidi di me che erano i comandanti fino ad arrivare agli alti gradi. E questa è la dimostrazione di come, forse, un regime politico, può portare alla degenerazione anche dell’infanzia. Dopo la guerra, ho ricominciato a studiare perché, durante la guerra, ovviamente, tutto era saltato, ho ricominciato a studiare, mi sono diplomato, ho dato un esame di maturità, (c’era anche a quell’epoca) e mi sono iscritto all’università. Approfittando del fatto che avevo a Milano uno zio, fratello di mio padre, mi sono iscritto a una facoltà che mi era sempre piaciuta, architettura. Quando comincio a frequentare il Politecnico di Milano era l’anno 1949. Milano per me rappresentava un traguardo, una conquista. Prima di tutto ero l’unico bolognese che frequentasse la facoltà a quell’epoca; per doverosa informazione eravamo in 129 iscritti al primo anno di architettura, 129 e ce ne erano ben 7-8 che venivano dall’estero, erano figli di italiani magari immigrati in Argentina o Cile o altrove che avevano deciso di frequentavano l’Università in Italia. La facoltà era ancora legata a una concezione molto militaresca: ogni mattina veniva fatto l’appello e a mezzogiorno e mezza per vedere se qualcuno era andato via (il cosiddetto lavativo) facevano il contrappello. Cose che a me facevano ridere, dicevo: “Ma come l’università è una scelta, io vengo qui apposta per studiare, per imparare e viceversa sono ci fanno appelli e contrappelli?”. Che fosse una facoltà, dicevo, militaresca è dimostrato anche dal fatto che, accanto ai voti riportati durante le prove grafiche, che duravano ben 8 ore, ci fosse una colonna su cui veniva descritto il “comportamento tenuto durante le prove”. Io ero a cattivo, ero sempre fra i cattivi perché mi sembrava incredibile che mentre uno disegnava non potesse, che ne so io, cantare per esempio, o raccontarsi delle storie. Eppure l’università era quella. Io vivevo alla casa dello studente, allora per una volta o due, durante queste prove, ci arrangiammo con dei panini, poi la cosa non ci piaceva; quindi decidemmo di farci da mangiare in aula, con tanto di fornello a spirito e 40 Catturare le storie cuocere le uova con la pancetta in classe, vi lascio immaginare l’esito: un fumo, una cosa incredibile. I bidelli così si rifiutarono di consentire che la cosa continuasse. L’università era davvero rigida e ancorata a una gerarchia molta precisa. Me ne accorsi quando pensai di organizzare un sopralluogo in un cantiere: pensa un po’ eravamo degli architetti che non avevano mai visto in vita loro un mattone, non sapevamo nemmeno come fosse fatto, conoscevamo tutte le misure del mattone, avevamo tutta una serie di conoscenze tecniche molto precise, ma non avevamo mai visto lavorare, non conoscevamo un cantiere. Allora pensai, organizzai una visita al cantiere, una visita a un cantiere con quello che allora era il nostro assistente, uno dei nostri assistenti, quello più simpatico e disposto a seguirci in questa uscita. Andammo in un cantiere e al ritorno, sulla porta dell’aula dove noi lavoravamo c’era un documento in cui si minacciava di espulsione tutti coloro i quali avessero organizzato visite a un cantiere al di fuori dell’ordinamento delle autorità accademiche. Senza saperlo ero un sovversivo, un criminale, da minacciare d’espulsione. Questa cosa ebbe un seguito, dopo aver frequentato con profitto, devo dire, fino al terzo anno, non mi sentii di continuare a frequentare il Politecnico, non andava bene per me: mi sembrava che la mia libertà fosse menomata da questo tipo di Università, insisto a dire, militaresca. E guarda che il corpo docente era per molti aspetti anche di pregio rilevante, però sotto altri profili, i professori appartenevano a una concezione di scuola che non condividevo. Ricordo sempre quando andai a prendere la firma di frequenza ad un corso, il professore dice: “Balli, lei ha fatto soltanto 9 prove, erano prove scritte, per essere ammessi alla firma, bisognava che lei ne facesse almeno 16 oppure per essere ammessi alla sessione successiva per lo meno 10”; io invece ne avevo fatte 8, guardai il professore in faccia e gli dissi queste parole: “professore lei ha visto le mie 8 prove? sa che valgono molto di più di quelli che ne hanno fatte 16?” a quel punto il professore mi firmò il libretto. Così andai ad iscrivermi, con altri tre amici, all’università di Venezia. Quando arrivai all’università di Venezia, avemmo l’impressione di essere noi i professori. Cioè Venezia da un punto di vista urbanistico era al polo opposto rispetto al Politecnico di Milano. Nel frattempo, il nostro assistente, quello che mi aveva accompagnato alla visita al cantiere, divenne professore a Venezia. Ricordo benissimo il primo esame che diedi, era un esame di urbanistica; esame di urbanistica che per solito si svolge attraverso delle tesine, degli studi, delle statistiche, delle comparazioni; io ed i miei amici, invece, decidemmo viceversa che l’esame l’avremmo dato con un film, un film? dunque, primo non avevamo un soldo, quindi fare un film già era un’impresa; era un’impresa perché disponevamo di una macchina da presa che era servita, pensa un po’, per la spedizione del K2 ed era arrivata sino a essere usata per fare questo film. Si trattava di un film musicato, dato che 41 Catturare le storie uno dei nostri amici era molto amante della musica; per la parte parlata ci servimmo di mio cugino che frequentava a quell’epoca il piccolo teatro di Milano, quindi una voce perfetta. Quindi il giorno dell’esame dicemmo che noi ci saremmo presentati così, naturalmente la cosa ebbe un effetto sconvolgente, nel senso che nessuno mai si era presentato all’esame di urbanistica con un film. Viceversa la cosa ebbe un grandissimo successo, venne proiettato in aula magna con gli applausi e le ghignate dei nostri colleghi perché era un prodotto nuovo e tra l’altro ben riuscito. E tanto per dare un’idea di come i tempi siano molto, ma molto cambiati, parlo del 1950 e rotti, l’ultimo esame si svolge in un pomeriggio caldissimo di Venezia, con il professore che era sbronzo, sbronzo, ma proprio duro. Il professore aveva con sé l’assistente, il quale poveretto guardava fuori dalla finestra perché l’unica parte che poteva guardare era quella. Io mi presento all’esame, e prima di me altri otto erano stati cacciati via, immaginatevi lo spirito con cui mi presento. Io avevo già preparato la tesi. Comunque alla prima domanda rispondo in un qualche modo, ma la seconda domanda era incomprensibile, io dico “professore era incomprensibile la domanda”, potete immaginare cosa sia successo, si può immaginare la scena; quando io dico “no, professore, io non vado via (perché mi era già stato detto due volte “vada via”) io non vado via” e aggiungo: “professore io ho diritto ad un’altra domanda”; la parola diritto l’ha svegliato, è diventato rosso paonazzo, è andato alla lavagna, ha fatto tre scarabocchi, io gli altri quattro, con un “18 e vada con Dio”, sono uscito dall’aula, ho preso il mio libretto, l’ho fatto volare per l’anticamera e sono andato a laurearmi. È evidente e molto chiaro altrettanto che la laurea era già pronta e se ben ricordo, anzi è meglio consultare il calendario che è appeso in cucina dove ci sono tutte le dati importanti, mi sono laureato “il 19 novembre di 55 anni fa”. È altrettanto evidente, che oltre alla laurea c’era pronto anche la svolta fondamentale della mia vita, della nostra vita, cioè il matrimonio. 42 Catturare le storie Domenica Vaccarini1 “Quelle povere donne erano schiave” Noi eravamo di famiglia molto uniti ma c’era una gran miseria. All’età di 9 anni, cioè sarebbe stato il tempo della guerra, m’hanno mandato a servizio, sono andata a servizio a Riccione, anzi, da una famiglia molto per bene, ero andata a badare una bambina, che poi ero bambina anch’io: prima mi preparavano a me, mi lavavano, mi facevano le treccine, poi andavamo a spasso con la carrozzina con questa bambina. A me piaceva di andare a servizio dalle persone ricche che mi tenevano molto bene e mi volevano molto bene Stavo bene, mi volevano bene mi trattavano bene, ma io soffrivo proprio per soffrire perchè mi mancavano i miei fratelli e io avrei voluto andarli a trovare sti fratelli, ma purtroppo quando mi ha portato giù mio babbo a lavorare laggiù mi ha portato giù con un cavallo, con un cavallo proprio, mi ha fermato lì dicendomi io adesso Domenica ti lascio qui, io devo andare a fare dei giri ma presto prima che faccia notte, ti vengo a prendere. Invece si è fatto notte e non è venuto a prendermi: io sognavo, sognavo, da dire ormai arriva ormai arriva ormai arriva, si è fatto notte, sono andata a dormire e io ho pianto tutta la notte, sempre con la speranza che arrivasse il mio babbo, poverino. Allora eravamo di Montefiore, io ero a servizio a Riccione quando la mattina che era di venerdì che c’era il mercato a Riccione venivano giù quelli di Montefiore che andavano al mercato a Riccione coi cavalli, che io sentivo camminare il cavallo sotto la finestra, io andavo alla finastra per vedere se era il mio babbo che arrivava col cavallo, se mi veniva a prendere e invece lui non si è mai visto. Io ho lasciato passare un po’ di tempo fintanto che io ho preso e sono scappata via e sono andata a casa. Una bella mattina arrivano sti signori dove io ero a lavorare e arrivano in casa e io ero una bambinetta, mi sono nascosta sotto il letto per non farmi vedere e per non farmi portare via. Loro poverini sono venuti su, porta il regalo a una, porta il regalo all’altro, per riportarmi via e io ci sono andata dopo, dai e dai, dai e dai, ma a malincuore. Piangevo, mi trovavo male. Sono stata poco lì, un annetto, poi sono andata sempre a Riccione dai signori che si chiamavano Fantini. Erano ricchi, ma proprio i veri ricchi. Ero lì e loro mi imparavano di tutto, io avevo imparato tante di quelle cose, mi piaceva imparare a me e allora io ci tenevo mi facevano fare la cameriera e questi signori ricchi, mi facevano mettere il grembiulino bianco, mi facevano mettere la ghirlandina in testa, insegnare a servire a tavola, come si faceva a mangiare, come si faceva a bere, come si faceva a apparecchiare. Allora un giorno quella signora mi fa: “dai, adesso mangi a tavola con noi” ma io non ci sapevo fare 1 Intervista realizzata da Alessia Santella, Montefiore Conca, 27 gennaio 2007. 43 Catturare le storie a stare a tavola con loro, perché a casa mia molte cose non le avevo conosciute. Due bicchieri, che cosa si fa con 2 bicchieri? Mi diceva: “va a prendere il prezzemolo”, ma io il prezzemolo non sapevo che cos’era. Io dico che cosa sarà sto prezzemolo!. Incontro una mia amica e ci dico alla mia amica: “Maria vieni con me”, “Cosa devi fare?”, “devo andare a prendere il prezzemolo, dai vieni con me che mi fai compagnia” e io mi tenevo in mente prezzemolo, prezzemolo, così che non mi dimenticassi sta parola che mi sembrava una parolona. Vado là e la Maria mi fa: “dai entra, è lì il prezzemolo, vallo a prendere” e io dicevo: “io vado oltre, vieni anche te con me”, io non volevo mai fare una figuraccia brutta, “vieni con me che io non mi arrischio di chiederlo”; allora entra con me e dice: “prendilo su, prendilo su”, ma cosa prendo su? io non sapevo che cos’era il prezzemolo; allora va lì e me lo prende lei. Dopo ho ricambiato. Ho ricambiato, ma per cambiare non era facile. Vado in una pensione: ah, Madonna, lì è successo la fine del mondo, cominciavo ad avere 14-15 anni. Vado lì, ma a me m’hanno imparato tante cose, io so fare tante cose, so fare quello, so fare da mangiare, so servire i tavoli, so stare in mezzo alla gente, mi hanno insegnato un po’ di tutto, diciamo, però è stata tutto un traffico la mia vita, tutto un traffico, tutto un traffico. Poi, sono andata a servizio con una signora, cominciavo a essere una ragazzina. Era una sarta. Questa sarta mi ha imparato a cucire, mi ha imparato di fare tutto, ma io carina, ero sempre una bambina, come posso dire, avevo tutto da imparare. Allora vado lì da questa sarta che mi ha imparato a far la sarta, dopo io avevo fatto il ragazzino, sapevo poco scrivere, e mi scriveva lei a questo morosino, mi insegnava lei come si doveva fare quando lui mi scriveva e dopo lui copiava nei libri per scrivermi. Dopo anche lì sono stata un bel po’, sono diventata grande, sono andata in albergo. Questa signora, che sono andata a lavorare in questo albergo, questo dottore come si chiama, adesso non mi ricordo, che è in via Pogna, comunque sono andata a lavorare da questi due signori che erano loro due cugini, mi avevano preso come per figlia, mi avevano domiciliato con loro, mi volevano bene, mi avevano fatto proprio come un testamento che se io rimanevo con loro, loro mi davano tutto quello che avevano, ma loro erano ricconi, ricchi, veramente ricchi e tutto mi lasciavano a me. Dopo invece io mi sono sposata ma come sono entrata lì come contadina a lavorare con loro mi sono ammalata perché non ero capace a fare quei lavori, tira avanti, tira avanti. Quando lei mi ha fatto sto testamento che io dovevo sposarmi e rimanere lì, io non sono rimasta lì però mi hanno detto che se io venivo via non prendevo niente; Hanno messo un’altra donna lì, un’altra signora. Lì ho avuto una bella fregata perché sono andata ad abitare lassù con sti contadini, con mio marito con tutto, ma io come sono stata lassù mi sono ammalata subito. Io non ce la facevo ad andare in campagna perché proprio non avevo la resistenza, non l’avevo mai fatto e stavo male. Mia suocera poverina era da 44 Catturare le storie sola, loro mi volevano bene ma io ero la schiava di tutti io non ce la facevo a fare una vita così anche se mi volevano bene, così ho preso e sono andata a cercare una casa per conto mio e sono andata a abitare per conto mio. A mio marito ho detto: “sta a sentire Lino, se te vuoi venire con me vieni, io però non voglio guastare niente, la tua mamma è la tua mamma, ci devi voler bene alla tua mamma ma io qui non ce la faccio a stare, non resisto a stare qui”. Ho preso una bella mattina, la sera gliel’ho detto, la mattina sono andata via, ma io ero malata, ero diventata proprio una morta, niente, ero diventata niente, niente, ma io sono stata operata, tante cose, non capivano cosa avevo, era tutta sta depressione che avevo preso per stare in famiglia e per andare in campagna. E allora vado giù, trovo la casa però io ho detto, dico adesso mi salva la parola, che la venga a vedere anche mio marito. La mattina gliel’ho detto: “se vuoi venire con me vieni, se non vuoi venire con me io non voglio guastare niente, faremo come si può fare meglio e in qualche modo tiriamo avanti”. E invece lui ha accettato, siamo andati a abitare a Rimini, dopo è nata anche la Mariangela e via e via e così abbiamo tirato avanti, ma sacrifici su sacrifici, dopo è venuto il bello, lavoro giorno e notte, sacrifici, miseria, un po’ di tutto, dopo 4 figli e io sono sempre andata a lavorare lo stesso, sono sempre andata d’accordo molto con mio marito, mi ha sempre voluto molto bene, ho sempre fatto quello che mi pareva, ma lui me l’ha sempre lasciato fare, io non posso dire niente, perché in fin dei conti non mi ha mai trattato male nessuno, diciamo, m’ha voluto sempre bene perché anche lui ha dato retta a me, ha visto che io non ce la facevo, dopo è venuto dietro anche lui. Poi dopo siamo stati un bel po’ a Rimini, io a lavorare lo stesso, lui a lavorare lo stesso, tutti abbiamo lavorato, un figlio dietro l’altro, sacrifici che ne abbiamo fatti un casino, non dico di aver sofferto la fame, ma abbiamo tirato per tirare. Dopo capirai la situazione si complicava sempre di più dopo, dove andavamo dovevamo pagare l’affitto e l’affitto era caro e abbiamo tentato di fare sta casa, diciamo con sacrifici a lavorare giorno e notte e via via. I figli sono sempre stati tutti bravi, hanno lavorato tutti. Siamo stati sempre uniti e d’accordo e abbiamo tirato avanti fino a che si è potuto. Abbiamo fatto la casa, abbiamo avuto il coraggio di farne un’altra di sotto dove c’è Santino, e abbiamo tirato avanti, ma credete che è stata durissima, è stata durissima perché c’è solo stata la tranquillità e la pace che siamo sempre andati d’accordo. Dopo abbiamo avuto il coraggio di fare ancora quella casa lì di sotto e di lì si è ricominciato coi debiti, si è ricominciato con tutto e si è sempre partiti così. Tornando indietro, a quando ero nella famiglia con mia suocera, anche i bambini quando nascevano, non eravamo noi che decidevamo di mettere il nome ai bambini, tutto le suocere facevano, tutto. Io non ho mai deciso. Perché Santino si chiamava Santino? Perché è nato il giorno dei santi, perché la Luigina si chiama Luigina? Perché il nonno era già morto e ci ha messo il nome del nonno. Ma non è che loro ti dicevano, te dici, io voglio metterci sto nome, è loro che dicevano 45 Catturare le storie cosa ci mettevano ai figli. La donna, la nuora che entrava in casa, era dopo del cane, te sei l’ultima a comandare perché sei l’ultima arrivata; perché il cane c’era già. Te non comandavi niente, sai cosa vuol dire niente? Se te andavi nel campo, col marito, così, a mandare avanti i lavori, facevi fatica a tornare indietro perché pensavano che andavi a osservare la nonna se trattava bene la tua figlia, diciamo. Eravamo schiavi quella volta, che poi si prendeva le botte anche dalla mattina alla sera dagli uomini, io no, perché io non le avrei prese proprio, io scappavo, non è che io ero una, sono sempre stata così. Quante volte quelle povere donne. Loro, gli uomini di una volta, si facevano servire. Quelle povere donne erano schiave: non potevi parlare, non contavi niente, non avevi una lira, te non comandavi niente, non avevi niente, non avevi una lira in tasca. Io una volta, io ad esempio, quando ero incinta della Luigina, mi era venuta voglia della mortadella, la mortadella cos’è, niente, la minima cosa che costa; io non ce l’ho fatta a mandarmi via questa voglia di mortadella perché la mia suocera non aveva i soldi da comperarla; me l’ha portata una fetta la mia mamma tanto per dirti, e di lì non potevi dire. Le donne una volta, non si spiega, erano trattate male, proprio schiave, hai capito? era tutto un disastro, un macello una volta, adesso le donne fanno bene, farei anch’io così. E’ tutto un insieme. Io l’avrei fatto anche quella volta, e l’ho fatto; sono scappata io, sono andata via, come no!. Tante cose, tante cose che ci sono. Ad esempio succedevano delle cose, te non ti potevi permettere di fare niente. Io ho avuto un’infanzia brutta, perchè sono sempre stata sotto gli altri, ma l’ho anche avuta brutta perché mi sono sposata, che ho sposato un contadino che io non ero abituata. Io sono nata che i miei erano operai, un contadino stava già molto meglio di un operaio, io la fame non l‘ho mai sofferta perché il mio babbo era un uomo che si dava da fare, però a mano a mano che noi venivamo su, andavamo a servizio. Dopo io ero abituata a stare sempre in mezzo a sti signori, veramente signori, che dopo io ero diventata proprio che ci tenevo a andare a lavorare per imparare tante cose. Io quando tornavo, ero una regina di lassù, diciamo, anche se ero una donna di servizio, vedevo quelle povere donne che zappavano dalla mattina alla sera, io invece tutta fresca. Come ti dicevo sono stata poco con mia suocera, sono stata 3-4 anni, a mo morivo se no, io proprio ero diventata proprio niente, niente, io ho detto sta vita proprio non ce la faccio a farla perchè non è come il contadino di adesso che ha tutti gli attrezzi; quella volta, lì, zappare, vangare, mietere, era tutto a mano, adesso, adesso cos’è?. Il contadino adesso è meglio che un impiegato, perché monti lì sopra e fai tutto con i trattori, con tutto, ma quella volta, quella volta ci voleva la salute, ci si alzava alle 4 e si andava a letto alle 11. Perché era tutto... anche il fieno ... adesso voi ste cose non le conoscete, si tagliava tutto con la falce, tutti per fare il pagliaio, il grano tutto a mano, tutto a mano si faceva; quella volta c’erano le mucche che avevi nella stalla, che aravi con l’aratro diciamo. Tempo ancora più indietro, non c’era l’aratro 46 Catturare le storie di ferro come adesso, c’era l’aratro di legno. Quei poveri contadini nei greppi, che lassù erano tutti greppi, tutti, tutte salite e discese, tutti dalla mattina alla sera, dalla mattina alla sera a zappare lì, magari seminavano un quintale di grano e ne raccoglievano un quintale perché in mezzo a quella terraccia così, la roba non fa, però dalla mattina alla sera disperati così e quel pezzo di pane e basta si mangiava. Perché se c’era un po’ di vino, toccava venderlo se volevi vivere, se c’era una gallina che faceva l’uovo ti toccava venderlo per comperare il sale, per comperare lo zucchero, per comperare quello che serviva. Non è che te avevi uno stipendio, che ti arrivava lo stipendio; lì non c’era niente, lì si mangiava sulla terra; quello che c’era: c’eran le bietole, si mangiavano le bietole, c’eran i pomodori, si faceva da mangiare coi pomodori. La nonna, mi viene sempre in mente poverina, arrivava dalla campagna alle 11-11.30; poi, passava nel campo, se c’era la fava, se c’era le bietole, se c’era quello che c’era, raccoglieva su quello che c’era, poi metteva su un tegame o quello che c’era per mettere su l’acqua per cuocere da mangiare, prendeva un po’ di conserva … . Il pane si faceva una volta alla settimana, quel pane; mica andavi tutti i giorni a prendere il pane al forno! E mangiavi il pane senza niente. Quella volta era una gara dura. Poi noi andavamo a casa che da mangiare che la nonna aveva fatto era sempre quello, sempre quello, due bietole, due fave, un pollo se c’era dovevi venderlo per comperare altre cose, se la domenica riuscivi ad ammazzare un pollo ma proprio proprio proprio… . Emilia Romagna, 1950 47 Catturare le storie Francesco Pirini1 “La strage è stata una cosa improvvisa” La mia famiglia vive in questa casa dal 1 maggio 1795, veniva da una località che si chiama Rioveggio, facevano i contadini, vendettero là e comprarono qui. Quando avvengono i fatti che vanno sotto il nome “strage di Marzabotto” la mia famiglia abitava qui. Erano due fratelli che pur essendosi sposati erano rimasti in un unico nucleo familiare. Mio padre si chiamava Orlando, suo fratello si chiamava Filippo. Mio padre aveva 3 figli, io ero il più grande, mio zio aveva sei figli. Anche con la guerra e le restrizioni che c'erano, il fascismo, non abbiamo mai avuto grossi problemi dato che lavoravamo la terra di nostra proprietà. Ma quando l'Italia fascista e la Germania nazista stavano “prendendole sonoramente”, finalmente gli alleati sbarcarono in Sicilia e incominciarono a salire lo stivale. La nostra chiesa parrocchiale si chiamava S.Maria Assunta di Casaglia, io fui battezzato lì, feci anche la cresima e la comunione lì, la domenica si andava a messa perché allora guai a mancare, e si andava sempre lassù. Il 18 Maggio 1944 mio padre rimase a casa, perché quando la famiglia andava in chiesa, a casa rimaneva una persona adulta ad accudire il bestiame, che quando ci sentiva tornare andava a messa a Vado. Quel giorno mio padre partì con la bicicletta e andò a Vado, quel mattino gli Americani (Alleati) vollero distruggere il ponte di Vado. Questi sbagliarono bersaglio (come capitava spesso) e in quell'occasione morì mio padre, con altre 17-18 persone (quasi mezzo paese). In seguito all'8 settembre ci fu l'occupazione militare tedesca. Allora si lavorava a braccia e ogni uomo che partiva erano due braccia in meno che lavoravano, perché erano dei contadini, quindi incominciarono a nascondersi e nacque il gruppo partigiano che va sotto il nome di “Brigata Stella Rossa”, che poi è stata sfruttata politicamente, dicono: Stella Rossa tutti comunisti, non era affatto vero, assolutamente; c'erano persone di tutti i tipi, 40 o 42 carabinieri che non avevano aderito alla Repubblica Sociale, e che successivamente divennero partigiani in questo gruppo, c'erano soldati inglesi sfuggiti dai campi di concentramento, c'era anche un indiano che si chiamava Ashad, e che aveva il turbante tutto sporco ma lui lo portava lo stesso. Quando pensavo ai tedeschi avvertivo un senso di pericolo. Fu per questo che il giorno dopo che morì mio padre, ci trasferimmo in una località che si chiamava Cerpiano. Una sorella di mio padre, Margherita, la quale aveva una casa ereditata perché era stata domestica di un sacerdote, nativo di Cerpiano (figura importante poiché portò lassù la scuola elementare e l'asilo), che la ricompensò per il servizio, regalandole questa casa con un po' di terreno, dove noi ci trasferimmo. Noi ci trasferimmo lì dopo che sembrava 1 Intervista realizzata da Gianluca Rafanelli, Marzabotto, 13 novembre 2010. 48 Catturare le storie impossibile vivere dove abitavamo, per colpa dei ponti stradali e ferroviari distrutti, ma anche perché i tedeschi venivano con i cacciabombardieri, ad ispezionare e a mitragliare, per cui risultava difficile addirittura stare fuori di casa senza fare niente. Allora la gente, compresi noi, ci trasferimmo più in alto. L'alto numero di morti è causato dal fatto che da Gardelletta, le persone si trasferirono sul monte pensando che non vi fossero obbiettivi militari e che sarebbero arrivati gli Americani. Noi eravamo a mangiare a casa in cucina, quando mia madre sentì le mucche muggire, corse fuori e vide un soldato tedesco che si stava portando via una delle nostre tre mucche. Mia madre vedendo questa azione disse: “Adesso rimediamo, porterò le mucche su a Cerpiano e tu andrai ad accudirle”, questo fu il motivo che determinò il nostro trasferimento a Cerpiano. Quindi andai a Cerpiano, mia madre e le mie due sorelle mi raggiunsero poco dopo. In quella zona vi era un gruppo partigiano, che aveva subito un rastrellamento più a Nord presso il monte Santa Barbara. In quell'occasione i tedeschi si comportarono anche bene, entrando in un asilo di bambini chiesero alla maestra di scrivere sopra la porta di entrata “asilo infantile” anche in tedesco. Inseguiti, i partigiani se ne andarono e tornarono all'inizio di Agosto del '44. I partigiani, questi giravano, perché il più grande errore che può fare un gruppo partigiano è quello di restare fermo in un posto. Non restare attaccati ad un particolare posto era importante per i partigiani al fine di non essere scoperti. Questi partigiani avevano qualche anno più di me, si nascondevano nelle stalle e facevano la guardia. Tra loro c'era un ragazzo di nome Magnani, egli aveva un binocolo e io mi divertivo a guardare quando era il suo turno di guardia. Le cose sembravano andare bene fino al 28 Settembre, giorno prima della strage. Lo stesso giorno arrivò un Professore delle AldiniValeriani, scuola superiore di Bologna, chiamato Fabris, venuto a Cerpiano con la moglie e i due figli. Sempre quel giorno sentimmo sul versante est i colpi di cannone degli Americani che colpivano la montagna, sfondando la linea gotica. Tutti pensammo “Fra qualche giorno sono qui”, invece le cose andarono molto diversamente. Il mattino del 29 Settembre, andai a raccogliere l'erba per i conigli prima che piovesse, ma fu proprio quando mi trovai nella discesa per raccogliere il cibo per i conigli che vidi quattro case in fiamme, capii subito che si trattava di un rastrellamento, poiché nella stessa zona ce ne furono anche durante l'estate ma senza alcun morto tra i civili, solo case bruciate. Tornai indietro e vidi mia madre davanti la porta di casa che mi disse di prendere qualcosa da vestire per coprirmi se avesse piovuto. Io ero abituato a nascondermi tutte le volte che vi erano soldati Tedeschi o della Repubblica di Salò, perchè era già capitato che mi utilizzassero per fare dei lavori pesanti. Quando stavo andando a nascondermi, contrariamente a quello che molti dicono, anche i partigiani che si trovavano a Cerpiano stavano andandosene. A quel punto decisi di andare con loro, più in alto di Cerpiano vi era un altro paesino chiamato 49 Catturare le storie Rizzola, mentre lo stavamo raggiungendo un partigiano nascose nell'erba la sua pistola a tamburo tanto era niente in confronto alle armi dei tedeschi. Il comandante di questo gruppo si chiamava Tito Commellini, ed era parente di mia madre. Fu sorpreso a vedermi, e successivamente decise di recarsi a Monte Sole. Lungo il sentiero, tutt'ora presente, per arrivare a Monte Sole, dove sono presenti varie rocce, i Tedeschi ci scorsero in lontananza e incominciarono a sparare, i tonfi dei proiettili erano udibili per il suono delle pietre che si sgretolavano. Io, preso dalla paura, decisi di non andare e decisi di tornare a Cerpiano per vedere cosa stava succedendo. Nascondendomi in un fosso dove riuscivo a controllare quello che accadeva vidi un gruppo di soldati tedeschi delle SS procedere in fila indiana, questi erano 14. Prelevarono tutte le persone dalle case le portarono in chiesa chiudendo la porta (la piccola chiesa di Cerpiano era dedicata agli angeli custodi, e tutt'oggi è ancora presente il rudere). Una volta che le persone erano tutte dentro lanciarono una bomba a mano, che non appena fu lanciata dentro spaccò i vetri delle finestre provocando un gran frastuono. Solo tre le persone si salvarono; tra questi civili vi era anche una suora Orsolina, maestra di un asilo qui vicino. Prima, nessuno aveva immaginato che le cose potessero andare in quel senso. Noi tutti eravamo tranquilli, era stata una cosa molto dura trasferirsi lassù a Cerpiano,tutto l'occorrente, i vestiti, letti, il necessario per mangiare fu portato con fatica, attraverso gli sforzi delle persone e del carro a trazione animale, e ci volle molto tempo. Tornando all’eccidio e alla strage, i partigiani alla fine della settimana si erano ritirati sul Monte Sole, quindi non vi era un vero e proprio conflitto in atto. C'è stato un solo punto di resistenza, nella località chiamata Cadotto. Lì un gruppo di partigiani guidati da “il Lupo”, Mario Musolesi, che abitava qui vicino, avevano conquistato il monte Cataretto e si fermarono lì a 4-5 km dai luoghi della strage inconsapevoli di quello che sarebbe accaduto. L'errore dei partigiani fu proprio quello di fermarsi in quel posto, in quanto il versante est ed ovest di Monte Sole era pieno di Tedeschi, così anche le zone limitrofe come Monzuno. Una fatto che mi rimase molto impresso, fu che quando i tedeschi furono costretti a ritirarsi, si portarono via con loro il bestiame e tutto ciò che potevano. Una volta i partigiani sottrassero ai Tedeschi un gruppo di bestie, con corni enormi, provenienti dalla maremma, per darle ai contadini per arare i campi. I Tedeschi sapevano bene che quelle bestie erano state date dai partigiani ai contadini, e sapevano dove si trovavano i partigiani casa per casa, sapevano anche dov'era il comando, anche se era stato detto che si trovava a Cadotto invece che a San Martino. I partigiani non potevano evitare la strage. Non potevano fare niente. I partigiani non avevano esperienze militari, non avevano un comando unificato, poiché si riunivano tutti all'interno delle stalle, e in posti lontani senza avere comunicazioni tra di loro, poiché vi era qualche km di distanza tra di loro. 50 Catturare le storie La strage è stata una cosa improvvisa, che non si aspettavano, i Tedeschi da Monte Sole, Caprara e Monte Castellino, avevano un punto di vista strategico, questi erano gli ultimi ostacoli naturali prima della pianura. Basta dire che, dopo la strage, le SS avevano il controllo dal fiume Reno al Savena. Grazie a questo, i Tedeschi riuscirono a fermare l'avanzata degli alleati (Americani e Sesta divisione della corazzata Africana) verso la pianura dall'inizio di Ottobre, fino alla metà dell'Aprile 1945. Fu grazie ai Sudafricani che sparando 35.000 bombe al napam su Monte Sole, Monte Caprara e Monte Castellino, riuscirono a fare ritirare i tedeschi, il 15 Aprile 1945, avanzando su di un territorio pieno di mine. In totale ho perso 13 persone della mia famiglia a Cerpiano, una nel cimitero di Casaglia, e mio padre sotto i bombardamenti di guerra. Sono quelle cose che segnano la vita. I miei parenti li chiusero dentro la chiesa di Cerpiano, e dopo aver gettato la bomba li lasciarono li, io continuai a guardare nascosto, ad un certo punto, una persona adulta uscì dalla chiesa, allora i tedeschi spararono una piccola raffica, uccidendolo e facendo cadere il cadavere sull'ultimo scalino della chiesa. Dopo ho saputo che quell'uomo era Orlandi Pietro, un contadino di Cerpiano. Qualche ora dopo anche una donna leggermente ferita o incolume uscì, avviandosi verso le case, venne colpita e uccisa da una guardia Tedesca. In,seguito venne sera e notte, i Tedeschi erano sempre lì, incominciarono a derubare le case, io ne approfittai per scappare. Il mattino del 30 Settembre, affamato, bagnato ed esausto, cercai di nascondermi nelle case vicine, ma non mi accolsero, per paura che i tedeschi mi scambiassero per partigiano e ammazzassero me e i proprietari. Otto giorni dopo assistetti ad uno scontro tra Tedeschi e altri soldati. Realizzai che gli altri erano Americani. Andai nella loro direzione, eravamo io e altri due ragazzi, e arrivammo alle prime linee americane. Era la 34° divisione di fanteria dell'esercito Americano. Dopo avermi parlato in Inglese andai con la loro Jeep nel paese di Monzuno, e lì dopo essere stato interrogato sui possibili parenti che non avevo in quella zona mi affidarono ad una famiglia di contadini con la quale rimasi sette mesi. A quel punto, io non avevo nessuno con me. Nel cimitero di Casaglia, la mia sorella Lidia, di 16 anni, e mio cugino Giorgio, di 15, quella mattina di Settembre decisero di andare nella chiesa parrocchiale, dove il parroco era morto nel 1942 (e io dico fortunatamente, perché così non vide il massacro che successe), con lo scopo di essere più sicuri, perché si pensava che potessero bruciare i fienili o le stalle, ma la chiesa mai. Lì quel mattino arriva il parroco di San Martino, Don Marchioni, a celebrare la messa, poiché la chiesa di Cerpiano era dedicata agli Angeli Custodi e il 29 Settembre era la festa di S.Michele Arcangelo, e lui fu invitato a celebrare la messa. 51 Catturare le storie Lui quando parte da San Martino avrà anche visto in lontananza le case che bruciavano, e quando arriva a Casaglia trova la chiesa piena di gente e si ferma con loro a recitare il rosario. Mia sorella, che si salvò, ha raccontato che i soldati appena arrivarono, chiusero tutte le porte, per impedire che qualcuno scappasse, ma da una porticina della sagrestia, tre persone riuscirono a scappare nel bosco e si salvarono. Due uomini e una donna (la sorella del parroco morto), invece, scapparono nel campanile, ma due soldati li inseguirono e uccisero la donna e uno dei due uomini, mentre l'altro era salito sulla campana e non fu visto. Quindi fu aperta la porta principale della chiesa e furono fatti uscire tutti, compreso il prete, ma nella chiesa rimase una donna,Vittoria Nanni, paralitica, i tedeschi pensavano che non volesse ubbidire e uno le spara e la uccide. Il prete fu costretto a ritornare in chiesa: Don Marchioni andò sull'altare a consumare le ostie consacrate, come è obbligo fare per i preti in situazioni di pericolo. In quel momento gli sparano e lo uccidono. Le persone della chiesa furono portate al cimitero di Cerpiano, fecero entrare tutti, mettendoli a ridosso del muro della Cappella, secondo l'altezza, quelli più altri di dietro e davanti i bambini. Tutti piangevano disperati. Intanto mio cugino Giorgio doveva urinare, e mia sorella gli disse di andare a ridosso del muro. Appena lui si mosse gli spararono e fu il primo ad essere ucciso. Poi i tedeschi si misero inginocchiati agli angoli del muro di cinta e col mitra iniziarono a sparare sulla gente, mia sorella ebbe un proiettile conficcato sull'anca destra e cadde a terra svenuta, gli altri le caddero addosso. In questo modo si salvò sotto un mucchio di cadaveri e rimase sotto la pioggia tutta la notte del 29 e poi solo nel pomeriggio del 30, quando i tedeschi se ne erano andati, un contadino che andò a cercare la propria famiglia e sentì i lamenti di mia sorella, tolse i cadaveri che le erano addosso e riuscì a tirarla fuori. Così lei, appoggiandosi su un bastone si allontanò. Gli altri miei familiari, sono tutti morti a Cerpiano. Quando gettarono la bomba nella chiesa, buona parte delle 43 persone che erano lì morirono sul colpo. Alcuni, invece, rimasero feriti, e i tedeschi li lasciarono lì tutto il 29 e 30 di settembre. Il 30 tornarono i tedeschi nella chiesetta per vedere chi era ancora vivo ed ucciderlo. Si salvò Antonietta Benni, che poi racconterà l'accaduto, lei rimase sotto ai cadaveri solamente ferita ad un braccio, Fernando Piretti di 9 anni coperto dal corpo della madre, e Paola Ruffi, una bambina di sette anni avvolta da una coperta. I tedeschi derubarono i cadaveri da anelli, orecchini, collane, portafogli, borsette.. tanto che un tedesco disse che misero insieme un piccolo tesoro. Mia sorella, intanto, arrivò a Cerpiano, dove non avevano bruciato nulla perché pensavano di mettere lì il comando. Tutti si rifugiarono nella casa più grande di Cerpiano. Il 10 Ottobre '44 quando arrivò Reder nel paese, s'installò in quella casa e mandò tutti in cantina, dove era rifugiato anche un mio zio. Reder e gli altri ufficiali incominciarono ad approfittarsene delle 52 Catturare le storie donne, così mio zio nascose in un tino mia sorella e una ragazza di nome Paolina. Tutte le donne furono portate di sopra e costrette a denudarsi, comprese le suore, furono tutte violentate e poi cacciate fuori di casa, nude nella campagna, siamo alla metà di Novembre del '44. Quando vidi gli americani, mi sentii molto sollevato. Quando andai con loro nella casa a Monzuno, ed ero lercio e pieno di pidocchi, la prima cosa che fecero fu di scaldare l'acqua in un pentolone di rame e mi dissero di spogliarmi, che avrei dovuto fare il bagno, mi diedero saponetta e una polvere tipo DDT per togliere i pidocchi dai capelli. Poi buttarono via i miei vestiti sporchi e mi dettero una linda divisa americana. Ho poi lavorato nei loro magazzini e nella cucina. Ho di loro un gran bel ricordo. E ricordo anche l'abbondanza di cibo che c'era. Dopo l’eccidio, molta parte del paese era distrutto, il 18-19 Aprile 1945 quando ci fu la ritirata dei tedeschi, e io tornai nella mia casa, la trovai quasi tutta distrutta. Lì c'erano stati anche i sudafricani a dormire. Poi seppi che mio zio e mia sorella erano vivi e andai a Bologna a piedi per incontrarli e insieme tornammo qui. C'era tanto odio, pensare che erano stati uccisi donne e bambini... poi l'odio passa col tempo ed io ero giovane e avevo tanta voglia di fare. Filo d’Argenta (FE), 1945 53 Catturare le storie Aurelio Guardigli1 “Acthung” Dunque, io figlio di operai sono andato a scuola. Eravamo pochi. Addirittura, al tempo della resistenza, avevano più o meno un nome di battaglia: “E student”. Lo studente, perché di quanti amici di qui, ero l’unico che andava a scuola. Ecco, questo è un particolare. Mio padre, mio nonno e mio zio erano antifascisti: io, bambino di sedici sì diciassette anni, non capivo niente eh! E delle volte, dicevo: “Ha ragione il regime o mio padre?” Io il 25 luglio del 1943 avevo diciassette anni e mezzo, noi giovani ci siamo illusi che fosse finita la dittatura, che stesse finendo la guerra, che fosse finito tutto. Invece era solo l’inizio dell’ultima parte, che è statala peggiore. Mi ricordo che noi giovani, un po’ tutti, andavano in giro, dove c’erano delle effigi di Mussolini per demolirle. Ricordo un particolare, nel quartiere di Cà Ossi (Forlì), in Via Don Minzoni, c’è quella aiuola con un pino in mezzo. Lì c’era un pilastro di cemento con sopra, in bronzo, la testa di Alessandro Mussolini, il padre di Benito. E ci furon dei ragazzi di Cà Ossi che la buttarono giù, poi la legarono, non era piena questa testa era vuota, e la portarono in giro per tutta la città, legata dietro alla bicicletta, per spregio. Quella è stata una reazione di noi giovani; i vecchi, invece, in un certo senso, ci contestavano: “è inutile che vi illudete, non è finito niente! Comincia adesso”. E poi dopo è nata la resistenza. Io ho lasciato la scuola a gennaio del ‘44, a metà anno. Noi eravamo 14 o 15 nella mia sezione, non molti. Circa la metà non andarono nella repubblichina, l’altra metà andò nella repubblichina fascista. Di quelli che non andarono nella repubblichina, molti riuscirono ad andare fuori, nelle montagne, a casa di qualcuno. Si nascosero e qualcuno, invece, aderì alla resistenza, di cui, ci sono stati due miei compagni morti, che non erano nella mia classe. Quindi, abbiamo pagato per quello che abbiamo fatto. Però io, personalmente, non sono pentito di quello che ho fatto. Io facevo parte delle squadre SAP, Squadre di Azione Patriottiche, che avevamo il compito di creare disturbo ai tedeschi. Io abitavo qui in pianura, però cercavamo di nasconderci. Io non andai in montagna per il semplice motivo che mio zio, essendo un comandante della brigata. Mi disse: “No tu non vieni in montagna, perché è troppa fatica in montagna!”. Io ero il bambino di casa, insomma, anche a diciotto anni. Però era rischioso qui come là. Là almeno combattevi fronte a fronte, qui invece facevi fatica a sopravvivere. Comunque ho tirato avanti, ho rischiato due o tre volte …. Ad esempio, dunque una sera dovevamo portar via dei chiodi, senza saperlo incontrammo a distanza di cento metri una pattuglia tedesca, “ACTHUNG” 1 Intervista realizzata da Martina Di Salvatore, Forlì, 18 dicembre 2010. 54 Catturare le storie non aveva ancora finito di dire “ATTENZIONE” che cominciarono a sparare. E noi, a gambe levate insomma, il mio compagno cominciò a sparare anche lui, ma non per colpire i tedeschi. Io mi sono trovato una volta con una pattuglia fascista, i quali erano tre ragazzi di 17 o 18 anni, e niente, si lasciarono disarmare e poi li mandammo via, non dico a sculacciate ma insomma … Il compito che avevamo noi, era quello di procurare armi alla brigata. Tutte quante le caserme dei carabinieri o della milizia, tutte le frazioni, da San Martino in Strada, che mi ricordo che si andava a piedi, a conquistare la stazione per avere le armi. A Meldola, una grossa caserma, ricordo che si procurarono più di 50 armi, che poi si radunavano in certi posti, per poi andare a rinforzare la brigata. I nascondigli erano tanti, il nostro, qui di Bussecchio (frazione di Forlì n.d.r.) era il nostro cimitero, il cimitero di Bussecchio era. Fu un’idea di uno dei nostri capi, “perché” uno dei giovani disse “perché fa paura, perché di notte dormono tutti” (in dialetto romagnolo n.d.r.) Ricordo che di notte faceva effetto entrarci. Della nostra squadra, non ricordo azioni pericolose che si fece, perché nella Via Emilia si mettevano quasi tutte le notti i chiodi. Lì, di fronte alla Via Cerchia, sulla Via Emilia, una sera, io ero poco lontano, misero due bombe e quando arrivò il primo camion saltò per aria. Però non ci fu nessun morto dei tedeschi. Il camion portava rifornimenti al fronte, dalle armi alle munizioni, viveri soprattutto. Quindi, era importante fermare questi carri. Quando questo camion saltò per aria, dopo ci fu una grossa opposizione. Rastrellarono tutte le persone anziane, oltre i 70 anni, anche mio nonno lo presero, gli consegnarono un fucile a testa, da caccia, senza cartucce e li fecero schierare lungo la Via Emilia, ogni cento metri, dicendo che dovevano badare i ribelli che andavano a mettere le bombe. Come se, poi, l’organizzazione partigiana non sapesse che questi vecchietti erano senza cartucce. A seguire, ci fu una grossa reazione e i compagni del Ronco fecero saltare la ferrovia. Misero una mina sotto un binario della ferrovia e per due giorni la ferrovia fu interrotta, la Forlì - Rimini. Lì, dopo il fiume del Ronco, misero una mina sotto e la ferrovia saltò per aria. Dopo alcuni giorni ancora fecero saltare anche un traliccio dell’alta tensione. Quello interrupe la fornitura dell’energia elettrica. Io a questi due fatti non ho partecipato ma li conoscevo bene. Poi, l’azione più importante fu fatta, fu la liberazione dei prigionieri nelle carceri. Andarono, con una organizzazione fatta molto bene, con due dei compagni che si erano vestiti da guardia carceraria, bussarono alla porta, e subito dietro il muro c’erano tutti gli altri. Allora, la guardia che c’era aprì la porta e andarono tutti dentro. Uno dei nostri rimase al posto di guardia, si mise il berretto di quello che era lì di guardia, armato naturalmente, e gli altri 55 Catturare le storie andarono su nelle celle. Bloccarono tutte le guardie, fu una cosa molto facile anche perché c’erano alcune guardie che erano state informate. Erano vicine a noi, insomma. Liberarono 36 prigionieri, nelle carceri c’erano 200 prigionieri ma liberarono solo i partigiani e i politici, 36 persone che uscirono e li fu un errore non organizzarli bene. Fu di pomeriggio alle 4 e queste persone si sbandarono in giro per la città, perché non erano di Forlì. Ce n’erano due di Piangipane di Ravenna … . Figurati te questo smacco per la polizia fascista, andare a assaltare le carceri … e quella lì fu una grossa vittoria. Tra i nostri c’era anche la Liliana, Liliana era poi il nome di battaglia, si chiamava Elma. Eravamo molto amici, era amica anche con mia moglie. Addirittura siamo andati in viaggio insieme con la Liliana a Cuba e in Cina. È morta, cinque anni fa la poverina è morta. Era una ragazza, al tempo della guerra, coraggiosa. Tutti quanti avevano armi nascoste, pistole. Lei aveva una sporta con sopra della verdura e sotto c’erano bombe a mano. Perché in mano tenevano posto, erano quelle tedesche con il manico. Lei ne aveva 7 o 8 in fondo alla sporta e sopra c’erano dei finocchi. Era una ragazza molto, molto sveglia e questo è l’evento più importante della nostra squadra, quella della liberazione dei prigionieri. Io ho un libro che spiega tutto quello che è successo quella volta lì. Ecco, un’altra volta che abbiamo avuto paura, è stato quando hanno circondato la zona qui, Via Decio Raggi, Via Cerchia, Campo di marte (le indica con movimenti della mano), insomma tutta quanta questa zona qui, e hanno arrestato alcune persone. Noi fummo informati prima e siamo riusciti a sgarzolare via. Di noi, della nostra squadra, che non abbiamo mai potuto capire, due cugini che si chiamavano tutti e due Rossi Gino, si erano nascosti, ma poi sono stati trovati esono stati deportati in Germania. Sono tornai tutti e due. Uno però era messo male, che dopo è morto poveretto, perché era rimasto 30 chili era rimasto così (fa un segno con l’indice). Invece, dell’altro cugino, di cui io ero molto amico, anzi, sono molto amico ancora, vedo spesso la sorella Silvana, che ha un anno in meno di me. Avevamo fatto i ragazzi insieme, dopo la guerra siamo andati a ballare insieme. La vedo sempre, nonostante i suoi 84 ancora è una signora molto molto … Eravamo una ventina qui a Bussecchio, Via Cerchia, Via Decio Raggi, qui nella zona. Qui sulla Via Campo di Marte, io abitavo in Via Biagio Bernardi, ma la prima casa che faceva angolo con la Campo di Marte. Eravamo un gruppo in cui c’era: Mario, Domenico, Sergio, Tassinari, Colauto … eravamo sette – otto qui, da questa parte qui, più quelli che erano di là. Tutti quanti, più o meno, della stessa età. La maggioranza eravamo del ’25 e del ’26. Quindi avevamo 18 e 19 anni. L’unico più vecchio era Mario. Lui è del ’22, perché è ancora al mondo. Dopo la guerra ci siamo organizzati, per fare il circolo a Bussecchio. Fu il primo circolo qui a Forlì ad essere riattivato. Lo chiamavano il Camerone. Prima era stato un teatrino, bello, costruito nel 1908. Era il circolo dei 56 Catturare le storie socialisti, circolo intestato a Edmondo De Amicis, dove il suo motto, io anzi ho ancora di sopra l’azione, il suo motto è “Il sole sorgerà ancora”. Era un bel circolo. Sennonché tutti i circoli socialisti, anche comunisti, pochi allora, furono bruciati dai fascisti. Quello lì però si salvò per un motivo semplicissimo, che un gerarca fascista, imprenditore edile, disse: “Lasciatemelo a me, che ne faccio un magazzino, non mi costa niente, ci faccio un magazzino, piuttosto”. Allora, ha tenuto questo locale per vent’anni, per tutto il regime. L’ha preso nel ’24, l’ha tenuto e l’ha utilizzato. Appena passata la guerra, il fronte era ancora a Faenza, siamo andati a dire: “Caro signore, tu hai sfruttato sto locale per vent’anni, ma questo è nostro”. Perché la cooperativa era registrata al catasto, allora. “Ma io adesso non ho soldi” perché noi abbiamo chiesto “Tu devi ripristinarlo” perché era tenuto male. Lui disse: “Io vi offro tutto il materiale che volete. Pietre, cemento, pavimenti, tutto”. Questo è stato nel ’45, subito. Il fronte qui da noi è passato a novembre del ’44, anzi, subito dopo ci siamo messi a lavorare in questo circolo. Era bellissimo, con la galleria sopra, il palco in fondo. E abbiamo cominciato subito nella primavera del ’45, era l’unico circolo dove si ballava. E poi, altro circolo che fu costituito fu il cosiddetto “Rifugio dello studente”. Era un capannone, che era in Via Volta: era un magazzino chiuso e allora si organizzarono, andavo anch’io a ballare lì. Ma non ci andavo volentieri perché c’erano tutti i “fighetti”, c’erano gli studenti del liceo, ricordo, che con noi non avevano niente a che fare, perché c’era anche la guerra fra i geometri, i periti e il liceo. Ma non andavamo d’accordo e quindi andavamo più volentieri al Camerone, dove in aprile del ’46 ho conosciuto mia moglie. Sì, mia moglie l’ho conosciuta lì. Era la seconda volta che usciva di casa, di straforo, di domenica pomeriggio. Ma per tutto il periodo del ’45 e prima, era una cosa meravigliosa. Ci siamo trovati tutti questi ragazzi, le ragazze. Degli uomini qualcuno era ancora via, di giovani, le femmine erano tutte a casa. Andavamo a ballare e c’erano dieci femmine e sei maschi. 57 Catturare le storie Giacomo Russo1 “Mio papà era disperato” A Palermo, mi ricordo che noi abitavamo, all’inizio quando sono nato io, in un palazzo di tre piani, e il palazzo aveva un terrazzo molto ampio dove ci si poteva giocare. Mi ricordo che ho vissuto in casa di mia nonna, allora non c’era la scuola materna, però mi ricordo che sono andato a una specie di prescolastica a cinque anni, dove ho iniziato già a scrivere. Quando sono andato a scuola nella prima elementare, è stato favoloso perché sapevo già scrivere e mi ricordo che sulla pagella c’erano tutti lodevole. Dopo, nella stessa scuola ho fatto la seconda, la terza e la quarta, ho fatto la quarta a Palermo, che è stato nel ’43. Intanto nel 1942, verso la fine del 1942, per colpa dei bombardamenti, la “Caproni”, la fabbrica dove mio papà faceva l’operaio è stata smantellata e trasferita da Palermo sulle montagne della Sicilia, nelle Madonie. Noi avevamo un mio zio che lavorava alle ferrovie, ed era qui a Bergamo, lavorava alla Fervet, come capo meccanico. La Fervet era un’azienda che lavorava per conto delle ferrovie dello stato, mio zio era dipendente delle ferrovie dello stato, diciamo che era il controllore dei lavori. Lui ha detto, a mio papà: “Guarda qui c’è la Caproni, c’é la Caproni qui a Ponte San Pietro, fatti trasferire, qui non c’è la guerra, qui si è tranquilli, non suona mai neanche l’allarme…”. Mio padre ottenne il trasferimento e verso la fine di giugno, i primi di luglio abbiamo deciso di lasciare la Sicilia. Allora con 'sto mio zio ci siamo messi d’accordo, mio papà ha iniziato tutte le pratiche per potersi trasferire; e volevano portar via qualcosa, quello che si poteva perché non è che si potesse molto portar via allora … mentre si preparavano i bagagli da spedire, infatti, hanno chiuso le spedizioni, per cui non si poteva più partire. Però mio papà ormai aveva deciso, aveva già l’autorizzazione per venir su, allora è stato li in attesa, ha chiesto di essere informato del momento in cui le spedizioni sarebbero riprese. La nostra partenza coincise con lo sbarco in Sicilia degli americani, quando le spedizioni sono state riaperte per 24 ore, mio papà è riuscito a spedire tutto. Così siamo partiti e siamo arrivati a Bergamo il 7 di luglio del ’43. Mi ricordo che abbiamo fatto un viaggio tremendo: in treno fino a Catania, dopo a Catania siamo andati a prendere mia nonna, abbiamo preso un treno che sarebbe dovuto andare a Messina, però si è fermato molto prima perché Messina era stata molto bombardata. Per traghettare, per portarci a Villa San Giovanni, abbiamo dovuto prendere un battello, me lo ricordo, sembrava un 1 Intervista realizzata da Marzia Agnello, Bergamo, 4 gennaio 2011. 58 Catturare le storie battello di pescatori che poi io mi sono anche sentito male; lì a Villa San Giovanni abbiamo preso il treno, oltretutto un tragitto abbastanza tormentato. Mi sembra che siamo partiti il 2 luglio, ma non ricordo bene, so però che siamo arrivati a Bergamo il 7 luglio. In Calabria il treno si è fermato tutta la notte in una galleria per i bombardamenti, dopo a Napoli, anche li fermi perché c’erano i bombardamenti. E’ stata una tragedia. C’abbiamo impiegato come minimo cinque sei giorni ad arrivare a Bergamo, ci siamo fermati a Napoli, poi a Roma per due giorni perché non c’era il treno. Arrivati a Bergamo mio papà è andato alla Caproni ed è stato subito assunto. Dopo siamo andati ad abitare a casa di una mia zia, ma l’appartamentino era piccolo. Mio papà andava avanti e indietro con la bicicletta, c’era il tram però non c’erano neanche i soldi per poterlo prendere. Allora dopo essere stati una ventina di giorni a casa di mio zio, mio papà ha cercato di avere un’abitazione magari qui a Ponte San Pietro, visto che lavorava qua. Qui a Ponte però non si trovava casa, allora noi essendo degli sfollati ci hanno sistemato qui a Ponte, in una palestra. Siamo andati lì verso la fine di luglio e ci siamo rimasti per una decina di mesi. L’inverno lo abbiamo passato lì. Intanto io frequentavo la quinta elementare. La quinta elementare l’ho fatta qui, dal settembre del ’43 al giugno del ’44. Poi a luglio, tramite la Caproni, siamo andati in colonia in montagna, siamo andati a Piazza Torre. Il mese di agosto, venti giorni, è li ho imparato il bergamasco. Allora, in quinta mi ricordo ancora la mia maestra che si chiamava Maccetti. Era una classe mista la quinta, ragazze e ragazzi. Era una classe in cui provenivano persone da altri paesi. Per cui io sono stato inserito visto che venivo da Palermo, sono stato inserito in quella classe lì. E c’avevamo due capi classe, c’era una donna e un uomo. Quando entrava il direttore, quando entrava la gente dovevo chiamare: “Attenti!” e fare il saluto romano. Nel 1944, Ponte San Pietro è stata bombardata quattro volte. Una è stata il 24 luglio, il bombardamento dove hanno colpito la zona dei giurati, che erano case dei lavoratori della Legler, al di la del fiume, al di là del fiume ci son le case che chiamavano i giurati, e hanno preso quella zona li e la zona di Sant’Anna, al di qua della ferrovia, diciamo dietro le scuole elementari. Lì c’era una chiesina, hanno bombardato anche la chiesina lì. Poi, successivamente, c’è stato un bombardamento molto pesante, quello del 20 ottobre, dove hanno colpito la parte della ferrovia, colpito la casa di riposo. L’hanno distrutta, ci sono stati anche i morti. Con quel bombardamento, volevano colpire il ponte, perché allora non c’era il ponte, la strada che collega Bergamo a Lecco non c’era allora. Si doveva passare … c’era solo la ferrovia. Volevano colpire il ponte per interrompere il passaggio dei treni verso Como, verso Lecco, verso la frontiera insomma. E hanno distrutto anche la zona dove abitavo io, che abitavo … sa dove c’è il comune? il comune c’ha le due ali e dopo c’è il palazzo del comune. In una di quelle li 59 Catturare le storie c’erano i carabinieri, quando loro si sono spostati, si è liberato un appartamento e l’hanno dato a noi. Ecco perché dopo mi sono spostato, ci siamo spostati. E li solo con lo spostamento d’aria si è aperta la finestra. Allora si usavano le coperte per coprire, per oscurare all’interno, specialmente la sera quando si accendeva la luce. E li si erano aperte, e tutte 'ste coperte sono volate via e sono state usate per raccogliere i feriti. E noi eravamo nel rifugio. Successivamente c’è stato un altro bombardamento che è quello del 4 di novembre, e quello ha colpito la cooperativa, dove c’è adesso la cooperativa, ha distrutto la palestra, ha distrutto casa mia. Non si è fatto male nessuno perché noi, era di giorno, perché era verso l’una. Eravamo sopra e abbiamo visto arrivare da ovest gli aerei, abbiamo visto le bombe scendere e di corsa siamo andati nel rifugio. Quando siamo usciti abbiamo trovato la casa distrutta. E li dopo, mio papà si chiedeva: “dove andiamo, dove andiamo?”. Mio papà era disperato, ma un giovanotto che lavorava con lui gli disse: “guarda io c’ho una …- abitava a Locate, quella frazione qui di Locate - abbiamo una stanza libera che c’è un mio zio che è stato deportato in Germania, se vuoi puoi venire lì”. Difatti siamo andati ad abitare in quella casa li a Locate, per cui gli ultimi mesi, diciamo da novembre, 4 novembre sera, fino a fine aprile, quando è finita la guerra, siamo stati lì. Poi a Ponte c’è stato un successivo bombardamento, quello è stato ai primi di gennaio del ’45, quando finalmente sono riusciti a colpire il ponte. Finalmente sono riusciti a colpire il ponte, però quello sulla strada, non quello sul fiume. Quello sulla strada. Infatti questo in ventiquattro ore era già stato recuperato. Dopo è servito per la ritirata delle truppe tedesche. Allora c’era il razionamento, c’erano le tessere. Va be’ adesso si può raccontare… mi ricordo che dopo un bombardamento, sono capitato nella via adiacente a dove abitavo io, una traversa, e ho visto piovevano giù delle carte, erano delle tessere annonarie, sono andato a recuperarne un po’. Tanto per dire. C’erano le tessere annonarie con dei bollini che tu andavi, tagliavi, ti davano la pasta, il riso, la carne. A questo proposito vorrei raccontarle un aneddoto di mio papà che andava alle tre di notte a mettersi in fila davanti a quello che vendeva la carne per poter avere quel pezzo di carne, quella quantità di carne. Noi eravamo in cinque persone. E mi ricordo che aprivano alle sette e mezzo, sette. E mi ricordo che dopo quattro ore di fila, toccava quasi a mio papà, arriva uno in divisa, però non saprei dirle il nome, cognome, niente perché non lo sapeva neanche mio papà. Arriva uno in divisa, è entrato ed è andato dal carneziere per farsi servire, a quel punto mio padre si è arrabbiato e ha reagito. Lo sa che l’avevano denunciato e lo volevano mandare al confine mio padre? C’era mio zio morto, l’altro mio zio… si è messa in mezzo mia nonna, una cognata di mio papà che conosceva qualche persona e sono riusciti a evitarlo. Tanto per dire cosa poteva succedere in quel periodo li. Si andava a prendere il pane. Dopo sa magari, conosci il fornaio, se ti doveva dare due panini, se ne aveva uno che 60 Catturare le storie gli avanzava te lo dava. Grazie a Dio non ho mai sofferto la fame. Certo, non è che mangiavo carne tutti i giorni. Mangiavi il pesce. A me piaceva il pesce piccolino, mio papà andava dal pescivendolo e diceva: “mi dia due centesimi di pesciolini piccolini che devo darli al gatto, invece erano per me no?. Mio papà faceva una vita discreta, come si suol dire, ceto medio. Non so, tra normale e il medio. Qui mi ricordo, dunque, alla fine di aprile sono passati gli americani. Finita la guerra, hanno fatto il primo sindaco, che però non c’è stata occupazione di militari qui da noi. Mio papà dopo ha continuato a lavorare alla Caproni. Anche se non faceva più aeroplani, ci state un po’ di problematiche perché dopo, lo stabilimento andava in deperimento insomma, ecco. Quindi noi abitavamo in una casa, qui al villaggio, abitavamo nelle case dove c’erano solo gli infissi e basta, all’interno c’era lo scheletro ma mattoni a vista cioè, senza strade, senza fogne, senza acqua. Non c’era luce, non c’era gas, non c’era niente. Quindi, diciamo che come tutto il dopo guerra è stato problematico. Io ho iniziato ad andare, il primo anno sono andato con il pullman a scuola, dopo andavo con la ferrovia perché si pagava di meno e andavamo con i così detti carri-bestiame, carri di trasporto. C’erano solo quelli che trasportavano le persone, non c’erano le carrozze. Noi siamo riusciti a tornare in Sicilia per qualche giorno nel ’50, perché prima, per un po’ di tempo, non si poteva … anzi tutto mio papà lavorava, quindi non poteva lasciare. Dopo il 7 luglio del ’43, sono sbarcati gli americani in Sicilia, per cui si sono interrotte tutte le comunicazioni, infatti noi in Sicilia la casa l’avevamo chiusa e avevamo, mio papà aveva dato la caparra di un paio d’anni perché mio papà pensava di ritornare una volta finita la guerra. Mio papà diceva: “va be’, quando finisce la guerra…”. Se fossimo partiti dieci giorni più tardi, venivano gli alleati, noi saremmo rimasti in Sicilia. Non so se sarebbe stato meglio o peggio, questo non glie lo so dire. La vita che abbiamo fatto qui mi soddisfa. Però non so, se magari se fossi stato giù… qui siamo stati lontani dai parenti, perché dopo, mio zio finita la guerra è tornato a Messina, perché loro abitavano a Messina, e noi siamo rimasti soli. Io ho conosciuto mia moglie nel ’45, lei era stata sfollata a Valbrembo. Quando ci furono i bombardamenti a Sant’Anna, qui a Ponte, il primo bombardamento ha fatto venir giù la loro casa. Mia moglie era del ’39 quindi l’ho conosciuta che aveva sei anni. Più avanti quando io frequentavo le scuole superiori, in quel momento li le insegnavo, la aiutavo anche a fare i compiti. Durante il periodo delle vacanze per esempio c’era una signora, una ragazza che abitava qui, in quelle villette qui e le avevo insegnato a fare, a scrivere in stenografia. Quindi l’ho conosciuta, quando io sono andato militare nel ’56, lei aveva già diciassette anni per cui l’anno dopo ci siamo cominciati … dall’amicizia è diventato qualcosa di più importante, per cui ci siamo fidanzati nel ’58-59. Io ci ho sempre tenuto di fare le cose per bene, sa 61 Catturare le storie in Sicilia si usava che il fidanzamento doveva essere ufficiale doveva essere il genitore che andava a chiedere la mano prima di fidanzarsi. Mi ricordo che mia suocera chiedeva al figlio più piccolino: “ti do una lira se mi dici cosa c’è tra Giacomino (mi chiamava Giacomino perché io mi chiamo Consolato Russo, però io sono conosciuto come Giacomo) e tua sorella. Nel ’54 c’era un circolo la sotto i portici, è stato il primo circolo dove c’hanno messo la televisione, e allora si andava il giovedì a vedere “Lascia e raddoppia” e la domenica sera si andava a vedere un’altra trasmissione ancora di quiz. E allora io magari le tenevo il posto, ci sedevamo. Anche se ci conoscevamo, il primo, chiamiamolo abbraccio è stato nel ‘58. Quando è bruciato lo stabilimento del Bolis, me lo ricordo perché l’ho presa con la mano dietro il fianco e l’ho accompagnata la. Il primo bacio è stato sulla guancia. Mio suocero lavorava in svizzera, dove si era trasferito in seguito alla chiusura della Caproni. Però quando è venuto a casa nel periodo di Pasqua, sono andati su mio papà e mia mamma, io e mia moglie siamo rimasti in un’altra camera, adesso fa ridere no? Questo qui succedeva nel ’58-59, succedeva allora. Mio papà e mia mamma, loro hanno discusso. Siamo d’accordo, fidanzamento ufficiale. Però mi vanto, mi vanto di questo. Mi sono sempre vantato che sono sempre stato corretto con mia moglie fino a che mi sono sposato. E non ho vergogna a dirlo. Dopo va be’ ci siamo sposati nel ’63. Poi è nata Anna Maria, nel ’77, quattordici anni, tredici anni dopo il matrimonio. Roma, 1940 62 Catturare le storie APPENDICE a cura di Gianluigi Di Giangirolamo Partendo dall’esperienza dei progetti di ricerca condotti all’interno del Laboratorio di storia sociale-“Memoria del quotidiano”, a partire dall’anno accademico 2007-2008 si è svolto, nell’ambito dell’insegnamento di Storia Sociale del Prof. Paolo Sorcinelli, il laboratorio didattico “Catturare le storie”. Al fine di avere un quadro quantitativo e qualitativo dei materiali raccolti dagli studenti, è stata realizzata un’indagine statistica in grado di riassumere alcuni elementi, quali il sesso, la distribuzione geografica, l’età e le professioni dei soggetti intervistati. Nel corso dei quattro anni accademici, sono state raccolte 216 storie di vita (113 uomini e 103 donne) realizzate sull’intero territorio nazionale, in 18 Regioni e 50 province. Il maggior numero di interviste sono state condotte in Emilia Romagna, a seguire nelle Marche, in Veneto e in Puglia. Le classi d’età degli intervistati vanno dal 1910 al 1971, ma più della metà di essi sono nati tra il 1921 e il 1930, mentre sono 63 le persone nate nel decennio 1931-1940. Per quanto riguarda le professioni svolte, la distribuzione percentuale degli intervistati appare la seguente: 47% servizi, 24% industria, 19% agricoltura. Uomini e donne intervistati Donne; 103; 48% Uomini; 113; 52% Uomini Tav.1 63 Donne Catturare le storie Numero degli intervistati per periodo di nascita 120 113 100 80 63 60 nr. intervistati 40 21 14 20 5 0 1910-1920 1921-1930 1931-1940 1941-1950 periodo di nascita Tav.2 64 1951-1971 Catturare le storie Numero di interviste in base al luogo di nascita dell'intervistato e al luogo in cui è stata raccolta l'intervista Sardegna Piemonte Molise Calabria Toscana Trentino Alto Adige Sicilia Lazio luogo nascita luogo intervista Friuli Venezia Giulia Basilicata Campania Umbria Lombardia Abruzzo Puglia Veneto Marche Emilia-Romagna 0 20 40 60 Tav.3 65 80 100 120 Catturare le storie Regione Numero di interviste in base al luogo di raccolta Numero di interviste in base al luogo di nascita dell’intervistato Emilia-Romagna 79 103 Marche 34 36 Veneto 14 14 Puglia 18 12 Abruzzo 8 9 Lombardia 8 9 Umbria 4 5 Campania 7 4 Basilicata 3 3 Friuli Venezia Giulia 3 4 Lazio 4 3 Sicilia 8 3 Trentino Alto Adige 3 3 Toscana 5 2 Calabria 2 1 Molise 2 1 Piemonte 0 1 Sardegna 2 1 Tab.1 Numero delle interviste in base al luogo di raccolta e luogo di nascita dell’intervistato 66 Catturare le storie Suddivisione degli intervistati per settore occupazionale 10% 19% Agricoltura Industria Servizi Altre attività 24% 47% Tav.4 Settori produttivi Nr. Intervistati Agricoltura 46 Industria 60 Servizi 116 Altre attività 24 Percentuale intevistati 19% 24% 47% 10% Tab.2 Suddivione degli intervistati per settore occupazionale 67 Catturare le storie Elenco delle interviste divise per anno accademico Durata in min. 1938 69 Belmonte Piceno Marche Monottone 2007 46 Eleuteri Maria Sapigni Elsa F F 1930 1924 78 84 Pescara Roma Abruzzo Lazio 2008 2008 40 62 Barro Sara Natrone Carmen F 1949 58 Buenos Aires 2007 99 Bergamo Carlotta Bianco Maria Bizzarro Veronica Savio Maddalena Bendotti Battista Da Lima Maria F 1926 M 1928 F 1939 81 79 69 2007 2007 2008 82 10 56 Brugnini Valentina Buonafede Francesca Calciolari Eva Belfiglio Mario M 1926 82 Venezia Lanciano Foggia Civitanova Marche 2008 70 Bendazzi Leda Calciolari Giancarlo F 1928 M 1926 80 81 Ravenna Bologna 2008 2007 34 40 Casieri Maura Sacchi Vincenzo M 1922 85 Ravenna Mantova S.Vito deiNormanni Marche Emilia Romagna Lombardia Carassai Rimini Cordenons (Pn) CavallinoTreporti Lanciano Foggia Civitanova Marche 75 Lugatti Milton M 1922 85 Ferrara Roma Savignano sul Rubicone 2007 Castellano Cinzia D'alessandro Alessandra Puglia Emilia Romagna 2007 64 Sacco Michele M 1921 86 Cerignola Puglia Cerignola 2007 91 Intervistato Età F Anno nascita Morlacchetti Lida Sesso Agostini Elisa Andrenacci Gianluca Astolfi Federico Intervistatore Anno int. Luogo nascita Regione nascita Luogo intervista Catturare le storie, a.a. 2007-2008 68 Veneto Abruzzo Puglia Catturare le storie S.Martino in Rio Emilia Romagna S:Martino in Rio Campania Molise 71 Monte Corice Portocannone Sant'Agata di Puglia S. Giovanni in Marignano Partinico S. Ferdinando di Puglia M 1927 80 Marzabotto Aliverti Francesco M 1922 85 Lovere Randi Bruno Papa Raffaele Capraro Lina M 1927 M 1924 F 1928 81 83 79 Bagnacavallo Lucera Mozzagrogna Potito Elena Primucci Wilma F F 1931 1944 76 63 Mereu Ilaria Morbidelli Martina Musumeci Sara Fadda Giuseppina Piagnani Gaetano Bellucci Giuliana F 1917 M 1926 F 1935 91 81 73 Orlandini Donato Scotti Antonio M 1932 76 Paro Federica Lombardini Primo M 1930 78 Campobasso Fano SiurgusDonigala Chiusi (Si) Ancona Acquarica del Capo Sant'Arcangelo di Romagna Polacchi Yasmin Morresi Gina F 1939 68 Macerata Prota Martina Walpurga Saxer F 1929 78 Val di Vizze Dallari Stefania De Gregorio Valentina De Nicolò Angela Terenziani Renato M 1921 86 Pasca Fernando Pezone Bruno M 1938 M 1943 69 64 Galli Elisa De Leo Maria F 1933 74 Genghini Cristina Cecchini Maria Teresa Iacobbelis Valentina Casarubbia Giuseppe F 1935 M 1940 72 68 Ida Natalicchio Paoletti Giovanna F 1936 Laghi Sara Legnaioli Margherita Pirini Francesco Maini Elena Maizzi Prisca Maramieri Isabella Marchegiani Stefano Marianna Rondine 69 2007 90 Bologna Modena Sant'Agata di Puglia 2007 2007 60 30 San Clemente Argenta 2007 106 2008 99 Cerignola 2007 81 EmiliaRomagna Marzabotto 2007 42 Lombardia Emilia Romagna Puglia Abruzzo Roma 2007 92 Bagnacavallo Lucera Montesilvano 2008 57 2007 81 2007 120 Molise Marche Campobasso Falconara 2007 2007 Sardegna Toscana Marche Arixi-Senorbì Foligno Castelbellino Acquarica del Capo Sant'Arcangelo di Romagna Civitanova Marche 2008 120 2007 60 2008 76 Puglia Emilia Romagna Sicilia Puglia Puglia Emilia Romagna Marche Trentino Alto Adige Vipiteno 2007 120 90 82 2008 57 2008 11 2007 112 2007 40 Catturare le storie Santella Alessia Scotese Anna Serena Eleonora Serena Eleonora Vaccarini Domenica Lucchetti Giuseppe Mandolini Anna Maria Buscarini Pierino F 1920 1920 Bologna F 1932 75 Porto Recanati M 1915 92 Schio Montefiore F 1933 74 Conca M 1919 88 Montelabbate F 1937 70 Osimo M 1931 76 Osimo Sforza Francesca Malagoli Lauro M 1925 83 Modena Soavi Carolina Sonda Chiara Randi Luigi Contessa Giovanni M 1924 M 1917 83 90 Vaira Paola Valentini Federica Pepe Maria Paone Antonio F 1929 M 1922 79 85 Vandelli Ottavia Adolfo Vandelli M 1923 85 Bagnacavallo Rosà Castelnuovo della Daunia Arielli Pavullo nel Frignano Zaffi Cristina Bartolini Guglielmo M 1925 82 Zamagna Beatrice Zamagna Antonio M 1944 63 Saludecio S. Mauro Pascoli Zamagna Beatrice Ballarini Bruna F 59 Sogliano Roncadori Federica De Manzoni Francesca Rossi Eleonora Grilli Giuseppina Ruaro Giulia Ruaro Domenico 1948 70 Emilia Romagna Marche Veneto Emilia Romagna Marche Marche Marche Emilia Romagna Emilia Romagna Veneto Puglia Abruzzo Emilia Romagna Emilia Romagna Emilia Romagna Emilia Romagna Coriano Porto Recanati Santorso Montefiore Conca Fano Osimo Osimo 2007 68 2007 120 2007 2007 2007 2007 94 50 44 44 Modena 2008 60 Bagnacavallo Rosà 2007 2007 36 95 Brindisi Arielli Pavullo nel Frignano 2008 2007 66 90 2008 72 Saludecio S. Mauro Pascoli S. Mauro Pascoli 2007 96 2007 50 2007 50 Catturare le storie Emilia Romagna Emilia Rimini Romagna Emilia Romagna Bologna Emilia Ro Ferrarese Romagna S.Arcangelo di Emilia Romagna Romagna Porto Viro Veneto Milano Lombardia Perugia Umbria Emilia Ravenna Romagna Rocca San Cassano Gradara Marche Chiaravalle Marche San Giovanni Emilia in Persiceto Romagna Accialini Giulia Mariani Bianca F 1937 71 Alves Lino Zarife Fiorani Giacomo M 1925 83 Antolini Clelia Alberti Giuseppe M 1926 82 Antolini Clelia Benini Lucinda F 1910 99 Ballarin Nicole Ballarin Nicole Battagin Alessia Bottini Lavinia Fabbri Adele Naia Mario Boccalari Celestino Innamorati Francesco F M M M 1915 1928 1928 1924 94 81 81 85 Bruno Barbara Isotta Fusaroli F 1926 82 Caccamo Shejla Caroli Chiara Coacci Sonia Giuseppa Boschi Osvaldo Fabbri Mandolini Romano F 1923 M 1933 M 1939 85 75 69 Cocchi Valentina M 1923 85 Cuna Elisa Cocchi Giovanni Marsella Addolorata Antonia F 1929 80 Dal Maistro Anna Dall'Amico Luigi M 1947 61 Melpignano San Vito di Leguzzano De Nale Martina Orioli Alfredo M 1920 88 Borghi Luzzara 71 Puglia Veneto Emilia Romagna Durata in min. Anno int. Luogo intervista Regione di nascita Luogo nascita Età Anno nascita Sesso Intervistato Intrervistatore Catturare le storie, a.a. 2008-2009 Luzzara 2008 60 Rimini 2008 60 Ferrara 2008 60 Ferrara S.Arcangelo di Romagna Porto Viro Milano Perugia 2009 51 2009 2009 2009 2009 Cervia 2008 62 Bagnacavallo Gradara Chiaravalle San Giovanni in Persiceto Credera Rubbiano San Vito di Leguzzano 2008 105 2008 85 2008 60 Rimini 2008 71 60 60 61 60 2008 82 2009 94 2008 95 Catturare le storie Di Iacovo Luana Casadio Armida F 1921 88 Faenza Di Sette Serena Etoumbe Eliane Dolice Cicognani Marisa F 1931 77 Grotti Santa F 1924 84 Bertinoro Savignano sul Rubicone Follieri Giulia Caso Clementina F 1925 83 Lucera F 1934 Gardelli Giovanna Salaroli Oriana 74 Forlì Monte M 1935 1935 Colombo Ghasemi Atefeh Carlini Vasco Ghidini Giulia 1931 77 Melara Girelli Cristina Soriani Gaetana Berti Arnoaldi Francesco M 1926 82 Bologna Gnoni Eleonora Burani Giuseppe M 1913 95 Reggio Emilia Gnoni Valentina Montanari Otello M 1926 82 Livorno Maria Querques Pompeo M 1920 F Puglia Emilia Romagna Emilia Romagna Ravenna 2009 90 Bertinoro 2008 65 Rimini 2008 76 Lucera 2008 64 Forlì 2008 75 Riccione 90 Melara 2008 40 Bologna Reggio Emilia Reggio Emilia 2008 50 Reggio Emilia Veneto Emilia Romagna Emilia Romagna Emilia Romagna 88 Alberona Puglia Troia 2008 100 Sicilia Porto Paolo di Capo Passero 2009 60 Lazio Pescara 2008 70 Camerano 2009 65 Luciano Elettra Schifitto Salvatore M 1934 75 Porto Paolo di Capo Passero Marini Gaia D'Annunzio Genoveffa F 1930 78 Roma Marzocchini Giulia Casaccia Nerina F 1923 86 Sirolo Mazzoli Diletta Nazli Rezagholi Beigi Toni Alberto M 1915 Episco Paolo Olivieri Francesca Arpinati Filomena Ortenzio Benedetta Antonella Stecconi Oddo Dario Emilia Romagna Emilia Romagna Emilia Romagna 2008 75 2008 80 94 Marche Emilia Baganacavallo Romagna Bagnacavallo 2009 104 M 1938 70 Trani Rimini 2008 60 F 1927 81 Galeata Puglia Emilia Romagna Fano 2008 105 M 1923 85 Ancona Marche Ancona 2008 106 72 Catturare le storie Pambianchi Dorothy Vicentini Gina F 1943 65 Taglio de Po Veneto Pasanisi Lisa Provenzano Cosima F 1929 79 Parabita Puglia Pia Donatella D' Amico Maria F 1919 89 Carosino Piersanti Veronica Bernardi Egisto M 1930 78 Pozzi Giulia Savini Maddalena F 1930 Reni Ottavia Neri Zara F Ricci Raffaella Giraldi Dorina F Rinaldini Priscilla Ariano Polesine 2008 65 2008 60 Puglia Saronno Sant'Agata Bolognese Borgo Pace Marche Pesaro 2008 60 78 Riolo Terme Emilia Romagna Riolo Terme 2008 50 1925 84 Urbania Marche Ancona 2009 60 1925 84 Monteciccardo marche Pesaro 2009 60 Rinaldini Antonio M 1925 83 Napoli Campania Napoli 2008 25 Rinaldini Priscilla Esposito Salvatore M 1921 87 Napoli campania Napoli 2008 58 Rosato Raffaela Papandrea Raffaele M 1926 82 Procida Procida 2008 60 Russo Nicola Sabatini Chiara Ceneri Enzo Cosso Luigi Di Cocco Maria Domenica M 1932 M 1925 76 84 Bologna Mignanego Campania Emilia Romagna Liguria Bologna Spoleto 2008 57 2009 F 1929 79 Guardiagrele Abruzzo Guardiagrele 2008 76 M 1929 79 Guardiagrele Abruzzo Guardiagrele 2008 76 Scarinci Stella 2008 60 Di Martino Palmerino Scarinci Stella Schiuma Giada Brignani Giuseppe M 1919 90 Lugo Emilia Romagna Lugo 2009 75 Scoleri Karien Romeo Maria Antonia F 1930 79 Galatro Calabria Galatro 2009 84 Stocco Irene Sartin Agnese F 1923 85 Villadose Veneto Villadose 2008 73 Tassani Federica Mazzani Fosca F 1925 83 Castrocaro Emilia Romagna San Martino 2008 65 73 Catturare le storie Toccaceli Ilaria Cesaroni Albina F 1930 78 Ancona Marche Ancona 2008 60 Torriti Letizia Zampagni Federico M 1928 81 Cortona Toscana Cortona 2009 60 74 Catturare le storie Anno int. Durata in min. Bracci Elena Castelgrande Antonella Del Romano Sabina Luogo intervista 2009 90 Coghi Roberta F Lombardia Milano 2009 60 Pellegrino Luigi Cirillo Eva Basilicata Abruzzo Venosa Lanciano 2009 2009 80 70 Veneto Ponte San nicolò 2009 65 2009 70 2009 80 M 1930 79 Trapani 1925 84 Milano Intervistato Regione di nascita Bagno di Romagna Età Bagno di Emilia Locatelli Giovanni M 1930 79 Romagna Romagna Anno nascita 90 Sesso 2009 Intervistatore Senigallia Giacalone Ambrosone Domingos Giuseppe Bellavista Alessia Luogo nascita Catturare le storie, a.a. 2009-2010 Sicilia Gambalunga Anna Gammone Rossella Ester Ruzzo Italo M 1924 85 Venosa F 1926 83 Pescara Ponte San M 1929 80 Nicolò Pescuma Felice M 1922 87 Venosa Basilicata Gigli Federico Di Landri Mario M 1953 56 Lucca Toscana Venosa Mogliano Veneto Lia Federica Ciacci Nella F San Marino Rimini 2009 100 Manzotti Maria Laura Giorgini Bruno Marche Ancona 2009 80 Montagano Ida Ada M 1923 86 Ancona San Paolo di Ciaraldi Leonardo M 1923 86 Cividale Puglia 2009 40 Ninni Sara Gasperi Luigi M 1941 68 Pesaro 2009 60 Pergreffi Eleonora Marisi Marisa F Marche Emilia Romagna Roma Gabicce Mare Cesena 2009 60 San 1928 81 Marino 1930 79 Forlì 75 Catturare le storie Pifferi Serena Pipitone Flavia Maria Ridone Rosetta Bartolozzi Emilia F F 1921 88 Mori 1928 81 Gela Romano Jolanda Tadei Adele F 1923 86 Rimini Sartore Gaja Spoletini Loretta Sieff Primo Pinchi Massimo M 1924 85 Bolzano M 1953 56 Foligno Vellonio Chiara Bellucci Natalia F Zitelli Lisa Luminari Ciro Trentino Alto Adige Sicilia Emilia Romagna Trentino Alto Adige Umbria 1920 89 Lucera Puglia Falconara M 1939 70 Marittima Marche 76 Mori Palermo 2009 2009 61 53 Rimini 2009 140 Brennero Rimini 2009 2009 54 60 Milano Falconara marittima 2009 40 2009 100 Catturare le storie durata min. 20 M 1933 78 Palermo Sicilia Ponte San Pietro 2011 80 Messina Lorella F 1961 50 Roma Lazio Civitella del Tronto 2011 60 Assirelli Giulia Cavina Romana F 1938 72 Brisighella Emilia Romagna Lugo 2010 34 Balli Federica Balli Vittorio M 1927 84 Pisa Toscana Bologna 2011 50 Bassi Eugenia Bartoli Ezio M 1924 87 Pesaro Marche Pesaro 2011 62 Bassoli Alice Zappador Antonio M 1939 71 Verteneglio Carpi 2010 60 San Mauro Pascoli 2010 75 Agnello Marzia Russo Consolato Giacomo Amato Teresa Giovagnoli Bellomo Jesiica Nazario Luogo di nascita F Intervistatore (studente) Frescina Antonia Regione di nascita 2011 Acquaviva Valeria Età Melfi Sesso Basilicata Intervistato Anno Luogo intervista Anno nascita Catturare le storie, a.a. 2010-2011 1932 79 Potenza San Mauro M 1933 77 Pascoli Emilia Romagna 77 Catturare le storie Bendini Jessica Pesaresi Daria F 1933 78 Verrucchio Emilia Romagna Rimini 2011 80 Berardi Andrea Borghini Anna Paola F 1932 79 Ancona Marche Ancona 2011 60 Bianchi Stephanie Ciccone Mosè M 1930 81 Capestrano Abruzzo Pescara 2011 65 Biondo Giulia Cerfogli Antonio M 1922 88 Sestola Emilia Romagna Bologna 2010 60 F Emilia Romagna Reggio Emilia 2011 63 Emilia Romagna Ravenna 2010 155 Cupramontana 2011 67 Emilia Romagna Forlì 2011 75 M 1923 88 Monfalcone FriuliaVenezia Giulia Monfalcone 2011 90 Caminiti Monica Biagini Mario M 1931 79 Rimini Emilia Romagna Rimini 2010 45 Carretti Cristina Pelloni Anita F Emilia Romagna Conselice 2011 35 Morini Bonacini Chiara Giuseppina 1915 96 Reggio Emilia Bottoni Gianna Zanchini Arride Giuseppe M 1911 99 Ravenna Bracaccini Marika Piccioni Daniela F 1949 62 Cupramontana Marche Brancaleoni Arianna Raggi Roldana F 1933 78 Forlì Broggian Valentino Bacicchi Silvano 1939 72 Lugo 78 Catturare le storie Cavina Brigida Argellani Paolo M 1920 91 Faenza Emilia Romagna Pieve Cesato 2011 60 Celotti Mariasole Squarzoni Aldo M 1922 89 Bologna Emilia Romagna Bologna 2011 40 Chiaradia Marianna Chiaradia Chiarina F Calabria Bologna 2010 60 Puglia Foggia 2011 60 Foggia 2011 60 Sicilia Castelvetrano 2011 53 1971 39 Cropalati Ciavarella Ciavarella Luisa Raffaele Torre M 1922 89 Maggiore Domanchiuk Ciavarella Luisa Dmitrievna Maria F Novyy Mir 1925 86 (Russia) Curia Angela Siragusa Angela F 1926 85 Castelvetrano D'Angelo Gianmarco Cannella Mario M 1930 81 Pedaso Marche Campofilone 2011 60 De Benedictis Federica Paci Fausto M 1924 87 Ancona Marche Porto San Giorgio 2011 45 Del Favero Genny Gei Anna F Valle di 1935 76 Cadore Veneto Pieve di Cadore 2011 60 Di Salvatore Martina Guardigli Aurelio M 1925 85 Forlì Emilia Romagna Forlì 2010 70 Di Santo Lucia Di Santo Salvatore Sessa M 1934 76 Aurunca Campania Rimini 79 2010 150 Catturare le storie Dimida Danila Mitrugno Benito Vittorio M 1935 76 Mesagne Puglia Mesagne 2011 100 Dragonetti Roberta Affronto Anita F 1933 78 Catania Sicilia Foggia 2011 61 Farinazzo Virna Fascioli Adele F 1924 86 Casalinga Lombardia Mantova 2010 66 Federici Martina Pasetto Nilde F 1933 78 Castel D'Ario Lombardia Villimpenta 2011 50 Fratini Rebecca Tintori Enrica F 1936 75 Perugia Umbria Perugia 2011 61 1930 81 Salboro Veneto Verona 2011 80 Bologna 2010 65 Frizzera Irene Trevisan Giovannina F Fusini Arianna Larini Dante Salsomaggiore Emilia M 1927 83 Terme Romagna Galassi Giorgia Fabbri Nella F 1943 67 Bologna Emilia Romagna San Mauro Pascoli 2010 50 Generi Ilaria Falappa Dina F 1935 76 Filottrano Marche Osimo 2011 55 Ghezzi Marta Evangelisti Bruno M 1925 86 Cesena Emilia Romagna Cesena 2011 86 Ghin Nicola Pajer Elena F Veneto Conegliano Veneto 2010 65 Puos D' 1930 80 Alpago 80 Catturare le storie Gruppioni Beatrice Mancini Manlio M 1931 79 Bologna Gruppioni Beatrice Meyvaert Genevieve F Ismenghi Susanna Barbini Giuseppe M 1919 91 Filottrano Jusic Majda Falcioni Ines F Kuci Filloreta Surro Raimondo M 1952 59 Irpino La Cecilia Barbara Di Gennaro Francesco Lagomarsini Michela Emilia Romagna Bologna 2010 75 Bologna 2010 75 Marche Appignano 2010 70 Marche Fano 2011 68 Campania Rimini 2011 68 M 1932 79 Aversa Campania Modena 2011 77 Lagomarsini Annunzio Castelnuovo M 1932 79 Magra Liguria Castelnuovo Magra 2011 56 Lecce Silvana Marini Caterina F 1930 81 Sarsina Emilia Romagna Cesena 2011 65 Lefemine Silvia Silvestri Luciana F 1932 78 Finale Emilia Emilia Romagna Reggio Emilia 2010 98 Lorizzo Francesca Guadagno Scelza F 1937 74 Andria Puglia Andria 2011 79 Mancini Erika Riminucci Mino M 1934 76 Sassocorvaro Marche Novafeltria 2010 220 1932 78 Bruxelles 1929 82 Fano 81 Catturare le storie Manzoni Francesca Tiengo Giovanna F 1940 70 Adria Veneto Argenta 2010 45 Marcantoni Francesca Zaghini Maria F 1928 82 Rimini Emilia Romagna Bellaria 2010 73 Martinozzi Federica Orsatti Ivano M 1932 79 Bondeno Emilia Romagna Bondeno 2011 50 Mazza Anna Bassetta Iolanda F Marche Montesilvano 2011 65 Mazzotta Daniela Borettini Pietro M 1928 83 Viadana 2011 80 1928 83 Montesilvano Lombardia Viadana F FriuliaVenezia 1920 91 Pavia di Udine Giulia Pavia di Udine 2011 60 De Santis Elena F 1928 82 Macerata Marche Macerata 2010 76 Ortelli Vito M 1921 90 Faenza Emilia Romagna Faenza 2011 72 M 1925 86 Bologna Emilia Romagna Bologna 2011 58 Casola Valsenio 2010 71 2011 73 Mocchiutti Critina Beltrame Isolina Montanari Laura Montevecchi Alessandra Morselli Morselli Melissa Giuseppe Naldi Sara Ricciardelli Aurelio Casola M 1924 86 Valsenio Emilia Romagna Paderni Federica Musazzi Gianfranco M 1941 70 Milano Lombardia Milano 82 Catturare le storie Palestini Arianna Mancini Leo M 1930 80 Offida Marche San Benedetto del Tronto 2010 63 Panacea Giulia Mongiusti Francesco M 1942 69 Longiano Emilia Romagna Gambettola 2011 66 Pandolfi Cristina Pesaresi Alba F San Mauro 1933 78 Mare Emilia Romagna Bellaria - Igea Marina 2011 80 Panicali Sara Carnevali Elide F 1922 89 Rubiera Emilia Romagna Fontana di Rubiera 2011 65 Pareschi Francesca Torricelli Umberto M 1930 81 Bologna Emilia Romagna Bologna 2011 60 Pareschi Francesca Verri Adriana F Emilia Romagna Bologna 2011 60 Piscaglia Vanessa De Carli Agostino M 1934 76 Roversano Emilia Romagna Gatteo 2010 56 Porti Chiara Paola Lai Giovanni M 1945 65 Ozieri Sardegna Fiorano Modenese 2010 65 Postica Tamara Rocca Adelaide F 1915 96 Palermo Sicilia Fano 2011 61 Quaranta Giulia Ruscelli Ada F 1935 76 Sarsina Emilia Romagna Sarsina 2011 60 Rafanelli Gianluca M 1927 83 Marzabotto Emilia Romagna Marzabotto 2010 60 Pirini Francesco 1932 79 Bologna 83 Catturare le storie Ranieri Flavia Taddia Ermogene Castello M 1944 66 D'Argile Emilia Romagna Pieve di Cento 2010 Ricci Giada Mastrangelo Glauco M 1929 81 Isola del Liri Lazio Napoli 2010 110 Righi Valentina Paci Ida F Sant'Agata 1930 81 Feltria Emilia Romagna Rimini 2011 60 Rossi Alioscia Gottardi Cesarina F 1938 73 Bologna Emilia Romagna Pesaro 2011 33 Ruini Valentina Davoli Dilva F 1920 90 Novellara Emilia Romagna Novellara 2010 75 Santunione Alice Trenti Filomena F 1926 85 Modena Emilia Romagna Spilamberto 2011 60 F 1938 72 Baiso Emilia Romagna Cadelbosco Sopra 2010 67 1932 79 Fossombrone Marche Calcinelli di Saltara 2011 73 Saponara Laura Ugoletti Alda 90 Stefani Priscilla Francolini Pasquina F Tabacchi Chiara Soravia Enzo Valle di M 1923 88 Cadore Veneto Valle di Cadore 2011 60 Testa Giulia Mancini Enio M 1938 72 Stazzena Toscana Pietrasanta 2010 63 Tittarelli Lucia Gianfelici Idesma Maria F Marche Jesi 2011 57 1927 84 Jesi 84 Catturare le storie Tripolini Erika Seghetti Nello M 1933 78 Ascoli piceno Marche Ascoli Piceno 2011 54 Vicini Gloria Vicini Gino Sant'Agata M 1927 83 Feltria Emilia Romagna Sant'Agata Feltria 2010 95 Vitali linda Crostolo Gualtieri Flora F Carpinello di 1933 78 Forlì Emilia Romagna Talamello 2011 70 1928 82 Gorizia FriuliaVenezia Giulia Gorizia 2010 60 Zille Martina Brajnik Vilma F Zini Ylenia Tito Grazia M 1925 86 Bologna Emilia Romagna Bologna 2011 60 Zocca Lorenzo Foschi Sergio M 1931 79 Cesena Emilia Romagna Bologna 2010 63 Zoffoli Camilla Caporali Rina F Emilia Romagna Cesena 2010 43 1921 89 Cesena 85 Catturare le storie Hanno collaborato: Luca Gorgolini [email protected] Gianluigi Di Giangirolamo [email protected] Giulia Nataloni [email protected] 86