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Misero le mutande agli affreschi

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Misero le mutande agli affreschi
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PRIMO PIANO
Giovedì 20 Agosto 2015
Di Mario Sironi, alla Università di Roma. La manomissione fu del fascistissimo Marcello Piacentini
Misero le mutande agli affreschi
Il fascismo censurava, la democrazia dovrebbe rispettare l’arte
DI
CESARE MAFFI
C
hi abbia studiato
nell’università di
Roma, quella che dal
1982 è ufficialmente
definita La Sapienza, come
pure chi abbia avuto occasione di assistere a un convegno
o a un concerto o a un’assemblea nell’aula magna, ha ben
presente l’ampio affresco che
domina l’ambiente. Si tratta de
L’Italia tra le Arti e le Scienze, dovuto a Mario Sironi, il
quale lo realizzò nel 1935, per
impulso sia di Benito Mussolini sia di Marcello Piacentini, che dello Studium Urbis
fu l’architetto principe.
Caduto il fascismo, non piacquero riferimenti al regime
presenti nel grande murale.
L’opera restò coperta, finché
nei primi anni cinquanta si
passò all’epurazione. Un pittore, Carlo Siviero, fu incaricato di ritoccare il murale, sia
facendo sparire fasci e simboli
littori, sia rendendo più morbidi qua e là i rigidi segni dell’artista. Fu un’operazione di censura, politica e artistica, che
venne seguita sotto la guida di
Marcello Piacentini. L’architetto più noto del regime aveva
patito traversie, epurazione
compresa, ma era tornato in
auge: fu lui a censurare il murale che aveva commissionato
qualche lustro innanzi.
Sono in corso lavori di restauro sul grande affresco. Paolo Simoncelli, ordinario di
storia moderna alla Sapienza,
è sceso in campo rivendicando
la necessità che il restauro riporti alla luce integralmente
l’opera originaria, cassando
le ripuliture (definiamole impropriamente così) eseguite
mezzo secolo fa. Si tratta di
rispettare la volontà dell’artista e l’integrità originaria
dell’opera. Simoncelli ha sollevato la questione in chiave
anti censoria con articoli apparsi sul Foglio e Avvenire,
provocando interventi pro e
contro.
Domanda. Arte e antifascismo a confronto, anzi, a
scontro?
Risposta. Non è nel dna della cultura antifascista il rispetto, anzi la tutela, della libertà
d’espressione intellettuale e
artistica? Oppure ogni regime,
democratico o totalitario, può
intervenire con censure e interpolazioni su opere d’arte e
di letteratura? Si possono coartare e falsificare testimonianze
plastiche (compresi monumenti, lapidi e cippi) di un passato
sconfitto e avverso per imporne
un ricordo e una ricostruzione
storico-politica uniforme? Allora si abbia il coraggio di denunciare apertamente ciò che oggi
si ha timore di dire: che tanti e
tali sono gli interventi censori
operati in questo dopoguerra
a danno della libertà d’espressione (da Gramsci a Pavese,
da Saitta a De Felice) da non
consentire soluzione di continuità con quelli d’anteguerra. Ora,
l’intero complesso dell’Università di Roma non è un unicum
architettonico-artistico? Non c’è
una connessione strettamente
articolata tra quell’insieme di
edifici pubblici, spazi pubblici
e arte per il pubblico (proprio
contro la sua privatizzazione da
salotto)? E allora Piacentini sì,
ma Sironi no?
D. Già, Piacentini: come
mai diventa censore di Sironi?
R. Nel dopoguerra, a fronte
di un Sironi che, isolato, silenziato, reietto, paga duramente
la propria drammatica coerenza, ecco (ri)emergere Piacentini. Straordinario: ha creduto
nel fascismo, ne ha celebrato i
fasti, ne ha tratto vantaggi personali enormi; e subito, oplà, lo
ritroviamo nella commissione
d’epurazione istituita nel ’47
per defascistizzare di simboli e
immagini quella stessa Università da lui progettata, costruita
e arredata con simboli e immagini fascisti. In Piacentini, oltre
la tragicommedia dell’epurazione, vibra la radice italica del
camaleontismo, dell’atavica voluttà di (ri)posizionarsi sempre
dalla parte di chi vince, sempre
al servizio del potere (s’intende, mai disinteressatamente).
L’Italia tra le Arti e le Scienze di Mario Sironi
E sempre con la coscienza a
posto: nel settembre ’50 scriveva a Sironi garantendogli che
il suo affresco era salvo! Così
Piacentini, che incarica Siviero
di intervenire sull’affresco (con
costui che censura e a proprio
gusto modifica tutto, simboli ed
estetica, devastando l’autografia dell’originale), diventa l’alternativa politicamente simbolica al restauro filologico di uno
dei capolavori del ’900.
D. Che succederebbe se il
rettore inaugurasse l’anno
accademico sotto simboli
del Ventennio?
R. Ma proprio l’Università
non dovrebbe avere come prin-
cipio deontologicamente indefettibile il coraggio intellettuale
e quindi la difesa della libertà
d’espressione? Inaugurare anni
accademici o celebrare eventi
rituali all’insegna della rivendicazione di inqualificabili interventi censori, significherebbe
scegliere di continuare a stare
sempre dalla parte degli inquisitori; per giunta, di un regime
bigotto, corrotto e corruttore. Lo
stesso che, in nome del comune
senso del pudore, interveniva a
censurare anche copioni teatrali, cinematografici e televisivi,
allungando pudicamente gonne.
Ma scommetto che si faranno
sorgere appositi problemi tecni-
CARTA CANTA
Punto di svolta
nel settore degli occhiali
DI
ANDREA GIACOBINO
L
’occhialeria italiana vede qualche cenno di ripresa. Nei giorni scorsi, infatti,
Ennio De Rigo ha riscontrato una
perdita di soli 14 mila euro nel bilancio civilistico 2014 della sua De Rigo Holding,
rispetto al rosso di 4,4 mln del precedente esercizio. A livello di gruppo, invece, le cose sono andate meglio perché anno su anno i ricavi sono
così saliti da 418 a quasi 420 mln, l’ebitda da
30,4 a 38,4 mln, l’ebit da 6,7 a 16,1 mln e il risultato netto balzato dal di 4,7 mln ad un utile
di quasi 7 mln. Il settore occhiali ha fatturato
375,5 mln, il 2,8% in più in più dell’anno prima,
realizzando 33,4 mln di mol (28,1 mln nel 2013)
e un utile operativo di 18,4 mln (11,4). Anche
il business refrigerazione dei De Rigo ha visto
un miglioramento: i ricavi aumentano anno
su anno da 47,1 a 49,2 mln, il mol da 1,5 a 3,7
mln e l’utile operativo passa dal segno meno
per 200mila€ a +1,7 mln. Ma il bilancio della
divisione è comunque in perdita per spesare la
chiusura dell’impianto di Ronchi dei Legionari.
Con oltre 3,2mila dipendenti, De Rigo Holding
mostrava a fine 2014, forte di un patrimonio di
321 mln, una posizione finanziaria positiva per
71 mln (39,7 nel 2013), pur dopo aver spesato
investimenti per circa 10 mln.
Dal «Cambio» al gioielliere
che fu fornitore dei Savoia
Dopo la rinascita dello storico ristorante to-
rinese «Il cambio», la famiglia Denegri punta
un’altra fiche sul rilancio di un marchio celebre
del capoluogo piemontese: il gioielliere Demeglio, già fornitore dei Savoia. Tramite la loro
holding Finde, infatti, i Denegri hanno investito 500 mila euro per rilevare il 14% dell’azienda, in cordata con altri imprenditori. L’originaria oreficeria, fondata nel 1922 da Giuseppe
Demeglio, passò poi al figlio Roberto che la
sviluppò e aprì anche una sede di 1400 mq a
Valenza, uno dei centri della gioielleria italiana. L’azienda, però, aveva bisogno di rilancio
e così sono arrivati i Denegri e Demeglio ha
mantenuto il 42%.
L’investimento di Finde è contenuto
nel bilancio 2014 approvato pochi giorni fa
dall’assemblea presieduta da Gustavo Denegri che ha deliberato di distribuire alla famiglia
un dividendo di 3 mln a valere sui 19,7 mln
di utile, in progresso dai 12,1 mln di profitto
dell’esercizio precedente. La holding, con un
attivo di 387 mln, registra controllate per 351,6
mln dove spiccano i 318 mln di IP Investimenti
e Partecipazioni a monte della quotata Diasorin, i 19 mln di Aurelia, immobiliare che sta
sviluppando diversi centri commerciali in Piemonte e i 4,2 mln della Risorgimento tramite
cui i Denegri hanno rilevato «Il cambio».
Nel portafoglio di Finde ci sono poi quote di fondi diversi per 8,7 mln ma il grosso del
conto economico è arrivato dai 24 mln di
cedola Diasorin. La holding ha presentato
anche un bilancio consolidato dove, con un
patrimonio netto di 572 mln, il fatturato è
cresciuto anno su anno da 436 a 448 mln
e l’utile da 86,8 a 91,2 mln.
ci per evitare di ripristinare gli
originali di Sironi che, sia chiaro, sono sopravvissuti; coperti
ma non abrasi: nel 1994 tecnici dell’Enea lo hanno accertato
scientificamente. E le odierne,
sofisticate tecniche d’intervento
non consentono di recuperare
l’autografia originale? O la limitata sovrapposizione di pittura
a fresco e tempera?
D. Philippe Daverio sostiene la prevalenza della
storia rispetto all’arte: restino, quindi, gli interventi
censorii su Sironi?
R. Daverio è garanzia di serietà; quindi credo che il suo
provocatorio intervento mirasse a non proseguire la discussione. Altrimenti, a seguire
il suo metodo di prevalenza
storico-cronologica, se i nudi
della Sistina poco dopo la morte
di Michelangelo non fossero
stati abrasi ma solo coperti da
Daniele Ricciarelli (appunto
il «Braghettone»), in occasione
degli ultimi restauri avrebbero
dovuto essere lasciati coperti:
pochi decenni di autografia
michelangiolesca, contro secoli di censure, censure che
appartengono alla storia della
Controriforma, mica la si vorrà
negare.
D. Ergo, prevale l’arte?
R. Si capisce. Questa fattispecie pone un problema che è già
stato risolto rispettando e accettando l’originalità artistica.
Che dire del capolavoro dell’ammodernamento del Bo operato
negli anni Trenta all’Università
di Padova? E della prefettura di
Ragusa o del comune di Latina,
dell’aula giudiziaria di Milano o
del complesso sportivo del Foro
Italico (ex Mussolini), scampato
di recente ai nostrani ammiratori dell’Isis? Il rispetto della
libertà espressiva in ogni sua
declinazione e linguaggio va
bene ovunque, ma non nell’aula magna della Sapienza? Eppure è la sede scientifica dove
un movimento politico come il
fascismo dovrebbe (e, con l’occasione, finalmente potrebbe)
essere ridotto a un capitolo di
storia, con notevole vantaggio
per lo stesso antifascismo. Sarà
sintomatico l’atteggiamento
delle autorità della Sapienza
(senza pretestuosi ricorsi a impossibilità tecniche).
D. Università e Sovrintendenza: quali le competenze?
R. Non mi risulta siano stati
ancora diffusi i capitolati della
convenzione tra la Sapienza e
l’Istituto centrale per il restauro; andranno esaminati. Riterrei in ogni modo essenziale
coinvolgere la Sovrintendenza nella discussione. Anche
perché nella storia di questa
deturpazione censoria (l’ha
ricordato una studiosa del valore di Silvia Danesi Squarzina) non venne chiamato a
intervenire un restauratore
ma un pittore.
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