Ciò che attraverso la gente hai saputo di me si riassume
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Ciò che attraverso la gente hai saputo di me si riassume
Rimini, 14 febbraio 2012 PIER PAOLO PASOLINI Valerio Capasa Ciò che attraverso la gente hai saputo di me si riassume eufemisticamente in poche parole: uno scrittore-regista, molto «discusso e discutibile», un comunista «poco ortodosso e che guadagna dei soldi col cinema», un uomo «poco di buono, un po’ come D’Annunzio». Non polemizzerò con queste informazioni che hai ricevuto, con commovente concordanza, da una signora fascista e da un giovane extraparlamentare, da un intellettuale di sinistra e da un marchettaro. [...] Che cos’è che io vedo (qualunquisticamente) accomunare «una signora fascista e un extraparlamentare, un intellettuale di sinistra e un marchettaro»? È una terribile, invincibile ansia di conformismo. (Gennariello, p. 19) A cosa è dovuta tale omologazione? Evidentemente a un nuovo Potere. Scrivo «Potere» con la P maiuscola – cosa che Maurizio Ferrara accusa di irrazionalismo, su «l’Unità» (12-6-1974) – solo perché sinceramente non so in cosa consista questo nuovo Potere e chi lo rappresenti. So semplicemente che c’è. Non lo riconosco più né nel Vaticano, né nei Potenti democristiani, né nelle Forze Armate. Non lo riconosco neanche più nella grande industria [...]. Dunque questo nuovo Potere non ancora rappresentato da nessuno e dovuto a una «mutazione» della classe dominante, è in realtà – se proprio vogliamo conservare la vecchia terminologia – una forma «totale» di fascismo. Ma questo Potere ha anche «omologato» culturalmente l’Italia: si tratta dunque di una omologazione dell’edonismo e della joie di vivre. La strategia della tensione è una spia, anche se sostanzialmente anacronistica, di tutto questo. [...] È a un tale livello di comunicazione linguistica che si manifestano: a) la mutazione antropologica degli italiani; b) la loro completa omologazione a un unico modello. Dunque: decidere di farsi crescere i capelli fin sulle spalle, oppure tagliarsi i capelli e farsi crescere i baffi (in una citazione protonovecentesca); decidere di mettersi una benda in testa oppure di calcarsi una scopoletta sugli occhi; decidere se sognare una Ferrari o una Porsche; seguire attentamente i programmi televisivi; conoscere i titoli di qualche best-seller; vestirsi con pantaloni e magliette prepotentemente alla moda; avere rapporti ossessivi con ragazze tenute accanto esornativamente, ma al tempo stesso, con la pretesa che siano «libere» ecc. ecc. ecc.: tutti questi sono atti culturali. Ora, tutti gli Italiani giovani compiono questi identici atti, hanno questo stesso linguaggio fisico, sono interscambiabili; cosa vecchia come il mondo, se limitata a una classe sociale, a una categoria: ma il fatto è che questi atti culturali e questo linguaggio somatico sono interclassisti. In una piazza piena di giovani, nessuno potrà più distinguere, dal suo corpo, un operaio da uno studente, un fascista da un antifascista; cosa che era ancora possibile nel 1968. (24 giugno 1974. Il vero fascismo e quindi il vero antifascismo – Il Potere senza volto –, in Scritti corsari, pp. 45-48) Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. [...] Non c’è infatti niente di religioso nel modello del Giovane Uomo e della Giovane Donna proposti e imposti dalla televisione. Essi sono due Persone che avvalorano la vita attraverso i suoi Beni di consumo (e, s’intende, vanno ancora a messa la domenica: in macchina). Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria). [...] Da ciò deriva in essi una specie di rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali. La responsabilità della televisione, in tutto questo, è enorme. Non certo in quanto «mezzo tecnico», ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. È il luogo dove si fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere. Non c’è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre... (9 dicembre 1973. Acculturazione e acculturazione – Sfida ai dirigenti della televisione –, in Scritti corsari, pp. 23-25) È stata la propaganda televisiva del nuovo tipo di vita «edonistico» che ha determinato il trionfo del «no» al referendum. Non c’è niente infatti di meno idealistico e religioso del mondo televisivo. È vero che in tutti questi anni la censura televisiva è stata una censura vaticana. Solo però che il Vaticano non ha capito cosa doveva e cosa non doveva censurare. Doveva censurare per esempio «Carosello», perché è in «Carosello», onnipotente, che esplode in tutto il suo nitore, la sua assolutezza, la sua perentorietà, il nuovo tipo di vita che gli italiani «devono» vivere. E non mi si dirà che si tratta di un tipo di vita in cui la religione conti qualcosa. D’altra parte le trasmissioni di carattere specificamente religioso della Televisione sono di un tale tedio, di un tale spirito di repressività, che il Vaticano avrebbe fatto bene a censurarle tutte. Il bombardamento ideologico televisivo non è esplicito: esso è tutto nelle cose, tutto indiretto. Ma mai un «modello di vita» ha potuto essere propagandato con tanta efficacia che attraverso la televisione. Il tipo di uomo o di donna che conta, che è moderno, che è da imitare e da realizzare, non è descritto o decantato: è rappresentato! Il linguaggio della televisione è per sua natura il linguaggio fisico-mimico, il linguaggio del comportamento. Che viene dunque mimato di sana pianta, senza mediazioni, nel linguaggio del comportamento nella realtà. Gli eroi della propaganda televisiva – giovani su motociclette, ragazze accanto a dentifrici – proliferano in milioni di eroi analoghi nella realtà. (11 luglio 1974. Ampliamento del «bozzetto» sulla rivoluzione antropologica in Italia, in Scritti corsari, pp. 58-59) 1 Rimini, 14 febbraio 2012 PIER PAOLO PASOLINI Valerio Capasa Tieni presente che non c’è Stato al mondo (né l’Urss, né la Cina, né Cuba, né la Jugoslavia) dove il potere non tolga il sorriso dagli occhi dei giovani. E il potere non è fuori da quei giovani che si fanno umiliare, è anche in loro. (Lettera a Guido Santato, 24 agosto 1971) L’Italia non è più pittorescamente caratterizzata dalla presenza di gruppi di giovani maschi, che se ne vanno in giro, o sostano nelle piazzette, da soli, coi loro motori e le loro complicità virili: ora in mezzo a questi gruppi c’è «sempre» qualche ragazza. Addirittura nei prati dove i ragazzi giocano a pallone, che è un gioco di maschi, e dove è dunque naturale che essi siano soli tra loro, c’è sempre qualche ragazza. La presenza di queste ragazze tra i maschi, che una volta erano soli tra loro, cambia la fisionomia dell’Italia. Ma ciò che non si vede è ancora più impressionante. Soprattutto nelle città, non c’è più strada, angolo, caseggiato, dove almeno una o due ragazzine minorenni non siano a disposizione di tutti: è vero che si tratta di casi estremi, ma questi casi estremi sono frequentissimi. Ne consegue che in ogni strada, angolo o quartiere della città, tutti i ragazzi maschi anche (e soprattutto) minorenni, hanno il loro «sfogo». Infatti non vedrete più gruppi di ragazzi attorno alle prostitute: essi cominciano a ignorarle. La prostituzione – sembra incredibile – in Italia sta scomparendo – almeno nelle sue forme tradizionali, chiassose e quasi festose – i fuochi delle meretrici nei prati di periferia, le loro casupole ecc. Adesso tali luoghi sono frequentati solo da uomini di mezza età o da vecchi. I ragazzi battono altre strade. Questa improvvisa permissività sessuale – che porta ad alcune conseguenze logiche e giuste, come la scomparsa della prostituzione, diciamo, di basso livello – porta anche delle conseguenze, per ora, inaspettatamente negative – porta per esempio un conformismo sessuale. Infatti mentre per esempio fino ad alcuni anni fa, per un adolescente avere la ragazza era un’aspirazione giusta, anche se repressa e tenuta in cuore – nelle lunghe more degli androcei – ora la ragazza è un obbligo: un obbligo appunto perché essendo più facile averla, e ce l’hanno subito tutti, guai a chi non ce l’ha. Il terrore di essere senza ragazza crea dunque l’obbligo dell’accoppiamento, e quindi la nascita di un numero enorme di coppie artificiali, non unite da altro sentimento che quello conformistico di usare una libertà che tutti usano. L’ossessione della coppia chiude un’infinità di altri rapporti, e soprattutto interessi (anche non sessuali) possibili, toglie precocemente ai ragazzi la libertà e la disponibilità: una società tollerante e permissiva è quella dove più frequenti sono le nevrosi, perché essa richiede che vengano per forza sfruttate le possibilità che essa permette, richiede cioè sforzi disperati per non essere da meno in una competitività senza limiti. Inoltre la permissività fa venire in luce – appunto perché le permette – le diversità: ed è appunto la permissività che crea i ghetti. (Troppa libertà sessuale e si arriva al terrorismo, «Tempo», XXXIV, 29, 16 luglio 1972) Dopo il linguaggio pedagogico delle cose, che tanta e così definitiva influenza ha avuto nel farti come sei, passiamo al linguaggio pedagogico dei tuoi coetanei: i quali, in questo momento della tua vita (quindici anni) sono i tuoi più importanti educatori. Essi esautorano ai tuoi occhi sia la famiglia che la scuola. Riducono a ombre boccheggianti padri e maestri. E non hanno affatto bisogno di un grande sforzo per ottenere questo risultato. Anzi, non ne sono nemmeno coscienti. È sufficiente per loro – per distruggere il valore di ogni altra fonte educativa – semplicemente esserci: esserci così come sono. Essi hanno in mano un’arma potentissima: l’intimidazione e il ricatto. Cosa, questa, antica come il mondo. Il conformismo degli adulti è tra i ragazzi già maturo, feroce, completo. Essi sanno raffinatamente come far soffrire i loro coetanei: e lo fanno molto meglio degli adulti perché la loro volontà di far soffrire è gratuita: è una violenza allo stato puro. [...] Il loro conformismo è acquisito di peso dal mondo degli adulti. Lo schema è identico. Ma tuttavia essi hanno sempre qualcosa di nuovo, rispetto agli adulti. Essi, cioè, vivono esistenzialmente valori nuovi rispetto a quelli vissuti, e codificati, dagli adulti. È in ciò che consiste la loro forza. È attraverso quel qualcosa di nuovo che essi, col loro modo di essere e di comportarsi (poiché si tratta di puro «vissuto»), vanificano il conformismo pedagogico degli adulti e si impongono come i veri reciproci maestri. La loro «novità» non detta, e neanche pensata, ma solo vissuta, andando oltre il mondo degli adulti, lo contesta anche quando lo accetta totalmente (come accade nelle società repressive o addirittura fasciste). Tu sei schiacciato da tale «novità»: ed è questa «novità» – che tu temi di vivere imperfettamente, mentre la vedi vissuta perfettamente dai tuoi compagni – che costituisce il nucleo della tua ansia di apprendere. Essa non può esserti insegnata dagli adulti (me compreso), e quindi tu, pur ascoltando gli adulti, pur mettendoci tutta la buona volontà ad assimilare il sapere dei padri – in realtà hai in cuore una sola assillante avidità: quella di condividere con i tuoi compagni, apprendendola da loro ossessivamente ogni giorno, questa novità. Insomma i tuoi compagni sono i depositari e i portatori di quei valori che sono gli unici che ti interessano. Anche se essi non sono che leggerissime, quasi impercettibili varianti dei valori dei padri. Ci sono dei momenti storici – come quello che stiamo vivendo – in cui però i ragazzi credono anche di sapere quali sono i nuovi valori che essi vivono, oppure credono di sapere qual è il nuovo modo con cui essi vivono valori già istituiti. In questi momenti la forza di intimidazione e di ricatto dei giovani coetanei è ancora più violenta. Essi aggiungono, dentro lo schema del conformismo assimilato – come ai tempi delle orde – dall’ordine sociale paterno, una nuova dose di conformismo: quello della rivolta e dell’opposizione. (I ragazzi sono conformisti due volte, in Gennariello, pp. 53-55) 2 Rimini, 14 febbraio 2012 PIER PAOLO PASOLINI IL PCI AI GIOVANI!! Avete facce da figli di papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete paurosi, incerti, disperati (benissimo!) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri: prerogative piccolo-borghesi, amici. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte della ragione) eravate i ricchi, mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque, la vostra! In questi casi, ai poliziotti si danno fiori, amici. “Popolo” e “Corriere della Sera”, “Newsweek” e “Monde” vi leccano il culo. Siete i loro figli, la loro speranza, il loro futuro [...]. (da Empirismo eretico) LA POESIA DELLA TRADIZIONE Oh generazione sfortunata! [...] venisti al mondo, che è grande eppure così semplice, e vi trovasti chi rideva della tradizione, e tu prendesti alla lettera tale ironia fintamente ribalda, Valerio Capasa la gioventù passa presto; oh generazione sfortunata, arriverai alla mezza età e poi alla vecchiaia senza aver goduto ciò che avevi diritto di godere e che non si gode senza ansia e umiltà e così capirai di aver servito il mondo contro cui con zelo «portasti avanti la lotta»: era esso che voleva gettar discredito sopra la storia – la sua; era esso che voleva far piazza pulita del passato – il suo; oh generazione sfortunata, e tu obbedisti disobbedendo! [...] non vi si riempirono gli occhi di lacrime contro un Battistero con caporioni e garzoni intenti di stagione in stagione né lacrime aveste per un’ottava del Cinquecento, né lacrime (intellettuali, dovute alla pura ragione) non conosceste o non riconosceste i tabernacoli degli antenati né le sedi dei padri padroni, dipinte da – e tutte le altre sublimi cose non vi farà trasalire (con quelle lacrime brucianti) il verso di un anonimo poeta simbolista morto nel la lotta di classe vi cullò e vi impedì di piangere: irrigiditi contro tutto ciò che non sapesse di buoni sentimenti e di aggressività disperata passaste una giovinezza e, se eravate intellettuali, non voleste dunque esserlo fino in fondo, mentre questo era poi fra i tanti il vostro dovere, e perché compiste questo tradimento? (da Trasumanar e organizzar) erigendo barriere giovanili contro la classe dominante del passato Se io alla tua età (e anche molto dopo) camminavo per la periferia di una città (Bologna, Roma, Napoli...), ciò che quella periferia mi diceva «in suo latino» era: qui abitano i poveri e la vita che vi si svolge è povera. Ma i poveri sono operai. E gli operai sono diversi da voi borghesi. [...] Se invece tu ora cammini per una periferia, sempre «in suo latino» tale periferia ti dirà: «Qui non c’è più spirito popolare». Contadini e operai sono «altrove», anche se materialmente abitano ancora qui. [...] I figli sono strappati alla somiglianza coi padri [...]. Il distacco dal passato e la mancanza di rapporto (sia pur ideale e poetico) col futuro sono radicali. Io, dunque, dalla realtà fisica della periferia ero educato alla certezza, a un amore profondo, sicuro e insostituibile. Tu invece sei educato all’incertezza, a una mancanza d’amore fatta di una falsa certezza crudele e impietosa (la coscienza «cristallizzata», convenzionalizzata, ciecamente aggressiva dei propri diritti). [...] Capirai piano piano, nel corso di queste lezioni, caro Gennariello, che malgrado l’apparenza questi miei discorsi non sono affatto lodi del tempo passato (che io, in quanto presente, non ho del resto mai amato). (Gennariello, pp. 45-47) POESIE MONDANE - 10 GIUGNO 1962 Io sono una forza del Passato. Solo nella tradizione è il mio amore. Vengo dai ruderi, dalle chiese, dalle pale d’altare, dai borghi abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, dove sono vissuti i fratelli. Giro per la Tuscolana come un pazzo, per l’Appia come un cane senza padrone. O guardo i crepuscoli, le mattine su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, come i primi atti della Dopostoria, cui io assisto, per privilegio d’anagrafe, dall’orlo estremo di qualche età sepolta. Mostruoso è chi è nato dalle viscere di una donna morta. E io, feto adulto, mi aggiro più moderno di ogni moderno a cercare fratelli che non sono più. (da Poesie in forma di rosa) IL PIANTO DELLA SCAVATRICE I Solo l’amare, solo il conoscere conta, non l’aver amato, non l’aver conosciuto. Dà angoscia il vivere di un consumato amore. L’anima non cresce più. (da Le ceneri di Gramsci, 1956) 3 Rimini, 14 febbraio 2012 PIER PAOLO PASOLINI Valerio Capasa Ma io ho detto e ripetuto più volte che la società italiana di oggi non è più clerico-fascista: essa è consumistica e permissiva. [...] il consumismo altro non è che una nuova forma totalitaria – in quanto del tutto totalizzante, in quanto alienante fino al limite estremo della degradazione antropologica, o genocidio (Marx) – e che quindi la sua permissività è falsa: è la maschera della peggiore repressione mai esercitata dal potere sulle masse dei cittadini. Infatti (è la battuta di uno dei protagonisti del mio prossimo film, tratto da De Sade e ambientato nella Repubblica di Salò): «In una società dove tutto è proibito, si può fare tutto: in una società dove è permesso qualcosa si può fare solo quel qualcosa». Che cosa permette la società permissiva? Permette il proliferare della coppia eterosessuale. È molto e giusto. Però bisogna veder come in concreto ciò avviene. Intanto, ciò avviene in funzione dell’edonismo consumista (per adoperare parole ormai «franche», poco più che sigle): cosa che accentua fino all’estremo limite il momento sociale del coito. Inoltre ne impone l’obbligo: chi non è in coppia non è un uomo moderno, come chi non beve Petrus o Cynar. E poi impone una precocità nevrotizzante. [...] Si direbbe che le società repressive (come diceva un ridicolo slogan fascista) avevano bisogno di soldati, e inoltre di santi e di artisti: mentre la società permissiva non ha bisogno che di consumatori. Al di fuori, comunque, di quel «qualcosa» che la società permissiva permette, tutto è ripiombato – a scorno degli ideali progressisti e della lotta dal basso – nell’inferno del non permesso, del tabù che produce riso e odio. (1 marzo 1975. Cuore – Non aver paura di avere un cuore –, in Scritti corsari, pp. 123-124) Oggi anche nelle città dell’Occidente – ma io voglio parlare soprattutto dell’Italia – camminando per le strade si è colpiti dall’uniformità della folla: anche qui non si nota più alcuna differenza sostanziale, tra i passanti (soprattutto giovani) nel modo di vestire, nel modo di camminare, nel modo di esser seri, nel modo di sorridere, nel modo di gestire, insomma nel modo di comportarsi. E si può dunque dire come per la folla russa, che il sistema dei segni del linguaggio fisico-mimico, non ha più varianti, che esso è perfettamente identico in tutti. [...] La proposizione prima di tale linguaggio fisico-mimico è infatti la seguente: «Il Potere ha deciso che noi siamo tutti uguali». L’ansia del consumo è un’ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia sente l’ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero: perché questo è l’ordine che egli ha inconsciamente ricevuto, e a cui «deve» obbedire, a patto di sentirsi diverso. Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza. L’uguaglianza non è stata infatti conquistata, ma è una «falsa» uguaglianza ricevuta in regalo. Una delle caratteristiche principali di questa uguaglianza dell’esprimersi vivendo, oltre alla fossilizzazione del linguaggio verbale (gli studenti parlano come libri stampati, i ragazzi del popolo hanno perduto ogni inventività gergale), è la tristezza: l’allegria è sempre esagerata, ostentata, aggressiva, offensiva. La tristezza fisica di cui parlo è profondamente nevrotica. (11 luglio 1974. Ampliamento del «bozzetto» sulla rivoluzione antropologica in Italia, in Scritti corsari, pp. 60-61) Perché rapine, rapimenti, criminalità minorili, effettivi coprifuochi, furti, esecuzioni capitali, omicidi gratuiti, sono in concreto «esclusi» dalla logica e comunque mai concatenati? Due ragazzi di diciassette anni a Ladispoli (luogo di villeggiatura della malavita) hanno ferito mortalmente a rivoltellate un loro coetaneo perché non gli aveva dato le candele della sua motocicletta che servivano alla loro: e il «Paese Sera» intitola il pezzo su questo fatto di cronaca Assurdo a Ladispoli. Assurdo forse nel ’65. Oggi è la normalità. Quel pezzo doveva essere intitolata Normale a Ladispoli. Perché questo anacronismo nel «Paese Sera»? Non lo sanno i giornalisti di «Paese Sera» che l’eccezione è trovare nelle borgate romane un diciassettenne senza rivoltella? Perché nessun giornale ha parlato di una sparatoria con mitra, a causa di una «Porche» rubata, avvenuta due o tre sere fa a Tormarancio? Perché nessun giornale ha parlato dei colpi di rivoltella sparati alle gambe di un «giovanotto che fa il culturismo» da un ragazzo di quindici anni che gli ha gridato: «La prossima volta ti sparo in bocca»? Voglio dire: perché la stampa rimuove e fa passare sotto silenzio migliaia di reati come questi (i furti e gli scippi non si contano) che avvengono ogni notte nelle grandi città, trascegliendo fra tali reati solo quelli di cui non si può decentemente tacere? E per di più, sdrammatizzandoli, imponendo all’opinione pubblica un adattamento? (1 agosto 1975. Fuori dal Palazzo, in Lettere luterane, pp. 94-95) I vari casi di criminalità che riempiono apocalitticamente la cronaca dei giornali e la nostra coscienza abbastanza atterrita, non sono casi: sono, evidentemente, casi estremi di un modo di essere criminale diffuso e profondo: di massa. Infatti i criminali non sono i neo-fascisti. Ultimamente un episodio (il massacro di una ragazza al Circeo) ha improvvisamente alleggerito tutte le coscienze e ha fatto tirare un grande respiro di sollievo: perché i colpevoli del massacro erano appunto dei pariolini fascisti. [...] Io penso dunque che anche il massacro del Circeo abbia scatenato in Italia la solita offensiva ondata di stupidità giornalistica. Infatti, ripeto, i criminali non sono affatto solo i neofascisti, ma sono anche, allo stesso modo e con la stessa coscienza, i proletari o i sottoproletari, che magari hanno votato comunista il 15 giugno. [...] La realtà è la seguente: i casi estremi di criminalità derivano da un ambiente criminaloide di massa. [...] 4 Rimini, 14 febbraio 2012 PIER PAOLO PASOLINI Valerio Capasa Che cos’è che ha trasformato le «masse» dei giovani in «masse» di criminaloidi? L’ho detto e ripetuto ormai decine di volte: una «seconda» rivoluzione industriale che in realtà in Italia è la «prima»: il consumismo che ha distrutto cinicamente un mondo «reale», trasformandolo in una totale irrealtà, dove non c’è più scelta possibile tra male e bene. [...] Bisogna ammettere una volta per sempre il fallimento della tolleranza. Che è stata, s’intende, una falsa tolleranza, ed è stata una delle cause più rilevanti nella degenerazione delle masse dei giovani. Bisogna insomma comportarsi, nel giudicare, di conseguenza e non a priori (l’a priori progressista valido fino a una decina d’anni fa). Quali sono le mie due modeste proposte per eliminare la criminalità? Sono due proposte swiftiane, come la loro definizione umoristica non si cura minimamente di nascondere. 1) Abolire immediatamente la scuola media d’obbligo. 2) Abolire immediatamente la televisione. (18 ottobre 1975. Due modeste proposte per eliminare la criminalità in Italia, in Lettere luterane, pp. 165-169) E mi disgustano soprattutto i giovani [...]: questi giovani imbecilli e presuntuosi, convinti di essere sazi di tutto ciò che la nuova società offre loro: anzi, di essere, di ciò, esempi quasi venerabili. [...] Eccoli qui, intorno a me, con un’ironia imbecille negli occhi, un’aria stupidamente sazia, un teppismo offensivo e afasico – quando non un dolore e un’apprensività quasi da educande, con cui vivono la reale intolleranza di questi anni di tolleranza... Accontentarsi di averlo capito? Ma l’accontentarsi di capire implica parzialità e indifferenza. È l’agire che qualifica. E un padre che ama agisce. [...] Io guardo i figli, cerco di capirli e infine agisco: agisco dicendo loro quella che io credo la verità sul conto loro. (Fuori dal Palazzo, «Corriere della Sera», 1 agosto 1975, in Lettere luterane, pp. 92-97) AL SOLE Ho saputo, eccome ho saputo!, che dopo ogni impegno c’è di nuovo il vuoto, e occorre altro impegno: che ogni stato promuove altro stato, e ciò che si è conosciuto attraverso il dolore e lo sdegno si rifà sconosciuto, nel dolore e lo sdegno. (da La religione del mio tempo) Ora, uno dei luoghi comuni più tipici degli intellettuali di sinistra è la volontà di sconsacrare e (inventiamo la parola) desentimentalizzare la vita. [...] il fondo del mio insegnamento consisterà nel convincerti a non temere la sacralità e i sentimenti, di cui il laicismo consumistico ha privato gli uomini trasformandoli in brutti e stupidi automi adoratori di feticci. (Gennariello, pp. 21-22) La loro caratteristica prima – ti ho detto – è il sentimento inconscio che il loro essere venuti al mondo sia stato particolarmente indesiderato. Il sentimento inconscio di essere «a carico» e «in più». Ciò non può che aumentare immensamente la loro ansia di normalità, la loro adesione totale e senza riserve all’orda, la loro volontà non solo di non apparire diversi ma nemmeno appena distinti. Dunque ciò che essi prima di tutto ti insegnano è vivere il conformismo aggressivamente [...]. Essi ti insegnano: primo, la rinuncia [...]. Che è poi ansia di integrazione e qualunquismo. Non temere di essere ridicolo: non rinunciare a niente. La seconda cosa che i «destinati a morire» ti insegnano è una certa obbligatoria tendenza all’infelicità. Tutti i giovani di oggi – tuoi coetanei – hanno l’imperdonabile colpa di essere infelici. A quanto pare, non ci sono più cojoni: se non a Napoli o a Chia. Tutti sono bravi: e dunque tutti hanno la loro brava faccia infelice. Essere bravi è il primo comandamento del potere dei consumi (nel cui universo mentale e di comportamento tu, povero Gennariello, sei nato): bravi cioè per essere felici (edonismo del consumatore). Il risultato è che la felicità è tutta completamente falsa: mentre si diffonde sempre di più una immediata infelicità. [...] Non lasciarti tentare dai campioni dell’infelicità, della mutria cretina, della serietà ignorante. Sii allegro. La terza cosa che ti viene insegnata dai «destinati a morire» è la retorica della bruttezza. Mi spiego. Da alcuni anni i giovani, i ragazzi fanno di tutto per apparire brutti. Si conciano in modo orribile. Fin che non sono del tutto mascherati o deturpati, non sono contenti. Si vergognano dei loro eventuali ricci, del roseo o bruno splendore delle loro gote, si vergognano della luce dei loro occhi, dovuta appunto al candore della giovinezza, si vergognano della bellezza del loro corpo. Chi trionfa in tutta questa follia sono appunto i brutti: che sono divenuti i campioni della moda e del comportamento. I «destinati a essere morti» non hanno certo gioventù splendenti: ed ecco che essi ti insegnano a non splendere. E tu splendi, invece, Gennariello. (Siamo belli, dunque deturpiamoci, in Gennariello, pp. 61-63) 5 Rimini, 14 febbraio 2012 LE CENERI DI GRAMSCI IV Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere con te e contro te; con te nel cuore, in luce, contro te nelle buie viscere; del mio paterno stato traditore – nel pensiero, in un’ombra di azione – mi so ad esso attaccato nel calore degli istinti, dell’estetica passione; attratto da una vita proletaria a te anteriore, è per me religione la sua allegria, non la millenaria sua lotta: la sua natura, non la sua coscienza; è la forza originaria dell’uomo, che nell’atto s’è perduta, a darle l’ebbrezza della nostalgia, una luce poetica: ed altro più io non so dirne, che non sia giusto ma non sincero, astratto amore, non accorante simpatia... [...] VI Me ne vado, ti lascio nella sera che, benché triste, così dolce scende per noi viventi, con la luce cerea che al quartiere in penombra si rapprende. (da Le ceneri di Gramsci) IL GLICINE Io non so cosa sia questa non-ragione, questa poca-ragione: Vico, o Croce, o Freud, mi soccorrono, ma con la sola suggestione del mito, della scienza, nella mia abulia. PIER PAOLO PASOLINI Valerio Capasa Non Marx. Solo ciò che ormai è parola la sua parola muta, non il chiarore, non il buio che c’è prima, povero glicine! Quanto in te vive – e in me per te trema – resta represso gemito di cui non si sa, di cui non si dice. (da La religione del mio tempo) LA GUINEA A volte è dentro di noi qualcosa (che tu sai bene, perché è la poesia) qualcosa di buio in cui si fa luminosa la vita: un pianto interno, una nostalgia gonfia di asciutte, pure lacrime. (da Poesia in forma di rosa) L’ALBA MERIDIONALE Manca sempre qualcosa, c’è un vuoto in ogni mio intuire. Ed è volgare, questo non essere completo, è volgare, mai fu così volgare come in questa ansia, questo «non avere Cristo» – una faccia che sia strumento di un lavoro non tutto perduto nel puro intuire in solitudine, amore con se stessi senza altro interesse che l’amore, lo stile, quello che confonde il sole, il sole vero, il sole ferocemente antico, – sui dorsi d’elefante dei castelli barbarici, sulle casupole del Meridione – col sole della pellicola, pastoso sgranato grigio, biancore da macero, e controtipato, controtipato, – il sole sublime che sta nella memoria, con altrettanta fisicità che nell’ora in cui è alto, e va nel cielo, verso interminabili tramonti di paesi miseri... (da Poesia in forma di rosa, p. 801) Ora Calvino – sia pure indirettamente e col rispetto di una polemica civile – mi rimprovera un certo sentimentalismo «irrazionalistico» e una certa tendenza, altrettanto «irrazionalistica», a sentire una ingiustificata sacralità nella vita. [...] Il nuovo potere consumistico e permissivo si è valso proprio delle nostre conquiste mentali di laici, di illuministi, di razionalisti, per costruire la propria impalcatura di falso laicismo, di falso illuminismo, di falsa razionalità. Si è valso delle nostre sconsacrazioni per liberarsi di un passato che, con tutte le sue atroci e idiote consacrazioni, non gli serviva più. In compenso però tale nuovo potere ha portato al limite massimo la sua unica possibile sacralità: la sacralità del consumo come rito, e, naturalmente, della merce come feticcio. [...] Come polli d’allevamento, gli italiani hanno subito assorbito la nuova ideologia irreligiosa e antisentimentale del potere [...]. In questo contesto, i nostri vecchi argomenti di laici, illuministi, razionalisti, non solo sono spuntati e inutili, ma, anzi, fanno il gioco del potere. Dire che la vita non è sacra, e che il sentimento è stupido, è fare un immenso favore ai produttori. E del resto è ciò che si dice far piovere sul bagnato. I nuovi italiani non sanno che farsene della sacralità, sono tutti, pragmaticamente se non ancora nella coscienza, modernissimi; e quanto a sentimento, tendono rapidamente a liberarsene. Che cos’è infatti che rende attuabili – in concreto, nei gesti, nell’esecuzione – le stragi politiche dopo che sono state concepite? È terribilmente ovvio: la mancanza del senso della sacralità della vita degli altri, e la fine di ogni sentimento nella propria. Che cos’è che rende attuabili le atroci imprese di quel fenomeno – in tal senso imponente e decisivo – che è la nuova criminalità? È ancora terribilmente ovvio: il considerare la vita degli altri un nulla e il proprio cuore nient’altro che un muscolo [...]. Al contrario di Calvino, io dunque penso che – senza venire meno alla nostra tradizione mentale umanistica e razionalistica – non bisogna aver più paura – come giustamente un tempo – di non screditare abbastanza il sacro o di avere un cuore. (1 marzo 1975. Cuore – Non aver paura di avere un cuore –, in Scritti corsari, pp. 126-127) 6