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scarica il programma di sala ufficiale
Luca Micheletti
le folli stagioni
ceci n’est pas un récital
da
Jacques Prévert
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le folli stagioni ceci n’est pas un récital
dalle poesie di Jacques Prévert regia Luca Micheletti scene Luca Micheletti e Valentina Fariello con costumi Fabio Basco Luca Micheletti Lui luci Fabrizio Ballini Claudia Scaravonati Lei Roberto Bindoni chitarra, live electronics musiche originali Roberto Bindoni Walter Beltrami percussioni Roberto Bordiga contrabbasso altre musiche Charles Aznavour, Gilbert Bécaud, Ornette Coleman, Joseph Kosma direttore tecnico Fabrizio Ballini direttore di scena Silvia Martin realizzazione scene Alessandro Andreoli foto di scena Fiorenza Stefani
i tuoi crudeli sortilegi sono soltanto passeggeri e passano come una stagione le disgrazie non arrivano mai sole e portano ignare per mano la felicità
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Le folli stagioni di Luca Micheletti
Le folli stagioni: una commedia “d’amore e d’anarchia”, ottenuta attraverso un montaggio drammaturgico di
alcuni testi di Jacques Prévert; una riscrittura per il teatro di alcune sue pagine più e meno celebri che in origine
non nascono per la scena.
Prima di entrare nella “materia vivente” dei testi e di spiegare il trattamento che hanno ricevuto all’interno
della mia reinvenzione teatrale, credo corra l’obbligo di rispondere ad una domanda che da qualche decennio cerca
una risposta e che, ciononostante, ancora non pare averne trovata una esaustiva. Tale domanda è la seguente che,
coniugata in diversi modi, suona: «Perché Prévert?», o anche «Ancora Prévert?».
Nel 1983, quando Giovanni Raboni si trovò a scrivere l’Introduzione per il volume Guanda che raccoglieva
le versioni di Lamarque dei componimenti della raccolta Soleil de Nuit, si pose proprio questo interrogativo e rispose con un asseverativo e non elusivo «Ma sì, ancora Prévert. E speriamo che nessuno si scandalizzi, che nessuno faccia lo schizzinoso»1. Come spesso avviene alle cose che amiamo molto, ci sentiamo in dovere di difenderle
a spada tratta, forse anche eccessivamente. Prévert, ci si sente in dovere di giustificarlo. È strano, poiché non è
affatto un debole, ma un autore di gran successo, dall’individualità ben definita, con un seguito che per ampiezza
e durata fatica a trovare paragoni nello spettro della poesia contemporanea. Giustificare che cosa, dunque? Forse
quell’eccesso di libertà che risulta sempre sospetto, quell’eccessivo parlare di libertà che – come diceva Brecht a
propostito degli Americani – fa sempre sospettare che «gatta ci covi»2, quel gusto anarcoide per l’imponderatezza,
per la creazione estemporanea – sempre contingente eppure “pericolosamente universale” – della sua poesia dell’istante. Un instant poetry che, come chiosava Raboni in un passaggio che val la pena di rileggere,
non sbaglia un solo gesto, una sola battuta. [Prévert] è subito perfetto, irresistibile come un comico che sa di avere gli spettatori dalla sua, di
tenerli tutti e uno per uno a fior di labbra, a fior di dita; come un illusionista che appende imperturbabile la sua mercanzia colorata (esiste? non esiste?)
sul filo teso della pubblica meraviglia. Che cosa conta che le gag siano sempre le stesse e pressappoco, che fazzoletti e conigli siano già usciti mille
volte dal doppiofondo del suo cilindro? L’importante è la grazia, la tempestività, la leggerezza dell’esecuzione – dietro le quali, sia ben chiaro, non c’è
soltanto un dono raro e squisito, ma anche (e lo si sente, ed è proprio questo, alla fine, a conquistare, a commuovere) un gran peso di esercizio, fatica,
disciplina, una straordinaria abnegazione artigianale, una vita intera passata a lanciare e riprendere al volo parole, milioni di fragilissime parole, senza
mai sbagliare uno scambio o un passaggio, senza mancarne, gualcirne, lasciarne piombare a terra una che sia una… Perfetto. Irresistibile. Un colpo
d’occhio, un polso da grande tiratore; e, insieme, quanta dolcezza! La dolcezza, appunto, dei vecchi, sublimi artisti d’avanspettacolo, capaci di scatenare tempeste d’applausi con un semplice sussurro, un ammicco, un silenzio…3
Questa raboniana “apologia di Prévert” mi pare esprima in maniera magistrale e limpida, affronte dei contradditori sentimenti che l’autore ha potuto ispirare, le ragioni d’un’adesione che, per il poeta italiano si può dire
fosse incondizionata.
Vorrei però che s’appuntasse l’attenzione sopra la metafora teatrale che Raboni sceglie per raccontare l’invenzione di Prévert: egli parla di «gesto», di «battuta», del rapporto tra un «comico» (o, variando, un «illusionista») e i suoi «spettatori», di «gag», di «esecuzione», d’«avanspettacolo», d’«applausi» e infine di «sussurri»,
«ammicchi», «silenzi». Sembra proprio che Raboni stesse parlando d’un drammaturgo e, invece, i rapporti diretti
di Prévert col teatro, se non fugaci, furono corollari rispetto alla sua attività di poeta impegnato semmai più come
sceneggiatore (e che sceneggiatore!, tra Marcel Carné e Jean Renoir) che come scrittore per la scena. Eppure.
Eppure Prévert chiama il teatro: la sua poesia sembra nascere per essere pronunciata; Montale parlò di essa
proprio come di «poesia parlata»4, le «parole» di Prévert sono sempre parole “da dire”, parole messe in gioco,
anche perché, vanno a formare di preferenza dei “giochi di parole”, appunto. Ma non è solo questo. Quel che
maggiormente induce a collocare senza sforzi Prévert e la sua poesia entro il tenebroso e scintillante mondo del
palcoscenico è che, quando scrive, questa canaglia garbata, questo francese di lingua e d’anima, questa penna immaginaria e pure vividissima, riesce a dare vita a vere e proprie realtà parallele. Prévert è un costruttore di mondi,
mondi immensi, fatti di forme aperte, senza fine, a volte senza un fine.
«La realtà è un canile», ha scritto una volta, «dove sogna un grosso cane triste e folle / davanti a un vaso di
aria liquida / dove muore un vecchio pesce volante / che si trasforma nel vuoto / in Alessandro Magno / o in stuzzicadenti / Ed è ben altro ancora / per la gente di cattivo umore / per la gente di cattivo amore / che va in ogni senso /
meno quello dello humour / Del resto nel gergo dei becchini / cimitero si dice / Circo / cioè la piazza / degli Augusti» 5. Ecco: cos’altro ha fatto in quest’incipit – non diverso eppure dissimile da molti altri – se non costruire con le
parole dei diaframmi onirici, mutanti, fluttuanti, delle quinte liquide, si direbbe, in cui inscenare una nuova realtà?
Non parla di teatro, ma usa il circo, “lo spettacolo”, non di meno, come metafora del mondo: un mondo «triste e
folle» come il cane – creatura dell’anarchia: amata, fedele e bastonata – che lo sogna, in un salotto fantastico in
cui convivono Alessandro Magno insieme alle ombre illustri degli «Augusti»: imperatori e clown al contempo,
clown o fools-becchini come quelli di Shakespeare che dissotterrano il cranio del «povero Yorick» compianto da
Amleto. Tutto dipende dall’umore: tutto dipende dall’amore. Nel facile calembour, una elementare dichiarazione
di poetica: il mondo cambia e si crea a seconda di come lo si guarda, di come ce lo si presenta, dal sentimento che
muove la rappresentazione, e cioè da ciò che la anima e da ciò che essa rappresentazione è in grado di suscitare in
chi vi assiste. Il teatro è sempre lì, come metafora del mondo e della vita, e Prévert ne è il regista sapiente. Nel suo
«surrealismo popolare» (Cucchi), Prévert non ha paura di dire e ribadire scopertamente gli espedienti retorici di
cui si serve; la riflessione teatrale – e metateatrale – è perciò affermata esplicitamente in più d’un caso. Uno, tra gli
altri, fotografa la minacciosa scenetta d’un teatro postapocalittico in cui «Sanguinanti, gli attori venivano lanciati
/ contro le scene crollate. // Nella buca del suggeritore suggeriva / il vento, il sipario di ferro calava / arrugginendo
lentamente. // E a tutti gli spettatori, il grande / suggeritore urlava di ridere / in faccia» 6. Ecco: la sgomenta cronaca
della fine del mondo, ambientata, guarda caso, sul ciglio della scena, cui ne fa eco un’altra, che ha per titolo Il suo
spettacolo d’addio, in cui il regista arriva e pronuncia il credo nietzscheano «DIO È MORTO», commentando poi:
«Deplorevole incidente… Lo spettacolo è finito…», e l’autore prosegue narrando di come «mentre gli spettatori
pochissimo sorpresi dalla vecchia e incresciosa notizia si limitano a chiedersi se va presa sul serio o sul faceto, la
Troupe del più gran Great Circus in the world e Altrove smonta rapidamente gli scenari e se ne va senza dimenticare la cassa verso altre regioni per dare nuove rappresentazioni» 7.
D’altronde, se le creazioni del teatro sono figure (in senso retorico) della creazione primigenia, capaci come
sono di dar vita a mondi, a realtà “altre”, nuove o riciclate che siano, allora quella che viene messa in scena, allusa
e presa in giro con affilata ironia nella poesia di Prévert è una sorta di Bibbia degli ultimi, con i suoi angeli (rigorosamente “ribelli”) e i suoi dèi, anzi il suo “Dio”, regista e supremo despota, burattinaio meraviglioso e crudele:
«Dio è capace di tutto» 8. Un luogo su tutti è in grado di spiegare con dovizia di particolari e precisa ricostruzione
storica l’origine (per quanto ritoccata ad arte) della fortunata metafora teatro-come-vita/vita-come-teatro in Prévert.
S’intitola La morte di Pan. In essa, dopo un racconto sul fascino subìto dal fanciullo ingenuo di fronte agli artifici
del palcoscenico, il poeta s’attarda a compilare una lesta rassegna di luoghi topici della metafora che – come osserva Sancho Pancha, debitamente annotato – peraltro «non è molto originale»:
Da bambino, all’Odéon, ho visto rappresentare «La Morte di Pan».
[…] Mio padre, che avrebbe tanto desiderato che diventassi attore, perché questo era un sogno che egli aveva accarezzato per
lungo tempo, mi conduceva spesso dietro le quinte per mostrarmi quel che si chiama il rovescio dello scenario.
Dietro quegli alberi piatti, quel fogliame dipinto, c’erano degli invisibili fili di ferro che sostenevano i rami e dei logori pezzi di
affiches in cui si leggevano ancora gli annunzi di opere rappresentate molto tempo prima e nella quali erano stati raffigurati senza dubbio
degli alberi simili a questi; gli stessi, forse.
Quando cambiava la scena, le quinte si trovavano davanti; mentre dietro i sottili reticolati di ferro si trovavano gli attori e tutta la
scena al rovescio; con le luci davanti a loro e dietro di loro le ombre degli spettatori che applaudivano, gridavano «bravo», soprattutto
quando calava il sipario.
[…] tanti uomini di penna o di cappa o di spada, e tanti poeti perfino, per conto proprio o per persona interposta, hanno identificato, tutti, la vita col teatro:
Una gran commedia, con al centro atti diversi
La cui scena è l’universo.
La vita sarebbe una commedia piacevolissima, se non vi recitassimo nessuna parte.
LA FONTAINE
DIDEROT
L’ultimo atto è cruento, per quanto la commedia possa essere bella in tutto il resto: alla fine si butta della terra sul cranio ed è
finita per sempre.
PASCAL
Sulla scena del tempo di pace, l’uomo pubblico ha il ruolo principale. Sia che lo acclami, o che lo fischi, la folla, in prima istanza,
ha orecchi ed occhi per questo personaggio. D’un tratto la guerra ne tira fuori dalle quinte un altro; lo spinge in primo piano; proietta
su di lui le luci della ribalta: il capo militare è comparso.
CHARLES DE GAULLE
(Au fil de l’épée) […] 9
L’articolo, più lungo di così, ha termine con un monito, detto con la formula sgrammaticata e pleonastica dell’uomo di strada che però, in fondo e forse per davvero, “la sa lunga”: «E a quelli che non vogliono avere un ruolo, che non
vogliono recitare nella commedia e preferiscono vivere liberi, veri, e correre il rischio d’essere felici, un vecchio detto
francese, gli consiglia di starsene nascosti» 10. Il teatro, dunque, più che luogo di rappresentazione della vita, è luogo “di
rappresentanza” della vita, da cui è meglio fuggire, avendo cura di far sì che si smarriscano le proprie tracce, per guadagnarsi una libertà diversa, un respiro pulito, uno sguardo autentico sulle cose?… Questa utopia modesta, ispirata da una
filosofia “de quat’sous”, pare, più che la conclusione del discorso, un lascito sornione d’un teatrante che la propria libertà
è giusto nel palcoscenico variopinto della memoria che ha voluto ricercarla: una libertà di dire, di creare, d’inventare
con limpidissima fantasticheria, barocca e infantile insieme, capace di scrivere nuovi abbecedari per istruire mondi sommersi, in cui astruse speculazioni sull’inconscio e stupidissimi trallallà da canzonetta s’accostano fino a confondersi.
Prévert e il teatro, dunque: ma non solo e non tanto all’insegna della scrittura automatica, dell’invenzione “parolibera”, della spensieratezza iridescente. L’anarchia linguistica di Prévert non è sempre festosa, anzi. A volte essa risponde
ad un’esigenza primaria di militanza “etica”: non dico di quel Prévert “sessantottino”, usato e malversato, che ispira
qualche antipatia e sa inesorabilmente di “vecchio fricchettone”. Dico piuttosto di quel Prévert pensatore che interpreta
alla lettera il motto di Elias Canetti secondo il quale «tra giochi di parole scompare la morte» 11. La militanza etica del
poeta si colloca ad un gradino superiore rispetto ad un dilavato qualunquistico ribellismo antiborghese. Nel suo uso disinibito della letteratura si esplica la cosciente impresa d’un progetto speculativo e umanistico. Esso potrebbe dirsi così: il
tentativo di disvelare, come contraltare dialettico d’una giovinezza sana e limpida, una vetusta oscurità carnale custodita
dalle parole, che avvicina d’un tratto e inaspettatamente la poesia di Prévert alla letteratura di Georges Bataille.
E proprio Bataille, nel 1946, su «Critique», scriveva un lungo saggio sull’amico Prévert12 (che aveva fresco di
stampa il suo successo Paroles), ancora oggi luogo a mio avviso determinante per chiarire il giusto approccio alla sua
opera.
I due si erano incontrati negli anni venti, entrambi protagonisti – e differentemente – del movimento surrealista ed entrambi “dissidenti” e cofirmatari del pamphlet Un cadavre del 1930, critico rispetto alle posizioni di
Breton. Ho parlato più sopra d’una contrapposizione tra giovinezza e vetustà per segnare il rapporto enigmatico di
Prévert con le parole e il progetto umanistico che la sua letteratura custodisce, proprio in una prospettiva che asseconda – lo si vedrà a breve – la posizione ermeneutica che Bataille ha maturato del poeta coetaneo. «Io non esito»,
dice Bataille, «a mostrare l’effetto poetico delle poesie di Prévert risalendo, dai tempi nostri […] indietro fino ai
primi balbettii dell’umanità» 13. Il Prévert “preistorico” di Bataille è un poeta non arginato né arginabile, animato
da un «gusto violento, totale e indifferente che non considera, che non ha paura, che è sempre preda della passione» 14. La parola – fuori dalla storia, eppure in cerca di fondamento, di radici, nella società cui si rivolge e che essa
manda in frantumi – fa eruttare, per dirla col filosofo, il contenuto dell’istante presente. Non si tratta solo e tanto
di «emozioni puerili», ma d’un «modo eterno, di parole vuote, d’occhi bianchi»15. La poesia crea l’istante, ancora
una volta, è capace d’inventare universi: non nasce dall’avvenimento, ma è avvenimento, dà vita al presente, ospita il grido autentico dell’uomo aurorale che si chiede, mentre cerca “di dire” e “un modo per dire”, si chiede “che
cosa può il linguaggio?”. Bataille risponde così: «La miseria della poesia è solo la miseria degli effetti poetici…
Bisogna dunque che la poesia ritrovi il senso della parola, perché nella parola ci sono possibilità indipendenti dal
significato dei termini, cadenze a volontà, rauche o soavi, voluttà di suoni e di ripetizioni di essi, del loro slancio:
questo ritmo delle parole – che può anche essere musicale – ridesta la sensibilità e, agilmente, l’acuisce»16.
In altri termini, certo più corrivi, le parole di Prévert sono parole per i sensi, non per il senso (compiuto). V’è
nelle parole un’anarchia che cerca la propria libera sede nel corpo di chi legge, dice, ascolta le «parole» del poeta.
L’adesione a uno stilema che sarà anche del Bataille narratore diverrà in Prévert sempre più leggibile. Non è questa
la sede per un confronto intertestuale, ma permettetemi di ricordarvi questi versi:
Vampiro di porco chi mangia il sanguinaccio
Chi mangia di tutto può nutrirsi con niente
Carnai e mattatoi
ossari e altari
avi messe solenni dei morti
Fuori
atto carnale senza sermoni né giuramenti
e tra le erbacce
matrimonio s-combinato
orgasmo dei grandi organi del mare e del vento. 17
Sono versi di Prévert; ma esiste forse uno scenario più batailliano? Sembra la descrizione d’un coito animalesco agito con malata ebbrezza dai protagonisti della Storia dell’occhio, presso una chiesa spagnola. E quest’altra
breve canzoncina, sempre prévertiana:
Sulla strada di Denain
Una donna nuda
Che mai nessuno ebbe
Sulla strada di Denain
Un uomo nano
Che nessuna mai volle
Sulla strada di Denain
Quatto quatto
Una notte
Il nano ebbe la nuda. 18
non pare forse il soggetto del celebre racconto di Bataille intolato Il morto in cui il diavolo, un nano lubrico
e ributtante, lavora per possedere l’anima ma soprattutto il corpo d’una giovane vedova che si denuda pubblicamente in una taverna, preda dell’esaltazione dolorosa per la perdita del suo uomo? Non posso continuare su questa
china, ci porta troppo lontano.
Volevo solo attestare con due piccoli esempi come l’incontro tra i due ex-surrealisti sarebbe stato destinato
a replicarsi anche nella condivisione d’una vena ispirativa insospettabilmente condivisa. La differenza profonda
tra i due scrittori fu, probabilmente, questa: Prévert fu poeta, Bataille no. Sembra il ricorso ad un’improvvida e
anacronistica compartimentazione di generi, eppure, in questo caso, mi pare utile per individuare, grazie ad una
riflessione sulle forme, una fatidica alterità d’approccio etico. Compendiamolo così: Bataille abita l’errore, perdendosi senza freni nella propria letteratura, e descrivendolo fino al suo estremo più drammatico, la convulsione
fisica immagine di dannazione spirituale. Prévert, invece, aggira l’errore, l’ostacolo, si traveste, si maschera, a
mezzo d’un’ironia soave, d’un umorismo che, anche quando “nero”, non è mai esiziale. Lo stesso Bataille ha
spiegato, sempre a proposito di Prévert: «l’umorismo […] è il solo modo di evitare l’errore»19, poiché la poesia
esiste quando si rivolta, si ribella contro la poesia stessa, contro se stessa. Mi torna in mente un gioco di parole
che Charles-Ferdinand Ramuz riservò a Igor Stravinskij ai tempi del loro lavoro congiunto su quel capolavoro del
teatro musicale da camera del Novecento, di disturbante semplicità, che è l’Histoire du soldat: «On ne fait de la
poésie / qu’avec l’anti-poétique; / on ne fait de la musique / qu’avec l’anti-musical»20. L’aforisma s’adatta a questa concezione guarda caso “musicale” – o comunque “sonora”, “acustica” – dell’esperienza poetica prévertiana
sub specie batailliana. Per far dell’«anti-poetico» Prévert usa l’umorismo, e scrive, altrove: «Da troppo tempo si
prende lo humour alla leggera, si tratta ora di cominciare a prenderlo alla pesante». Val forse la pena di rivederlo
con più spazio questo umoristico sforzo di definire l’umorismo:
Lodevole impresa
definire ecco tutto
e il resto segue
Bisogna sapere a che cosa attenersi
Ed è davvero ora che i raccoglitori di definizioni mettano l’humour sull’albero per riconoscerlo dai frutti
Da troppo tempo si prendeva troppo spesso l’humour alla leggera si tratta adesso di prenderlo alla pesante
Allora signori definitelo spiegatelo catalogatelo contingentatelo fategli la prova dell’uovo sezionatelo nell’intimo incensatelo inventariatelo arruolatelo raffermatelo ingabbiatelo in marina inquadratelo gerarchicamente passatelo
al setaccio beatificatelo lustratelo senza posa e rilustratelo
Insomma acchiappatelo senza dimenticare di mettergli il granello di sale sulla coda se ne ha una
E quando l’avrete fatta de-fi-ni-ti-va-men-te finita con lui
vale a dire provato didatticamente dialetticamente casisticamente manifestamente e naturalmente poeticamente
che è nonnarrabile disordinario incidivo ponderabile prevedente commensurabile burraschivo denegabile e fremante
e che ha un suo ruolo storico da recitare nella storia
ma che deve smetterla di prestarsi al riso per dare da pensare
E giacché stimabili dotti specialisti hanno dimostrato che il maschese de Sade era soltanto il modesto precursore dei
cristiani progressisti e vostro Signore Gesù Cristo il primo socialista non scordate di dimostrare palesemente che
Gesù Cristo era soprattutto figlio dell’humour
[…] E che risuoni ancora a lungo il grido del coro dei rovistatori di cassetti
Per l’humour di Dio
Non scherzate con l’humour
L’humour è una cosa seria! 21
Se l’umorismo è la chiave privilegiata per raccontare il «grido dell’istante», del resto, esso, da un lato non
cela né annichilisce l’accordo pulsante e animale che vibra nelle parole del poeta in cerca dei sensi, d’un corpo che
le esprima, che doni loro una forma umana e disumana insieme; dall’altra ha, ancora una volta, una destinazione
privilegiata nel teatro, in quella vetrina polverosa da cui siamo partiti, quell’avanspettacolo inglorioso e barbarico
che Raboni eleggeva a perfetta ambientazione per i giochi di parole d’un prestigiatore inimitabile.
Senso e sensi s’incontrano e si scontrano… E dove se non nel teatro si legano indissolubilmente linguaggio
e desiderio, voci e corpi (anche all’insegna se si vuole dell’umorismo, della risata svagata e lieta di chi accorda ai
sensi un primato sulla ragione)? Ecco perché s’arriva all’amore, come tematica elettiva del Prévert più frequentato.
L’amore è l’approdo ultimo di quest’indulgenza estrema, “preistoirica”, accordata ai sensi. Prévert è tra i pochi
che, sfidando ogni deriva post-modernista, può scrivere, a Novecento inoltrato, dell’amore: senza filtri, consapevole della propria follia quanto del rischio che correva d’essere ridimensionato, rimpicciolito e infine impacchettato sotto forma d’aforisma in un cioccolatino. Eppure, non si ferma. Sfrontatamente, dispettosamente, “resiste”.
È celeberrima la battuta di Umberto Eco che fotografa l’atteggiamento post-moderno come «quello di chi ami una
donna, molto colta, e che sappia che non può dirle “ti amo disperatamente”, perché lui sa che lei sa (e che lei sa che
lui sa) che queste frasi le ha già scritte Liala. Tuttavia c’è una soluzione. Potrà dire: “Come direbbe Liala, ti amo
disperatamente”»22. Ebbene, Prévert, che muore nel 1977 a 77 anni, sul limitare della post-modernità, ha potuto
cantare fino all’ultimo giorno il suo ribadito, straziato e non straniato «Serre moi dans tes bras / Embrasse-moi /
Embrasse-moi longtemps / Embrasse-moi / Plus tard il sera trop tard / Notre vie c’est maintenant»23. E non ha corso il rischio che si dicesse: “Come direbbe Prévert, baciami, baciami a lungo, baciami, più tardi sarà troppo tardi,
la nostra vita è ora”. Ha eluso il pericolo imbastendo egli stesso repertori di citazioni che stanno al barnum della
post-modernità come, forse, l’uovo alla gallina.
Ci si può chiedere pertanto: ne sono origine e “figura”, o, invece, è la prospettiva post-moderna che ci ha
spinti ad una lettura di Prévert incapace di adesioni spirituali, che ha dovuto bollarlo come démodé proprio mentre
ne ripercorreva alcune strade, tra umorismo e citazionismo incontrollato, demistificatorio patchwork, “denuncia
per la denuncia” e anarchismo d’accatto? Prévert “post-moderno” o post-moderno “prévertiano”?
Il discorso è ampio e forse destinato a non trovare risposta, come l’interrogativo, appunto, sul diritto di precedenza tra uovo e gallina. Resta il fatto che a Prévert può assegnarsi l’etichetta di “poeta dell’amore” senza timore
d’offenderne l’ispirazione, poiché questa definizione, nel caso suo, s’ammanta d’una sfumatura seria, filosofica.
Se ormai, per noi post-post-moderni, ultra-moderni, ultra-violetti, ultrà, o come vi piace, se per noi intasati di
“moccismo” e pornografia, “poeta dell’amore” dovesse suonare troppo semplice o troppo poco “colto”, si potrebbe dire che Prévert è un “erotologo”. Ma quanto lontani saremmo, dicendo così, rispetto alla sua vocazione all’immediatezza, alla sua chiamata ad un gioco “dell’amore e del caso”, che, proprio come è stato detto di Marivaux,
fa anche di Prévert un finissimo anatomista del cuore, che con la punta d’un bisturi feroce incide nei sentimenti,
senza la pretesa di guarirli, ma con una voglia disperata e gioconda insieme, di esplorarli! Sotto i ferri di Prévert,
chirurgo di corpi di carta, sono passati i mostri surrealisti di Max Ernst e le sghembe Palladi di Picasso, le rauche
corde vocali dell’ultima Édith Piaf e i sopraccigli alzati del post-strutturalismo al gran completo, i pugni chiusi
di piazze troppo poco rosse e i polmoni in metastasi d’intere generazioni andate in fumo, il cuore debole di Boris
Vian e quello muto di Marcel Marceau, gli occhi strabici di Sartre e quelli metaforici di Bataille… Egli non ha
sanato nessuno, si è limitato a incidere il proprio segno, il proprio graffio (o «graffito») sui loro corpi, snudandone
forse qualcosa di segreto, o limitandosi con leggerezza al sadico infantile scervellato piacere di vederli sanguinare,
sorridendo, nel suo “teatro anatomico”.
E allora, venendo allo spettacolo che sulla base di riflessioni prossime a quelle fin qui esposte ho costruito
all’insegna d’un Prévert lontano dai cliché ma anche da astrusi stravolgimenti, posso in breve raccontarvi che il
mio lavoro si è assestato su tre direttrici di ricerca:
1. La prima, che potrei titolare “la chiave critica dello stereotipo”. Mi spiego: per usare un altro termine
teatrale, Prévert fa uso di “repertori” ben precisi. La sua accumulazione di parole libere non procede sbandando
all’insegna della dodecafonia o, se volete, dell’astrattismo. Egli dipinge quadretti “di genere”, traccia schizzi e
caricature ben riconoscibili. In questo fedele alla lezione pre-surrealista di Isidore Ducasse, alias Conte di Lautréamont che decantava la bellezza del famoso «incontro fortuito, sopra un tavolo da dissezione, d’una macchina
da cucire e d’un ombrello», Prévert vuole che sia nell’accostamento casuale d’immagini stereotipate che abbiano
sede la teatralità della sua invenzione e la natura umoristica di essa. Questo, devo dire, ha facilitato le cose. Il teatro
si occupa infatti, com’è noto, di cose infinite a mezzo di cose finite, perciò sarebbe arduo – e nessuno c’è mai riuscito per davvero – riformarlo all’insegna dell’astrattismo. L’alternativa d’individuare un filone diciamo così “narrativo”, fatto di “medaglioni”, era a portata di mano, e l’ho percorsa. Il tema scelto: ovviamente la coppia, come
modello stereotipato appunto (o forse semplicemente “universale”) dell’incontro all’insegna del desiderio: quel
«male» che, come commenta sfrontatamente una delle tante “Eve” di Prévert, viene «fatto bene»24. Una serie di
tòpoi codificati dell’epopea borghese tra il salotto e la camera da letto, tra l’adulterio e la vita coniugale, insomma,
tra Buñuel e Godard mi sono stati utili ad ambientare il fittizio dialogo in versi, berci e canzoni che ho ricostruito
dentro un appartamento come saltato per aria, “aperto” a significati celati sotto le cose di tutti i giorni che lo compongono e che vi si accostano in quanto proiezioni dell’anima prima che utensili domestici. Ma non mi dilungo.
2. La seconda direttrice di ricerca si è fondata sul potere della parola, sul quale ho già ampiamente detto in
rapporto al significato che assume in Prévert; aggiungo solo che la mia drammaturgia non intende, come già ho
accennato, ricostruire un vero e proprio dialogo tra un uomo e una donna messi di fronte alla propria nudità interiore e libertà morale. Il dialogo è in qualche modo un’illusione, un espediente di cui i personaggi si servono per
convincersi di comunicare, mentre non fanno che intonare una lirica monodica, degli assolo che inaspettati, grotteschi, ironici, o magari meschini, dolenti, sognati o vissuti che siano, tentano di restituire un corpo alle parole di
Prévert grazie ad un’unica lunghissima poesia. Non “personaggi in cerca d’autore”, ma “parole in cerca di corpo”,
dunque, dentro ad una vera e propria “farsa del disincanto” in cui si alternano capitoli drammaticamente buffi ad
altri umoristicamente seri.
3. Infine, l’ultimo aspetto su cui s’è concentrata la ricerca drammaturgica è proprio quello musicale. Bataille
lo notava in termini “critici”, Prévert l’ha testimoniato in mille modi: le sue parole, spesso – o forse sempre – sono
in cerca d’intonazione, di musica, di canto. Un tessuto sonoro costante – non invasivo ma non eludibile – accompagna la recitazione de Le folli stagioni: e, talora, si accontenta di scandire percussivamente il ritmo d’una
barzelletta o d’un cantico, talaltra, si espande fino a farsi canzone, e allora, insieme alle composizioni originali,
non dovevano mancare le tappe obbligate della chanson française “d’essai”, quelle che dello stesso Prévert fanno
un protagonista assoluto, in quanto paroliere e animatore della temperie culturale che ha canticchiato sulle note di
Joseph Kosma, su tutti, insieme a Édith Piaf, e poi a Bécaud, Brassens, Brel, Montand, Aznavour… tutti, è chiaro,
ridotti in scala, a misura di citazione; come potrebbe essere altrimenti?
Quello che non volevo fare mi era molto chiaro: non volevo un recital di poesia in cui ci fosse una parola troppo nuda di gesti; né
un balletto, volevo, accompagnato da esercizi di stile d’un dicitore intonato. Quello che volevo, l’ho scoperto via via, era un’esplorazione teatrale del repertorio di trucchi, lazzi e strumenti di tortura di un mago della parola, capace di fare scomparire il “senso” nel fondo
più remoto dei “sensi”, di segarlo a metà come un’assistente impaillettata, per poi farlo riapparire tutto intero, fuori dal teatro, con la
voglia di abitare la realtà diversamente. Perché, in fondo, il buon vecchio “messaggio”, c’è, si può dire, non spaventa più gli “ultrà” che
siamo. È un monito sullo stare a guardare, sullo «spettacolo» della realtà. Vedi vedi, ancora un termine rubato al palcoscenico – e dallo
stesso poeta!, per una sua raccolta celebre: Spectacle. Lo dirò, questo monito, con una poesiola di Prévert che, per far dell’umorismo,
ha giusto la dimensione di un bacioperugina:
Anche se voi
non lo vedete
di buon occhio
il paesaggio non è
brutto
forse
è il vostro occhio
che è cattivo. 25
NOTE
* È qui riportato con minime varianti il testo del mio intervento del 25 ottobre 2012 presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia nell’ambito
della rassegna Letteratura&Letterature coordinata da Lucia Mor e promossa dalla Facoltà di Scienze Linguistiche in collaborazione con il CTB Teatro
Stabile di Brescia. Devo a questa iniziativa e alla sua curatrice il presente tentativo di riassumere e ordinare i “motivi” che mi hanno spinto a comporre
la burlesca e fatidica sinfonia de Le folli stagioni che da anni mi risuona dentro.
1
Giovanni Raboni, Introduzione a Jacques Prévert, Sole di notte, tr. it. Vivian Lamarque, Guanda, Parma, 1983, pp. 11-12: 11.
Cfr. Bertolt Brecht, Dialoghi di profughi, tr. it. Margherita Consentino, Einaudi, Torino, 1962, p. 88.
3
Giovanni Raboni, Introduzione a Jacques Prévert, Sole di notte, cit., p. 11.
4
Cfr. Eugenio Montale, Poesia parlata, in «Corriere della Sera», 5 settembre 1951. Poi in Id., Sulla poesia, a cura di Giorgio Zampa, Mondadori,
Milano, 1997, pp. 402-406.
5
Jacques Prévert, Sole di notte, cit., p. 47, vv. 1-18.
6
Jacques Prévert, Intemperféerie, in Id., Sole di notte, cit., p. 149, vv. 1-8.
7
Jacques Prévert, Il suo spettacolo d’addio [parte IIIa de La trascendenza], in Id., Spettacolo, tr. it. Francesco Bruno, Guanda, Parma, 2003, pp. 53-63:
62-63.
8
Jacques Prévert, Graffiti, in Id., Fatras, tr. it. Luigi Tundo, Guanda, Parma, 1977, pp. 5-70: 17.
9
Jacques Prévert, La morte di Pan [parte di I cani hanno sete], in Id., Fatras, cit., pp. 189-194: 189-191.
10
Ivi, p. 194.
11
Elias Canetti, La rapidità dello spirito. Appunti da Hampstead, 1954-1971, tr. it. Gilberto Forti, Adelphi, Milano, 1996, p. 186.
12
Georges Bataille, De l’âge de pierre à Jacques Prévert, in «Critique», IV-IX, nn. 3-4, agosto-settembre 1946. Ora in Id., Œuvres complètes, 12 voll.,
Gallimard, Paris, 1970-1988, vol. XI [Articles 1: 1944-1949, 1988], pp. 87-106.
13
Georges Bataille, De l’âge…, in Id., Œuvres complètes, cit., p. 99. Tutte le citazioni del saggio batailliano che seguono s’intendano tradotte da chi scrive.
14
Ivi, p. 93.
15
Ibid.
16
Ivi, p. 87.
17
Jacques Prévert, Sole di notte, cit., p. 147.
18
Ivi, p. 21.
19
Georges Bataille, De l’âge…, in Id., Œuvres complètes, cit., p. 95.
20
Charles-Ferdinand Ramuz, Souvenirs sur Igor Strawinsky, in Id., Souvenirs sur Igor Strawinsky. La beauté sur la Terre, Michel Slatkine, Genève,
1986, p. 30: rist. dell’edizione C.-F. Ramuz, Œuvres complètes, 20 voll., Mermod, Genève, 1940-1941, vol. XIV [1941].
21
Jacques Prévert, Definire l’humour (Risposta a un’inchiesta), in Id., La pioggia e il bel tempo, tr. it. Francesco Bruno, Guanda, Parma 2005, pp.
297-301.
22
Umberto Eco, Postille a “Il nome della rosa” 1983, in Id., Il nome della rosa, Bompiani, Milano, 1990, pp. 505-533: 529.
23
Jacques Prévert, Embrasse-moi [parte di Histoires et d’autres histoires], in Id., Œuvres complètes, 2 voll., Gallimard, Paris, 1992-1996, vol. I [1992],
pp. 850-851: 851.
24
Jacques Prévert, Era estate [parte di Adonidi], in Id., Fatras, cit., p. 105.
2
25
Jacques Prévert, Graffiti, in Id., Gran ballo di primavera, tr. it. Francesco Bruno, Guanda, Parma, 1997, p. 19.
Notre vie c’est maintenant…
Luca Micheletti
Regista, attore e drammaturgo, nato a Brescia. “Figlio
d’arte” da quattro generazioni, negli ultimi anni ha
diretto pièces di Ruzante, Molière, Marivaux, Victor
Hugo, García Lorca, Brecht, De Ghelderode, Koltès,
oltre all’Histoire du soldat di Stravinskij/Ramuz e a
diversi copioni suoi. Fra questi, Ritorno a Deepwater è
finalista al Premio Riccione Pier Vittorio Tondelli 2011.
È regista stabile della Compagnia teatrale I Guitti.
Nel 2012 Luca Ronconi lo chiama alla Biennale di
Venezia Teatro per dirigere uno studio su Questa
sera si recita a soggetto di Pirandello. Per il Teatro
di Roma e per ERT Emilia Romagna Teatro lavora
come attore e Dramaturg: è al fianco di Umberto
Orsini ne La resistibile ascesa di Arturo Ui di Brecht
e per questa interpretazione vince il Premio Ubu
2011 come miglior attore non protagonista, è inoltre
in nomination al Premio Le Maschere del Teatro
2011; recita in Nella solitudine dei campi di cotone,
Voci sorde, Sallinger di Koltès, con la regia di Claudio
Longhi. Per il Teatro Stabile di Napoli è Amleto nel
progetto di Hubert Westkemper Giorno di morte
nella storia di Amleto ancora di Koltès. È diretto da
Csaba Antal in Lulu e i sette vizi capitali da Berg e
Brecht/Weill, è inoltre al Festival dei Due Mondi di
Spoleto come protagonista di A piedi nudi nel parco
di Simon. E’ traduttore di Molière, Marivaux, Hugo,
Cocteau, Valéry, Vian (GAM 2008), Ramuz (GAM
2012) e Koltès (Diabasis, in stampa).
Claudia Scaravonati
Cremonese di nascita, fin da giovanissima inizia a
lavorare in teatro come attrice e cantante.
Dopo l’approccio al teatro sociale culminato con la
laurea in Scienze dell’Educazione, e dopo il percorso
formativo avvenuto con Luca Micheletti, ha lavorato
con Teresa Pomodoro allo Spazio Noh’ma di Milano,
con Stefano Mazzonis di Pralafera all’Opéra Royal
de Wallonie di Liegi, con il Teatro Gioco Vita di
Piacenza, al Plautus Festival di Sarsina, con Claudio
Longhi nel Progetto Koltès del Teatro di Roma, ed è
attualmente fra i membri della Compagnia teatrale
I Guitti di Brescia dove, nuovamente diretta da
Micheletti, recita ne Le furberie di Scapino e La scuola
delle mogli di Molière, L’amore quasi una fantasia e
No tiene sangre! di Federico García Lorca, I ciechi e
Il Cavalier Bizzaro di Michel De Ghelderode. Recita
inoltre ne L’uomo dal fiore in bocca e La patente di
Luigi Pirandello e ne La fortuna si diverte da Georges
Feydeau per la regia di Nadia Buizza.
Affianca all’attività di palcoscenico quella di pedagogista
teatrale lavorando nell’ambito della disabilità.
Roberto Bindoni
chitarra, live electronics
Musicista, compositore e improvvisatore nato a Brescia
nel 1975. Dopo il pianoforte, studia chitarra, armonia
e improvvisazione, tra gli altri con Sandro Gibellini e
Walter Beltrami; frequenta i seminari di Siena Jazz e
Umbria Jazz. Si avvicina al jazz contemporaneo, alla
musica sperimentale, a quella etnica e spirituale, alle
colonne sonore. Ha dato vita a Trio Immaginario, trio di
jazz contemporaneo con il sassofonista Matteo Cuzzolin
e il batterista Andrea Polato e ha fondato, con Walter
Beltrami, i Noiser Beautique, formazione di musica
sperimentale/noise che unisce la ricerca melodica a
quella rumoristica. Collabora regolarmente con il regista
e attore Luca Micheletti componendo ed eseguendo musiche originali di spettacoli teatrali (Il pianto
del monte Conto, Luganegària, La disputa di Piuro di
Luca Micheletti, L’amore quasi una fantasia e No tiene
sangre! da García Lorca, Je voudrais pas crever da
Boris Vian). Ha registrato alcuni lavori tra cui: Tu
riesci a sentire il mare, Il racconto di Luny (come
solista) e Danze d’Autunno (con Trio Immaginario).
Si interessa costantemente alla sperimentazione e
comunicazione tra i linguaggi dell’arte.
Walter Beltrami
percussioni
Considerato da MusicaJazz uno dei chitarristi e
compositori più originali del nuovo panorama jazz
italiano, nonché uno dei quattro interpreti che stanno
cambiando il volto della chitarra jazz in Italia, Walter
Beltrami ha studiato al Berklee College of Music di
Boston per poi diplomarsi a pieni voti alla
Musikhochschule di Luzern. Nel 2004 ha vinto il
Premio Incroci Sonori Jazz di Moncalieri, il Premio
Luca Flores come miglior solista italiano ed è stato tra
gli otto finalisti al mondo della First Gibson Montreux
Jazz Guitar Competition a Montreux.
Ha registrato quattro dischi da leader, tra cui il recente
Paroxymal Postural Vertigo (affiancato da icone del jazz
contemporaneo quali Jim Black, Francesco Bearzatti,
Stomu Takeishi e Vincent Courtois) e il precedente
Timoka, omaggio ispirato alla cinematografia di Ingmar
Bergman.
Si è esibito in Festival e Jazz Club in Italia, Svizzera,
Spagna, Germania e Stati Uniti. Ha collaborato e
suonato, fra gli altri, anche con Giovanni Falzone,
Moritz Eggert, Kurt Rosenwinkel, Rainer Tempel,
Markku Ounaskari, Claudio Puntin, Roberto Bordiga.
Lavora da anni anche come percussionista/batterista in
diversi ensemble di musica improvvisata, produzioni
teatrali e con filmmakers.
Roberto Bordiga
contrabbasso
Roberto Bordiga
contrabbasso
Contrabbassista bresciano. Frequenta il corso di
Contrabbasso e Armonia
Jazz del Centro
Professione
Contrabbassista
bresciano.
Frequenta
Musica di Milano, diplomandosi
nel e2004
sotto la guida
Contrabbasso
Armonia
Jazz di
del Centro
Paolino Dalla Porta,
perfezionandosi
poi
con
Stefano
Musica di Milano, diplomandosi nel 2004 s
Pratissoli (Primo Contrabbasso Orchestra Teatro La
di Paolino Dalla Porta, perfezionandosi poi
Fenice), Furio Di Castri e Pietro Leveratto. Suona con il
Pratissoli (Primo Contrabbasso Orchestro
sassofonista Michael Rosen, con i Jazz Habits, aprendo
Fenice), Furio Di Castri e Pietro Leveratto.
il concerto del sassofonista Joshua Redman e con
sassofonista Michael Rosen, con i Jazz Hab
la prima formazione del Walter Beltrami Trio, con
il concerto
del sassofonista
Joshua
Alessandro Paternesi
alla batteria.
Nel 2003 vince
il Redm
prima
Walter
Premio Incroci Sonori
Jazzformazione
di Moncalieridel
con la
nuova Beltrami
Alessandro
Paternesi
alla
batteria.
formazione del Walter Beltrami Trio con Emanuele Nel 20
Premio
Incroci
Sonorialla
Jazz
di Moncalieri c
Maniscalco alla batteria
e Walter
Beltrami
chitarra.
formazione
deldiWalter
Beltrami
Si esibisce inoltre come
supporter
Archie Shepp
ed Trio co
Maniscalco
alla batteria
e Walter Beltrami
incide in cd Walter
Beltrami Trio
- wb3 (Philology
Si
esibisce
inoltre
come
supporter
introducing w715) suonando anche al Metro Jazz
Zone di Arch
cd Walter
Trio - wb3
2004. Ha suonatoincide
nelle in
Combo
ClassBeltrami
di Stefano
introducing
w715)
suonando
anche al Metr
Battaglia, Enrico Rava,
Franco D’
Andrea,
Achille Succi
2004.Si esibisce
Ha suonato
Combo
ed Eugenio Colombo.
inoltrenelle
al fianco
di Class
Francesco BearzattiBattaglia,
(Top JazzEnrico
2011),Rava,
Stefano
Battaglia
Franco
D’Andrea, A
(ECM), Markku ed
Ounaskari
Paolo
Birro, inoltre
Eugenio (ECM),
Colombo.
Si esibisce
Francesco Bigoni, Francesco
Dan Kinzelman,
Giovanni
Guidi,
Bearzatti (Top Jazz 2011), Stefa
Piero Bittolo Bon, Tommaso
Cappellato,
Michele Polga
(ECM), Markku Ounaskari
(ECM), P
e molti altri.
Francesco Bigoni, Dan Kinzelman, Giov
Piero Bittolo Bon, Tommaso Cappellato, M
e molti altri.
compagnia teatrale i guitti
studio arti sceniche
via San Rocco, 57
25039 Travagliato (Brescia)
www.iguitti.com
La lingua di Prévert è strumento inarrestabile di creazione scenica
Con un’ironia inconfondibilmente francese e “patafisica”, la tematica amorosa guadagna tinte
satiriche che si saturano fino al nero, al “noir”, all’ossessione, nel caleidoscopio magico di una
Parigi mitologica continuamente evocata e licenziata dai sogni.
Le folli stagioni:
i furiosi rivolgimenti dello spirito che l’amore innesca, come una stagione, sanno passare;
o lasciare spazio, almeno, ad una stagione successiva:
quella altrettanto magica, benché più dolorosa, del disincanto.
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