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Il doppiaggio come traduzione totale
ISABELLA MALAGUTI IL DOPPIAGGIO COME TRADUZIONE TOTALE Nell’etimo di “doppiare” (doppione, doppiezza) è insito il significato di inganno, simulazione, doppio senso. C’è però anche il senso dell’artificio retorico (raddoppiamento) e dell’ambiguità. Sono tutti significati appropriati a definire ciò che si intende oggi con “doppiaggio” in riferimento al cinema. Il doppiaggio è un trucco, una convenzione, un’arte d’intarsio che si propone di sostituire a voci e parole pronunciate in un certo modo e in una data lingua, altre voci in un’altra lingua, tentando al tempo stesso di mantenere l’illusione di un tutt’uno organico, aggiungendo cioè illusione all’illusione congenita del cinema. È il cinema infatti a costituirsi sulla finzione, ad imporre le sue necessità. “Le colpe del doppiaggio – osserva Comuzio – non sono tanto dei singoli responsabili quanto del sistema: Visconti adopera l’americano Farley Granger per fare il tenente austriaco di Senso, la tedesca Maria Schell per un personaggio ‘livornese’ in Le notti bianche, il francese Alain Delon e la greca Katina Paxinou per interpretare gli immigrati lucani di Rocco e i suoi fratelli, l’americano Burt Lancaster per il siciliano ‘gattopardo”, l’inglese Dirk Bogarde per il musicista tedesco di Morte a Venezia, e così via”1. L’uso di doppiare in modo sistematico i film prima di immetterli nel circuito distributivo nazionale è una peculiarità tutta italiana, una consuetudine che risale alla nascita del cinema sonoro stesso e che distingue il nostro paese dalla maggior parte degli Stati Europei e dagli Stati Uniti, dove i film importati circolano con colonna sonora originaria e con sottotitoli o dove vige il regime di doppia offerta (lo stesso film in versione originale con sottotitoli e doppiata). Hitchcok diceva: “Se si crea il proprio film correttamente, lasciando largo spazio alle emozioni, il pubblico giapponese deve reagire negli 1 E. COMUZIO, Voce/volto. Problemi della vocalità nel doppiaggio cinematografico, “Il Verri”, 1-2, 1983. 74 stessi momenti del pubblico indiano”. Ecco: il doppiaggio deve risolvere esattamente il problema della possibilità universale di comprensione del linguaggio cinematografico dopo l’avvento del sonoro, con l’introduzione del quale (The Jazz Singer, 1927) viene bruscamente meno il mito di un esperanto mimico capace di essere capito dagli spettatori di tutto il mondo. La nascita e la vittoria del “parlato”, infatti, inaugurano una nuova era, in cui la diffusione che sta avendo il cinema come grande spettacolo di massa acquista nuovo spessore. Sono proprio i principi di facile condivisione e divulgazione, e l’idea di aumentare la fruibilità di un film anche facendolo parlare nella lingua del paese in cui verrà visto, ad essere alla base dell’invenzione dell’austriaco Jacob Karol: uno speciale procedimento detto dubbing, secondo cui attori diversi da quelli che hanno partecipato all’edizione originale del film prestano a costoro la voce nell’idioma proprio di ciascun paese. A tal fine, l’adattamento dei dialoghi ha la funzione di “riscrivere” l’opera originale, ovvero di restituire un immaginario “gergale” di una lingua straniera – di per sé un corpo in continua evoluzione – e di rendere disponibile un ordine di idee che tocca le strutture profonde del linguaggio prima e dell’idioma cinematografico poi. Il dialoghista non deve tradurre, ma forzare il patrimonio linguistico di un paese in un ordine di idee diverso, deve importare lo spirito linguistico di un intero retaggio culturale. Per questo, doppiando un film in una nuova lingua si tradisce inevitabilmente l’intento dell’opera originaria, in quanto la nuova lingua è inserita in un contesto socioculturale diverso, che informa diverse percezioni-interpretazioni della realtà. In altre parole, il doppiaggio cinematografico è una scommessa che si regge su una contraddizione: adattare ciò che è peculiare di una cultura, e proprio perché rappresenta quella cultura, ai gusti e alle inclinazioni di una cultura diversa. Il cinema oltretutto, riproducendo a diversi gradi la totalità dei codici che costituiscono i sistemi culturali – linguistico, gestuale, rituale –, quando è esportato viene a trovarsi in una situazione più vulnerabile che potrebbe limitarne le potenzialità. La definizione del linguista francese Cary di doppiaggio come “traduzione totale”2 sottolinea che il problema della traduzione nel 2 Cit. in G. MOUNIN, La traduzione per il cinema, in ID., Teoria e storia della traduzione, Torino, Einaudi, 1965. 75 cinema non riguarda tanto la catena delle parole quanto il tessuto dialettico che le unisce, quell’amalgama di elementi, parole appunto, immagini, suoni e linguaggio scritto che, disposti in un certo ordine dal narratore, sono portatori di istanze sociolinguistiche e socioculturali. La traduzione filmica, in quest’ottica, è un sistema extracinematografico che interviene dall’esterno andando a modificare la stabilità e funzionalità strutturale del film. Per poter intervenire deve necessariamente analizzare la struttura del linguaggio filmico nell’ambito dei suoi parametri di riferimento (particolarmente importanti quelli culturali), in modo da turbare il meno possibile l’equilibrio narrativo e stilistico voluto e costruito dall’autore. Non è infatti solo sul piano delle aree espressive che il cinema è eterogeneo: lo è anche a causa del rapporto di scambio e influenza reciproca che sempre si instaura tra il sistema filmico e tutti quegli elementi esterni presenti nel contesto storico-sociale e nel sistema politicoeconomico di riferimento. In questa prospettiva, affrontare il problema della traduzione per il cinema significa mettere costantemente in relazione la lista dei dialoghi con il significato veicolato dalle immagini e dalla colonna sonora. Significa altresì studiare i rapporti esistenti tra le varie componenti del linguaggio cinematografico ed extracinematografico per fare in modo che il pubblico che segue la versione doppiata, inserito in un contesto culturale diverso, nel quale la componente linguistica è solo una delle diversità, possa usufruire di un prodotto filmico correttamente trasformato e trasmesso. Il meccanismo della ricodificazione filmica inizia con il titolo del film che, inteso come sequenza di segni che circolano nel mondo della pubblicità e della promozione antecedente l’uscita della pellicola sugli schermi, costituisce un luogo del tutto privilegiato nella catena discorsiva del film stesso. Il rapporto tra traduzione e adattamento, infatti, si presenta per diversi paesi sin dalla scelta del titolo. E se a ciò si associa un confronto tra trailers, locandine e recensioni, risulta evidente come tale traduzione contenga anche una non trascurabile valenza pubblicitaria, destinata a realizzarsi attraverso un riassetto che, situando il film entro un diverso mercato culturale, ne ridefinisce l’immagine e la collocazione neutralizzando e potenziando, a vantaggio o a scapito di altre, questa o quella possibile lettura. Basti pensare alla gratuita eroticizzazione a fini commerciali subita da numerosi titoli. Emblematico è il caso di Persona di Bergman, 76 che in Brasile diventa Quando as mulheres pecam (“Quando le donne peccano”). In questo caso la ricca risonanza dell’unica parola costituente il titolo originale – a un tempo psicoanalitica, teatrale e filosofica – cede il posto al sessismo di un titolo la cui lascivia può portare gli spettatori locali ad aspettarsi erroneamente un film sulla scia della tradizione del pornochanchadas brasiliano. La stessa cosa è avvenuta con numerosi altri film: alcune soluzioni emblematiche sono il Domicile conjugal di Truffaut, che in italiano diventa Non drammatizziamo... è solo una questione di corna; il film di Vicente Aranda Fanny Pelopaja – dove pelopaja significa “capelli giallo paglierino” – reso con Passione violenta; il Entre tinieblas di Almodovar – letteralmente Fra le tenebre – che si trasforma nell’evocativo L’indiscreto fascino del peccato. In effetti, dal momento che i titoli pongono degli enigmi e indirizzano il pubblico verso una lettura preferita, cambiare il titolo significa, più o meno sottilmente, modificare tale lettura. Lo shock della rivelazione al culmine emotivo di Psycho, per fare solo un esempio, è severamente compromesso quando il film è intitolato, come in Portogallo, O homen que era mãe (“L’uomo che era sua madre”); o ancora, quando Vertigo viene cambiato in La donna che visse due volte. Ma i titoli non sono le uniche tracce grafiche ad essere presenti in un film; vi sono anche le didascalie, i sottotitoli, i titoli di testa e di coda, e in particolare le scritte che appartengono alla realtà e che il film riproduce fotografandole. Quando le scritte appartengono al piano della storia, ovvero sono interne alla scena (cartelloni pubblicitari, targhe automobilistiche, cartelli stradali, insegne di negozi, scritte sui muri), solitamente la maggior parte di esse non necessita di traduzione ma viene lasciata scorrere come parte della scena e dell’atmosfera del paese “straniero” in cui il film ha luogo. Tuttavia, ci sono talvolta testi scritti che detengono un ruolo chiave e che vengono inquadrati da vicino perché il pubblico possa leggerli (una lettera, piuttosto che una pagina di diario). Scegliere quali scritte devono essere tradotte e quali no e come tradurle – con una voce fuori campo, sottotitoli o una scritta in sovrimpressione –, non è tuttavia così scontato. Ciò, infatti, comporta pur sempre un’aggiunta al film. Nel caso di un giallo, ad esempio, questa aggiunta, sotto forma di traduzione di una scritta in sovrimpressione, può contribuire a portare maggiore attenzione su un particolare, cosa che potrebbe rive77 larsi non desiderabile o addirittura controproducente ai fini della strategia narrativa. Al contrario, può avvenire che la traduzione si riveli indispensabile per una completa trasmissione dei valori culturali del testo di partenza. Uno spettatore di lingua non francese, ad esempio, non è in grado di percepire il gioco tra testo e immagine generato dal materiale scritto che pervade Deux ou trois choses que je sais d’elle di Jean-Luc Godard, un film che può essere a ragione considerato un avallo del dictum di Barthes che “siamo ancora, più che mai, una civilizzazione della scrittura”. Ma veniamo a quello che per il doppiaggio è il vincolo più prettamente tecnico e al tempo stesso più pervasivo, ovvero la sincronizzazione con l’immagine. Il sincronismo riguarda la dimensione del tempo (etimologicamente significa “tempo-insieme”) e deve essere attentamente perseguito per una questione di credibilità dei nuovi dialoghi. Esso infatti ci permette di verificare, osservando le labbra di chi parla, soprattutto quando inquadrato in primo piano e in piena luce, se l’articolazione delle parole udite (vocali e consonanti) combacia con i movimenti labiali e se vi è corrispondenza, sempre a livello visivo e acustico, tra l’inizio e la fine delle frasi, quindi se viene rispettata l’isocronia dei silenzi e dei momenti parlati, tenendo conto del fatto che i ritmi dell’enunciazione variano da lingua a lingua. Se tale sincronismo dovesse venire disatteso, nello spettatore potrebbe verificarsi un distacco anormale tra il pensiero visivo e quello uditivo, e l’estrema difficoltà che si ha ad accettare una percezione distorta genererebbe l’effetto di non credibilità delle azioni degli attanti, fino a far perdere credibilità al film. Pasolini ha riassunto in una immagine assai suggestiva gli effetti in tal senso negativi del doppiaggio: “Delle volte sembra incredibile la distanza che divide lo scoppio del tuono dalla luce del lampo [...] i film specialmente in Italia per via del doppiaggio sono sempre parlati male: e il tuono è una specie di rigurgito o di sbadiglio che zoppica dietro al lampo”. In effetti, l’isocronia delle articolazioni visibili delle labbra non è sufficiente per avere un buon doppiaggio. Tanto più che i movimenti della bocca che non corrispondono a un’articolazione linguistica, come le smorfie, i grugniti, i movimenti pre- o postarticolatori, più o meno mimici, sono più numerosi di quanto non si pensi. Una delle particolarità della scrittura dei dialoghi per il cinema consiste proprio nella ricerca e riproduzione delle caratteristi78 che del parlato. Le persone fanno delle pause, raccolgono i pensieri, ricominciano, si schiariscono la voce, cambiano sintassi. Questi anacoluti sono esattamente quello che rende un dialogo parlato credibile, animato, autentico e umano. Woody Allen, ad esempio, è un inveterato delle false partenze e degli schiarimenti di voce. Balbetta apposta proprio nel mezzo di una frase per fingere insicurezza, cosa che si rivela spesso essere un tipo di comportamento linguistico ironico, associato a una osservazione verbale particolarmente arguta o spiritosa. Non solo quindi il doppiatore dovrà riprodurre questa abitudine, ma anche l’adattatore dovrà comporre periodi che la permettano. È infatti necessario ottenere un’isocronia articolatoria globale, linguistica e non, tra le espressioni mimiche, i gesti e il testo tradotto. Se ad esempio un attore inglese sottolinea la sua battuta “I don’t like that” arricciando il naso sulla sillaba “don’t”, l’attore francese che dice “Je n’aime pas ça” lo farà spontaneamente su “ça”, ovvero all’altro capo della battuta. Analogamente, in tedesco il verbo della subordinata o la negazione, che spesso recano la carica espressiva più forte e saranno quindi sottolineati dal gesto, sono relegati alla fine di una battuta, mentre nella versione italiana vengono riportati accanto al soggetto. Per ovviare a questo problema un piccolo trucco consiste nell’inserire una breve frase retorica, o qualcosa del genere, alla fine della frase italiana così che la gestualità dell’attore sia in qualche modo giustificata. In generale, in tutti i casi di forte discronia fra i ritmi parlati, oppure quando un’idea nella lingua originale è espressa con più parole rispetto alla versione doppiata, si può ricorrere a tutte quelle interiezioni come “bé”, “sì”, “ma”, “bene”, che assumono la funzione di riempitivi. Sono spesso associati alle cosiddette pause piene (“ee”, “ehm”, “mm”), al prolungamento della vocale precedente (in inglese drawling) e ad indicatori di correzione (“cioè” che segue una parola interrotta). Al vincolo tecnico della sincronizzazione, in particolare nel caso di film doppiati dall’angloamericano, è poi riconducibile tutta una serie di stilemi, espressioni, formule chiaramente identificabili che riflettono direttamente il processo traduttivo, lo stabilirsi di equivalenze tra lingua e lingua e la riproduzione passiva di certi modi e andamenti dell’originale. Per fare qualche esempio, si può citare il “già” assertivo del parlato (regionale o elevato, ma certamente non panitaliano) che, per la sua sovrapponibilità articolatoria al “yeah” 79 inglese, lo traduce frequentemente dando vita a un uso spesso poco naturale. Abbiamo poi “sicuro” (“sure”) invece di “certo” o “senz’altro”, “l’hai detto” (“you said it”) con il significato di “proprio così”, “vuoi?” dalla tag question “will/would you”, utilizzata in inglese per attenuare una richiesta all’imperativo, “amico” (“man”) con funzione di vocativo e così via – gli esempi sono numerosissimi. Un ulteriore vincolo a cui il processo del doppiaggio deve sottostare consiste nel rispetto di tutto quel corollario di caratteristiche che ha a che fare con l’articolazione orale, con l’uso concreto che si fa della voce nel modulare l’intonazione, l’intensità, la velocità di pronuncia – cioè nello sfruttare i cosiddetti elementi prosodici del discorso. Possiamo facilmente riconoscere se una voce è melodiosa o gutturale, giovanile o flebile, roca o melliflua, così come possiamo anche discernere un accento dialettale. Risulta forse essere più sottile da comprendere ciò che il parlante fa con la propria voce per veicolare all’ascoltatore informazioni che vanno oltre il contenuto semantico delle frasi. L’intonazione, ad esempio, uno degli elementi di manipolazione prosodica, ricopre un ruolo enorme nella comunicazione, dando spesso vita persino a significati diametralmente opposti a quelli denotativi. L’ironia, il sarcasmo, le allusioni si sviluppano spesso a partire dall’intonazione e sono spesso più efficacemente comunicati attraverso questo mezzo. Anche l’intonazione, quindi, insieme ai refusi fonetici, al volume, al tono ecc., deve essere “tradotta”, in quanto il modo in cui diciamo qualcosa può arricchire, impoverire o addirittura capovolgere il contenuto semantico di una frase. Nella pratica del doppiaggio, ad esempio, i litigi e le dispute verbali tra attori di un film inglese vengono di solito alzati di volume di qualche decibel durante il missaggio sonoro italiano dal momento che un identico livello di volume non comporterebbe per l’audience italiana la stessa intensità di rabbia. Oltre alle costrizioni poste dal sincronismo cosiddetto fonetico, altrettanto importante per un doppiaggio convincente è il sincronismo che riguarda l’armonia tra il timbro, la pausazione e lo stile del discorso del doppiatore, da un lato, e la gestualità fisica e il linguaggio del corpo dell’attore sullo schermo, dall’altro. Il “matrimonio di convenienza” che unisce una voce che si esprime in una data lingua e rappresenta la corrispondente cultura, a un parlante e a un’immagine che provengono da un’altra, dà spesso origine a una 80 sorta di battaglia tra codici linguistici e culturali. Ogni lingua, infatti, porta con sé un corollario di caratteristiche che hanno a che fare con l’articolazione orale, l’espressione del viso e il linguaggio del corpo; addirittura alcune locuzioni sono regolarmente accompagnate, spesso inconsapevolmente, da gesti codificati e movimenti automatici. Inoltre, le norme dell’espressività fisica variano notevolmente da cultura a cultura, tanto che nell’immaginario comune esistono dei veri e propri stereotipi comportamentali. È proprio questo il motivo per cui il rapporto voce-gesto diventa inestricabile: il gesto è complementare al linguaggio ed è linguaggio esso stesso; non si può parlare in una lingua e gestire in un’altra. Sovrapporre una lingua, con il suo sistema peculiare di unire suoni e gesti, a un comportamento visibile associato a un’altra significa generare una specie di violenza e di dislocazione culturale. Relativamente leggera quando le lingue e le culture sono simili, la dislocazione diventa maggiore quando esse sono distanti, sfociando in un conflitto tra repertori culturali differenti. Stocham e Stam3 riportano l’esempio della televisione brasiliana che, come in molti paesi del Terzo mondo, ha un palinsesto basato su una forte programmazione di film e serie televisive americane, nelle quali le star made in USA parlano un fluente portoghese doppiato. La sovrapposizione tra il parlato di Kojak, Colombo e Starsky & Hutch con i suoni del portoghese brasiliano dà luogo a qualcosa di mostruoso, a una collisione tra i codici culturali associati al Brasile – forte affettività, tendenza all’iperbole, vivido accompagnamento gestuale alle parole – e quelli associati al filone poliziesco all’inglese – attenuazione dell’emotività, gestualità controllata, un contegno freddo, duro, inflessibile. Ciò acquista rilievo se si pensa che talvolta il rapporto voce-gesto e l’espressione corporea cambiano drammaticamente per certi gesti più o meno simbolici. Si pensi al fatto che in alcuni Paesi Arabi o in Grecia si muove il capo in senso verticale per dire “no”. O ancora, picchiettare un dito sulla tempia, che negli Stati Uniti indica che qualcuno ha usato il cervello e ha agito intelligentemente, in Germania, ma anche in Italia, di solito significa che una persona è 3 E. STOCHAM - R. STAM, The Cinema After Babel: Language, Difference, Power, “Screen”, 3/4, 1985, pp. 35-58. 81 priva di raziocinio, si comporta dissennatamente: due significati perfettamente opposti. In Italia, per contare con le dita si inizia dal pollice; in America, dal dito indice. Così, quando un americano vuole indicare “due”, l’italiano vede “tre”. Similmente, il movimento della mano che per un italiano o uno spagnolo costituisce un cenno per chiamare qualcuno lontano e fare in modo che si avvicini, ha, per un inglese, lo scopo opposto: quello di scacciare, di mandare via. E in Giappone un’alzata di spalle, un sorriso, una pacca sulla spalla possono assumere significati non verbali totalmente divergenti dalle connotazioni comuni nei paesi occidentali. Ciò è rappresentativo del fatto che l’abitudine, sia essa idiosincratica o culturalmente radicata, di accompagnare l’elemento verbale con qualche tipo di espressione corporea, deve essere tenuta costantemente presente ai fini di una completa e corretta trasposizione culturale, sia in sede di traduzione filmica che di doppiaggio vero e proprio. Il problema extratestuale dell’aderenza obbligatoria all’elemento non-verbale costituito dall’immagine diventa particolarmente spinoso nel caso della traduzione di giochi di parole – che già di per sé sono di difficile resa, in quanto si basano spesso su elementi polisemici o riferimenti culturali –, riferiti o strettamente interrelati al codice visivo. I traduttori di testi letterari possono spiegare l’umorismo all’interno del testo stesso usando parentesi, virgolette o anche niente; possono usare le note a piè di pagina per spiegare su cosa si basa il gioco di parole; possono tradurre la funzione del gioco verbale all’interno del testo o trovarne un altro che si adatti alla funzione dell’originale. Nei testi letterari la “narrazione” visiva non determina la scelta. Nei testi filmici, al contrario, essa interagisce costantemente con quella verbale, tant’è che a proposito del doppiaggio di battute di spirito Varela ha coniato l’espressione “the visual joke”, “il gioco di parole che si vede”4. Nell’impossibilità della nota del traduttore anche per il doppiaggio si deve quindi forzatamente ripiegare sulla riscrittura di nuovi dialoghi, che mantengano però un’equivalenza dinamica con l’originale, che facciano cioè scaturire il riso. Al riguardo, in una famosa scena di Horse Feathers, un film dei fratelli 4 F. CHAUME-VARELA, Textual Constraints and the Translator’s Creativity in Dubbing, in Translator’s Strategies and Creativity, Amsterdam, John Benjamins, 1998, p. 20. 82 Marx la cui comicità oltre ad essere fortemente legata alla costruzione dell’umorismo su basi verbali – omofonie, assonanze, fraintendimenti linguistici – è spesso legata all’azione, a ciò che si vede, a un certo punto Groucho Marx, intento a firmare un contratto, chiede: “Give me the seal!” e cioè “Datemi un timbro, un sigillo”. Ma siccome “seal” in inglese può indicare sia il sigillo che l’animale foca, il solerte Harpo gli mette sul tavolo proprio una foca. Il dialoghista italiano allora, nella fattispecie Sergio Jacquier, dovendo risolvere la battuta se ne è uscito con un geniale “Focalizziamo, focalizziamo!”. Questo è solo un aneddoto, ma al tempo stesso uno degli innumerevoli esempi del fatto che nel processo di adattamento le operazioni di equivalenza sono fortemente condizionate dai molti vincoli che il canale visivo comporta e che la complicazione rispetto ad altre forme di traduzione si origina dalla contraddizione tra il bisogno di mantenere il contesto culturale invariato e la pratica di sostituire il linguaggio che lo codifica. L’adattatore infatti deve sempre fare i conti con attori, luoghi, gesti fissi, attorno ai quali costruire il nuovo testo, che nel film rimane comunque solo un tassello descritto e circoscritto dagli altri tasselli. In generale, qualsiasi discorso sul film e il suo doppiaggio non può prescindere dalla relazione che il suono stabilisce con le immagini, poiché non si vede la stessa cosa se anche la si sente, così come non si sente la stessa cosa se anche la si vede. La dicotomia che informa la messa in scena di La mariée était en noir di François Truffaut è al riguardo emblematica. Se si guardano le immagini, si vede una donna che va da un posto all’altro, incontra degli uomini e li uccide (l’azione è dunque drammatica come quella di un poliziesco). Se si ascolta il sonoro, si sentono conversazioni sull’amore, sul modo in cui gli uomini guardano le donne e non si parla mai di delitti. Probabilmente se la colonna sonora fosse trasmessa per radio gli ascoltatori non potrebbero mai immaginare gli omicidi. Da questo emerge tutto il potere del linguaggio di orientare la percezione, dare forma al modo in cui interpretiamo un’immagine e persino strutturarne la formazione. La stessa lingua ci suggerisce delle metafore che hanno a che fare con la concettualizzazione dello spazio (avere potere significa essere “nelle alte sfere”, al top) e con la spazializzazione delle emozioni (sentirsi triste vuol dire essere “a terra”, mentre essere “su” equivale a dire essere felice). Gli spettatori colgono e comprendono 83 le metafore visive solo se esistono espressioni metaforiche corrispondenti nella loro lingua; se ciò non accade la metafora non viene recepita. A volte l’interazione tra il nesso verbale-visivo diventa strettissima e influisce soprattutto sui movimenti di macchina. Il punto di vista assunto dalla telecamera, infatti, può tradurre letteralmente locuzioni specifiche come “guardare in alto” o “ispezionare”, così che l’impatto visivo scaturisce dalla fedeltà alle rispettive figure retorico-linguistiche. Hitchcock, ad esempio, è un maestro nello sfruttare il nesso verbale-visivo, dando luogo a suggestive soluzioni filmiche. Al riguardo, la sequenza iniziale di Strangers on a train è orchestrata attorno alla traduzione visiva delle espressioni di incrocio e doppio gioco: incrocio di binari ferroviari, gambe incrociate, racchette da tennis incrociate, doppio di tennis, scotch doppio, montaggio alternato come doppio, dissolvenze incrociate. Tuttavia, ad avere la facoltà di strutturare la messa in scena visiva condizionando la scelta dei piani, i movimenti di macchina e il montaggio è soprattutto la parola proveniente dai personaggi sulla scena, la parola dei dialoghi, che concentra la maggior parte dei discorsi e delle informazioni che riguardano lo svolgimento della storia. Innanzitutto il suono al cinema favorisce quasi sempre la voce, la evidenzia, la separa dagli altri suoni. Si tratta naturalmente della voce portatrice di parole, supporto all’espressione verbale, la cui registrazione deve garantire proprio l’intelligibilità delle parole pronunciate. Il suono al cinema, come afferma Michel Chion5, il teorico che più di ogni altro se ne è occupato, è “vococentrico”, incentrato sulla voce, ed essa a sua volta è quasi sempre verbocentrica. Il vococentrismo è cioè la capacità della voce di stabilire attorno a sé – nella vita quotidiana come al cinema – una scala di valori, cosicché la nostra attenzione viene attratta innanzitutto da quel doppio di noi stessi che è la voce di un’altra persona (così come il volto umano non è un’immagine come le altre). In generale, è proprio analizzando la parola dei dialoghi nell’economia della pellicola che il traduttore ha la possibilità di capire quali sono i momenti più adatti per inserire una determinata battuta – se prima o dopo rispetto all’originale –, 5 M. CHION, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Torino, Lindau, 1990. 84 esimersi dalla fedele rispondenza al sincronismo o risolvere il connubio parola-messaggio iconico. Un ruolo diverso e particolare spetta invece alla parola del narratore, sia esso un personaggio diegetico, e cioè appartenente al piano della storia, o un narratore extradiegetico, la cui funzione è quella di rivolgersi direttamente allo spettatore. Tale parola, caratterizzando lo sguardo del narratore sul mondo e sulle cose, si presta meno alla manipolazione e dovrebbe rimanere il più possibile invariata per perseguire un criterio di coerenza con l’originale. Per lo stesso principio, quella che Chion chiama la “parola-emanazione”, posta ai margini dell’azione e non necessariamente comprensibile nella sua integrità in quanto interrotta dall’autore o disturbata da suoni e rumori – la parola del cinema diretto anni ’70 o le “parole-rumore” di Eric Rohmer –, deve essere lasciata intatta, cioè mantenuta così come si presenta nella colonna sonora originale per non incorrere in alterazioni dell’intento autoriale. Alcuni film, necessariamente isolati, hanno cercato di relativizzare la parola utilizzando una lingua straniera oppure mescolando diversi idiomi. In molte scene di La morte a Venezia Visconti si serve del quadro della storia – un Lido internazionale per ricchi stranieri – per mescolare le lingue e intrecciare così ungherese, francese, inglese, italiano. Va da sé che questo procedimento, che si ritrova peraltro anche in Fellini, in più di una scena dei suoi film, fa parte dell’universo poetico dell’autore. L’espediente del poliglottismo, infatti, preclude in parte al pubblico la comprensione del dialogo per spostare volutamente l’accento sulla materialità del linguaggio, sulla voce in quanto suono piuttosto che come veicolo di senso. Svuotata la parola di tutto quanto concerne i contenuti semantici, ciò che resta è la sua “qualità d’immagine”, ciò che spesso, proprio con il doppiaggio, è destinato a perdersi. Le voci, infatti, sono irriducibilmente personali come le impronte digitali: ciascuna voce imprime all’enunciazione una speciale risonanza e colore, e la sua “qualità” concorre in maniera assai netta, accanto alla fisionomia, a definire lo statuto di un personaggio. Dato che al cinema cambiando suono cambia anche l’immagine, col doppiaggio, che è una traduzione da una phoné in un’altra, non si tratta propriamente di dire le stesse cose in un’altra lingua. La sinestesia di tutti gli apporti è il grande sogno del cinema da quando è nato, ma – in 85 una pratica fatta di tante collaborazioni artistiche e tecniche – quella di attingere l’unicità dell’opera d’arte resterà sempre un’utopia. Posto che l’intero edificio del cinema è costruito sull’illusione del vedere e del sentire, questa inattuabilità ontologica si palesa particolarmente nell’associazione tra immagine e suono doppiato. Perciò, pur nell’inevitabile artificiosità della pratica, un adattamento che sia aderente e coerente all’opera di partenza non può realizzarsi se non attraverso un consapevole riassetto dell’intero sistema, in modo tale che la lingua e la scrittura vengano trasformate secondo il disegno preciso del film, tenendo conto del problema delle equivalenze culturali e di relazione. Il parallelismo di immagini e suoni, infatti, non è mai omogeneo, ma presenta una serie di punti critici in corrispondenza dei quali la prossimità tra testo e immagine è sensibilmente più rigida – come nella corrispondenza tra idiomatismi e codice gestuale o tra idiomatismi e metonimie di immagine – sino ad allargarsi a tutti quei problemi sociolinguistici di traduzione delle varietà sociali e geografiche della lingua (intonazioni regionali, dialetti, forestierismi ecc.). I malintesi piccoli e grandi che punteggiano la storia del doppiaggio trascendono così il registro episodico e aneddotico che apparentemente li caratterizza come esempi di infedeltà e diventano specchio di un problema di ben più ampia portata, che si allarga a comprendere i tradimenti e le falsificazioni che il prodotto da doppiare deve inevitabilmente subire. 86