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che da grande andrà alla Columbine
DIREPUBBLICA DOMENICA 6 MARZO 2016 NUMERO 573 Cult SUSAN KLEBOLD CON IL FIGLIO DYLAN NEL GIORNO DEL SUO QUINTO COMPLEANNO © FAMIGLIA KLEBOLD La copertina. La storia dalla parte sbagliata Straparlando. Rosetta Loy, i miei tre amori I tabù del mondo. Il lato Sade della vita Molti anni dopo la strage nel liceo lo straziante racconto della madre di uno dei due studenti-killer SUE KLEBOLD Mio figlio che da grande andrà alla Columbine S 20 APRILE 1999, ORE 12.05 TAVO PER USCIRE dal mio ufficio nel centro di Denver per partecipare a una riunione, quando notai che la luce rossa della segreteria telefonica lampeggiava. Mi fermai ad ascoltare il messaggio, nell’eventualità che la riunione fosse stata annullata, invece era di mio marito Tom. La sua voce era tesa, angosciata. «Susan, è un’emergenza! Richiamami subito!». Non aveva aggiunto altro. Non ce n’era bisogno. Quel tono poteva significare una cosa sola: era successo qualcosa ai ragazzi. Le mani presero a tremarmi così tanto che impiegai un’eternità a comporre il numero di casa. Ero nel panico. Sentivo il cuore pulsarmi nelle orecchie. Dylan, il nostro secondogenito, era a scuola; suo fratello Byron al lavoro. Forse uno dei due aveva avuto un incidente? Tom rispose al primo squillo, gridando: «Accendi il televisore!». Afferrai il senso della frase senza distinguerne nemmeno una parola. Ancora non sapevo cosa fosse accaduto, ma era agghiacciante pensare che la notizia fosse così grave da finire in televisione. >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE VITTORIO ZUCCONI «A CCENDI IL televisore», le disse soltanto la voce del marito al telefono. Oh mio Dio, per che cosa? Una guerra? Il Paese era sotto attacco? Un altro Kennedy? Sue Klebold premette il pulsante del telecomando e precipitò nell’abisso senza fondo nel quale vaga, anima senza immaginabile pace, da diciassette anni. Erano le 11 e 19 del 20 aprile 1999 e davanti ai suoi occhi, sequenza dopo sequenza, Sue percorse la traiettoria degli incubi di ogni madre culminata in un orrore senza nome: il liceo di Columbine dove suo figlio Dylan frequentava l’ultimo anno era sotto l’attacco di assalitori armati con armi da fuoco. Decine di studenti e di insegnanti stavano cadendo sotto i loro colpi. Uno degli sparatori indossava un lungo spolverino nero. Dylan aveva un lungo spolverino nero. Il figlio non era una vittima, come da brava madre aveva temuto. Era uno dei due assassini. «Signore fa che si suicidi», arrivò a pensare. >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE L’attualità. Che fine hanno fatto gli albanesi di Brindisi L’officina. “Domus”, i mille numeri dell’architettura Spettacoli. Attori sì protagonisti no Next. Il radioso futuro del laser L’incontro. Luciana Littizzetto: “Sono una donna fragile, è Fazio quello cinico” Repubblica Nazionale 2016-03-06 LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 6 MARZO 2016 30 La copertina. Columbine Aprile 1999. Due studenti uccidono tredici persone a scuola e poi si tolgono la vita. In un libro uscito ora negli Usa la più terribile delle testimonianze E 1 <SEGUE DALLA COPERTINA SUE KLEBOLD RA SCOPPIATA UNA GUERRA? IL PAESE ERA SOTTO ATTACCO? «Cos’è suc- I DUE ASSASSINI ERIC HARRIS E DYLAN KLEBOLD (A DESTRA), 17 ANNI, IL 20 APRILE 1999 VANNO ALLA HIGH SCHOOL COLUMBINE ARMATI PER UCCIDERE LA STRAGE ALLE 11.19 I DUE RAGAZZI TIRANO FUORI I LORO FUCILI A POMPA E COMINCIANO A SPARARE SUI COMPAGNI DI SCUOLA L’ALLARME VERSO LE 12 SI DIFFONDE LA NOTIZIA: LA SCUOLA È STATA ATTACCATA DA DUE UOMINI ARMATI. INDOSSANO UN TRENCH L’IRRUZIONE ALLE 15.25 LA POLIZIA ENTRA IN BIBLIOTECA DOVE HARRIS E KLEBOLD HANNO FATTO PIÙ VITTIME, PRIMA DI TOGLIERSI LA VITA LE VITTIME IL BILANCIO FINALE DEL MASSACRO È DI TREDICI VITTIME: DODICI STUDENTI E UN INSEGNANTE, OLTRE AI DUE SUICIDI cesso?», strillai nel ricevitore. Mi rispose soltanto l’indecifrabile rumore del televisore in sottofondo. Finalmente Tom tornò in linea. Era come impazzito. Le parole che gli uscivano a raffica dalla bocca erano sconnesse, prive di senso: «Sparatoria... armi... scuola». A fatica, riuscii a ricostruire il suo resoconto. Pochi minuti prima, nel suo studio di casa, aveva ricevuto una telefonata di Nate, il migliore amico di Dylan. «Dylan è lì?», gli aveva chiesto. Già di suo la domanda era allarmante, nel bel mezzo di un giorno di scuola: degli uomini armati avevano fatto irruzione nel liceo Columbine, dove nostro figlio frequentava l’ultimo anno, e stavano sparando agli studenti. E non era finita: secondo Nate, gli assalitori indossavano un impermeabile nero identico a quello che avevamo regalato a Dylan. «Non voglio spaventarla», aveva detto Nate a Tom «ma conosco tutti i compagni che hanno un cappotto simile. Gli unici che non riesco a rintracciare sono Dylan ed Eric. Stamattina non sono nemmeno venuti al bowling». La voce di Tom era carica di angoscia mentre mi raccontava che, subito dopo aver riagganciato con il ragazzo, aveva rovistato ovunque alla ricerca dell’impermeabile di Dylan, nell’irrazionale convinzione che se fosse riuscito a trovarlo nostro figlio sarebbe stato al sicuro. «Sto arrivando», dissi, impietrita dal panico. In macchina, mille interrogativi mi vorticavano in testa. Non pensai nemmeno ad accendere la radio. Riuscivo a stento a tenere l’auto in carreggiata. Dylan è in pericolo. Continuavo a rigirare nella mente quei pochi brandelli di informazioni. L’impermeabile poteva essere ovunque: nell’armadietto di Dylan, nella sua macchina. O magari lo aveva perso. Comunque era solo un cappotto, che importanza poteva avere? Il tragitto pareva non finire mai, come se stessi andando al rallentatore, mentre il mio cervello viaggiava alla velocità della luce e il cuore mi martellava i timpani. Mi ostinavo a scomporre e ricombinare le tessere del puzzle nel tentativo di creare un’immagine rassicurante. Guidando, parlavo da sola, poi scoppiai in singhiozzi convulsi. Non avevo informazioni sufficienti per saltare alle conclusioni, ripetei a me stessa. Il liceo Columbine era enorme, con oltre duemila studenti. Solo perché Nate non era riuscito a rintracciare Dylan non significava che mio figlio fosse ferito o morto. Sforzandomi di tenere a bada il panico, cercai di convincermi che ci stavamo preoccupando per niente. Anche ammesso ci fosse stata una mattina la mia sveglia era suonata alle prime sparatoria, non sapevamo neppure se ci fosse- luci dell’alba. Sapendo quanto Dylan odiasse ro vittime. Eppure la mia mente si ostinava a alzarsi presto, io e Tom avevamo cercato di rimbalzare da uno scenario catastrofico all’al- dissuaderlo dall’iscriversi agli allenamenti di tro. Tom aveva detto che c’erano degli uomi- bowling, che si tenevano alle sei e un quarto. ni armati nella scuola. Uomini armati! Dylan Eppure quella mattina lo avevo sentito scenpoteva essere ferito. Per questo non si riusci- dere le scale e poi passare davanti alla porta va a trovarlo. Era morto o sanguinante da chiusa della nostra stanza al pianterreno, stuqualche parte, in trappola, impossibilitato a pita che fosse già in piedi. Mi ero sporta dalla chiedere aiuto. Oppure era in ostaggio. stanza e lo avevo chiamato. «Dyl?». Dall’oscuMa c’era un’altra idea fissa che non riusci- rità, la voce secca e decisa di mio figlio aveva vo a zittire. Avevo provato un brivido di terro- risposto con un «Ciao». Dylan se n’era andato re viscerale quando Tom aveva fatto il nome con un’unica parola, ma l’aveva pronunciata di Eric Harris. L’unica volta che Dylan si era con un’asprezza che non gli avevo mai senticacciato in un guaio serio era stato con lui. to, quasi un ringhio, come se l’avessi interrotScossi di nuovo la testa. Dylan era stato un to mentre litigava con qualcuno. La tensione bambino allegro e affettuoso, crescendo era che avevo avvertito in quel «ciao» mi gelava il diventato un adolescente tranquillo e con la sangue. Se non era andato al bowling, dove testa sulle spalle. Aveva imparato la lezione, diavolo era stato? mi dissi. Non si sarebbe lasciato trascinare in altre imprudenze. Mi chiesi anche se la tragedia in corso nella scuola non fosse cominciata come uno scherzo, una bravata degli studenti dell’ultimo anno sfuggita a ogni controllo. Di una cosa ero certa: era impossibile che Dylan fosse armato. Io e Tom eravamo così contrari alle armi che stavamo prendendo in considerazione l’ipotesi di andarcene dal Colorado, dove le nuove leggi avevano reso più facile ottenerle. Anche ammesso che un suo compagno avesse potuto concepire un’idea tanto sciagurata, non c’era la minima possibilità che Dylan si fosse lasciato coinvolgere se c’era di mezzo una pistola vera. Continuai così per tutto il viaggio. Avevo davanti agli occhi l’immagine di mio figlio ferito, spaventato e coperto di sangue, alla quale poi se ne sovrapponevano altre più felici: Dylan bambino che spegneva le candeline; o che strillava sfrecciando sullo scivolo per tuffarsi nella piscinetta in cortile. Dicono che prima di morire si riveda ogni istante della propria vita, ma in quei quaranta chilometri fu l’esistenza di mio figlio a scorrermi davanti agli occhi, come la pellicola di un film. A casa, Tom mi riferì quanto sapeva in una serie di frasi sconnesse: una sparatoria nella scuola, Dylan ed Eric ancora irrintracciabili. Non c’erano notizie certe. Ci aggiravamo per casa come giocattoli a molla impazziti,Tom ossessionato dalla ricerca dell’impermeabile, io sconcertata dal fatto che Dylan non fosse andato al bowling. Ripensandoci quella stranezza mi angosciò ancora di più. Quella 2 IL LIBRO IL MEMOIR DI SUE KLEBOLD “A MOTHER’S RECKONING” USCIRÀ IN ITALIA IL 19 APRILE PER SPERLING&KUPFER CON IL TITOLO “MIO FIGLIO” Il mondo, però, non andò davvero in frantumi finché non squillò il telefono e Tom si fiondò in cucina per rispondere. Era un avvocato. Fino ad allora, la mia paura dominante era stata che Dylan fosse in pericolo, che fosse ferito o avesse commesso un’imprudenza, uno stupido scherzo finito male. Tom invece doveva aver preso in considerazione anche un’altra possibilità: l’ipotesi che Dylan avesse commesso un gesto abbastanza grave da E poipregai perché morisse La mamma di Dylan Klebold racconta cosa significa scoprire che il proprio figlio è un killer Repubblica Nazionale 2016-03-06 la Repubblica DOMENICA 6 MARZO 2016 NELLA BIBLIOTECA IN UNA RICOSTRUZIONE IL SUICIDIO DEI DUE GIOVANI NELLA BIBLIOTECA DEL LICEO COLUMBINE: DYLAN SI UCCISE CON UN COLPO DI PISTOLA ALLA TEMPIA SINISTRA, ERIC SI SPARÒ IN BOCCA CON IL SUO FUCILE DA CACCIA 31 Quella domanda alla quale non sappiamo rispondere <SEGUE DALLA COPERTINA VITTORIO ZUCCONI D 3 richiedere l’intervento di un avvocato. L’episodio con Eric risaliva a un anno prima: Dylan, un ragazzo che non ci aveva mai dato preoccupazioni, aveva forzato un furgone e rubato alcune apparecchiature elettroniche. La polizia gli aveva concesso la condizionale: il minimo passo falso gli sarebbe costato un’imputazione penale e una condanna al carcere. Così, al primo sospetto che Dylan potesse aver combinato qualcosa, Tom si era subito messo in contatto con un legale. L’avvocato ci aveva chiamati per comunicarci che l’inconcepibile era accaduto davvero: al liceo Columbine c’era stata un’irruzione di uomini armati che avevano aperto il fuoco. Dylan era uno dei sospettati. La polizia stava venendo a casa nostra. Avevo temuto che fosse in pericolo; ora scoprivo che aveva fatto del male ai suoi compagni. Il mio cervello si rifiutava di crederci. Arrivarono i primi poliziotti e ci scortarono fuori sul vialetto. La giornata era bellissima, il tipico clima che annuncia finalmente l’arrivo della primavera. Quel tempo magnifico mi colpì come uno schiaffo in pieno volto. «Perché la polizia ci tiene qui fuori?», domandai. «Cosa vogliono da noi?». Un agente venne a spiegarci che stavano perquisendo la casa in cerca di esplosivi. Era la prima volta che sentivamo parlare di esplosivi. Non aggiunsero altre spiegazioni, si limitarono a proibirci di rientrare e, tantomeno, di allontanarci. Noi non potevamo saperlo, ma a quel punto Dylan ed Eric erano già morti. La prima squadra d’intervento entrata aveva rinvenuto i loro corpi, circondati da quelli delle loro vittime. Non capivo se ci stessero proteggendo o se ci considerassero pericolosi. Entrambe le ipotesi erano orribili. Infine il detective incaricato dell’indagine ci comunicò che ci avrebbe interrogati uno alla volta. Il mio colloquio avvenne sul sedile anteriore della sua auto. In tono solenne e minaccioso, andò dritto al dunque: avevamo armi, in casa? Quando scesi dall’auto, mi sentivo così fra- 1 IL COMPUTER UNO DEI COMPUTER DELLA BIBLIOTECA COLPITO DA UNO DEI PROIETTILI 2 LA PISTOLA LA SEMIAUTOMATICA TEC-9 USATA DA DYLAN. SPARÒ 55 COLPI 3 I FUCILI SONO STATE LE ARMI PIÙ USATE DA ERIC DURANTE IL MASSACRO gile che temevo di esplodere in mille pezzi. Essendo rimasti tanto a lungo in strada, tagliati fuori dalle notizie dell’ultim’ora, con ogni probabilità ne sapevamo meno di chiunque altro, a Littleton come nel resto del mondo, a pensarci bene. Allora i cellulari non erano onnipresenti come adesso. Restammo fuori al sole, appollaiati sui gradini di cemento. Io e Tom ci scambiavamo i nostri interrogativi con sussurri smorzati. Doveva essere stato costretto da un criminale, o più di uno. Prendemmo persino in considerazione l’ipotesi di un ricatto — la minaccia di fare del male a noi — al quale lui avesse ceduto per proteggerci. O forse era entrato nella scuola credendo che si trattasse di uno scherzo, una specie di rappresentazione teatrale, per poi scoprire all’ultimo minuto che le munizioni erano vere. Se il ragazzo gentile, buffo, impacciato che amavamo tanto aveva fatto una cosa del genere era perché qualcun altro lo aveva ingannato, minacciato, magari addirittura drogato. Restammo là fuori, sul vialetto, sospesi in un limbo, a trascorrere ore scandite soltanto dalla nostra totale confusione e dall’alternanza vertiginosa di speranza e terrore. Poi la porta a vetri si spalancò facendo filtrare il suono del televisore che Tom aveva lasciato acceso nella nostra camera da letto. Rimbombando nel silenzio della casa, il notiziario locale riferì gli aggiornamenti dal liceo Columbine. In quell’istante capii che la grazia più grande che potevo chiedere per mio figlio non era la sua salvezza ma la sua morte. Traduzione di Elena Cantoni per Studio Editoriale Littera A Mother’s Reckoning Copyright © 2016 by Vention Resources, Inc. PBC. This translation published by arrangement with Crown Publishers, an imprint of the Crown Publishing Group, a division of Random House LLC. © 2016 Sperling & Kupfer Editori S.p.A. ©RIPRODUZIONE RISERVATA ICIASSETTE ANNI DOPO, Sue Klebold, la mamma del “mostro”, la donna che mise al mondo, amò, allevò un meraviglioso bambino allegro ha confidato in un lungo memoriale pubblicato ora che cosa si viva dall’altro lato delle cronache dell’orrore. Che cosa significhi scoprire di essere la madre di un ragazzo che ha portato via con sé, e con il complice Eric Harris, dodici ragazzi come lui, e un insegnante, in un doppio patto di omicidio-suicido. E con la sua confessione, riportata nella prefazione di Andrew Solomon, trascina anche noi, genitori e parenti di bambini “normali”, nel gorgo di una domanda alla quale in realtà non sappiamo rispondere: conosciamo davvero i nostri figli? La storia che Sue Klebold racconta e ricorda, spesso aggrappandosi ai volumi di diari che lei ha tenuto dopo quel 20 aprile per cercare di darsi una risposta, è dentro il libro di Solomon dal titolo volutamente provocatorio, “Far from the Tree”, lontano dall’albero, scelto per rovesciare un detto classico: la mela non cade mai lontana dall’albero che l’ha prodotta. Ma se non ci sono dubbi che Dylan Klebold fosse il frutto del legittimo matrimonio fra Sue e Tom Klebold, né lei, né il padre, né il fratello maggiore di “Dyl”, come era chiamato in famiglia, Byron, né l’orda di psicologi, psichiatri, criminologi, neurologi che si sono affannati attorno al massacro di Columbine sanno spiegare in maniera convincente — e rassicurante — come questa mela possa essere rotolata tanto lontana dall’albero. Nella casa dei Klebold, i tavoli, i comò, le pareti, erano testimoni di una vita famigliare da pubblicità di merendine. Dylan neonato con la papalina di lana sul grembo sudato della mamma. Dylan che soffia sulle candeline del quinto compleanno. Dylan sul divano accanto al fratellino più grande. Dylan in uniforme da baseball. Dylan in gita con la famiglia sulle Montagne Rocciose. Dylan con la toga azzurra e il tocco della “graduation” dalla Middle School, la scuola media. Dylan che visita il campus della Arizona State University dove sarebbe andato nell’autunno del 1999, se avesse finito l’ormai quasi concluso liceo. Tutto, nella casa e nel ricordo, racconta una vita d’amore. Non ci sono quei traumi famigliari che sembrano spesso la chiave per aprire il mistero di comportamenti incomprensibili. Tom e Sue erano una coppia apparentemente solida, senza problemi economici, lei dirigente di un ufficio per il ricollocamento dei detenuti (“che mi facevano un po’ paura, quando li incrociavo in ascensore”), lui commerciante di successo. Non ci sono nodi di rivalità fraterne o di emulazioni frustrate, essendo “Dyl” semmai il più bello dei due fratelli, rimorsi di chi si rimprovera di non avere trascorso abbastanza tempo con quella creatura. “Avevo creduto che l’amore potesse salvare tutto e non sono riuscita a salvare mio figlio e tutti coloro che lui ha ucciso”. A differenza di quanto sarebbe accaduto qualche anno più tardi nel Connecticut, a Sandy Hook, dove una disperata madre sola avrebbe cercato di calmare il figlio imbizzarrito e disturbato regalandogli armi solo per vederlo poi irrompere in una scuola elementare e abbattere venti bambini, non c’erano neppure armi, né il Culto della Colt, nella casa dei Klebold. “Avevamo deciso, con mio marito, di trasferirci in un altro Stato, meno fissato con le armi del Colorado, per sfuggire a quell’armeria” annota Sue. Non difende e non accusa nessuno la madre del falciatore di Columbine e certamente non cerca giustificazioni, per sé come per “Dyl”. È sola, nella desolazione dell’ultimo ricordo del figlio che quella mattina di aprile uscì di casa con un brusco “Bye”, ciao, svolazzando via nello spolverino nero. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2016-03-06 LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 6 MARZO 2016 32 © DAMIANO TASCO L’attualità. Profughi Brindisi 6 marzo 1991 Albanesi brava gente In soli due giorni, il 6 e 7 marzo 1991, in ventitremila attraversarono l’Adriatico per raggiungere Brindisi, Lamerica Ad accoglierli fu la gente comune Venticinque anni dopo un fotografo e un giornalista sono tornati per capire che ne è stato di quella solidarietà E perché si costruiscono nuovi muri ‘‘ Un terno al lotto Le scene dei rifugiati che cercano di arrivare in Europa mi chiamano in causa. Il 1991 fu per me un terno al lotto. Ero studente di flauto all’Accademia di belle arti a Tirana. Le lezioni, per via dell’instabilità politica, vennero sospese. Tornai a Durazzo, la mia città, e quando vidi tutte quelle persone al porto decisi di imbarcarmi. Fu una scelta del momento, non meditata. Se fossi tornato indietro avrei perso tutto, non sarei mai diventato un musicista. Forse avrei rischiato il carcere. Mi è andata bene. Oggi suono ancora il flauto e lo insegno nelle scuole. Devo moltissimo a una famiglia di qui, di Brindisi, Cataldi si chiamano. Mi ospitarono nei giorni successivi allo sbarco, sono rimasto a casa loro per anni. Mi hanno trattato come un figlio. Ecco, forse la differenza con i profughi di oggi sta nella solidarietà. Quando partii io, venticinque anni fa ce n’era di più. IL MUSICISTA ARTUR XHERAJ VIVE A BRINDISI, È SPOSATO E HA DUE FIGLI. DOPO AVER PROSEGUITO GLI STUDI A LECCE INSEGNA NELLE SCUOLE Repubblica Nazionale 2016-03-06 la Repubblica DOMENICA 6 MARZO 2016 ‘‘ ‘‘ Ci hanno dato una mano L’unico sbocco possibile Partii da Tirana il 6 marzo del 1991, verso le 13. Le gambe e la testa andavano da sole. Non dissi nulla a mia moglie. La contattai solo dopo l’arrivo in Italia. A Brindisi ci aiutò la gente, prima ancora dello Stato. Un uomo che aveva una salumeria offrì panini a me e ai miei compagni di viaggio. Cercammo di pagarlo, non volle. È un ricordo indelebile, che ancora mi commuove. Eravamo profughi, come oggi lo sono le persone in marcia lungo i Balcani. Non so quanto la nostra e la loro situazione siano paragonabili. Una volta c’erano i muri, ora li stanno ricreando. E forse basterebbe questo a chiudere il discorso. Una differenza però la vedo chiara. Loro vengono umiliati. Noi albanesi, se guardiamo oltre i luoghi comuni diffusi da certa stampa e da certa politica e stiamo a ciò che è accaduto nella vita reale, siamo stati tutto sommato dei privilegiati. Ci hanno dato una mano e ci siamo integrati. Il rock era vietato. Il regime lo dipingeva come un’espressione della decadenza capitalista. Ma io e i miei amici lo ascoltavamo lo stesso, di nascosto. Era il nostro modo di sognare l’Occidente. Nel 1991 volevo la libertà che in Albania non c’era. Non me ne andai perché ero povero. Non stavo male. Da noi certamente non c’era il “benessere”, ma non si moriva di fame. Valeva per me, come per la maggior parte degli albanesi. Eppure nel 1991 tutti noi ripudiammo il nostro paese. Quando ci ripenso mi chiedo come abbia potuto parlare male della mia terra. Dell’Italia, invece, si diceva solo bene. Forse fu davvero l’effetto delle vostre tv che vedevamo a casa nostra. Eravamo un po’ bambini: prendevamo tutto per vero. Ma è riduttivo fermarsi a questo aspetto. L’Italia, più che un mito alimentato dal piccolo schermo, era l’unico sbocco possibile. Nessuno di noi voleva andare in Jugoslavia, tanto meno in Grecia. SU QUELLA NAVE PER RAGGIUNGERE L’ITALIA NEL MARZO ’91 EDUARD SI LANCIÒ IN MARE A DURAZZO E MONTÒ SULLA “KALLMI”. VIVE A BRINDISI era l’estate scorsa, mentre la radio trasmetteva le prime storie degli Esiliati in fuga attraverso i Balcani. Faceva un caldo infernale, avevo alle spalle ventinove giorni di cammino e circa un milione di passi. Venivo via terra, ma anche per me quel porto si chiamava desiderio. Era il mitico capolinea, la mia “Valigia delle Indie”. Entrando in città e, sotto un cavalcavia dalle parti dell’ospedale, lessi una scritta. “Puro razzismo. Via gli immigrati da Brindisi”. Subito pensai alla città che venticinque anni fa ne aveva gioiosamente accolti decine di migliaia. Quella frase non rappresentava certamente il luogo, ma era un sintomo. Chi va a piedi vede cose che l’automobilista ignora. Sente la pancia dei territori. Capisce che aria tira per un forestiero. Non ci sono solo belle storie da narrare. A un tiro di schioppo da San Giovanni Rotondo, le processioni salmodianti per Padre Pio non vedono o fingono di non vedere posti come il Gran Ghetto di Rignano, dove migliaia di immigrati privi di assistenza sanitaria vivono in condizione di schiavitù per la raccolta dei pomodori, in mano al caporalato. La Puglia, terra d’accoglienza, ignora i suoi inferni. Posti come il Ghetto Ghana presso Cerignola, o il Ghetto dei Bulgari che, col Ghetto Cara, sta non a caso a un passo dal Centro richiedenti asilo di Borgo Mezzanone. Cos’è cambiato da quel marzo del 1991? È cambiato che allora eravamo nell’euforia della caduta dei Muri e non si era ancora manifestata la prima tremenda disillusione, il massacro nei Balcani. Vivevamo quei primi arrivi come la “fine della storia”, il trionfo BRINDISI CI SONO ARRIVATO A PIEDI, ‘‘ Avevo vent’anni Lavoravo in una fabbrica di bicchieri a Kavajë, a sud di Durazzo. Quando lasciai l’Albania non avevo neanche vent’anni. Li compii in Italia. Mio fratello, mentre eravamo in viaggio, scaraventò il passaporto in mare. C’era una forma di rifiuto verso l’Albania, volevamo venire a tutti i costi in Italia. Con me non avevo nulla, neanche lo stipendio. Lo lasciai a mio padre, che restò a casa. Quando uscimmo dall’area portuale e andammo in centro, a Brindisi, eravamo confusi e spaventati. Ricordo che c’erano delle sirene che suonavano e noi, ogni volta, ci buttavamo a terra. Io e i miei parenti abbiamo avuto la fortuna di incontrare un ragazzo del posto, Piero, che ci ospitò a casa sua. Eravamo in undici e lui trovò il modo di sistemarci tutti. Con Piero nacque presto una bella storia d’amore. Ancora va avanti: siamo sposati, abbiamo tre figlie e gestiamo insieme una macelleria nel cuore di Brindisi. L’AMORE LEYLA CARA CON LE TRE FIGLIE E IL MARITO PIERO. SI SONO CONOSCIUTI A BRINDISI E INSIEME GESTISCONO UNA MACELLERIA LA FAMIGLIA ARBEN GUXHOLLI, 55 ANNI, PERITO MECCANICO, CON LA MOGLIE E I FIGLI NATI A BRINDISI, DOVE LA FAMIGLIA VIVE DAL MARZO 1991 del nostro sistema. L’Europa dei ricchi contava su una facile annessione dei Paesi dell’ex patto di Varsavia e l’arrivo delle navi assumeva il valore di una gran festa d’accoglienza nei confronti del “buon selvaggio” che porta forza lavoro e riconosce la nostra supremazia. Oggi non è più così. L’Europa perde pezzi, il Mediterraneo è in fiamme, l’Islam fa paura, siamo tutti più poveri, i dubbi sul capitalismo aumentano, la percezione della limitatezza delle risorse è sempre più diffusa. La gente mi dice: che ce ne facciamo di tutti questi cristiani se non ce n’è abbastanza nemmeno per noi? Non è razzismo: è solo paura, dunque xenofobia. Ma la xenofobia, in assenza di risposte, diventa automaticamente razzismo, “albanesi ladri e rumeni spacciatori”. Un clima che fa comodo a molti, perché impaurisce i nuovi venuti e abbassa il costo del lavoro. Figurarsi in posti come la Puglia, terra di ghetti e avamposto di nuove, possibili, massicce ondate migratorie. Ma è cambiato tutto anche al Nord. Quando negli anni Settanta, alle porte di Trieste, una notte di gelo precoce si portò via quattro clandestini del Camerun che avevano passato il confine jugoslavo, per i funerali affluì una folla enorme e commossa dalla città e dai paesi del Carso, con tanto di sindaci e corone di fiori. Oggi, che i clandestini in transito sono migliaia, la gente è diventata indifferente, e i segni di insofferenza aumentano a fronte del silenzio ipocrita delle istituzioni. Poche settimane fa ho sentito un giovane concittadino urlare parole innominabili, senza alcuna vergogna, a una coppia di siriani con un bambino in braccio, che attraversavano la strada a un semaforo. Nel marzo del 1891 un piroscafo dal nome speranzoso di “Utopia”, salpato da Trieste per l’America con 880 emigranti italiani e centro-europei, affondò dalle parti di Gibilterra portandosi dietro 562 vite, tra cui numerosi bambini. Anche noi siamo salpati in cerca di fortuna. Anche noi siamo finiti sotto il grande sudario del mare. Ma non se ne ricorda più quasi nessuno. GLI AUTORI IGNACIO MARIA COCCIA È L’AUTORE DEL SERVIZIO FOTOGRAFICO CHE VEDETE PUBBLICATO IN QUESTE PAGINE. A RACCOGLIERE INVECE LE STORIE DEGLI “ALBANESI DI BRINDISI” È STATO MATTEO TACCONI ©RIPRODUZIONE RISERVATA ‘‘ In linea d’aria Sono originario di Lushnjë. La mia era una famiglia anticomunista. Due nostri parenti furono fucilati negli anni Cinquanta. Quando sentii che c’erano navi in partenza per l’Italia corsi subito a Durazzo. A Brindisi dormii sulla banchina. Poi ci alloggiarono in un magazzino, dopodiché ci spostarono in un campo profughi in Sicilia, poi lavorai come cameriere in Campania e infine me ne tornai in Salento. Fin dall’inizio avevo capito che era questo il posto dove avrei dovuto vivere. Forse il fatto che in linea d’aria siamo vicini all’Albania mi dà conforto. Per integrarmi qui in Italia ho usato il lavoro. È solo il lavoro che ti permette di guadagnare non soltanto di che vivere ma soprattutto il rispetto delle altre persone. Oggi sono un rigattiere ma faccio anche traslochi. E poi la sera me ne vado nei locali con la mia fisarmonica a raccogliere mance. Ho imparato a suonarla in Albania. © IGNACIO MARIA COCCIA A PAOLO RUMIZ 33 CON LA FISARMONICA “GIANNI” LUMI IN ALBANIA FACEVA L’OPERAIO. GIRA IL SALENTO FACENDO PICCOLI TRASLOCHI E SUONANDO LA FISARMONICA Repubblica Nazionale 2016-03-06 LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 6 MARZO 2016 34 L’officina. Made in Italy P Dal Pirellone al cavatappi Alessi da ottantotto anni racconta al mondo le forme di abitare case, strade e città E così “Domus” ora festeggia il suo numero mille LE IMMAGINI LA COPERTINA DEL PRIMO “DOMUS” (1928, DIRETTORE GIÒ PONTI) ACCANTO AL NUMERO MILLE CHE SARÀ PRESENTATO IL 10 MARZO ALLE 18 ALLA TRIENNALE DI MILANO. SOPRA, UN EDIFICIO PROGETTATO DA ADALBERTO LIBERA (LIDO DI OSTIA, 1935) MAURIZIO BONO MILANO ER TROVARLE CI VUOLE UN PO’ di senso dell’orientamen- to e fortuna col meteo (evitare le giornate di foschia), ma ci sono molte finestre milanesi oltre il decimo piano da cui si possono vedere con un colpo d’occhio due simboli dell’architettura contemporanea: la “brutalista” (come si diceva allora) Torre Velasca di Ernesto Nathan Rogers (1957) e il grattacielo Pirelli (1960) di Giò Ponti. Ecco, la durata e il peso di una rivista come Domus, che a giorni compie mille numeri in ottantotto anni, si può stimare anche da lì: Giò Ponti la creò nel 1928 e la diresse per tredici anni tra le due guerre e di nuovo per altri ventotto, dal 1948 al 1976. Ernesto Nathan Rogers fece molti meno numeri e qualcosa di più: la rimise sui binari dopo l’unico suo deragliamento dall’appuntamento periodico, quando aveva cessato brevemente le pubblicazioni tra il 1945 e il 1946. Del resto, ad avere una vista d’aquila, dall’alto si potrebbero scorgere, dei diciassette direttori della rivista (a volte tre insieme come in piena guerra lo scrittore Massimo Bontempelli e gli architetti Melchiorre Bega e Mario Pagano, che assunse l’incarico da progettista amato dal regime nel 1941 e lo perse l’anno dopo dimettendosi dal partito fascista per morire da partigiano nel 1945 a Mathausen) altri edifici importanti, come il Portello del decimo (Mario Bellini, 1979-1984) e il Bosco verticale del quattordicesimo (Stefano Boeri, 2004-2007). Vero è che certi architetti hanno il privilegio di realizzare creazioni che restano e si vedono da lontano, ma il punto non è lì. Perché l’ottavo direttore di Domus (per due giri: 1979-1984 e 2010-2011) Alessandro Mendini, per esempio, è un grandissimo designer, dai cavatappi per Alessi alla Poltrona Proust; altri sono storici dell’urbanistica come Vittorio Magnago Lampugnani (l’undicesimo,1992-1996), o critici d’arte e d’architettura. Il punto è che Domus ha sempre avuto la specialità di usare grandi talenti, italiani e internazionali, per impaginare il racconto del modo di abitare le case e le città lungo nove decenni, da quando telefono e luce elettrica erano novità non ancora alla portata di tutti fino ai grattacieli e alla domotica. Un’autorevole rivista élitaria e specialistica di settore, per riuscire a tanto ha tre vie. La prima è essere militante, che fa quadrato sulle proprie idee. La seconda, sotto sotto perfino più ambiziosa, è rappresentare le idee nuove e buone di tutti. La terza è fare come Domus: fare l’una e l’altra cosa insieme, a costo di litigare quasi di continuo e vivere di contrasti tra un’annata e l’altra e tra una direzione e l’altra. Come è stato perfino istituzionalizzato da quando, lo racconta nel numero mil- GIUSEPPE TERRAGNI. PROGETTO DI CASA SUL LAGO (1944) L’architettura passata in rivista le Giovanna Mazzocchi, è stato deciso di cambiare direttori spesso e con la loro direzione lo sguardo sulle cose. Deciso da chi? Dall’editore, che è l’altra caratteristica unica e permanente di Domus. Dal primo, Gianni Mazzocchi, che Enzo Biagi ricordava dicendo «nessuno ha inventato tanti giornali quanto lui» (oltre a Domus, Fili, Quattroruote, Italia Libera, L’Europeo di Arrigo Benedetti, Il Mondo di Mario Pannunzio) all’ultimo, che è la figlia subentrata a Gianni Mazzocchi alla sua morte nel 1985. Facendo da timoniere quando nel ruolo del capitano ci sono personaggi troppo indaffarati con la propria creatività per fare un giornale, ma fortunatamente anche per voler dedicare eccessiva cura a selezionare tra buone idee della propria scuola e buone idee della scuola degli altri. Così per mille numeri in Domus è entrato e di lì è rimbalzato anche negli ottantanove paesi in cui la rivista è diffusa, quasi tutto quello che di nuovo si muoveva nel mondo dell’architettura. Farne l’elenco è inutile e noioso: è online l’archivio digitale, dal primo numero con la copertina blu del 15 gennaio 1928 (abbonamento al costo medio di un solo volume patinato di architettura). Ci sono tutti: dalla “a” di Alvar Aalto alla “z”di Zaha Hadid. E più ancora dei nomi e dei progetti, in quella grande miniera di superficie, scavabile per tesi e ricerche o anche solo per ripasso, c’è l’evoluzione dell’architettura e del modo di vivere fino a oggi. Ci sono il razionalismo italiano e il modernismo internazionale prima della guerra, c’è il primo dopoguerra d’Italia e d’Europa con lo spostamento dell’attenzione dall’Architettura e arredamento dell’abitazione in città e in campagna, come suonava il primo sottotitolo della testata, alle dimensioni dell’urbanistica sociale. C’è il ventennale confronto con il postmodernismo e, nel 1977, l’irruzione sulla scena dei musei e della loro concezione della machine à penser Beaubourg progettata da Rogers e Piano a Parigi. C’è, più in generale, il riflesso della lunga marcia del gusto che nell’Italia del miglior design industriale del mondo si affranca dal provincialismo ma fatica di più a superare pregiudizi anche ideologici (e di rado infondati) verso grandi progetti, grandi firme, grandi opere. C’è l’incontro tra arti visive, architettura e innovazione digitale. C’è infine la stagione degli architetti superstar e — siamo all’oggi — quella del suo ripensamento in corso: il premio Pritzker quest’anno è andato all’architetto cileno Alejandro Aravena che inventa case modulari per le favelas, l’inglese Turner Prize agli artisti Assemble che come sensibili bricoleur restaurano quartieri dismessi, in rete con gli abitanti volonterosi. Perfino dalla Cina, che fino al rallentamento dell’economia sembrava un po’ in ritardo nell’emanciparsi dall’incanto delle forme spettacolari importate dai più visionari studi d’Occidente, arrivano invocazioni a un design più attento alla realtà sociale. Il futuro non è mai come lo si aspetta, anche in architettura. Per questo ci vuole sempre chi lo racconti, dall’interno, man mano che succede. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2016-03-06 la Repubblica DOMENICA 6 MARZO 2016 35 Un mistero su carta patinata STEFANO BOERI «B ENVENUTO alla guida della Rolls Royce dell’architettura». Eppure quel saluto di Deyan Sudjic nel settembre 2003, al momento di passarmi le consegne per la direzione, non mi era bastato per capire il mistero di “Domus”. Quello di una rivista specializzata e internazionale che era passata indenne per le mani di svariati direttori e redattori e autori senza perdere nulla della sua potenza distintiva. La verità è che “Domus” non è mai solo stata una bellissima rivista patinata, con celebri copertine, grandi immagini e un formato coraggiosamente rimasto ingombrante. “Domus” è stata, fin dall’inizio, un caleidoscopio. Sfogliarla, entrarci ha significato per intere generazioni di architetti, artisti, intellettuali, scoprire ogni volta la natura eteronoma del fare architettura. Le pitture decorative che punteggiavano la “Domus” di Ponti, le fotografie di viaggio di Sottsass nella “Domus” di Mendini, le mappe geopolitiche in quella di Grima, sono solo alcuni dei tantissimi materiali eclettici che dal 1928 a oggi, una schiera di redattori coscienziosi e competenti ha riprodotto e impaginato con una inusuale e sempre eccellente resa grafica. Nel suo palcoscenico abbiamo visto scorrere le correnti dell’arte e le preoccupazioni della sociologia urbana, le “arti applicate” e la moda, le scenografie teatrali e la prosa, il cinema e la violenza della cultura pop. Un mondo di suggestioni, forme, ispirazioni di cui l’architettura si è sempre nutrita con famelica e a volte onnivora vena su “Domus” diventava e diventa protagonista: sempre in primo piano e sempre ricondotto al suo ruolo di alimento fondamentale per il fare architettura, per fare design. Nella grande sfida per far vivere al lettore gli spazi e le atmosfere di architetture e oggetti che nella sua vita forse mai percorrerà con i suoi passi e vivrà con i sensi, “Domus” ha scelto la strada più ripida e appassionante. Quella di raccontare come tutte le architetture e le opere di design che il mondo ospita non sono mai solo frutto di una specializzazione tecnica, ma anche sempre di quel movimento inclusivo, di apertura selettiva, che distingue gli architetti sensibili dai riproduttori in serie di stilemi ereditati. Ogni architettura non è infatti solo un minerale duro come un sasso infisso nel terreno in qualche parte nel mondo; è anche un potente scrigno di memorie e di idee, di suggestioni e di emozioni che nascono nella sfera intima del suo autore e rivivono in quella interiore del lettore. Ed è proprio il ponte di sensazioni che una rivista costruisce tra autore e lettore, a dare valore di architettura a manufatti che altrimenti sarebbero solo un insieme di pietre e vetro e acciaio e cemento. Il mistero di “Domus” è forse quello di non rappresentare fedelmente l’architettura, ma piuttosto ogni volta di interpretarla. Con il rigore, la qualità, la ricchezza di un caleidoscopio di 24,5 x 32,5 centimetri di pagine di carta, patinata lucida, 300 grammi. KISHO KUROKAWA. CAPSULE TOWER, TOKYO (1973) ©RIPRODUZIONE RISERVATA RENZO PIANO E RICHARD ROGERS. CENTRE POMPIDOU, PARIGI (1977) Repubblica Nazionale 2016-03-06 LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 6 MARZO 2016 36 Spettacoli. Ciak, si giri Sul recitare all’ombra delle star uno di loro ci ha scritto un libro Altri potrebbero anche farci un film Cronache da un mestiere reale FRANCO MONTINI L ROMA A DOMANDA CHE SI SENTONO FARE più frequentemen- te è: eppure io la conosco, ma dov’è che l’ho già vista? Oppure, più spietatamente: l’ho vista in televisione (o era al cinema?), ma esattamente che cos’è che ha fatto? È il destino dei non protagonisti. Attori e attrici apparsi in una miriade di fiction e film, volti familiari, professionisti preparati, interpreti di sicuro affidamento, capaci — a differenza dei caratteristi specializzati in un prototipo — di passare con assoluta naturalezza e credibilità da un ruolo all’altro. Eppure immancabilmente destinati a ruoli minori. E quando una loro interpretazione si fissa nella memoria collettiva è anche peggio. Perché in quel (raro) caso sull’attore vince il personaggio e allora è con quest’ultimo che si viene identificati per sempre. Come scrive Ninni Bruschetta nel suo Manuale di sopravvivenza dell’attore non protagonista, «se interpreti un personaggio che ti cambia la vita, quello è per te il nemico da temere: perché, inevitabilmente, tu sei lui e lui è te». Per strada mi chiamano “Maestro” Ecco, uno come Ninni Bruschetta per esempio. Sessantatré anni, messinese, per molti è e resterà Duccio, il direttore della fotografia di Boris, anche se è stato il più giovane direttore di un teatro pubblico, e ha firmato qualcosa come oltre trenta regie teatrali e ha lavorato in decine di film e fiction tv. Per dire: è Magno, il cinico ministro di Quo vado?, è il dottor Iovine de La squadra ed è stato Alfiere nell’Ultimo padrino: «Che ci vuol fare, il lavoro è poco e le paghe basse, bisogna accettare tutto, anche facendo i salti mortali e viaggiando da un capo all’altro dell’Italia, combinando incastri impossibili per girare tre pose di una fiction, una partecipazione con Zalone, un instant movie sull’immigrazione. Il tutto con l’incubo che più il ruolo è bello e complicato, maggiori sono le probabilità che venga tagliato. Perché? Perché potrebbe interferire con il ritmo del film. E così alla fine devo dire grazie a Boris se oggi per strada mi chiamano “maestro”. Sì, maestro. Addirittura me lo urlano mentre passano in macchina: “Maestro!!!”. Ma è tutto per una battuta della terza serie: “Maestro, gradisce un po’ di cocaina?”. Mi chiedo ancora se si tratti di veri fan o di semplici cocainomani». Un ruolo perfetto NINNI BRUSCHETTA È DUCCIO, DIRETTORE DELLA FOTOGRAFIA IN “BORIS”, L’AGENTE ALFIERE IN “SQUADRA ANTIMAFIA” E MAGNO IN “QUO VADO?” Andrea Tindona, altro non protagonista. Classe 1951, dal teatro di Strehler al portiere del Grand Hotel de La vita è bella, dai Cento passi (il pittore) a La meglio gioventù (il patriarca della famiglia Carati), dal Rocco Chinnici de Il capo dei capi al dottor Alfredi di Braccialetti rossi fino al Carmine Fazio de Il giovane Montalbano. «Lo so bene che il pubblico mi ama, peccato che non sappia come mi chiamo. E tuttavia la cosa non mi sconvolge: la mia passione è mascherarmi, evitare il cliché, vivere tante esperienza diverse, dimostrare di potermi calare in qualsiasi personaggio. Lo sa? Credo di essere l’unico attore siciliano che ha recitato anche in napoletano, genovese, emiliano (di solito accade il contrario, perché mentre tutti possono recitare in siciliano se sei nato sull’isola non ti fanno fare personaggi di altro tipo). E comunque: se ti piace recitare il ruolo da non protagonista è perfetto. Perché recitare, solo questo è quello che ti viene chiesto di fare». Basta non farsene un cruccio ANNA FERRUZZO HA RECITATO IN “BRACCIALETTI ROSSI”, “QUESTO È IL MIO PAESE”, “MIO DUCE TI SCRIVO” E NE “IL SINDACO PESCATORE”. SEMPRE NON PROTAGONISTA «Ma certo che se avessi la sindrome della notorietà avrei scelto di fare altre cose». Tarantina, cinquantenne, Anna Ferruzzo (ha lavorato in Braccialetti rossi, Questo è il mio paese, Mio duce ti scrivo) conferma lucida e serena: «E poi, scusi eh, ma crede che non lo sappia che oggi garantisce più visibilità una comparsata in certe trasmissioni tv che una seria e professionale attività d’attore? Però non me ne faccio un cruccio, tutto qua». Sempre i soliti noti ANDREA TINDONA ERA IL PORTIERE DEL GRAND HOTEL NE “LA VITA È BELLA”, IL DOTTOR ALFREDI IN “BRACCIALETTI ROSSI” E ATTILIO IN “BUTTA LA LUNA” LIDIA VITALE HA RECITATO NE “LA MEGLIO GIOVENTÙ”, “LA BELLEZZA DEL SOMARO”, “TUTTI CONTRO TUTTI”, “MEDICINA GENERALE” Un lavoro misconosciuto Poche pose poco tempo Non se ne fa un cruccio neppure Luisa De Santis, figurarsi, settantenne romana, figlia del regista Giuseppe De Santis. Ne Il caimano di Moretti era Marisa, la segretaria di Silvio Orlando; in tv, ancora come segretaria, è l’indimenticabile assistente sfigata e cialtrona di Gigi Proietti ne L’avvocato Porta. «No, non mi lamento neppure io della mancata popolarità, ma delle condizioni economiche sì che mi lamento. Stanno diventano ogni giorno più disastrose! E poi i registi: ci costringono a studiare in solitudine il personaggio che c’hanno affidato perché sul set il tempo che ti viene dedicato è direttamente proporzionale al numero delle pose». Di produttori e registi parla anche Lidia Vitale, quarantenne e romana. È stata la sorella di Lo Cascio e Boni ne La meglio gioventù, Delfina ne La bellezza del somaro, la moglie di Giallini in Tutti contro tutti, il cardiochirurgo di Medicina generale, Stella Lamberti in Baciato dal sole: «Semplicemente mi piacerebbe che dimostrassero maggior coraggio, senza dover ricorrere sempre ai soliti noti. Del resto da noi sembra essere tutto irrimediabilmente immutabile, imbalsamato. Mentre negli Stati Uniti si porta il cinema in televisione, in Italia, spesso e volentieri, si fa televisione al cinema». LUISA DE SANTIS È LA SEGRETARIA DI SILVIO ORLANDO NE “IL CAIMANO” DI MORETTI MA ANCHE DI GIGI PROIETTI NE “L’AVVOCATO PORTA” «Il nostro vero problema è un altro. È che mentre un protagonista ha a disposizione molte inquadrature e molte scene per far emergere il proprio personaggio, un non protagonista deve sapere lasciare un segno con un numero limitatissimo di pose». Salvatore Cantalupo, napoletano, cinquantasei anni, viene dal teatro (Antonio Neiwiller, Mario Martone, Toni Servillo), al cinema è stato Pasquale, il sarto di Gomorra, il sacerdote di Corpo celeste e il suggeritore licenziato e petulante di Per amor vostro. «Un non protagonista deve essere ancora più talentuoso dei colleghi più illustri perché certi personaggi sono scritti solo in funzione del protagonista, devi essere tu a inventare il personaggio. È un lavoro creativo di enorme soddisfazione, ma sostanzialmente misconosciuto». SALVATORE CANTALUPO È STATO IL SARTO DI “GOMORRA”, IL SACERDOTE DI “CORPO CELESTE” E IL SUGGERITORE IN “PER AMOR VOSTRO” Repubblica Nazionale 2016-03-06 la Repubblica DOMENICA 6 MARZO 2016 37 FOTO DI GRUPPO LA DEMOCRAZIA SUL SET: IL CAST DI “MENTRE LA CITTÀ DORME” (1928) DI JACK CONWAY CON GLI ATTORI, PROTAGONISTI E NON, CHE HANNO PARTECIPATO AL FILM I quindici minuti sono scaduti MARCO LODOLI R Noi non protagonisti Le straordinarie avventure degli attori senza nome Muoversi molto Cinquantenne, barese, concorda in pieno. Con barba o senza, Paolo De Vita è il maresciallo dei carabinieri, zio di Checco Zalone, in Che bella giornata; ha lavorato con Nanni Moretti e accanto a Giancarlo Giannini ne La stanza dello scirocco, ma anche con Woody Allen in To Rome with Love e con Roland Emmerich in Anonymous mentre in tv è il medico legale di Ris e spesso guest star in Don Matteo e Un posto al sole. «Ma quale posto al sole. Da non protagonista devi attrezzarti: devi sapere che la tua interpretazione sarà principalmente di spalle e di nuca, fatta di piani di ascolto. Il segreto è uno solo: muoversi, muoversi molto. È l’unico modo per rendere indispensabile quell’inquadratura in fase di montaggio». PAOLO DE VITA HA LAVORATO CON ZALONE (“CHE BELLA GIORNATA”) E WOODY ALLEN (“TO ROME WITH LOVE”), IN “DON MATTEO” E “UN POSTO AL SOLE” IL LIBRO “MANUALE DI SOPRAVVIVENZA DELL’ATTORE NON PROTAGONISTA” DI NINNI BRUSCHETTA (FAZI EDITORE, 176 PAGINE, 16 EURO) È IN LIBRERIA Dove sei stato finora? Siciliano, classe 1973, Gaetano Bruno è un volto ricorrente nel cinema d’autore (Baaria, Signorina Effe, Il dolce e l’amaro, Gli angeli del male sulla banda Vallanzasca): «Quando un regista, nel caso specifico Francesco Munzi, realizza un film, Anime nere, affidando i ruoli principali a un gruppo di non protagonisti, tutti si sorprendono della qualità delle interpretazioni e chiedono a questo o quell’attore: ma dove sei stato finora? Come se fossimo vissuti sulla Luna». Lui ha avuto anche un ruolo da protagonista, ne L’isola dell’angelo caduto di Lucarelli. Peccato che il film alla fine non sia mai uscito. ©RIPRODUZIONE RISERVATA GAETANO BRUNO DA “BAARIA” A “VALLANZASCA”, DA “IL DOLCE E L’AMARO” A “SIGNORINA EFFE”: PRESENTE IN MOLTO CINEMA D’AUTORE ICORDO PERFETTAMENTE il momento in cui uno studente mi rivelò quale nuova direzione stava prendendo il fiume del tempo che tutti e tutto trascina. Gli avevo domandato cosa avrebbe voluto fare da grande, e lui mi guardò serio, determinato, convinto, e poi mi rispose: «Voglio essere famoso». E allora inevitabilmente feci la seconda domanda: «Ma famoso in che settore, famoso per aver fatto cosa?», e lo studente cambiò espressione, sembrava stupito per la mia ingenua richiesta di una precisazione. «Famoso e basta», tagliò corto. Erano gli anni tra la fine del “Maurizio Costanzo show” e l’inizio de “Il Grande Fratello”, anni in cui chiunque poteva immaginare di diventare qualcuno anche senza saper fare nulla di buono. L’arrembante società dello spettacolo offriva questa fantastica illusione e stabiliva con un faretto puntato a caso che la vita valeva solo se si separava dalla penombra dell’anonimato. Si era finalmente realizzata la celebre profezia di Andy Warhol, era arrivata l’epoca in cui tutti potevano essere famosi per quindici minuti. Il superomismo di massa garantiva emozioni e forse anche qualche manciata di banconote senza passare attraverso rischi inutili, sacrifici penosi, fatiche insopportabili. Quel sogno dorato e pigro è stato spazzato via dalla crisi con una sola gelida ventata, oggi nemmeno il più tonto dei ragazzi pensa che ci sia un arco di trionfo e di cartapesta ad aspettarlo mentre se ne va a zonzo. Certo, sulle copertine delle riviste appaiono sempre i volti sorridenti delle star, ma chi le legge più quelle riviste, chi appende più quelle foto in cameretta? Oggi si torna ad arrotolare le maniche e a sudare dalla mattina alla sera per conquistare un posto di lavoro, oggi andrebbe più che bene una vita da mediano, là in mezzo, a correre e spingere per non essere tagliati fuori. Sul palco continuano ad agitarsi i fortunati, ma sotto non c’è più una folla in delirio, milioni di persone che sognano di salire e afferrare coriandoli di gloria insensata. Oggi è di nuovo chiaro a tutti che bisogna impegnarsi allo spasimo per salvare la pelle, che la vita vera — feroce, meravigliosa, irripetibile — sta nell’impegno quotidiano. Non serve l’Oscar per dimostrare di valere davvero, basta che ci sia la possibilità di fare bene ciò che si vuole e si deve fare. Non immaginiamo più il nostro nome a caratteri cubitali su un manifesto che domani sarà ingiallito, saremmo già felici di vederlo brillare su un’insegna salda e onesta: “Bar da Mario”, “Luigi, meccanico di moto”, “Rosella, abiti per bambini”, “Marco, insegnante e scrittore”. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2016-03-06 LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 6 MARZO 2016 38 Next. Evoluzioni Da più di cinquant’anni l’invenzione di Ted Maiman ci accompagna in molti campi Le tappe A 1964 1960 THEODORE HAROLD MAIMAN, FISICO E INGEGNERE ELETTRONICO STATUNITENSE PRESSO I LABORATORI DELLA HUGHES RESEARCH A MALIBÙ, REALIZZA IL PRIMO LASER A CRISTALLI DI RUBINO 1954 CHARLES H. TOWNES, DELLA COLUMBIA UNIVERSITY DI NEW YORK, COSTRUISCE IL MASER, UN DISPOSITIVO CAPACE DI AMPLIFICARE LE MICROONDE USANDO UN’EMISSIONE STIMOLATA 1917 EINSTEIN, NEL SUO TRATTATO “ZUR QUANTUM THEORIE DER STRAHLUNG” (“SULLA TEORIA QUANTICA DELLA RADIAZIONE”) TEORIZZA LA POSSIBILITÀ DI UN’EMISSIONE STIMOLATA DELLA LUCE SILVIA BENCIVELLI VEVA UN CUORE DI RUBINO ED ERA TANTO PICCOLO da stare in una mano. Era il primo laser della storia, e si stava preparando a cambiare le nostre vite illuminando di rosso le pareti di un laboratorio di Malibu. Era il 16 maggio del 1960 e, come ebbe a dire il suo inventore, il fisico Ted Maiman, in quel momento il laser era già «una soluzione in cerca di problemi». Cinquantasei anni più tardi, di problemi ne ha effettivamente risolti molti, anche quelli che allora non sapevamo di avere: produce i circuiti elettronici di telefonini e computer, fa funzionare stampanti e lettori di cd e dvd, lo incontriamo dal medico, alla cassa del supermercato, ai tornelli di ingresso di musei e metropolitane, e a qualcuno può persino essere capitato di usarlo per misurare la distanza tra la Terra e la Luna. Ma una seconda rivoluzione è vicina, e il futuro del laser oggi appare più luminoso che mai. Il laser è un dispositivo che produce una luce intensa, monocromatica, e concentrata in un fascio rettilineo. Con questa luce si possono fare tagli di grande precisione, per esempio utili in chirurgia, o trasportare informazioni a distanza lungo le fibre ottiche. Il nome laser è un acronimo che, tradotto, significa “amplificazione di luce mediante emissione stimolata di radiazioni” il che, a grandissime linee, ne spiega il funzionamento: un’amplificazione di fotoni (cioè radiazione luminosa) prodotti stimolando gli elettroni del cuore del I FISICI BASOV, PROKHOROV, TOWNES RICEVONO IL PREMIO NOBEL PER LA FISICA GRAZIE AGLI STUDI SULL’ELETTRONICA QUANTISTICA CHE HANNO PORTATO A REALIZZARE IL MASER—LASER dispositivo, quello che Maiman aveva costruito di rubino. L’idea primigenia era stata di Albert Einstein, che nel 1917 aveva descritto l’”emissione stimolata di radiazioni”. Ma per la prima parte dell’acronimo, cioè per l’”amplificazione della luce” così prodotta, ci volle del tempo: un po’ perché serviva una certa tecnologia, un po’ perché la comunità scientifica aveva già abbastanza da fare con il resto delle idee di Einstein e con la fisica del Novecento. Una volta accesa quella luce color rubino a Malibu, però, bastarono due anni perché un laser entrasse in una sala operatoria, e si trovasse a lampeggiare tra le mani di un oculista. Oggi la maggior parte dei laser discendono da quello, e sono fatti come il nome descrive. «Ma da allora si sono evoluti tantissimo», spiega Paolo De Natale, direttore dell’Istituto nazionale di ottica (Ino) del Cnr, che ha la sede sulle colline di Arcetri (Firenze) davanti alla villa di Galileo Gali- Che il Laser sia con te Sarà un futuro molto luminoso lei. «La luce laser è nata nella regione del visibile, per questo se diciamo laser pensiamo a una luce colorata. Ma poi siamo riusciti a coprire regioni dello spettro elettromagnetico via via sempre più ampie. E allargare la copertura dello spettro significa allargare le possibilità di applicazione del laser». Per esempio, «nell’infrarosso si possono distinguere bene le molecole: molecole semplici, come la CO2, e molecole complesse, come quelle biologiche». Quindi i laser diventano cruciali per produrre sensori di inquinamento o nuovi strumenti di studio in biologia, e in futuro anche di diagnosi. Oltre, al confine con il regno delle microonde, nella regione delle frequenze terahertz, si possono produrre fasci di luce non visibile a cui molti materiali sono trasparenti: «e pensate che vantaggio per i sistemi di sicurezza, come quelli in aeroporto». Da quelle parti dello spettro c’è un nuovo tipo di laser: il laser a cascata quantica. Cosa ci si fa oggi Otorinolaringoiatrica Grazie alla sua precisione si usa per interventi chirurgici nel cavo orale Chirurgia oculistica Si usa per correggere miopia, ipermetropia e astigmatismo Chirurgia estetica Asportazione lesioni benigne, rimozione tatuaggi, epilazione, fotoringiovanimento Terapie oncologiche Fotochemioterapia, con il laser si attivano sostanze fotosensibili legate a cellule tumorali Specchio riflettente Cristallo di rubino Onde luminose Specchio semiriflettente Raggio laser ...e cosa domani Il raggio laser convenzionale viene generato facendo passare un fascio di luce attraverso un condotto dalle pareti riflettenti, nel quale è presente un materiale dalle particolari proprietà fisiche, che ne provocano l'amplificazione: anziché perdere potenza, ne guadagna Repubblica Nazionale 2016-03-06 la Repubblica DOMENICA 6 MARZO 2016 39 Ma oggi siamo alle soglie di una nuova rivoluzione. E a farla sarà l’informatica 1967 1985 2011 FIN DAL LORO DEBUTTO, I PINK FLOYD SI DISTINGUONO PER GLI SPETTACOLI DI LUCI LASER, UNICI NEL PANORAMA MONDIALE A UTILIZZARE ANCHE LASER A VAPORI DI RAME, SOLITAMENTE USATI NELLA RICERCA NUCLEARE IL CD ROM (DERIVATO DAL CD AUDIO) SOSTITUISCE IL FLOPPY DISK: UN RAGGIO LASER INCIDE UN DISCO DI 12 CENTIMETRI CONSENTENDO DI MEMORIZZARE 650 MB EQUIVALENTI A 450 FLOPPY AL SALONE DELL’AUTO DI FRANCOFORTE BMW PRESENTA IL CONCEPT IBRIDO I8, PRIMA AUTO CON FARI AL LASER CHE EMETTE UN FASCIO DI LUCE POTENTISSIMO A BASSO CONSUMO ENERGETICO «All’Ino ci stiamo lavorando sin da quando fu inventato, circa venti anni fa. Da allora studiamo la fisica di queste sorgenti, che intanto sono diventate sempre più compatte e versatili e oggi si possono usare a temperatura ambiente», prosegue De Natale. Strumenti basati su questo laser si usano già, per distinguere l’anidride carbonica prodotta bruciando combustibili fossili da quella da fonti rinnovabili e per datare reperti archeologici. Dalla parte opposta dello spettro c’è un’altra grande sfida per il futuro: «produrre laser che diano radiazioni a lunghezze d’onda così corte da permettere di costruire circuiti elettronici sempre più piccoli. Tanto da fare megacomputer grandi come telefonini», spiega Massimo Ferrario, dei Laboratori Nazionali di Frascati dell’Infn. Solo che qui la tecnologia convenzionale non basta più. «Per andare oltre l’ultravioletto la prossima rivoluzione saranno i co- ‘‘ VA BENE CELEBRARE I SUCCESSI, MA È PIÙ IMPORTANTE NON PERDERE DI VISTA LE LEZIONI CHE SI POSSONO IMPARARE DAI FALLIMENTI THEODORE MAIMAN, INVENTORE NEL 1960 DEL LASER A RUBINO ,, siddetti laser a elettroni liberi — prosegue Ferrario — cioè laser in cui a essere stimolata è una nuvola di elettroni non legati a nuclei atomici: a seconda di quanto li accelero, posso generare radiazioni di lunghezza d’onda diversa, anche molto corta, come raggi X». Il primo laser di questo tipo fu costruito nel 1977 e oggi al mondo ne esistono pochi, anche perché si tratta di macchine enormi. «La grande sfida consiste proprio nel ridurne le dimensioni e i costi così da renderne possibile l’uso negli ospedali, nelle università e nelle industrie». Uno oggi si trova nel laboratorio Elettra — Sincrotrone Trieste e si chiama Fermi: «è un oggetto di trecento metri con caratteristiche uniche», spiega Claudio Masciovecchio, che ne è il responsabile scientifico. «Con questo laser possiamo studiare la materia fino al singolo atomo, e capire nel dettaglio come funzionino certe proteine. Per esempio quelle dei pro- 2015 DALLA DERMATOLOGIA ALLA RIABILITAZIONE NEUROLOGICA, DALL’ODONTOIATRIA ALLA CHIRURGIA ESTETICA E, PER LA PRIMA VOLTA, ANCHE ALLA VETERINARIA AUMENTANO I CAMPI DI APPLICAZIONE DEL LASER cessi della fotosintesi, che è un sistema di produzione dell’energia di grandissima efficienza», e che sarebbe quindi bello essere in grado di copiare. Intanto il laser ha permesso di costruire orologi atomici superprecisi, di quelli che perdono meno di un secondo durante tutta la vita di un Universo, su cui si basano oggi i nostri sistemi di posizionamento satellitare. E sarà «il connubio tra informatica e laser a fare davvero la rivoluzione», prevede De Natale. Comunque, che cosa ci riservi in futuro il laser non è facile provare a figurarselo: «negli anni sessanta chi studiava i laser veniva preso per matto: non immaginavamo certo come li avremmo usati oggi», chiosa ridendo Ferrario. Come dire che, per saperlo, possiamo solo continuare a seguire la strada indicata da quella luce rosso rubino che cinquantasei anni fa si è accesa a Malibu. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Fibre ottiche Lettura codici a barre Telemetro laser La luce laser con sua concentrazione è usata per la trasmissione nelle fibre Identifica e fornisce il prezzo nei negozi e nelle casse del supermercato Introdotto negli anni ’70 misura la distanza per il tiro nelle armi pesanti a breve distanza Scrittura e lettura cd e dvd Packaging intelligente Bomba a guida laser Un raggio laser incide la superficie vergine del cd per imprimervi i dati Controllo e lettura flussi degli imballi in fase di produzione industriale Lanciato in prossimità del bersaglio e guidato con precisione sull’obbiettivo Disegno di ologrammi Taglio metalli Puntatore laser (armi leggere) Un laser incide una pellicola fotosensibile creando un’immagine tridimensionale La potenza concentrata in un’area molto piccola, permette taglio, incisione e saldatura Un raggio di luce rossa coassiale all’arma indica il punto di impatto della pallottola Stampante laser Punzonatura laser Laser accecante Derivata dalla fotocopiatrice, grazie alla sua definizione rivoluziona l’informatica Regolando la potenza si possono serigrafare con precisione i più svariati materiali Un dispositivo elettro-ottico cinese in grado di accecare il nemico, viene bandito nel 1995 1 5 4 8 INFOGRAFICA DI ANDREA MARI 3 5 61 9 Repubblica Nazionale 2016-03-06 40 la Repubblica DOMENICA 6 MARZO 2016 Sapori. Calienti SFRUTTANDO IN MODO VIRTUOSO I DANNI PROVOCATI DAL CLIMATE CHANGE NEL SUD D’ITALIA SI COLTIVANO SEMPRE PIÙ PIANTE TIPICHE DI ALTRE LATITUDINI LA CHERIMOYA E LA GUAVA SOSTITUIRANNO ARANCE E LIMONI? I tropici sotto casa. Mango, litchi e avocado il frutto esotico della Sicilia “L LICIA GRANELLO Il libro È in libreria l’edizione 2016 di Tutto Bio, l’annuario italiano del biologico, con oltre cinquemila indirizzi di aziende, agriturismi, gruppi di acquisto, ristoranti, negozi e mense. Tra i prodotti segnalati, la frutta esotica certificata “organic” Litchi A SICILIA, A INIZIO PRIMAVERA, era un paradiso di fiori. Anice, gelsomini, cactus e fiori di mandorlo sbocciavano ovunque, e la città intera si riempiva del loro dolce profumo”. La descrizione di Banana Yoshimoto nel suo Il viaggio di una vita suona meravigliosamente aromatica e zuccherosa. Ma sei anni dopo la pubblicazione del romanzo, occorre un aggiornamento: i fiori in boccio ormai sono anche quelli del banano e del mango, di litchi e avocado. Tropicalizzazione della Sicilia, la chiamano. La definizione ha una doppia valenza: sfruttando in modo virtuoso il problema terribile del cambiamento climatico, la California d’Italia prova ad accaparrarsi un pezzetto di cartina geografica in più, quella che guarda verso l’America Latina. La notizia non è nuova. Le sontuose foglie del banano e quelle piccole e lucide dell’annona cherimola decorano da molto tempo strade e giardini, senza soluzione di continuità tra Sicilia e Calabria. Una ricchezza botanica acquisita negli anni, ma tutta o quasi votata all’elemento estetico. Per molto tempo, infatti, i frutti sono stati considerati poco interessanti, se non addirittura poco o nulla commestibili. Corsi e ricorsi storici. Per gran parte del diciassettesimo secolo, molte delle piante importate dal Nuovo Mondo, scoperte dai conquistadores e introdotte come trofei in Europa — mais, avocado, zucca, fagioli, peperoni, cacao — furono considerate esclusivamente ornamentali. Complice la presenza di un alcaloide tossico (in grandi quantità) come la solanina, patate e pomodori non ebbero altro spazio che nelle nature all’espansione delle coltivazioni si identifica con la morte. mancanza di piante, tra vivai poco provvisti e la conAllora come oggi, la curiosità è stata più forte del- correnza della Spagna. Corrado Assenza, lìder male scarse informazioni. Lentamente ma inesorabil- ximo della pasticceria siciliana, va un passo oltre: mente, i frutti esotici hanno lasciato piazze e giardi- «Sarebbe bello, dove possibile, perpetrare le varieni per approdare in cucina, complice la sapienza tà autoctone, in quanto importate molto tempo fa. creativa dei cuochi di nuova generazione. Ma so- Penso per esempio alle nostre banane, che qui chiaprattutto, l’appeal si è esteso alle campagne, an- miamo Muse (come da nome botanico) che hanno dando a occupare spazi fino a oggi impensati. un gusto originale e straordinariamente zuccheriLa parola appeal non è casuale: rispetto ai buoni no. Ma più ancora sarei felice che le nuove piantavecchi agrumi, coltivati da una parte all’altra dell’i- gioni fossero a cielo aperto, togliendoci dagli occhi i sola da millenni, mango e avocado vantano alta red- nostri paesaggi rovinati dagli infiniti tunnel di pladitività e miglior posizionamento sul mercato. Co- stica delle coltivazioni seriali». sì, dove i miseri prezzi offerti da commercianti e Se la Sicilia in versione esotica vi attrae, organizgrande distribuzione hanno indotto gli agricoltori zate una gita in autunno, quando l’ultimo sole forte ad abbandonare i terreni, grande è la tentazione di porterà a maturazione i frutti tropicali made in Itaestirpare aranci e limoni in favore di banane & Co. ly. Nel frattempo, godetevi le fioriture, proprio coGli ettari sono ancora relativamente pochi. Dal me la brava Yoshimoto. Messinese ad Acireale fino a Pachino, il primo freno ©RIPRODUZIONE RISERVATA Feijoa Feijoa Appartiene alla famiglia delle mirtacee l’arbusto di origine sudamericana dai bellissimi fiori rossi. I frutti, dolcemente aciduli e profumati, sono ottimi da soli o in macedonia Cherimoya Adornano il lungomare Falcomatà di Reggio Calabria le belle piante di Annona cherimola. Il frutto, cremoso, zuccherino e ricco di minerali, è un eccellente ingrediente per sorbetti L’appuntamento Dal 18 al 20 marzo Fiera Milano City ospita la tredicesima edizione di “Fa’ la cosa giusta!”, fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili. Nell’area “Speziale”, possibilità di assaggiare frutta, tè e cioccolato del commercio equo e solidale La ricetta. La mia crema al caffè con capperi e banane caramellate Frutto della passione INGREDIENTI PER LA CREMA AL CAFFÈ: 1.000 G. DI PANNA LIQUIDA; 130 G. DI CHICCHI DI CAFFÈ PESTATI; 255 G. DI TUORLI; 265 G. DI ZUCCHERO PER LA PUREA DI BANANE: 130 G. DI ZUCCHERO; 660 G. DI BANANE PER IL FRIZZANTE DI CAPPERI: 330 G. DI ZUCCHERO; 130 G. DI ACQUA; 65 G. DI EFFERVESCENTE (TIPO BRIOSCHI); 15 G. DI CAPPERI DISIDRATATI PER LA PASTA FROLLA: 600 G. DI BURRO FREDDO A CUBETTI; 225 G. DI UOVA; 380 G. DI ZUCCHERO A VELO; 120 G. DI FARINA DI MANDORLE; 1 KG DI FARINA 00 P L’iniziativa Si chiama Binaria il “centro commensale” aperto dal Gruppo Abele a Torino. All’interno, la pizzeria Berberè (che usa farine bio e lievito madre), una libreria e una bottega con gli alimenti di Libera Terra, prodotti su terreni confiscati alle mafie er la crema bollire la panna, versare i chicchi di caffè e far riposare una notte in frigo, filtrare con un colino. Riportare a bollore, spegnere e unire i tuorli montati con lo zucchero. Per la purea caramellare le banane affettate con lo zucchero, fino a ottenere un composto asciutto, setacciare e tenere da parte. Per il frizzante di capperi in una pentola zucchero e acqua, portare a 130°, spegnere e aggiungere l’effervescente e i capperi, stendere in una teglia quadrata foderata col silpat. Lo zucchero inizierà a crescere e in pochi secondi si cristallizzerà. Per la pasta frolla impastare farine, zucchero e un pizzico di sale col burro, poi le uova. Riposare in frigo. Tirare e cuocere a 175° dopo aver spennellato con tuorlo d’uovo. Raffreddare, stendere uno strato di purea di banana sul fondo della torta e colare il composto di panna aromatizzata. Cuocere un’ora a 100°. Servire col frizzante ai capperi e gelato alla banana. LO CHEF ANDREA APREA GUIDA LE CUCINE DEL VUN, RISTORANTE STELLATO DELL’HOTEL PARK HYATT DI MILANO, DOVE I PIATTI VENGONO IMPREZIOSITI DA TOCCHI ESOTICI E INNOVATIVI, COME IN QUESTA RICETTA IDEATA PER REPUBBLICA Guava Repubblica Nazionale 2016-03-06 41 la Repubblica DOMENICA 6 MARZO 2016 Litchi Tronco grigio scuro e grandi foglie composte sempreverdi per il ciliegio cinese, i cui piccoli frutti dalla buccia ruvida vantano polpa succulenta e delicata. Perfetto nei cocktail La favola crudele del pomodoro lappone Avocado Già conosciuta in Messico e Guatemala durante l’epoca pre-colombiana, la Persea americana regala frutti (drupe) dalla polpa morbida e grassosa, alla base della salsa guacamole Avocado Carambola Mango Carambola Cherimoya Mangostano Guava Lo xalxocotl degli Aztechi è un piccolo albero con oltre centocinquanta varietà. Col frutto — polpa bianca o rossa, burrosa e ricca di antiossidanti — si fanno confetture golose Dalla fragile Averrhoa carambola si ottengono gli originali frutti a sezione stellata, ricchi di polifenoli, da utilizzare acerbi affettati in insalata o maturi per decorare le torte Mango Dal maestoso Mangifera Indica, albero nazionale del Bangladesh alto fino a quaranta metri, arrivano i frutti ricchi di fruttosio e vitamine, usati in India per chutney e marmellate Pitaya Banana La Musa paradisiaca, diffusa dagli arabi (da cui la parola banan, dito) in Africa e Occidente, produce frutti piccoli, tozzi e dolcissimi che maturano a fine estate. Ottima nei plumcake Banana LUCA MERCALLI Q UELLE POCHE VOLTE che al bar Sport si parla di cambiamenti climatici, una delle battute più gettonate è: “Ma che problema c’è se farà più caldo? Vorrà dire che coltiveremo le banane a Piacenza e i pomodori in Siberia!”. Sono banalizzazioni superficiali di un problema estremamente più complesso e preoccupante. Se la temperatura terrestre aumenterà di circa 5 gradi entro il 2100, qualora non si prendano oggi provvedimenti di riduzione delle emissioni da combustibili fossili, assisteremo a uno sconvolgimento epocale dell’ambiente terrestre. E se qualche piccolo e temporaneo vantaggio locale potrà esserci, sarà purtroppo ampiamente sovrastato dagli svantaggi globali. Prendiamo l’Italia. Cinque gradi in più in estate significherebbero una rilevante desertificazione del Paese. Il Sud, che già oggi soffre di frequenti siccità, potrebbe trovarsi in condizioni africane, e la pianura padana assumerebbe sembianze tropicali, con i ghiacciai alpini azzerati e il Po ridotto a un rigagnolo. In queste condizioni l’agricoltura nazionale si modificherebbe drasticamente, perdendo le sue produzioni tipiche e riducendo enormemente la quantità dei raccolti. Si diffonderebbero nuovi parassiti dei vegetali che minaccerebbero la produzione. Ma dunque le banane a Piacenza non potrebbero compensare le perdite di mele migrate nel frattempo in Lapponia? Non è così facile introdurre colture che hanno esigenze molto particolari. Se non piove a sufficienza soffrono, se manca luce (la latitudine non si può modificare) non prosperano, e basterebbe una sola gelata, sempre possibile in inverno anche in un clima mediamente più caldo, a sterminarle. E i pomodori in Siberia? I suoli acquitrinosi e torbosi della tundra impiegherebbero secoli a trasformarsi in buoni terreni agricoli. E poi ci sono gli eventi meteorologici estremi, alluvioni, uragani, grandinate, che aumenterebbero comunque in futuro con l’incremento della temperatura spazzando in poche ore interi distretti agricoli. Aggiungiamo la perdita di fertili pianure costiere per l’aumento del livello dei mari e la salinizzazione delle falde idriche: ci sarebbero milioni di profughi climatici che darebbero l’assalto alle nuove terre eventualmente coltivabili nel nord del mondo. Insomma, è molto più facile perdere in pochi anni l’agricoltura millenaria che conosciamo che guadagnare nuove aree adatte alle coltivazioni, per le quali vi sono mille incognite e tempi lunghi. Cerchiamo invece di far di tutto per contenere l’aumento termico al 2100 entro i due gradi, come deciso alla conferenza di Parigi del dicembre 2015, in modo da minimizzare i danni e adattarci con maggior facilità a un cambiamento meno drastico. Ma che comunque ci sarà. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2016-03-06 LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 6 MARZO 2016 42 L’incontro. Dissacranti ‘‘ SENZA PALCOSCENICO NON DEVO FINGERE DI ESSERE IL MIO PERSONAGGIO: UNA LIBERAZIONE MI PIACE L’IDEA DI POTER METTERE LA MIA ESPERIENZA AL SERVIZIO DI CHI CERCA UN’OPPORTUNITÀ Da piccola la mandarono in collegio dalle suore e fu lì che lei cominciò a far ridere: “Imitandole”. Poi, poiché non avrebbe mai potuto fare la pianista (“con queste mani da talpa”) né l’attrice (“con questa faccia”), e dopo aver fatto l’insegnante, decise di proseguire sulla strada della comicità: “Quello che mi piace di più è sempre stato l’umorismo alla Stanlio e Ollio, che parte da una fragilità e si trasforma in tenerezza”. Fragilità e tenerezza? Proprio così: e questa è la “Lucianina” sul web con il suo blog. L’ha chiamato Cicapui, parola piemontese che indica qualcuno o qualcosa di appiccicoso, «come il fiore della bardana, non hai bisodi legarlo o di stringerlo: ti avvicini e si attacca a te» . È la sua ultima impresa. Uno spazio aperto, un luogo di incontro fra le sue passioni e quelle di chi siesconosciuta e per niente cinica gno de da quest’altra parte. «Mi spediscono soggetti per film, idee per romanzi, bozze di spettacoli. Mi scrivono artigiani che si inventano cose. Io leggo tutto, sceldecido cosa tenere in vetrina, cosa proporre. Mi piace l’idea di un posto in che in tv si appresta a fare il giu- go, cui le cose belle per uno possano diventare bellissime per tanti». Se una frase così la dicesse Fazio, lei se lo sbranerebbe. «Macché, lui è un cinico, ma proprio ciMeno male, sennò… Sto lavorando sul linguaggio della rete, sulle sue podice di “Italia’s got talent”: “Cini- nico. tenzialità. Quasi sempre ne parliamo in termini negativi. Io stessa ogni tanto finisco dentro un polverone di reazioni per ciò che dico in televisione. Ma in rete un blocco sociale di cui non avevo colto per intero la potenza positiva, coca io? Fazio, lui sì che lo è per esiste struttrice. La rete può essere una fogna a cielo aperto o un campo fertile dove metti a far crescere delle cose, ma anche minime sensazioni: un incontro inaspettato, la sensazione degli alluci che affondano nella sabbia, un libro che hai davvero” scoperto per caso. Non sto sui social per mostrare me stessa, ma per raccontare Luciana Littizzetto ANGELO CAROTENUTO Q ‘‘ ROMA UESTA DONNA CHE FA COLAZIONE alle nove del mattino nella camera di un hotel romano in via Veneto non è “la Littizzetto”: non è la maschera del Walter, della Jolanda, di Ruini-Eminence, non è la guastatrice che invita Belén a “darla via in beneficenza”. Il vassoio è adagiato su un pouf in un angolo. «Un conto è far satira da Fazio, aggredire, essere caustica con i potenti; un altro è confrontarsi con le persone comuni». Ballerini rock di settant’anni, un padre e un figlio giocolieri, i breakers, due ragazzini che cercano di battere il record di lunghezza di un bacio in tv, quelli che tagliano le zucchine con un drone, la band musicale che suona con le parti intime. È il pezzo di Paese che cerca un’occasione, passato sotto i suoi occhi per le audizioni di Italia’s got talent (programma prodotto da FremantleMedia che dal 16 marzo va in prima serata per dieci mercoledì su Tv8). Giudici: Claudio Bisio, Frank Matano, Nina Zilli e lei, la donna italiana sulle cui spalle strette noi del pubblico abbiamo gettato come una condanna il dovere di dissacrare ogni cosa. E invece eccola qui. Un letto a due piazze sfatto per metà, un piumone bianco, l’ultimo libro di Antonio Pascale sul cuscino: tra le pagine una matita gialla che lo taglia in due. I segnalibri sono armi letali. Non sai mai da cosa ti stanno separando. Quest’Italia che un tempo andava a prendersi fischi e ululati alla Corrida, adesso intenerisce Nostra Signora dello sberleffo. «Credo di aver capito il motivo. Da giudice di un talent io non mi mostro e non fingo: io sono. Una specie di liberazione. Quando sei su HO UN MIO BLOG PERCHÉ IN RETE ESISTE UN BLOCCO SOCIALE DI CUI NON AVEVO MAI COLTO LA VALENZA POSITIVA. CERTO CHE I SOCIAL POSSONO ESSERE UNA FOGNA A CIELO APERTO MA ANCHE UN CAMPO FERTILE DOVE FAR CRESCERE LE COSE un palco, non sei sempre te stesso. Sei un po’ come al servizio del tuo personaggio. Fare il giudice non sapevo cosa fosse. In genere mi trovo più spesso nei panni dell’imputata, è una dimensione che mi appartiene di più. Voglio dire: ti capita pure di imbatterti nei balenghi, ma finanche loro meritano un momento di attenzione. Sento molto la responsabilità di non ferire nessuno in questo mondo di energia e desiderio, mandato avanti da un motore positivo: gente che ci crede, che ha studiato, s’è esercitata. Mi piace poter mettere il mio percorso e la mia esperienza al servizio di qualcuno che chiede di avere un’opportunità» . Va nella stessa direzione il senso del progetto che da qualche mese Luciana Littizzetto manda avanti che esistono ipotesi e possibilità. Come al Monopoli». Dare una chance. «A me, a suo tempo, non ne hanno regalate. Torino è una città che se ne sta un po’ per conto suo. Esisteva il gruppo dei romani, il gruppo dei fiorentini, e così via. Io non facevo parte di nulla. Quando ho iniziato, a Torino c’era Piero Chiambretti, c’era Bruno Gambarotta, c’era Arturo Brachetti: ma se oggi volessimo rivederci e celebrarci, al massimo potremmo andare a farci una pizza fuori» . Questo segmento di Littizzetto esisteva già. Ma se ne stava al chiuso. Luciana coltivava il suo senso per la premura in privato, mentre noi eravamo concentrati sul suo tratto più esposto. «Credo di aver sempre avuto nella mia vita questo spirito di accoglienza». Nove anni fa, frequentando la comunità “La difesa del fanciullo”, matura l’idea di una maternità. Per la società ha un compagno, per le leggi dello Stato è single. L’affido è la sola via possibile. In casa arrivano Vanessa e Giordan, sorella e fratello la cui patria potestà appartiene al Comune di Torino. «E poi son cresciuti e sono diventati ragazzi spiritosi. Lui compie diciannove anni a maggio, è all’ultima classe di scuole superiori, ha fatto una volta la comparsa in una fiction. Lei ne ha ventuno, è all’Accademia di belle arti, è più timida ma forte, determinata. Li portavo con me per musei, alle mostre, e mi odiavano. Andare al cinema era più facile, eppure oggi alle mostre ci vanno da soli. Forse è vero che se respiri un certo clima in casa finisci per assorbirlo. Ma ogni famiglia fa come gli pare, soprattutto fa come può». La sua mandò la piccola Luciana in collegio dalle suore. «Solo che ero spesso malata, mi si gonfiavano le tonsille e così ero costretta a starmene a casa, in compagnia della radio accesa. La radio, sì, non la televisione. Al mattino davano questi sceneggiati meravigliosi, oppure le fiabe dei Grimm, e allora ho cominciato a sognare che sarei diventata un’attrice della radio anch’io, consapevole già da bambina che era meglio se non avessi fatto vedere la faccia». La libertà, diceva Hugo, comincia dall’ironia. «I miei erano lattai, gente normale. L’idea di un percorso artistico, per loro, era legata alla danza. Così un anno sono andata a ballare. Ma avevo un nonno che suonava la chitarra, mio padre la fisarmonica e uno zio il clarinetto nella banda. In quinta elementare ho cominciato a prendere lezioni di piano ‘‘ DA BAMBINA AMAVO MOLTO LA RADIO, E QUANDO ERO MALATA E NON ANDAVO A SCUOLA ME LA ACCENDEVO E SOGNAVO CON LE FIABE DEI FRATELLI GRIMM O CON QUEGLI SCENEGGIATI MERAVIGLIOSI e crescendo mi sono ritrovata al Conservatorio. Eppure sapevo che non sarebbe stata quella la mia strada, non mi vedevo concertista con queste mani da talpa. Il diploma mi ha però consentito di entrare a insegnare musica nelle scuole». La professoressa Littizzetto. «Con i primi stipendi da supplente mi sono pagata un corso di dizione e di doppiaggio. Ma già a scuola avevo capito che sapevo far ridere. Prima con le imitazioni delle suore, poi quando mi invitavano a raccontare una storia, e io attaccavo con quelle che mi piacevano da morire, quelle sentite alla radio, ma rilette a modo mio» . La comicità è un mare in cui si può nuotare con più stili. «A me hanno sempre fatto molto ridere Stanlio e Ollio. Mi piace la comicità che parte da una fragilità e si trasforma in tenerezza. Lo so che parrà strano, ma i comici cinici non mi hanno mai divertito, con l’eccezione di Raimondo Vianello, specialmente negli sketch con la Mondaini. La comicità si allena leggendo, e non dico solo testi umoristici; si allena facendo grandi figuracce nella vita di ogni giorno, ma disponendosi all’ascolto, mettendosi in gioco, aprendo gli occhi sui mille modi in cui le altre persone leggono la vita, imparando dalla maniera in cui hanno risolto la loro, guardando da quale parte sono andati a cercarsi una porzione di verità. L’altro giorno a Torino ero in strada per pagare una bolletta, ma l’ufficio postale era chiuso. Con me lì fuori c’era una signora anziana un po’ spiazzata dall’imprevisto. Cercava un’alternativa, s’informava, finché non le hanno detto che la bolletta a quel punto andava pagata via mail. Allora mi ferma e fa: scusi, ma dove si trova di preciso questa Via Meil? La realtà ti regala spunti che nessun autore potrebbe forse inventare» . Rimane da chiedersi cos’altro possa fare “la Littizzetto” per spiazzarci. «Mi piacerebbe poter recuperare la mia competenza musicale e fare la regia di un’opera lirica, alla Franca Valeri. Oppure girare un film in cui non mi sia chiesto per forza di far ridere» . Essere, insomma. Smettere di sembrare. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2016-03-06