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che da grande andrà alla Columbine

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che da grande andrà alla Columbine
DIREPUBBLICA
DOMENICA 6 MARZO 2016 NUMERO 573
Cult
SUSAN KLEBOLD CON IL FIGLIO DYLAN NEL GIORNO DEL SUO QUINTO COMPLEANNO © FAMIGLIA KLEBOLD
La copertina. La storia dalla parte sbagliata
Straparlando. Rosetta Loy, i miei tre amori
I tabù del mondo. Il lato Sade della vita
Molti anni dopo la strage nel liceo
lo straziante racconto della madre
di uno dei due studenti-killer
SUE KLEBOLD
Mio
figlio
che da grande
andrà alla
Columbine
S
20 APRILE 1999, ORE 12.05
TAVO PER USCIRE dal mio ufficio
nel centro di Denver per partecipare a una riunione, quando notai che la luce rossa della segreteria telefonica lampeggiava. Mi
fermai ad ascoltare il messaggio, nell’eventualità che la riunione fosse stata annullata,
invece era di mio marito Tom. La sua voce era
tesa, angosciata. «Susan, è un’emergenza! Richiamami subito!». Non aveva aggiunto altro. Non ce n’era bisogno. Quel tono poteva significare una cosa sola: era successo qualcosa
ai ragazzi. Le mani presero a tremarmi così
tanto che impiegai un’eternità a comporre il
numero di casa. Ero nel panico. Sentivo il cuore pulsarmi nelle orecchie. Dylan, il nostro secondogenito, era a scuola; suo fratello Byron
al lavoro. Forse uno dei due aveva avuto un incidente? Tom rispose al primo squillo, gridando: «Accendi il televisore!». Afferrai il senso
della frase senza distinguerne nemmeno una
parola. Ancora non sapevo cosa fosse accaduto, ma era agghiacciante pensare che la notizia fosse così grave da finire in televisione.
>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
VITTORIO ZUCCONI
«A
CCENDI IL televisore», le
disse soltanto la voce
del marito al telefono.
Oh mio Dio, per che cosa? Una guerra? Il Paese era sotto attacco? Un altro Kennedy?
Sue Klebold premette il pulsante del telecomando e precipitò nell’abisso senza fondo
nel quale vaga, anima senza immaginabile
pace, da diciassette anni.
Erano le 11 e 19 del 20 aprile 1999 e davanti ai suoi occhi, sequenza dopo sequenza, Sue percorse la traiettoria degli incubi
di ogni madre culminata in un orrore senza
nome: il liceo di Columbine dove suo figlio
Dylan frequentava l’ultimo anno era sotto
l’attacco di assalitori armati con armi da
fuoco. Decine di studenti e di insegnanti
stavano cadendo sotto i loro colpi. Uno degli sparatori indossava un lungo spolverino
nero. Dylan aveva un lungo spolverino nero. Il figlio non era una vittima, come da
brava madre aveva temuto. Era uno dei
due assassini. «Signore fa che si suicidi», arrivò a pensare.
>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
L’attualità. Che fine hanno fatto gli albanesi di Brindisi L’officina. “Domus”, i mille numeri dell’architettura Spettacoli. Attori sì
protagonisti no Next. Il radioso futuro del laser L’incontro. Luciana Littizzetto: “Sono una donna fragile, è Fazio quello cinico”
Repubblica Nazionale 2016-03-06
LA DOMENICA
la Repubblica
DOMENICA 6 MARZO 2016
30
La copertina. Columbine
Aprile 1999. Due studenti uccidono
tredici persone a scuola e poi si tolgono
la vita. In un libro uscito ora negli Usa
la più terribile delle testimonianze
E
1
<SEGUE DALLA COPERTINA
SUE KLEBOLD
RA SCOPPIATA UNA GUERRA? IL PAESE ERA SOTTO ATTACCO? «Cos’è suc-
I DUE ASSASSINI
ERIC HARRIS E DYLAN KLEBOLD (A DESTRA),
17 ANNI, IL 20 APRILE 1999 VANNO ALLA HIGH
SCHOOL COLUMBINE ARMATI PER UCCIDERE
LA STRAGE
ALLE 11.19 I DUE RAGAZZI TIRANO FUORI
I LORO FUCILI A POMPA E COMINCIANO
A SPARARE SUI COMPAGNI DI SCUOLA
L’ALLARME
VERSO LE 12 SI DIFFONDE LA NOTIZIA:
LA SCUOLA È STATA ATTACCATA DA DUE
UOMINI ARMATI. INDOSSANO UN TRENCH
L’IRRUZIONE
ALLE 15.25 LA POLIZIA ENTRA IN BIBLIOTECA
DOVE HARRIS E KLEBOLD HANNO FATTO
PIÙ VITTIME, PRIMA DI TOGLIERSI LA VITA
LE VITTIME
IL BILANCIO FINALE DEL MASSACRO
È DI TREDICI VITTIME: DODICI STUDENTI
E UN INSEGNANTE, OLTRE AI DUE SUICIDI
cesso?», strillai nel ricevitore. Mi rispose soltanto l’indecifrabile rumore del televisore in sottofondo. Finalmente Tom tornò in linea.
Era come impazzito. Le parole che gli uscivano a raffica dalla bocca
erano sconnesse, prive di senso: «Sparatoria... armi... scuola». A fatica, riuscii a ricostruire il suo resoconto. Pochi minuti prima, nel
suo studio di casa, aveva ricevuto una telefonata di Nate, il migliore amico di Dylan. «Dylan è lì?», gli aveva chiesto. Già di suo la domanda era allarmante, nel bel mezzo di un giorno di scuola: degli
uomini armati avevano fatto irruzione nel liceo Columbine, dove
nostro figlio frequentava l’ultimo anno, e stavano sparando agli
studenti. E non era finita: secondo Nate, gli assalitori indossavano
un impermeabile nero identico a quello che avevamo regalato a Dylan. «Non voglio spaventarla», aveva detto Nate a Tom «ma conosco tutti i compagni che hanno un cappotto simile. Gli
unici che non riesco a rintracciare sono Dylan ed Eric. Stamattina non sono nemmeno venuti
al bowling». La voce di Tom era carica di angoscia mentre mi raccontava che, subito dopo aver
riagganciato con il ragazzo, aveva rovistato ovunque alla ricerca
dell’impermeabile di Dylan, nell’irrazionale convinzione che se
fosse riuscito a trovarlo nostro figlio sarebbe stato al sicuro. «Sto
arrivando», dissi, impietrita dal panico.
In macchina, mille interrogativi mi vorticavano in testa. Non
pensai nemmeno ad accendere la radio. Riuscivo a stento a tenere
l’auto in carreggiata. Dylan è in pericolo. Continuavo a rigirare nella mente quei pochi brandelli di informazioni. L’impermeabile poteva essere ovunque: nell’armadietto di Dylan, nella sua macchina. O magari lo aveva perso. Comunque era solo un cappotto, che
importanza poteva avere? Il tragitto pareva non finire mai, come
se stessi andando al rallentatore, mentre il mio cervello viaggiava
alla velocità della luce e il cuore mi martellava i timpani. Mi ostinavo a scomporre e ricombinare le tessere del puzzle nel tentativo di
creare un’immagine rassicurante. Guidando, parlavo da sola, poi
scoppiai in singhiozzi convulsi. Non avevo informazioni sufficienti
per saltare alle conclusioni, ripetei a me stessa. Il liceo Columbine
era enorme, con oltre duemila studenti. Solo perché Nate non era
riuscito a rintracciare Dylan non significava che mio figlio fosse ferito o morto. Sforzandomi di tenere a bada il panico, cercai di convincermi che ci stavamo preoccupando per
niente. Anche ammesso ci fosse stata una mattina la mia sveglia era suonata alle prime
sparatoria, non sapevamo neppure se ci fosse- luci dell’alba. Sapendo quanto Dylan odiasse
ro vittime. Eppure la mia mente si ostinava a alzarsi presto, io e Tom avevamo cercato di
rimbalzare da uno scenario catastrofico all’al- dissuaderlo dall’iscriversi agli allenamenti di
tro. Tom aveva detto che c’erano degli uomi- bowling, che si tenevano alle sei e un quarto.
ni armati nella scuola. Uomini armati! Dylan Eppure quella mattina lo avevo sentito scenpoteva essere ferito. Per questo non si riusci- dere le scale e poi passare davanti alla porta
va a trovarlo. Era morto o sanguinante da chiusa della nostra stanza al pianterreno, stuqualche parte, in trappola, impossibilitato a pita che fosse già in piedi. Mi ero sporta dalla
chiedere aiuto. Oppure era in ostaggio.
stanza e lo avevo chiamato. «Dyl?». Dall’oscuMa c’era un’altra idea fissa che non riusci- rità, la voce secca e decisa di mio figlio aveva
vo a zittire. Avevo provato un brivido di terro- risposto con un «Ciao». Dylan se n’era andato
re viscerale quando Tom aveva fatto il nome con un’unica parola, ma l’aveva pronunciata
di Eric Harris. L’unica volta che Dylan si era con un’asprezza che non gli avevo mai senticacciato in un guaio serio era stato con lui. to, quasi un ringhio, come se l’avessi interrotScossi di nuovo la testa. Dylan era stato un to mentre litigava con qualcuno. La tensione
bambino allegro e affettuoso, crescendo era che avevo avvertito in quel «ciao» mi gelava il
diventato un adolescente tranquillo e con la sangue. Se non era andato al bowling, dove
testa sulle spalle. Aveva imparato la lezione, diavolo era stato?
mi dissi. Non si sarebbe lasciato trascinare in
altre imprudenze. Mi chiesi anche se la tragedia in corso nella scuola non fosse cominciata
come uno scherzo, una bravata degli studenti dell’ultimo anno sfuggita a ogni controllo.
Di una cosa ero certa: era impossibile che Dylan fosse armato. Io e Tom eravamo così contrari alle armi che stavamo prendendo in considerazione l’ipotesi di andarcene dal Colorado, dove le nuove leggi avevano reso più facile ottenerle. Anche ammesso che un suo compagno avesse potuto concepire un’idea tanto
sciagurata, non c’era la minima possibilità
che Dylan si fosse lasciato coinvolgere se c’era di mezzo una pistola vera.
Continuai così per tutto il viaggio. Avevo
davanti agli occhi l’immagine di mio figlio ferito, spaventato e coperto di sangue, alla quale poi se ne sovrapponevano altre più felici:
Dylan bambino che spegneva le candeline; o
che strillava sfrecciando sullo scivolo per tuffarsi nella piscinetta in cortile. Dicono che prima di morire si riveda ogni istante della propria vita, ma in quei quaranta chilometri fu
l’esistenza di mio figlio a scorrermi davanti
agli occhi, come la pellicola di un film.
A casa, Tom mi riferì quanto sapeva in una
serie di frasi sconnesse: una sparatoria nella
scuola, Dylan ed Eric ancora irrintracciabili.
Non c’erano notizie certe. Ci aggiravamo per
casa come giocattoli a molla impazziti,Tom
ossessionato dalla ricerca dell’impermeabile, io sconcertata dal fatto che Dylan non fosse andato al bowling. Ripensandoci quella
stranezza mi angosciò ancora di più. Quella
2
IL LIBRO
IL MEMOIR
DI SUE KLEBOLD
“A MOTHER’S
RECKONING”
USCIRÀ IN ITALIA
IL 19 APRILE PER
SPERLING&KUPFER
CON IL TITOLO
“MIO FIGLIO”
Il mondo, però, non andò davvero in frantumi finché non squillò il telefono e Tom si
fiondò in cucina per rispondere. Era un avvocato. Fino ad allora, la mia paura dominante
era stata che Dylan fosse in pericolo, che fosse ferito o avesse commesso un’imprudenza,
uno stupido scherzo finito male. Tom invece
doveva aver preso in considerazione anche
un’altra possibilità: l’ipotesi che Dylan avesse commesso un gesto abbastanza grave da
E poipregai
perché
morisse
La mamma di Dylan Klebold
racconta cosa significa scoprire
che il proprio figlio è un killer
Repubblica Nazionale 2016-03-06
la Repubblica
DOMENICA 6 MARZO 2016
NELLA BIBLIOTECA
IN UNA RICOSTRUZIONE IL SUICIDIO
DEI DUE GIOVANI NELLA BIBLIOTECA
DEL LICEO COLUMBINE: DYLAN
SI UCCISE CON UN COLPO DI PISTOLA
ALLA TEMPIA SINISTRA, ERIC SI SPARÒ
IN BOCCA CON IL SUO FUCILE DA CACCIA
31
Quella domanda
alla quale
non sappiamo
rispondere
<SEGUE DALLA COPERTINA
VITTORIO ZUCCONI
D
3
richiedere l’intervento di un avvocato. L’episodio con Eric risaliva a un anno prima: Dylan, un ragazzo che non ci aveva mai dato preoccupazioni, aveva forzato un furgone e rubato alcune apparecchiature elettroniche. La
polizia gli aveva concesso la condizionale: il
minimo passo falso gli sarebbe costato un’imputazione penale e una condanna al carcere.
Così, al primo sospetto che Dylan potesse
aver combinato qualcosa, Tom si era subito
messo in contatto con un legale. L’avvocato ci
aveva chiamati per comunicarci che l’inconcepibile era accaduto davvero: al liceo Columbine c’era stata un’irruzione di uomini armati che avevano aperto il fuoco. Dylan era uno
dei sospettati. La polizia stava venendo a casa nostra. Avevo temuto che fosse in pericolo;
ora scoprivo che aveva fatto del male ai suoi
compagni. Il mio cervello si rifiutava di crederci.
Arrivarono i primi poliziotti e ci scortarono
fuori sul vialetto. La giornata era bellissima,
il tipico clima che annuncia finalmente l’arrivo della primavera. Quel tempo magnifico mi
colpì come uno schiaffo in pieno volto. «Perché la polizia ci tiene qui fuori?», domandai.
«Cosa vogliono da noi?». Un agente venne a
spiegarci che stavano perquisendo la casa in
cerca di esplosivi. Era la prima volta che sentivamo parlare di esplosivi. Non aggiunsero altre spiegazioni, si limitarono a proibirci di
rientrare e, tantomeno, di allontanarci. Noi
non potevamo saperlo, ma a quel punto Dylan ed Eric erano già morti. La prima squadra
d’intervento entrata aveva rinvenuto i loro
corpi, circondati da quelli delle loro vittime.
Non capivo se ci stessero proteggendo o se
ci considerassero pericolosi. Entrambe le ipotesi erano orribili. Infine il detective incaricato dell’indagine ci comunicò che ci avrebbe interrogati uno alla volta. Il mio colloquio avvenne sul sedile anteriore della sua auto. In
tono solenne e minaccioso, andò dritto al dunque: avevamo armi, in casa?
Quando scesi dall’auto, mi sentivo così fra-
1
IL COMPUTER
UNO DEI COMPUTER DELLA BIBLIOTECA
COLPITO DA UNO DEI PROIETTILI
2
LA PISTOLA
LA SEMIAUTOMATICA TEC-9
USATA DA DYLAN. SPARÒ 55 COLPI
3
I FUCILI
SONO STATE LE ARMI PIÙ USATE
DA ERIC DURANTE IL MASSACRO
gile che temevo di esplodere in mille pezzi. Essendo rimasti tanto a lungo in strada, tagliati
fuori dalle notizie dell’ultim’ora, con ogni probabilità ne sapevamo meno di chiunque altro, a Littleton come nel resto del mondo, a
pensarci bene. Allora i cellulari non erano onnipresenti come adesso. Restammo fuori al
sole, appollaiati sui gradini di cemento. Io e
Tom ci scambiavamo i nostri interrogativi
con sussurri smorzati. Doveva essere stato costretto da un criminale, o più di uno. Prendemmo persino in considerazione l’ipotesi di
un ricatto — la minaccia di fare del male a noi
— al quale lui avesse ceduto per proteggerci.
O forse era entrato nella scuola credendo che
si trattasse di uno scherzo, una specie di rappresentazione teatrale, per poi scoprire all’ultimo minuto che le munizioni erano vere. Se
il ragazzo gentile, buffo, impacciato che amavamo tanto aveva fatto una cosa del genere
era perché qualcun altro lo aveva ingannato,
minacciato, magari addirittura drogato. Restammo là fuori, sul vialetto, sospesi in un
limbo, a trascorrere ore scandite soltanto dalla nostra totale confusione e dall’alternanza
vertiginosa di speranza e terrore.
Poi la porta a vetri si spalancò facendo filtrare il suono del televisore che Tom aveva lasciato acceso nella nostra camera da letto.
Rimbombando nel silenzio della casa, il notiziario locale riferì gli aggiornamenti dal liceo
Columbine. In quell’istante capii che la grazia più grande che potevo chiedere per mio figlio non era la sua salvezza ma la sua morte.
Traduzione di Elena Cantoni
per Studio Editoriale Littera
A Mother’s Reckoning
Copyright © 2016 by Vention Resources,
Inc. PBC. This translation published
by arrangement with Crown Publishers,
an imprint of the Crown Publishing Group,
a division of Random House LLC.
© 2016 Sperling & Kupfer Editori S.p.A.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
ICIASSETTE ANNI DOPO, Sue Klebold, la
mamma del “mostro”, la donna che
mise al mondo, amò, allevò un
meraviglioso bambino allegro ha
confidato in un lungo memoriale
pubblicato ora che cosa si viva dall’altro lato delle
cronache dell’orrore. Che cosa significhi scoprire di
essere la madre di un ragazzo che ha portato via con
sé, e con il complice Eric Harris, dodici ragazzi come
lui, e un insegnante, in un doppio patto di
omicidio-suicido. E con la sua confessione, riportata
nella prefazione di Andrew Solomon, trascina anche
noi, genitori e parenti di bambini “normali”, nel
gorgo di una domanda alla quale in realtà non
sappiamo rispondere: conosciamo davvero i nostri
figli? La storia che Sue Klebold racconta e ricorda,
spesso aggrappandosi ai volumi di diari che lei ha
tenuto dopo quel 20 aprile per cercare di darsi una
risposta, è dentro il libro di Solomon dal titolo
volutamente provocatorio, “Far from the Tree”,
lontano dall’albero, scelto per rovesciare un detto
classico: la mela non cade mai lontana dall’albero
che l’ha prodotta. Ma se non ci sono dubbi che Dylan
Klebold fosse il frutto del legittimo matrimonio fra
Sue e Tom Klebold, né lei, né il padre, né il fratello
maggiore di “Dyl”, come era chiamato in famiglia,
Byron, né l’orda di psicologi, psichiatri, criminologi,
neurologi che si sono affannati attorno al massacro
di Columbine sanno spiegare in maniera
convincente — e rassicurante — come questa mela
possa essere rotolata tanto lontana dall’albero.
Nella casa dei Klebold, i tavoli, i comò, le pareti,
erano testimoni di una vita famigliare da pubblicità
di merendine. Dylan neonato con la papalina di lana
sul grembo sudato della mamma. Dylan che soffia
sulle candeline del quinto compleanno. Dylan sul
divano accanto al fratellino più grande. Dylan in
uniforme da baseball. Dylan in gita con la famiglia
sulle Montagne Rocciose. Dylan con la toga azzurra
e il tocco della “graduation” dalla Middle School, la
scuola media. Dylan che visita il campus della
Arizona State University dove sarebbe andato
nell’autunno del 1999, se avesse finito l’ormai quasi
concluso liceo. Tutto, nella casa e nel ricordo,
racconta una vita d’amore. Non ci sono quei traumi
famigliari che sembrano spesso la chiave per aprire
il mistero di comportamenti incomprensibili. Tom e
Sue erano una coppia apparentemente solida, senza
problemi economici, lei dirigente di un ufficio per il
ricollocamento dei detenuti (“che mi facevano un
po’ paura, quando li incrociavo in ascensore”), lui
commerciante di successo. Non ci sono nodi di
rivalità fraterne o di emulazioni frustrate, essendo
“Dyl” semmai il più bello dei due fratelli, rimorsi di
chi si rimprovera di non avere trascorso abbastanza
tempo con quella creatura. “Avevo creduto che
l’amore potesse salvare tutto e non sono riuscita a
salvare mio figlio e tutti coloro che lui ha ucciso”.
A differenza di quanto sarebbe accaduto qualche
anno più tardi nel Connecticut, a Sandy Hook, dove
una disperata madre sola avrebbe cercato di
calmare il figlio imbizzarrito e disturbato
regalandogli armi solo per vederlo poi irrompere in
una scuola elementare e abbattere venti bambini,
non c’erano neppure armi, né il Culto della Colt,
nella casa dei Klebold. “Avevamo deciso, con mio
marito, di trasferirci in un altro Stato, meno fissato
con le armi del Colorado, per sfuggire a
quell’armeria” annota Sue. Non difende e non
accusa nessuno la madre del falciatore di
Columbine e certamente non cerca giustificazioni,
per sé come per “Dyl”. È sola, nella desolazione
dell’ultimo ricordo del figlio che quella mattina di
aprile uscì di casa con un brusco “Bye”, ciao,
svolazzando via nello spolverino nero.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale 2016-03-06
LA DOMENICA
la Repubblica
DOMENICA 6 MARZO 2016
32
© DAMIANO TASCO
L’attualità. Profughi
Brindisi 6 marzo 1991
Albanesi
brava
gente
In soli due giorni, il 6 e 7 marzo 1991,
in ventitremila attraversarono l’Adriatico
per raggiungere Brindisi, Lamerica
Ad accoglierli fu la gente comune
Venticinque anni dopo un fotografo
e un giornalista sono tornati per capire
che ne è stato di quella solidarietà
E perché si costruiscono nuovi muri
‘‘
Un terno al lotto
Le scene dei rifugiati che cercano
di arrivare in Europa mi chiamano
in causa. Il 1991 fu per me un terno
al lotto. Ero studente di flauto
all’Accademia di belle arti a Tirana.
Le lezioni, per via dell’instabilità
politica, vennero sospese.
Tornai a Durazzo, la mia città,
e quando vidi tutte quelle persone
al porto decisi di imbarcarmi.
Fu una scelta del momento,
non meditata. Se fossi tornato
indietro avrei perso tutto,
non sarei mai diventato
un musicista. Forse avrei rischiato
il carcere. Mi è andata bene.
Oggi suono ancora il flauto
e lo insegno nelle scuole.
Devo moltissimo a una famiglia
di qui, di Brindisi, Cataldi
si chiamano. Mi ospitarono
nei giorni successivi allo sbarco,
sono rimasto a casa loro per anni.
Mi hanno trattato come un figlio.
Ecco, forse la differenza
con i profughi di oggi sta
nella solidarietà. Quando partii io,
venticinque anni fa ce n’era di più.
IL MUSICISTA
ARTUR XHERAJ VIVE A BRINDISI,
È SPOSATO E HA DUE FIGLI. DOPO
AVER PROSEGUITO GLI STUDI
A LECCE INSEGNA NELLE SCUOLE
Repubblica Nazionale 2016-03-06
la Repubblica
DOMENICA 6 MARZO 2016
‘‘
‘‘
Ci hanno dato una mano
L’unico sbocco possibile
Partii da Tirana il 6 marzo del 1991,
verso le 13. Le gambe e la testa
andavano da sole. Non dissi nulla
a mia moglie. La contattai solo
dopo l’arrivo in Italia. A Brindisi
ci aiutò la gente, prima ancora
dello Stato. Un uomo che aveva
una salumeria offrì panini a me
e ai miei compagni di viaggio.
Cercammo di pagarlo, non volle.
È un ricordo indelebile, che ancora
mi commuove. Eravamo profughi,
come oggi lo sono le persone
in marcia lungo i Balcani.
Non so quanto la nostra e la loro
situazione siano paragonabili.
Una volta c’erano i muri,
ora li stanno ricreando. E forse
basterebbe questo a chiudere
il discorso. Una differenza però
la vedo chiara. Loro vengono
umiliati. Noi albanesi, se guardiamo
oltre i luoghi comuni diffusi da certa
stampa e da certa politica e stiamo
a ciò che è accaduto nella vita reale,
siamo stati tutto sommato
dei privilegiati. Ci hanno dato
una mano e ci siamo integrati.
Il rock era vietato. Il regime
lo dipingeva come un’espressione
della decadenza capitalista.
Ma io e i miei amici lo ascoltavamo
lo stesso, di nascosto. Era il nostro
modo di sognare l’Occidente.
Nel 1991 volevo la libertà
che in Albania non c’era.
Non me ne andai perché ero povero.
Non stavo male. Da noi certamente
non c’era il “benessere”, ma non
si moriva di fame. Valeva per me,
come per la maggior parte
degli albanesi. Eppure nel 1991
tutti noi ripudiammo il nostro paese.
Quando ci ripenso mi chiedo
come abbia potuto parlare male
della mia terra. Dell’Italia, invece,
si diceva solo bene. Forse fu davvero
l’effetto delle vostre tv che vedevamo
a casa nostra. Eravamo un po’
bambini: prendevamo tutto per vero.
Ma è riduttivo fermarsi a questo
aspetto. L’Italia, più che un mito
alimentato dal piccolo schermo,
era l’unico sbocco possibile.
Nessuno di noi voleva andare
in Jugoslavia, tanto meno in Grecia.
SU QUELLA NAVE
PER RAGGIUNGERE L’ITALIA
NEL MARZO ’91 EDUARD SI LANCIÒ
IN MARE A DURAZZO E MONTÒ
SULLA “KALLMI”. VIVE A BRINDISI
era l’estate scorsa,
mentre la radio trasmetteva le prime storie degli Esiliati in fuga attraverso i Balcani. Faceva un caldo infernale, avevo alle spalle ventinove giorni di cammino e circa
un milione di passi. Venivo via terra, ma anche per me
quel porto si chiamava desiderio. Era il mitico capolinea, la mia “Valigia delle Indie”.
Entrando in città e, sotto un cavalcavia dalle parti
dell’ospedale, lessi una scritta. “Puro razzismo. Via gli
immigrati da Brindisi”. Subito pensai alla città che venticinque anni fa ne aveva gioiosamente accolti decine
di migliaia. Quella frase non rappresentava certamente il luogo, ma era un sintomo. Chi va a piedi vede cose che l’automobilista ignora. Sente la pancia dei territori. Capisce che aria tira per un forestiero.
Non ci sono solo belle storie da narrare. A un tiro di schioppo da San Giovanni Rotondo, le processioni salmodianti per Padre Pio non vedono o fingono di non vedere posti
come il Gran Ghetto di Rignano, dove migliaia di immigrati privi di assistenza sanitaria vivono in condizione di schiavitù per la raccolta dei pomodori, in mano al caporalato. La Puglia, terra d’accoglienza, ignora i suoi inferni. Posti come il Ghetto Ghana presso Cerignola, o il Ghetto dei Bulgari che, col Ghetto Cara, sta non a caso a un passo dal
Centro richiedenti asilo di Borgo Mezzanone.
Cos’è cambiato da quel marzo del 1991? È cambiato che allora eravamo nell’euforia
della caduta dei Muri e non si era ancora manifestata la prima tremenda disillusione, il
massacro nei Balcani. Vivevamo quei primi arrivi come la “fine della storia”, il trionfo
BRINDISI CI SONO ARRIVATO A PIEDI,
‘‘
Avevo vent’anni
Lavoravo in una fabbrica di bicchieri
a Kavajë, a sud di Durazzo. Quando
lasciai l’Albania non avevo neanche
vent’anni. Li compii in Italia.
Mio fratello, mentre eravamo
in viaggio, scaraventò il passaporto
in mare. C’era una forma di rifiuto
verso l’Albania, volevamo venire
a tutti i costi in Italia. Con me
non avevo nulla, neanche
lo stipendio. Lo lasciai a mio padre,
che restò a casa. Quando uscimmo
dall’area portuale e andammo
in centro, a Brindisi, eravamo
confusi e spaventati. Ricordo
che c’erano delle sirene
che suonavano e noi, ogni volta,
ci buttavamo a terra. Io e i miei
parenti abbiamo avuto la fortuna
di incontrare un ragazzo del posto,
Piero, che ci ospitò a casa sua.
Eravamo in undici e lui trovò il modo
di sistemarci tutti. Con Piero nacque
presto una bella storia d’amore.
Ancora va avanti: siamo sposati,
abbiamo tre figlie e gestiamo
insieme una macelleria
nel cuore di Brindisi.
L’AMORE
LEYLA CARA CON LE TRE FIGLIE
E IL MARITO PIERO. SI SONO
CONOSCIUTI A BRINDISI E INSIEME
GESTISCONO UNA MACELLERIA
LA FAMIGLIA
ARBEN GUXHOLLI, 55 ANNI, PERITO
MECCANICO, CON LA MOGLIE
E I FIGLI NATI A BRINDISI, DOVE
LA FAMIGLIA VIVE DAL MARZO 1991
del nostro sistema. L’Europa dei ricchi contava su una facile annessione dei Paesi
dell’ex patto di Varsavia e l’arrivo delle navi assumeva il valore di una gran festa d’accoglienza nei confronti del “buon selvaggio” che porta forza lavoro e riconosce la nostra
supremazia.
Oggi non è più così. L’Europa perde pezzi, il Mediterraneo è in fiamme, l’Islam fa
paura, siamo tutti più poveri, i dubbi sul capitalismo aumentano, la percezione della limitatezza delle risorse è sempre più diffusa. La gente mi dice: che ce ne facciamo di tutti questi cristiani se non ce n’è abbastanza nemmeno per noi? Non è razzismo: è solo
paura, dunque xenofobia. Ma la xenofobia, in assenza di risposte, diventa automaticamente razzismo, “albanesi ladri e rumeni spacciatori”. Un clima che fa comodo a molti,
perché impaurisce i nuovi venuti e abbassa il costo del lavoro. Figurarsi in posti come la
Puglia, terra di ghetti e avamposto di nuove, possibili, massicce ondate migratorie.
Ma è cambiato tutto anche al Nord. Quando negli anni Settanta, alle porte di Trieste, una notte di gelo precoce si portò via quattro clandestini del Camerun che avevano
passato il confine jugoslavo, per i funerali affluì una folla enorme e commossa dalla città e dai paesi del Carso, con tanto di sindaci e corone di fiori. Oggi, che i clandestini in
transito sono migliaia, la gente è diventata indifferente, e i segni di insofferenza aumentano a fronte del silenzio ipocrita delle istituzioni. Poche settimane fa ho sentito
un giovane concittadino urlare parole innominabili, senza alcuna vergogna, a una coppia di siriani con un bambino in braccio, che attraversavano la strada a un semaforo.
Nel marzo del 1891 un piroscafo dal nome speranzoso di “Utopia”, salpato da Trieste per l’America con 880 emigranti italiani e centro-europei, affondò dalle parti di Gibilterra portandosi dietro 562 vite, tra cui numerosi bambini. Anche noi siamo salpati
in cerca di fortuna. Anche noi siamo finiti sotto il grande sudario del mare. Ma non se
ne ricorda più quasi nessuno.
GLI AUTORI
IGNACIO MARIA COCCIA
È L’AUTORE
DEL SERVIZIO
FOTOGRAFICO
CHE VEDETE
PUBBLICATO
IN QUESTE PAGINE.
A RACCOGLIERE
INVECE LE STORIE
DEGLI “ALBANESI
DI BRINDISI” È STATO
MATTEO TACCONI
©RIPRODUZIONE RISERVATA
‘‘
In linea d’aria
Sono originario di Lushnjë.
La mia era una famiglia
anticomunista. Due nostri parenti
furono fucilati negli anni Cinquanta.
Quando sentii che c’erano navi
in partenza per l’Italia corsi subito
a Durazzo. A Brindisi dormii
sulla banchina. Poi ci alloggiarono
in un magazzino, dopodiché
ci spostarono in un campo profughi
in Sicilia, poi lavorai come cameriere
in Campania e infine me ne tornai
in Salento. Fin dall’inizio avevo
capito che era questo il posto dove
avrei dovuto vivere. Forse il fatto
che in linea d’aria siamo vicini
all’Albania mi dà conforto.
Per integrarmi qui in Italia
ho usato il lavoro. È solo il lavoro
che ti permette di guadagnare
non soltanto di che vivere
ma soprattutto il rispetto
delle altre persone. Oggi sono
un rigattiere ma faccio anche
traslochi. E poi la sera me ne vado
nei locali con la mia fisarmonica
a raccogliere mance. Ho imparato
a suonarla in Albania.
© IGNACIO MARIA COCCIA
A
PAOLO RUMIZ
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CON LA FISARMONICA
“GIANNI” LUMI IN ALBANIA FACEVA
L’OPERAIO. GIRA IL SALENTO
FACENDO PICCOLI TRASLOCHI
E SUONANDO LA FISARMONICA
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L’officina. Made in Italy
P
Dal Pirellone
al cavatappi Alessi
da ottantotto anni
racconta al mondo
le forme di abitare
case, strade e città
E così “Domus”
ora festeggia
il suo numero mille
LE IMMAGINI
LA COPERTINA
DEL PRIMO
“DOMUS”
(1928, DIRETTORE
GIÒ PONTI)
ACCANTO
AL NUMERO
MILLE CHE SARÀ
PRESENTATO
IL 10 MARZO
ALLE 18
ALLA TRIENNALE
DI MILANO.
SOPRA,
UN EDIFICIO
PROGETTATO
DA ADALBERTO
LIBERA (LIDO
DI OSTIA, 1935)
MAURIZIO BONO
MILANO
ER TROVARLE CI VUOLE UN PO’ di senso dell’orientamen-
to e fortuna col meteo (evitare le giornate di foschia), ma ci sono molte finestre milanesi oltre il decimo piano da cui si possono vedere con un colpo d’occhio due simboli dell’architettura contemporanea:
la “brutalista” (come si diceva allora) Torre Velasca
di Ernesto Nathan Rogers (1957) e il grattacielo Pirelli (1960) di Giò Ponti. Ecco, la durata e il peso di
una rivista come Domus, che a giorni compie mille
numeri in ottantotto anni, si può stimare anche da lì:
Giò Ponti la creò nel 1928 e la diresse per tredici anni
tra le due guerre e di nuovo per altri ventotto, dal
1948 al 1976. Ernesto Nathan Rogers fece molti meno numeri e qualcosa di più: la
rimise sui binari dopo l’unico suo deragliamento dall’appuntamento periodico,
quando aveva cessato brevemente le pubblicazioni tra il 1945 e il 1946.
Del resto, ad avere una vista d’aquila, dall’alto si potrebbero scorgere, dei diciassette direttori della rivista (a volte tre insieme come in piena guerra lo scrittore Massimo Bontempelli e gli architetti Melchiorre Bega e Mario Pagano, che assunse l’incarico da progettista amato dal regime nel 1941 e lo perse l’anno dopo dimettendosi dal partito fascista per morire da partigiano nel 1945 a Mathausen) altri edifici importanti, come il Portello del decimo (Mario Bellini, 1979-1984) e il Bosco verticale del quattordicesimo (Stefano Boeri, 2004-2007).
Vero è che certi architetti hanno il privilegio di realizzare creazioni che restano
e si vedono da lontano, ma il punto non è lì. Perché l’ottavo direttore di Domus
(per due giri: 1979-1984 e 2010-2011) Alessandro Mendini, per esempio, è un
grandissimo designer, dai cavatappi per Alessi alla Poltrona Proust; altri sono storici dell’urbanistica come Vittorio Magnago Lampugnani (l’undicesimo,1992-1996), o critici d’arte e d’architettura. Il punto è che Domus ha sempre
avuto la specialità di usare grandi talenti, italiani e internazionali, per impaginare il racconto del modo di abitare le case e le città lungo nove decenni, da quando
telefono e luce elettrica erano novità non ancora alla portata di tutti fino ai grattacieli e alla domotica.
Un’autorevole rivista élitaria e specialistica di settore, per riuscire a tanto ha
tre vie. La prima è essere militante, che fa quadrato sulle proprie idee. La seconda,
sotto sotto perfino più ambiziosa, è rappresentare le idee nuove e buone di tutti.
La terza è fare come Domus: fare l’una e l’altra cosa insieme, a costo di litigare quasi di continuo e vivere di contrasti tra un’annata e l’altra e tra una direzione e l’altra. Come è stato perfino istituzionalizzato da quando, lo racconta nel numero mil-
GIUSEPPE TERRAGNI. PROGETTO DI CASA SUL LAGO (1944)
L’architettura
passata
in rivista
le Giovanna Mazzocchi, è stato deciso di cambiare direttori spesso e con la loro direzione lo sguardo sulle cose. Deciso da chi? Dall’editore, che è l’altra caratteristica unica e permanente di Domus. Dal primo, Gianni Mazzocchi, che Enzo Biagi ricordava dicendo «nessuno ha inventato tanti giornali quanto lui» (oltre a Domus,
Fili, Quattroruote, Italia Libera, L’Europeo di Arrigo Benedetti, Il Mondo di Mario
Pannunzio) all’ultimo, che è la figlia subentrata a Gianni Mazzocchi alla sua morte nel 1985. Facendo da timoniere quando nel ruolo del capitano ci sono personaggi troppo indaffarati con la propria creatività per fare un giornale, ma fortunatamente anche per voler dedicare eccessiva cura a selezionare tra buone idee della
propria scuola e buone idee della scuola degli altri.
Così per mille numeri in Domus è entrato e di lì è rimbalzato anche negli ottantanove paesi in cui la rivista è diffusa, quasi tutto quello che di nuovo si muoveva
nel mondo dell’architettura. Farne l’elenco è inutile e noioso: è online l’archivio digitale, dal primo numero con la copertina blu del 15 gennaio 1928 (abbonamento
al costo medio di un solo volume patinato di architettura). Ci sono tutti: dalla “a”
di Alvar Aalto alla “z”di Zaha Hadid. E più ancora dei nomi e dei progetti, in quella
grande miniera di superficie, scavabile per tesi e ricerche o anche solo per ripasso,
c’è l’evoluzione dell’architettura e del modo di vivere fino a oggi. Ci sono il razionalismo italiano e il modernismo internazionale prima della guerra, c’è il primo dopoguerra d’Italia e d’Europa con lo spostamento dell’attenzione dall’Architettura e
arredamento dell’abitazione in città e in campagna, come suonava il primo sottotitolo della testata, alle dimensioni dell’urbanistica sociale. C’è il ventennale confronto con il postmodernismo e, nel 1977, l’irruzione sulla scena dei musei e della
loro concezione della machine à penser Beaubourg progettata da Rogers e Piano a
Parigi. C’è, più in generale, il riflesso della lunga marcia del gusto che nell’Italia
del miglior design industriale del mondo si affranca dal provincialismo ma fatica
di più a superare pregiudizi anche ideologici (e di rado infondati) verso grandi progetti, grandi firme, grandi opere. C’è l’incontro tra arti visive, architettura e innovazione digitale. C’è infine la stagione degli architetti superstar e — siamo all’oggi — quella del suo ripensamento in corso: il premio Pritzker quest’anno è andato
all’architetto cileno Alejandro Aravena che inventa case modulari per le favelas,
l’inglese Turner Prize agli artisti Assemble che come sensibili bricoleur restaurano quartieri dismessi, in rete con gli abitanti volonterosi. Perfino dalla Cina, che fino al rallentamento dell’economia sembrava un po’ in ritardo nell’emanciparsi
dall’incanto delle forme spettacolari importate dai più visionari studi d’Occidente, arrivano invocazioni a un design più attento alla realtà sociale. Il futuro non è
mai come lo si aspetta, anche in architettura. Per questo ci vuole sempre chi lo racconti, dall’interno, man mano che succede.
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Un mistero
su carta
patinata
STEFANO BOERI
«B
ENVENUTO alla
guida della Rolls
Royce
dell’architettura».
Eppure quel saluto
di Deyan Sudjic nel settembre 2003, al
momento di passarmi le consegne per la
direzione, non mi era bastato per capire il
mistero di “Domus”. Quello di una rivista
specializzata e internazionale che era
passata indenne per le mani di svariati
direttori e redattori e autori senza
perdere nulla della sua potenza distintiva.
La verità è che “Domus” non è mai solo
stata una bellissima rivista patinata, con
celebri copertine, grandi immagini e un
formato coraggiosamente rimasto
ingombrante. “Domus” è stata, fin
dall’inizio, un caleidoscopio. Sfogliarla,
entrarci ha significato per intere
generazioni di architetti, artisti,
intellettuali, scoprire ogni volta la natura
eteronoma del fare architettura. Le
pitture decorative che punteggiavano la
“Domus” di Ponti, le fotografie di viaggio
di Sottsass nella “Domus” di Mendini, le
mappe geopolitiche in quella di Grima,
sono solo alcuni dei tantissimi materiali
eclettici che dal 1928 a oggi, una schiera
di redattori coscienziosi e competenti ha
riprodotto e impaginato con una inusuale
e sempre eccellente resa grafica. Nel suo
palcoscenico abbiamo visto scorrere le
correnti dell’arte e le preoccupazioni della
sociologia urbana, le “arti applicate” e la
moda, le scenografie teatrali e la prosa, il
cinema e la violenza della cultura pop. Un
mondo di suggestioni, forme, ispirazioni
di cui l’architettura si è sempre nutrita
con famelica e a volte onnivora vena su
“Domus” diventava e diventa
protagonista: sempre in primo piano e
sempre ricondotto al suo ruolo di
alimento fondamentale per il fare
architettura, per fare design. Nella
grande sfida per far vivere al lettore gli
spazi e le atmosfere di architetture e
oggetti che nella sua vita forse mai
percorrerà con i suoi passi e vivrà con i
sensi, “Domus” ha scelto la strada più
ripida e appassionante. Quella di
raccontare come tutte le architetture e le
opere di design che il mondo ospita non
sono mai solo frutto di una
specializzazione tecnica, ma anche
sempre di quel movimento inclusivo, di
apertura selettiva, che distingue gli
architetti sensibili dai riproduttori in serie
di stilemi ereditati. Ogni architettura non
è infatti solo un minerale duro come un
sasso infisso nel terreno in qualche parte
nel mondo; è anche un potente scrigno di
memorie e di idee, di suggestioni e di
emozioni che nascono nella sfera intima
del suo autore e rivivono in quella
interiore del lettore. Ed è proprio il ponte
di sensazioni che una rivista costruisce tra
autore e lettore, a dare valore di
architettura a manufatti che altrimenti
sarebbero solo un insieme di pietre e
vetro e acciaio e cemento. Il mistero di
“Domus” è forse quello di non
rappresentare fedelmente l’architettura,
ma piuttosto ogni volta di interpretarla.
Con il rigore, la qualità, la ricchezza di un
caleidoscopio di 24,5 x 32,5 centimetri di
pagine di carta, patinata lucida, 300
grammi.
KISHO KUROKAWA. CAPSULE TOWER, TOKYO (1973)
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RENZO PIANO E RICHARD ROGERS. CENTRE POMPIDOU, PARIGI (1977)
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Spettacoli. Ciak, si giri
Sul recitare all’ombra delle star
uno di loro ci ha scritto un libro
Altri potrebbero anche farci un film
Cronache da un mestiere reale
FRANCO MONTINI
L
ROMA
A DOMANDA CHE SI SENTONO FARE più frequentemen-
te è: eppure io la conosco, ma dov’è che l’ho già vista?
Oppure, più spietatamente: l’ho vista in televisione (o
era al cinema?), ma esattamente che cos’è che ha fatto? È il destino dei non protagonisti. Attori e attrici apparsi in una miriade di fiction e film, volti familiari, professionisti preparati, interpreti di sicuro affidamento,
capaci — a differenza dei caratteristi specializzati in un
prototipo — di passare con assoluta naturalezza e credibilità da un ruolo all’altro. Eppure immancabilmente destinati a ruoli minori. E quando una loro interpretazione
si fissa nella memoria collettiva è anche peggio. Perché
in quel (raro) caso sull’attore vince il personaggio e allora è con quest’ultimo che
si viene identificati per sempre. Come scrive Ninni Bruschetta nel suo Manuale
di sopravvivenza dell’attore non protagonista, «se interpreti un personaggio
che ti cambia la vita, quello è per te il nemico da temere: perché, inevitabilmente, tu sei lui e lui è te».
Per strada mi chiamano “Maestro”
Ecco, uno come Ninni Bruschetta per esempio. Sessantatré anni, messinese,
per molti è e resterà Duccio, il direttore della fotografia di Boris, anche se è stato
il più giovane direttore di un teatro pubblico, e ha firmato qualcosa come oltre
trenta regie teatrali e ha lavorato in decine di film e fiction tv. Per dire: è Magno,
il cinico ministro di Quo vado?, è il dottor Iovine de La squadra ed è stato Alfiere
nell’Ultimo padrino: «Che ci vuol fare, il lavoro è poco e le paghe basse, bisogna
accettare tutto, anche facendo i salti mortali e viaggiando da un capo all’altro
dell’Italia, combinando incastri impossibili per girare tre pose di una fiction, una
partecipazione con Zalone, un instant movie sull’immigrazione. Il tutto con l’incubo che più il ruolo è bello e complicato, maggiori sono le probabilità che venga
tagliato. Perché? Perché potrebbe interferire con il ritmo del film. E così alla fine
devo dire grazie a Boris se oggi per strada mi chiamano “maestro”. Sì, maestro.
Addirittura me lo urlano mentre passano in macchina: “Maestro!!!”. Ma è tutto
per una battuta della terza serie: “Maestro, gradisce un po’ di cocaina?”. Mi chiedo ancora se si tratti di veri fan o di semplici cocainomani».
Un ruolo perfetto
NINNI BRUSCHETTA
È DUCCIO, DIRETTORE
DELLA FOTOGRAFIA IN “BORIS”,
L’AGENTE ALFIERE
IN “SQUADRA ANTIMAFIA”
E MAGNO IN “QUO VADO?”
Andrea Tindona, altro non protagonista.
Classe 1951, dal teatro di Strehler al portiere
del Grand Hotel de La vita è bella, dai Cento
passi (il pittore) a La meglio gioventù (il patriarca della famiglia Carati), dal Rocco Chinnici de Il capo dei capi al dottor Alfredi di
Braccialetti rossi fino al Carmine Fazio de Il
giovane Montalbano. «Lo so bene che il pubblico mi ama, peccato che non sappia come
mi chiamo. E tuttavia la cosa non mi sconvolge: la mia passione è mascherarmi, evitare il
cliché, vivere tante esperienza diverse, dimostrare di potermi calare in qualsiasi personaggio. Lo sa? Credo di essere l’unico attore
siciliano che ha recitato anche in napoletano, genovese, emiliano (di solito accade il
contrario, perché mentre tutti possono recitare in siciliano se sei nato sull’isola non ti
fanno fare personaggi di altro tipo). E comunque: se ti piace recitare il ruolo da non
protagonista è perfetto. Perché recitare, solo
questo è quello che ti viene chiesto di fare».
Basta non farsene un cruccio
ANNA FERRUZZO
HA RECITATO IN “BRACCIALETTI
ROSSI”, “QUESTO È IL MIO
PAESE”, “MIO DUCE TI SCRIVO”
E NE “IL SINDACO PESCATORE”.
SEMPRE NON PROTAGONISTA
«Ma certo che se avessi la sindrome della
notorietà avrei scelto di fare altre cose». Tarantina, cinquantenne, Anna Ferruzzo (ha
lavorato in Braccialetti rossi, Questo è il mio
paese, Mio duce ti scrivo) conferma lucida e
serena: «E poi, scusi eh, ma crede che non lo
sappia che oggi garantisce più visibilità una
comparsata in certe trasmissioni tv che una
seria e professionale attività d’attore? Però
non me ne faccio un cruccio, tutto qua».
Sempre i soliti noti
ANDREA TINDONA
ERA IL PORTIERE DEL GRAND
HOTEL NE “LA VITA È BELLA”,
IL DOTTOR ALFREDI
IN “BRACCIALETTI ROSSI”
E ATTILIO IN “BUTTA LA LUNA”
LIDIA VITALE
HA RECITATO NE “LA MEGLIO
GIOVENTÙ”, “LA BELLEZZA
DEL SOMARO”, “TUTTI CONTRO
TUTTI”, “MEDICINA GENERALE”
Un lavoro misconosciuto
Poche pose poco tempo
Non se ne fa un cruccio neppure Luisa De
Santis, figurarsi, settantenne romana, figlia
del regista Giuseppe De Santis. Ne Il caimano di Moretti era Marisa, la segretaria di Silvio Orlando; in tv, ancora come segretaria, è
l’indimenticabile assistente sfigata e cialtrona di Gigi Proietti ne L’avvocato Porta. «No,
non mi lamento neppure io della mancata popolarità, ma delle condizioni economiche sì
che mi lamento. Stanno diventano ogni giorno più disastrose! E poi i registi: ci costringono a studiare in solitudine il personaggio che
c’hanno affidato perché sul set il tempo che
ti viene dedicato è direttamente proporzionale al numero delle pose».
Di produttori e registi parla anche Lidia Vitale, quarantenne e romana. È stata la sorella di Lo Cascio e Boni ne La meglio gioventù,
Delfina ne La bellezza del somaro, la moglie
di Giallini in Tutti contro tutti, il cardiochirurgo di Medicina generale, Stella Lamberti
in Baciato dal sole: «Semplicemente mi piacerebbe che dimostrassero maggior coraggio, senza dover ricorrere sempre ai soliti noti. Del resto da noi sembra essere tutto irrimediabilmente immutabile, imbalsamato.
Mentre negli Stati Uniti si porta il cinema in
televisione, in Italia, spesso e volentieri, si fa
televisione al cinema».
LUISA DE SANTIS
È LA SEGRETARIA DI SILVIO
ORLANDO NE “IL CAIMANO”
DI MORETTI MA ANCHE
DI GIGI PROIETTI NE
“L’AVVOCATO PORTA”
«Il nostro vero problema è un altro. È che
mentre un protagonista ha a disposizione
molte inquadrature e molte scene per far
emergere il proprio personaggio, un non protagonista deve sapere lasciare un segno con
un numero limitatissimo di pose». Salvatore
Cantalupo, napoletano, cinquantasei anni,
viene dal teatro (Antonio Neiwiller, Mario
Martone, Toni Servillo), al cinema è stato Pasquale, il sarto di Gomorra, il sacerdote di
Corpo celeste e il suggeritore licenziato e petulante di Per amor vostro. «Un non protagonista deve essere ancora più talentuoso dei
colleghi più illustri perché certi personaggi
sono scritti solo in funzione del protagonista, devi essere tu a inventare il personaggio. È un lavoro creativo di enorme soddisfazione, ma sostanzialmente misconosciuto».
SALVATORE CANTALUPO
È STATO IL SARTO
DI “GOMORRA”, IL SACERDOTE
DI “CORPO CELESTE”
E IL SUGGERITORE
IN “PER AMOR VOSTRO”
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FOTO DI GRUPPO
LA DEMOCRAZIA SUL SET:
IL CAST DI “MENTRE LA CITTÀ
DORME” (1928) DI JACK
CONWAY CON GLI ATTORI,
PROTAGONISTI E NON, CHE
HANNO PARTECIPATO AL FILM
I quindici
minuti
sono scaduti
MARCO LODOLI
R
Noi non
protagonisti
Le straordinarie avventure
degli attori senza nome
Muoversi molto
Cinquantenne, barese, concorda in pieno.
Con barba o senza, Paolo De Vita è il maresciallo dei carabinieri, zio di Checco Zalone,
in Che bella giornata; ha lavorato con Nanni
Moretti e accanto a Giancarlo Giannini ne La
stanza dello scirocco, ma anche con Woody
Allen in To Rome with Love e con Roland Emmerich in Anonymous mentre in tv è il medico legale di Ris e spesso guest star in Don
Matteo e Un posto al sole. «Ma quale posto al
sole. Da non protagonista devi attrezzarti:
devi sapere che la tua interpretazione sarà
principalmente di spalle e di nuca, fatta di
piani di ascolto. Il segreto è uno solo: muoversi, muoversi molto. È l’unico modo per rendere indispensabile quell’inquadratura in fase
di montaggio».
PAOLO DE VITA
HA LAVORATO CON ZALONE
(“CHE BELLA GIORNATA”)
E WOODY ALLEN (“TO ROME
WITH LOVE”), IN “DON MATTEO”
E “UN POSTO AL SOLE”
IL LIBRO
“MANUALE
DI SOPRAVVIVENZA
DELL’ATTORE
NON
PROTAGONISTA”
DI NINNI
BRUSCHETTA
(FAZI EDITORE,
176 PAGINE,
16 EURO)
È IN LIBRERIA
Dove sei stato finora?
Siciliano, classe 1973, Gaetano Bruno è
un volto ricorrente nel cinema d’autore
(Baaria, Signorina Effe, Il dolce e l’amaro,
Gli angeli del male sulla banda Vallanzasca):
«Quando un regista, nel caso specifico Francesco Munzi, realizza un film, Anime nere, affidando i ruoli principali a un gruppo di non
protagonisti, tutti si sorprendono della qualità delle interpretazioni e chiedono a questo
o quell’attore: ma dove sei stato finora? Come se fossimo vissuti sulla Luna». Lui ha avuto anche un ruolo da protagonista, ne L’isola
dell’angelo caduto di Lucarelli. Peccato che
il film alla fine non sia mai uscito.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
GAETANO BRUNO
DA “BAARIA” A “VALLANZASCA”,
DA “IL DOLCE E L’AMARO”
A “SIGNORINA EFFE”: PRESENTE
IN MOLTO CINEMA D’AUTORE
ICORDO PERFETTAMENTE il
momento in cui uno
studente mi rivelò quale
nuova direzione stava
prendendo il fiume del
tempo che tutti e tutto trascina. Gli
avevo domandato cosa avrebbe voluto
fare da grande, e lui mi guardò serio,
determinato, convinto, e poi mi rispose:
«Voglio essere famoso». E allora
inevitabilmente feci la seconda
domanda: «Ma famoso in che settore,
famoso per aver fatto cosa?», e lo
studente cambiò espressione,
sembrava stupito per la mia ingenua
richiesta di una precisazione. «Famoso e
basta», tagliò corto. Erano gli anni tra la
fine del “Maurizio Costanzo show” e
l’inizio de “Il Grande Fratello”, anni in
cui chiunque poteva immaginare di
diventare qualcuno anche senza saper
fare nulla di buono. L’arrembante
società dello spettacolo offriva questa
fantastica illusione e stabiliva con un
faretto puntato a caso che la vita valeva
solo se si separava dalla penombra
dell’anonimato. Si era finalmente
realizzata la celebre profezia di Andy
Warhol, era arrivata l’epoca in cui tutti
potevano essere famosi per quindici
minuti. Il superomismo di massa
garantiva emozioni e forse anche
qualche manciata di banconote senza
passare attraverso rischi inutili, sacrifici
penosi, fatiche insopportabili. Quel
sogno dorato e pigro è stato spazzato via
dalla crisi con una sola gelida ventata,
oggi nemmeno il più tonto dei ragazzi
pensa che ci sia un arco di trionfo e di
cartapesta ad aspettarlo mentre se ne
va a zonzo. Certo, sulle copertine delle
riviste appaiono sempre i volti
sorridenti delle star, ma chi le legge più
quelle riviste, chi appende più quelle
foto in cameretta? Oggi si torna ad
arrotolare le maniche e a sudare dalla
mattina alla sera per conquistare un
posto di lavoro, oggi andrebbe più che
bene una vita da mediano, là in mezzo, a
correre e spingere per non essere
tagliati fuori. Sul palco continuano ad
agitarsi i fortunati, ma sotto non c’è più
una folla in delirio, milioni di persone
che sognano di salire e afferrare
coriandoli di gloria insensata. Oggi è di
nuovo chiaro a tutti che bisogna
impegnarsi allo spasimo per salvare la
pelle, che la vita vera — feroce,
meravigliosa, irripetibile — sta
nell’impegno quotidiano. Non serve
l’Oscar per dimostrare di valere
davvero, basta che ci sia la possibilità di
fare bene ciò che si vuole e si deve fare.
Non immaginiamo più il nostro nome a
caratteri cubitali su un manifesto che
domani sarà ingiallito, saremmo già
felici di vederlo brillare su un’insegna
salda e onesta: “Bar da Mario”, “Luigi,
meccanico di moto”, “Rosella, abiti per
bambini”, “Marco, insegnante e
scrittore”.
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Next. Evoluzioni
Da più di cinquant’anni l’invenzione di Ted Maiman ci accompagna in molti campi
Le tappe
A
1964
1960
THEODORE HAROLD MAIMAN,
FISICO E INGEGNERE
ELETTRONICO STATUNITENSE
PRESSO I LABORATORI DELLA
HUGHES RESEARCH A MALIBÙ,
REALIZZA IL PRIMO LASER
A CRISTALLI DI RUBINO
1954
CHARLES H. TOWNES,
DELLA COLUMBIA UNIVERSITY
DI NEW YORK, COSTRUISCE
IL MASER, UN DISPOSITIVO
CAPACE DI AMPLIFICARE
LE MICROONDE USANDO
UN’EMISSIONE STIMOLATA
1917
EINSTEIN, NEL SUO TRATTATO
“ZUR QUANTUM THEORIE
DER STRAHLUNG” (“SULLA TEORIA
QUANTICA DELLA RADIAZIONE”)
TEORIZZA LA POSSIBILITÀ
DI UN’EMISSIONE STIMOLATA
DELLA LUCE
SILVIA BENCIVELLI
VEVA UN CUORE DI RUBINO ED ERA TANTO PICCOLO da
stare in
una mano. Era il primo laser della storia, e si stava preparando a cambiare le nostre vite illuminando di rosso le pareti di
un laboratorio di Malibu. Era il 16 maggio del 1960 e, come
ebbe a dire il suo inventore, il fisico Ted Maiman, in quel momento il laser era già «una soluzione in cerca di problemi».
Cinquantasei anni più tardi, di problemi ne ha effettivamente risolti molti, anche quelli che allora non sapevamo di avere: produce i circuiti elettronici di telefonini e computer, fa
funzionare stampanti e lettori di cd e dvd, lo incontriamo
dal medico, alla cassa del supermercato, ai tornelli di ingresso di musei e metropolitane, e a qualcuno può persino essere capitato di usarlo per misurare la distanza tra la Terra e la Luna. Ma una seconda rivoluzione è vicina, e il futuro del laser oggi appare più luminoso che mai.
Il laser è un dispositivo che produce una luce intensa, monocromatica, e concentrata in
un fascio rettilineo. Con questa luce si possono fare tagli di grande precisione, per esempio utili in chirurgia, o trasportare informazioni a distanza lungo le fibre ottiche. Il nome
laser è un acronimo che, tradotto, significa “amplificazione di luce mediante emissione stimolata di radiazioni” il che, a grandissime linee, ne spiega il funzionamento: un’amplificazione di fotoni (cioè radiazione luminosa) prodotti stimolando gli elettroni del cuore del
I FISICI BASOV, PROKHOROV,
TOWNES RICEVONO IL PREMIO
NOBEL PER LA FISICA GRAZIE
AGLI STUDI SULL’ELETTRONICA
QUANTISTICA CHE HANNO
PORTATO A REALIZZARE
IL MASER—LASER
dispositivo, quello che Maiman aveva costruito di rubino. L’idea primigenia era stata di Albert Einstein, che nel 1917 aveva descritto l’”emissione stimolata di radiazioni”. Ma per la prima parte dell’acronimo,
cioè per l’”amplificazione della luce” così
prodotta, ci volle del tempo: un po’ perché
serviva una certa tecnologia, un po’ perché
la comunità scientifica aveva già abbastanza da fare con il resto delle idee di Einstein
e con la fisica del Novecento. Una volta accesa quella luce color rubino a Malibu, però,
bastarono due anni perché un laser entrasse in una sala operatoria, e si trovasse a lampeggiare tra le mani di un oculista.
Oggi la maggior parte dei laser discendono da quello, e sono fatti come il nome descrive. «Ma da allora si sono evoluti tantissimo», spiega Paolo De Natale, direttore
dell’Istituto nazionale di ottica (Ino) del
Cnr, che ha la sede sulle colline di Arcetri
(Firenze) davanti alla villa di Galileo Gali-
Che il
Laser
sia con te
Sarà un futuro molto luminoso
lei. «La luce laser è nata nella regione del visibile, per questo se diciamo laser pensiamo a una luce colorata. Ma poi siamo riusciti a coprire regioni dello spettro elettromagnetico via via sempre più ampie. E allargare la copertura dello spettro significa allargare le possibilità di applicazione del laser». Per esempio, «nell’infrarosso si possono distinguere bene le molecole: molecole
semplici, come la CO2, e molecole complesse, come quelle biologiche». Quindi i laser
diventano cruciali per produrre sensori di
inquinamento o nuovi strumenti di studio
in biologia, e in futuro anche di diagnosi. Oltre, al confine con il regno delle microonde,
nella regione delle frequenze terahertz, si
possono produrre fasci di luce non visibile a
cui molti materiali sono trasparenti: «e pensate che vantaggio per i sistemi di sicurezza, come quelli in aeroporto».
Da quelle parti dello spettro c’è un nuovo
tipo di laser: il laser a cascata quantica.
Cosa ci si fa oggi
Otorinolaringoiatrica
Grazie alla sua precisione si usa
per interventi chirurgici nel cavo orale
Chirurgia oculistica
Si usa per correggere miopia,
ipermetropia e astigmatismo
Chirurgia estetica
Asportazione lesioni benigne, rimozione
tatuaggi, epilazione, fotoringiovanimento
Terapie oncologiche
Fotochemioterapia, con il laser si attivano
sostanze fotosensibili legate a cellule tumorali
Specchio
riflettente
Cristallo
di rubino
Onde
luminose
Specchio
semiriflettente
Raggio
laser
...e cosa domani
Il raggio laser convenzionale viene generato
facendo passare un fascio di luce attraverso
un condotto dalle pareti riflettenti,
nel quale è presente un materiale dalle particolari
proprietà fisiche, che ne provocano l'amplificazione:
anziché perdere potenza, ne guadagna
Repubblica Nazionale 2016-03-06
la Repubblica
DOMENICA 6 MARZO 2016
39
Ma oggi siamo alle soglie di una nuova rivoluzione. E a farla sarà l’informatica
1967
1985
2011
FIN DAL LORO DEBUTTO, I PINK
FLOYD SI DISTINGUONO PER
GLI SPETTACOLI DI LUCI LASER,
UNICI NEL PANORAMA MONDIALE
A UTILIZZARE ANCHE LASER
A VAPORI DI RAME, SOLITAMENTE
USATI NELLA RICERCA NUCLEARE
IL CD ROM (DERIVATO
DAL CD AUDIO) SOSTITUISCE
IL FLOPPY DISK: UN RAGGIO
LASER INCIDE UN DISCO
DI 12 CENTIMETRI CONSENTENDO
DI MEMORIZZARE 650 MB
EQUIVALENTI A 450 FLOPPY
AL SALONE DELL’AUTO
DI FRANCOFORTE BMW PRESENTA
IL CONCEPT IBRIDO I8, PRIMA
AUTO CON FARI AL LASER
CHE EMETTE UN FASCIO
DI LUCE POTENTISSIMO
A BASSO CONSUMO ENERGETICO
«All’Ino ci stiamo lavorando sin da quando
fu inventato, circa venti anni fa. Da allora
studiamo la fisica di queste sorgenti, che intanto sono diventate sempre più compatte
e versatili e oggi si possono usare a temperatura ambiente», prosegue De Natale.
Strumenti basati su questo laser si usano
già, per distinguere l’anidride carbonica
prodotta bruciando combustibili fossili da
quella da fonti rinnovabili e per datare reperti archeologici.
Dalla parte opposta dello spettro c’è
un’altra grande sfida per il futuro: «produrre laser che diano radiazioni a lunghezze
d’onda così corte da permettere di costruire circuiti elettronici sempre più piccoli.
Tanto da fare megacomputer grandi come
telefonini», spiega Massimo Ferrario, dei
Laboratori Nazionali di Frascati dell’Infn.
Solo che qui la tecnologia convenzionale
non basta più. «Per andare oltre l’ultravioletto la prossima rivoluzione saranno i co-
‘‘
VA BENE CELEBRARE
I SUCCESSI,
MA È PIÙ IMPORTANTE
NON PERDERE DI VISTA
LE LEZIONI
CHE SI POSSONO
IMPARARE
DAI FALLIMENTI
THEODORE MAIMAN,
INVENTORE NEL 1960
DEL LASER A RUBINO
,,
siddetti laser a elettroni liberi — prosegue
Ferrario — cioè laser in cui a essere stimolata è una nuvola di elettroni non legati a nuclei atomici: a seconda di quanto li accelero, posso generare radiazioni di lunghezza
d’onda diversa, anche molto corta, come
raggi X».
Il primo laser di questo tipo fu costruito
nel 1977 e oggi al mondo ne esistono pochi,
anche perché si tratta di macchine enormi.
«La grande sfida consiste proprio nel ridurne le dimensioni e i costi così da renderne
possibile l’uso negli ospedali, nelle università e nelle industrie». Uno oggi si trova nel laboratorio Elettra — Sincrotrone Trieste e si
chiama Fermi: «è un oggetto di trecento
metri con caratteristiche uniche», spiega
Claudio Masciovecchio, che ne è il responsabile scientifico. «Con questo laser possiamo studiare la materia fino al singolo atomo, e capire nel dettaglio come funzionino
certe proteine. Per esempio quelle dei pro-
2015
DALLA DERMATOLOGIA ALLA
RIABILITAZIONE NEUROLOGICA,
DALL’ODONTOIATRIA ALLA
CHIRURGIA ESTETICA E, PER
LA PRIMA VOLTA, ANCHE ALLA
VETERINARIA AUMENTANO I CAMPI
DI APPLICAZIONE DEL LASER
cessi della fotosintesi, che è un sistema di
produzione dell’energia di grandissima efficienza», e che sarebbe quindi bello essere
in grado di copiare.
Intanto il laser ha permesso di costruire
orologi atomici superprecisi, di quelli che
perdono meno di un secondo durante tutta
la vita di un Universo, su cui si basano oggi i
nostri sistemi di posizionamento satellitare. E sarà «il connubio tra informatica e laser a fare davvero la rivoluzione», prevede
De Natale. Comunque, che cosa ci riservi in
futuro il laser non è facile provare a figurarselo: «negli anni sessanta chi studiava i laser veniva preso per matto: non immaginavamo certo come li avremmo usati oggi»,
chiosa ridendo Ferrario. Come dire che, per
saperlo, possiamo solo continuare a seguire la strada indicata da quella luce rosso rubino che cinquantasei anni fa si è accesa a
Malibu.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Fibre ottiche
Lettura codici a barre
Telemetro laser
La luce laser con sua concentrazione
è usata per la trasmissione nelle fibre
Identifica e fornisce il prezzo nei negozi
e nelle casse del supermercato
Introdotto negli anni ’70 misura la distanza
per il tiro nelle armi pesanti a breve distanza
Scrittura e lettura cd e dvd
Packaging intelligente
Bomba a guida laser
Un raggio laser incide la superficie
vergine del cd per imprimervi i dati
Controllo e lettura flussi degli imballi
in fase di produzione industriale
Lanciato in prossimità del bersaglio e guidato
con precisione sull’obbiettivo
Disegno di ologrammi
Taglio metalli
Puntatore laser (armi leggere)
Un laser incide una pellicola fotosensibile
creando un’immagine tridimensionale
La potenza concentrata in un’area molto
piccola, permette taglio, incisione e saldatura
Un raggio di luce rossa coassiale all’arma
indica il punto di impatto della pallottola
Stampante laser
Punzonatura laser
Laser accecante
Derivata dalla fotocopiatrice, grazie
alla sua definizione rivoluziona l’informatica
Regolando la potenza si possono serigrafare
con precisione i più svariati materiali
Un dispositivo elettro-ottico cinese in grado
di accecare il nemico, viene bandito nel 1995
1 5 4 8
INFOGRAFICA DI ANDREA MARI
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la Repubblica DOMENICA 6 MARZO 2016
Sapori. Calienti
SFRUTTANDO
IN MODO VIRTUOSO
I DANNI PROVOCATI
DAL CLIMATE CHANGE
NEL SUD D’ITALIA
SI COLTIVANO
SEMPRE PIÙ PIANTE
TIPICHE DI ALTRE
LATITUDINI
LA CHERIMOYA
E LA GUAVA
SOSTITUIRANNO
ARANCE E LIMONI?
I tropici sotto casa.
Mango, litchi e avocado
il frutto esotico della Sicilia
“L
LICIA GRANELLO
Il libro
È in libreria l’edizione 2016
di Tutto Bio, l’annuario italiano
del biologico, con oltre
cinquemila indirizzi di aziende,
agriturismi, gruppi di acquisto,
ristoranti, negozi e mense.
Tra i prodotti segnalati, la frutta
esotica certificata “organic”
Litchi
A SICILIA, A INIZIO PRIMAVERA, era un paradiso di fiori. Anice,
gelsomini, cactus e fiori di mandorlo sbocciavano ovunque, e la città intera si riempiva del loro dolce profumo”.
La descrizione di Banana Yoshimoto nel suo Il viaggio di
una vita suona meravigliosamente aromatica e zuccherosa. Ma sei anni dopo la pubblicazione del romanzo, occorre
un aggiornamento: i fiori in boccio ormai sono anche quelli del banano e del mango, di litchi e avocado.
Tropicalizzazione della Sicilia, la chiamano. La definizione ha una doppia valenza: sfruttando in modo virtuoso
il problema terribile del cambiamento climatico, la California d’Italia prova ad accaparrarsi un pezzetto di cartina
geografica in più, quella che guarda verso l’America Latina.
La notizia non è nuova. Le sontuose foglie del banano e quelle piccole e lucide dell’annona cherimola decorano da molto tempo strade e giardini, senza soluzione di continuità tra Sicilia e Calabria. Una ricchezza
botanica acquisita negli anni, ma tutta o quasi votata all’elemento estetico. Per molto tempo, infatti, i frutti sono stati considerati poco interessanti, se non addirittura poco o nulla commestibili.
Corsi e ricorsi storici. Per gran parte del diciassettesimo secolo, molte delle piante importate dal Nuovo
Mondo, scoperte dai conquistadores e introdotte come trofei in Europa — mais, avocado, zucca, fagioli, peperoni, cacao — furono considerate esclusivamente ornamentali. Complice la presenza di un alcaloide tossico (in grandi quantità) come la solanina, patate e
pomodori non ebbero altro spazio che nelle nature all’espansione delle coltivazioni si identifica con la
morte.
mancanza di piante, tra vivai poco provvisti e la conAllora come oggi, la curiosità è stata più forte del- correnza della Spagna. Corrado Assenza, lìder male scarse informazioni. Lentamente ma inesorabil- ximo della pasticceria siciliana, va un passo oltre:
mente, i frutti esotici hanno lasciato piazze e giardi- «Sarebbe bello, dove possibile, perpetrare le varieni per approdare in cucina, complice la sapienza tà autoctone, in quanto importate molto tempo fa.
creativa dei cuochi di nuova generazione. Ma so- Penso per esempio alle nostre banane, che qui chiaprattutto, l’appeal si è esteso alle campagne, an- miamo Muse (come da nome botanico) che hanno
dando a occupare spazi fino a oggi impensati.
un gusto originale e straordinariamente zuccheriLa parola appeal non è casuale: rispetto ai buoni no. Ma più ancora sarei felice che le nuove piantavecchi agrumi, coltivati da una parte all’altra dell’i- gioni fossero a cielo aperto, togliendoci dagli occhi i
sola da millenni, mango e avocado vantano alta red- nostri paesaggi rovinati dagli infiniti tunnel di pladitività e miglior posizionamento sul mercato. Co- stica delle coltivazioni seriali».
sì, dove i miseri prezzi offerti da commercianti e
Se la Sicilia in versione esotica vi attrae, organizgrande distribuzione hanno indotto gli agricoltori zate una gita in autunno, quando l’ultimo sole forte
ad abbandonare i terreni, grande è la tentazione di porterà a maturazione i frutti tropicali made in Itaestirpare aranci e limoni in favore di banane & Co.
ly. Nel frattempo, godetevi le fioriture, proprio coGli ettari sono ancora relativamente pochi. Dal me la brava Yoshimoto.
Messinese ad Acireale fino a Pachino, il primo freno
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Feijoa
Feijoa
Appartiene alla famiglia
delle mirtacee l’arbusto
di origine sudamericana
dai bellissimi fiori rossi.
I frutti, dolcemente aciduli
e profumati, sono ottimi
da soli o in macedonia
Cherimoya
Adornano il lungomare
Falcomatà di Reggio Calabria
le belle piante di Annona
cherimola. Il frutto,
cremoso, zuccherino e ricco
di minerali, è un eccellente
ingrediente per sorbetti
L’appuntamento
Dal 18 al 20 marzo Fiera Milano
City ospita la tredicesima edizione
di “Fa’ la cosa giusta!”,
fiera del consumo critico
e degli stili di vita sostenibili.
Nell’area “Speziale”, possibilità
di assaggiare frutta, tè e cioccolato
del commercio equo e solidale
La ricetta.
La mia crema al caffè
con capperi e banane caramellate
Frutto della passione
INGREDIENTI
PER LA CREMA AL CAFFÈ: 1.000 G. DI PANNA LIQUIDA; 130 G. DI CHICCHI DI CAFFÈ PESTATI;
255 G. DI TUORLI; 265 G. DI ZUCCHERO
PER LA PUREA DI BANANE: 130 G. DI ZUCCHERO; 660 G. DI BANANE
PER IL FRIZZANTE DI CAPPERI: 330 G. DI ZUCCHERO; 130 G. DI ACQUA;
65 G. DI EFFERVESCENTE (TIPO BRIOSCHI); 15 G. DI CAPPERI DISIDRATATI
PER LA PASTA FROLLA: 600 G. DI BURRO FREDDO A CUBETTI; 225 G. DI UOVA;
380 G. DI ZUCCHERO A VELO; 120 G. DI FARINA DI MANDORLE; 1 KG DI FARINA 00
P
L’iniziativa
Si chiama Binaria il “centro
commensale” aperto dal Gruppo
Abele a Torino. All’interno,
la pizzeria Berberè (che usa farine
bio e lievito madre), una libreria
e una bottega con gli alimenti
di Libera Terra, prodotti
su terreni confiscati alle mafie
er la crema bollire la panna, versare i chicchi di caffè e far riposare una notte in frigo, filtrare con un colino. Riportare a bollore, spegnere e unire i tuorli montati con lo zucchero. Per la purea caramellare le banane affettate con lo zucchero, fino a ottenere
un composto asciutto, setacciare e tenere da parte. Per il frizzante di
capperi in una pentola zucchero e acqua, portare a 130°, spegnere e
aggiungere l’effervescente e i capperi, stendere in una teglia quadrata foderata col silpat. Lo zucchero inizierà a crescere e in pochi
secondi si cristallizzerà. Per la pasta frolla impastare farine, zucchero e un pizzico di sale col burro, poi le uova. Riposare in frigo.
Tirare e cuocere a 175° dopo aver spennellato con tuorlo d’uovo.
Raffreddare, stendere uno strato di purea di banana sul fondo
della torta e colare il composto di panna aromatizzata. Cuocere
un’ora a 100°. Servire col frizzante ai capperi e gelato alla banana.
LO CHEF
ANDREA APREA
GUIDA LE CUCINE
DEL VUN,
RISTORANTE
STELLATO
DELL’HOTEL PARK
HYATT DI MILANO,
DOVE I PIATTI
VENGONO
IMPREZIOSITI
DA TOCCHI ESOTICI
E INNOVATIVI,
COME IN QUESTA
RICETTA IDEATA
PER REPUBBLICA
Guava
Repubblica Nazionale 2016-03-06
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la Repubblica DOMENICA 6 MARZO 2016
Litchi
Tronco grigio scuro e grandi
foglie composte sempreverdi
per il ciliegio cinese,
i cui piccoli frutti dalla buccia
ruvida vantano polpa
succulenta e delicata.
Perfetto nei cocktail
La favola
crudele
del pomodoro
lappone
Avocado
Già conosciuta in Messico
e Guatemala durante l’epoca
pre-colombiana,
la Persea americana regala
frutti (drupe) dalla polpa
morbida e grassosa,
alla base della salsa guacamole
Avocado
Carambola
Mango
Carambola
Cherimoya
Mangostano
Guava
Lo xalxocotl degli Aztechi
è un piccolo albero con oltre
centocinquanta varietà.
Col frutto — polpa bianca
o rossa, burrosa e ricca
di antiossidanti — si fanno
confetture golose
Dalla fragile Averrhoa
carambola si ottengono
gli originali frutti a sezione
stellata, ricchi di polifenoli,
da utilizzare acerbi
affettati in insalata
o maturi per decorare le torte
Mango
Dal maestoso Mangifera Indica,
albero nazionale
del Bangladesh alto
fino a quaranta metri, arrivano
i frutti ricchi di fruttosio
e vitamine, usati in India
per chutney e marmellate
Pitaya
Banana
La Musa paradisiaca, diffusa
dagli arabi (da cui la parola
banan, dito) in Africa
e Occidente, produce frutti
piccoli, tozzi e dolcissimi
che maturano a fine estate.
Ottima nei plumcake
Banana
LUCA MERCALLI
Q
UELLE POCHE VOLTE che al
bar Sport si parla di
cambiamenti climatici,
una delle battute più
gettonate è: “Ma che
problema c’è se farà più caldo? Vorrà dire
che coltiveremo le banane a Piacenza e i
pomodori in Siberia!”. Sono
banalizzazioni superficiali di un
problema estremamente più complesso e
preoccupante. Se la temperatura
terrestre aumenterà di circa 5 gradi entro
il 2100, qualora non si prendano oggi
provvedimenti di riduzione delle
emissioni da combustibili fossili,
assisteremo a uno sconvolgimento
epocale dell’ambiente terrestre. E se
qualche piccolo e temporaneo vantaggio
locale potrà esserci, sarà purtroppo
ampiamente sovrastato dagli svantaggi
globali. Prendiamo l’Italia. Cinque gradi
in più in estate significherebbero una
rilevante desertificazione del Paese. Il
Sud, che già oggi soffre di frequenti
siccità, potrebbe trovarsi in condizioni
africane, e la pianura padana
assumerebbe sembianze tropicali, con i
ghiacciai alpini azzerati e il Po ridotto a
un rigagnolo. In queste condizioni
l’agricoltura nazionale si modificherebbe
drasticamente, perdendo le sue
produzioni tipiche e riducendo
enormemente la quantità dei raccolti. Si
diffonderebbero nuovi parassiti dei
vegetali che minaccerebbero la
produzione. Ma dunque le banane a
Piacenza non potrebbero compensare le
perdite di mele migrate nel frattempo in
Lapponia? Non è così facile introdurre
colture che hanno esigenze molto
particolari. Se non piove a sufficienza
soffrono, se manca luce (la latitudine non
si può modificare) non prosperano, e
basterebbe una sola gelata, sempre
possibile in inverno anche in un clima
mediamente più caldo, a sterminarle. E i
pomodori in Siberia? I suoli acquitrinosi e
torbosi della tundra impiegherebbero
secoli a trasformarsi in buoni terreni
agricoli. E poi ci sono gli eventi
meteorologici estremi, alluvioni, uragani,
grandinate, che aumenterebbero
comunque in futuro con l’incremento
della temperatura spazzando in poche
ore interi distretti agricoli. Aggiungiamo
la perdita di fertili pianure costiere per
l’aumento del livello dei mari e la
salinizzazione delle falde idriche: ci
sarebbero milioni di profughi climatici
che darebbero l’assalto alle nuove terre
eventualmente coltivabili nel nord del
mondo. Insomma, è molto più facile
perdere in pochi anni l’agricoltura
millenaria che conosciamo che
guadagnare nuove aree adatte alle
coltivazioni, per le quali vi sono mille
incognite e tempi lunghi. Cerchiamo
invece di far di tutto per contenere
l’aumento termico al 2100 entro i due
gradi, come deciso alla conferenza di
Parigi del dicembre 2015, in modo da
minimizzare i danni e adattarci con
maggior facilità a un cambiamento meno
drastico. Ma che comunque ci sarà.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
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LA DOMENICA
la Repubblica
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L’incontro. Dissacranti
‘‘
SENZA
PALCOSCENICO
NON DEVO FINGERE
DI ESSERE
IL MIO PERSONAGGIO:
UNA LIBERAZIONE
MI PIACE L’IDEA
DI POTER METTERE
LA MIA ESPERIENZA
AL SERVIZIO
DI CHI CERCA
UN’OPPORTUNITÀ
Da piccola la mandarono in collegio dalle suore e fu lì che lei cominciò a far ridere: “Imitandole”. Poi, poiché non avrebbe mai potuto fare la pianista (“con queste mani da talpa”) né l’attrice
(“con questa faccia”), e dopo aver fatto l’insegnante, decise di proseguire sulla strada della comicità: “Quello che mi piace di più è
sempre stato l’umorismo alla Stanlio e Ollio, che parte da una fragilità e si trasforma in tenerezza”. Fragilità e tenerezza? Proprio
così: e questa è la “Lucianina” sul
web con il suo blog. L’ha chiamato Cicapui, parola piemontese che indica
qualcuno o qualcosa di appiccicoso, «come il fiore della bardana, non hai bisodi legarlo o di stringerlo: ti avvicini e si attacca a te» . È la sua ultima impresa. Uno spazio aperto, un luogo di incontro fra le sue passioni e quelle di chi siesconosciuta e per niente cinica gno
de da quest’altra parte. «Mi spediscono soggetti per film, idee per romanzi, bozze di spettacoli. Mi scrivono artigiani che si inventano cose. Io leggo tutto, sceldecido cosa tenere in vetrina, cosa proporre. Mi piace l’idea di un posto in
che in tv si appresta a fare il giu- go,
cui le cose belle per uno possano diventare bellissime per tanti». Se una frase così la dicesse Fazio, lei se lo sbranerebbe. «Macché, lui è un cinico, ma proprio ciMeno male, sennò… Sto lavorando sul linguaggio della rete, sulle sue podice di “Italia’s got talent”: “Cini- nico.
tenzialità. Quasi sempre ne parliamo in termini negativi. Io stessa ogni tanto finisco dentro un polverone di reazioni per ciò che dico in televisione. Ma in rete
un blocco sociale di cui non avevo colto per intero la potenza positiva, coca io? Fazio, lui sì che lo è per esiste
struttrice. La rete può essere una fogna a cielo aperto o un campo fertile dove
metti a far crescere delle cose, ma anche minime sensazioni: un incontro inaspettato, la sensazione degli alluci che affondano nella sabbia, un libro che hai
davvero”
scoperto per caso. Non sto sui social per mostrare me stessa, ma per raccontare
Luciana
Littizzetto
ANGELO CAROTENUTO
Q
‘‘
ROMA
UESTA DONNA CHE FA COLAZIONE alle nove del mattino nella camera
di un hotel romano in via Veneto non è “la Littizzetto”: non è la
maschera del Walter, della Jolanda, di Ruini-Eminence, non è la
guastatrice che invita Belén a “darla via in beneficenza”. Il vassoio è adagiato su un pouf in un angolo. «Un conto è far satira da Fazio, aggredire, essere caustica con i potenti; un altro è confrontarsi con le persone comuni». Ballerini rock di settant’anni, un padre e un figlio giocolieri, i breakers, due ragazzini che cercano di battere il record di lunghezza di un bacio in
tv, quelli che tagliano le zucchine con un drone, la band musicale che suona con
le parti intime. È il pezzo di Paese che cerca un’occasione, passato sotto i suoi occhi per le audizioni di Italia’s got talent (programma prodotto da FremantleMedia che dal 16 marzo va in prima serata per dieci mercoledì su Tv8). Giudici:
Claudio Bisio, Frank Matano, Nina Zilli e lei, la donna italiana sulle cui spalle
strette noi del pubblico abbiamo gettato come una condanna il dovere di dissacrare ogni cosa. E invece eccola qui. Un letto a due piazze sfatto per metà, un
piumone bianco, l’ultimo libro di Antonio Pascale sul cuscino: tra le pagine una
matita gialla che lo taglia in due. I segnalibri sono armi letali. Non sai mai da cosa ti stanno separando. Quest’Italia che un tempo andava a prendersi fischi e ululati alla Corrida, adesso intenerisce Nostra Signora dello sberleffo. «Credo di aver capito il motivo. Da giudice di un talent io non mi
mostro e non fingo: io sono. Una specie di liberazione. Quando sei su
HO UN MIO BLOG PERCHÉ IN RETE ESISTE UN BLOCCO
SOCIALE DI CUI NON AVEVO MAI COLTO LA VALENZA
POSITIVA. CERTO CHE I SOCIAL POSSONO ESSERE
UNA FOGNA A CIELO APERTO MA ANCHE UN CAMPO
FERTILE DOVE FAR CRESCERE LE COSE
un palco, non sei sempre te stesso. Sei un po’ come
al servizio del tuo personaggio. Fare il giudice non
sapevo cosa fosse. In genere mi trovo più spesso nei
panni dell’imputata, è una dimensione che mi appartiene di più. Voglio dire: ti capita pure di imbatterti nei
balenghi, ma finanche loro meritano un momento di attenzione. Sento molto la responsabilità di non ferire nessuno in questo mondo di energia e desiderio, mandato
avanti da un motore positivo: gente che ci crede, che ha
studiato, s’è esercitata. Mi piace poter mettere il mio
percorso e la mia esperienza al servizio di qualcuno
che chiede di avere un’opportunità» .
Va nella stessa direzione il senso del progetto che
da qualche mese Luciana Littizzetto manda avanti
che esistono ipotesi e possibilità. Come al Monopoli». Dare una chance. «A me,
a suo tempo, non ne hanno regalate. Torino è una città che se ne sta un po’ per
conto suo. Esisteva il gruppo dei romani, il gruppo dei fiorentini, e così via. Io
non facevo parte di nulla. Quando ho iniziato, a Torino c’era Piero Chiambretti,
c’era Bruno Gambarotta, c’era Arturo Brachetti: ma se oggi volessimo rivederci e celebrarci, al massimo potremmo andare a farci una pizza fuori» .
Questo segmento di Littizzetto esisteva già. Ma se ne stava al chiuso. Luciana coltivava il suo senso per la premura in privato, mentre noi eravamo concentrati sul suo tratto più esposto. «Credo di aver sempre avuto nella mia vita questo spirito di accoglienza». Nove anni fa, frequentando la comunità “La difesa
del fanciullo”, matura l’idea di una maternità. Per la società ha un compagno,
per le leggi dello Stato è single. L’affido è la sola via possibile. In casa arrivano
Vanessa e Giordan, sorella e fratello la cui patria potestà appartiene al Comune
di Torino. «E poi son cresciuti e sono diventati ragazzi spiritosi. Lui compie diciannove anni a maggio, è all’ultima classe di scuole superiori, ha fatto una volta la comparsa in una fiction. Lei ne ha ventuno, è all’Accademia di belle arti, è
più timida ma forte, determinata. Li portavo con me per musei, alle mostre, e
mi odiavano. Andare al cinema era più facile, eppure oggi alle mostre ci vanno
da soli. Forse è vero che se respiri un certo clima in casa finisci per assorbirlo.
Ma ogni famiglia fa come gli pare, soprattutto fa come può». La sua mandò la
piccola Luciana in collegio dalle suore. «Solo che ero spesso malata, mi si gonfiavano le tonsille e così ero costretta a starmene a casa, in compagnia della radio
accesa. La radio, sì, non la televisione. Al mattino davano questi sceneggiati
meravigliosi, oppure le fiabe dei Grimm, e allora ho cominciato a sognare che
sarei diventata un’attrice della radio anch’io, consapevole già da bambina che
era meglio se non avessi fatto vedere la faccia». La libertà, diceva Hugo, comincia dall’ironia. «I miei erano lattai, gente normale. L’idea di un percorso artistico, per loro, era legata alla danza. Così un anno sono andata a ballare. Ma avevo
un nonno che suonava la chitarra, mio padre la fisarmonica e uno zio il clarinetto nella banda. In quinta elementare ho cominciato a prendere lezioni di piano
‘‘
DA BAMBINA AMAVO MOLTO LA RADIO,
E QUANDO ERO MALATA E NON ANDAVO
A SCUOLA ME LA ACCENDEVO E SOGNAVO
CON LE FIABE DEI FRATELLI GRIMM
O CON QUEGLI SCENEGGIATI MERAVIGLIOSI
e crescendo mi sono ritrovata al Conservatorio. Eppure sapevo che non sarebbe stata quella la mia strada, non mi vedevo concertista con queste mani da talpa. Il diploma mi ha però consentito di entrare a insegnare musica nelle scuole». La professoressa Littizzetto. «Con i primi stipendi da supplente mi sono pagata un corso di dizione e di doppiaggio. Ma già a scuola avevo capito che sapevo far ridere. Prima con le imitazioni delle suore, poi quando mi invitavano a
raccontare una storia, e io attaccavo con quelle che mi piacevano da morire, quelle sentite alla radio, ma rilette a modo mio» . La comicità è un mare in cui si può nuotare con più stili. «A me hanno sempre fatto molto ridere Stanlio e Ollio. Mi piace la comicità che parte da una fragilità e si trasforma in tenerezza. Lo so che parrà strano, ma i comici cinici non mi
hanno mai divertito, con l’eccezione di Raimondo Vianello, specialmente negli sketch con la Mondaini. La comicità si allena leggendo, e
non dico solo testi umoristici; si allena facendo grandi figuracce nella vita di ogni giorno, ma disponendosi all’ascolto, mettendosi in
gioco, aprendo gli occhi sui mille modi in cui le altre persone leggono la vita, imparando dalla maniera in cui hanno risolto la loro, guardando da quale parte sono andati a cercarsi una porzione di verità. L’altro giorno a Torino ero in strada per pagare una
bolletta, ma l’ufficio postale era chiuso. Con me lì fuori c’era
una signora anziana un po’ spiazzata dall’imprevisto. Cercava
un’alternativa, s’informava, finché non le hanno detto che la bolletta a quel punto andava pagata via mail. Allora mi ferma e fa:
scusi, ma dove si trova di preciso questa Via Meil? La realtà ti regala
spunti che nessun autore potrebbe forse inventare» .
Rimane da chiedersi cos’altro possa fare “la Littizzetto” per spiazzarci. «Mi piacerebbe poter recuperare la mia competenza musicale e fare
la regia di un’opera lirica, alla Franca Valeri. Oppure girare un film in
cui non mi sia chiesto per forza di far ridere» . Essere, insomma. Smettere di sembrare.
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Repubblica Nazionale 2016-03-06
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