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Articolo su Guido de Grana - Omero

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Articolo su Guido de Grana - Omero
Testi latini e biblioteche tra Parigi
e la valle della Loira (secoli XII-XIII):
i manoscritti di Guido de Grana
Ernesto Stagni
(Università di Pisa)
Guido de Grana: chi era costui? E che cosa può dirci
sul tema «Boccaccio e la Francia»? Non voglio illudere il
lettore, ma mi auguro che alla fine una risposta almeno
implicita ad entrambe le domande acquisti un senso e una
sostanza, per quanto parziali o provvisorî. Solo così potrò
giustificare, oltre alla partecipazione a questo convegno, il
salto fra un titolo fin troppo generale ed un sottotitolo a
prima vista assai meno promettente. Non ci si attenda comunque una trattazione sistematica o anche soltanto per
sommi capi sui classici in Francia fra XII e XIII secolo,
magari con uno sguardo d’insieme a fenomeni come quello della commedia elegiaca (come è facile aspettarsi, mi
occuperò anche di quell’Alda che Boccaccio trascrisse nei
suoi cosiddetti zibaldoni). Non sarei certo io, classicista di
formazione e medievista di adozione – per giunta avvezzo a
testi latini molto più che ai volgari che li citano – la persona più adatta per una sintesi di questo genere: senza uscire
dall’Italia, studiosi come Orlandi o Bertini o Alessio saprebbero intervenire con assai maggiore competenza ed in
modo ben più illuminante.
Per gli scopi di questo incontro preferisco adottare un
taglio che sia insieme analitico e problematico, volutamente
parziale, procedendo quasi esclusivamente per esempî e
concentrandomi soprattutto su rarità testuali: essenzialmente seguirò il filo conduttore di una biblioteca privata
duecentesca (o almeno dei percorsi di lettura materialmente documentati in un cospicuo gruppo di codici postillati da
una stessa mano) che sto faticosamente tentando di ricostruire dalle annotazioni di un oscuro magister della seconda metà del secolo. Mi riferisco appunto a Guido de
Grana, che andrà certamente annoverato fra i più accaniti
bibliofili che si conoscano prima di Petrarca: meglio ancora, fra i più accaniti e puntuali lettori (che è qualcosa di
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più) di testi latini profani, classici e medievali. Attraverso i
libri di Guido punteremo uno sguardo privilegiato sui ricchi fondi delle biblioteche che frequentava, nell’area della
Loira ma anche a Parigi. Lascerò ad altri il compito di rintracciare i rivoli attraverso i quali a certe fonti di evidente
ascendenza francese attinse anche il Boccaccio, direttamente o indirettamente.
Procedere per esempî ha i suoi vantaggi ed elimina certi inconvenienti che una visione d’insieme accumula senza
superare. Ma anche scegliere non è facile, e non sempre i
casi più promettenti risultano i più istruttivi e sicuri. Infatti
si è rivelato problematico, più volte, il tentativo, cruciale per
i miei interessi di ricerca, di definire le aree di circolazione di certi testi, o i luoghi di conservazione di quelli più
rari, di cui magari esistevano solo uno o due testimoni più o
meno dimenticati. E questo non tanto per incapacità mia o
degli studiosi moderni, per penuria di informazioni o per
materiale irreperibilità dell’eventuale bibliografia secondaria (lacune in qualche caso così irritanti da suscitare in un
italiano del ventunesimo secolo la più profonda invidia per
un fortunato frequentatore di biblioteche come Guido): le difficoltà nascono dalla constatazione di ostacoli
insiti nei fatti, nella storia. Il secolo XII è notoriamente un
periodo di grande mobilità, di testi e soprattutto di persone, perché è evidente che i testi camminano e a volte
corrono sulle gambe delle persone, tanto più in un’epoca per
la quale, quando si ragiona di tradizione dei classici, si deve
sempre tener presente una vasta produzione contemporanea, soprattutto mediolatina e poi sempre più spesso volgare (a questo ci richiama anche il libro di Simonetta
Mazzoni sul Corbaccio).
Il XII, poi, è il secolo, se non della nascita, dello sviluppo delle grandi scuole, specialmente nelle due aree che ho
menzionato nel titolo della mia relazione, Parigi e Valle
della Loira (definizione, questa, quanto mai vaga anche se
molto di moda fra gli studiosi di tradizioni manoscritte: è un
po’ un passepartout, che dischiude territorî vasti ed eterogenei, dall’Occitania settentrionale ai dominî inglesi, ed
invita a risalire gli affluenti e a spingersi anche oltre; a
buon diritto, ad esempio, può rientrarvi anche Chartres, con
la sua posizione invidiabile). Ma questa è solo una bipartizione di comodo, perché a metà strada, potremmo aggiungere, c’è appunto Chartres, con tutto il carico di pro-
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blemi storiografici che la sua scuola – secondo alcuni sopravvalutata – continua a rappresentare. E poi la Normandia, come dire, in quel secolo, anche l’Inghilterra (in parte
molto minore l’Italia meridionale: in fondo, le traduzioni
platoniche di Enrico Aristippo da Catania riaffiorano in
Francia nella seconda metà del Duecento – dopo isolati
estratti del solo Fedone in un florilegio di Clairvaux – proprio nelle postille del personaggio di cui sto per parlare e
nei più o meno contemporanei Giovanni di Galles ed Enrico Bate di Malines; ed in Sicilia e Calabria visse e forse
scrisse per qualche anno anche Guglielmo di Blois, l’autore dell’Alda che ricorderemo sotto). Comunque, per quanto di comodo, questo binomio ammette soluzioni per difficoltà reali, che sono ad esempio quelle delle carriere di
molti grandi rappresentanti delle scuole di quel tempo:
Thierry, Giovanni di Salisbury, Pietro Elia sembrano essere stati tutti, in diversi periodi della loro vita, studenti o
insegnanti sia a Chartres sia a Parigi. E questi grandi nomi
sono anche quelli di lettori di certi testi rari o rarissimi che
ritroviamo nelle postille di Guido nella seconda metà del
Duecento 1 . Ecco il problema dei problemi per chi cerca di
fare storia dei testi: dove potevano leggere questa o quell’opera? E, nel nostro caso, dove se li procurava Guido? Quanti ne possedeva personalmente, e quanti si limitò a consultare e ad annotare?
E poi, tanto per moltiplicare i dubbî già sulle linee generali, può sembrare strano, ma si parla molto di Valle della Loira, per i classici, e poco di Parigi, perché Parigi a mio
sommesso parere non è stata abbastanza studiata (anche se
da qualche tempo si lavora molto e con profitto sulle biblioteche di Saint-Victor o Saint-Denis, per esempio: istituzioni monastiche, però, che certo non esauriscono le occasioni offerte da un ambiente ricco di stimoli all’epoca
del formarsi dell’università); molto si parla di secolo XII e
pochissimo di secolo XIII (anche se verso il 1250 conosciamo in dettaglio e con molti manoscritti superstiti, anche di classici, una ricchissima collezione privata, quella di
1
Alcune coincidenze non possono lasciare indifferenti: ad esempio, solo
in Guido ed in Pietro Elia (poco prima della metà del secolo XII) è attribuita ad
un Paulus Atheniensis l’epitome festina di Paolo Diacono, già di per sé poco
diffusa nel Medioevo (ma usata negli anni Trenta del secolo XII, senza citazioni esplicite, anche dall’inglese Adamo Parvipontano, così soprannominato dal
Petit-Pont di Parigi nei pressi del quale insegnava). Ancora: Thierry di Chartres,
Giovanni di Salisbury e Guido sono tra i pochissimi che mostrino di conoscere
brani del Satyricon al di fuori degli excerpta brevia, i meno rari nel Medioevo.
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Richard de Fournival, che a Parigi fu definitivamente
trasferita solo dopo la sua morte e formò il nucleo della
biblioteca della Sorbona; ma è un errore ritenerla un caso
eccezionale, del tutto isolato) 2 . Tutto ciò, soprattutto per
l’aspetto cronologico, deriva anche da un pregiudizio, per
quanto abbastanza fondato: il Duecento è il secolo dell’università, della filosofia e della riscoperta delle scienze naturali, della scolastica, al limite delle nuove traduzioni da
Aristotele, un secolo che prescinde volentieri dai classici
(per ciò che riguarda la letteratura come forma d’arte, come
modello assoluto) dopo il secolo della rinascita, chiamiamola così, chartriana e dell’aetas Ovidiana, in cui riaffiorarono molti scritti dimenticati almeno fin da età carolingia, o in cui comunque le tradizioni manoscritte dei classici vissero assai spesso tappe decisive per le sorti stesse dei
testi. E tutti sappiamo che le scuole parigine esplodono nel
secolo XII, e già prefigurano in toto quella che solo ai primi del Duecento sarà ufficialmente un’università; ma sappiamo anche che già allora gli indirizzi erano prevalentemente filosofici, teologici, mentre il commento dei classici
era prerogativa di Orléans e dintorni (era un topos già per i
contemporanei, come l’equivalenza fra Bologna e utrumque
ius; in pieno secolo XIII Henri d’Andeli centrerà su questa
dialettica Parigi-Orléans la sua Bataille des Arts).
Quando pensiamo ai classici nel Duecento, però, e ragionando nei termini un po’ logori del succedersi vero o
presunto di «rinascite» medievali, potremmo addurre svariati esempî per dimostrare che non è così, che non c’è il
vuoto fra Chartres, fra i nani sulle spalle dei giganti e Lovato
o Petrarca, sebbene la differenza di mentalità e di condizioni sia vistosissima. L’illustrazione migliore sarebbe forse
la riesumazione dei Dialogi di Seneca, una storia in cui
l’editore Reynolds ha rintracciato perfino qualche contorno romanzesco, con una serie di scambi fra Inghilterra,
Francia, Italia del Nord e del Sud che andrebbe ancora approfondita 3 . E per associazione viene in mente una tradizione apparentemente affine come quella di Metamorfosi,
Florida e Apologia di Apuleio, nella quale tutti i testimoni
2
Si veda ora ROY, Richard (in particolare si legge a p. 169: «il s’agissait
d’une bibliothèque vraiment exceptionnelle chez un individu ne faisant pas
partie de la haute noblesse»).
3
Per bibliografia aggiornata, rimando alle schede sulla tradizione dei
Dialogi e sul codice ambrosiano, rispettivamente di G. MAZZOLI e G. BARBERO,
in DE ROBERTIS-RESTA, Seneca, pp. 271-73 e 274-75.
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superstiti (con qualche dubbio, mentre in pratica si è fatta
ragionevole certezza nello smentire una provenienza esclusivamente cassinese dei Dialogi Seneca) sembrano discendere da un codice di Montecassino ritrovato nell’abbazia stessa, a quel che si diceva, nel Trecento. Ormai nessuno crede più alla leggenda di Boccaccio che scopre personalmente il manoscritto laurenziano a Montecassino.
Billanovich promise per mezzo secolo di dare tutte le prove sul ruolo decisivo che avrebbe avuto Zanobi da Strada,
e comunque gli dedicò frequenti e succosi cenni, ma proprio la sua scuola ha rimesso tutto in discussione e Mirella
Ferrari ed i suoi allievi hanno dimostrato che Apuleio circola già nei primi decennî del Trecento (Benzo d’Alessandria, Geri d’Arezzo, lo pseudo-Burley, qualche biblioteca
cardinalizia ecc.) e soprattutto che risale ancora al Duecento il più importante dei codici di una famiglia per la
quale è stata prospettata perfino un’origine indipendente
dal Laurenziano 4 . Ma in questo caso, tutto nasce realmente da Montecassino, probabilmente nella prima età angioina,
mentre la situazione per Seneca è assai più complicata.
È Ruggero Bacone che a torto o a ragione, scrivendo
da Parigi, ritiene di poter dichiarare al papa Clemente IV
(1264-68) di aver riscoperto i Dialogi dopo lunghe ricerche, non si sa se in Francia o nella natia Inghilterra (per
di più, già intorno al 1100, verosimilmente in Normandia, fu compilata un’interessante e tuttora trascurata antologia di sentenze che dovette sbarcare presto oltre Manica e le cui varianti non consentono di trarre conclusioni
certe sui rapporti con la tradizione «cassinese»). Né si sa
in quale misura dobbiamo credere alla sua buona fede,
tanto più che nello stesso periodo i Dialogi sono ampiamente citati dal solito Guido 5 (le biblioteche reali o vir4
BAGLIO-FERRARI-PETOLETTI, Montecassino, pp. 183-238 (soprattutto
parte I, M. Ferrari, Codici e postille, pp. 183-205, con retrodatazione del più antico esemplare della migliore famiglia dei recenziori e III, M. Petoletti, I ‘Florida’ di Apuleio in Benzo d’Alessandria, pp. 224-38); e ancora PETOLETTI, Il
Chronicon, specialmente pp. 49-66.
5
Forse è un caso, ma forse no, che dalla raccolta senecana le sue postille
citino la Consolatio ad Helviam come Seneca (scribens) ad Lesbiam, deformazione di cui finora ho trovato traccia soltanto nei titoli correnti introdotti un
secolo dopo – alla fine di un lungo stratificarsi di contaminazioni e di sciagurate correzioni per rasura – nel codice Ambrosiano ritenuto a lungo l’archetipo
conservato della tradizione (ad Lesbiam matrem de consolatione; notevole che
pure Bacone usi una formulazione assai simile anche se con una forma del
nome più corretta, almeno se ci atteniamo alle edizioni critiche, in particolare
BACONE, Moralis, p. 118: ad Helbiam matrem suam scribens de consolacione).
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tuali dei due condividevano altre rarità, a cominciare dal
De die natali di Censorino, ma la lista potrebbe facilmente
allungarsi). Ma probabilmente già fra 1220 e 1230 li conosceva, e proprio a Parigi, quel Giovanni di Garlandia,
inglese anche lui, che per certi aspetti raccoglie nella Parigi duecentesca l’eredità delle scuole della Loira, soprattutto di Orléans (che peraltro non erano affatto sparite,
anche se Orléans si evolve in un senso che potremmo
definire più bolognese che parigino, vivendo sull’insegnamento universitario del diritto civile: soprattutto,
com’è ovvio, diritto romano, che a Parigi era bandito). Si è
anche parlato di una scuola di frati classicisti inglesi, su
cui ha scritto pagine importantissime Beryl Smalley, e si
attende ancora uno studio approfondito sulle centinaia se
non migliaia di citazioni del francescano Giovanni di
Galles, che si divide fra Oxford e Parigi negli anni Sessanta e Settanta: quanto di più simile agli interessi coltivati dal magister Guido de Grana, anche se un po’ alla
lontana, per numero, tipo e rarità di testi (con alcune coincidenze assai significative, a cominciare dai Dialogi di
Seneca e dalle traduzioni del Fedone e del Menone platonici).
Cercherò di mostrare che anche Guido fu attivo a Parigi, e non solo nella zona di Orléans come invece si ricavava dalle pionieristiche, fondamentali ricerche che precedettero di vent’anni l’identificazione del personaggio, studiato dalla metà degli anni Settanta come autore delle fittissime postille di Berna, Burgerbibliothek 276, e di altri
quattro manoscritti, sparsi fra Berna, Parigi e il Vaticano.
Nel 1995, bastò riconoscere che si trattava del magister
Guido de Grana o de Grona – autore del commento edito
parzialmente da Könsgen al De memorabilibus militum
gestis dell’altrettanto oscuro Ugo di Mâcon – per aprire
prospettive che con buone ragioni si potevano ritenere incoraggianti 6 : l’annotatore duecentesco, come ripeto, do6
STAGNI, Medioevo. Altre ipotesi ed altri risultati, in parte già superati o
precisati, sono esposti nella mia tesi di perfezionamento, discussa presso la
Scuola Normale superiore di Pisa nel 1999 (‘Vide quid notatum est’. La biblioteca di un erudito del secolo XIII), relatori Gian Biagio Conte, Armando Petrucci
e Michael D. Reeve. Per le ricerche successive ho sfruttato il finanziamento concesso dal CNR al gruppo da me diretto nell’ambito del “Progetto giovani-Agenzia 2000” sul tema «Tradizioni e ricezione di testi grammaticali e linguistici latini nel Medioevo e nell'Umanesimo»; ma un particolare ringraziamento è dovuto
al personale dell’IRHT di Parigi, a cominciare dalla responsabile della section
diplomatique Annie Dufour e dalla specialista di storia parigina Caroline Bourlet
(cfr. sotto, n. 36). Quanto all’autore del commento al Doctrinale attribuito ad un
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veva avere a disposizione un’inesauribile miniera di testi
classici e medievali, in qualche caso rarissimi o perfino,
nel frattempo, scomparsi 7 ; conoscerne il nome, con un minimo margine di dubbio, dava qualche speranza di ricostruire un profilo più preciso, una traccia biografica,
un’eventuale trama per quegli spostamenti che rendeva verosimili la stessa abbondanza delle citazioni (comprese alcune che rinviano a libri delle biblioteche di Orléans e di
Fleury, ma anche di Sens: bell’esempio di che cosa si debba
intendere con la nozione allargata di valle della Loira). Su
questo fronte, notizie precise continuano a scarseggiare, ma
non mancano acquisizioni assai importanti.
In primo luogo, era più che lecito auspicare un incremento nel numero dei codici dove il personaggio lasciò
segno, sotto forma di marginalia di commento, notabilia,
collazioni, osservazioni grammaticali e soprattutto citazioni (generalmente piuttosto precise), in particolare nel
vademecum bernense (una copia del glossario di Papia
che ben si prestava ad annotazioni di vastità enciclopedica). L’augurio si è realizzato (ma si può estendere a sviGuido de Grona e citato da KÖNSGEN, Die Gesta, I, Einleitung und Text, pp. 5859, non dispongo ancora del materiale necessario per pronunciarmi su un’eventuale identità; finora in glosse di altri manoscritti trovo menzionato soltanto
un Guido de Grona o (isolato e sospetto) Guido et Grava, mai de Grana.
7
Fra i più interessanti – al di là di esempî che già citavo nell’articolo del
1995, specialmente pp. 221-22 – oggetto di alcuni capitoli della tesi di perfezionamento e di mie perduranti indagini, una grammatica di Raterio che dovrebbe identificarsi con il perduto Sparadorsum e un poemetto sull’orticoltura
finora sconosciuto (sebbene se ne possano trovare riflessi in recentissime ricerche) dedicato a Walafrido Strabone da Grimaldo abate di San Gallo. E ancora,
dalle postille si trae il nome chiaramente celtico di un Aedanus (con significativa ed insolita conservazione del dittongo) al quale è attribuito un commento
all’ars maior di Donato di autore irlandese, l’anonima Ars Laureshamensis, o un
gemello, o una fonte finora ignota (che in linea di principio potrebbe essere
anche il cosiddetto Clemente Scoto). Allo stesso testo sembra riferirsi nel commento a Ugo l’oscura definizione di commentum… quod quidam dicunt
Cassiodori, alla luce di qualche peculiare variante sconosciuta al resto della
tradizione grammaticale insulare a cui l’Ars appartiene (insieme ad alcuni passi di Remigio di Auxerre, a Murethach, a Sedulio Scoto e all’Ars Brugensis di
cui Guido possedeva una copia, duecentesca ma autorevole, appunto quella
oggi in Belgio); ma senz’altro ad un commentum di Cassiodoro si rinvia per
una glossa relativa all’inizio dell’ars minor di Donato, opera che quella tradizione non affronta. Simile nell’intitolazione e perfino più impressionante una
grammatica Plinii quam quidam dicunt Varronis, forse il perduto Dubius sermo
di Plinio ancora usato da Gregorio di Tours – direttamente o indirettamente – e
ricco di contenuti varroniani come quelli che si possono accertare nelle poche
citazioni di Guido: per un’interessante analogia si veda BIONDI, Mai, p. 108. Gli
stessi Gesta di Ugo di Mâcon si conservarono probabilmente solo insieme (e
aggiungerei grazie) al commento di Guido, anche nei tre esemplari a quanto pare
scomparsi di cui abbiamo notizie fra il 1500 e il 1700 circa.
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luppi futuri prevedibili e imprevedibili) 8 dopo oltre otto
anni di ricerche, di cui riassumo volentieri in questa sede
alcuni frutti (sia pure in uno stadio necessariamente provvisorio ed in forma talvolta cursoria, a cominciare dalla
bibliografia, che in più punti mi riservo di fornire e discutere in altre occasioni): non soltanto risulta raddoppiato l’elenco degli esemplari dove ho riconosciuto
la sua mano inconfondibile 9 , sebbene a prima vista
proteiforme, ma di questa sfuggente figura si inizia a
distinguere con certezza qualche minimo tratto biografico, a cominciare dalla conferma del nome, rintracciato
da Ewald Könsgen con indiscutibile acribia ma su basi dichiaratamente precarie e con particolare incertezza su una
vocale. E quel che più importa è che insieme al nome, e grazie ad uno dei nuovi ritrovamenti di codici, possiamo ora
contare sulla più spettacolare ed immediata garanzia sull’identificazione fra il postillatore ed un magister Guido de
Grana che corrisponde al commentatore di Ugo di Mâcon.
Proprio da questo punto conviene partire, o ripartire.
8
Per di più, è probabile che si riescano a rinvenire anche copie di codici
appartenuti a Guido, o comunque vicini ai suoi: ovvero con varianti tali da
conferire un valore di tradizione genuina a qualche sua citazione «singolare»,
apparentemente non troppo fedele, che a sua volta invece potrà garantire l’autorità di testimoni giudicati sospetti. Un caso del genere – illustrazione persuasiva del principio dei recentiores non deteriores, pur richiedendone un’applicazione assai prudente – è offerto dalle rare Epitomi di Virgilio Marone grammatico di Oxford, Bodleian Library, D’Orville 147, un manoscritto copiato a Bologna nel 1465 (almeno in quella sezione) da Felice Feliciano, con innegabili
rimaneggiamenti che sarebbe facile attribuire in blocco ad interventi umanistici.
Così in tempi recentissimi ha ritenuto Löfstedt, il primo editore che lo ha usato,
proprio per tale motivo con parsimonia; ma curiosamente non si è accorto che
certe varianti si ritrovano esattamente in quelle postille del Bernense pubblicate oltre venti anni prima, in appendice ad un suo stesso articolo (LÖFSTEDT,
Miscellanea), da un allievo (MCMENOMY, Appendix), per la verità in modo incompleto e con raccapriccianti errori di lettura (simili a quelli occorsi al maestro nel trascrivere la nota del manoscritto turonense all’inizio di quel commento di Sedulio Scoto all’Ars minor di Donato che cito in STAGNI, Medioevo,
p. 223). Resta da spiegare per quali vie sia giunto in Italia ed abbia creato interesse un testo a dir poco sconcertante per gli ambienti quattrocenteschi, verosimilmente proprio attraverso un esemplare passato per le mani di Guido. D’altronde almeno il Vaticano Pal. lat. 1514, annotato dal nostro magister (cfr. sotto, n. 9), doveva essere in Italia prima del 1400.
9
Al fondamentale Berna, Burgerbibliothek 276 (un Papia e un Uguccione
rilegati insieme ed entrambi annotati da Guido, soprattutto il primo, con migliaia di citazioni: secolo XIII), agli altri bernensi C.219.1, ff. 1-8 (Cicerone,
Topica, secolo X ex.) e 291 (Isidoro, Ethymologiae e Beda, Orthographia, secolo XII ex.-XIII in.), a Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal.
lat. 1514 (Cicerone, Tusculanae, secolo X ex.-XI in.), e a Parigi, Bibliothèque
Nationale de France, lat. 8213 (Orazio, secolo XII ex.), si sono aggiunti (oltre
al seguito smembrato dei Topica di Cicerone con il commento di Boezio in
Parigi, ivi, lat. 7709, che avevo già identificato in STAGNI, Medioevo, p. 220, n.
Testi latini e biblioteche tra Parigi e la valle della Loira
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•
Francesca Cecchini, una giovane ed acutissima
medievista romana, storica dell’arte impegnata in una vasta ricerca sulle conoscenze di ottica e perspectiva nel
secolo XIII, recentemente mi ha avvertito di aver rintracciato e studiato un manoscritto della traduzione della
Perspectiva o De aspectibus di Alhazen (Edimburgo,
Royal Observatory, Crawford 3.3, ex 9.11.3.20) il cui
colofone, sicuramente autografo 10 , attesta un’intensa opera di revisione condotta dal magister Guido de Grana e
chiusa l’11 maggio 1269 11 . Dalla segnalazione, per me
preziosissima, è nata una forte collaborazione, un incrocio realmente interdisciplinare di competenze che non
mancherà di produrre frutti, ci auguriamo, nel lavoro che
stiamo conducendo con entusiasmo sulla tradizione manoscritta e sulla ricezione duecentesca di Alhazen. Anzi,
un primo risultato è già venuto dalla scoperta, desumibile
soltanto con incertezza dall’edizione parziale di Mark
Smith 12 , che anche Parigi, Bibliothèque Nationale de
France, lat. 7319, copia o gemello del manoscritto oggi
in Scozia, fu annotato sia pure assai sporadicamente dallo stesso magister. Il ruolo di Guido nella diffusione della tradizione della Perspectiva per antonomasia potrebbe
aver avuto un significato non trascurabile (anche in termini di contaminazione testuale e di recupero di varianti
autorevoli, dal momento che per la correctio fu usato un
esemplare appartenuto ad un Giovanni di Londra, figura
sfuggente di scienziato che andrà probabilmente identificato con il matematico esaltato da Ruggero Bacone e con
uno dei maestri del già nominato Giovanni di Garlandia:
3): Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Reg. lat. 1672 (Orazio,
secolo XI-XII: indicazione già raccolta da CONTE, Recensione, in particolare p.
414 con rinvio a p. 310 del libro recensito di Buonocore), Tours, Bibliothèque
Municipale, 843, ff. 75-108 (commenti a Donato, di Sedulio Scoto su Ars minor e Remigio di Auxerre su Ars maior, secolo XII), Wolfenbüttel, HerzogAugust-Bibliothek, Aug. 23.32.Aug. 4° [3297] (Seneca, Epistole a Lucilio, secolo XIII), Bruges, Openbaare Bibliotheek, 537, ff. 1-48 (commenti a Donato,
Ars maior, ecc., secolo XIII) e le due copie del De aspectibus di Alhazen di cui
sto per trattare nel testo.•
10
L’ho potuto verificare grazie alle fotografie digitali inviatemi con estrema gentilezza dalla bibliotecaria Karen Moran.
11
Per la migliore descrizione si veda KER, Medieval, II, pp. 559-60 (il
nome di Guido compare solo nell’accuratissimo volume di indici, V, p. 148).
Posso aggiungere che il f. 1 (foglio di guardia probabilmente già ai tempi di
Guido o pochissimo dopo) contiene un frammento della traduzione arabo-latina di Gerardo da Cremona del De elementis di Galeno (GALENUS, Opera, II, ff.
3v-4r, corrispondenti all’ ed. DE LACY, On the elements, pp. 90-102).
12
SMITH, Alhacen’s, specialmente p. CLVII.
Ernesto Stagni
230
e lo stesso Giovanni aveva già emendato quel codice, ut
dicitur, come annota il colofone).
Nonostante le lacune della ricostruzione stemmatica di
Mark Smith, possiamo già affermare con sicurezza che tra
i filoni della tradizione di Alhazen più facilmente identificabili sono quelli di cui si servirono, probabilmente ma
non necessariamente a Parigi, Ruggero Bacone e Jean de
Meung: ebbene, non sembra che dipendano dal modello del codice di Edimburgo o da un testimone di quella
famiglia, ma è pur vero che sia Bacone sia Guido per le
sue correzioni ebbero accesso ad un manoscritto vicino a
quello attualmente conservato ad Erfurt, a quanto pare copiato a Parigi nel terzo quarto del secolo XIII 13 . Comunque sia, indipendentemente dal tipo di tradizione seguita,
la stessa menzione ed il prolungato sfruttamento del De
aspectibus in un excursus del Roman de la rose costituiranno un primo motivo di particolare interesse per un pubblico attento alle influenze della cultura francese sul
Boccaccio: cultura quanto mai varia, tipicamente
duecentesca nel suo orientamento verso le scienze naturali, ma tutt’altro che ostile allo studio dei classici.
Delle eventuali conoscenze di Guido, a Parigi o altrove, nulla sappiamo, con un’importante eccezione: Guglielmo di Mâcon, arcidiacono di Amiens nel momento in
cui a lui fu dedicato il commento ai Gesta di quell’Ugo che
sarà stato verosimilmente un suo parente. Un personaggio di notevolissimo spessore già fra gli anni Sessanta
e Settanta, che ebbe una carriera ecclesiastica esemplare
per accumulo di prebende e di dignità nelle diocesi della
Francia centro-settentrionale (da Mâcon a Parigi, da Laon
a Beauvais), fino a divenire vescovo di Amiens nel 1278,
dopo essere stato impegnato in frequentissime missioni
diplomatiche per conto di re di Francia (soprattutto Filippo III) e di papi (in particolare Gregorio X, di cui fu cappellano e stretto collaboratore in campo giudiziario, grazie
ai suoi studî di diritto canonico) e a lungo come fiduciario
del legato pontificio Simon de Brie o de Brion, più tardi
papa Martino IV 14 : un servitore di due padroni, figura tipi13
Così sostiene A. Bräm nella recensione al catalogo di una mostra di codici amploniani in «Scriptorium», LVII.1 (2003) [pp. 135*-136*], n° 290, p. 136*.
14
Non è detto che si debba ricorrere a simili frequentazioni per spiegare
certe postille di Guido come quella sul legatus missus a latere pape (Bern. 276,
f. 107v) e su due grafie controverse in un rescriptum pontificio per un Iacobus
Testi latini e biblioteche tra Parigi e la valle della Loira
231
ca • di quei tempi, che quasi certamente ebbe a trattare anche
con il monarca angioino di Napoli e con gli inglesi, forse
anche con Alfonso X di Castiglia. Non a caso, uno
specialista della storia del primo secolo dell’università parigina, Palémon Glorieux, all’inizio di un suo articolo sui
registri di Gregorio X (Autour), dichiarava che la ricerca
era partita da un interesse per Guglielmo di Mâcon , e che
il suo curriculum avrebbe meritato uno studio a parte.
L’auspicio purtroppo non si è mai tradotto in pratica, neanche ad opera di altri studiosi, nonostante contributi isolati
(soprattutto sulla questione del sostegno alla Crociata indetta da Gregorio X e sui suoi rapporti con Filippo III e
Carlo d’Angiò) 15 e un importante regesto di lettere papali,
che raccoglie molte delle testimonianze sui viaggi di
Guglielmo 16 , in gran parte fra la corte di Parigi e la curia
romana nei suoi varî luoghi di residenza (inclusa Lione per
il concilio del 1274). Certamente d’aiuto, sebbene richieda ancora qualche piccola integrazione, sarà la recente scheda nel volume su Amiens dei Fasti ecclesiae Gallicanae 17 ,
dove, forse per caso o forse no, vista l’estrema rarità del
«cognome», colpisce fra i chierici documentati tra i secoli
XIII e XIV un Johannes de Grana 18 .
o Jaquemetus sancti Theuderii (ff. 96r e 236r) sulla cui identificazione sto ancora lavorando (cfr. anche sotto, n. 112): probabilmente troppo tardo il Jaquemet
documentato nel 1315 (VARILLE-LOISON, L’abbaye, p. 143), o il monaco di
sanctus Theuderius (ovvero Saint-Cher e poi Saint-Chef) Jachermetus de
Rossilione, accusato di omicidio, di cui si occupano alcune lettere di Giovanni
XXII a partire dal 3 gennaio 1326 (JEAN XXII, Lettres, pp. 69-70, n° 24062).
Entro la fine del secolo XIII, o appena più tardi, è stata datata nel convento dei
Jacobins di Clermont la perduta iscrizione tombale di un J. de Saint-Cheir canonico della cattedrale e arcidiacono di Souvigny (uno degli arcidiaconati della
diocesi), cfr. CIFM, XVIII, p. 190 con ROUX, Épitaphes, pp. 96 e 101; fra i
pochi nomi noti di arcidiaconi claromontani troviamo con J. nel secolo XIII un
Jean canonico della cattedrale e arcidiacono di sede indeterminata, forse
identificabile con il Jean Pouhet attestato nel 1255 (BRUEL, Pouillés, pp. 46 e
299) e, se non è lo stesso, proprio per Souvigny, il Jean di un atto del 25 luglio
1241 (IVI, p. 44). Niente impedisce di supporre che quel J. stesse per Jacobus o
Jaquemetus, per il quale ci sarebbe ampio spazio in date anteriori al 20 luglio
1307, quando le lettere papali menzionano come arcidiacono di Souvigny un
Astorgius de Talliaco (CLEMENS V, Regestum, II, p. 64, n° 1791).
15
Penso in particolare a CLAVERIE, Un aspect (dove comunque Guglielmo
è nominato quasi en passant, in particolare pp. 297-298 con n. 67 e p. 308, sebbene coinvolto come latore di messaggi e verosimilmente come intermediario
di fiducia in molte delle missioni studiate) e a JONES, Mais tot (pp. 216-17 e
222-23 per Guglielmo).
16
FLEUCHAUS, Die Briefsammlung: si veda l’indice per «Guillaume de
Mâcon, Magister, päpstlicher Kaplan und Generalauditor», p. 777.
17
18
Fasti I, pp. 58-60, n° 428, e cfr. p. 120.
IVI, p. 149, n° 721, diacono, canonico e magister, con attestazioni fra
1296 e 1299. Solo per errore BERTINI, Alda, pp. 55 e 63, attribuisce ad un Iohan-
Ernesto Stagni
232
Ad ogni modo, la dedica al commento non chiarisce
affatto i rapporti fra Guglielmo arcidiacono 19 ed il
magister che si proclama suorum minimus clericorum,
con una formula chiaramente convenzionale e che potrebbe riferirsi anche ad esperienze passate 20 ; indubbiamente, al seguito di un simile personaggio, magari come segretario, il nostro eroe avrebbe avuto occasione per viaggiare e per frequentare importanti istituzioni ecclesiastiche, a cominciare dalle tre che nomina espressamente nelle
postille.
Nelle fonti edite avevo incontrato, malamente deformata, una sola attestazione per un magister Guido de Grana,
menzionato per un lascito di otto lire parigine nell’obituario
dell’abbazia di Sainte-Geneviève alla data del 18 aprile 21
(come pure, il 19 maggio, lo stesso Guglielmo di Mâcon
bone memorie, scomparso nel 1308, che già prima dell’ottobre 1261 versava all’abate il censo annuale per la casa che
poi ospitò il Collège de Cluny) 22 . In realtà l’edizione del
nes de Grana il commento a Ugo di Mâcon, ricordandolo a proposito delle citazioni del nostro glossatore relative all’Alda alle quali ci riferiremo anche sotto
(specialmente n. 80). Un Jaquetus de Grana è nominato in un conto ordinario
del novembre 1303 in LALOU, Les comptes, p. 687.
19
Le attestazioni di Guglielmo in tale dignità vanno dall’8 giugno 1275 al
1278, data di elezione al soglio episcopale della stessa Amiens (cfr. Fasti, I, pp.
43 e 58: la consacrazione avvenne il 10 luglio); per quel che può valere un
simile silenzio, lettere di Gregorio X del 22-23 marzo 1275 si limitano a definirlo cappellano papale, come sempre fino ad allora (eventualmente ricordando l’incarico curiale di auditor generalis causarum). L’ultimo predecessore noto
Bartolomeo di Borgogna (IVI, p. 94, n° 26) è attestato almeno fino all’autunno
1272, e dunque muore non prima del 1273, dato che compare nel necrologio di
Amiens sotto il 22 marzo; ma probabilmente già nel giugno 1274 ha un successore (almeno come officium gerens) nella carica che cumulava di auditor
contradictarum. Non ci sono motivi, anche se la dimostrazione puntuale sarebbe lunga, per dubitare con KÖNSGEN, Die Gesta, I, pp. 56-57 (ma cfr. anche la
sensata propensione di p. 59) dell’identità del destinatario del commento con il
Guglielmo di cui stiamo parlando, invece che con un altro Guglielmo di Mâcon
suo nipote, anch’egli arcidiacono qualche decennio dopo (Fasti, I, p. 120, n°
122): un’omonimia che, variamente interpretata (ma si veda da ultimo anche
JONES, Mais tot, p. 223), ha creato non poca confusione.
20
Testo in KÖNSGEN, Die Gesta, I, p. 87.
21
MOLINIER-LONGNON, Obituaires, I, p. 497, da Parigi, Bibliothèque Sainte-Geneviève, ms. 566 (ex fol. H lat. 17), f. 202r. L’edizione è particolarmente
difettosa in questo punto (ma anche altrove), e in ogni caso selettiva (in modo
spesso arbitrario) tanto da omettere un precedente anniversarium Agnetis femine.
22
Per la notizia mortuaria si veda IVI, I, p. 500. Per l’abitazione, FRIEDParis, pp. 419-21, Annexe n° VIII. Notevole un documento del 6 aprile
1276 che attesta uno stretto rapporto di consulenza fra l’abate e l’allora
arcidiacono Guglielmo di Mâcon (Gallia Christiana, VII, col. 744 D), proprio
negli anni in cui Guido gli dedicò il suo commento al De militum gestis
memorabilibus. Anche il suo «superiore», il futuro Martino IV fu ospite,
protettore e benefattore di Sainte-Geneviève.
MANN,
Testi latini e biblioteche tra Parigi e la valle della Loira
233
necrologio stampa Guido de Grava, con quella che per chi
ha familiarità con la toponomastica parigina è un’evidente
eco dell’antica «Place de Grève»: ma la lezione autentica
Grana si può verificare inequivocabilmente sull’originale o
anche soltanto in riproduzione. Notevole è che il nome preceda l’anniversario di un Guglielmo abate di SainteGeneviève trascritto sotto lo stesso giorno e dalla stessa
mano, in quello che sembra rappresentare il più antico strato
di aggiunte alla lista originaria, protratto almeno fino al secondo decennio del Trecento. Di questo strato, anzi, proprio
la morte di Guglielmo costituisce la prima notizia databile
(1284), se è vera, come dovrebbe essere, l’identificazione
con Guglielmo I di Auxerre proposta dagli editori 23 , e se
possiamo fidarci di una cronotassi che dopo oltre un secolo meriterebbe un riesame approfondito, non meno
dell’obituario in sé 24 (la stesura di queste notizie a cavallo
del 1300, in apparenza assai uniforme, sembra risalire ad
un’unica operazione, e dunque ad una trascrizione mediata;
a differenza di quanto accade in molti necrologi, non credo
che le aggiunte siano state introdotte di volta in volta quan23
MOLINIER-LONGNON, Obituaires, I, p. 497, n. 1. Non conosco altri abati
dello stesso nome prima dell’età rinascimentale.
24
Delude inopinatamente la voce dedicata a Sainte-Geneviève da uno
specialista mondiale del settore, LEMAÎTRE, Répertoire, I, pp. 579-580, n° 1284,
con un’impossibile datazione della morte di Guglielmo al 1280. La bibliografia
sugli abati è drammaticamente antiquata e non priva di contraddizioni. Lascia già qualche dubbio la notizia di Gallia Christiana, VII, pp. 746-747 sul
successore di Guglielmo, Guerino o Garinus: «Ex priore demum per viam
compromissi subrogatus est abbas, annuente Matthaeo sancti Dionysii abbate,
qui in Francia vices agebat regias, anno 1283 quo Johannes cardinalis et
episcopus Bellovacensis missus in Franciam legatus ad declarandum Aragoniae
regem nomine papae Martini IV Carolum a Valesia fratrem Philippi Pulcri
Franciae regis, Guerini electionem confirmavit». La missione del cardinale
Jean Cholet (da non confondere col trecentesco Jean de Beauvais) durò molto
oltre, e già sarebbe improprio chiamare rex Filippo IV (incoronato all’inizio
del 1286), se è vero che nel 1283 regnava ancora Filippo III. Per di più, andrebbe meglio chiarito a quale titolo agì l’abate Matteo di Vendôme. Costui
non si qualificava con formule come locum tenens o simili prima della partenza del re per la fatale spedizione aragonese, alla fine di marzo 1285, quando appunto assunse la reggenza insieme a Simon de Nesle come già nel 1270,
cfr. la scheda biografica dell’ottimo L. CAROLUS-BARRÉ, Le procès, pp. 22336 e soprattutto 235-36: i documenti della reggenza vanno da aprile ai giorni
prima di Natale. Il cardinale Cholet, solitamente al seguito di Filippo III per
la sedicente «crociata», è comunque attestato a Parigi il 23 maggio (É. Hitier
in DBF, VIII, 1959, coll. 1234-1235) ed assiste alla sepoltura del re il 3 dicembre a Saint-Denis: in questi mesi poté svolgersi la procedura dell’elezione e
della conferma di Guerino e dunque Guglielmo sarebbe morto il 18 aprile
1285. Non si dimentichi che Filippo III aveva personalmente preteso l’omaggio del predecessore di Guerino, appunto Guglielmo (sul quale si veda anche
sotto, n. 26): se si ricorda l’assenso del reggente abate di Saint-Denis, significa forse che il re si era già mosso verso i Pirenei, o che l’erede Filippo il
Bello non era ancora salito sul trono.
Ernesto Stagni
234
do si rendevano necessarie 25 , o almeno con diversi aggiornamenti sia pure di unica mano, come già le riproduzioni
lascerebbero intuire). In ogni caso, l’abate dovette morire al
più tardi nel 1285 26 (proprio come il papa Martino IV, grande benefattore di Sainte-Geneviève, il cui nome fu registrato
dallo stesso scriba sotto il 28 marzo), mentre le ultime
notizie certamente di prima mano per la compilazione originaria risalgono al 1276 27 o meglio ancora al maggio 1284 (o
25
Un potentissimo argomento è a favore di una stesura unitaria ma interrotta del primo strato di aggiunte (forse una quarantina d’anni dopo la redazione originale), aggiunte che dunque dipenderebbero da un modello preesistente:
la constatazione, taciuta dagli editori, che tali integrazioni cessano praticamente per intero dopo il 19 luglio (tutta da studiare anche la situazione in giorni di
poco successivi, cinque dei quali in origine rimasti stranamente vuoti, dove intervengono nuove e diverse grafie, solo alcune tarde); uniche sconcertanti eccezioni, di una stessa altra mano trecentesca, due occorrenze di un’identica notizia sotto VII Idus, prima in agosto e poi in dicembre (cfr. MOLINIER-LONGNON,
ivi, pp. 506 e 517) e una terza sotto X kal. in novembre (con significativa aggiunta marginale: vacat hic; stesso obit e grafia già sotto V idus in aprile). Non
si vede perché un certo scriba dovesse annotare gli obitus di volta in volta, ma
solo fino al 19 luglio. Che contemporaneamente al nostro necrologio se ne sia usato un altro sembra essere dimostrato da una copia tarda dove si conservano
sorprendenti menzioni di personaggi della fine del Duecento ignorati dall’obituario di cui ci occupiamo (Jean Cholet il 5 agosto, MOLINIER-LONGNON, ivi,
p. 506; il 10 ottobre un abate dimissionario, p. 512; cfr. anche p. 511, n. 3; non
crea difficoltà il Galeno da Pisa del 30 novembre a cui gli editori aggiungono «1280»: il suo testamento è invece del 1287, cfr. BRUNEL, Un italien).
26
Vedi già sopra, n. 24. Secondo GIARD, Étude, p. 77 con n. 1, il successore Guerino sarebbe stato eletto nel 1285 – e in quell’anno sarebbe già attestato il
18 febbraio – il che presupporrebbe una lunga vacanza, se è vero che Guglielmo
era morto un 18 aprile. Solo dagli editori di CUP, I, pp. 628-29, n° 519 (sulla
cui attendibilità getta una luce sinistra la duplice trasformazione di Grana in
Gravia, cfr. sotto) apprendiamo che sarebbe stato Guerino l’abate che emanò
insieme al cancelliere della sua abbazia il documento del 18 febbraio citato da
Giard. Dal momento che il nome non compare nel testo e che il sigillo è perduto, bisognerebbe controllare se l’originale conserva una nota dorsale coeva, di
quelle che gli editori del CUP di solito citano, se significative. Altrimenti, com’è
assai verosimile, si tratterà di un’indebita estrapolazione (e in effetti questo accade IVI, pp. 600-601, n° 512, dove si indica in nota come abate
quell’Arnolfo dimessosi oltre due anni prima). Guglielmo, certamente vivo il 7
maggio 1282 (cfr. GIARD, Étude, pp. 123-24, n° XV), poteva essere morto il 18
aprile 1283 o 1284. I dettagliati resoconti in CUP, I, n° 519 e nell’immediata
risposta dei canonici (n° 520, IVI, p. 629) non sembrano dar conto di una successione fra abati nel periodo tra la bolla di Martino IV del 7 marzo 1284 ed i
primi mesi del 1285. D’altronde non sarebbe stato strettamente necessario ricordarla, ma probabilmente (e ancor di più) non lo era per Onorio IV nella
decisione definitiva del 1 aprile 1286 (fra l’altro, i due documenti papali conservati in originale non forniscono neanche le iniziali dell’abate e del cancelliere), quando invece è probabile che Guerino fosse già stato eletto: almeno se si
può credere alla notizia dell’approvazione di Matteo di Vendôme, non più
reggente nel 1286, e di Jean Cholet. In definitiva, se intervenne Matteo e non il
re, è probabile che Guglielmo sia morto il 18 aprile 1285.
27
Il magister Herveus Brito dictus Raucus (MOLINIER-LONGNON, Obituaires, I, p. 508) morì il 28 agosto di un anno che fu certamente il 1276 (a conferma
dei termini fissati da LAFLEUR, La Philosophia, pp. 160-161, n. 21), non «post
ann. 1276». Al f. 204v (sotto il 29 aprile) la notizia sul cardinale Guglielmo di
Braye, morto nel 1282, fu aggiunta da una mano diversa (così anche MOLINIERLONGNON, Obituaires, I, pp. 498-99), sebbene assai simile a quella originaria (o
Testi latini e biblioteche tra Parigi e la valle della Loira
235
poco dopo) 28 . Se Guido si fosse spento prima, sarebbe rientrato anch’egli fra i defunti i cui nomi furono copiati da una
precedente lista necrologica, ora perduta, quando se ne trasse l’esemplare a noi noto dell’obituario, in quello che potremmo chiamare il suo livello «zero», di base. Ma se si
dimostra che le aggiunte del «primo strato» furono vergate
tutte insieme in pieno secolo XIV non si può neanche escludere che il nome del nostro magister figurasse fuori posto 29
(secondo l’ipotesi di penuria di spazio che espongo per il
«livello» originario in n. 28) in una «brutta copia» servita da
modello per aggiornare con periodiche integrazioni, o una
volta per tutte, la «bella» che conserviamo, concepita con
una dovizia di bianco ancora ben visibile. Insomma, non mi
sentirei di scartare un obitus posteriore al 1285; se invece la
successione dei necrologi rispetta la cronologia, dobbiamo
pensare che Guido sia morto nel 1283-1285 30 .
eventualmente dalla stessa, ma in un secondo tempo e con alcune caratteristiche
grafiche mutate), chiaramente distinguibile dalla scrittura responsabile di ciò che
ho definito il primo strato di aggiunte, incluse quelle del 18 aprile. Sarebbe però
avventato attribuire l’aggiunta ai giorni immediatamente successivi della primavera del 1282, dal momento che è espressamente ricordata l’avvenuta esecuzione
del testamento, al limite databile anche qualche anno dopo (ciò spiegherebbe l’eventuale contraddizione con le più tarde registrazioni di prima mano di cui ci
occupiamo alla nota successiva).
28
Due notizie relative al 2 maggio al f. 205r (MOLINIER-LONGNON,
Obituaires, I, p. 499), entrambe apparentemente di prima mano, sorprendono
per l’inversione dell’ordine cronologico (prima l’arcivescovo di Dublino Giovanni Darlington, morto a Londra nel 1284, poi il cardinale Pietro di Collemezzo
scomparso parecchi decennî prima). Si può immaginare che per mancanza di
spazio la più recente fosse stata trascritta prima delle altre (al di sopra?) nell’esemplare che si intendeva sostituire e che negli ultimi anni in cui fu in uso
doveva prestarsi a quel disordinato accumulo di annotazioni tipico degli obituarî
medievali. Proprio il fatto che la menzione di Darlington sia seguita da altre
due rende improbabile, anche se non impossibile, che si tratti di una dimenticanza sanata in un secondo tempo dallo stesso copista responsabile della stesura originaria. In definitiva, la morte dell’arcivescovo è il terminus post quem
per il completamento di tale redazione (e dunque per le aggiunte di altra mano
fra cui quella sul magister Guido de Grana) e con tutto quanto si è detto si giustifica in pieno l’affermazione degli editori (MOLINIER-LONGNON, Obituaires, I,
p. 487): «il fut rédigé après l’an 1275 et avant 1285, probablement en 1284».
29
Occorrerebbe studiare se nel primo strato di aggiunte – nei casi non troppo numerosi in cui ne troviamo più d’una – esistono notizie in ordine cronologico invertito. Ad un primo sguardo, senza adeguati strumenti prosopografici, non
ne ho notati. Egidius de Gandavo, personaggio secondo gli editori facilmente
databile alla metà del Trecento, che verrebbe prima di un defunto di più antica
data, il 17 gennaio (MOLINIER-LONGNON, Obituaires, I, p. 489 con n. 2; nel
codice pare di leggere Gandano), in realtà potrebbe essere vissuto nel secolo
XIII (cfr. ad es. R. Aubert in DHGE, XX, col. 1366) e sarebbe stato canonico di
Sainte-Geneviève in gioventù. Resta vero che la circostanza non è ricordata
dall’obituario, e che un omonimo magister donò libri alla Sorbona fra il 1321
ed il 1338 (GLORIEUX, Aux origines, I, p. 294, n. 3).
30
Nelle stesse ore dell’abate Guglielmo? Il 18 aprile 1285, pochi giorni
dopo Martino IV? Una simile data avrebbe il vantaggio di giustificare per en-
236
Ernesto Stagni
A questo punto, però, sono in grado di sciogliere i sospetti destati da un altro documento (CUP, I, pp. 597-600, n°
511), che si conserva anch’esso in originale, così presentato dagli editori: «Taxationes quaedam domorum a
magistris in theologia et in artibus civibusque Parisiensibus,
ann. 1282 et 1283 factae» 31 : cifre piuttosto alte, in una sezione datata Anno Domini MCC octuagesimo secundo, si
leggono in tre articoli a p. 599, due dei quali relativi ad un
Guido de Gravia ed uno a quella che potrebbe essere una
sua parente: Domum magistri Guidonis de Gravia, ante
domum Roberti de Torota, in cono 32 : novem libras cum
dimidia, poco sotto Domum magistri Guidonis de Gravia,
supra Sanctum Hilarium, ab opposito vici ad Cacabos 33 ,
cum quinque cameris, cum coquina per terram, celario,
stabulis: duodecim libras, e ancora Domum Agnetis de
Gravia, in Guellandia, que dicitur ad ‘Li plate pierre’, cum
quatuor cameris, cum pratello, stabulis et expensa magna:
trambi con tutta naturalezza l’appartenenza al primo strato aggiuntivo, ma sarebbe strano che l’abate non venisse ricordato per primo dai suoi stessi
confratelli. Il 18 aprile 1284? Ma come si concilierebbe con la nota di prima
mano di almeno due settimane più tarda di cui ci occupiamo in n. 28? Al limite,
se Guido morì lontano da Parigi o se tardò l’esecuzione del testamento, la notizia fu accolta a Sainte-Geneviève parecchio tempo dopo: ma pur sempre prima
che venisse registrata la scomparsa dell’abate (che in tal caso verosimilmente
andrebbe collocata nell’anno successivo, se la precedenza ha un minimo di
significato). Il 18 aprile 1283 (Pasqua) sembra da escludere proprio perché ci
attenderemmo che la notizia appartenesse allo strato originario, anche se per
gli stessi motivi, esposti in n. 27, non sarebbe necessariamente così. È in ogni
caso un terminus ante quem non, perché Pasqua era il primo giorno dell’anno
1283 nel calendario francese antico, e sappiamo che Guido era vivo nel 1282
(ossia Pasqua 1282- Pasqua 1283 del nuovo stile), come stiamo per mostrare.
31
Su questi documenti si veda ora COURTENAY, Parisian, pp. 22-25.
32
Al momento non sono riuscito a localizzare questa prima domus, in un
angolo (conus/coin) non meglio precisato, sicuramente nella stessa zona della
successiva (tuttora cuore del quartiere universitario), cfr. anche n. 36: in particolare , e in attesa di più sistematiche esplorazioni nei ricchi fondi delle Archives
Nationales, non si ha notizia del vicino Robertus de Torota (o di nomi riconducibili a questo), come mi conferma Caroline Bourlet sulla base degli schedarî
dell’IRHT. Colgo l’occasione per ringraziare di cuore la studiosa per tutto l’aiuto
che mi ha offerto. Aggiungerei che è probabile l’identificazione con il nobile
Robert de Thourotte canonico di Reims nel 1272 e vescovo di Laon dalla fine
del 1284 al 1297 (Fasti, III, n° 1469, p. 519), molto meno quella con l’omonimo zio vescovo di Langres ed eletto di Liegi, morto nel 1246 (cfr. IVI, n° 1468).
33
Rue au Chaud(e)ron, oggi rue d’Écosse, via attualmente a fondo cieco
sulla Montagne Sainte-Geneviève (cfr. HILLAIRET, Dictionnaire, I, p. 465 e
FRIEDMANN, Paris, p. 407, ma soprattutto BERTY- TISSERAND, Topographie, VI,
pp. 121-23, con la carta n° XIV di Berty; pare che anche nel Duecento la strada
fosse senza sbocco, prima di formare angolo con la scomparsa rue du Four: cfr.
IVI, p. 155). Resti della struttura lignea di un’abitazione assai antica si scorgono
ancora di fronte all’imbocco dell’impasse nell’odierna rue de Lanneau (già rue
du Mont-Saint-Hilaire, cfr. IVI, pp. 335-340): potrebbe corrispondere alla casa di
Guido, ad oppositum vici (così sembra di leggere nell’originale).
Ma si veda sotto, n. 34.
Testi latini e biblioteche tra Parigi e la valle della Loira
237
sex libras et quatuordecim solidos. La trascrizione dell’ultima voce è corretta (come pure quella, IVI, II, n° 556, p. 30,
dalla colonna di destra dello stesso documento, relativa alle taxationes del 1287, per un Henricus de Gravia).
Ma dopo autopsia posso garantire che nell’originale (Parigi, Bibliothèque interuniversitaire de la Sorbonne, Archives
de l’Université de Paris, carton 4, 2e liasse, A.18.e) si legge distintamente per due volte Guidonis de Grana. Un altro sciagurato esempio di tacita e magari perfino inconscia
accettazione di una lectio facilior, suggerita forse dagli altri due nomi così spiccatamente parigini, senza un minimo
cenno in apparato che segnali l’emendazione come invece
accade in altri punti della stessa lista. Non sappiamo se
Guido in persona abitasse in una di queste due dimore 34 ,
pur affittandone almeno una parte a studenti (forse i suoi
stessi allievi, secondo gli usi del tempo), ma è facile immaginarlo.
Per il momento, le fonti sui magistri parigini del Duecento non offrono niente di più 35 , ma la pista che si apre a
34
L’identificazione della seconda è incerta, ma si può localizzarla con buona approssimazione in un raggio di poche decine di metri. Rispetto alla già citata
rue de Lanneau, il supra riferito alla chiesa scomparsa di Saint-Hilaire indicherebbe se mai un sito più in alto sulla Montagne, all’altro capo (verso Sud) dell’originario vicus ad cacabos, forse là dove fu costruito il collegio di Reims, fra le
attuali impasse Chartière ad ovest e rue Valette ad est (al suo posto sorgeva alla
fine del Trecento l’Hôtel de Bourgogne, e prima ancora una casa posseduta nel
1256 da un Joce d’Arundel e poi dalla vedova, cfr. BERTY-TISSERAND,
Topographie, VI, pp. 396-97). Si può comunque obiettare che sempre secondo
BERTY-TISSERAND, ivi, p. 336, già nel 1263 e 1265 la rue de Lanneau veniva
definita vicus superior Sancti Hilarii, per distinguerla dal vicus inferior (rue
des Carmes) che saliva da Nord verso Saint-Hilaire; tale denominazione giustificherebbe ampiamente l’uso di un supra, tanto più che i resti di cui dicevo
dovrebbero identificarsi con la Haulte maison documentata esattamente in quel
punto fin dal 1228 (ma forse è errore di BERTY-TISSERAND, ivi, p. 337: il contesto farebbe pensare piuttosto al 1328). Non inganni neanche la lieve discesa
che rue de Lanneau presenta oggi dall’incrocio dove sorgeva la chiesa verso
rue d’Écosse: probabilmente la demolizione di Saint-Hilaire ha provocato un
innalzamento del terreno. È pur vero che l’identificazione del vicus superior,
proposta da Jaillot nel Settecento, va messa in dubbio proprio alla luce di quei
documenti degli anni Sessanta (i primi due in realtà del 1264 secondo il nuovo
stile), editi e in parte discussi solo da GLORIEUX, Aux origines, II, pp. 42, 261 (n°
232), 262 (n° 233), 269 (n° 238), 287 (n° 250), da confrontare con n° 286,
p. 335: le stesse due case si affacciano ad capitum («chevet») Sancti Hylarii e
sorgono in vico superiori Sancti Hylarii Parisiensis per quem itur ad ecclesiam
Sancte Genovefe Parisiensis (ovvero a parte superiori in vico per quem…), o
ancora super sanctum Hylarium, ciò che si adatterebbe assai meglio all’attuale
rue Valette, anticamente des Sept Voies. La contigua domus Job di Symon
carnifex (per lo meno, contigua era la casa dei figli del defunto boia, ma sarà
lecito identificarle), attestata iuxta Sanctum Hylarium dal necrologio di SainteGeneviève (MOLINIER-LONGNON, Obituaires, I, p. 507), non è presentata (almeno non con quel nome) nella carta di Berty.
35
L’impressione è che almeno per brevi sezioni la lista (di stesura chiaramente non unitaria con i suoi frequenti cambi di grafia) raggruppi abitazioni fra
238
Ernesto Stagni
future indagini andrà percorsa con convinzione, con più
raffinate ricerche d’archivio (ad esempio nei numerosi contratti d’affitto e di vendita superstiti) 36 . In ogni caso, colpisce che le uniche due vestigia documentarie della vita e
della morte di Guido si conservino rispettivamente a duecento e cento metri circa da una delle sue case parigine. Se
le aggiunte all’obituario di Sainte-Geneviève – lo ripetiamo – rispettassero un ordine cronologico, dovremmo concludere che un magister Guido de Grana o de Gravia morì
con ogni probabilità il 18 aprile 1283 o 1284: non prima,
in ogni caso. In più sappiamo praticamente per certo, e
stiamo per dimostrarlo, che alcune postille del Bernense
loro vicine, spesso lungo la stessa strada. Ora, le case elencate prima di quelle
di Guido si trovano in buona parte in magno vico, ossia in rue Saint-Jacques,
molto più ad ovest di Saint-Hilaire; invece fra le due che ci interessano troviamo come proprietario nel vicus Amigdalorum, odierna rue Laplace, quel
Theobaldus Brito che in base alla taxatio di qualche mese prima possedeva una
domus pure ante sanctum Ylarium (ma erano sue anche due case più vicine alla
Senna, in vico Scriptorum, GLORIEUX, Aux origines, II, p. 335 n° 286, e cfr. p.
43, come si conveniva ad uno stationarius). Ebbene, quel vicus Amigdalorum
partiva dalla rue des Sept Voies proprio davanti al futuro collegio di Reims (a
sua volta, come si è visto, al capo meridionale del vicus ad cacabos), e per di
più dopo Guido si nomina un Matteo Lombardo per una casa nel vicus Furni,
quella rue du Four (cfr. sopra, n. 33) che nei secoli successivi, col crescere
dell’urbanizzazione, formerà angolo con la rue du Chaudron proprio sul retro
di quel collegio. Queste informazioni suggeriscono che i taxatores si stessero
muovendo nell’ultimo tratto della via fra Sainte-Geneviève e Saint-Hilaire, ma
non garantiscono che la prima casa di Guido si trovasse in quegli stessi isolati,
vicinissima all’altra (piuttosto che nella rue Saint-Jacques, dove però i prezzi
sarebbero stati probabilmente più alti), né che la seconda si trovasse più in alto,
ossia più a Sud, rispetto a Saint-Hilaire. Un vero rompicapo, che andrebbe risolto
non per vana curiosità ma per circoscrivere, come vedremo, le ricerche d’archivio che potrebbero aiutarci a individuare la data di acquisto dei due immobili:
all’altezza di rue du Four passava infatti il confine fra le censive di SainteGeneviève e di Saint-Marcel e pochi metri di differenza obbligherebbero ad
esplorare due fondi completamente distinti.
36
Non offre ricostruzioni dettagliate, come invece per altre abitazioni della zona, la ponderosa tesi di «doctorat d’État» di Simone ROUX – che in mancanza di indici ho potuto sfogliare solo cursoriamente – Le quartier de
l’université à Paris du XIIIe au XVe siècle: étude urbaine (Université de Paris
X- Nanterre, département d’histoire, 8 luglio 1989), I, p. 177, dove comunque
si osserva come alla casa di Guido «de Grève» sia attribuito il valore più alto
nell’elenco delle taxationes per la zona di Saint-Hilaire (un altro indizio che
ben si adatterebbe alla Haulte maison di cui si è detto sopra, n. 33). Si noti che
la parrocchia di Saint-Hilaire era un’enclave nel territorio di Sainte-Geneviève
ed apparteneva a Saint-Marcel, nei cui fondi converrà indagare – oltre che in
quelli dell’abbazia eponima della Montagne – secondo le indicazioni della stessa
Roux (eventualmente anche per rintracciare Robertus de Torota): se ne vedano
i confini ad esempio in FRIEDMANN, Paris, pp. 168-71 con relative carte. Di
certo rientra nella censiva di Saint-Marcel la casa che nel 1276 facit cuneum
vici de Sancto Hylario davanti alla chiesetta in GLORIEUX, Aux origines, II, n°
334, p. 398 (cfr. anche n° 379, p. 465 del 1288; sarà la stessa «Maison où il a
ung four, au carrefour Sainct Hilaire, faisant le coing de la rue Saint Hilaire,
chargée envers le chapitre de Saint-Agnès» attestata nel 1240 secondo BERTYTISSERAND, Topographie, VI, p. 339), ma nonostante l’equivalenza fra cuneus e
conus sarebbe azzardato identificarla con la proprietà di Guido ante domum
Roberti de Torota in cono: piuttosto, ne percepiva una rendita la Sorbona.
Testi latini e biblioteche tra Parigi e la valle della Loira
239
non furono vergate prima del 1278 (e forse si può scendere
fino al 1280 e oltre). Finora si collocava tra il 1275 e il
1278 il terminus post quem (per l’esistenza in vita di Guido,
non necessariamente per le glosse autografe) ricavabile
dalla dedica a Guglielmo di Mâcon. Ma un terminus interno, più stringente e di grande valore per lo studio della
complessa stratificazione cronologica delle annotazioni
bernensi, si deduce direttamente dalle postille stesse, almeno tre delle quali si possono datare oltre un decennio
dopo l’opera più recente (1267) di cui fosse stata finora
identificata una citazione 37 . Dobbiamo infatti ad uno scrupolo linguistico immotivato ma più che benvenuto se
Guido in margine al suo Papia ricorda quella che appare la
più tarda delle sue letture databili:
Bern. 276, f. 104r: «Industrius. quidam tamen dicunt
industris tertie declinationis. unde putantes corrigere illud
salustii in Iugurtino/ pr° industriors 38 supplices et cetera.
ponunt industres ut/ illustres. h°c idem ponitur in li. de
regimine principum/ quod puto nihil esse. paulus ath. 39 ponit
industrius/ quasi indoc/tius./ Item industrii ponit tullius .2.
quaest. tusc.».
Nel De regimine principum di Egidio Romano si
incontrano quasi subito occorrenze di industris, di quelle che
Guido evidentemente disapprova: ad es. libro 1, parte 1,
cap. 1 poco dopo l’inizio (AEGIDIUS, De regimine, p. 5):
Qui enim industris esse vult ut alios regat debet industris
esse ut seipsum gubernet). Per scartare eventuali
identificazioni con altre opere conosciute con quello stesso titolo 40 , basterà convincersi che del frate agostiniano
Egidio il nostro postillatore conosce sia il nome sia altri
passi dell’opera più famosa.
37
Si veda STAGNI, Medioevo, p. 222, n. 8.
Segno di espunzione sotto la seconda r.
39
Per Paulus Atheniensis, ovvero Paolo Diacono, cfr. sopra, n. 1. La
bibliografia in gran parte antiquata sulla tradizione manoscritta e sulla fortuna
dell’epitome di Festo accenna sporadicamente a questa denominazione, ma attraverso una serie di passaggi si può sospettare che la conoscenza stessa del
problema derivi in ultima analisi proprio da lettori umanistici (G.G. Scaligero,
direttamente o tramite P. Daniel) delle nostre postille. Poco sotto, in un’altra
postilla, che ne prolunga una preesistente e che dovrebbe essere stata vergata
prima di quella appena trascritta, dopo una glossa su industria, si legge: «|.paulus
ath. struere antiqui dicebat [sic] pro augere/ unde industrii.».
40
Ad esempio il De regno di Tommaso d’Aquino con la continuazione di
Tolomeo da Lucca non presenta mai industris di terza declinazione (in tutta
l’opera del teologo domenicano ricorrono soltanto forme di industrius).
38
Ernesto Stagni
240
Più avanti, fra le innumerevoli postille sul concetto di
iustitia, ne troviamo una a proposito di pleonexia e
mionexia, estremi in mezzo ai quali si pone la giustizia
stessa:
F. 113r: «Nota circa haec dicit seneca in secundo de
beneficiis contra virtutem eque peccat habundans. et de-/
ficiens. unde extrema virtutis videntur/ esse pleonexia. et
mionexia| contra qu°sdam/ 41 qui dicunt quod plus peccat/
avarus quam prodigus./ Sic ΦΡ ΗγιΔιus./ et aristoteles. ut
puto» 42 .
Il pensiero è espresso chiaramente da Egidio nel cap. 18
del libro 1, parte 2 del De regimine principum; qui è citato
di continuo Aristotele (specialmente p. 103: Probat
Philosophus 4. Ethicorum triplici ratione quod avaritia
peior est prodigalitate), ed un po’ sorprende che Guido senta il bisogno di aggiungere ut puto; probabilmente sta andando a memoria, senza avere sotto gli occhi i due testi (o
almeno quello di Aristotele). Non così si dovrà pensare della
frase successiva:
F. 120v: «liberalitas. ΦΡ. Η. liberalitas dicitur quia polle-/
ntes ea sunt ad similitudinem liberorum. liberalis/ dicitur
quod liber .id est. largus sit. et avarus seruuus [sic] est. unde
avaritia [?] 43 idolorum/ rum [sic] servitus.| horatius imperat
et c.» 44 .
citazione quasi alla lettera da un passo del De regimine
principum vicinissimo al precedente (libro 1, parte 2, cap.
41
Continua nella colonna a destra.
Potrebbero essere state aggiunte in un secondo tempo proprio le ultime
due righe, o almeno quella con il nome di Aristotele, in cui il modulo si riduce e
dà l’impressione di sfruttare il poco spazio rimasto disponibile prima della
postilla successiva. Da notare per la sua eccezionalità la forma
inequivocabilmente minuscola del gamma.
43
È appunto avaritia ciò che ci attenderemmo (la definizione idolorum
servitus è comunissima nella letteratura patristica e proviene da Paolo Col. 3.5:
si veda Vetus Latina 24.2, pp. 460-66 e cfr. anche Eph. 5.5), ma il compendio è
insolito, per quanto documentato – CAPPELLI, Lexicon, p. 27, lo data al secolo
XV – e la lettura della v è molto incerta; difficilmente, però, si tratterà di una i
(se ne ricaverebbe un insensato «a(n)i(m)a(li)a», con un’abbreviazione che Guido non impiega mai e che denuncerebbe una distrazione davvero incomprensibile: infatti, non sta più copiando il De regimine ma aggiunge di suo, come spesso accade quando unde introduce altri esempî in qualche modo correlati,
concettualmente o lessicalmente; anche un fraintendimento da vecchi appunti
apparirebbe quanto mai inverosimile).
44
Dalla disposizione delle postille si intuisce che questa fu aggiunta dopo
la didascalia liberalis relativa alla colonna di destra e dopo le sottostanti glosse
su libero nel margine sinistro e su libertas, con didascalia, al di sotto della
colonna sinistra.
42
Testi latini e biblioteche tra Parigi e la valle della Loira
241
18, pp. 104-105): Secundo huiusmodi virtus dicitur liberalitas quia pollentes ea sunt ad similitudinem liberorum. Avari
enim non sunt liberi sed sunt servi pecuniae. Cfr. già al cap.
17 liberalitas quae alio modo largitas nuncupatur (p. 99).
La traslitterazione alla greca, qui come altrove, sembra
indicare qualcosa di particolarmente interessante per il
postillatore. È azzardato desumere dai caratteri greci un
minimo di familiarità fra Guido ed Egidio? Forse no; ma
che i rapporti fossero cordiali è improbabile, dal momento
che ben due delle tre citazioni assumono toni abbastanza
critici, insolitamente polemici (cfr. contra quosdam qui
putant... o puto nihil esse). Sarà lecito cogliervi il riflesso
quasi astioso di un contrasto che potrebbe essere esploso più
liberamente dopo i ben noti fatti del 1277, quando le
condanne del vescovo di Parigi contro l’aristotelismo coinvolsero anche Egidio? D’altra parte, non credo proprio che
Guido, in appunti che erano personali, sia ricorso ad una
specie di crittogramma quanto mai ingenuo per nascondere il nome di un personaggio ormai da evitare, censurato
dall’autorità ecclesiastica parigina, con l’appoggio di quel
cardinale legato, Simon de Brie o de Brion, che divenne
papa nel 1281. Comunque sia, mi pare opportuno dare risalto a quella che potrebbe sembrare una semplice coincidenza: una stessa opera, il De regimine principum, è citata
una volta con il solo titolo, senza il nome dell’autore, altre
due volte accade il contrario (il che, di per sé, è già un
segno di dimestichezza: lo si coglie, ad es., nei numerosi versi attribuiti con una semplicissima sigla ad O(vidi)us). Lo stesso fenomeno si riscontra per un testo che
Guido conosceva benissimo, per il quale parlare di familiarità è più che legittimo: il De memorabilibus militum
gestis di Ugo di Mâcon che egli stesso aveva commentato.
Prima di discutere il terminus post quem costituito dal
De regimine, che dovrebbe fissare la morte del nostro erudito dopo il 1278, conviene osservare immediatamente che
frater è un indizio forte, per quanto non decisivo, per
ritenere le tre postille anteriori alla nomina di Egidio ad
arcivescovo di Bourges nel 1295 (ma nei manoscritti,
come è ovvio, era destinata a perpetuarsi la qualifica di
frater che compariva nel proemio) 45 . Sarebbe inutile in45
Per notizie e bibliografia su Egidio Romano, fondamentale la ricchissima
voce di DEL PUNTA-DONATI-LUNA, Egidio, da aggiornare almeno con WEIJERS,
Le travail, II, s.v. (A)Egidius Romanus (de Columna), pp. 64-76, e SILEO, Mae-
Ernesto Stagni
242
trodurre qui una rassegna dossografica puntuale sulle date
proposte dagli studiosi per il De regimine principum, fra
l’altro sostanzialmente concordi (anche perché spesso di
seconda o terza mano) e distinte soltanto dai margini di
oscillazione più o meno ampî: mi limiterò a riassumere o
sfrondare le considerazioni esposte nella tesi ricordata in n.
6. Almeno la presentazione dell’opera (iniziata magari
qualche tempo prima) deve cadere dal 1276 in poi (il
dedicatario Filippo il Bello figura già quale primogenito,
sebbene in realtà fosse il secondogenito, subentrato solo in
quell’anno come erede allo sfortunato fratello maggiore Luigi), ma prima del 1285, quando il principe sale
al trono. Però, il terminus ante quem si può anticipare di
oltre due anni, se prestiamo fede alla testimonianza di un
manoscritto della più antica traduzione in francese (e non
è temerario sperare che l’accurato censimento in corso
dei codici del testo latino – almeno 350 – ci offra risposte
più precise).
Il vero problema, per fissare un punto fermo nella cronologia delle nostre postille, resta il terminus post quem; si
deve sempre tener presente che Guido, se davvero conosceva l’autore, sarebbe stato forse in condizione di leggere
qualche parte del De regimine – per giunta cita proprio
dalle sezioni iniziali – prima della «pubblicazione» ufficiale, prima perfino che fosse immaginata (o imposta, come
pare, da una ben precisa committenza) una dedica al principe ereditario; almeno in teoria, il nome di Filippo potrebbe essere stato scelto o aggiunto da ultimo, per così dire
in corsa, ad un’impresa già avviata, con o senza patroni, ad esempio dopo la caduta in disgrazia del frate
baccelliere che nel 1277 fu escluso dall’insegnamento all’università di Parigi 46 . Vero è che proprio questo brusco arresto nella carriera può aver spinto Egidio a concepire il
progetto stesso dell’opera, a proporsi magari, idealmente
stri, pp. 86-103 e 148-151; pregevole la sintesi di MIETHKE, Le teorie, in particolare pp. 94-95 e 97-98. Si vedano anche EASTMAN, Die Werke, DEL PUNTATRIFOGLI, Giles e C.A.L.M.A., I, pp. 63-73, in particolare p. 70, con altra bibliografia specifica fra cui spicca BRIGGS, Giles (in particolare pp. 9-13 e 75-76).
46
Intanto, e a sfavore di ipotesi così prudenti, va annotata un’importante
osservazione di STAICO, Retorica, p. 31, a proposito di alcuni riferimenti alle
posizioni ufficiali dei theologi: «Dietro le cautele dell’autore del De regimine è,
quindi, del tutto possibile vedere – ed è anzi p r a t i c a m e n t e c e r t o
che vi siano – le tesi condannate da Stefano Tempier nel 1277» (spaziatura mia;
cfr. anche il seguito, IVI, pp. 31-32, e n. 39). Il testo stesso, dunque, si dimostra
com-pletato e in gran parte steso non prima del 1277.
Testi latini e biblioteche tra Parigi e la valle della Loira
243
o materialmente, come una sorta di pedagogo riconosciuto
di casa reale (se tale sia divenuto in quegli anni è questione
molto dibattuta che non è questa la sede per sviscerare).
Come dimostravano il fresco De regno di Tommaso
d’Aquino (incompiuto, ma già, per così dire, munito di
dedicatario), o, prima ancora, due trattati di Vincenzo di
Beauvais, il genere dello speculum prevedeva per l’appunto – e non come accessorio – la dedica al rampollo di una
dinastia illustre o a chi doveva educarlo, e la forma, la
destinazione, i modi della circolazione non erano
rigorosamente identici a quelli dei trattati universitarî,
commenti, summae ecc. (fu anzi il De regimine a segnare un
passo decisivo nella commistione dei due indirizzi); Egidio
doveva già sapere a chi rivolgersi quando cominciò a
scrivere, scegliendo di seguire quella tradizione invece della
struttura canonica e per lui abituale dell’esposizione
aristotelica. D’altra parte, come già suggeriva Bruni, il
giovane magister artium e baccelliere in teologia, tutto
proteso a conseguire nella regina delle facoltà la licentia
docendi (e, di per sé, ubique docendi), difficilmente avrebbe
avuto tempo ed interesse per un simile lavoro prima
dell’ozio forzato del 127747 (o meglio ancora del 1278, dopo
alcuni mesi destinati fra l’altro alla stesura del Contra
gradus et pluralitatem formarum).
Ammettiamo comunque, più per comodità e per estrema verosimiglianza che per convinzione irremovibile, che
Egidio abbia scritto solo dopo il 1277, al limite nei tempi
rapidissimi tipici dei grandi della Scolastica. Quanto dopo?
Non necessariamente molto. Chi ha proposto una datazione
al 1277/79, come Gerardo Bruni, uno fra gli studiosi più
competenti della vita e dell’opera del frate romano, in genere propendeva per una cronologia così alta perché riteneva che l’autore fosse tornato in Italia già nel 1279 48 , ma
47
Si veda BRUNI, Il De regimine, pp. 344-345 o Catalogo, IV, p. 83, e
ancora Le opere, pp. 80-81. Sarebbe utile, ma verosimilmente impossibile,
stabilire se Egidio avesse già raccolto materiale per un commento alla Politica di Aristotele che secondo alcune fonti avrebbe scritto, ma che comunque
non si conserva e della cui stessa esistenza è legittimo dubitare (cfr. FLÜELER,
Rezeption, ad indices, ma specialmente I, pp. 33 con n. 126, 109 con n. 96 e
113-14; II, p. 92).
48
Lo stesso BRUNI (ad es. Il De regimine, p. 345 e Catalogo, IV, p. 84) ammette che espressamente attesta la presenza di Egidio, in qualità di definitore, un
documento relativo al capitolo generale di Padova dell’agosto 1281, «non così
l’altro del 1279 che ricorda il capitolo provinciale di Perugia nel quale gli venne
conferita la carica», ma aggiunge senza altre spiegazioni: «noi siamo dell’opinione che il conferimento di questa dovette avvenire alla presenza dell’interessato,
Ernesto Stagni
244
non si può dire che esistano prove particolarmente solide
contro quest’opinione, quand’anche la partenza dalla Francia si dovesse spostare fino al 1281 (al più tardi) e sempre
che Egidio non potesse spedire il trattato dopo il viaggio.
Fra l’altro, è stato completamente trascurato un dettaglio
che mi pare importante: in origine era previsto per il 1280 e
non per il 1281 il capitolo generalissimo di Padova per il
quale Egidio era stato designato come definitore della provincia romana degli Agostiniani nel giugno 127949 : solo per
cause di forza maggiore l’assemblea fu rinviata al 1281, e
non è da escludere che nel frattempo il giovane frate fosse
già tornato 50 . Oggi per la composizione del De regimine si
preferisce scendere almeno al 1280, soprattutto in considerazione dell’età altrimenti troppo giovane del principe 51 ,
cosicché dovremmo riportare almeno all’agosto del 1279 il ritorno di Egidio nella penisola» («agosto del 1279» sarà errore per giugno, data dell’assemblea perugina, come conferma Catalogo, IV subito prima, p. 83: così comunque anche in
Le opere, p. 82). Gli studî più recenti, invece, insistono proprio sul fatto che la
presenza nel 1279 a Perugia non è menzionata agli atti (così, implicitamente,
anche DONATI, Studi, I, pp. 7-8 n. 13 e specialmente 33 n. 83): perché l’incarico
poteva essere assegnato anche in absentia? Ma dovremmo anche chiederci se era
necessario ricordarla. In ogni caso la stessa datazione di Bruni, senza alcun
rimando specifico o discussione, è asserita da MIETHKE, Le teorie, p. 98, che a p.
95 accetta il 1279 come anno del ritorno. Si vedano inoltre le note successive.
49
Approfondite ed interessanti ma pur sempre opinabili le considerazioni di BRUNI, Di alcune, p. 186 sul resoconto dell’assemblea del 1279: «Il documento che parla di questo capitolo lascia trasparire o che Egidio era presente,
e si voleva far passare del tempo prima di conferire qualsiasi incarico ad uno
colpito da censura; oppure si aveva avuto notizia del suo prossimo ritorno in
patria, e si voleva attenderlo. Altrimenti non si spiega come mai il documento
parli di aggiornamento del conferimento della nomina a definitore che poi gli
venne effettivamente data, e che egli effettivamente esercitò nel capitolo generale che l’ordine tenne nell’agosto del 1281 in Padova». Sarebbe utile accertare
la corretta interpretazione del passo cruciale (Diffinitorem eligendum reservavit
sibi, scilicet, prope capitulum generalem fecit fratrem Egidium Romanum
baccelarium Parisiensem, soggetto è il priore generale dell’ordine Francesco
da Reggio), a cominciare dai riferimenti cronologici impliciti e soprattutto dal
prope: GUTIÉRREZ, History, I.1, p. 72 traduce «he reserved to himself the right to
nominate the province’s definitor f o r the next general chapter, and he chose
Giles (...)» (spaziatura mia). Il sospetto è che si alluda invece al capitolo «generale» annuale tenuto a Perugia in concomitanza con quello provinciale del 1279,
secondo l’uso in vigore fino al capitolo «generalissimo» del 1281: sembra tener conto di questo WIELOCKX, Apologia, p. 116 e in ogni caso si intuisce che la
nomina sarebbe stata resa ufficiale in tal sede. Quel che è sicuro è che Egidio
dovette essere informato con un certo anticipo, e che perciò avrebbe avuto il
tempo per chiudere la stesura del De regimine senza troppa precipitazione,
mentre era ancora in Francia.
50
Il rinvio, in un periodo in cui i capitoli generali si tenevano ogni anno, è
ricordato da RANO, Agostiniani, col. 314. Sull’organizzazione dei capitoli
agostiniani, riformata nel 1281, si vedano – oltre a RANO, ivi – GUTIÉRREZ,
History, I.1, p. 67 (anche sul ruolo del definitore) e KUNZELMANN, Geschichte,
I, pp. 238-239.
51
Così ad es. DEL PUNTA- DONATI- LUNA, Egidio, p. 331.
Testi latini e biblioteche tra Parigi e la valle della Loira
245
nato nel 1268. Un indizio a favore di una stesura ancor più
tarda è offerto forse dal volgarizzamento già menzionato,
del 1282/83: l’avrebbe ordinato il re in persona, il padre del
dedicatario, ed è difficile credere che avrebbe atteso tanto se
il testo latino gli fosse stato presentato quattro o cinque anni
prima (a prescindere dal fatto che il figlio fosse o non fosse
ancora capace di affrontare una lettura del genere e che la
traduzione richiedeva comunque il suo tempo) 52 . Invece,
l’argomento della troppo acerba età di Filippo non mi sembra un ostacolo insormontabile per una datazione alta, ad es.
intorno al 1277-78. In primo luogo, nessuno avrebbe impedito al frate di destinare il suo lavoro al principe (fosse o non
fosse suo alunno, ma certamente con un occhio al padre), a
futura memoria, quando anche non lo giudicasse maturo in
quel momento per una simile lettura (nulla poi obbliga a credere che il De regimine gli fosse stato espressamente commissionato dal piccolo, a dodici anni piuttosto che a nove o
dieci, sebbene la dedica attribuisca proprio a lui l’iniziativa 53 : non a caso è il padre re che si preoccupa di farlo tradurre, ed in questo Egidio raggiunge sicuramente il suo scopo, cfr. anche sopra n. 52). Molte argomentazioni basate sul
sistema etico di Aristotele e date talora per scontate sarebbero state inadatte anche per un quattordicenne; l’impianto didattico non è poi così immediatamente «amichevole», per
quanto accessibile a laici di solida cultura. Inoltre, l’autore
parla testualmente di pudica ac venerabilis infantia (verso il
1282 ci attenderemmo piuttosto adulescentia) e la frase con
cui la descrive come una crescita promettente, in armonia
con le virtù della famiglia, è troppo convenzionale per provare alcunché. Bisognerebbe anche scavare con attenzione
nel trattato, in cerca di eventuali allusioni alla situazione
contemporanea (quanto di meno probabile ci sarebbe da
52
Come ricorda WENCK, Philipp, p. 7, lo stesso Egidio nel corso della sua
opera raccomandava di tradurla per darne lettura a corte, dal momento che insegnava a comandare ma anche ad obbedire (ecco forse una delle ragioni del suo
incontrastato successo). In un certo senso, il volgarizzamento era iscritto nel
progetto originario del De regimine (su totus populus ed omnes cives come
destinatarî si veda ad es. GOTTWALD, Vergleichende, p. 8 e n. 13).
53
A quanto mi risulta, questo punto è accettato pacificamente e non è mai
stato messo seriamente in discussione (non potrebbe trattarsi, almeno in certa
misura, di una finzione letteraria?); non trovo espressa alcuna motivazione per
la frase che si legge in VAN DEN AUWEELE, Un abrégé, p. 332: «Gilles de Rome
est le précepteur» (opinabile) «du dauphin» (definizione anacronistica) «...et il
rédige un manuel politique vers 1277-79 à l’intention de son élève royal à la
demande de Philippe III le Hardi»: l’autore si è forse confuso con la traduzione
(cfr. la nota precedente)?
Ernesto Stagni
246
attendersi da questo tipo di letteratura): il 1278, con la condanna a morte del ministro Pierre de la Brosse, rappresentò
una svolta decisiva nel regno di Filippo III. Qualche allusione, da leggere in filigrana, rischia di nascondersi in mezzo a
pagine fra le più lette per tutto il Medioevo, ma, come è già
stato osservato, proprio il distacco dall’attualità assicurò
all’opera di Egidio il suo immenso e duraturo successo.
Sarebbe interessante stabilire un confronto, di solito trascurato, con la Somme le roi di Lorenzo di Orléans, confessore domenicano di Filippo III, completata nel 1280 su commissione dello stesso re 54 . Sarebbe suggestivo se le due opere, una per il sovrano e l’altra per l’erede, fossero state ordinate per così dire in parallelo, a maggior ragione se davvero
Egidio aveva assunto un ruolo di tutore o affine, paragonabile a quello di Lorenzo come confessore (e a quanto sembra
educatore). Comunque sia, nulla impedisce di credere che il
frate agostiniano avesse avuto occasione di segnalarsi a corte frequentandola, più o meno assiduamente (magari come
occasionale predicatore), senza mai occupare la posizione
ufficiale o ufficiosa di un precettore, a quanto pare rivestita
da altri. La questione, però, meriterebbe di essere chiarita:
proprio l’ipotesi di un’associazione più stretta con il seguito
del re, continuamente in viaggio, almeno nell’Île-de-France,
sarebbe l’unica capace di giustificare un sospetto che ci riguarda da vicino; in sostanza, dobbiamo chiederci se Egidio,
in qualche momento, si sia allontanato da Parigi55 , e se Guido, ammesso che davvero lo conoscesse di persona, lo abbia
incontrato altrove (fermo restando che una dimestichezza
54
Si vedano, anche per bibliografia, WHITAKER, Traces, BRAYER, Laurent
e DE LA SELLE, Le service (soprattutto pp. 149-54 e 261-62), da integrare con
KAEPPELI-PANELLA, Scriptores, IV, s.v. «Laurentius Aurelianensis (Orléans)»,
pp. 185-86 (aggiornamento di KAEPPELI, Scriptores, III, pp. 63-64) e J.-P. Lobie
in DBF, XIX, 2001, col. 1427; su un aspetto particolare, SUPINO MARTINI, De
regimine. Come data della Somme si cita spesso il 1279, ma se è vero che l’opera fu compiuta in marzo, si dovrà intendere 1280, tenendo conto dello stile antico
(cfr. KAEPPELI, Scriptores, III, p. 64; d’altronde, un’analoga constatazione è costantemente dimenticata da tutti coloro che collocano nel 1282 la traduzione del De regimine di Henri de Gauchi, cfr. subito sotto). Fra i pochi che
mettono in parallelo la Somme e lo speculum di Egidio (attraverso il
volgarizzamento) LUSIGNAN, La topique, p. 306, ha il merito di riconoscere in
questo periodo del regno di Filippo III un programma culturale coerente, ma
già dal rinvio bibliografico largamente superato mostra di avere un’idea poco
precisa dei reali rapporti di committenza.
55
Per gli anni prima del rientro in Italia appare ben poco fondata (per
quanto accreditata in qualche misura da EASTMAN, Das Leben, p. 323, cfr. la
nota successiva), l’idea di un «demi-exil, en province: Bayeux, Angers, 12771281». La accoglie in questi termini, a guisa di un dato di fatto accertato, senza
Testi latini e biblioteche tra Parigi e la valle della Loira
247
soltanto letteraria, attraverso testi popolari come fu
prestissimo * il De regimine, poteva acquisirsi ovunque, ma
con la massima facilità negli ambienti universitarî). Per quel
che conosciamo finora, e per motivi di verosimiglianza, sem
bra ancora ragionevole ammettere che Egidio sia rimasto
sempre sulle rive della Senna, dal 1259 al momento del rientro in Italia, fra il 1279 e il 1281. La provincia romana l’aveva per così dire distaccato a Parigi per studio, e, una volta
cessata la speranza che recuperasse la sua posizione accademica 56 , non si vede perché il suo ordine avrebbe dovuto
mantenerlo altrove ma lontano dall’Italia, nello stesso momento in cui – già nel giugno 1279 – se ne prevedeva il
ritorno entro il 1280. Fra l’altro, intorno al 1278-80, i conventi agostiniani nella Francia centro-settentrionale erano
ancora pochissimi. Ci piace invece supporre che il frate abbia rinviato il viaggio fino al compimento del trattato per il
quale si era impegnato con la casa reale (per tacere di altri
eventuali rapporti di frequentazione di cui non abbiamo prove), e che a questo scopo il luogo ideale restasse pur sempre
la capitale 57 .
nessuna dimostrazione e senza specifici rimandi bibliografici, GLORIEUX, Les
premiers, p. 205, nel corso di una succinta esposizione biografica; già nel
Répertoire, II, n° 400, p. 293, lo stesso autore scriveva «il se rendit à Bayeux...
(1278-80)» (ma le datazioni associate a quest’affermazione, cfr. pp. 297-98,
come pure, più in generale, la bibliografia citata per la voce su Egidio, si
rivelano fatalmente superate). Periodi di residenza nella città della Normandia
sono invece documentati fra 1287 e 1290/91 (cfr. DEL PUNTA- DONATI- LUNA,
Egidio, p. 322 e, con qualche discrepanza e molta prudenza, DONATI, Studi, I,
pp. 58-59 e 65; si veda anche WIELOCKX, Une collection, p. 211).
56
EASTMAN, Das Leben, p. 323, per sostenere che Egidio era rimasto in
Francia e prima di ricordare i suoi rapporti con la corte, sviluppa in prospettiva
nuova un’interessante idea di Miethke: «Wichtig in diesem Zusammenhang ist
die Tatsache, daß ihm nach dem Tode des Bischofs Tempier im September 1279
eine Rückkehr zur Universität offen stand». Ma poi l’elezione al soglio pontificio del cardinale Simon, principale fautore delle condanne decretate dal vescovo defunto, avrebbe rappresentato un ostacolo decisivo. Si può aggiungere che
il successore di Tempier aveva personalmente condiviso la sua politica, e che
occorreva realmente l’intervento del papa per tentare di ottenere la riabilitazione: non a caso, nel 1285, fu proprio una supplica ad Onorio IV, consacrato da
pochi giorni, ad avviare la procedura per la riammissione del frate a Parigi. Al
limite, una buona ragione per restare fino al 1281 sul posto (o almeno in Francia, par di capire da Eastman) sarebbe stata proprio l’attesa della fine del lungo
interregno dopo la morte di Niccolò III, protrattosi dal 22 agosto 1280 al 22
febbraio 1281; ma siamo sicuri che Egidio non fosse rientrato già prima, in
vista del capitolo generale dell’agosto 1281 al quale doveva partecipare, e che
anzi era previsto in origine per il 1280? Inoltre, non sembra, contrariamente a
quanto afferma EASTMAN, ivi, p. 322, che Niccolò III abbia avuto qualche parte
nell’appoggiare le iniziative di Tempier, semplicemente perché anteriori al suo
pontificato, in base alla ricostruzione più attendibile. Cfr. anche sotto, n. 57.
57
Anche se ammettessimo (cfr. sopra, n. 56) che Egidio si era trattenuto a
Parigi coltivando la speranza di essere riammesso all’università, bisogna ricordare che fra la sua condanna e la morte del vescovo passarono ben due anni e
Ernesto Stagni
248
Ecco dunque che cosa mi pare ragionevole concludere:
come anticipavamo, il terminus ante quem per la composizione del capolavoro di Egidio Romano è la Pasqua del
1283 (18 aprile): entro il 1282 (stile della Resurrezione) fu
infatti completata la traduzione in francese di Henri de
Gauchi, come ci informa nel prologo il manoscritto Dôle
157, f. 1 58 . Ma non sarà troppo imprudente risalire indietro
di un anno e più (anche soltanto per lasciare il tempo
necessario alla traduzione ed alla produzione di un esemplare di dedica): il frate risulta in Italia poco dopo la metà del
1281, per l’impegno come definitore al capitolo generale
dell’ordine agostiniano che gli era stato conferito già nel
1279 (ma si veda sopra, testo relativo alla n. 50) e dovette restarvi senza interruzioni almeno fino al 1285. È probabile che avesse già chiuso e consegnato il suo lavoro al
momento di partire dalla Francia 59 .
In definitiva, Guido poteva aver letto il De regimine già
verso la metà del 1281, e forse perfino un anno prima o più,
a maggior ragione e con maggiore anticipo se conosceva personalmente l’autore: ma difficilmente prima del
1278 o lontano da Parigi. Valeva comunque la pena di dilungarsi su quelle che potrebbero essere le più antiche citazioni note del testo di Egidio, almeno di quello latino, e
ragionarne proprio ad uso di chi si occupa di ricostruirne
la circolazione; ma soprattutto nessun esempio è migliore
per documentare il continuo arricchimento della «libreria»,
reale o virtuale, del nostro personaggio, e per dare un’idea
delle questioni che si pongono. A rigore, neanche il necromezzo (invece la cronologia adottata da Eastman collocherebbe il definitivo
«Ausschluß» dall’università, dopo le reazioni scritte di Egidio alla prima censura, al più presto nel 1278 inoltrato, e non ne escluderebbe una datazione al
1279): trenta mesi passati ad attendere la scomparsa di Tempier e a coltivare
illusioni? Se mai, l’Apologia e poi il Contra gradus, finito nel 1278, dimostrano
che il frate era particolarmente interessato a far pesare le sue repliche
nell’ambiente parigino e che la condanna, almeno nell’immediato, non gli aveva
affatto imposto un «demi-exil».
58
Si veda BRIGGS, Giles, pp. 9-10, n. 4 che continua a datare al 1282 senza
specificare. È bene precisare, come si ripete in SAMARAN-MARICHAL, Catalogue, V, p. 647, che la data si riferisce proprio al compimento dell’opera e non alla confezione del codice (che non è esemplare di presentazione). Notizie sulla
tradizione manoscritta del volgarizzamento francese, oltre che di quello italiano che ne dipende, in DI STEFANO, Preliminari, specialmente pp. 65-66 n. 4.
59
Non bisogna comunque sottovalutare l’ipotesi che traspare (la spaziatura
è mia) da certe frasi di BRUNI, Le opere, pp. 81-82 (autore in ogni caso propenso
ad anticipare al 1279 una prova tutt’altro che sicura del rientro, cfr. sopra, note
48-49): Egidio avrebbe scritto «la sua opera, o almeno p a r t e d i e s s a ,
mentre ancora soggiornava in Francia», e fra 1277 e 1279 «dovette almeno i n c o m i n c i a r e a scrivere».
Testi latini e biblioteche tra Parigi e la valle della Loira
249
logio è prova che il magister negli ultimi anni risiedesse
stabilmente nella capitale, mentre trovarlo proprietario di
due case ne attesta come minimo un diretto coinvolgimento
nella vita dei quartieri universitarî. Non ci sarebbe da
stupirsi che quella di Sainte-Geneviève fosse la sua biblioteca preferita, eventualmente resagli accessibile dalla protezione di Guglielmo di Mâcon o dello stesso cardinale Simon
che vi abitò; come indizio, ricordiamo che nella celebre
istituzione parigina proprio nel Duecento si conservava una
miscellanea grammaticale con alcuni testi citati dalle postille bernensi, fra cui l’eccezionalmente rara ortografia di
Terenzio Scauro 60 .
Uno dei principali problemi ancora aperti nella nostra ricerca sulla «biblioteca» di Guido, sul quale già sopra ci interrogavamo, è quello di una sua materiale esistenza in
quanto raccolta personale di libri: se insomma abbiamo a
che fare con un ricchissimo possessore, un secondo Richard de Fournival, o soltanto con un frequentatore di collezioni altrui che occasionalmente annotava i codici che leggeva o che gli venivano messi a disposizione. Se è indiscutibile la natura di vademecum di un’intera vita per il Papia bernense, non è altrettanto chiara la situazione per molti degli
altri manoscritti finora individuati. In effetti in alcuni esemplari correzioni e annotazioni sono rarissime, e potrebbe insospettire la compresenza di doppioni come per Orazio e soprattutto per Alhazen (Guido potrebbe aver addirittura agito
da committente, ed è evidente uno strettissimo rapporto – di
dipendenza diretta o mediato da un comune antigrafo – fra i
due codici del De aspectibus). La coppia di testimoni oraziani, decisamente più antichi, illustra al meglio il gusto di Guido per le collazioni a fini di emendazione, uno sforzo che si
riflette anche nelle varianti ad altri testi e soprattutto nelle
postille bernensi (se ne potrebbe ricavare un elenco piuttosto
60
Si veda (MANITIUS, Handschriften, p. 146, e già Philologisches, pp. 69,
72 e 115), la notizia del catalogo del secolo XIII, cfr. DELISLE, Le Cabinet, II, p.
515, su un codice contenente Orthografium Capri, Bede, Scauri et Angroecii
(sic, per Agroecii), tutti autori consultati da Guido; si conferma per l’ennesima
volta che ai suoi tempi circolavano anche a Parigi testi che ci attenderemmo noti
soltanto nella valle della Loira o nei dintorni (da dove proviene ad esempio
l’unico testimone medievale conservato di Scauro, del secolo IX, originario
forse di Auxerre; ma non è escluso che proprio a Parigi sia stato rinvenuto
prima del 1511 l’esemplare perduto da cui deriva l’editio princeps pesarese,
trascurata dall’editore Keil ma strettamente imparentata con la miscellanea di
Auxerre, come ho verificato da una rapida collazione e come meglio documenterà la prossima edizione a cura di Federico Biddau).
Ernesto Stagni
250
lungo di opere per le quali consultò più di un manoscritto,
dallo stesso Papia alle Etimologie di Isidoro, dal Beda grammatico e retore alle Epistole a Lucilio di Seneca). Alcuni
dei libri a lui coevi – ed il pensiero, lo ripetiamo, corre proprio ai due De aspectibus ed all’esplicita attestazione del
colofone di Edimburgo – potrebbero essere stati ordinati da
lui stesso e più o meno immediatamente sottoposti a revisione, sia ope ingenii sia per confronto: non solo con il
modello eventualmente copiato male ma anche con rappresentanti di altri filoni della tradizione.
Le complicazioni derivano dall’assenza di qualsiasi nota
di possesso (tale non è, in definitiva, neppure il suddetto
colofone); peggio ancora, mancano vestigia della storia e
soprattutto della localizzazione di ciascun esemplare in anni
di poco precedenti o successivi a Guido 61 . Forse non è un
caso se molti di questi manoscritti sembrano riemergere, in
luoghi disparati e negli stessi anni, fra il terzo e l’ultimo
quarto del Trecento (addirittura in Spagna negli anni Venti
del Quattrocento il codice oggi in Scozia): Tours 843 non
lontano da Bourges, il Palatino 1514 in Italia, il Papia e
Uguccione riuniti nel convento francescano di Beauvais,
ma ad opera di un frate che dovette vivere a lungo a Parigi;
e proprio a Parigi intorno al 1380 il Reginense di Orazio
(con l’aggiunta di un Grecismus di altra provenienza) potrebbe essersi trovato sullo scaffale del libraio Jean de
Gauchi. Vista la straordinaria capacità di attrazione e quindi di irradiazione della cultura universitaria parigina, anche sul piano del commercio librario e più in generale della
mobilità degli intellettuali, non ci sarebbe da sorprendersi
se una simile dispersione si fosse prodotta per l’immissione su quel mercato di una collezione rimasta fino ad allora
integra e verosimilmente dimenticata in mani private.
Una chiave utile per far progredire la ricerca delle provenienze, oltre che da un esame paleografico degli esemplari più recenti, potrebbe forse trarsi dallo studio di alcuni
fogli di guardia, probabilmente originarî o comunque già
61
Numerose scritte avventizie alla fine dell’Orazio parigino, in un quadro
del genere, sono eccezionali, in quanto il loro aspetto paleografico le dimostra
alcune anteriori ed altre posteriori a Guido di pochi decenni. Ma non per questo
appaiono meno enigmatiche; certi indizî puntano verso l’Inghilterra o verso un
ambiente sotto forte influenza inglese, fiammingo o filo-fiammingo. Tale poteva
essere Montreuil-sur-Mer (vicina alla Manica, nella diocesi di Amiens che tanto
spesso nominiamo in questo articolo) dove nacque quel Denis Lambin che fu
l’illustre possessore cinquecentesco del codice e che lo ebbe in dono proprio da
un concittadino.
Testi latini e biblioteche tra Parigi e la valle della Loira
251
associati alle rilegature dei tempi di Guido o dei decenni
successivi (come è assolutamente certo per i Topica e per
il Papia del Bernense 276). Purtroppo si stanno rivelando
poco fruttuose le conseguenze dell’identificazione di testi
finora non riconosciuti dai catalogatori, in qualche caso
per gravi difficoltà di lettura62 , in tutti per mancanza di
edizioni o comunque di qualsiasi studio sulle relative tradizioni manoscritte. Di grande interesse le carte che
nell’Alhazen di Edimburgo e nel Papia Bernense 276 sono
numerate 1, in quanto giudicate solidali con l’assetto primitivo e sostituite in funzione di guardia da elementi più
recenti 63 ; il primo con un lungo brano da Galeno (cfr. sopra, n. 11), l’altro è il frammento di un testimone
duecentesco della Summa teologica scritta in ambiente parigino da Prepositino di Cremona, che ha qualcosa da rivelare sulle prime attestazioni e sulla diffusione delle nozioni di natura naturans e natura naturata (una storia che
meriterà comunque di essere riscritta, dopo numerosi tentativi) 64 . La Summa è in gran parte inedita e la tradizione
manoscritta poco più che inesplorata, ma si può già avvertire il futuro editore che in quel punto del terzo libro si è
insinuata nel testo del frammento bernense una glossa che
non compare nei pochi codici che conosco (per collazione
personale o dai magri estratti pubblicati) 65 , applicata alla
complessa discussione sull’unione ipostatica nell’incarnazione di Cristo. Si direbbe un’aggiunta destinata a restare
in margine, ma non necessariamente in contrasto con le
intenzioni di Prepositino o con un suo eventuale ripensa62
All’inizio ed alla fine del codice ora smembrato Bern. C 219.1, ff. 1-8 +
Par. lat. 7709 (cfr. sopra, n. 9): estratti dalle Institutiones di Giovanni Cassiano
sul recto del f. 1 nella prima porzione e sul verso del f. 79, l’ultimo della seconda, evidentemente a riempire pagine rimaste bianche (le due facciate interne
contengono rispettivamente inizio, f. 1v, e fine, f. 79r, dei testi).
63
Nel Bernense brandelli di fogli di un manoscritto tardotrecentesco del
commento del cardinale Jean Lemoine al Liber sextus Decretalium di Bonifacio
VIII.
64
Notevole, da ultimo, PICK, Michael, specialmente pp. 109-16, con
bibliografia; la diffusione parigina e comunque francese sospettata dall’autrice
intorno al 1200 si poteva già desumere, ad esempio, da WEIGAND, Die
Naturrechtslehre, p. 249 (cfr. anche pp. 248 con n. 57 e 231-33).
65
PRINCIPE, Hugh, p. 127 n. 12. In particolare, ho attentamente collazionato Lucca, Biblioteca Statale 321 (B.222)65, ff. 74r-75v. Proprio nel punto dell’inserzione del frammento bernense le discrepanze fra questo codice e i due usati da
Principe sono insolitamente vistose. La più accurata edizione critica di un estratto di Prepositino, basata su sette testimoni, si troverà in GRÜNDEL, Die Lehre,
pp. 153-56. Sia l’esame diretto sia la bibliografia inducono a postulare l’esistenza di gruppi redazionali nettamente distinti, con importanti aggiunte ed omissioni.
Ernesto Stagni
252
mento (integrazioni importanti a quanto si sa sono testimoniate in numerose copie della Summa, ma soprattutto non è ancora chiaro se lo scritto fu concepito come tale, come un tutto unitario, o se è solo frutto della rielaborazione di una o più reportationes, o di singole
quaestiones che i codici a volte omettono o traspongono);
al limite, anzi, non si può respingere a priori l’ipotesi che
si tratti di una variante d’autore, dovuta cioè ad un personaggio che nella chiesa parigina ricoprì il ruolo istituzionale di cancelliere, cruciale per la direzione delle scuole,
nel primo decennio del Duecento, agli albori dell’università e in un ambiente, quello dei maestri di diritto canonico, che sembra essere all’origine della fortunata coppia di
definizioni. L’esame di un maggior numero di esemplari
potrà servire.
Mi si concederà più volentieri questa digressione per
un opportuno richiamo ai rischi di certi odierni eccessi di
specializzazione, che anche convegni come il nostro possono aiutare a superare: un deprecabile muro di incomunicabilità fra discipline diverse, in questo caso fra
studiosi di storia del diritto e di storia della filosofia, ha
impedito ai primi di apprezzare e ai secondi – i più direttamente interessati – perfino di accorgersi di un’attestazione importante, in quanto precoce, del fortunato
binomio: la troviamo in glosse alle Istituzioni di
Giustiniano attribuite negli apparati di Azzone – cui attinge
anche Accursio – ad un altro cremonese, Giovanni
Bassiano (professore a Bologna morto dopo il 1187 ma
probabilmente prima del 1200) e risalenti, verosimilmente,
ad uno stadio anteriore al 1190. Non si può neanche dire
che la fonte sia inedita (pure a non voler tenere conto
delle cinquecentine degli apparati azzoniani ed accursiani,
dove generalmente mancano quelle sigle come Io. B. usate
in molti codici per designare Bassiano), per quanto sia
stata pubblicata in forma dichiaratamente provvisoria e
in un volume non molto diffuso 66 . Per di più, esperti di
66
CAPRIOLI et al., Glosse, n° 541 ad Inst. 3.15.6: per rerum naturam Ergo
nec futura: nam et hec rerum natura certa sunt, ut D. de iudiciis (l.) set et si §
ult. [D.5.1.28.5] Set aliud est certum esse per rerum naturam, idest post
naturalem nature cursum, per quem sola preterita presentia certa sunt, que
non habent se ad utrumlibet: nam nec illa morantur, ut D. de novationibus (l.)
pupillus § qui sub condicione [D. 46.2.9.1]; aliud est in rerum natura, in qua
omnia que sunt fuerunt, futura sunt, presentia sunt, teste Boetio. Nam et dicitur:
‘Mille anni ante oculos eius tamquam dies hesterna, que preteriit’. Et dicitur
prima natura naturata, secunda naturans; et hec natura naturans dicitur ‘noys’,
Testi latini e biblioteche tra Parigi e la valle della Loira
253
diritto canonico come Weigand avevano già notato, altrettanto ignorate, attestazioni parigine databili entro il
primo decennio del secolo XIII, probabilmente già prima
di quanto sostenga la Pick (cfr. sopra, n. 64) 67 . È evidente che la questione andrà ripresa sistematicamente e su
altre basi, in un complesso quadro di rapporti fra filosofiteologi e giuristi-canonisti, tra Francia ed Italia settentrionale, soprattutto in ambienti platonizzanti di impronta porretana (scuola di Alano di Lilla?); mi basterà per il
momento averne dato un cenno, non senza ricordare ad
un pubblico di filologi romanzi che per il contesto
cristologico dell’argomentazione è in alcuni versi in francese, dallo Château d’amour di Roberto Grossatesta (sintomo di un radicamento già forte della terminologia latina da cui dipendono?), che ho trovato uno dei due paralleli più consoni all’interpolazione nella Summa di
Prepositino (l’altro è un passo quasi certamente da emendare del cistercense Guarniero di Rochefort, che il cremonese probabilmente conobbe di persona e certamente di fama e
che fu assai addentro ai dibattiti teologici parigini) 68 .
Indubbiamente, se per un testo come quello di
Prepositino è lecito sospettare che il foglio di guardia del
Bernense sia tratto da un manoscritto di origine e circolazione parigina più che, ad esempio, orleanese, visto il monopolio esercitato dall’università della capitale sull’insegnamento della teologia, occorre essere assai prudenti anche nei pochi casi, come quello paradigmatico delle Epistole di Plinio, nei quali troviamo qualche traccia di traidest mens divina. Io(hannes B(assianus). Da consultare anche l’apparato critico (la sezione è a cura di P. Mari), sostanzialmente affidabile, come le datazioni
dei manoscritti anteriori al 1200: chi scrive aveva verificato di persona il testo
al f. 29vb di F (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Acquisti e Doni 292).
67
Lo stesso WEIGAND, Die Naturrechtslehre, senza offrire una datazione o
un’attribuzione precisa, aveva già individuato a p. 60 n. 46 un’attestazione
romanistica molto antica per naturans e naturata in una glossa al Digesto.
68
Quanto a Guarniero, menzionato dalla PICK, Michael, a p. 103 (in contesto diverso ma collegato), materia, materians e materiata, che si leggono nella
pessima edizione del sermo 6, de nativitate Domini in PL 205, col. 611A-B, si
dovranno molto probabilmente emendare in natura (tranne nella prima occorrenza, dove materia ha il senso di “argomento” e può aver facilitato le successive corruttele), naturans e naturata; basterà forse a confermarlo una verifica
sui manoscritti Troyes, Bibliothèque Municipale 907 e 1301: cfr. intanto le fondate perplessità di HÄRING, The Liberal, p. 61, che pure non interviene sul testo:
«Garnier’s terminology is uncommon, to put it mildly». Il brano, depurato da
guasti che avrebbero giustificato un’accusa di eresia, è il più vicino che io conosca, nonostante le innegabili differenze, al contesto cristologico della glossa
confluita nella Summa di Prepositino.
Ernesto Stagni
254
dizione manoscritta isolata proprio a Parigi, o addirittura
solo a Parigi. A Saint-Victor infatti doveva trovarsi intorno
al 1500 il celebre codice tardo-antico, in gran parte
perduto 69 , al quale dobbiamo la sopravvivenza del decimo
libro, ossia della corrispondenza con Traiano, che tanto
avrebbe interessato gli spiriti medievali per le reazioni
pagane alle origini del cristianesimo (lettere 96-97) e che
invece fu noto soltanto per via indiretta, tramite Rufino.
L’eccezione, ancora una volta, è Guido, che lo cita
inequivocabilmente due volte ma in modo a prima vista
assai ambiguo:
Bern. 276, f. 36r: «Plinius/ in libro. epistularum./ post
.librum. 9m.» in margine a Papia CATARACTE celi fenestre
vel tonitrua.
(cfr. Plin. ep. 10.61.4 quorum si nihil nobis loci natura
praestaret, expeditum tamen erat cataractis aquae cursum
temperare) ma soprattutto 70 :
Bern. 276, f. 61r: «a diple 71 forte dicitur diploma. Genus
est/ scripti de qu° loquitur plinius in IX. epistularum.
.scilicet./ in epistula. 29a. aliqui libri habent duploma 72 /
et (?) dicitur a diple. quod est nota quam scriptores/
69
Se ne conservano però sei fogli riapparsi un secolo fa sul mercato
antiquario ed ora a New York, Pierpont Morgan Library, ms. 462. È comunque
plausibile che il codice fosse giunto a Parigi da poco tempo: le uniche tracce di
scrittura medievali che contiene il frammento, oltre ad alcuni disegni a secco
databili fra secolo XIII e XIV (è il parere di Armando Petrucci, che mi ha
gentilmente fornito un’accurata descrizione autoptica del frammento Morgan)
ma a mio avviso non di mano di Guido, recano i nomi di due funzionarî della
vicina Meaux intorno al 1400. Ovviamente però non si può escludere che i fogli
fossero stati strappati già prima dal codice e che il resto si trovasse a SaintVictor (sebbene l’accuratissimo catalogo non annoti la lacuna, come invece per
la fine del libro nono), o che la probatio pennae sia opera di uno scriba di Meaux
di passaggio a Parigi o copia da un documento finito a Saint-Victor dalla zona di
Meaux, dove l’abbazia ebbe forti interessi).
70
Trascrivo volentieri anche il seguito della nota, di eccezionale interesse
per i diplomatisti (al di là della disquisizione sul termine che dà nome alla loro
disciplina) per la consapevolezza della distinzione fra le forme di autenticazione
degli atti diffuse, da un lato, in Italia ed in Provenza, culle del notariato, e
dall’altro, a quanto si intuisce, nella Francia propriamente detta, o comunque nei
paesi in cui «faceva fede» il solo sigillo: la diplè verrebbe dunque a coincidere
con il signum del notaio. Il confronto assume particolare valore in anni di
transizione nelle pratiche transalpine, soprattutto da quando il Sud della Francia
passò sotto il diretto controllo di Filippo III.
71
72
La nota è introdotta dalla didascalia «diple/ diploma».
La nota prosegue alle righe sottostanti con grafia un po’ diversa,
leggermente più compressa, in inchiostro più scuro. Una postilla al f. 64r mostra
inequivocabilmente che Guido, per l’incertezza sulla grafia con u o con i,
intende con aliqui libri alcuni testimoni del Digesto, e non del rarissimo Plinio.
Testi latini e biblioteche tra Parigi e la valle della Loira
255
huiusmodi scriptis apponebant pro sigillis sicut fit/ adhuc
in quibus 73 locis ut in Italia et/ provincia in quibus
notariorum carte/ absque sigillo; fidem faciunt».
La parola diploma è attestata soltanto nel libro decimo
(non nel nono), e Guido sta certamente alludendo a 10.45
(diplomata, domine, quorum dies praeterît, an omnino
observari et quam diu velis, rogo scribas…) e alla risposta
di Traiano (10.46: Diplomata, quorum praeteritus est dies,
non debent esse in usu. Ideo inter prima iniungo mihi, ut per
omnes provincias ante mittam nova diplomata, quam
desiderari possint): l’ordinale 29a corrisponde infatti alla
numerazione delle epistole per coppie (quando si conserva la
replica dell’imperatore) accolta dai primi editori e certamente trasmessa ab antiquo: ma, lo ripetiamo, per il decimo libro e non per il nono. Una semplice distrazione, in
chi mostra altrove di conoscere un librum post nonum?
È convinzione radicata, specialmente dopo gli ottimi
lavori di Carlo Vecce 74 , che l’editio princeps (1502) delle
lettere del decimo libro, mutilo però delle prime quarantuno,
sia stata tratta dal codice di Saint-Victor, visto da fra
Giocondo, l’umanista e architetto allora in Francia. Pochi
anni dopo, trafugato a quanto pare da un ambasciatore veneziano, lo troviamo nelle mani di Aldo Manuzio, che al
contrario fu capace di fornire nel 1508 un testo completo.
Il curatore della princeps, Pietro Mareno detto Leandro o Aleandro (cugino del famoso Girolamo), era stato segretario o comunque accompagnatore dell’oratore veneto
presso Luigi XII nel 1500-1501, Francesco Foscari, così è
stato facile associare a tale missione lo sfruttamento o la
stessa riscoperta del codice parigino. Si dimentica però che
in quel periodo il re, seguito dagli ambasciatori, non fu mai
a Parigi, e che passò il grosso del tempo nell’amata valle
della Loira, e soprattutto a Blois, dove fra Giocondo ed
altri artisti, in gran parte italiani, stavano ricostruendo il
magnifico palazzo che oggi conosciamo. Ovviamente il
frate architetto veneto poteva essere un ottimo intermedia73
Probabile svista per quibusdam. In quibus si legge di nuovo esattamente
un rigo sotto, non si può escludere che Guido stesse copiando da precedenti
appunti e che si fosse momentaneamente confuso con il seguito. Ma non mancano altri casi di semplici pronomi relativi al posto di quomodo o per l’appunto
di quidam, anche se poi le piccole omissioni sono state sanate con aggiunte
nell’interlineo: si veda ad es. al f. 42r: «veluti in qua communi urbe», con qua
corretto in quadam in accordo con il testo di Calcidio.
74
Fondamentale VECCE, Iacopo, soprattutto pp. 9-24 e 79.
Ernesto Stagni
256
rio per la trasmissione del decimo libro di Plinio attraverso
l’esemplare vittorino, visti i suoi spostamenti fra Parigi e
Blois. Ma come spiegare l’acefalia dell’editio princeps, dal
momento che se mai nel venerando codice, quale lo descrivono i minuziosi cataloghi di Saint-Victor 75 , si era perduto il finale del nono libro, ma non l’inizio del decimo,
recuperato alla stessa fonte pochi anni dopo da Aldo e prima ancora dal giovane Budé? È qui che acquistano diversa
luce le difettose o imbarazzate citazioni di Guido, che probabilmente si accorse solo in un secondo tempo della mutilazione (forse grazie alla numerazione delle lettere libro per
libro che avrà avuto un salto o un’incongruenza fra
nono e decimo) e che fu così prudente da scrivere post
nonum per un libro dalle caratteristiche indubbiamente singolari e al quale, in mancanza di titoli correnti originali e
di un’idea sull’estensione della lacuna, o senza consultare
un explicit abbastanza dettagliato, non avrebbe saputo attribuire un numero attendibile 76 .
La tradizione in dieci libri è oggi rappresentata da due
soli testimoni indipendenti, altomedievali, probabilmente di area Fleury-Auxerre, derivati da un discendente del
vetusto Parigino, che però per diverse ragioni si fermano
poco dopo l’inizio del quinto libro (comunque l’inscriptio –
C. Plinii Secundi Epistularum libri numero decem –
sembra confermare la composizione originaria almeno in
uno dei due, B, l’attuale Firenze, Biblioteca Medicea
Laurenziana, Ashburnham 98, mutilo e purtroppo senza
copie, a differenza dell’altro, che fin dall’inizio contene75
OUY, Les manuscrits, I, Introduction- Concordances- Index, pp. 30-31;
II, Texte, p. 630, n° 13.
76
La spiegazione più plausibile, in altre parole, è che Guido abbia avuto a
disposizione un codice mutilo fra il nono e il decimo libro, in cui ogni lettera era
numerata, e che solo in un secondo tempo si sia accorto del guasto. Al momento
di annotare il f. 61r, l’ultima inscriptio che aveva visto nello sfogliare il manoscritto pliniano doveva essere quella del libro nono; più tardi deve
aver capito che una parte del testo era caduta, insieme all’explicit del nono, e,
con ragionamento ineccepibile, non potendo sapere quanto fosse estesa la lacuna, preferì parlare di un libro dopo il nono, che non necessariamente era il
decimo. L’impressione, almeno la più superficiale, è che Guido, non trovando in
Papia alcun lemma per diploma, abbia postillato il f. 61r, o comunque preso
appunti, «a caldo», mentre leggeva Plinio per la prima volta. Ad avvalorare
questa sensazione interviene la sorpresa per il fatto che è citato uno solo, il
primo, dei passi del decimo libro relativi ai diplomata; anzi, andando avanti
Guido si sarebbe accorto che proprio sulla funzione dei diplomata verte il breve
scambio epistolare testimoniato dalle lettere 120 e 121, a tal punto che anch’esse, come 10.45-46, sono comprese sotto il titolo de diplomatibus nelle edizioni
più antiche (e quasi certamente già nei manoscritti perduti); la parola compare
pure nell’inscriptio di 10.64 (diploma commodasse).
Testi latini e biblioteche tra Parigi e la valle della Loira
257
va soltanto le prime cento lettere). Ma ancora nel Quattrocento, a Saint-Aubin di Angers, un inventario annoverava un codice completo (almeno in origine) di dieci libri, la cui esistenza è stata trascurata dagli studî sulla tradizione dell’epistolario 77 e che non sembra potersi identificare con alcuno dei superstiti. E di nuovo la valle della Loira (ma quasi certamente non Angers) appare come
la scena più verosimile per le attività umanistiche di Pietro Leandro, che proprio a Blois, nell’abbazia di SaintLaumer, dichiarò di aver collazionato un codice di Persio
con scolii attribuiti a Cornuto, citati piuttosto spesso da
Guido sia nelle postille bernensi sia nel commento a Ugo
di Mâcon. Al momento, visto che ancora si attende un’edizione degli scolii a Persio, non sono in grado di stabilire
se gli estratti di Leandro da Cornuto presentino errori
congiuntivi o comunque varianti significative in comune
con le citazioni di Guido; ma niente prova il contrario.
Nel 1500-1501 il segretario di Foscari, di cui possiamo
ricostruire gli spostamenti al seguito del re giorno
per giorno o quasi, dovette risiedere a lungo esclusivamente
in quella città, mentre in altre, al limite con una brevissima deviazione anche a Parigi, poté passare solo fugacemente: non quanto serviva per copiare testi piuttosto estesi. In quale altro luogo meglio che a Blois avrà avuto accesso ad un testo di Plinio a quanto pare acefalo, proprio
come quello di Guido? Che poi in Francia in quei pochi
anni a cavallo fra Quattrocento e Cinquecento gli umanisti
abbiano riscoperto di una stessa opera più di un manoscritto non è così strano, nonostante lo scetticismo di al77
Sono anzi due gli inventarî che ne serbano traccia, e addirittura già
pubblicati, ma solo ora più comodamente accessibili grazie al repertorio di
MUNK OLSEN, L’étude, III, p. 27. Il più antico, del secolo XII, è edito da
DELISLE, Le cabinet, II, pp. 485-487 (ma si veda soprattutto VEZIN, Les
scriptoria, pp. 32-35); l’articolo n° 73 della lista è Epistole Plinii I vol., che trova
preziosa corrispondenza nel secondo documento, del secolo XVII, la «coppie
d’un ancien inventaire», verosimilmente quattrocentesco (cfr. VEZIN, ivi, pp. 3536, con edizione a pp. 215-221): Galpini Secundi epistolarium numero decem
(VEZIN, ivi, p. 219). L’esistenza di questa copia sembra essere stata ignorata da
tutti gli altri studiosi, anche dai più recenti. Si spiega così come anche la notizia
del primo inventario sia stata valutata in modo inadeguato o accostata ad
esemplari di minor valore di cui si ha menzione in altre biblioteche medievali.
L’indicazione del numero dei libri non compare in nessun altro dei rari inventarî
medievali che conservano il ricordo dell’epistolario di Plinio, e sopravvive nel
solo codice laurenziano di cui si è detto sopra. Il medesimo uso di numero prima
di decem è forse segno di parentela, ma non di identità, perché B, fiorentino dal
secolo XV, era stato a Beauvais almeno dal 1200; ma soprattutto il duplice
decem è indizio significativo se non sicuro di una numerazione dell’ultimo libro
come decimo, e non come un’entità staccata quale potrebbe apparire dal post
nonum di Guido.
Ernesto Stagni
258
cuni 78 ; semplicemente, simili codici non erano mai stati
cercati, e bastò un’esplorazione anche cursoria delle biblioteche monastiche o delle cattedrali per recuperare ciò
che era rimasto inaccessibile anche alla generazione di
Poggio. Lo stesso Vecce e la Turcan-Verkerk lo hanno
dimostrato di recente per altri testi, come l’Anthologia
Latina ed Ausonio 79 .
Delle antiche biblioteche di Blois sappiamo ben poco
(è facile comunque intravedere una forte dipendenza da
due capitali della cultura medievale come Tours e Chartres,
il che è provato pure per Angers, e potrebbe valere per la
tradizione di Plinio, anche a voler tacere alcuni indizî controversi); ma forse non è senza significato per lo studio del
nostro eroe che proprio Blois sia patria del Guglielmo autore dell’Alda, la commedia elegiaca della seconda metà
del secolo XII copiata anche nello zibaldone di Boccaccio,
e della quale Guido sembra conoscere con buona approssimazione un dettaglio sfuggito alla tradizione manoscritta
conservata 80 . Guglielmo di Blois, nel prologo, sull’orma
di quelli plautini e terenziani, dichiara di aver tradotto un
78
CIAPPONI, Agli inizi, p. 113. Vecce non sembra neanche porsi il problema: Leandro avrebbe collaborato con Giocondo e per stampare la princeps
incompleta l’editore Tacuino, in concorrenza con Manuzio, avrebbe approfittato di una «fuga di notizie» (così ancora VECCE, Alde, p. 152).
79
80
TURCAN-VERKERK, L’Ausone (ed anche pp. 281-282 per l’Anthologia).
Alle due citazioni del commento note attraverso Könsgen anche al più
recente editore, Ferruccio Bertini (Johannes invece di Guido, lo ripetiamo, sarà
frutto di una banale svista, nonostante la coincidenza con il nome di un canonico di Amiens, cfr. sopra, n. 18) ne va aggiunta una di difficile lettura dalle
postille bernensi (f. 82r: «hic locum videtur habere fliginum et fligo/ unde
profligo. de qu° dicitur infra; capitulo de p./ et illic notavi. de fliginum. quasi
figu-/linum a figulo. qui potest dici a fingendo .id est./ faciendo vel a figendo
quia figit .id est. imprimit/ formam materie. unde con(veni)t (?) quod de figulus
prima invenitur cor-/repta et producta. unde in comedia ulphi [sottolineatura di
Pierre Daniel?] figulus (?) [incerta la s finale, ma così Alda v. 280]/ ille novus|
contra vas figul… (?)/ tobias» [vas figulum nel Tobias di Matteo di Vendôme, v.
671, ed in altre sue opere]). Nel commento (KÖNSGEN, Die Gesta, II, Auszüge
aus dem Kommentar des Guido de Grana, p. 430) si legge invece a 3.25 simile
huic dicitur in comedia que Grece dicitur Antrapiaculo: (Alda, vv. 133-36, ed.
BERTINI, p. 62) basia forma labrorum/ Invitat teneris assimilata rosis/ Que
castigatus tumor erigit arte studentis/ Nature, ut possint oscula plena capi e
6.482 (II, p. 504) nam ut dicitur in comedia Ulfi que vocatur Antrapiaculo:
evenit a sola prosperitate dolor (cfr. Alda, v. 48, ed. BERTINI, p. 54). Non si può
dare troppo peso alla variante basia/oscula al v. 136, dove la ripartizione dei
testimoni e la stessa costituzione del testo restano controverse (non è esclusa
una doppia lezione nell’archetipo). Il titolo comedia Ulphi, invece, sembrerebbe attestato solo nel codice L ed in una sua copia. Della bibliografia sul titolo
greco dell’Alda mi limito a citare il pur discutibile BATE, Ancient, che a p. 10 ha
il merito di citare l’allora recentissima edizione parziale di Guido de Grana (ma
lo ritiene «an Italian sounding name»). Per il resto e su Guglielmo in generale
rinvio all’ottima introduzione di Bertini al volume citato.
Testi latini e biblioteche tra Parigi e la valle della Loira
259
modello greco il cui titolo, probabilmente un derivato di
Androgynos, non sarebbe compatibile con il metro dei suoi
versi. Se questo modello esistesse realmente è assai dubbio, e molto se ne è discusso. Il fatto è che Guido, che non
sa il greco, mostra di conoscere una versione corrotta, si
direbbe, di questo titolo (in Antrapiac(u)lo, cfr. sopra, n.
80) che ricompare assai simile (de antropynaculo) in un
codice descritto ai primi del secolo XV dal catalogo di
Amplonius Ratinck o Ratingen, il famoso bibliofilo tedesco che lasciò all’università di Erfurt una ricchissima collezione acquistata in parte cospicua in Francia (anche se
dei luoghi, ovvero dei mercati librarî che frequentò, oltre
Parigi, quasi tutto ci sfugge; ma non avrei dubbî su
Orléans) 81 . Purtroppo è uno di quegli esemplari amploniani
che dal Quattrocento in poi si sono smarriti: stessa sorte
toccò ai fogli del codicellus Abbonis Cernui che un tempo
appartenevano all’unico manoscritto superstite delle
Bucoliche dell’enigmatico Marco Valerio, testo di origine
quasi certamente medievale citato anche da Guido (ma da
una fonte con lezioni almeno in qualche punto migliori). Il
codicellus si deve identificare con i Bella Parisiacae urbis
di Abbone di Saint-Germain, dei cui primi due libri – immancabilmente noti a Guido – si conserva un unico testimone, mentre abbondano quelli del terzo 82 . Se si dimostrasse che ad Erfurt era giunto un esemplare completo,
come alcuni indizî suggeriscono, sarebbe ancor più urgente studiare in parallelo i due bibliofili, vissuti a più di un
secolo di distanza, ma accomunati da una sorprendente
comunanza di interessi per testi eccezionalmente rari, due
dei quali posseduti da Amplonius addirittura in una stessa
miscellanea.
Per tornare all’Alda, la varietà dei titoli con cui la commedia è citata (cfr. sopra, n. 80) lascia sospettare che a
81
Sul personaggio si veda ora GRAMSCH, Erfurter, ad ind. e soprattutto
pp. 154-57, con bibliografia (in particolare pp. 154-55 n. 223 per un rinvio
aggiornato sulla biblioteca). Per il codice dell’Alda ed il suo titolo, che nel
catalogo amploniano (LEHMANN, Mittelalterliche, II, p. 14, n° 29) compare
glossato nella forma Item Musa Blesensis egregia de antropynaculo, id est de
mascula virgine, si veda la nota di BERTINI, Alda, al v. 48, p. 55: si aggiunga
che ne resta traccia nell’inscriptio di B: de mascula virgine. Incipit prologus,
cfr. p. 36.
82
È tentazione irresistibile ma pur sempre avventata supporre che Guido
possa aver visto solo a Parigi questo rarissimo documento della storia cittadina: è stata proposta anche Fleury come tramite per la fortuna inglese del terzo
libro (ma anche i primi due rientravano con ogni probabilità nei Descidia
Parisiacae polis donati da Aethelwold a Peterborough).
Ernesto Stagni
260
Guido fosse abbastanza familiare, ma più ancora importa
che debba aver attinto quell’Antrapiaculo ad una fonte assai vicina all’originale; non necessariamente a Blois, come
non soltanto a Blois visse Guglielmo. Ma i due potrebbero
avere in comune la conoscenza di un’altra primizia, il
Satyricon di Petronio: uno addirittura con porzioni per noi
perdute (due frammenti stampati da tutti gli editori provengono dal Bernense), Guido; con una probabile imitazione l’altro, l’autore dell’Alda 83 , il cui più celebre e non
meno itinerante fratello Pietro, a sua volta, potrebbe alludere ad uno degli episodî più scabrosi del romanzo 84 . Può
darsi che una residenza di Guido nella valle della Loira,
forse la principale, sia stata proprio Blois? Molto, lo ripetiamo, dipenderà dallo studio delle citazioni dallo scoliasta
di Persio, con tutto ciò che se ne potrebbe dedurre anche
per le lettere di Plinio il giovane. Quanto all’Alda, però,
sarà lecito ed anzi opportuno interrogarsi fin d’ora sugli
ambienti e sui canali attraverso i quali si diffuse il ramo
della tradizione da cui dipende Boccaccio.
Intanto mi pare quanto mai istruttivo seguire un altro
sottile filo che potrebbe collegare lo scrittore di Certaldo,
sia pure per vie indirette e tortuose, con l’origine medievale della rielaborazione di un mito dell’antichità:
rielaborazione che nel Trecento dovette essere accettata
senza discussione, probabilmente sulla base della dubbia
ma conosciutissima autorità degli scolii ad Ovidio. È solo
una curiosa coincidenza che il nome del protagonista del
mito, Androgeo, richiami uno dei titoli più rari della «biblioteca» di Guido, quello di cui abbiamo appena trattato. Assai meno casuale è invece che soltanto Guido, senza nominarne l’autore, citi un’opera perduta, o quanto
meno non ancora identificata, che si intitolava per l’appunto Androgeus, prodotto forse della stessa cultura e
dello stesso humus letterario che alimentarono l’Alda: i
83
Si veda DI SIMONE, Le didascalie, soprattutto p. 950, citata insieme ad
altra bibliografia sulla fortuna medievale di Petronio in MAZZONI PERUZZI, Medioevo, specialmente pp. 45-50 e 90-94. Alle testimonianze che ho raccolto e
discusso provvisoriamente nella tesi di perfezionamento si aggiunga ora per
l’evidentissima origine petroniana (Satyricon, 1.3) di mellitos verborum globulos
(non da un florilegio ma dagli excerpta longa o brevia) un anonimo trattato De
patientia recentemente edito in POIREL, La patience, p. 86, ll. 39-40 (pp. 78-79
per Petronio, ma si potrebbero citare altri due codici conservati anteriori al
secolo XIII).
84
Si veda PETRUS BLESENSIS, Carmina, V.4.1b, v. 5, pp. 608-609.
Testi latini e biblioteche tra Parigi e la valle della Loira
261
frammenti che ce ne offre Guido sono troppo brevi per
consentire qualsiasi speculazione sul contenuto, ma quel
nome, quell’inscriptio, potrebbe avere a che fare con la
fortuna medievale del mito, consacrata dalla funzione
esemplare che gli conferisce la Poetria nova di Goffredo
di Vinsauf 85 ed echeggiata, fra le tante attestazioni
trecentesche (chiose a Dante incluse), da Boccaccio e
Chaucer.
Difficile è stabilire partenze e arrivi di certe influenze: dovremo chiederci se una «tragedia» o commedia
elegiaca Androgeus, liberamente basata su passi del commento di Servio all’Eneide e sui cenni di Ovidio (Metamorfosi ed Eroidi), ispirò non più tardi della metà del
secolo XII una fioritura di fantasiosi scolî alle due opere
ovidiane, e poi suggerì a Goffredo una trama che servisse
da canovaccio per le molteplici combinazioni dell’ordo
della narrazione. Oppure fu Goffredo a costruire tale trama, i cui presupposti, ossia proprio l’antefatto relativo ad
Androgeo, erano contenuti in nuce già negli scolî? E sulla base del modello proposto dalla sua poetica qualcuno,
in pieno secolo XIII, si cimentò sul mito, senza lasciare
particolare traccia nella storia della letteratura, mentre i
grandi del Trecento avrebbero continuato ad abbeverarsi
alle parche fonti scoliastiche? Ma prima ancora, che cosa
dobbiamo pensare del più antico sfruttamento che io conosca (in Marbodo di Rennes, intorno al 1100) del mito
di Androgeo come esempio degli effetti funesti del livor?
Quale versione presupponeva? Quella classica, che imputava il suo assassinio all’invidia per un successo sportivo, o già quella moderna degli scolî, che in Androgeo
ad Atene vedeva non un atleta, ma un giovane giunto lì
per studio ed ucciso dai compagni? E ancora, si può istituire un rapporto, e quale, fra quest’anacronistica alterazione del motivo del soggiorno ateniese del figlio di
Minosse e il mito schiettamente medievale della translatio
studii, per cui i centri del sapere furono prima Atene, poi
Roma e infine la Francia, ma soprattutto Parigi?
KÖNSGEN aveva segnalato il titolo con la meritata attenzione, e col significativo rimando a Goffredo, nell’in85
Che il mito di Minosse, Androgeo e Scilla potesse essere visto già prima
come un soggetto esemplare per le scuole «as a type of poetic invention» sostiene NIMS, Poetria, p. 100, alla luce del commento di Bernardo Silvestre a
Letum Androgei in Eneide VI.20. Cfr. anche sotto, n. 102.
Ernesto Stagni
262
dice delle opere citate dal commento ad Ugo di Mâcon
(Die Gesta, II, p. 564; e cfr. I, pp. 60-61, nota 12), avendovi rintracciato una glossa al v. 14 del prologo al libro 8
(II, pp. 528-29) dove si menzionano le Muse come
Pyerides: In principio Androgei ‘Pieridum Pieri pulsa de
prole triumphans/ leta cohors’. Per la quantità sillabica
all’inizio di Pieri non si trova alcun appiglio nelle pochissime attestazioni classiche, per lo meno a giudicare
dalle edizioni critiche, e il confronto duecentesco con
Giovanni di Garlandia, Compendium Gramatice, v. 4.393,
è reso meno stringente dalle irregolarità di scansione che si
accompagnano all’incerta costituzione del testo 86 ; comunque sia, un simile tour de force, fra allitterazione e
compiacimento per le variazioni prosodiche87 , sembra già
86
IOHANNES DE GARLANDIA, Compendium, p. 237, v. 393 Dissona vox nona quasi Pierisque inimica, con variante …nona pueris quasi est inimica. Ammesso in ogni caso l’allungamento delle sillabe di quasi (altrimenti iato con est
nella seconda versione? Oppure Pieris è grafia errata per Pieriis e conserva la
prima i lunga, con quasi regolarmente pirrichio?), si può forse pensare sia per
Giovanni sia per l’Androgeus a Pieri(s) spondeo bisillabo per un tipo alquanto
particolare di sinizesi. Un precedente illustre, e proprio in sede incipitaria, sarebbe il celebre Laviniaque nell’Eneide (dopo l’allungamento dell’iniziale di
Italiam), ma con più normale e ben diversa consonantizzazione della i breve.
O semplicemente si sarà applicata con comprensibile disinvoltura in un
grecismo (cfr. la nota successiva) la regola della correptio per la vocalis ante
vocalem, pur mostrando l’Androgeus coscienza della quantità originaria?
87
Analoghe oscillazioni breve/lunga in commedia elegiaca e generi affini
sono trattate magistralmente da MUNARI, Bucoliche, pp. LXVI-LXVII, con i dovuti rimandi per i precedenti classici e postclassici: primo fra tutti per la radice
liqu-, con i di quantità variabile (una volta nello stesso verso), Lucrezio, quasi
sconosciuto prima dell’Umanesimo, seguito, e non casualmente secondo Munari,
da Matteo di Vendôme (che arriva a scrivere Iam dictos ĕlĕgos dictans Ēlēgia
flevit in Piramus et Tisbe, v. 171, cfr. MATHEUS VINDOCINENSIS, Opera, p. 55
con apparato: ma a differenza dell’editore dubito che la fonte sia una corruttela
nell’altrettanto ignorata epistola XV delle Heroides, v. 7, corruttela che sembra
nascere soltanto in codici umanistici); appena meno raro ma copiato e letto nella
valle della Loira, come anche da Guido, sarebbe stato Properzio II.3, 43-44 sive
illam Hesperiis, sive illam ostendet Ĕois/ uret et Ēoos, uret et Hesperios, significativamente per un grecismo (ossia su un terreno che la prosodia medievale affrontava spesso con molta libertà, come dimostra proprio elegos/elegia in Matteo). Per il gusto delle paronomasie e dell’accostamento fra omografi con diversa
prosodia in commedie elegiache e tragedie dello stesso ambiente, cfr. MUNARI,
ivi (con n. 62 per un’opportuna distinzione) e GUALANDRI-ORLANDI, Lidia, introduzione alla commedia di Arnolfo di Orléans, p. 188 con l’esempio di Lidia,
v. 547 (IVI, p. 254: Dux ait: Aut furor est aut hic me lumine furor; cfr. ancora v.
35, IVI, p. 208 con nota a p. 263: …femina: fit virus ut necet illa virum). Fra questi fenomeni infatti potrebbe rientrare anche il nostro passo: non di rado (cfr. anche sotto, n. 90) si distingueva fra le Pieridi in quanto «vere Muse» e le figlie di
Piero concorrenti indegne, come nel contesto del passo di Giovanni di Garlandia
citato alla nota precedente, forse ispirato (e sarebbe una conferma per il testo edito, apparentemente ametrico) da un’allegoria di Arnolfo di Orléans alle Metamorfosi, ed. GHISALBERTI, Arnolfo, p. 215 Vel per novem Musas novem habemus consonancias cum quibus novem Pierides i. novem dissonancie ut ita dicam
disputaverunt…; un simile espediente prosodico poteva essere causato o almeno
giustificato da una voluta insistenza sul contrasto, enfatizzato dall’accostamento
diretto, quasi di due radici distinte.
Testi latini e biblioteche tra Parigi e la valle della Loira
263
alludere al tema della competizione e dell’invidia che
furono causa della rovina delle figlie di Piero di Pella e
che d’altronde domina il trattamento medievale del mito
di Androgeo. Non c’è alcuna ragione per datare il componimento all’antichità, sia pure tarda, ma è evidente, dal
gusto lambiccato e dalla funzione incipitaria di questa che
sembra essere un’invocazione alle Muse, una fortissima
ispirazione classica, quale possiamo rinvenire a Chartres
o nella valle della Loira del secolo XII, soprattutto per
l’appunto nelle commedie elegiache. Ancor più criptico
ma di spirito del tutto analogo suona l’esametro citato
nel Bernense al f. 62r: «divinum. incorruptibile quia
perpetuum gloria/ vel fama. unde in andr°geo ‘divinus
platon anima sublimior omni’»: una manifestazione di
entusiasmo per lo studio della filosofia che ben si adatterebbe al viaggio di istruzione di Androgeo ad Atene 88 .
Una seconda citazione nelle postille bernensi, al f. 224r:
«sollemnes... unde in secundo in-/fortiati (?) .lege. cum
plures tutelam sollemnia munera/ vel solita et (?) tunc
(?) dicitur a solet et potest scribi per unum .l. secundum
huguti°nem et in h°c significato pluries/ sumitur a platone
et in legibus cum dicitur instrumentum solemne quod habet
formam solitam. quae variatur secundum/ diversas curias
(??). secundum h°c prima corripitur in andr°geo. unde et
Iohannes/ scotus ait. Quid tibi baptismus quid sancta
solemnia misse.» conferma che l’Androgeus dava sfogo
ad usi prosodici quanto meno insoliti, di quelli dibattuti
nelle scuole 89 .
Quanto agli autori che ho nominato poc’anzi, mi limiterò a trascrivere per esteso i passi più pertinenti, senza
alcuna pretesa di individuare filiazioni e vere e proprie fonti,
e così a maggior ragione mi comporterò prima ancora per
gli scolî (concentrati in almeno tre punti delle opere di
Ovidio), scegliendo fra i più antichi in un campione di una
88
L’epiteto divinus per Platone è già ciceroniano. Ma si veda anche, in
chiave satirica, Vitale di Blois, Aulularia, 166: Qui docuit superos, Plato beatus
erat, e, dello stesso autore, la figura di Anfitrione studente ad Atene nel Geta,
su cui mi intrattengo alla fine di questi paragrafi sull’Androgeus. Notevole anche il nominativo alla greca, raro nel latino sia classico che medievale.
89
O forse, più semplicemente, a licenze (o a meri errori di versificazione:
ma appare interpretazione troppo sbrigativa per un autore che non poteva non
avere qualche movente per accostare platealmente Pieridum Pieri in un
emistichio incipitario, e che difficilmente avrà ignorato la grafia sollemnis con
o in sillaba lunga: salvo magari invocare implicitamente una giustificazione
come quella addotta da Guido).
Ernesto Stagni
264
ventina di codici dei secoli XII-XIV, ma avvertendo che la
deformazione del mito si riscontra anche nella recensione
cosiddetta «vulgata» diffusa a partire dal secolo XIII, la più
facilmente consultabile anche per un Boccaccio o per un
Chaucer 90 . Ma in primo luogo è opportuno citare il brano di
Marbodo (De ornamentis verborum) 91 :
17 gradatio: «Hic quamcunque videt cupit, et
quamcunque cupivit/ Allicit. Allectam vitiat, prodit
vitiatam./ Ni virtus laudem, laus invidiam peperisset/
Androgeus sospes ad Gnossia regna redisset./ Sed virtus
laudem, laus invidiam generauit;/ Invidiae telis pars hunc
superata necavit».
La nozione di virtus e laus si può applicare con ideale
classico alla gloria sportiva, o si deve ritenere consona soltanto a meriti di studio? Il testo non impone di aderire alla
seconda ipotesi, quanto meno perché non sappiamo su quali
testi (Servio?) e con quale sensibilità il poeta poteva essersi fatto un’idea del mito. E che cosa avrebbe significato
tale mito per un pubblico che poteva averne una conoscenza ancor più vaga? 92
90
Una simile constatazione, però, non elimina la necessità di studî più
approfonditi e generali sul tipo di manoscritti ovidiani che usarono, ben al di là
di una bibliografia ad oggi ampiamente perfettibile; soprattutto si dovrà sempre tener conto degli incroci di influenze che poterono interagire da altre direzioni con gli scolî, com’è inevitabile, nel caso del mito di Androgeo, per due
attenti lettori della Poetria nova (soprattutto in Chaucer; non ho potuto consultare la tesi di M.C. Edwards citata da COOPER, Chaucer, p. 264, note 7 – proprio
per il personaggio che ci interessa – e 14; inoltre COOPER, ivi, p. 81 con 264-65,
n. 15 per un altro significativo accostamento – cfr. sopra, note 86-87 – fra le
Muse-Pieridi e le figlie di Piero). Per un’indicazione di glosse ovidiane pertinenti, ossia con la versione deformata, si veda già USSANI JR., Alcune, pp. 302303, n. 5. Per il momento ho rinunciato ad indagare fra commenti e glosse alle
Ecloghe e all’Eneide di Virgilio, dove già Servio (rispettivamente a VI.74 e a
VI.14 e 20) si occupa di Androgeo, ancora presentato come atleta. Da Servio
inoltre dipende per intero il più antico scolio all’Achilleide (v. 192) di Stazio, in
una raccolta di età carolingia se non posteriore che circolò in alcuni manoscritti
insieme alla Tebaide commentata da Lattanzio Placido; anche nel caso
dell’Achilleide, che divenne fortunato testo scolastico, ho rinunciato a dedicarmi agli scolî dal secolo XII in poi. Naturalmente commenti autorevoli, diffusissimi (almeno quello di Servio) non solo in forma continua ma anche nei margini di opere a loro volta popolarissime e con una versione del mito non ancora
alterata, erano destinati a resistere più facilmente agli attacchi degli interpolatori,
ma non si può escludere a priori, senza una ricerca fatalmente lunga e complessa, anche se probabilmente inutile, che qualche glossa a Virgilio o a Stazio
abbia accolto o addirittura inventato l’esegesi che incontriamo nei codici di
Ovidio.
91
92
Si veda MARBODO, De ornamentis, pp. 14-15, con note a pp. 79-80.
Ambigua intorno al 1100 poteva risultare anche l’informazione della più
antica cronaca universale propriamente detta del Medioevo, quella di Frutolfo
erroneamente attribuita ad Ekkehardo di Aura (se ne attende una nuova edizio-
Testi latini e biblioteche tra Parigi e la valle della Loira
265
Bisogna arrivare alla seconda metà del secolo XII,
come anticipavo, per trovare la modernizzazione della
vicenda attestata nelle più antiche glosse in margine alle
Metamorfosi e alle Eroidi (si consideri che le antiche
Narrationes di Lattanzio Placido non si occupano in alcun modo di Androgeo; ma non possiamo neanche garantire che almeno qualche sporadico commento marginale non si sia sviluppato ben prima della cosiddetta aetas
Ovidiana, ovvero della fine del secolo XI – il tempo di
Marbodo – tanto più che di manoscritti più antichi conosciamo solo frammenti):
Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, plut. 36.12 (secolo XII) f. 41v ad Ovid. Met. 7.458: «Minos miserat
filium suum Androgeum Athenas causa discendi. Dum
ibi superaret alios socios ob invidiam ab eis interfectus
est. unde facit exercitum et iubet (?) tendere ibi ut vindicet
mortem filii».
È la versione minima, «di base», del mito 93 : primitiva
o solo semplificata?
Monaco, Staatsbibliothek, clm 19475 (secolo XII3/4), f.
27va, all’inizio di Her. 10: «ADRIAGNE THESEO Minos
ne per gli Scriptores di MGH, e intanto si deve ricorrere alla vecchia e scadente
di Waitz in MGH SS VI, p. 43, ll. 29-30): Minos Cretensibus leges dedit, cuius
filius Androgeus ab Atheniensibus dolo interfectus est, cum ludos agentes
superaret. Per l’ultima proposizione non possono essere fonti gli autori indicati
in margine da Waitz, Isidoro e Orosio. La notizia potrebbe derivare da Servio,
ma quel che più conta è che ludi rischiava di essere interpretato come «scuole».
93
Si ritrova, con la variante sui doctores invece che sui socii come omicidi, anzi come mandanti, in Oxford, Balliol Coll. 143 (secolo XIV), f. 28v: dicitur
quod Androgeus filius regis Minois ivit Athenas ad studiendum [sic?]. Qui
Androgeus erat adeo elevatissimi ingenii quod in brevi factus est
sufficientissimus unde doctores invidentes sibi ex sua scientia et ingenio
ordinaverunt t(ota)l(it)er [sarà taliter] quod ipsum fecerunt interfici... e
nell’Ovide moralisé, libro VII, vv. 2246-2265: Un fil ot [Minosse] sage et bien
apris./ Ja par moy n’ert ces nons celez,/ Androgeüz fu apelez./ Li rois pour
philosophier,/ Pour aprendre et estudier,/ L’ot en Athienes envoié./ Bien ot cil
son temps emploié,/ Ne l’ot pas en vain despendu./ Tant ot à l’estude entendu,/
Que plus en sot que cilx ne sorent/ Qui plus de lui oï en orent./ Sor touz les
autres aprenoit,/ Et ceulz d’Athenes reprenoit/ Les plus maistres de la science,/
Et confondoit lor sapience./ Envie et desdaing en avoient/ Athenien qui
mains savoient,/ Si l’occistrent par traïson (traggo i due brani da MEECH,
Chaucer, pp. 186-87 con n. 28, ma per il secondo sostituisco alla lezione di
Parigi, Bibliothèque Nationale de France, fr. 373, f. 159rv, il testo critico apparso nello stesso anno di DE BOER- DE BOER- VAN’T SANT, Ovide, III, p. 68:
DEMATS, Fabula, p. 67, confronta tutto quest’ultimo passo con lo scolio di un
altro manoscritto parigino). Ma su questa variante si veda anche sotto per il
compendio mitologico di Oxford, indubbiamente assai più antico, e per la recensione vulgata degli scolî, alla quale appartiene anche il codice citato da
Paule Demats.
Ernesto Stagni
266
pater Ad<r>iagnes filium suum Androgeum Athenas
miserat philosophandum, quem Athenienses c<um>
capacis ingenii videretur de summa turre [lapsum
m(en)cientes] praecipitaverit [sic, per praecipitaverunt?].
Quo cogn<i>to Minos contra Athenienses bellum
movit...» 94 .
Notevole qui la specificazione sulla natura filosofica
degli studî di Androgeo e sul modo dell’uccisione 95 (anche se vi è oscillazione fra i codici proprio sul particolare
della caduta simulata, come negli scolî monacensi). Solo
come variante per la tecnica del crimine (accanto alla torre
con vel, mai al suo posto) trovo accolto nel mio limitato
campione il ricorso all’arma naturale di uno studente, lo
stilus (un tocco di inventiva davvero brillante, probabile
frutto di rimaneggiamento: poté ispirarla Goffredo di
Vinsauf o vale, come credo, il viceversa, per quel che ve94
Ricavo il testo da HEXTER, Ovid, p. 269 (con apparato a p. 271; seguo
anche le convenzioni grafiche, pp. 229-233, in particolare parentesi quadre e
graffe si riferiscono rispettivamente ad espunzioni ed emendazioni o integrazioni
del correttore T2, nel nostro caso contro Adnagnes, ca – forse per causa – e cognato di T1). Traggo la restituzione praecipitaverunt di Löfstedt, insieme ad
importanti considerazioni – anche per echi verbali di versi di Ovidio, Met. VIII –
da GÄRTNER, Zur Rekonstruktion, p. 183, che congettura ad dopo miserat sulla base del parallelo con uno scolio ad Ovidio, Remedia amoris, 67-68, di analogo contenuto e tanto più interessante in quanto ugualmente antico (dovrebbe
risalire a Folco, famoso maestro di Orléans; cfr. anche HEXTER, Ovid, p. 79,
COULSON-ROY, Incipitarium, p. 103, n° 337 e l’edizione di ROY-SHOONER, Arnulfi, p. 179): Minos Androgeum filium suum Athenas misit ad discendum, quem
socii propter invidiam praecipitaverunt eum (sic) de turre. Tra l’altro, se ne ricava la conferma che esisteva una versione originaria o comunque fra le prime, che
non prevedeva l’aggiunta sulla caduta simulata (si veda anche sotto, n. 99): T2
l’avrà letta in una fonte che mostra anche altrove di usare, e non creata. Simile
nella prima metà del Duecento Tours, Bibliothèque municipale, 881, f. 25v
(sempre all’inizio di Her. 10): Minor (sic, pare) rex Androcheum filium suum
misit Athenas ubi tunc vigebat studium. Eum (??) Athenienses invidentes eum a
quadam turre praecipitaverunt…
95
Simile Parigi, Bibliothèque Nationale de France, lat. 5137 (secolo XIII
in.), ad Ovid. Her. 2.12 (testo desunto da ROSA, Su alcuni, p. 218): VELA
PROCELLOSIS: Androgeus fuit filius Minois regis Crete, qui cum causa
philosophandi ivisset Athenas, ei Athenienses invidentes, quod multum in
philosophia proficiebat interfecerunt fingentes eum de turre Palladis lapsum
esse. Hoc ubi cognovit Minos collecto magno exercitu Athenas obsedit... L’identificazione molto medievale dell’Acropoli con una torre di Pallade si ritrova
altrove in margine allo stesso passo (sia pure con diverso testo per il lemma,
come ho verificato): Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb.
lat. 26 (secolo XIII in.), ad Her. 2.12 ALBA PROCELLOSOS: Adrogeus (sic) fuit filius Minois regis Crete, qui cum causa philosophandi Athenas veniret, Athenienses eius sotii videntes quod mire capacitatis esset ad philosophandum,
interfecerunt eum, fingentes de arce Palladis esse lapsum. Hoc audito Minos
cum magno exercitu Athenas properavit etc. (più stringato il cenno a Her. 10.99,
VIVERET ANDROGEUS: Androgeus fuit filius Minois qui ab Atheniensibus interfectus est. Qua de causa haec omnia devenerunt). Rinvio a ROSA, Su alcuni, per la
stretta parentela fra i due esemplari; si veda p. 220 per la deformazione del mito
rispetto alle fonti e per Atene come prefigurazione di Parigi.
Testi latini e biblioteche tra Parigi e la valle della Loira
267
dremo sotto?) 96 . Segno dell’incontro di versioni concorrenti sviluppatesi già prima del 1200 o subito dopo? Rispetto all’attestazione probabilmente più antica di cui
dispongo, a mio avviso ancora del secolo XII, ma di difficile
lettura 97 , preferisco addurne una che ha qualche riscontro in
glosse duecentesche, con l’aggiunta di una terza variante (forse il draco nel deserto è interferenza da altri miti
greci? 98 O semplice immaginazione medievale?):
Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, S. Marco 238,
ff. 63v-64r ad Ovid. Met. 7.458: «Minos filium suum
Androgeum philosophandi (?) misit Athenas qui cum in
studio omnes coetaneos suos praecelleret, invidetur ei
vehementer. Quadam die mentientes (??) lapsum de arce
Palladis eum praecipitaverunt vel cum stilis interimerunt
(??), vel cum cognoscerent illum reverti ostenderunt ei
viam que ducit per desertum ubi noverunt credelem (sic)
habitare draconem a quo dum iret devoratus est. Hac de
causa Minos parabat bella et circuierat insulas et civitates
sibi acquirendo auxilium» 99 .
96
Unica, tarda eccezione è un passo di Benzo d’Alessandria dove si afferma senza indugio che Androgeo fu vittima degli stili e non della caduta dalla
torre: PETOLETTI, Il Chronicon, p. 169, libro XXIV, cap. IX, 1.9 De Minoe
Cretensium rege et Minotauro et Dedalo fabro… l.9 Hic Phasiphen, Solis filiam,
duxit uxorem, de qua genuit Androgeum, Fedram et Adrianam. Misit autem
Androgeum filium Athenas causa discendi; quem pueri Athenienses stilis
interfecerunt, quia eos in palestra superabat...
97
Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Strozz. 121, f. 58r ad Ovid.
Met. 7.458: Androgeus filius Minois cum Athenas ad studendum perrexisset
valde profecit… [sarà da restituire ita o qualcosa di simile], quod omnes
Athenienses superavit (?) et (??) socii (?) sui ducti invidia eum stilis suis
occiderunt vel de turre praecipitaverunt eum. Le stesse due varianti, ma addirittura «sommate» e non in alternativa, si ritrovano in una glossa particolarmente interessante perché rende esplicito l’accostamento fra Atene e Parigi che
è alla radice del mito della translatio studii ed al quale accennavo sopra nel
testo: Oxford, Bodleian Library, Canon. Class. lat. 72 (secolo XIII), f. 40rv ad
Ovid. Met. 7.456: BELLA PARAT MINOS hic innuit auctor quod Minos quondam
[sarà quodam] tempore misit filium suum Androtheum Athenas causa
philosophandi quia ibi erat studium sicut modo viget Parisius. Qui Androgeus
cum subtilis esset Atenienses invidentes ei eum a turre precipitaverunt et stilis
suis subfocaverunt cuius mortem volens vindicare Minos collegit exercitum suum
contra Athenienses... (desumo il testo da MEECH, Chaucer, p. 186, n. 28). Per
entrambe le versioni potrebbe aver offerto spunto ad una fertile fantasia l’ultimo verso di Marbodo citato sopra, con invidiae telis (ma fra le nozioni di telum
e stilus corre una certa differenza) e, in modo ancor meno persuasivo, con la
variante super alta attestata in luogo di superata da un gruppo di codici, almeno due dei quali anteriori al 1200.
98
Una delle versioni del mito faceva soccombere Androgeo nella lotta con
il toro di Maratona. L’unico testo latino che la tramanda è Servio ad Aen. VI.20,
ma non nella redazione corrente bensì nei rarissimi scolî danielini, conservati
fra l’altro in manoscritti dell’area della Loira.
99
Più o meno coeva (ca. 1200) e chiaramente imparentata, ma con sintassi
precaria e con la consueta discrepanza sulla simulazione della caduta (cfr. sopra, n. 94), qui taciuta, Firenze Biblioteca Medicea Laurenziana, plut. 36.10, f.
268
Ernesto Stagni
La recensione cosiddetta vulgata degli scolî alle Metamorfosi (originaria di Orléans) si attiene ad una sola versione, quella sulla torre, con questo probabilmente riflettendo materiale molto più antico, come conferma il confronto con un compendio mitologico della seconda metà
del secolo XII che trascrivo subito dopo:
Firenze, Biblioteca Riccardiana, 624, f. 46r (Francia, fine
secolo XIII) 100 : «Minos rex Cretensis magistris
Atheniensibus Androgeum filium tradidit erudiendum
qui in brevi non solum discipulos sed etiam ipsos
magistros arte et sapientia superavit. Ita quod non
discipulorum sed etiam magistrorum maximus dicebatur.
Ita ei invidentes de summa turri praecipitaverunt. Quo
audito Minos Eacum regem rogavit ut ei auxiliaretur
contra Athenienses quod ei Eacus denegavit. Minos (?)
vero (?) exercitu Cretensi collecto Athenas obsedit et
obsessas auxilio suorum debellavit».
All’inizio del l. 8, f. 52r: «Interea Minos dolens quod
Athenienses praecipitaverant de turri Androgeum filium
suum illos volebat expugnare. Sed quia Nisus eis favebat,
illum penitus devastavit...».
Oxford, Bodleian Library, Digby 221 (secolo XII2), n°
CXIV 101 : «Minos rex Cretensis Androgeum filium suum
Atheniensibus magistris tradidit erudiendum. Qui in
brevi non solum condiscipulos suos sed etiam sapientia
et arte suos superavit magistros ita quod non iam
54v ad Ovid. Met. 7.458: Mynos filium Androgeum causa legendi Athenas
miserat. Qui cum in studio omnes suos coetaneos praecelleret ei vehementer
inviderent [sic] quadam die de arce Paladis precipitaverunt vel secundum
quo<s>dam cum stilis fer<r>eis interfecerunt vel cum cognovis<s>ent eum
filium regis cum domum reverti voluis<s>et [sic] ostenderunt ei viam quae in
desertum ducit ubi noverant crudelem habitare draconem. Ad quod (?) dum
iret devoratus est; hac de causa Mynos parabat bella et circumit urbes et insulas
sibi aquirendo eas et petendo quod eum adiuvarent.
100
Molto simile il commento al Minosse dantesco in GUIDO DA PISA,
Expositiones, p. 99, con l’importante specificazione de summa turri arcis
Minerve e l’incongrua ma significativa attribuzione del contenuto dello scolio
allo stesso Ovidio (Septimo enim libro ponit ipse Ovidius quod Minos…). Cfr.
anche Pietro Alighieri (ALIGHIERI, Il commentarium, pp. 212-213 e ALIGHIERI,
Comentum, p. 172), BENVENUTO, Comentum, I, p. 384, ecc.
101
BROWN, An edition, pp. 42-43. Vale la pena di ricordare che questo
trascurato compendio mitologico, di probabile origine o derivazione chartriana,
presenta importanti affinità con l’enigmatico Teodonzio noto non solo a
Boccaccio (per il tramite di Paolo da Perugia) ma già al più antico commento
ovidiano medievale che conserviamo , databile a decenni intorno al 1100, in
Monaco, Staatsbibliothek, clm 4610 (purtroppo non ho ancora potuto studiarlo,
comunque da MEISER, Ueber einen Commentar, non risultano, a giudicare dal
cospetto a p. 58, lezioni o lemmi relativi al v. 7.458 che nomina Androgeo,
anche se andrebbe analizzato tutto il brano su Minosse e Scilla per eventuali
esegesi sul mito nel suo complesso): si veda PADE, The fragments, pp. 154 con
note 35-37 e 159 con n. 79.
Testi latini e biblioteche tra Parigi e la valle della Loira
269
discipulus sed magistrorum dicebatur maximus. Facta
igitur conspiratione, ceteri invidentes furtim et noctu
eum circumvenientes de summa turri praecipitando
interfecerunt. Quo audito Minos Aecum (sic) fratrem
suum filium Iovis et Aeginae auxilium petiit; qui Aeacus
tres filios generavit Telamonem, Peleum et Phocum. Sed
Aeacus Minoi auxilium contra Athenien/ses denegavit.
Unde Minos utilius credens minari quam bellum gerere
et quam vires ibi praesumere, exercitu Cretensi collecto,
Atheniensem civitatem obsedit; obsessam debellavit…».
Nel confronto con gli scolî, Goffredo di Vinsauf sembra soprattutto rispettare la versione di base, nel suo insistere sull’invidia, in modo generico come Marbodo 102 , con
il quale mostra assonanze verbali non so quanto significative (ad esempio per l’insistenza sulla laus, qui però già
espressamente ricondotta a meriti di studio e non atletici):
Goffredo di Vinsauf, Documentum de modo et arte
dictandi et versificandi, versione breve, ed. FARAL 103 : I.2,
p. 265: «Sumamus in exemplum materiam de Minoe, ut
ibi liquescat principium naturale. Res ficta talis est. Rex
Cretensis Minos filium suum Androgeum, quem habebat
unicum, Atheniensi studio transmissum livore doluit
interfectum» 104 .
102
TILLIETTE, Des mots, p. 82, non analizza i rapporti con la scoliografia
ovidiana e non sa spiegarsi i motivi della scelta del mito di Androgeo per illustrare gli ordines (naturalis ed artificialis) nella Poetria nova; ma fra i più
plausibili troverebbe proprio un omaggio a Marbodo, o altrimenti uno spunto
virgiliano per la rappresentazione scultorea del letum che apre in funzione altamente simbolica il viaggio di Enea agli Inferi (cfr. sopra, n. 85).
103
FARAL, Les arts. L’attribuzione è stata messa in dubbio; per le diverse
opinioni cfr. CAMARGO, Tria, pp. 947 con n. 28 e 948. Cfr. IVI, p. 946, per l’influsso di Marbodo su Goffredo nella Poetria nova, e l’intero articolo per la
questione del rapporto con la cosiddetta versione lunga del Documentum.
104
Vale la pena di trascrivere anche il seguito (pp. 265-66), con la storia di
Scilla che occupa gran parte della trama costruita da Goffredo e della quale il
mito di Androgeo è solo l’antefatto. Si osservi un’insistita allitterazione di gusto assai simile a quella del prologo dell’Androgeus (ma anche dell’Alda, fenomeno «ossessivo» e «onnipresente» secondo BERTINI, Alda, pp. 32 – dove osserva che l’abbondanza di figure retoriche risponde a quanto «prescritto dalle
Artes poeticae del tempo» – e 34-35, con esempî): In cuius ultionem pater ira
pariter et armis excanduit, Nisumque, regem Atheniensium, tanquam illius
facinoris auctorem, in manu valida pertinaciter aggressus est. Ceterum autem,
cum tota vis Nisi de crine purpureo penderet, potiore potitus consilio, potius
artem quam arma consuluit et dolus, non gladius bellum consummavit. Silla
(sic) namque patri (solo nomine filia) crinem occulte, regnum aperte surripuit...
Minos enim, voti compos et triumphator, Scillam venientem tamquam venenum
effugit. Quam super infortunio suo lacrimis inundantem, etiam cum patre suo,
clementia respexit Superum et, utriusque transfiguratis corporibus, in alaudam
conversus est vultus virgineus et praeter nomen sua perdidit omnia Nisus. Così
sotto, p. 267: 1.1.9 A fine sumitur principium in eadem materia cum inde sumitur, ubi Minos Sillam repulit, quia patrem seduxit. Exemplum prosaicum: ‘Scilla
Minois sauciata pulchritudine, regnum patris fraudulenter in ipsius convertit
270
Ernesto Stagni
IVI I.3, p. 266: «In hac materia principium naturale sumitur, quando praedicto modo sumitur, scilicet a Minoe, qui
filium suum misit Athenas, ubi ex invidia interfectus
est...»; I.8, p. 266: «A medio sumitur artificiale principium in praemissa materia quando sumitur ab Androgeo,
quem interfecit invidia. Prosaicum exemplum sit istud:
‘Androgeum, liberalibus innutritum artibus, illiberale
consortium veneno respersum invidiae stylorum invasit
aculeis, et, cum in ipso scientiae praeeminentiam
obstupuit, vitae spiraculum obstruxit’. Metricum
exemplum: Androgei titulus et amicus et hostis eidem./
In praeceps corpus, nomen in astra tulit» 105 .
IVI I.12, p. 267 «Si iuxta medium, sic sumitur prosaicum
exemplum: ‘Ad laetos aliorum successus suspirat invidia,
cuius malitia in illum machinatur potius quam miratur
potiorem’. Metricum exemplum: ‘Hi sunt invidiae mores:
ad gaudia luget/ Et contra fata dulcia virus habet…» 106 .
Poetria nova 155-57, ed. FARAL, p. 202: «Ut videant testes oculi quae diximus auri/ Accipe fabellam, cuius pars
primula Minos/ Altera mors pueri, finis confusio Scillae...»; 173-79 «Possumus a medio talem praesumere formam: ‘Androgei livor animum speculatus et annos/ Hinc
puerum videt, inde senem, quia mente senili/ Nil redolet
dominium et hac fraude coniugium impetrare credidit…’. Metricum exemplum
sit istud: ‘Scillae seditio Scillam seduxit: eodem/ Quo laesit patrem vulnere
laesa fuit’.
105
Cfr. IVI, II.1.3, pp. 268-269 sull’uso del relativo: Principium sumptum a
medio prosaicum tale est: ‘Androgeum liberalibus innutritum, etc.’ Juxta
praemissam doctrinam sic continuandum: ‘Quem iam pullulantibus et studium
poscentibus annis pater eius Minos, rex Cretensium, ethicae transmisit
disciplinae, ubi puerilis animus, tanquam in cunis positus, verba praelactens
artium, postmodum validioribus nutritus alimentis, per breve temporis
compendium virilis roboris invasit incrementum’. Principium sumptum a medio
metricum tale est: ‘Androgei titulus, etc.’ Sic continuandum: ‘Quem missum
studiis, invasit livor Athenis/ Cuius in exitum poena retorsit eas’…
106
Cfr. IVI, II.1.7, p. 270 sui verbi che illustrano un proverbio: Proverbium
sumptum iuxta medium prosaicum tale est: ‘Ad laetos aliorum successus, etc.’
Sic ergo continua: ‘Attestatur huic veritati lacrimabilis exitus Androgei, cuius
scientia praeminens et invidiosa sociorum, sed non sociales manus invitavit ad
maleficium, et propriae ruinae maturavit adventum’. Proverbium metricum:
‘Hi sunt invidiae, etc.’ Sic ergo continuandum: ‘Quod puer Androgeus sensit,
quem gloria famae/ Extulit, unde necis eius origo fuit’… Di grande interesse
per dimostrare l’influenza di Goffredo è la cristianizzazione della dottrina dei
principia in Giovanni di Garlandia, il maestro inglese che Guido cita con grande rispetto e che potrebbe essere stato allievo di quel Giovanni di Londra da cui
discendono le correzioni nel manoscritto di Edimburgo di Alhazen (cfr. sopra
nel testo): con una storia ovviamente diversa, quella di san Dionigi, è chiara la
traccia del modello nella Parisiana Poetria, ed. LAWLER, p. 52: Subiungamus
exempla a vita et hystoria Beati Dyonisi. Principium materie est quod ipse
studuit Athenis; medium quod predicavit in Gallia; finis quod decapitatus fuit
pro Domino, con un successivo esempio poetico che invoca significativamente
i chori delle Muse Pieridi, proprio come un altro incipit, quello dell’Androgeus:
Qui radios olim fudisti solis Athenis/ Inter Piereos lux radiosa choros.
Testi latini e biblioteche tra Parigi e la valle della Loira
271
puerile puer. Successibus eius/ Incipit esse miser. Quia
laus sua tendit in altum/ Ex hoc deprimitur. Quia sic nitet,
in sua fata/ nititur, et proprios animum molitur in
annos’…».
Ma se in un verso un fugace in praeceps rimanda alla
torre, coesiste ed anzi spicca, nel tessuto altamente retorico e per il resto poco circostanziato di un esempio
prosastico, l’immagine dell’altra tecnica del delitto 107 . Superfluo ripetere che gli esempî delle trasformazioni in versi di un incipit in prosa dovevano costituire per ogni aspirante poeta un potente stimolo a proseguire autonomamente,
e che perciò proprio le pagine di Goffredo sarebbero state
il miglior incoraggiamento per un Androgeus.
Le trovate più fantasiose degli scolî non sembrano
echeggiare in Boccaccio e in Chaucer: ma resta innegabile
che anche su di loro agisce una suggestione (quella di
Androgeo ad Atene come studente, o più ancora come vittima dell’invidia scolastica) facilmente immaginabile in età
medievale, che tuttavia il solo testo di Ovidio staccato dalle immancabili glosse non avrebbe giustificato:
Boccaccio, Filocolo, II.12.7: «Già sappiamo noi che
Androgeo, giovane quasi nella tua età, solo figliuolo
maschio di Minòs, re della copiosa isola di Creti, andò
agli studii d’Attene, lasciando il padre pieno d’età forse
più ch’io non sono, perché in Creti non era studio
sofficiente al suo valoroso intendimento». Risposta di
Florio II.13.1 p. 81: «Caro padre, né Androgeo né
Giansone non seguirono l’uno lo studio e l’altro l’armi, se
non per averne il glorioso fine desiderato da loro: e questo
è manifesto’» 108 .
Chaucer, Legend of Good Women, vv. 1898-99: «...was
slayn, lerning philosophye,/ Right in that citee, nat but
for envye».
107
Si deve intendere invidiae retto da veneno, e non da stylorum (così richiede l’elaborata simmetria della struttura del periodo, e più in generale la
predilezione di Goffredo e di molta prosa medievale per le forme verbali incastonate fra un sostantivo ed il suo attributo o il suo complemento di specificazione); ciò non toglie che l’accostamento immediato fra invidiae e
stylorum…aculeis possa richiamare invidiae telis di Marbodo, questo sì un vero
traslato, un frasario che avrebbe potuto influenzare la variante seriore degli
scolî, magari per caso (cfr. sopra, n. 97). In definitiva, piuttosto, si conferma
l’impressione che il Documentum già presupponga l’esistenza di una tale versione del mito, e che non possa averla ispirata, neanche con una superficiale ed
innaturale estrapolazione di un sintagma invidiae stylus.
108
BOCCACCIO, Filocolo, pp. 80 e 81, con p. 668, n. 7 (=19671, pp. 138 e
139, con p. 760, n. 7), anche per alcuni dei paralleli in altre opere di Boccaccio.
Ernesto Stagni
272
In confronto a tanta abbondanza e varietà di attestazioni
(e si tratta soltanto di esempî),è impossibile sapere a quale
stadio della tradizione si collocasse il componimento citato da Guido. Non resta che augurarsi, con ottimismo forse
eccessivo, che insieme all’incipit da lui trasmessoci riaffiori
nel mare magnum dell’inedito qualche frammento più significativo, se non il testo intero. Mi piace però concludere con un parallelo precoce (1125-1130) che giustificherebbe una datazione assai alta per l’innovazione di un personaggio mitologico che va ad Atene per motivi di studio. Che
l’origine dell’autore del vero e proprio prototipo della commedia elegiaca sia ancora una volta Blois dovrà di nuovo
far riflettere:
Vitale di Blois, Geta, vv. 31-34: «Iupiter Almene studeat
thalamo, vir Athenis/ philosophetur; amet Iupiter, ille
legat;/ disputet Amphitrion et fallat Iupiter; artes/ Hic
colat, Almenam Iupiter ipse suam» 109 .
Con questo, pongo termine ai cenni su testi latini, secondo l’assunto. Ma ad un pubblico di filologi romanzi, se
ne sarà stato almeno incuriosito, potrà far piacere cimentarsi, con ben altra competenza rispetto alla mia, sugli indizî
più probanti per stabilire il luogo di origine di Guido 110 ,
ossia su tutte le glosse in volgare che ho finora individuato
nelle postille e su quelle del commento ad Ugo di Mâcon
già indicate da Könsgen 111 . Al di là dei problemi di meto109
Seguo l’edizione BERTINI, Geta, p. 186. Cfr. IVI la nota a p. 187 e p. 149
(=BERTINI, Plauto, p. 71): «nel rifacimento di Vitale Anfitrione diventa un maturo studente che si reca ad Atene (= Parigi) per apprendere la filosofia». Così,
sull’ambientazione, anche SMOLAK, Die elegische, p. 83, che fra l’altro a pp.
75-79 discute se per il Geta sia esistito un modello tardo-antico (come il Querolus per l’Aulularia) che anticipasse la trasformazione dell’eroe in filosofo. Per
quel che si è detto, non doveva essere il caso dell’Androgeus citato da Guido.
110
Il «cognome» de Grana potrebbe riflettere quello del padre o di un
antenato, un luogo di origine della famiglia piuttosto che di nascita. Si presterebbe Grane, sulla Drôme, dove ci attenderemmo come lingua madre
l’occitanico, al limite con forti tratti franco-provenzali; è forse una semplice
coincidenza che in documenti ed epigrafi degli immediati dintorni si rinvengano attestazioni del rarissimo uso antroponimico del genitivo – invece di de con
ablativo di provenienza – che sembra documentato per il Jaquemetus sancti
Theuderii noto a Guido e ricordato sopra, n. 14;sarà piuttosto da sottintendere
un’apposizione come abbas o presbyter, civis o dominus o simili? In tal caso
(solo per un laico?), si potrebbe perfino azzardare un’identificazione con il
Jaquetus de Grana di cui sopra, n. 18 (dedurne una qualsiasi parentela sarebbe
speculazione del tutto arbitraria, ma il nome di Jaquemetus sancti Theuderii
presenta una di quelle scritture distintive in caratteri greci di cui si è già detto
per Egidio Romano, probabile segno di conoscenza personale).
111
La raccolta non pretende di essere definitiva ma finora ha fornito queste attestazioni nel Bernense: f. 14r in margine ad anchora quasi ancra (e sopra
Testi latini e biblioteche tra Parigi e la valle della Loira
273
do, in particolare dei rischi che si incontrano a dare simili
giudizî su basi di pura e semplice scripta, devo dire che gli
strumenti abituali non mi sono stati per il momento di grande aiuto, tanto più che non se ne trae alcuna conferma o
precisazione circa due nomi di uccelli definiti «borgognoni»
in contrapposizione al vero e proprio francese d’oïl, mentre mas per mes appare meridionalismo decisamente crudo, e colpisce la terminazione in a di Isera per il fiume
Isère (con un riferimento a Grenoble che dà da pensare –
ne ho trovato un altro a proposito di un portento naturale
ricordato però già da Agostino – insieme alla menzione di
un oscuro personaggio il cui nome è associato alla vicina
abbazia di Saint-Chef o Sanctus Theuderius) 112 ; in qualche caso, può darsi che la trascrizione sia deformata per
una maggior aderenza al latino o ad etimologie presunte
(ma anche così il «borgognone» perdix gali ricorda irresistibilmente il perdigal provenzale) e in generale un lungo
ed antico soggiorno nell’Île de France, con l’assimilazione
di parlate più settentrionali, può aver eliminato molte peculiarità dissonanti. Per questo solo con estrema prudenza
avanzerei l’ipotesi che tali tratti linguistici rimandino all’avel unca) .i. curva manus dens ferreus...: «gal. pav/Ilon»; f. 14r: «andena./
instrumentum foci/. gall ander»; f. 36r: «Cata pilosa. gallice. chinille»; f. 81v:
«flaccum vel flaccus gallice coton/ panni et secundum aliqu°s dicitur floc. hinc
deflocca/re .id est. atterere. tractum est a vestibus. sine/ flacco. haec dicit
novius in prima parte compendiose/ doctrine ad filium»; f. 129v: «mansus/ Gall.
mas»; f. 130r: «marcha/ gallice/ marche»; f. 170r: «pellicanus dicitur a canopus
secundum hysidorus (sic) 12° eth. et licet parum/ voce concordent. nec mirum
cum secundum paulum. atheniensem. avus dicatur/ a greco papos; mutatis litteris
quibusdam ut ipse dicit/ capitulo. de a. Item semel ex unus secundum priscianum.
unde adhuc vo/catur papun vulgariter apud aliqu°s»; f. 175v: «scancia pin-/
cerna. Gall./ esthancun»; f. 198r in margine a Ramnus spinarum genus
densissimum que in herba est mollis et pulchra: «ramnus .i./ chachetrepe/
Gall.» ; f. 229v: «|sturnus avis quae a Burgundis vocatur/ stors. Gallice storneus.
aves iste gre-/gatim volant. FF. locati et conducti/ lege. ex conducto| Item
starnus invenitur pro ave/ quae est species perdicis. In burgundia vocatur/ perdix
Gali. In gallico perdix gues [?] In/de starnis habetur in viatico et in/ pantegni
constantini»; f. 251v (col. destra): «In IX° infortiati/ .lege. si tibi electi°/ ponitur
viriole/ .i. viroles./ Gall. forte»; cfr. anche f. 110r a Isara fluvius Gallie influens
Rodano iuxta Sanctum Quintinum: «Isara iuxta/ sanctum quintinum»: Aggiunte: sopra il primo rigo «Isera. gallice» e sotto il secondo «prope grationo/
polim». Dal commento a Ugo (elenco in KÖNSGEN, Die gesta, I, p. 60, n. 9):
1.81, (IVI, II, p. 391) «…zelotipum gallice jalus», 1.163 (p. 392) «armitegas
gallice hespauleres», 1.164 (p. 392) «ferrea patella capitis munimen est scilicet
cassidula, gallice bacinet», 1.194 (p. 394) «lazalus… azur gallice», 2.648 (p.
421) «hermionata .i. animalis, quod vulgo herminium et gallice hermin
vocatur», 2.725 (p. 424) «mantica gallice male».
112
Cfr. sopra, n. 14, e n. 110 sul genitivo sancti Theuderii: difficile, lo
ripetiamo, che si debba interpretare come nome di famiglia, ovvero come un
semplice equivalente di de + ablativo (finora di un simile uso ho trovato pochissimi esempî sicuri solo in area occitanica-catalana, ma l’indagine andrebbe
estesa nei territorî d’oïl).
Ernesto Stagni
274
rea di Mâcon, tuttora in zona di confine tra il dominio
francese propriamente detto e il franco-provenzale: un limite che anzi nel Medioevo doveva correre più a Nord.
D’altronde, indizî ancor più labili si colgono in una menzione di Vézelay e nella possibile provenienza da Nevers
dell’unica citazione della perduta grammatica di Raterio,
due dettagli che mi auguro di presentare e discutere in altra occasione. Insomma, dobbiamo congedarci da questo
primo sguardo a Guido con un’ultima domanda: quanto
delle sue conoscenze potrebbe dipendere da una nascita
più a Sud e più ad Est dei luoghi dove sappiamo che operò? Basteranno Parigi e la valle della Loira a spiegare l’impressionante qualità e ricchezza delle sue letture? 113
113
Chiudo con un altro esempio nel quale mi sono appena imbattuto. Dal
momento che ho abbondantemente ricordato le Heroides, mi piace segnalare in
Guido una traccia della rarissima quindicesima, l’epistola a Saffo, di controversa attribuzione, di cui si conserva un solo testimone preumanistico (oggi a
Francoforte), oltre ad estratti nel Florilegium Gallicum (quella compilazione
che almeno fino a tempi recentissimi veniva considerata originaria della zona
di Orléans e con la quale Guido condivide la lettura di testi a dir poco prelibati
se non introvabili): al f. 85r del codice di Wolfenbüttel (si veda sopra, n. 9) si
legge, con titolo gravemente corrotto, un’incontrovertibile allusione al v. 14
(…proveniunt; vacuae carmina mentis opus; nel florilegio Sunt vacue carmina
mentis opus): «ovidius carmina secessum/ Idem sapho in epist./ ad pho» (cfr.
Tristia, 1.1.41) al di sopra di una glossa marginale a quanto pare preesistente
che riassume il concetto espresso da Seneca: «sapientia eget/ loco vacuo». Il
fatto che per quanto deformato si legga il nome del destinatario esclude una
derivazione dai florilegi, nei quali è taciuto, se si esclude un’aggiunta assai
tarda in uno dei manoscritti principali che per di più omette il verso in questione (si vedano le edizioni RACKLEY, The excerpts, p. 129, v. 109, e soprattutto
BURTON, Classical, p. 214). Di solito Guido non specifica i nomi dei corrispondenti delle singole epistole; si ha dunque l’impressione che qui dipenda da una
tradizione separata, come il Francofortano e a differenza del florilegio.
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