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in cammino con le persone down

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in cammino con le persone down
UNIVERSITE EUROPEENNE JEAN MONNET
Association Internazionale sans but lucratif
Bruxelles
CORSO
ARTS-THERAPHIES
TESI:
IN CAMMINO
CON LE PERSONE DOWN
VERTA KATIA
Matricola n. 1835
Bruxelles, Décembre 2007
Indice
PARTE PRIMA
5 1. Caratteristiche e cause
5
Eziologia
6
Segni e sintomi
6
Prevenzione
6
Trattamento
7
Come viene diagnosticata
7
Il momento della diagnosi
8
Quante sono le persone Down
8
La presenza di fratelli
9
Chi sono e come crescono i bambini Down?
10
La diagnosi
11
12
2. Gesti e parole nel primo vocabolario
Caratteristiche della produzione verbale
13
3. La memoria
15
4. Le abilità visuo percettive
18
20
5. Le difficoltà di sviluppo motorio-prassico
Conclusioni
22
22
23
6. Il progredire dell’età
Neuropatologia
Valutazione clinica e neurologica della demenza in soggetti con
Sindrome di Down
25
28
7. Il coinvolgimento dei genitori nei programmi di intervento precoce
Considerazioni
30
30
31
35
8. La riabilitazione delle difficoltà prassiche
La costruzione del profilo di sviluppo
Profili prassici di sviluppo dei bambini con ritardo mentale lieve
Conclusioni
37
38
40
9. Educazione al linguaggio
Prime fasi dell’acquisizione del linguaggio
Fase linguistica
44
10. Aspetti relazionali
52
11. Psicopatologia e riabilitazione
2
52
54
55
57
58
58
59
65
66
Psicopatologia del ritardo mentale
Psicopatologia della Sindrome di Down
L’intervento precoce
Integrazione sociale extrascolastica ed extralavorativa
70
12. Lo sviluppo dell’autonomia
Perché educare all’autonomia
Adolescenza e sviluppo in soggetti non Down
Che cosa si intende per autonomia esterna in soggetti Down
Il corso di educazione all’autonomia dell’Associazione Bambini
Down
Conclusioni
71
72
13. Esperienze di inserimento nella scuola dell’obbligo
Risultati di una ricerca
74
75
77
14. Prime esperienze di inserimento alla scuola superiore
Fasi del progetto
Conclusioni
78
78
81
15. I corsi prelavorativi
Riferimenti essenziali per un corretto orientamento
Post-obbligo
Considerazioni conclusive
84
16. Il lavoro e la conquista dell’identità
86
86
87
87
88
89
89
17. Analisi di esperienze lavorative di adulti con Sindrome di Down
Le aziende
Modalità di collocamento
Scelta delle mansioni
Presenza in azienda
Cambiamenti nelle persone Down
Conclusioni
PARTE SECONDA
90 18. Analisi di un caso attraverso l’arteterapia
90
L’utilità dell’arteterapia
91
Il ruolo della musica
94
Presentazione di un caso con relativo intervento
95
Svolgimento degli incontri
111
Considerazioni
3
1. CARATTERISTICHE E CAUSE
La sindrome di Down è una delle più note patologie prodotte da un'anomalia
negli autosomi. Il nome deriva da John Langdon Down che ha descritto la
patologia nel 1862, usando il termine mongoloidismo per via dei tratti
somatici del viso dei pazienti che richiama quelli delle popolazioni asiatiche
orientali, quali i mongoli. Altro termine quasi sinonimo è trisomia 21 (si veda
la sezione successiva). Poiché, di solito, questa condizione comporta diverse
conseguenze negative, ci si riferisce ad essa come ad una sindrome, vale a
dire un insieme di effetti anomali che si verificano contemporaneamente.
Eziologia
La sindrome di Down è causata dalla presenza di un cromosoma 21 in più (o
parte di esso). Circa nel 95% dei casi, la causa di questa anomalia genetica è
la mancata disgiunzione dei cromosomi che si verifica durante una delle
divisioni meiotiche che portano alla formazione dei gameti di un genitore; ne
consegue che il zigote avrà un assetto di 47 cromosomi, con un cromosoma
21 soprannumerario in tutte le cellule dell'individuo affetto, anziché il normale
numero diploide di 46 cromosomi tipici della specie umana. Per tale motivo
questa patologia è anche chiamata Trisomia 21: è da notare che la causa
della sindrome può essere anche differente, come spiegato nel paragrafo
successivo, quindi Trisomia 21 non è propriamente un sinonimo di Sindrome
di Down.
La sindrome può essere causata anche da un altro tipo di mutazione: la
traslocazione robertsoniana, in cui un braccio del cromosoma 21 si congiunge
al cromosoma 14 formando una sorta di cromosoma ibrido. Gli individui
portatori di tale ibrido sono fenotipicamente normali, ma presentano
un'elevata probabilità di avere figli con sindrome di Down (forma familiare).
La Sindrome di Down comporta situazioni diverse di rallentamento dello
sviluppo, ma in genere non preclude possibilità allo stesso: è possibile una
buona integrazione e convivenza, data la volitiva capacità di apprendimento
che caratterizza l'individuo down.
4
Segni e sintomi
Nella maggior parte dei casi l'individuo ha corpo basso e tozzo, collo grosso,
macroglossia, ipotonia e plica palmare. Il ritardo mentale varia da forme più
gravi a forme lievi nei mosaici.
Si ha maggiore sensibilità alle infezioni e, spesso, disfunzioni del cuore e di
altri organi: principalmente per tal motivo la vita media, senza interventi, non
supera i 30-40 anni. Attualmente, col progredire delle tecniche chirurgiche,
molte anomalie cardiache anatomiche possono essere trattate con successo.
Al downismo è associata un'amiloidosi Alzheimer-simile.
Gli individui portatori della sindrome presentano un carattere molto docile,
tranquillo, e sono caratterizzati da un forte spirito emulativo.
La presenza della sindrome di Down è diagnosticabile nel neonato, oltre che
con un'analisi cromosomica, fatta su un prelievo di sangue, attraverso una
serie di caratteristiche facilmente riscontrabili dal pediatra, di cui la più nota è
il taglio a mandorla degli occhi (che ha dato origine al termine mongolismo).
Prevenzione
Quando si studiano casi di sindrome di Down dovuti a traslocazione, si trova
di solito che un genitore, anche se fenotipicamente normale, presenta solo 45
cromosomi ben distinti. Uno di questi cromosomi è formato dai bracci lunghi
dei cromosomi 14 e 21 uniti insieme, mentre i bracci corti residui si uniscono
a formare un piccolo cromosoma che contenendo geni non essenziali
generalmente viene perduto. Perciò ai genitori di un figlio affetto da sindrome
di Down si consiglia di procedere alla determinazione del loro cariotipo; se
l'uno o l'altro genitore sono portatori di una traslocazione, essi vengono
avvisati del fatto che hanno alta probabilità di avere un altro figlio affetto da
sindrome di Down e che metà dei lori figli normali potrebbero essere portatori
della traslocazione. Da parecchio tempo si ritiene che la sindrome di Down, e
un certo numero di altri effetti negativi legati alla non-disgiunzione, sia più
probabile in bambini nati da donne non giovani. Le ragioni di questo fatto non
sono chiare ma si è notato che sono in relazione con il tempo di permanenza
dell'uovo nell'ovaio. Studi recenti hanno indicato anche che circa nel 5% di
casi con sindrome di Down dovuta a non-disgiunzione il cromosoma in più
deriva dal padre anziché dalla madre.
Trattamento
Il trattamento può essere perseguito solo per le complicazioni della malattia,
quali possono essere, tra le più frequenti, sordità, malattie cardio-vascolari,
leucemia, invecchiamento precoce.
5
Come viene diagnosticata
La Sindrome di Down può essere diagnosticata anche prima della nascita
intorno alla 16a- 18a settimana di gestazione con l'amniocentesi (prelievo con
una siringa di una piccola quantità del liquido amniotico, che avvolge il feto
all'interno dell'utero) o tra la 12a e la 13a settimana con la villocentesi, che
viene svolto meno comunemente e che consiste in un
prelievo di cellule da cui si svilupperà la placenta, i villi coriali appunto.
Queste analisi vengono proposte di solito alle donne considerate a rischio (età
superiore ai 37 anni o con un precedente figlio Down) e fatte senza ricovero in
alcuni centri particolarmente attrezzati. Sono allo studio nuove tecniche di
prelievo, o di cattura, delle cellule fetali nel sangue materno o nella vagina
che dovrebbero essere meno invasive e più
sicure delle attuali.
Il Tri-test è un esame del sangue meterno eseguito tra la 15a e la 20a
settimana di età gestazionale per dosare tre sostanze particolari (alfafetoproteina, estriolo non coniugato e frazione beta della gonadotropina
corionica). L'elaborazione statistica dei livelli ematici di queste tre sostanze,
combinata con il rischio di sindrome di Down legato all'età della donna,
fornisce una risposta che indica la stima della probabilità che il feto abbia una
trisomia 21
oppure no. Il tri-test non ha alcun valore diagnostico; è difficilissimo da capire
perchè è il primo esame predittivo di massa.
Il momento della diagnosi
La comunicazione della diagnosi puo' avvenire prima della nascita, alla
nascita, nei primi anni di vita, successivamente (ad esempio a causa di un
incidente automobilistico).
Inoltre è opportuno distinguere i casi in cui l'informazione è del tutto
improvvisa da quelli in cui essa è frutto di ipotesi e conoscenze che si
sommano nel corso del tempo. Ad esempio è diversa la situazione in cui
subito dopo la nascita viene comunicato ai genitori che il loro figlio è affetto
da sindrome di Down e quella in cui una diagnosi di ritardo mentale viene
comunicata nel secondo anno di vita o ancora piu' tardi. Se la diagnosi non
viene comunicata subito i genitori arrivano progressivamente alla convinzione
che "c'è qualcosa che non va bene". Essi formulano delle ipotesi. Ad esempio
si chiedono se qualcosa non funziona nel loro modo di educare oppure se c'è
qualche carenza a livello di intelligenza. La diagnosi è quindi la risposta a un
problema che si era gia' posto.
Soprattutto se la diagnosi è del tutto imprevista (come succede spesso
quando è comunicata poco dopo la nascita) è normale una reazione di grande
sconforto.
Una terza distinzione, ovviamente, riguarda la gravita' della diagnosi. Produce
vissuti diversi una diagnosi di "sindrome di Down" o di "tetraparesi spastica
con ritardo mentale".
La grande maggioranza dei genitori, comunque, una volta venuti a
6
conoscenza della diagnosi, ha bisogno di ulteriori informazioni. Cosa implica,
ad esempio, essere affetti da sindrome di Down? Nella loro mente si affollano
informazioni contrastanti: "una volta mi hanno detto che una ragazza con
sindrome di Down è diventata maestra"; "vi sono dei ragazzi con sindrome di
Down che fanno gli attori; li ho visti per televisione"; "da bambina conoscevo
un ragazzo con sindrome di Down, ma era proprio un disastro: sbavava,
diceva solo poche parole confuse, rideva sempre"; "mi hanno detto che chi ha
la sindrome di Down muore giovane". In definitiva la diagnosi colloca il figlio
in una categoria, ma la sua individualita' è tutta da scoprire.
Molte sono le variabili che influiscono sui vissuti dei genitori e non possiamo
considerarle tutte. Da considerare è comunque il vissuto di accettazione che i
genitori sentono attorno a sè. Ad esempio non c'è dubbio che negli ultimi
trenta anni in Italia la situazione sia migliorata (per quanto non ancora
ottimale).
Quante sono le persone Down?
Attualmente in Italia 1 bambino su 800 nasce con questa condizione, questo
vuol dire che nascono quasi due bambini Down al giorno.
Grazie allo sviluppo della medicina e alle maggiori cure dedicate a queste
persone la durata della loro vita si è molto allungata così che si può ora
parlare di un'aspettativa di vita di 62 anni, destinata ulteriormente a crescere
in futuro.
Si stima che oggi vivano in Italia circa 40.000 persone Down.
La presenza di fratelli
La presenza di altri figli ha una notevole influenza sul vissuto dei genitori. In
linea di massima la situazione piu' difficile si ha quando il figlio con ritardo
mentale è l'unico. Uno degli effetti fondamentali dell'avere piu' figli è quello di
ridimensionare eventuali sensi di colpa.
Numerose sono state le ricerche che hanno studiato cosa significa avere un
fratello o una sorella in situazione di handicap. Una recente rassegna di
indagini (condotta da Alessandro Trabujo con la mia supervisione) sul "rischio
psicologico nei fratelli disabili" ha innanzitutto evidenziato che anche in questo
campo sono presenti stereotipi non fondati. In particolare è emerso che l'idea
(tipica anche di vari studiosi) che sia alto il rischio di ripercussioni psicologiche
negative non è avvalorata dalle ricerche. Riportiamo le conclusioni a cui
Trabujo è pervenuto dopo aver analizzato decine di recenti ricerche dedicate
specificamente a questo argomento.
"Salute psicologica: non vi sono riscontri all'ipotesi secondo la quale crescere
assieme ad un fratello in situazione di handicap costituisca a priori un pericolo
per la propria salute psicologica e ciÚ indipendentemente da ordine di nascita
e sesso di appartenenza.
Relazioni con i familiari: se appaiono evidenti il maggior impegno e le
maggiori responsabilita' richieste ai bambini normodotati nell'accudire e
aiutare il fratello disabile, appare altresÏ rilevante che questo carico di
responsabilita', forse perchè parte della quotidianita', non influisce
7
negativamente sul grado nè sulla connotazione affettiva della relazione tra i
fratelli o con i familiari.
Rapporti sociali: la competenza sociale del fratello di un bambino con
handicap non è influenzata negativamente dalla presenza di quest'ultimo e
neppure i suoi rapporti con i coetanei o la partecipazione ad attivita'
extrafamiliari quali sport o associazioni giovanili risultano in qualche maniera
penalizzati direttamente da cio'. (...)
Alla luce di questi risultati ritengo quindi che si possa definire non giustificata
l'opinione secondo la quale la sola presenza di un bambino con handicap in
famiglia sia di per sè sufficiente a determinare un rischio per la salute
psicologica del fratello non disabile
Chi sono e come crescono i bambini Down?
Lo sviluppo del bambino Down avviene con un certo ritardo, ma secondo le
stesse tappe dei bambini normali.
I bambini Down crescendo possono raggiungere, sia pure con tempi più
lunghi, conquiste simili a quelle dei bambini normali: cammineranno,
inizieranno a parlare, a correre a giocare.
Rimane invece comune a tutti un variabile grado di ritardo mentale che si
manifesta anche nella difficoltà di linguaggio frequente tra le persone Down.
Dal punto di vista riabilitativo non si tratta per loro di compensare o
recuperare una particolare funzione, quanto di organizzare un intervento
educativo globale che favorisca la crescita e lo sviluppo del bambino in una
interazione dinamica tra le sue potenzialità e l'ambiente circostante. È
importante inoltre ricordare che ogni bambino è diverso dall'altro e necessita
quindi di interventi che rispettino la propria individualità e i propri tempi.
Dal punto di vista medico, vista una maggiore frequenza in tali bambini
rispetto alla popolazione normale di problemi specialistici, in particolare
malformazioni cardiache (la più frequente è il cosidetto canale
atrioventricolare comune, ma si presentano anche difetti intestinali, disturbi
della vista e dell'udito, disfunzioni tiroidee. problemi odontoiatrici), è
opportuno prevedere col pediatra una serie di controlli di salute volti a
prevenire o a correggere eventuali problemi aggiuntivi.
8
La Diagnosi
E' possibile diagnosticare la Sindrome di Down in Epoca prenatale mediante
l'esame dei cromosomi del Feto eseguito su materiale da Villocentesi,
Amniocentesi, e recentemente anche da QF-PCR (Cosidetto Test Rapido).
Queste Procedure, sono invasive, e sono associate ad un rischio di aborto di
circa 1,5 % per il prelievo dei villi e di 0,8% per l'amniocentesi. Per quanto
riguarda il Test rapido, al momento, della stesura di questo articolo non siamo
in grado di quantificare il suo rischio, che tuttavia parrebbe essere
leggermente inferiore a quello dell'amniocentesi.
N.B. I Test di Screening, quali ad esempio Il Test di Wald o Tri-Test, La
Traslucenza Nucale, Ultrascreening o Test Combinato ecc.
Queste tecniche non sono in grado di fare la diagnosi di
Cromosomopatie, servono solo a selezionare i soggetti a rischio, a cui
consigliare l'esecuzione di suddette Tecniche Invasive.
9
2. GESTI E PAROLE NEL PRIMO VOCABOLARIO
Fin dalla nascita, il bambino mette in atto una serie di comportamenti (diversi
tipi di pianto, sorrisi, vocalizzi) che fungono da segnali comunicativi per gli
adulti che si prendono cura di lui. Ma soltanto tra i 9 e i 13 mesi si può parlare
di una vera e propria comunicazione intenzionale che si realizza inizialmente
attraverso l’uso di una ricca gestualità. I primi gesti dei bambini sono stati
definiti deittici o performativi perché esprimono esclusivamente l’intenzione
comunicativa del parlante, il referente di tale comunicazione è dato
interamente dal contesto, in cui la comunicazione ha luogo. Questi gesti sono
la richiesta ritualizzata, il mostrare, il dare o l’indicare: nel primo caso il
bambino si tende verso l’oggetto, talvolta con un gesto ritmato di apertura e
chiusura del palmo della mano; nel secondo, il bambino tende l’oggetto verso
l’adulto, del quale vuole attirare l’attenzione; nel terzo caso lascia andare un
oggetto nelle mani dell’ adulto. Nell’ultimo caso il bambino indica con il
braccio teso e/o con l’indice puntato in una certa direzione, guardando
alternativamente l’oggetto e l’adulto. In tutte queste situazioni può
pronunciare semplici vocalizzi o, più tardi, vere e proprie parole.
Verso la fine del primo anno di vita, compare nei bambini un secondo tipo di
gesti, chiamati referenziali o simbolici attraverso i quali il bambino dimostra di
poter usare un comportamento non verbale per “nominare” o “raccontare” o
“chiedere” qualcosa. Questi gesti possono essere prodotti con o senza oggetto
in mano; ad esempio il bambino porta un bicchiere vuoto alla bocca per
chiedere da bere, porta la cornetta del telefono all’orecchio per “nominare”
l’oggetto, apre le braccia per comunicare che qualcosa o qualcuno non c’è più.
Nel corso di tutto il secondo anno di vita questi gesti sono usati
frequentemente e in diversi contesti comunicativi; è per questo che spesso i
genitori dicono del proprio bambino: “non parla, ma capisce tutto e si fa
capire”. Coso significa questo e, più in particolare, che rapporto c’è tra questi
gesti e le prime parole?
In alcune recenti ricerche (Casadio e Caselli, 1989), mediante l’uso di
questionari somministrati ai genitori ed un’analisi unificata per le due
modalità, è stata valutata l’ampiezza del vocabolario gestuale e vocale e i
rapporti fra comprensione vocale e produzione di gesti e parole. I risultati
hanno confermato che, nel secondo anno di vita, c’è un sostanziale
parallelismo fra sviluppo gestuale e vocale sia in termini qualitativi che
quantitativi. Infatti sia per i gesti che per le parole è stato individuato un
graduale processo di decontestualizzazione: da una produzione di gesti e
parole legata a situazioni specifiche, ristrette e altamente ritualizzata (uso non
referziale) il bambino arriva ad un loro uso simbolico e referenziale. In termini
quantitativi, i bambini usano inizialmente più gesti che parole;in questo
periodo si evidenzia una precisa corrispondenza fra parole comprese e gesti
prodotti, mentre il numero di parole prodotte è notevolmente inferiore
rispetto a quello delle parole comprese. Questa dissociazione fra
comprensione e produzione, evidente in realtà i tutto il secondo anno di vita
10
del bambino, può lasciar supporre che i due domini seguano processi di
maturazione diversi.
Secondo uno studio fatto risulta che il gruppo di bambini Down produce in
media 48.2 e 53.6 gesti, mentre il gruppo di bambini normali ne produce in
media 44.8.
Caratteristiche della produzione verbale
Numerose ricerche sono state condotte nel tentativo di descrivere le
caratteristiche dello sviluppo linguistico di bambini con ritardo mentale e, in
particolare, con Sindrome di Down. Da questi studi emerge con chiarezza che
i bambini con Sindrome di Down, se confrontati a bambini con ritardo mentale
di eziologia diversa ma di pari gravità, e a bambini normali di età mentale
paragonabile, mostrano un deficit marcato nelle loro competenze linguistiche
rispetto alle altre abilità motorie, cognitive e sociali.
Lo studio dello sviluppo delle competenze cognitive e del linguaggio in
persone con ritardo mentale, e con Sindrome di Down in particolare, può
fornire informazioni utili sia per una migliore comprensione del ritardo
mentale, sia per la comprensione dei processi che sottostanno
all’apprendimento normale.
Individuare specifiche difficoltà può avere importanti implicazioni sia in ambito
teorico che applicativo. In ambito teorico, se si dovesse riscontrare una
difficoltà specifica in uno solo dei tre aspetti linguistici ( lessicale, morfologico,
sintattico) si potrebbe ipotizzare che alcuni domini linguistici sono almeno in
parte dissociabili da altri, ad esempio il lessico della morfologia o la morfologia
della sintassi.
Sul piano applicativo, l’individuazione di difficoltà specifiche può contribuire
alla messa a punto di programmi riabilitativi ed educativi più mirati e quindi
più efficaci sul piano dello sviluppo del linguaggio.
11
3. LA MEMORIA
La memoria costituisce una capacità cognitiva la cui integrità è indispensabile
per un corretto sviluppo intellettivo ( Ellis, 1963/1969; Fisher e Zeaman,
1973). La valutazione di tale abilità in persone con ritardo mentale potrebbe
fornire utili elementi per la comprensione della natura del deficit cognitivo che
è alla base del ritardo mentale, nonché evidenziare eventuali differenze
qualitative nelle prestazioni tra soggetti e tra diversi quadri sindromici causa
di ritardo mentale ( come ad esempio la Sindrome di Down). Nonostante ciò
la letteratura scientifica sui disturbi di memoria nei soggetti con ritardo
mentale, e in particolare nei soggetti Down, è sorprendentemente scarsa e
spesso limitata ad aspetti molto particolari.
Una possibile ragione di tale disinteresse può riguardare problemi di ordine
metodologico, rappresentate dalla difficoltà a distinguere , in pazienti con
ritardo mentale, disturbi specifici dei processi di apprendimento ( ad es.,
deficit nei processi di consolidamento e di retrieval della traccia mnesica) da
deficit che, pur interessando primariamente altri ambiti cognitivi, tuttavia
interferiscono con i processi di codifica e/o di acquisizione dell’informazione
( ad es., disturbi dell’attenzione, del linguaggio, etc,). Pur riconoscendo
l’importanza di distinguere disturbi “strutturali” della memoria da deficit che
interessano solo di riflesso i processi di memorizzazione ( Ellis, 1985) appar
oggi possibile, sulla base dell’elaborazione teorica e del lavoro sperimentale
su soggetti normali e pazienti cerebrolesi, elaborare modelli di riferimento e
strumenti di indagine che consentano di interpretare in maniera adeguata la
natura e la genesi dei disturbi di memoria.
In generale, i dati messi a disposizione sembrano documentare che almeno
alcuni aspetti della funzione mnesica sono specificamente deficitari nei
soggetti Down. Il loro profilo di prestazioni non appare, infatti, sovrapponibile
né a quello dei bambini normodotati né a quello di ritardati mentali di diversa
eziologia. Deficitaria appare anche la capacità di codifica nella memoria a
lungo termine; i soggetti Down, infatti, usufruiscono meno degli altri ritardati
mentali del legame associativo tra gli stimoli da ricordare e sono
particolarmente in difficoltà quando il processo di apprendimento e/o
rievocazione richiede l’elaborazione di materiale linguistico particolarmente
complesso ( ad es., brani di prosa).
Una riduzione delle risorse di processazione della memoria di lavoro può
interferire, in effetti, con il normale transito di dati dall’ambiente esterno alle
strutture cognitive deputate alla loro codifica.
Va ancora rilevato che l’efficacia dei processi di codifica nei soggetti Down può
essere ulteriormente compromessa da un disturbo strumentale delle abilità
linguistiche, che forniscono le risorse di base affinché i legami lessicali,
sintattici e semantici tra le varie parti del memorandum vengano apprezzate
in maniera adeguata. Proprio queste difficoltà linguistiche, espressione
12
secondo alcuni autori ( Hulme e Mackenzie, 1992) di un alterato
apprendimento di schemi motori potrebbero essere le responsabili ultime dei
deficit descritti.
In conclusione, l’esame neuropsicologico della funzione mnesica nella
Sindrome di Down è ancora agli inizi. Alla luce di quanto detto finora, alcuni
aspetti particolari, quali i processi di codifica nella memoria a lungo termine,
meritano ulteriore approfondimento sia per un’adeguata comprensione della
funzione mnesica nella Sindrome di Down, sia per capire quanto il deficit di
memoria contribuisca alla comprensione del deficit intellettivo di questi
soggetti.
I dati finora raccolti consentono, nel frattempo, di sostenere l’approccio
teorico che considera il disturbo intellettivo della Sindrome di Down non un
mero rallentamento del normale sviluppo cognitivo, ma un quadro
caratterizzato da disomogeneità qualitative che conferiscono al ritardo
mentale di questi soggetti una sua caratteristica peculiarità.
13
4. LE ABILITA’ VISUO PERCETTIVE
L’insufficienza mentale è stata frequentemente definita come un uniforme
malfunzionamento di tutti i settori della “cognition”. Questa definizione
prevalsa fino a poco tempo fa ha trovato una prima ridefinizione nelle teorie
sull’insufficienza mentale che hanno tentato una differenziazione di diversi tipi
di ritardo intellettivo. Secondo la “Deficit Theory” di Ellis il comportamento
intellettivo si basa su un complesso di processi uno o più dei quali possono
essere malfunzionanti. Questi processi devono essere identificati perché si
possano mettere a punto metodologie di sollecitazione e di rieducazione
mirate al processo deficitario.
In questo contesto storico si collocano le ricerche di tipo neurocognitivo e
neuropscicologico che hanno tentato di individuare nella sindromologia e nella
dismorfologia in generale fenotipi cognitivi e processuali che caratterizzassero
fortemente una sindrome, accanto ai dati somatici e genetici.
Sicuramente le sindromi più studiate sono quelle a maggior incidenza nella
popolazione e la Sindrome si Down ha rappresentato un campo di studio
interessante, sia per il peso sociale del problema che per il particolare pattern
di funzionamento mentale. Questo pattern neuropsicologico sarebbe
rappresentato da una dissociazione fra le abilità linguistiche che risulterebbero
deficitarie, e quelle visuo-spaziali che risulterebbero all’opposto ben
funzionanti al loro confronto.
Dal punto di vista biologico questa dissociazione sarebbe sostenuta da
un’alterata specializzazione emisferica rispetto alla configurazione abituale.
I bambini Down avrebbero una specializzazione emisferica destra per il
linguaggio, come dimostrato da numerosi studi condotti per dimostrare
questo utilizzando il metodo di ascolto dicotico. Questo spiegherebbe l’alterata
strutturazione del linguaggio nella sintassi e nelle morfologia: infatti questi
aspetti di solito processati dall’emisfero destro, che non sarebbe
obiettivamente in grado di arrivare ai livelli dell’emisfero sinistro desiniato
geneticamente a questi compiti. Questo significherebbe in termini funzionali
ed anatomici che l’emisfero sinistro è leso. Tuttavia in questi pazienti una
dimostrazione radiologica di aspetti lesionali o malformativi macroscopici non
è mai stata fatta.
In contrasto con l’abituale riscontro di un malfunzionamento delle funzioni
visuo-percettive in caso di lesione sinistra, in questi bambini queste abilità
sembrano essere conservate, sempre ovviamente riferite al contesto
deficitario in cui so collocano. Questo potrebbe essere a favore di una
diversificazione della specializzazione emisferica, che rientrerebbe come le
caratteristiche somatiche sotto un controllo genetico diverso dalla normalità.
Questo spiegherebbe di conseguenza anche come il funzionamento mentale
differisca da un modello atteso come quello della lesione emisferica unilaterale,
14
proponendo invece un modello di funzionamento indipendente, tipico delle
persone con Sindrome di Down.
Questo modello sarebbe in contrasto con quanto avviene nelle lesioni
unilaterali sinistre in cui l’emisfero destro sembra pagare il prezzo di un
processamento verbale non di sua competenza, con la perdita di efficienza
nelle abilità tipicamente destre.
Questa diversa organizzazione sarebbe riconducibile ad alterazioni strutturali
del cervello per cui il funzionamento mentale non avverrebbe più secondo il
funzionamento classico. Altri studi hanno tuttavia posto in dubbio questo
pattern di lateralizzazione suggerendo che l’ascolto dicotico ha di per sé
importanti limiti metodologici.
Tuttavia anche al di fuori dell’ipotesi affascinante che esista un controllo
genetico “patologico” della specializzazione emisferica, è un dato clinico
rilevante che, a parità di insufficienza mentale come determinata dal QI,
esistano processi più efficienti con prodotti finali più raffinati rispetto ad altri
bambini affetti da sindromi dismorfiche caratterizzate da insufficienza mentale.
Nella storia dello studio del ritardo mentale i bambini con Sindrome di
Williams sono spesso stati studiati in contrapposizione ai bambini Down; ciò
non è casuale poiché le due sindromi presentano dal punto di vista
neuropsicologico pattern di funzionamento opposto: mentre i bambini con
Sindrome di Down presentano un’asimmetria di funzionamento a favore delle
abilità visuo-spaziali, i bambini con Sindrome di Williams presentano un
pattern opposto caratterizzato da un’insolita bravura nelle abilità verbali
contro una scarsa capacità di elaborazione di prove visuo-spaziali.
Questa dissociazione complementare rende particolarmente attraente lo
studio comparativo fra i due gruppi.
I bambini Down, rispetto ad altri ritardati mentali non Down, ottengono
prestazioni peggiori nella riproduzione di un disegno percepito correttamente .
Inoltre il QI di bambini Down non sembra correlarsi con la velocità della
recezione visiva ma, piuttosto, con la velocità della risposta in uscita
(Berkson).
Stafford studiando 15 bambini Down ha dimostrato che erano in grado di
riconoscere e identificare correttamente stimoli spaziali unidimensionali e
bidimensionali, anche se non erano in grado di riprodurli correttamente.
Nonostante quanto detto, i bambini Down presentano una maggiore efficienza
in queste abilità rispetto a quelle verbali: in queste specifiche prove essi sono
caratterizzati da un’altra peculiarità rappresentata dal fatto che sono più
compromessi nell’analisi piuttosto che nella percezione globale dello stimolo.
Ancora una volta presentano un pattern opposto a quello di bambini Williams
che risultano più compromessi nella cattura globale dello stimolo.
15
I soggetti con Sindrome di Down presentano anche un disturbo della
sequenzialità dei gesti; si potrebbe ipotizzare un malfunzionamento dei
sistemi di analisi sequenziale, di solito localizzati nell’emisfero sinistro, con
conseguente difficoltà di processamento in serie del linguaggio, degli aspetti
analitici della percezione visiva e dei movimenti sequenziali. Questo deficit
renderebbe più evidente il relativo buon funzionamento dei processi di sintesi
con un conseguente buon rendimento nelle prove di tipo percettivo-visivo, che
traggono vantaggio da questo tipo di processamento.
16
5. LE DIFFICOLTA’ DI SVILUPPO MOTORIO-PRASSICO
E’ ben noto che i bambini con Sindrome di Down presentano un marcato
ritardo nell’acquisizione delle tappe di sviluppo motorio: alcuni autori
(Henderson, 1986) indicano un’età media di acquisizione del controllo del
tronco, della stazione eretta e della deambulazione autonoma
omogeneamente ritardata ( 9, 18 e 19 mesi); questo ritardo è stato
attribuito dal punto di vista neurologico essenzialmente alla marcata ipotonia
ed a un ritardo nel controllo posturale legato a un deficit nei meccanismi
dell’equilibrio che a loro volta sarebbero collegati con la presenza di una
ipoplasia cerebrale e del tronco dell’encefalo (Crome, 1966) e di una lassità
legamentosa. Questa ipotesi sembra essere ulteriormente confermata da un
recente lavoro di Ulrich; egli, infatti, è stato in grado di dimostrare che nei
bambini con Sindrome di Down, che ancora non hanno raggiunto la
deambulazione autonoma (età media di 11 mesi), è presente, come nei
bambini normali, uno schema di marcia che può essere elicitato in particolari
condizioni; ciò viene interpretato dall’autore come una conferma che il ritardo
motorio dei bambini con Sindrome di Down è legato all’ipotonia e alla
mancanza di equilibrio piuttosto che alla assenza dello schema motorio.
Altre ricerche hanno cercato di valutare qualitativamente il profilo motorio dei
bambini con Sindrome di Down utilizzando dei test standardizzati di sviluppo
motorio. Le Blanc ha evidenziato che i bambini con Sindrome di Down, con
un’età cronologica media di 12 anni, presentavano soprattutto difficoltà di
equilibrio statico. Henderson ha utilizzato un test che ha rilevato le
competenze motorie sia senza oggetto sia con oggetto. I dati emersi mettono
in evidenza che questi bambini presentano una caduta significativa nei compiti
di agilità posturale e in quelli di agilità locomotoria. Gli autori sottolineano che
il problema più rilevante in questi bambini sembra riguardare la lentezza
esecutiva con cui compiono i movimenti e lo scarso equilibrio statico e
dinamico.
In sintesi tutti i lavori esaminati sembrano concordare sul fatto che i bambini
con Sindrome di Down presentano a livello posturocinetico significative
difficoltà soprattutto nell’area dell’equilibrio e della velocità che tendono a
permanere nel corso dello sviluppo; questi lavori lasciano però aperto il
problema della definizione più precisa sull’esistenza o meno di un disturbo
specifico comune alla base della programmazione dei movimenti fini.
Questi lavori concordano nell’individuare una caduta comune nel profilo
motorio caratterizzata da difficoltà di tipo esecutivo e da una lentezza
complessiva che compromette l’efficienza delle prestazioni motorie in toto;
queste ricerche , per i compiti impiegati, tengono poco in considerazione gli
aspetti ideativi e di programmazione prussica dell’atto motorio; d’altra parte
in nessuna delle scale di sviluppo motorio utilizzate, che contengono alcuni
item di uso di oggetti, emergono in questa area particolari difficoltà.
17
Anche lo sviluppo delle competenze costruttive del bambino con Sindrome di
Down è stato specificamente poco indagato. In una serie di ricerche che
hanno studiato principalmente lo sviluppo delle competenze percettivo
motorie dei bambini con Sindrome di Down, Stratford ha evidenziato una
capacità visuopercettiva non diversa da quella dei bambini normali, una
tendenza alla simmetrizzazione delle forme a scapito della loro complessità ed
una difficoltà ad utilizzare, in compiti costruttivi, le istruzioni verbali facilitanti.
Da numerosi studi risulta che i bambini con Sindrome di Down hanno uno stile
di apprendimento e di comunicazione specifici che possono essere così
sintetizzati: una caduta significativa nelle competenze linguistiche, soprattutto
nella produzione verbale che risulta atipica e inferiore alle capacità cognitive,
ed una relativa normalità delle competenze visuopercettive e prussiche che
appaiono compatibili con il livello complessivo e sono soltanto rallentate
rispetto all’età cronologica. Pertanto nel profilo cognitivo e neuropsicologico
dei bambini con Sindrome di Down sono presenti sia aspetti di atipica che di
ritardo.
I bambini con Sindrome di Wiliams presentano un profilo neuropsicologico
opposto al precedente caratterizzato da iperverbalismo, grave disprassia,
cadute visuospaziali e comportamento iperattivo.
In un lavoro di laboratorio sono stati messi a confronto bambini con Sindrome
di Down e Sindrome di Williams con ritardo mentale medio e medio-grave, di
età cronologica tra i 7 e 8 anni, attraverso l’analisi delle diverse competenze
motorie, visuopercettive, visuocostruttive, grafiche, linguistiche e simbolicorappresentative, ottenendo un profilo neuropsicologico che ha evidenziato le
diverse cadute e picchi in rapporto alle competenze attese rispetto all’età
mentale. I bambini con Sindrome di Williams presentavano
indipendentemente dall’età mentale una caduta significativa sia nelle
competenze visuopercettive sia nelle competenze visuocostruttive che si
ripercuotevano negativamente sul loro gioco e sulle loro prestazioni grafiche,
mentre era evidente un picco verso l’alto nella produzione verbale. Al
contrario nei bambini con Sindrome di Down era presente una caduta
significativa nella produzione verbale accompagnata da prestazioni compatibili
con l’età mentale in compiti visuopercettivi e visuocostruttivi. Le competenze
motorie posturocinetiche non differenziavano in modo significativo i due
gruppi ed erano compatibili con le attese in base all’età mentale.
I dati riguardanti i bambini con Sindrome di Down sono stati ulteriormente
approfonditi allo scopo di valutare l’incidenza del fattore cognitivo globale sul
profilo neuropsicologico e di evidenziare la presenza di eventuale strategie
atipiche nelle risoluzione di un compito prassico costruttivo. In altre parole si
è valutato se e come il grado di gravità del deficit intellettivo influenzi o
modifichi il profilo neuropsicologico tipico della Sindrome di Down. A questo
proposito vengono riportati i profili di due soggetti con Sindrome di Down con
la stessa età cronologica con diversa età mentale.
18
A.N. è un soggetto con Sindrome di Down e Ritardo Mentale di grado medio,
ha un‘età cronologica di 8 anni e un’età mentale di 4. Ha presentato un
ritardo nell’acquisizione della deambulazione autonoma che è stata raggiunta
a 21 mesi; attualmente presenta una globale goffaggine motoria pur essendo
in gradoni andare in bicicletta. Ha una buona capacità visuopercettiva che
risulta essere addirittura superiore alle attese. Sul piano prussico è autonomo
per quanto riguarda le prassie concernenti le attività di vita quotidiana. A
livello grafico può rappresentare diversi oggetti se pur in modo molto povero
e schematico. Dal punto di vista del linguaggio verbale comprende fino a tre
consegne verbali se date in sequenza. In una prova di comprensione di
strutture sintattiche fornisce prestazioni compatibili con la sua età mentale,
mentre nella produzione verbale ha un frase di tre elementi con dislalie,
elisioni dei funtori e a volte anche del verbo.
S.C. è un soggetto con Sindrome di Down e Ritardo Mentale di grado medio
grave, ha un’età cronologica di 7.5 anni ed un’età mentale di 2.5 anni.
Presenta un consistente ritardo nello sviluppo motorio: la deambulazione
autonoma è comparsa a 28 mesi, attualmente sa salire e scendere le scale
alternando ma non sa ancora pedalare. Le sue competenze visuopercettive e
visuospaziali sono compatibili con la sua età mentale. Sul piano prassico ha
raggiunto una parziale autonomia nelle principali attività di vita quotidiana.
Dal punto di vista grafico spontaneamente esegue uno scarabocchio
spiraliforme, se guidato con istruzione verbale riesce a raggiungere i
particolari del viso, scrive la lettera A preparandosi da solo i puntini. Ha una
comprensione verbale limitata ad un ordine; la produzione verbale è
particolarmente compromessa, si esprime con frasi al massimo di due
elementi senza il verbo. Usa frequentemente uno pseudolinguaggio. Nella
prova di costruzione del ponte è in grado di produrre lo schema solo se
vengono diminuiti gli elementi a disposizione, non lo sa denominare né
utilizzare in modo funzionale; è da notare il ridotto numero di schemi
costruttivi prodotti e l’assenza completa del linguaggio che accompagna la sua
attività costruttiva.
Conclusioni
I dati che sono stati esaminati permettono di trarre alcune conclusioni
generali sulla qualità e la natura delle difficoltà motorie e prussiche dei
bambini con Ritardo Mentale e, nello specifico, sui bambini con Sindrome di
Down.
Tutti i bambini con Ritardo Mentale (RM) dimostrano, se pur in
diversa
misura, una difficoltà nello sviluppo e nell’uso degli schemi prassici, questa
difficoltà assume una diversa qualità e una diversa espressività in relazione
con la fascia di gravità del RM e con la sua eziologia.
In alcuni bambini con RM la difficoltà motoria assume le caratteristiche di un
vero e proprio disturbo “specifico” che sembra compromettere selettivamente
lo sviluppo della prassia ideativi e di conseguenza la formazione di schemi
simbolici così come la messa in atto dei programmi esecutivi.
19
a) I bambini con RM all’interno di una Sindrome di Down presentano
importanti difficoltà nello sviluppo posturo-cinetico che però non sembrano
compromettere lo sviluppo degli schemi prassici ideativi, le loro difficoltà
nel settore prussico sono pertanto caratterizzate principalmente da
difficoltà esecutive neuromotorie, compatibili con il loro deficit cognitivo di
base. Peculiare nei bambini con Sindrome di Down appare inoltre la
mancata integrazione dello strumento linguistico come guida alla
programmazione dell’atto motorio.
b) Tutti i bambini con RM, sia i bambini con difficoltà prussiche “specifiche”
sia bambini con problemi prassici compatibili con la loro organizzazione
cognitiva, presentano una tipica e persistente difficoltà nell’uso autonomo e
spontaneo degli schemi prassici posseduti e nella integrazione dell’atto
prussico all’interno di una mappa di significati.
20
6. IL PROGREDIRE DELL’ ETA’
Le migliorate condizioni di vita ed il progresso registrato in questo secolo nella
prevenzione e nel trattamento di molte malattie hanno portato ad un
incremento considerevole delle aspettative di vita.
Anche per i soggetti Down si è assistito ad un progressivo aumento della
durata media della vita: dai 9 anni stimati nel 1929 ai 12-15 anni del 1947
fino agli oltre 18 anni del 1961. Più recentemente Baird ha riportato come
l’80% circa degli individui con Sindrome di Down supera l’età di 30 anni, il
25% di essi raggiunge l’età di 50 anni. La “longevità” dei soggetti Down ha
permesso di evidenziare che una percentuale considerevole di tali individui
mostrano segni clinici di demenza.
L’associazione tra Sindrome di Down e demenza non è certo una scoperta dei
nostri giorni poiché fu notata già nel 1876 da Fraser e Mitchell:” In non pochi
casi, tuttavia, la morte è stata attribuita a nient’altro che un decadimento
generale, una specie di precipitata senilità…”. In epoche più recenti, numerosi
autori si sono interessati all’argomento e la maggior parte di essi ha
sottolineato come i cambiamenti neuropatologici nel sistema nervoso di adulti
con Sindrome di Down sono simili a quelli osservati nella malattia di
Alzheimer.
Su questa linea una grande quantità di ricerche è stata dedicata allo studio
comparativo di Sindrome di Down e Alzheimer. L’importanza di questi studi è
duplice: da un lato la conferma di un alto rischio di insorgenza di demenza
tra i soggetti Down fa sentire sempre più vivamente la necessità di
individuare strumenti per la diagnosi precoce; d’altra una maggiore
consapevolezza delle cause di tale associazione potrà fornire elementi utili per
la comprensione delle cause delle due condizioni morbose.
Neuropatologia
La presenza di alterazioni neuropatologiche Alzheimer-simili in individui con
Sindrome di Down (SD) è ormai un concetto appurato. La prima osservazione
rintracciabile nella letteratura risale a più di 60 anni fa. Jervis ha descritto la
presenza delle tipiche alterazioni neuropatologiche della malattia di Alzheimer
(placche senili, degenerazione neurofibrillare e spopolamento neuronale)
all’esame autoptico di 3 soggetti con SD deceduti in età adulta.
In uno studio post-mortem riguardante 100 soggetti con SD, si osservarono
alterazioni tipiche della malattia di Alzheimer in tutti gli individui deceduti
dopo i 35 anni. Sebbene i segni istologici della malattia emergano pienamente
dopo i 35-40 anni, Burger e Vogel hanno rintracciato la presenza di placche
senili già nella seconda decade di vita, con un incremento numerico e una loro
21
maggiore diffusione a partire dalla terza decade. Questi dati sono confermati
dai lavori di Ellis, Olson e altri autori.
Valutazione clinica e neurologica della demenza in soggetti con
Sindrome di Down
La difficoltà di individuare l’esordio di un deterioramento cognitivo nella SD
rende necessaria la ricerca di metodi di valutazione che risultino più sensibili
ed efficaci della semplice osservazione clinica. Si deve considerare, infatti, che
ci si trova di fronte ad individui in cui si intrecciano ritardo mentale,
l’eventuale decadimento intellettivo e le loro conseguenze sia sul versante
emotivo che relazionale.
Numerosi studi hanno evidenziato come un’adeguata valutazione
neuropsicologica permetta sia di documentare le differenti conseguenze
dell’invecchiamento in soggetti con ritardo mentale di eziologia diversa, sia di
identificare l’insorgenza del decadimento cognitivo in soggetti con SD.
Thase ha esaminato le abilità cognitive di 165 residenti istituzionalizzati con
SD confrontati con un campione di soggetti con ritardo mentale di altra
eziologia. La valutazione neuropsicologica comprendeva compiti attentivi, di
memoria a breve e lungo termine, di linguaggio (denominazione di oggetti e
colori) e di prassia. I soggetti con SD avevano prestazioni peggiori dei loro
controlli: i deficit erano più evidenti negli individui con SD di età superiore ai
50 anni.
In un recente studio Collacott ha valutato la frequenza di disturbi psichiatrici
nella SD in confronto a soggetti con Ritardo mentale di altra eziologia. I SD
presentano un’aumentata incidenza di disturbi di depressione, un’uguale
frequenza di autismo e una minore frequenza di disturbi della condotta, della
personalità e di stati schizofreno-simili. La presenza di depressione non
sembrerebbe correlabile ad una possibile fase iniziale del deterioramento
intellettivo, vista la notevole distanza temporale tra l’età di esordio di tale
patologia nel gruppo esaminato e l’età di esordio della demenza nei soggetti
con SD. La depressione però, se non diagnosticata accuratamente, potrebbe
rappresentare un fattore di ulteriore difficoltà nella valutazione clinica
tendente all’identificazione del deterioramento intellettivo.
Nell’ottica dell’identificazione dei possibili parallelismi tra Alzheimer e forme di
decadimento intellettivo degli individui con SD anziani e della reale incidenza
di tale decadimento, un maggior numero di studi sono stati indirizzati
all’esame di gruppi di individui SD di età diversa.
Nella valutazione di 50 soggetti adulti con Sindrome di Down, Wisniewski ha
riscontrato che il risultato delle valutazioni neurologica, psicologica e cognitiva
nei soggetti con più di 35 anni evidenziava performances inferiori a quelle dei
soggetti SD più giovani. In particolare, gli individui sopra i 35 anni
22
mostravano un’alta incidenza di deficit delle funzioni cognitive come la
memoria verbale recente, la memoria visiva immediata, difficoltà
nell’identificazione di oggetti (afasia-agnosia) e un vocabolario ridotto.
In un recente studio un gruppo di pazienti con Sindrome di Down sono stati
esaminati per mezzo di un’ampia batteria di test neuropsicologici. I risultati di
questo studio confermano che mediante un’adeguata valutazione
neuropsicologica è possibile evidenziare le variazioni del pattern cognitivo che
si producono nei soggetti con SD al crescere dell’età; tali variazioni sarebbero
distinguibili dalla presenza di un quadro demenziale vero e proprio e
sarebbero più frequenti di quest’ultimo. Si tratterebbe di una compromissione
della memoria a lungo termine e delle abilità visuo-spaziali e costruttive
associata ad un sostanziale risparmio della memoria verbale a breve termine
e delle funzioni linguistiche. Nei soggetti classificati come dementi si
assisterebbe, invece, ad una diffusa compromissione del funzionamento
cognitivo. Si potrebbe, quindi, ipotizzare l’esistenza di due modalità di
presentazione, l’una lenta e insidiosa, l’altra più brusca e rapidamente
invalidante, o in alternativa attribuire il primo quadro all’effetto
dell’invecchiamento fisiologico ed il secondo al sovrapporsi di un processo
demenziale vero e proprio.
Tale dicotomia ripropone il dibattito esistente sui cambiamenti cognitivi nella
malattia di Alzheimer: anche in questo caso si confrontano le ipotesi
dell’accelerazione dell’invecchiamento fisiologico con quella che individua la
presenza di un distinto processo degenerativo. In effetti il quadro di variazioni
cognitive evidenziate nei soggetti anziani con SD non dementi sono simili,
come sottolineato dagli stessi autori, a quanto osservato nei soggetti affetti
da Alzheimer in fase iniziale, ma tale quadro ricorda anche quanto si osserva
nell’invecchiamento normale, soprattutto per quanto riguarda le difficoltà nel
mantenere nuove informazioni nella memoria a lungo termine.
In conclusione, appare evidente l’importanza di definire sempre più adeguati
strumenti per l’analisi delle funzioni cognitive. Un’adeguata valutazione
neuropsicologica, basata sulle premesse teoriche derivate dall’esame di
determinati livelli cognitivi nei soggetti con Alzheimer, potrà forse permettere
l’individuazione dei primi elementi del deterioramento e una migliore
definizione patogenetica. Sarà di conseguenza possibile impostare adeguati
programmi terapeutici e di supporto al soggetto con Sindrome di Down e alla
famiglia, anche in questa fase di regresso delle capacità intellettivi.
23
7. IL COINVOLGIMENTO DEI GENITORI NEI PROGRAMMI DI
INTERVENTO PRECOCE
Nell’ultimo decennio il campo di applicazione dei programmi di intervento
precoce a favore dei bambini Down si è sostanzialmente modificato. Da forme
di intervento finalizzate esclusivamente alla stimolazione di precise abilità del
bambino, si è passati a differenti forme di intervento rivolte sia al bambino
che alla famiglia ed in cui vengono definiti e realizzati ruoli distinti per i
bambini, per le loro famiglie e per gli operatori.
L’accresciuta enfasi riposta sulla necessità di coinvolgere i genitori è
ricollegabile ad una molteplicità di fattori. Prima di tutto i genitori di bambini
con handicap sono diventati utenti di servizi sociali, riabilitativi e assistenziali
che anni fa non esistevano, e nel tempo hanno sicuramente migliorato la loro
capacità di richiesta e valutazione dei servizi a cui possono rivolgersi.
Parallelamente a questo si è sviluppata la tendenza da parte degli operatori
ad individuare le necessità del bambino congiuntamente a quella della
famiglia, sulla constatazione diretta o indiretta del fatto che le famiglie
possono avere bisogni specifici collegati alla presenza di un bambino con
handicap.
Oltre a questi fattori di natura esperenziale, ci sono stati numerosi contributi
concettuali che hanno rinforzato l’importanza del coinvolgimento dei genitori
nelle varie forme di intervento precoce. Tra gli altri, un ruolo significativo lo
ha sicuramente giocato il modello transazionale dello sviluppo formulato da
Sameroff (1991). In esso lo sviluppo del bambino è visto come il,prodotto di
interazioni continue e dinamiche tra il bambino, le esperienze offerte dalla
famiglia ed il contesto sociale. L’aspetto innovativo sta nel fatto che uguale
importanza viene riposta all’analisi degli effetti che la presenza del,bambino
comporta sull’ambiente può determinare sullo sviluppo del bambino.
Le modalità di coinvolgimento della famiglia nelle varie forme di intervento
sono state molto diverse fra loro. E questo dipende ovviamente dall’aderenza
ad un particolare approccio teorico.
Nei programmi basati sull’impostazione concettuale comportamentista, per
esempio, i membri della famiglia vengono sollecitati ad assumere un ruolo di
intervento diretto sul comportamento del bambino. In altri programmi l’analisi
dei bisogni della famiglia serve da presupposto per indirizzare un intervento
sui bisogni del bambino, perché costui e la sua famiglia sono visti come un
sistema integrato .
Nonostante la maggior parte degli studi realizzati attribuiscano una rilevante
importanza al coinvolgimento della famiglia nell’intervento diretto sul bambino
e di fatto lo realizzino anche se con modalità ed in misura diversa, ben pochi
autori si sono però posti il problema di una valutazione del prima e dopo
trattamento rispetto alla famiglia. In genere non viene mai offerto un quadro
24
delle caratteristiche familiari, sia relativamente allo status sociale e culturale,
sia relativamente alle aspettative e atteggiamenti dei genitori nei confronti del
bambino; e questo anche nel caso di programmi di tipo comportamentista, in
cui il coinvolgimento dei genitori è sistematico ed intenso.
Verranno presi in esame due modalità di intervento precoce: una che vede il
genitore assumere il ruolo di insegnante-terapista del proprio bambino ed
un’altra che considera il genitore come utente di un servizio.
1. Il genitore come insegnante-terapista. I programmi in cui il genitore è stato
coinvolto in qualità di insegnante o terapista del proprio bambino sono molti.
Sia pure con modalità diverse, il genitore, rappresentato tipicamente dalla
madre, ha assunto funzioni programmatiche, esecutive e di valutazione del
bambino, dopo un training intensivo effettuato dagli operatori che curavano la
realizzazione complessiva del programma di intervento. Un simile approccio è
esemplificato molto bene dalla Hanson che definisce il genitore come
“membro cruciale del team degli operatori”.
In questo tipo di programma l’obiettivo da perseguire è costituito dal
raggiungimento di alcune tappe di sviluppo che nel bambino Down sono
notoriamente ritardate, e lo “strumento” utilizzato è per così dire il genitore,
ritenuto a priori la persona più efficace nella stimolazione del comportamento
del bambino. Lo studio di Bidder ci offre un classico esempio di tale
metodologia : le madri dei bambini Down venivano sottoposte ad un training
iniziale della durata di 6 mesi presso il Centro (Development of Child Health,
Welsh National School of Medicine di Cardiff). Il training era finalizzato ad
istruire le madri sulle tecniche di stimolazione del linguaggio verbale, della
manipolazione, dell’autonomia personale e dell’interazione sociale del
bambino.
Le istruzioni date venivano eseguite dalle madri direttamente con il bambino
due o più volte al giorno. Il programma era rivolto principalmente alle madri,
ma queste venivano sollecitate a coinvolgere altri membri della famiglia (padri
e nonni) nell’educazione del bambino. Gli operatori del Centro non
effettuavano alcun tipo di intervento diretto sul bambino.
Nonostante la brevità del trattamento e l’esiguità del gruppo sperimentale (16
bambini Down di età compresa tra 12 e 33 mesi), l’autore conclude per una
positività dell’intervento sia rispetto ai progressi raggiunti dai bambini, sia
rispetto al cambiamento delle aspettative che si era venuto a creare nelle
madri.
Contemporaneamente all’estendersi di programmi di intervento precoce in cui
veniva richiesto al genitore di diventare a pieno titolo un membro dello staff
degli operatori, si sono andati sviluppando altri studi che consigliavano molta
cautela in proposito e ribadivano la necessità di una attenta valutazione del
processo di adattamento emotivo dei genitori all’handicap del bambino .
Alcuni autori in particolare hanno anche considerato gli effetti negativi che un
simile approccio può comportare. Spiker ha chiesto alle madri dei bambini
25
Down di 2-4 anni di descrivere le loro interazioni con i bambini mentre
eseguivano a casa le attività previste dal programma a cui avevano aderito.
Ebbene le madri dei bambini con livelli di sviluppo più bassi si dichiaravano
meno attente e meno felici delle madri dei bambini con livelli di sviluppo
migliori e vivevano con un senso di frustrazione queste difficoltà di rapporto
con i loro bambini. Shell ha indicato la possibilità per i genitori dei bambini
con handicap di vivere un’esperienza di BURN-OUT (una progressiva perdita di
energia e relativa sensazione di impotenza), derivante dalla constatazione di
quanto siano lenti i progressi di sviluppo del bambino rispetto alle aspettative
che si erano creati.
2. Il genitore come utente di un servizio. La letteratura relativa a forme di
intervento che vedono il genitore come utente di un servizio è piuttosto scarsa
e prevalentemente, riferita a famiglie con bambini affetti da altri tipi di
handicap. Le ragioni che spiegano tale fenomeno sono molte: una potrebbe
essere costituita dalla recente enfasi riposta a livello teorico sul ruolo della
famiglia nelle varie forme di intervento precoce e la relativa scarsa
conoscenza dei bisogni iniziali di questa; una seconda ragione la si può
individuare nella scarsità di esperienza da cui ricavare modelli proponibili alle
famiglie; una terza ragione infine può essere la difficoltà nel definire i limiti di
un coinvolgimento dei genitori nell’attuazione dell’intervento.
Complessivamente si può dire che gli studi realizzati concordano sulla
necessità di misurare gli effetti dell’intervento sia in termini da acquisizioni
raggiunte dal bambino (motricità, linguaggio, sviluppo cognitivo e sociale) sia
in termini di competenze e attitudine al cambiamento da parte del genitore.
L’individuazione dell’intervento basata su una valutazione dei bisogni familiari
costituisce un altro aspetto comune che ribalta l’impianto teorico alla base dei
programmi in cui il genitore partecipava attivamente all’esecuzione di attività
di stimolazione sensoriale e cognitiva. Il genitore è ora visto non più come
mediatore tra il programma e il bambino, bensì come soggetto avente dei
bisogni propri e come tale da aiutare nell’individuazione delle risorse e delle
opportunità che possono favorire lo sviluppo del bambino e l’adattamento
della famiglia.
Il Family Focused Intervention di Bayley (1986) offre una chiara
esemplificazione di tale prospettiva. Questo modello propone l’attuazione di
un intervento che si estrinseca in alcune tappe cruciali:
• una valutazione comprensiva dei bisogni del bambino e della famiglia;
• la formulazione di un’ipotesi di intervento;
• la discussione e l’accordo tra genitori e operatori rispetto agli obiettivi
da perseguire;
• una discussione temporale degli obiettivi;
• la realizzazione dell’intervento e la valutazione degli obiettivi raggiunti
sia rispetto al bambino che rispetto alla famiglia.
Si tratta, come si vede, di un modello complesso che implica la realizzazione
di un intervento pluridisciplinare e che si avvale quindi della collaborazione di
26
operatori esperti nei vari ambiti dell’intervento ( riabilitativo, educativo,
psicologico e sociale).
Considerazioni
Come è stato già menzionato, nei confronti dei bambini con Sindrome di
Down, si sono andati sviluppando da circa vent’anni a questa parte, una
notevole mole di programmi di intervento precoce. Partendo dal presupposto
teorico che più stimoli venivano offerti al bambino nei primi anni di vita, più
alti potevano essere i livelli di sviluppo raggiungibili, sono state allestite
metodiche di trattamento anche molto intense sul bambino, che utilizzavano
la figura genitoriale, prevalentemente la madre, come diretto esecutore delle
attività previste nei programmi.
L’analisi della letteratura relativa a tali programmi pone però molti dubbi
interpretativi. Si tratta in genere di studi sperimentali condotti senza gruppi
di controllo, di breve durata e privi di indicazioni necessarie a convalidare il
successo del trattamento ribadito dagli autori.
La grande variabilità del livello di sviluppo raggiunto dai bambini coinvolti nei
programmi, ci fa porre seri interrogativi sulle opportunità o meno di una
diffusione indiscriminata di tali programmi, senza tener conto delle
necessarie differenze individuali di crescita. Pensiamo che non sia possibile
applicare una stessa metodologia di intervento a bambini che pur avendo in
comune lo stesso tipo di handicap, sono sicuramente diversi in quanto a
personalità, stile di crescita, famiglia e ambiente sociale in cui vivono.
I risultati raggiunti da tali programmi, spesso positivi per il raggiungimento di
alcune tappe dello sviluppo a breve termine, non sembrano però durare a
lungo. Se ne deduce quindi la necessità di:
•
•
individualizzare l’intervento in base alle caratteristiche del bambino e
della sua famiglia;
avviare precocemente l’intervento, ma anche prolungarlo, sia pure con
obiettivi e metodiche differenti, oltre i primi anni di vita per affrontare
le problematiche che la crescita comporta nelle varie fasi del ciclo vitale
del bambino e della sua famiglia (struttura longitudinale
dell’intervento).
Fin qui abbiamo sempre parlato indistintamente del bambino e della sua
famiglia; rispetto al coinvolgimento di quest’ultima nei programmi di
intervento, grossi cambiamenti, ricordiamo, si sono verificati sia a livello
concettuale che operativo. La famiglia, in primo luogo i genitori, all’inizio era
considerata semplicemente come il tramite attraverso il quale realizzare
l’intervento. Nel tempo, le conoscenze sulle modalità di sviluppo del bambino
e sul contributo che la famiglia può dare in tal senso si sono molto modificate.
Da un intervento mirato esclusivamente al bambino stiamo passando
27
all’individuazione di modelli di intervento mirati al bambino e alla famiglia.
Probabilmente siamo ancora all’inizio di tale processo di cambiamento, non
solo concettuale ma anche di politica di servizi per l’infanzia. Nel caso di una
famiglia con un bambino con handicap, nel nostro caso Down, abbiamo sì
bisogno di individuare quelle che sono le necessità prioritarie del bambino
(mediche, educative e sociali) ma tali necessità vanno sempre rapportate in
primo luogo all’impatto emotivo che la presenza del bambino comporta sulla
famiglia e in secondo luogo alle risorse interne ed esterne da attivare perché
la famiglia possa affrontare una situazione così complessa.
In tale ottica i presupposti teorici basilari dell’intervento diventano:
1. la necessità che si tratti di un’attività interdisciplinare. Dal momento
che le problematiche collegate allo sviluppo sono così variegate,
l’intervento dovrebbe prevedere le possibilità di usufruire dell’apporto
di varie discipline come la medicina, l’educazione, la psicologia, etc., e
quindi di una pluralità di professionisti che lavorino in collaborazione e
offrano servizi che non si sovrappongano l’un l’altro;
2. i bisogni del singolo bambino non possono essere compresi al di fuori
del contesto familiare e, dal momento che la famiglia è un’unità
dinamica all’interno del più vasto sistema sociale, i bisogni della
famiglia non possono essere compresi al di fuori del tessuto sociale e
culturale a cui appartiene;
3. i risultati raggiunti da programmi che coinvolgevano i genitori in
qualità di insegnante-terapista del proprio bambino non giustificano la
continuazione di tale approccio, anzi producono serie preoccupazioni
rispetto alle conseguenze negative sulla vita familiare e sul rapporto
tra genitori e bambino. Andrebbe pertanto sempre mantenuta una
chiara distinzione tra le competenze degli operatori e le competenze
delle famiglie: di intervento diretto sul bambino gli uni e di
assunzione esclusiva di un ruolo gli altri.
28
8. LA RIABILITAZIONE DELLE DIFFICOLTA’ PRASSICHE
Il sistema prassico è un sistema multidimensionale che prevede l’integrazione
tra fattori neuromotori, neuropsicologici, cognitivo-simbolici ed affettivi. L’atto
motorio finalizzato (ovvero la prassia) consente al bambino di intervenire sulla
realtà conoscendola, modificandola e modulando se stesso in relazione ad
essa. La prassia quindi si configura come un continuum tra sistemi di
conoscenza e l’agire nel mondo del soggetto rispetto al proprio bagaglio
epistemologico ed al vissuto di sé.
Lo sviluppo prassico consiste essenzialmente nell’acquisizione di strategie
sempre più adeguate, economiche, rapide ed efficaci di “intervento
motorio” sulla realtà esterna.
Un atto motorio transitivo per essere efficace prevede:
a) una corretta elaborazione della realtà esterna che consenta l’azione di
meccanismi centrali di aggiustamento e compensazione rispetto al
campo di forze esterne;
b) l’individuazione di strutture coordinative di base attraverso le quali e
sulle quali sia possibile operare delle trasformazioni e che costituiscono
delle varianti organizzazionali in grado di raggiungere uno scopo,
modulabili dal soggetto attraverso la possibilità di orientare la ricerca e
di utilizzare tutte le informazioni utili.
Tutto questo è una sorta di prerequisito o comunque è parte integrante della
linea dello sviluppo epistemico che si organizza in epoca estremamente
precoce, attivata in modo diretto dalla realtà esterna. Il bambino percepisce
gli aspetti trasformativi della realtà ed è intrinsecamente spinto a
comprenderli scoprendo regolarità nella realtà interna ed esterna.
La costruzione del profilo di sviluppo
I livelli di analisi delle prassie che prendiamo in considerazione sono due
poiché riguardano sia la compilazione di un profilo di sviluppo complessivo, sia
l’analisi neuropsicologica della linea specifica motorio-prassica.
Per profilo di sviluppo si intende la posizione del bambino rispetto alle
singole linee di sviluppo esaminate sia in senso verticale, ossia rispetto
al livello raggiunto in ogni singola competenza (linguistico-comunicative,
motorio-prassiche, simboliche e cognitive), sia in senso orizzontale cioè
rispetto a tutte le possibile interazioni tra fattori cognitivi, emotivi ed
affettivi.
L’approfondimento del quadro prassico non può prescindere in nessun
bambino e tantomeno nei bambini con RM, in cui l’espressione privilegiata del
•
29
disturbo avviene a livello di integrazione tra competenze, dal definire una
modalità di funzionamento più generale. Inoltre la compilazione del profilo di
sviluppo risulta essere un momento estremamente importante dello stesso
processo riabilitativo poiché consente la conoscenza dei problemi in un
modello interattivo.
•
Il profilo neuropsicologico della prassia consiste in una batteria di prove
che indaga aree specifiche che concorrono alla costituzione dell’atto
prassico. Le aree prese in considerazione sono le seguenti:
1)
2)
3)
4)
5)
6)
7)
Funzioni neurologiche di base e delle competenze posturo-motorie;
Competenza percettiva (visuo-percettiva e percettivo-spaziale);
Competenza nell’uso del proprio corpo;
Competenza gestuale;
Competenza nell’uso dell’oggetto;
Competenza costruttiva,
Competenza grafica.
L’ipotesi di fondo di questo tipo di osservazione è che oltre ad indagini
sull’integrità di funzioni motorie e neurologiche di base tale da consentire un
uso del movimento libero da interferenze vincolanti, sia possibile compilare
una sorta di profilo interno rispetto alla competenza prussica. Tale profilo è
composto dall’area percettiva (raccolta, analisi e sintesi dei dati informativi)
come area integrata, e da linee evolutive diverse ed in parte autonome che
costituiscono la competenza prussica: quella gestuale, costruttiva, dell’uso
degli oggetti, dell’uso del proprio corpo e quella del grafismo.
In particolare la competenza dell’uso degli oggetti è l’area che risulta più
satura oltre che di fattori neuro-motori (controllo del movimento e di variabili
quali, ad esempio, vincoli o gradi di libertà che consentono la fluidità e la
rapidità), di fattori legati all’evoluzione delle capacità rappresentative
implicante lo sviluppo della conoscenza degli oggetti, e di fattori legati
all’apprendimento in relazione alla maturazione di competenze motorioprassico e di altre competenze.
Profili prassici dei bambini con ritardo mentale lieve
Ci si è proposti di individuare dei profili prassici del bambino con ritardo
mentale lieve ne i primi 5 anni di vita tentando di individuare i comportamenti
che caratterizzano ogni fascia di età secondo i criteri esplicativi sopra esposti.
Il profilo “pre-prassico” e prassico dei bambini con ritardo mentale lieve
rispetto alle varie fasce di età presenta:
30
- a 1 anno:
. I bambini mostrano un netto incremento della curiosità verso l’oggetto. Gli
schemi motori si modificano da schemi generici analitici rivolti a parti di
oggetti (es., mettere in bocca e ciucciare) e usati in totale assenza di controllo
visivo a prime combinazioni di schemi (es., portare alla bocca il biberon
rovesciandolo in posizione corretta) con un’iniziale supervisione della vista.
Prevalgono schemi di movimento quali agitare casualmente, lanciare o battere
mentre sono attratti maggiormente da caratteristiche intrinseche al
movimento piuttosto che da variazioni sensoriali o caratteristiche funzionali
dell’oggetto. La manipolazione è in genere limitata ad un unico oggetto,
tuttavia sono in grado di battere un oggetto contro l’altro compatibilmente
con il tipo di prensione (a rastrello) e con la stabilità della posizione (in genere
c’è un buon controllo del tronco in posizione seduta con difficoltà per le
variazioni di equilibrio per scarsità delle difese laterali).
L’attenzione è orientata prevalentemente o sull’adulto o sull’oggetto senza
che sia possibile condividere entrambe le situazioni. L’attenzione focale è
comunque breve, ma sollecitabile dall’adulto. L’oggetto sembra avere una
pregnanza soltanto momentanea, se viene nascosto alla vista scompare del
tutto.
- A 2 anni:
Con una certa variabilità hanno acquisito la deambulazione autonoma che
però viene controllata ancora con difficoltà ed utilizzata alternativamente ad
altri modi di spostamento (deambulazione quadrupedica, spostamento da
seduti). Non sono presenti decisioni rispetto a percorsi e raramente si
spostano per prendere qualcosa: in genere viene preso l’oggetto che si trova
sul loro percorso. In rapporto all’oggetto: si consolidano schemi di
esplorazione prefunzionale (battere, strisciare, scuotere) alternati a schemi
funzionali (esempio, pettinarsi) più per uso imitativo che per reale
comprensione, in quanto non sono applicabili a situazioni differenti. E’
maggiore il controllo del canale visivo e l’attenzione a particolari rilevanti
dell’oggetto, tuttavia hanno difficoltà a comprendere i rapporti reciproci di due
oggetti (ad es. la pallina nella bottiglia). Sfilano le ciambelline dall’asta, ma
con scarsa attenzione al compito. Nell’uso dell’oggetto meccanico non c’è una
chiara comprensione del nesso di causa/effetto: toccano il pupazzetto per
riprodurre il movimento, ma non sono i grado di riattivarlo. Ritrovano un
oggetto nascosto visibilmente sotto due schermi in sequenza, se lo
spostamento è invisibile si perde la traccia dell’oggetto. Compare
definitivamente l’uso dell’indicazione per chiedere talvolta associato a lalleggi
o a rare parole. Riconoscono alcune parti di sé (occhi, capelli, bocca),
costruiscono torri di due cubi, scarabocchiano imitando una direzione.
- A 3 anni:
Sul piano motorio è possibile un accenno alla corsa con la flessione del bacino
e l’antiversione del tronco, salgono le scale con appoggio, non le scendono se
non in posizione laterale e spesso servendosi dell’appoggio di entrambe le
mani come se non controllassero il dislivello percettivo-spaziale. E’ aumentata
l’attenzione agli oggetti nell’ambiente, lo spostamento avviene con la finalità
31
di raggiungere l’oggetto desiderato, anche se permane la tendenza a
muoversi poco e con poche strategie esplorative. Permangono strategie
motorie alternate in cui è evidente un progetto alterato (per sedersi salgono
in ginocchio sulla sedia e poi si girano su se stessi). Sul piano percettivo
riescono dopo più tentativi, ad inserire tre stampi nella tavoletta. Nell’infilare
le perle non riescono a centrare il buco con il filo: in tal caso le strategia si fa
ripetitiva o inefficace (ad esempio girano il filo dall’altra parte). Riescono a
svitare il tappo di una bottiglia; acquistano una maggiore consapevolezza
dell’uso funzionale di oggetti notevolmente aumentati sul piano quantitativo.
Tuttavia spesso l’uso è improprio sul piano motorio (occhiali posti al contrario,
posizionamento della cornetta del telefono o del pettine in modo sbagliato
rispetto alla parte del corpo). C’è un’iniziale possibilità di ricontrollo che
talvolta va sollecitata dall’adulto, ma che sempre più frequentemente è
autonoma. Il ricontrollo visivo sembrerebbe però quasi possibile solo dopo
aver agito. Nelle prassie costruttive riescono a riprodurre un treno allineando i
cubi, costruiscono una torre di quattro o più cubi; la strategia utilizzata è
tuttavia incerta. Nel gioco iniziano a strutturare sequenze (2 o 3) che si
appoggiano più al canale verbale e utilizzano maggiormente strategie
imitative. Il conflitto qui sembrerebbe sul piano prassico tra il non fare o il
fare imitando moduli preesistenti (imitazione differita). Le variazioni possibili
sembrerebbero a carico del verbale, che tuttavia rischia di sganciarsi
dall’oggetto che aveva inizialmente elicitato il gioco. Rispetto alla permanenza
dell’oggetto cominciano a rendersi conto dello spostamento invisibile sotto
due schermi, ma l’introduzione di un terzo fa perdere interesse per l’oggetto.
Nel grafismo è possibile l’imitazione di linee verticali e orizzontali.
- A 4 anni:
Sul piano motorio riescono a salire e scendere le scale con
appoggio monolaterale e alternando i piedi. Tuttavia la motricità è in genere
lenta, vengono espresse verbalmente auto-istruzioni e spesso preoccupazioni
nei confronti del movimento. Sanno correre e iniziano a pedalare. Sul piano
percettivo si adattano alla rotazione della tavoletta per la collocazione delle
figure geometriche, comprendono relazioni spaziali quali dentro/fuori,
sopra/sotto. Con l’oggetto permangono difficoltà di prensione che spesso ne
causano la caduta. Se l’uso funzionale degli oggetti più comuni sembra essere
consolidato, permangono però difficoltà di relazionare due oggetti tra loro (ad
es. appoggia la collana sulla bambola invece di infilarla, comprende l’errore,
ma invece di modificare dice: “attenta cade”). Mostrano difficoltà nell’infilare
la chiave nel buco o per aprire una scatola di sigarette. Sono ormai chiari i
nessi causa/effetto per oggetti semplici (es. caricare un pupazzo con la
chiave), ma non vengono risolti conflitti più complessi o che presumano
l’integrazione con altre capacità cognitive (ad es. riconoscimento di colore più
spinta bottone per far aprire una scatola). Di fronte a difficoltà nell’infilare le
perle compaiono strategie di rinuncia (“mi piace così”), tuttavia, se sollecitati
o aiutati nella modifica del movimento o della posizione del filo, portano a
termine il compito. Nelle prassie costruttive sono in grado di costruire un
ponte per progressivo avvicinamento al modello. Mentre si è consolidato l’uso
di gesti comunicativi o imitativi (ad es. quelli delle filastrocche), permangono
32
difficoltà nell’imitazione di gesti che presumano il controllo di segmenti
corporei o di gesti semplici con oggetti. E’ ormai stabile la permanenza
dell’oggetto: sono in grado di dire i nomi di oggetti che sono stati nascosti o di
partecipare a giochi di ricerca di oggetti nascosti. Il gioco simbolico risulta
articolato, sono in grado di far interagire due oggetti o pupazzetti tra loro, di
esprimere attraverso di essi capacità cognitive o di esplicitare stati d’animo
semplici. Lo sviluppo del gioco prevale sempre sul piano verbale rispetto
all’azione. Nel grafismo è ormai acquisito il modulo circolare ed un primo
prototipo di figura umana con l’aggiunta di gambe ad esempio con la testa; è
possibile l’attribuzione di significati alle produzioni grafiche. Sono in grado di
descrivere due o tre azioni in una figura.
- A 5 anni:
Sul piano posturo-motorio, se le difficoltà sembrano essere in generale
piuttosto risolte per compiti motori più globali (corsa, pedalare), prevale però
un atteggiamento di rifiuto del movimento, una notevole lentezza ed
inibizione motoria. In genere incontrano difficoltà a risolvere percorso e
preferiscono desistere. Sul piano percettivo sono in grado di ricostruire puzzle
di 4 pezzi, buona capacità analitica nel cogliere le differenze, peggiore la
capacità di sintesi (ricostruire ad es. un oggetto da un insieme di particolari).
Nelle prassie con gli oggetti c’è una difficoltà ad usare contemporaneamente
le due mani e due oggetti in relazione tra loro; anche rispetto a questa
competenza si nota che, al crescere delle difficoltà, preferiscono non fare o
lasciar fare agli altri. Nelle prassie costruttive il ponte è possibile anche senza
modello, possibile con aiuto e modifiche del modello iniziale come ad es. per
la costruzione di una porta. Permangono difficoltà nella riproduzione di gesti e
nel compiere gesti con o senza oggetto. Nel grafismo risultano complessi
disegni su copia da modello nel rispetto dei rapporti topografici tranne che per
moduli ormai acquisiti quali il cerchio e talvolta il quadrato; su richiesta di
disegno di oggetti tendono a riprodurre o moduli grafici semplici anche se
inadeguati, o particolari di oggetti. Tentano di spiegare ed espandere i tentavi
grafici scarsamente comprensibili con il linguaggio. Nel gioco simbolico
emergono giochi di ruolo con possibilità di introdurre variazioni di turni e
regole elementari non sempre comprese. Tuttavia questi elementi compaiono
in un gioco interattivo con l’adulto; nel gioco spontaneo è spesso il linguaggio
a prevalere con l’introduzione di elementi non sempre pertinenti o frasi
complesse su imitazione. Sono in grado di descrivere una sequenza di tre
azioni, non sempre mostrando una chiara comprensione dei nessi logici.
Controllano piccole quantità numeriche.
Nei bambini con ritardo mentale medio le difficoltà rilevate dai profili dei
bambini con ritardo mentale lieve aumentano per due ordini di fattori:
-
la maggiore distanza tra età cronologica ed età mentale comporta sia un
maggiore ritardo nell’acquisizione di competenze, sia una maggiore
difficoltà di integrazione all’interno della singola competenza e tra
competenze di domini diversi;
33
-
le maggiori dissociazioni consolidano l’uso di modalità imitative-ripetitive a
tutto svantaggio della possibile comprensione ed elaborazione della
situazione problemica.
Conclusioni
I profili di sviluppo che sono stati tratteggiati ed il percorso riabilitativo
descritto in dettaglio permettono di individuare da un punto di vista
qualitativo le alterazioni prussiche che sembrano essere comuni ai bambini
con ritardo mentale e che possono essere così schematizzati:
1. i bambini con ritardo mentale hanno difficoltà nel raccogliere e
selezionare le informazioni rilevanti sull’oggetto e sul tipo di attività da
compiere: spesso lo stimolo viene elaborato solo a posteriori, gli stimoli
percepiti sono solo quelli che entrano “vistosamente” nel campo visivo;
2. i bambini con ritardo mentale possiedono poche sub-routines motorie
modicamente adattabili ed in relazione con la comprensibilità della
situazione; entro certi limiti non vengono messi in crisi
dall’inadeguatezza della strategia soprattutto se risulta inalterata
l’efficacia (che è maggiore con oggetti semplici);
3. i bambini con ritardo mentale mostrano problemi di memoria motoria e
quindi di apprendimento in relazione a strategie di memorizzazione
inadeguate o che non consentono operazioni immediate di shifting nei
meccanismi di controllo.
Sul piano delle competenze gnosico-prassiche la conoscenza dell’oggetto
sembra assumere una centralità rispetto al dato evolutivo: la competenza
nell’uso dell’oggetto integra fattori motorio-prassici, cognitivi, simbolici ed
affettivi. I bambini con ritardo mentale non mostrano dei veri ritardi motori,
ma semmai un uso del movimento (al di là dell’ipotonia comunque esistente)
che non riesce a tener conto delle caratteristiche situazione/contesto.
La riabilitazione del bambino con ritardo mentale non deve mirare al
raggiungimento di “tappe motorie” inutilizzabili: la centralità dell’oggetto
rispetto al trattamento riabilitativo può modificare tale errore favorendo
l’emergere di condotte pre-simboliche integrate e lo sviluppo di strategie
esplorative intra ed inter-sensoriali.
Lo sviluppo cognitivo è finalizzato essenzialmente alla sistematizzazione di
conoscenze: l’azione sull’oggetto, la ripetizione dell’esperienza consente
operazioni di codifica/decodifica della realtà e di “accomodamento” rispetto a
questa. Gli apprendimenti di senso (in grado di integrare informazioni
percettive, motorie, affettivo-emozionali) sembrano essere maggiormente
deficitari nei bambini con ritardo mentale: è il senso delle cose ad essere
alterato poiché non è riconoscibile tramite le sue caratteristiche spaziali,
34
temporali ed emotive. Dare il senso ad un evento significa riconoscerne il
valore cognitivo e la tonalità affettiva nel momento in cui avviene sulla base
di un’interazione significativa: l’oggetto come elemento condiviso può essere il
perno su cui si “ricuciono” le spinte evolutive comunque esistenti.
La seduta di terapia diviene allora il momento in cui vengono rigiocati sul
piano interattivo dinamiche, azioni, emozioni con l’aiuto di un operatore
consapevole del profilo di quel bambino specifico e quindi delle sue specifiche
difficoltà. L’interazione terapeutica ha l’obiettivo di mediare il processo di
apprendimento rendendo decodificabili alcune situazioni di per sé percepite
come irrilevanti per la non riconoscibilità o la non integrabilità delle
informazioni disponibili.
Da tutto ciò emerge chiaramente l’indicazione per i bambini con ritardo
mentale in cui siano visibili i rischi di una disarmonizzazione evolutiva dello
sviluppo delle varie competenze, l’indicazione e l’utilità di un intervento
terapeutico precoce. Tale precocità è essenziale per evitare la comparsa di
importanti dissociazioni ed il conseguente instaurarsi di comportamenti atipici.
Inoltre se pur la componente ritardo sembra caratterizzare il quadro
patologico, alcuni comportamenti, quali ad esempio conoscere l’oggetto
manipolandolo, hanno un senso solo se età specifici (compatibilmente con
l’età mentale e quindi con le risorse utilizzabili dal bambino), prima che
strategie di tipo compensatorio attivino comportamenti atipici. La precocità e
la finalità di preservare una possibile integrazione tra competenze sono
importanti anche per prevenire l’instaurarsi di disturbi comportamentali o di
veri e propri quadri psicopatologici.
Infine ci sembra opportuno tentare di una ridefinizione del concetto di tempo
nel ritardo mentale. Il tempo è percepito dai genitori e dagli operatori come
centrale nel ritardo mentale creando nei genitori delle false aspettative molto
spesso frustrate ( “se è in ritardo prime o poi recupererà”) e nell’operatore la
sensazione di dover in un certo senso “velocizzare” le procedure (qualitativoquantitative) per ottenere dei risultati. Questa interpretazione confusiva del
disturbo finisce col nascondere quella che è la giusta “lettura” del tempo nel
bambino con ritardo mentale: un tempo di comprensione e apprendimento
che è diverso, più lento, e che produce dei risultati non solo diversi, ma
specifici per ogni bambino. Non è la clessidra lo strumento di rilevazione dei
benefici ottenuto dal bambino dal trattamento riabilitativo, ma il parametro
centrale deve essere l’adattività dei comportamenti nei confronti della
situazione ambientale e la possibilità di integrare variabili cognitive con
variazioni emotivo-affettive.
In questa ottica gli interventi terapeutici devono consentire comunque al
bambino con ritardo mentale ed alla sua famiglia un’organizzazione di vita che
non sia centrata solo di essi. La ripetizione dei cicli di terapia che consentano
un’alternanza per la famiglia e per il bambino tra tempi di “stimolazione” e
tempi di “elaborazione” sembra essere una delle strategie più efficaci.
35
9. EDUCAZIONE AL LINGUAGGIO
Per impostare un progetto educativo e riabilitativo corretto bisogna aver
chiaro a quali modelli teorici far riferimento, conoscere strumenti appropriati
per la valutazione, con la consapevolezza che, per ogni bambino, va
considerata la necessità di un intervento individualizzato e mirato al livello di
competenza, alle diverse fasce d’età ad agli obiettivi da raggiungere.
La messa a punto di un programma di intervento è correlata all’osservazione,
ai dati della valutazione ed inoltre alle ipotesi prognostiche, è comunque
fondamentale considerare nel corso dell’intervento, la modificabilità delle
condizioni del bambino nelle varie aree e competenze, rispetto alla qualità dei
cambiamenti, oltre che alla quantità.
Nell’educare al linguaggio si ritiene di dover porre estrema attenzione, nelle
prime fasi dello sviluppo della comunicazione, all’intima correlazione esistente
tra i vari sistemi (affettivo, comunicativo , socio-ambientale, cognitivo,
attentivo-percettivo e linguistico) in termini non solo di sviluppo di funzioni
isolate, ma di processi che si devono attivare ai fini dello sviluppo del
linguaggio. Via via poi che emergono funzioni fondamentali per lo sviluppo
linguistico, l’attenzione verrà posta in senso più specifico sulle capacità
linguistiche vere e proprie (fase verbale), in senso sia formale che funzionale
e rispetto sia alla comprensione che alla produzione.
Va in tal senso attentamente considerato a seconda dei diversi livelli di
sviluppo di ogni bambino:
•
•
•
•
•
quali competenze sono da privilegiare in ordine di sviluppo;
qual è la qualità dell’interazione comunicativa che il bambino vive sia in
ambito familiare, che nei diversi contesti sociali (famiglia, nido, scuola)
e quindi qual è la qualità dell’input linguistico che riceve;
quali sono le attività di vita quotidiana ed in quale contesto vengono
esplicate;
qual è il livello di competenza comunicativa e linguistica acquisito fino a
quel momento dal bambino nei diversi settori specifici del sistema
linguistico;
qual è la fase evolutiva da un punto di vista cognitivo-percettivo e
attentivo.
Vanno evidenziati, più precocemente possibile, deficit di tipo strumentale,
tenendo conto che anche questi possono contribuire ad un ritardo
nell’acquisizione del linguaggio, ad es. nei bambini con Sindrome di Down,
problemi a livello motorio, prassico, percettivo-uditivo possono contribuire a
ritardare lo sviluppo del linguaggio.
Dopo queste premesse, il tema verrà, dunque, sviluppato secondo due linee
fondamentali:
36
•
la prima terrà conto delle fasi di acquisizione del linguaggio e
dell’importanza di un intervento precoce, intendendo con questo termine
porre attenzione ai vari aspetti dell’interazione, partendo dalla relazione
madre-bambino, dagli aspetti della comunicazione preverbale e
dall’input linguistico che il bambino riceve;
•
la seconda affronterà l’argomento dell’educazione al linguaggio in senso
più specifico, considerando le precise difficoltà che il bambino con
Sindrome di Down presenta proprio nello sviluppo di questa competenza.
Prime fasi dell’acquisizione del linguaggio
Il linguaggio parlato rappresenta la continuazione di una serie di
apprendimenti già avvenuti, che ne costituiscono i presupposti indispensabili.
Il bambino “impara a parlare” sin dalla nascita, anche se la “parola”,
l’espressione verbale, non si sviluppa prima che abbia circa un anno. L’uso
della lingua parlata viene trasmesso dal contesto sociale, attraverso la
dimostrazione dell’efficacia di una varietà di atti comunicativi. Per sviluppare
la comprensione e l’uso del linguaggio parlato, è dunque, determinante
l’apporto degli adulti e soprattutto il modo in cui essi si pongono nei confronti
del bambino, rispondendo alle sue esigenze di comunicazione e di relazione.
E’ perciò estremamente importante che si instaurino rapporti costanti tra i
genitori del bambino con Sindrome di Down ed i vari specialisti (medici,
terapisti della riabilitazione, psicologi) che debbono sostenere, aiutare e far
capire a coloro che si occupano del bambino, quale è il modo più adeguato di
interagire con lui.
Lo sviluppo prelinguistico, nella maggior parte dei bambini con Sindrome di
Down, è solo moderatamente ritardato, ma delle differenze qualitative sono
comunque osservabili anche in questa fase.
Nella comunicazione preverbale rispetto agli scambi ed alle interazioni
comunicative che avvengono tra madre e bambino, va ricordato il contatto
corporeo. Grazie alla comunicazione corporea con la madre, il bambino
arriva a stabilire i confini del proprio corpo, ad individuare i propri mezzi
motori ed ad acquisire autonomia ed intenzionalità nei movimenti che,
all’inizio del tutto involontari, vengono a poco a poco ad acquisire significati
espressivi, come ad es. l’afferrare un oggetto, la mutualità di sguardo. Va
ricordato, a tal proposito, che i bambini con Sindrome di Down presentano
una “ipotonia diffusa” che non facilita i loro movimenti, sia in senso globale
più grossolano, sia in senso di motricità fine. Spesso, inoltre, insuccessi e
delusioni nelle aspettative della madre scoraggiano ulteriori stimolazioni e
tentativi di scambio tra madre e bambino.
Anche per quanto riguarda i primi segnali comunicativi quali il pianto, il
sorriso, le vocalizzazioni, il contatto oculare, il turn-taking, cioè l’alternanza di
37
scambi vocali, si è evidenziato un ritardo di sviluppo ed un deficit abbastanza
consistente.
Il bambino con Sindrome di Down viene spesso descritto come un bambino
“buono” o anche “pigro”, che non fa rumore, non richiede molte attenzioni da
parte dell’adulto ed è in generale meno rispondente alle stimolazioni verbali e
non verbali. E’ importante, invece, sapere che il bambino va incoraggiato
molto e spinto a prendere iniziative, sia da parte della madre, che dell’adulto
che si prende cura di lui. Anche se non è facile ottenere subito una buona
interazione, questa va comunque ricercata costantemente nelle varie fasi di
sviluppo del bambino, dalle prime vocalizzazioni ai giochi di routine con o
senza oggetti sonori, al gioco del cucù ed ad altri giochi convenzionali.
Durante la fase di vocalizzazione, da molti viene posto l’accento
sull’importanza ed il ruolo dell’alternanza di scambi vocali, che motorizza ed
influenza il comportamento del bambino.
I bambini con Sindrome di Down tendono a vocalizzare in successione
continua, non rispettando il turno e cioè con pause molto ravvicinate. Tale
deficienza del turn-taking che viene rilevato lento a svilupparsi, e spesso
atipico con fasi di contemporaneità o “urti vocali” tra madre e bambino,
merita grande attenzione in quanto è stato ipotizzato che questa abilità sia da
considerarsi precursore di ulteriori sviluppi comunicativi e linguistici. Non
sembrano, invece, esserci differenze quantitative o qualitative nella fase di
lallazione e di babbling canonico, che da un punto di vista fonetico segue lo
stesso sviluppo del bambino normale.
E’ invece sull’uso delle vocalizzazioni e quindi degli aspetti fonologici che i
bambini con Sindrome di Down sembrano essere deficitari. Rispetto alla fase
preverbale e ai segnali comunicativi, va sottolineata, ancora, l’importanza del
“contatto oculare”, in quanto espressione dell’attenzione condivisa tra madre
e bambino ai fini dello sviluppo cognitivo e linguistico. Infatti il contatto di
sguardo va considerato come fondamentale segnale comunicativo, precursore
di richieste intenzionali per agire o ricevere informazioni.
Lo scambio di sguardi significativi accompagnati da vocalizzazioni crea nelle
prime fasi dell’interazione l’impressione di una “ conversazione” che, invece,
manca al bambino con Sindrome di Down. Berger-Cunningham, hanno
studiato il contatto oculare tra madre e bambino nei primi 9 mesi di vita. I
bambini con Sindrome di Down mostrano un ritardo nella comparsa di questo
comportamento di due mesi circa e ritardi nella frequenza d’uso del
comportamento appreso. Essi tendono, più che ad uno scambio di sguardo
con la madre, ad utilizzare lo sguardo della madre come indice per scoprire a
che cosa può riferirsi vocalmente.
Queste difficoltà di contatto oculare possono essere intese anche come
difficoltà nella formazione del legame madre-bambino ed in seguito come
38
incapacità di attenzione selettiva per il volto dell’adulto e come deficit di
sguardi referenziali anche per gli oggetti.
Anche l’incapacità di prolungare l’attenzione su uno stimolo può venire
interpretata come conseguenza di un mancato uso di scambi di sguardi
significativi. Ma a tale proposito merita comunque ricordare che il bambino
con Sindrome di Down presenta spesso difficoltà di sguardo, inoltre presenta
iperfissazione e deficit di scanning visivo. Questi deficit andrebbero valutati e
presi in considerazione precocemente, tenendo conto dell’importanza di tale
funzione di base per l’apprendimento e lo sviluppo di altre attività più
complesse come, ad esempio, la deambulazione, la coordinazione occhiomano, la lettura, la scrittura.
Il significato e la funzione degli atti comunicativi nella fase preverbale, nel
senso di indici precursori per la comparsa delle prime parole, è stata
esaminata da Greenwald e Leonard (1979) rispetto alla presenza e all’uso di
gesti deittici nei bambini con Sindrome di Down. I comportamenti esaminati
sono stati l’uso dei gesti: indicare, mostrare, prendere, dare, accompagnati
da scambi e contatti di sguardo ed espressioni vocali. E’ stato evidenziato che
i bambini con Sindrome di Down usano più gesti e meno vocalizzazioni
rispetto ai bambini normali, scelti allo stesso stadio di sviluppo sensomotorio.
La tendenza, quindi, di questi bambini a farsi capire e comunicare usando
molto la mimica facciale, i gesti referenziali oltre che l’utilizzazione dell’adulto,
confermerebbe l’ipotesi, ripresa da molti autori di un ritardo “specifico”
nell’espressione verbale. In questa fase di sviluppo è importante considerare
inoltre la capacità ludica ed il gioco simbolico, che correlano sempre con lo
sviluppo della competenza linguistica.
Spesso l’utilizzazione degli oggetti è di tipo perseverativo e raramente le
azioni funzionali con l’oggetto sono inserite in un progetto ludico, con un inizio
ed una fine.
Inoltre il loro gioco non è veramente simbolico, ma piuttosto un’imitazione
differita: soprattutto carente è la sequenza nel gioco simbolico.
A livello educativo-terapeutico, quindi, vanno distinti questi diversi aspetti; va
comunque progettato un intervento che aiuti il bambino a superare queste
specifiche difficoltà, creando situazioni ludiche adatte al livello di sviluppo di
ogni singolo bambino; i vari punti finora considerati vanno intesi come parte
di un programma che va condotto insieme ai genitori e a coloro che si
prendono cura del bambino, più precocemente possibile, addirittura sin dalla
nascita.
Fase linguistica
Numerose ricerche hanno messo in luce un marcato ritardo nell’acquisizione
del linguaggio nei bambini con Sindrome di Down; in particolare di è
evidenziato che le loro abilità linguistiche, ad ogni stadio dello sviluppo (dalla
39
primissima infanzia all’età adulta) sono al di sotto del livello atteso rispetto
alla loro età mentale e presentano particolari atipie.
C’è comunque da tener presente che all’interno della Sindrome di Down esiste,
come abbiamo detto, una grande variabilità tra i soggetti sai rispetto allo
sviluppo cognitivo, sia rispetto allo sviluppo motorio o a deficit di altro tipo e
soprattutto rispetto al deficit linguistico.
A tutt’oggi non sono chiari i fattori e le cause di questa variabilità anche se
molte ipotesi sono state avanzate rispetto all’incidenza di fattori geneticiorganici, biologici, ambientali e comportamentali. Su quanto osservato, un
dato rimane certo: pochi soggetti con Sindrome di Down sono così
handicappati da non sviluppare affatto il linguaggio, pochissimi sono così poco
handicappati da avere un funzionamento linguistico “normale”.
Importante dunque raccogliere dati specifici con metodo ed esattezza così da
poter meglio comprendere, e forse risolvere la vecchia questione, se i soggetti
ritardati sviluppano il linguaggio nello stesso modo dei non ritardati (ipotesi
quantitativa) o se il loro sviluppo linguistico sia del tutto, o più probabilmente
differente (ipotesi qualitativa).
Per affrontare correttamente il tema dell’educazione al linguaggio bisogna
tenere presente:
1) la continuità tra la fase pre-linguistica vera e propria;
2) l’importanza del contesto cioè del significato che lo scambio
comunicativo tra l’adulto e il bambino assume in ogni particolare
situazione sia in comprensione che in produzione;
3) Il feed-back che il bambino riceve nei suoi sforzi e nei suoi tentativi di
comunicazione;
4) gli aspetti “specifici” del deficit di comunicazione (come dire che lo
sviluppo non procede per tappe consequenziali come spesso avviene
nel bambino normale), ma ci possono essere atipie e lunghi arresti tra
una tappa e l’altra, che vanno considerati attentamente.
L’intervento deve dunque essere specifico nei diversi settori linguistici che
risultano deficitari, tenendo conto delle intime correlazioni esistenti all’interno
del sistema tra produzione e comprensione e tra diversi aspetti formali e
funzionali.
Quando si parla di aspetti formali si vuole intendere gli aspetti fonetici,
morfologici e sintattici, mentre parlando di aspetti funzionali ci si riferisce
all’uso e alle funzioni linguistiche cioè la funzione dialogica, discorsiva e
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narrativa. Vanno inoltre considerati gli aspetti legati al contenuto (lessicosemantica) e gli aspetti pragmatici.
A livello di produzione verbale nei bambini con Sindrome di Down si
riscontrano sempre problemi di articolazione e deficit sia a livello fonetico che
fonologico. Anche a livello della singola parola la produzione è spesso
inintelligibile e tale problema si riscontra fino all’età adulta. Bisogna a tale
proposito considerare la differenza tra la funzione o abilità fonetica e
fonologica.
Il bambino sa a volte articolare quasi tutti i suoni della lingua (livello fonetico)
ma “l’organizzazione” dei suoni che isolatamente egli sa e può produrre, cioè
il passaggio da categorie fonetiche a categorie fonologiche implica un’abilità
superiore a livello cognitivo che è appunto l’abilità di analisi sequenziale. Il
bambino deve non solo conoscere come utilizzare il patrimonio che possiede,
ma anche saperlo organizzare in sequenze ravvicinate (coarticolazione).
Nel progetto terapeutico quindi il bambino deve essere implicato
“attivamente” e nel corso del trattamento va aiutato a “controllare” le sue
capacità articolatorie non isolatamente ma nella coarticolazione. Alcuni
accorgimenti in tal senso vanno attuati più precocemente possibile e cioè il
bambino va aiutato a porre attenzione ai “suoni” della lingua, sia a livello di
produzione, ma soprattutto a livello recettivo, ad esempio con associazioni
visivo-auditive. Gli vanno fatte osservare le varie posizioni articolatorie
mentre lui stesso produce i diversi foni, facendogli capire le opposizioni
fonetiche rispetto al cambiamento di significato di parole fonemicamente simili.
Il bambino va incoraggiato a produrre i suoni intenzionalmente (a comando e
poi per imitazione); e si può far uso del tatto o di visualizzatori delle voce e
non appena possibile di filastrocche, scioglilingua, canzoncine con rima.
Prima dell’intervento terapeutico è importante capire come il bambino utilizzi
nella catena fonica i fonemi che possiede e studiare accorgimenti e
facilitazioni per stimolarne l’uso corretto. Va visto inoltre quali tratti siano più
frequentemente usati in maniera errata quali cioè rendono il messaggio più
confuso ed ingarbugliato, sì da intervenire con scelte terapeutiche mirate. In
ogni caso è essenziale far capire al bambino che alcuni suoni possono essere
associati a precisi significati; stimolare quindi la comprensione e la produzione
delle prime parole, utilizzando, ad esempio, giocattoli in miniatura e
soprattutto facendo riferimento ad esperienze di vita quotidiana. Per
impostare una terapia corretta bisogna comunque partire da una corretta
valutazione e dalle competenze che il bambino possiede, tenendo conto che,
diverse funzioni comportano gradi diversi di abilità.
La rieducazione deve, quindi, avvenire in tutti i contesti dell’uso della lingua:
si può e, spesso, si deve partire dall’impostazione di suoni singoli, ma bisogna
che poi il bambino li usi nei vari contesti e soprattutto per funzioni diverse
quali ad es. la denominazione di oggetti o figure, la conversazione, la
descrizione di scene, il racconto di storie in sequenza, ecc.
41
Ancora a scopo riabilitativo e soprattutto preventivo va tenuto conto di alcune
cause che possono incidere sullo sviluppo del linguaggio del bambino con
Sindrome di Down:
otiti medie frequenti che possono compromettere la finzione uditiva e
quindi procurare una moderata perdita di udito. Nei bambino con
Sindrome di Down va periodicamente controllata la funzione uditiva in
quanto un deficit uditivo anche lieve può influire sulla discriminazione
percettiva uditiva e quindi sulla competenza fonologica. Questo ci
aiuterebbe a spiegare i deficit e le atipie negli aspetti fonologici e
soprattutto nella memoria fonologica a breve termine che viene
considerato un fattore correlato di fondamentale importanza per
l’acquisizione del vocabolario e che spesso è deficitaria nei bambini con
Sindrome di Down. Inoltre il deficit uditivo inteso come “impercezione
uditiva” potrebbe essere causa di un più ampio deficit di comprensione
linguistica;
il ritardo nello sviluppo motorio e soprattutto “l’ipotonia” generalizzata
possono causare problemi nel controllo degli organi fono-articolatori
(lingua, labbra, velo) e nelle prassie relative a questi organi oltre che
nella coordinazione respiratoria ai fini dell’espressione verbale. Uno
studio longitudinale nei bambini con Sindrome di Down ha messo in
luce che il tono muscolare può essere considerato un potente indice
predittivo dello sviluppo del linguaggio a 36 mesi. E’ importante che, i
genitori ed il personale del nido o chi si occupa del bambino siano
messi al corrente ed aggiornati costantemente sul progetto educativo e
sugli obiettivi che via via ci si pongono, in modo che il bambino venga
da più parti incoraggiato ed aiutato nel raggiungimento di tali obiettivi.
Va precisato però, che i genitori dei bambini con Sindrome di Down non
devono assumere il ruolo di terapisti; diverso è invece sapere che cosa è
possibile ottenere in quel momento dal proprio bambino, adeguare le
aspettative alle reali possibilità del bambino stesso ed agire appropriatamente
per aiutarlo. La terapia specifica (del linguaggio, della motricità,
dell’apprendimento) va invece di volta in volta garantita precocemente da
personale specializzato e dovrebbe avere valenza non solo riabilitativa, ma
anche preventiva. Ciò significa che non è giusto aspettare, come spesso
avviene, che il bambino accumuli un grosso ritardo nel linguaggio o inizi a
parlare “male”; una serie di interventi su settori correlati al sistema linguistico
stesso possono garantire un esito migliore rispetto alle possibilità di
apprendimento del linguaggio ed in seguito anche alla lettura e scrittura,
abilità intimamente correlate al linguaggio.
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10. ASPETTI RELAZIONALI
Possiamo dire che grazie all’inserimento nella scuola normale, le persone con
Sindrome di Down sono più conosciute socialmente in Italia che in qualsiasi
altro paese. Chi lo afferma fa parte dell’Associazione Bambini Down, un’équipe
costituita da medici, psicologi, assistenti sociali e genitori. Dal 1977 ad oggi
ha visto una media di 210 famiglie all’anno ed in seguito numerose famiglie
appartenenti all’area romana.
In un lavoro precedente sono state descritte le diverse tappe dello sviluppo
oggettuale di alcuni bambini Down osservati a casa in modo sistematico nei
primi due anni. Ci si è avvalsi inoltre dei risultati dei colloqui con genitori ed
insegnanti per verificare che lo sviluppo oggettuale delle persone con
Sindrome di Down avvenga secondo le stesse tappe delle persone non Down
ed avvenga in alcuni casi negli stessi tempi o anche prematuramente rispetto
alla norma.
In questo contesto sembra utile accennare brevemente al contributo teorico di
Margaret Mahler che ha descritto le diverse fasi dello sviluppo normale del
bambino, cercando di integrare gli aspetti dello sviluppo emozionale con quelli
dello sviluppo motorio e cognitivo. “L’osservazione dei fenomeni motori,
cinestetici e gestuali…… può permettere di intuire che cosa avvenga all’interno
del bambino; in altre parole i fenomeni motori sono correlati agli eventi
psichici. Ciò è particolarmente vero nei primi anni di vita” (M. Mahler, 1978).
Essa descrive la nascita psicologica del bambino come un emergere dalla
sfera simbiotica in cui è racchiuso con la madre all’inizio della vita.
Il bambino alla nascita non sa bene la differenza tra sé e la madre, non sa
ancora cosa appartenga a lui e cosa sia fuori a lui. Come in una simbiosi,
sente di appartenere assieme alla madre ad un sistema onnipotente, “ad
un’unità duale racchiusa in uno stesso confine”. C’è un’indifferenziazione, una
confusione, una fusione con la madre e, solo gradualmente, il bambino
comincerà a differenziarsi e a capire di essere separato. La comprensione di
ciò sarà legata anche al suo sviluppo motorio. Con la crescita il bambino è
sempre meno fuso e confuso con la madre. Se tenuto in braccio comincia ad
irrigidirsi, spostandosi da lei per poterla vedere meglio e guardarla,
differenziarsi da lei anche a livello intrapsichico.
Nel caso di bambini con Sindrome di Down, ipotizziamo che alla minore
indipendenza fisica legata all’ipotonia, possa corrispondere una maggiore e
prolungata dipendenza psichica con gli aspetti di fusione e di onnipotenza.
Nella simbiosi non è solo la fusione con la madre e il senso di onnipotenza che
prevalgono. All’interno della fusione onnipotente simbiotica, la madre è per il
bambino la fonte di tutto il bene (cibo e tenerezza) ma anche di tutto il male
(mal di pancia e ogni sensazione sgradevole). Il senso di onnipotenza del
bambino viene esteso alla madre che onnipotentemente diviene per lui la
causa di tutto il piacere e di tutto il dispiacere.
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Il bambino Down a causa del suo ritardo motorio rimane più a lungo
amalgamato non solo fisicamente ma anche mentalmente alla madre. Essa
proverà una grande tenerezza per questo bambino che comincerà a sorriderle
e a rassicurarla si essere un bambino. Questa tenerezza potrà coesistere a un
senso di rifiuto più che naturale per questo figlio così diverso da quello atteso.
Dunque l’ambivalenza della madre può contribuire a rafforzare a sua volta nel
figlio un atteggiamento di ambivalenza all’interno della fusione. Anche in
epoca successiva possono prevalere gli aspetti contradditori di questo periodo
precoce: gli attacchi alla madre alternati ad una grande tenerezza.
Si pensa che il protrarsi della fase simbiotica possa essere legato nel bambino
Down agli aspetti di onnipotenza ed ambivalenza e al bisogno di toccare (la
famosa affettuosità), che sono elementi che rischiano di emergere e
perdurare, in alcuni casi determinare futuri problemi. I genitori possono
vivere i primi passi del figlio con piacere ed incoraggiarlo nelle sue prime
esplorazioni.
Dice Margaret Mahler :“con l’impulso alla maturazione di funzioni autonome
come il pensiero e soprattutto la deambulazione…… il bambino compie il più
grande passo verso l’individuazione….. la deambulazione ha un grande
significato simbolico sia per la madre che per il bambino: è come se il
bambino che cammina avesse provato con il raggiungimento della
deambulazione autonoma di essere entrato a far parte del mondo degli esseri
umani indipendenti. L’aspettativa e la fiducia emanata dalla madre, che sente
che il bambino è ora in grado di “farcela” nel mondo, sembrano rappresentare
un elemento determinante per la sicurezza del bambino e forse rappresentano
anche l’incoraggiamento iniziale a trasformare parte della sua magica
onnipotenza nel piacere per la propria autonomia e per la propria crescente
autostima”.
Alcune madri possono colludere con i bisogni simbiotici del figlio e scoraggiare
qualsiasi tentativo di separazione psichica. Esse possono valutare “il figlio
della creatura vegetativa, tenendolo in uno stato di continua dipendenza
simbiotica…. Non riescono a sopportare il graduale distacco del figlio all’inizio
della fase di separazione-individuazione….. e scoraggiano ogni tentativo di
funzionamento indipendente, invece di permettere e favorire una separazione
graduale”.
I primi passi del bambino non sono verso la madre, ma lontano da essa e
questo può creare delle ansie che verranno recepite dal figlio.
Per alcuni genitori il ritardo del linguaggio del loro bambino rappresenta un
problema assai gravoso e può essere la causa di problemi per il suo sviluppo
verso l’autonomia. Essi pensano che il loro figlio non parlando non possa
capire e quindi rischiano di estendere il suo mutismo verbale ad un mutismo
mentale; “è troppo piccolo per capire” e quindi è inutile qualsiasi forma di
comunicazione. E’ come se pensassero che perpetuando il senso di fusione nel
bambino che le loro parole, le loro mani, la loro intelligenza possano
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funzionare da Io ausiliare “tu non puoi capire, ma capiamo noi per te”, “tu
non puoi farcela da solo, noi faremo tutto per te”, “tu ci tratti male, noi ti
accettiamo così”.
La reazione del bambino dipenderà anche dalla sua costituzione individuale.
Una minoranza di bambini non svilupperanno in futuro la capacità di un
funzionamento autonomo. In ognuno di questi casi si è verificata una
situazione familiare molto adeguata. Altri bambini, la grande maggioranza,
manifestano comportamenti adeguati socialmente e sono autonomi, con
progresso nel linguaggio in concomitanza con l’inserimento all’asilo. Altri
bambini cominciano precocemente a manifestare comportamenti che a noi
sembrano preoccupanti per un futuro sviluppo, e che a volte vengono tollerati
in modo sorprendente dai genitori i quali vengono a chiedere consulenza solo
dopo la scuola elementare, dall’inizio della pubertà in poi. Si tratta di bambini
che intorno ai 2 o 3 anni e in seguito possono alternare in modo onnipotente
ed ambivalente comportamenti aggressivi soprattutto nei confronti della
madre, a grandi effusioni. Sono descritti dai genitori come bambini che
vorrebbero scappare, che non stanno mai fermi, ostinati e provocatori. Però
sono anche affettuosissimi e così via.
Nella fase di riavvicinamento che segue la fase di sperimentazione, Mahler
descrive come caratteristica di questo periodo l’alternanza nel bambino “tra il
desiderio di evitare la madre e quello di strale molto vicino in un conflitto tra il
desiderio di farcela da soli e quello di partecipare all’onnipotenza materna…… I
desideri del bambino sono ancora poco differenziati da quelli della madre che
viene usata come un’estensione del sé, un processo che gli permette di
negare la dolorosa consapevolezza di essere separato”. “Il conflitto di
ambivalenze si evidenzia in un rapido alternarsi di comportamento di
attaccamento e negativismo. Questo fenomeno può riflettere in alcuni casi il
fatto che il bambino ha scisso in modo permanente il mondo oggettuale in
buono e cattivo”.
E’ stato molto interessante notare che nella grande maggioranza di questi casi,
parliamo di bambini di due anni fino alla fine della scuola elementare, quando
chiediamo ai genitori come si comporta il loro figlio a scuola e in casa d’altri,
appare un’immagine diversa e più positiva confermata dai suoi insegnanti.
Questi stessi “insopportabili” bambini inseriti tra compagni non Down, in
ambiente con delle regole e rispettoso della loro identità ed individualità,
funzionano in modo più maturo che a casa ed armonioso con quello dei
coetanei. In questi casi si tratta di bambini che possono comunque avere una
buna struttura e spesso bastano alcuni colloqui con i genitori per facilitare un
comportamento del bambino più adeguato anche a casa.
Questa grande capacità del Down di cambiare comportamento a seconda del
contesto fin dai primi anni ed in seguito nell’adolescenza e nella vita adulta, ci
ha fatto riflettere su quali possono essere i suoi meccanismi difensivi. Il
bambino che all’asilo, è autonomo, mangia da solo, rispetta le regole, a casa
ha comportamenti ostinati e onnipotenti, e che poi crescendo durante la
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scuola elementare è in grado di manifestare analoghe differenze di
comportamento, è un bambino che cerca, con i conflitti tipici della fase di
riavvicinamento, di affermarsi in modo adeguato come essere separato.
Si può sentire soffocato a torto o a ragione da una situazione che non gli
permette di crescere. E’ come se dicesse:” voi mi trattate da Down,e allora vi
faccio vedere io”. Il suo meccanismo difensivo consiste soprattutto nell’uso
onnipotente delle propria disabilità. Questa onnipotenza in alcuni casi può
diventare ancora più dannosa della disabilità primaria. Pensiamo che si tratti
di un aspetto che non appartiene necessariamente alla Sindrome, ma che è
secondario ed è legato sia a fattori costituzionali che ambientali. I bambini e i
ragazzi Down vivono in un mondo spesso assai più tollerante dei loro
comportamenti inadeguati. Durante i primi tempi dell’inserimento si osservava
frequentemente all’asilo il piccolo Down coccolato in braccio alla maestra,
mentre i suoi compagni svolgevano delle attività, oppure si notava il suo
entrare in classe come un evento da celebrare con toni eccessivi e i suoi
disegni o le sue prodezze ammirate più di quelle dei compagni. Ora con
l’esperienza questo atteggiamento degli insegnanti è più raro. Ma spesso fuori
dall’ambiente scolastico il piccolo Down vive in un mondo assai più ovattato e
protettivo di quanto non lo sia per i suoi coetanei. Dovunque vada è spesso il
suo posto d’onore, a casa, con gli amici di famiglia e in qualsiasi contesto
sociale in cui si muova. Sappiamo come il bambino Down possa essere
accattivante e ispirare una tenerezza particolare. Ci si può accorgere allora
che a lui quasi tutto è permesso e deve fare meno fatica dei suoi fratelli o dei
suoi amici per essere e rimanere al centro dell’attenzione. Abbaiamo visto i
bambini di tre anni, socievoli con i compagni comportarsi con un’insolita
curiosità o molta cautela alla vista di un altro bambino Down incontrato per la
prima volta in Associazione. Cosa può significare per lui questa diversità?
Certamente qualcosa di molto diverso da quello che significa per i suoi
genitori. Nei suoi primi anni può significare per lui qualcosa che gli permette
di conquistare un mondo con minori ostacoli di quanti non ne incontri suo
fratello o i suoi compagni. Ancora può non aver capito che la sua diversità è
una disabiltà, al contrario si tratta forse di qualcosa di prezioso che i suoi
fratelli possono invidiare. Abbiamo visto alcuni fratelli gelosi farsi venire
qualche disabilità per conquistare un maggiore interesse da parte dei genitori.
Un fratellino di 4 anni ha chiesto. “ Io quando divento Down posso dormire
con voi?”. Si potrebbero fare molti esempi in questo senso. Se dà uno
spintone ad un amico o lo abbraccia con insistenza, il compagno potrà
tollerare più di quanto non farebbe di fronte ad un atteggiamento identico in
un compagno non Down.
In una ricerca del 1984 su 110 ragazzi Down inseriti alle elementari nella città
di Roma, gli insegnanti usavano nell’88% dei casi, le parole disponibile o
affettuoso o gentile nel descrivere l’atteggiamento dei compagni nei confronti
del Down. Nel 12% dei casi in cui il ragazzo Down manifestava
comportamenti onnipotenti, l’atteggiamento dei compagni era descritto come
paziente, tollerante, indifferente. In una ricerca attuale nell’area di Roma i
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ragazzi con problemi comportamentali sono scesi all’8% circa. Questa
differenza può essere dovuta ad una maggiore esperienza da parte degli
insegnanti su come intervenire in modo adeguato.
Nonostante la presenza di questi aspetti a rischio del suo sviluppo, il Down
può crescere in modo soddisfacente. Una madre racconta che suo figlio di 10
anni stava sdraiato sul divano a guardare la TV invece che mettere in ordine
la sua stanza. “Mamma non posso” “Perché?” “Perché sono diverso” “Cioè?”
“Non sai che sono Down?”. La madre replica:”tu sei Down quando pare a te”.
Nei colloqui con i genitori in Associazione questo aspetto emerge
frequentemente, e spesso i genitori usano l’espressione “se ne approfitta” nel
descrivere i comportamenti inadeguati dei loro figli. Questo aspetto nel caso
di questo ragazzo si esaurisce con uno scambio umoristico con la madre; ma
può essere alla base di comportamenti che in futuro possono diventare
inadeguati, quando i genitori interpretano i comportamenti del figlio come
funzione della Sindrome e reagiscono con impotenza.
Si ipotizza che un perdurare eccessivo degli aspetti infantili del Down, sia
molto legato ad un ritardo dell’acquisizione del senso di separatezza e quindi
del senso di identità. Come dicevamo prima, finchè è piccolo, essere Down
può significare per lui qualcosa di prezioso, ma crescendo e rafforzandosi la
sua individualità, comincia a rendersi conto della sua inadeguatezza rispetto
agli altri. Per esempio si sono osservate delle reazioni diverse in bambini
Down, dai 6 agli 8 anni, nei confronti del fratello minore da cui si sentivano
superati riguardo certe competenze. Alcuni reagivano assumendo il ruolo di
genitori protettivi ma molto severi, altri manifestando una grande indifferenza
nei suoi confronti, altri diventando aggressivi, altri ancora non erano in grado
e così via, ognuno a modo suo.
La capacità di crescere in modo autonomo, cioè differenziarsi psichicamente
dai propri genitori e quindi avere un’autostima, è per tutti, in particolare per il
Down legato al senso di identità. Problemi di tale genere e quindi autostima
sono alla base della sofferenza di chiunque affronti una psicoterapia. Non
crediamo che esista un solo Down talmente disabile da non capire di esserlo.
Eppure molti genitori dicono che il loro figlio non lo sa. E’ come se pensassero
“tu non hai bisogno di saperlo, lo so io per te” perpetuando con questa
negazione la fusione simbiotica dell’infanzia. Pensando di proteggerlo, non gli
permettono di assumersi la propria identità, tenendolo immerso in un mondo
di bugie. Un ragazzo Down ha chiesto in Associazione due libri sulla
Sindrome; sua madre è convinta che lui non sappia di averla. Il ragazzo infatti,
colludendo con i genitori, dice che i libri gli servono per fare lezione ad un suo
amico Down.
Pensiamo che i trucchi servano solo a mantenere confusioni che sicuramente
non aiutano il ragazzo ad avere una chiara immagine di sé e quindi ad
accettare la propria disabilità. Quando un bambino chiede perché gli altri
leggono o scrivono meglio di lui, a noi sembra che sia rispettoso rispondergli
Parlandogli serenamente delle sue difficoltà rispetto a certi problemi,
naturalmente descrivendogli le sue buone capacità. I genitori che dicono al
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figlio “tu hai la Sindrome di Down” lo rassicurano che hanno loro accettato la
sua realtà con cui lui fa i conti da sempre. Significa quindi rafforzare il suo
senso di identità e permettergli un rapporto più lucido e certamente più
sereno con se stesso. A volte questo non avviene, e allora la negazione dei
genitori diventa la negazione dei figli i quali non avendo un’immagine chiara e
quindi accettabile della propria disabilità, rischiano di immergersi in un mondo
di fantasie onnipotenti sul loro presente e sul loro futuro, allo stesso tempo
facendo i conti con una quotidianità che può divenire sempre più inaccettabile.
Da questo possono apparire i primi segni di una depressione che in futuro può
manifestarsi anche in modo drammatico. Il contrasto tra l’immagine
onnipotente e infantile di un sé “astronauta o fidanzato di Ornella Muti”, e un
è disabile incapace di allacciarsi le scarpe, può portare a una pena psichica
che ha la stessa matrice della depressione che può nascere in tutti noi.
Ma abbiamo notato, in alcuni casi, una differenza molto interessante fra la
depressione di un Down e quella di un non Down. Abbiamo osservato che certi
sintomi depressivi nel soggetto Down nell’età puberale, possono essere più
legato al contesto immediato e quindi più risolvibili. I genitori vengono con
richieste di aiuto in concomitanza con l’apparire dei primi segni sessuali
secondari. La preoccupazione di alcuni (priva di fondamento) è che la
sessualità possa irrompere senza un sufficiente controllo dell’intelligenza.
Come conseguenza può esserci da parte loro un tentativo di prolungare l’età
prepuberale e ostacolare le esigenze del figlio che sono molto simili a quelle
dei suoi coetanei: uscire da solo, avere le chiavi di casa, vedere gli amici,
innamorarsi, avere il motorino e così via. A Roma vi sono due ragazzi Down
che girano in motorino.
Le modalità difensive di un adolescente Down che si sente ostacolato possono
essere più improvvise, più drammatiche ma anche più reversibili di quelle di
un adolescente non Down. Un ragazzo Down ha minori scelte di un suo
compagno. In qualche modo può improvvisamente smettere di comunicare,
diventare molto “pigro” come dicono i genitori, rifiutarsi di uscire, chiudersi in
camera sua, strapparsi i vestiti, passare le ore a letto, parlare solo con un
amico immaginario, non mangiare e farsi accudire di nuovo come un bambino
piccolo. I genitori di un adolescente vengono in Associazione perché il loro
figlio da alcuni mesi aveva smesso di parlare e di ascoltare. Pensavano che
fossero degli incomprensibili comportamenti Down. Mentre si parlava coi
genitori, il ragazzo è andato in segreteria e un’assistente sociale lo ha pregato
di aiutarla perché doveva fare in fretta delle fotocopie e aveva effettivamente
bisogno di aiuto. Il ragazzo investito di un ruolo adulto, non solo ha aiutato
con molta efficienza, ma ha conversato a lungo con l’assistente sociale, con
grande stupore da parte dei genitori.
In un altro caso, dei genitori sono arrivati in Associazione preoccupati perché
da una settimana la figlia di 14 anni si rifiutava di andare a scuola, non si
alzava dal letto dove consumava i suoi pasti e teneva sempre la televisione
accesa, rifiutando ogni forma di comunicazione. Essi temevano un
deterioramento mentale legato alla Sindrome e si sentivano impotenti. Nel
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colloquio con loro è emerso un problema, e cioè che la ragazza da tempo
insisteva per andare a scuola da sola come i suoi compagni (20 minuti a
piedi), ma la madre insisteva a volerla accompagnare. La ragazza aveva
reagito come se dicesse “mi trattate da bambina?Allora divento piccola”. Il
giorno successivo la ragazza è andata a scuola da sola.
Qualche volta le persone Down sono costrette ad artifici drammatici e ad
esasperare la propria disabilità quando non si sentono rispettati nei propri
aspetti adulti. Un ragazzo che doveva fare la spesa si è imparato a memoria
la lista che la madre gli aveva scritto per non fare la figura di doverla leggere
davanti al negoziante. Questo ragazzo come molti dei suoi coetanei è
costretto a fare grandi sforzi per essere trattato con il rispetto dovuto alla
sua età. Pensiamo che l’intensità drammatica delle difese di alcune perone
con Sindrome di Down possa essere collegata alla difficoltà di esprimere
altrimenti la propria sofferenza e quindi rappresentare necessariamente un
problema psichiatrico irreversibile o comunque legato agli aspetti genetici
della Sindrome.
In un convegno sulla Sindrome di Down in Inghilterra nel 1984 un esperto di
sessuologia, statunitense, parlò del comportamento sessuale delle persone
Down. Si trattava di persone in istituti speciali. Il loro comportamento era
descritto come quello di animali pazzi in calore; le donne, soprattutto durante
le mestruazioni, venivano narcotizzate per evitare comportamenti
incontrollabili.
Vorremmo brevemente riportare i dati di una ricerca sul comportamento
sessuale di 50 adolescenti inclusi in una scuola media di Roma. Abbiamo
usato questionari scritte e interviste a 70 insegnanti; erano 50 classi di 20
allievi da 12 ai 15 anni in cui un Down era inserito (22 maschi e 28 femmine).
Il questionario riguardava vari aspetti del comportamento dei ragazzi nei
confronti dei compagni e viceversa: due maschi su 28 erano descritti come
particolarmente fastidiosi e con tendenza ad abbracciare le ragazze in modo
insistente e provocatorio. Ambedue i ragazzi hanno smesso in seguito
all’intervento dell’insegnante; nessuno degli altri ragazzi e ragazze mostrava
comportamenti inadeguati. Delle 22 ragazze, 18 avevano le mestruazioni ed
erano completamente autosufficienti e discrete nella gestione dell’igiene
personale. Non c’era nessuna differenza significativa nel comportamento
emozionale durante il ciclo mestruale tra le ragazze Down e le altre.
Anche qui, l’attitudine generale dei compagni era descritta dagli insegnanti
come paziente e disponibile.
In interviste fatte a 75 madri sul comportamento delle figlie adolescenti
durante le mestruazioni, tutte hanno esitato a rispondere riflettendo sul
problema per poi dire:”forse un po’ depressa o un po’ nervosa”, finendo poi
col parlare del proprio umore. L’86% delle ragazze erano autosufficienti.
Riassumendo, abbiamo verificato che nelle scuole di Roma, solo una piccola
minoranza di bambini e giovani adolescenti manifestano problemi relazionali
(l’8% circa). Quando sorgono problemi, può essere utile affrontarli con lo
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stesso approccio clinico che si usa di fronte a problemi analoghi in persone
non Down. Tuttavia ipotizziamo che in ogni caso siano presenti alcuni
problemi potenziali, alcuni elementi a rischio che nell’adolescenza e nella vita
adulta possono riemergere dalla prolungata fase dell’onnipotenza simbiotica e
dalle successive fasi dello sviluppo verso l’individuazione. In particolare
abbiamo accennato alla fase di riavvicinamento con la caratteristica
ambivalenza, che in alcuni casi può riflettere una scissione permanente
dell’oggetto.
Nei primi anni i bambini con Sindrome di Down possono fare un uso
intelligente della propria disabilità come guadagno secondario. Con la crescita
verso l’individuazione e con il raggiungimento di una maggiore
consapevolezza, le persone Down possono esasperare in modo drammatico la
propria disabilità, se sentono che le proprie esigenze verso una crescita
autonoma non vengono rispettate.
Un aspetto importante, legato a fenomeni regressivi, è la confusione sul senso
di identità, soprattutto in presenza di un ambiente svalutante. Negare che la
persona Down possa capire di esserlo, è un esempio di come sia facile
svalutare la sua intelligenza relazionale e la sua esigenza di capire.
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11. PSICOPATOLOGIA E RIABILITAZIONE
Psicopatologia del ritardo mentale
La psicopatologia si occupa dello studio delle organizzazioni mentali
soggiacenti ai sintomi, alle condotte, alle narrazioni, alla sofferenza mentale
direttamente espressa da un individuo con funzionamento mentale deviante
(Lang,1975); ma essa si occupa anche della coerenza di queste organizzazioni,
cioè della loro struttura. Essa è quindi volta alla definizione di una
organizzazione di insieme, di un modo complessivo di funzionamento, in un
determinato periodo dello sviluppo.
Diversi modelli patologici si differenziano in rapporto alla natura dei processi
di inferenza dal piano clinico-sintomatologico a quello psicopatologicostrutturale. Questo tipo di analisi operante nella psichiatria dell’età evolutiva,
ma con alcune importanti limitazioni. Se è stata classicamente ammessa
l’importanza di un’analisi psicopatologica dei disturbi emotivo-affettivi (psicosi,
nevrosi, i quadri borderline, ecc.), i disturbi dell’intelligenza, ed in particolare
il ritardo mentale, sono rimasti spesso ai margini di questa indagine. E’
divenuta così operante una distinzione tra i disturbi emotivo-affettivi (da
taluni definiti disturbi mentali) e disturbi d’intelligenza, quasi che essa non
fosse una funzione mentale. I soggetti ritardati sono stati almeno in parte
privati di uno spazio mentale nel quale sono situate le emozioni, gli affetti, le
motivazioni, ecc.; questo nonostante già negli anni ’30 Vygotsky e Lewin
sottolineassero come il ritardo mentale coinvolge non solo l’intelligenza, ma la
personalità nel suo complesso.
Un importante contributo alla comprensione psicopatologica del ritardo
mentale è venuto, a partire dai primi anni ’70, da autori di scuola francese
(Misès, 1975). E’ stata così codificata l’esistenza, accanto ad altre strutture
psicopatologiche già definite (nevrotica, psicotica, borderline, ecc.), di una
struttura di personalità tipica del soggetto con ritardo mentale, che possiamo
definire struttura deficitaria.
Quello che conferisce specificità alla struttura deficitaria è a nostro avviso il
ruolo cruciale del disturbo cognitivo, che rappresenta la chiave di volta intorno
al quale ruota l’intera organizzazione affettiva e relazionale del soggetto
ritardato (Marcheschi).
L’analisi psicopatologica deve quindi porsi i seguenti obiettivi:
a) proporsi una caratterizzazione dell’organizzazione cognitiva, nei suoi
diversi livelli di funzionamento;
b) deve poi individuare l’effetto di tale organizzazione cognitiva sul più
generale equilibrio della personalità;
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c) valutare come tale organizzazione condiziona il rapporto
(bidirezionale) tra il soggetto ritardato ed il mondo che lo circonda;
d) deve infine comprendere come questa struttura deficitaria si evolve
nel tempo, in rapporto ai diversi appuntamenti (cognitivi, affettivi,
motori, linguistici) ed alle diverse transizioni di fase.
- L’organizzazione cognitiva nelle diverse forme di ritardo mentale, e nelle
diverse fasce di gravità, appare caratterizzata da una maggiore caoticità: da
un lato la struttura cognitiva è più indifferenziata, meno articolata e
specializzata, dall’altro l’equilibrio tra le diverse componenti è alterato, con
alcune abilità cognitive che tendono a prevalere sulle altre (Levi e Musatti,
1994). Questo può implicare una difficoltà nelle coordinazione delle diverse
componenti della struttura, i cui rapporti intrinseci risultano deformati:
coesistono in modo disordinato procedure di ragionamento che fanno
riferimento a diversi modelli di sviluppo, con incoerenti oscillazioni o
imprevedibili regressioni. A questa caoticità strutturale corrisponde
un’incompetenza funzionale, con conseguente cattiva utilizzazione delle
risorse disponibili; il soggetto con ritardo mentale scarsamente capace di
utilizzare il proprio apparato cognitivo come strumento di analisi e
rappresentazione della realtà, in quanto le rappresentazioni che costruisce
non gli consentono la edificazione di una rete di significati in grado di dare
coerenza alle sue esperienze interne ed esterne. Peraltro tali disarmonie
strutturali non sono presenti nella stessa misura nei diversi quadri di ritardo
mentale; l’analisi della coerenza strutturale trasversale (tra le diverse linee di
sviluppo) e longitudinale (tra le diverse fasi evolutive) rappresenta quindi un
parametro di analisi di grande valore prognostico.
- L’effetto del disturbo cognitivo sull’organizzazione di personalità del soggetto
con ritardo mentale può essere espresso dal concetto di “confusione”:
confusione nella rappresentazione del mondo esterno, ma anche
nell’organizzazione del mondo interno, quale emerge ad es. dai test proiettivi.
Questi protocolli mostrano l’esistenza di temi poco elaborati che fanno
riferimento a diversi livelli di sviluppo, con difficoltosa definizioni delle pulsioni
lipidiche ed aggressive, ambivalenza nei confronti del mondo esterno, timori
relativi all’integrità corporea, fantasmi di ferite, frammentazione di morte;
tutto questo in modo più o meno caotico, ma con un livello di elaborazione
simbolica molto primitivo. L’intensità di questi aspetti è variabile da soggetto
a soggetto, anche in rapporto alla gravità del disturbo cognitivo; quello che è
comune è la precarietà della struttura, sottoposta a sovvertimenti in rapporto
ad eventi interni ed esterni.
- Il rapporto con il mondo è direttamente influenzato da questa
organizzazione cognitiva. Oggi si sa come sin dalle prime fasi della vita il
bambino stabilisce, in virtù delle competenze di cui dispone, un rapporto con
il mondo esterno molto più realistico e fedele di quanto non si ritenesse. Le
precoci competenze cognitive, motorie, percettive, ecc. sono sin dall’inizio
usate per stabilire con il mondo un rapporto di conoscenza, basato su
52
previsioni ed inferenze che riguardano sia l’universo fisico (“se muovo la
mano il sonaglio farà rumore”), sia l’universo relazionale (“se piango la
mamma verrà da me”). Ogni ripetizione che confermi la previsione attesa è
fonte di un piacere, giustamente definito epistemico, che rappresenta
un’importante difesa “cognitiva” in grado di rafforzare la fiducia del bambino
nelle proprie capacità di rapportarsi alla realtà che lo circonda. Tutto questo
implica non solo un’integrità del proprio apparato conoscitivo, ma anche un
ambiente che si “lasci conoscere”, che sia cioè sintonizzato sulla lunghezza
d’onda del bambino, in modo da essere prevedibile senza essere monotono;
entrambi questi requisiti possono essere carenti nel bambino con ritardo
mentale. I suoi strumenti mentali non gli consentono una sufficiente presa sul
mondo; ma anche per il mondo esterno è più difficile stabilire un rapporto
sintonico con un bambino con ritardo mentale, sia per la compromissione dei
suoi strumenti interattivi ( ad es. la soglia di attivazione), sia per le complesse
reazioni che il rapporto con un bambino ritardato induce in chi si prende cura
di lui (ed in particolare nella madre). Ne consegue che la coerenza,
l’attendibilità, la prevedibilità del mondo esterno può risultare in qualche
modo ridotta; questo rappresenta un possibile attacco alle possibilità da parte
del bambino di sperimentare la sua “presa cognitiva” sul mondo.
I tre aspetti ricordati in precedenza rappresentano tre assi per la
comprensione della specificità della struttura deficitaria; ma tale struttura si
interseca con la dinamica dello sviluppo, venendone modificata, deformata, in
rapporto ai diversi appuntamenti evolutivi. Si può parlare di strutture
deficitarie che si susseguono ne tempo, sovrapponendosi in modo
scarsamente organizzato, data la scarsa sincronia tra lo sviluppo cognitivo,
pulsionale, sociale, ecc., realizzando una crescita per così dire di tipo
neoplastico.
Psicopatologia della Sindrome di Down
Il quadro delineato rappresenta, a nostro avviso, una cornice interpretativa
generale, all’interno della quale può essere inserita la psicopatologia della
Sindrome di Down. Non sono tuttavia ancora ben chiari i termini di
differenziazione tra bambini Down e bambini con uguale ritardo mentale, ma
di diversa origine. Purtroppo gran parte dei lavori della letteratura sui soggetti
Down hanno utilizzato campioni di controllo rappresentati da bambini normali
pareggiati per età cronologica o mentale, e questo impedisce di valutare con
certezza l’effetto specifico della Sindrome, sia in termini biologici (la
cromosomopatia) che psicodinamici, a carico della famiglia del soggetto
stesso.
Appaiono peraltro particolarmente interessanti alcuni lavori del gruppo di
ricerca coordinato da Dante Cicchetti, che mostrano come, a differenza di altri
quadri di ritardo mentale, lo sviluppo cognitivo del bambino Down appare
maggiormente coerente ed organizzato sia in termini trasversali che
longitudinali, almeno nelle prime fasi evolutive peraltro sulla coerenza dello
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sviluppo successivo, e sui fattori (ambientali, emotivi, affettivi) che possono
alterare tale coerenza. Maggiori incertezze restano.
L’opinione corrente, ma anche i lavori più tradizionali sulla psicopatologia dei
soggetti Down, sembrano essere dominati dalla concezione che alla eziologia
comune ed alle analogie morfologiche esteriori debbano corrispondere
analogie comportamentali e psicopatologiche. In realtà tale variabilità,
affettiva e cognitiva, dei soggetti Down appare molto ampia, ed il disturbo
cromosomico appare solo uno dei parametri in gioco, nonostante molti
pensino che il soggetto Down si esaurisca nel cromosoma in più.
Indubbiamente il livello cognitivo, ed in minor misura le capacità attentive,
condizionano l’espressività comportamentale ed il temperamento dei bambini
Down. La reattività nei confronti degli stimoli esterni, ma anche l’impatto
emotivo da essi suscitato è legato alla possibilità di analizzare ed interpretare
gli eventi, ed ai tempi che questa analisi richiede. E’ stata dimostrata una
concordanza tra livello di sviluppo cognitivo, qualità del gioco simbolico ed
espressione delle emozioni. Inoltre alcuni dati fanno pensare all’esistenza di
specifiche difficoltà nella processazione visiva degli stimoli, che possono
condizionare la reattività del bambino, ed anche la sua espressività emotiva
(ad es. nel riconoscimento delle espressioni facciali delle figure di riferimento).
L’intervento precoce
Possiamo riconoscere alcuni momenti cronologicamente distinguibili ma
necessariamente integrati l’un l’altro.
Un primo intervento è orientato sulla coppia madre-bambino (o genitorebambino). Esso pone al centro l’osservazione del bambino e della sua
relazione con la madre; questo consente all’operatore di comprendere le
modalità di funzionamento cognitivo e relazionale del bambino, per poi
tradurre tali conoscenze alla madre e favorire in lei una visione più realistica
del figlio, ampliando le sua capacità di lettura delle strategie interattive, per
favorire, anche su un piano di realtà, un migliore incontro tra gli elementi
della diade. Il coinvolgimento della famiglia, ed in particolare della madre,
consente a quest’ultima di costruirsi un’immagine del figlio meno deformata
dai fantasmi; la relazione può essere più diretta, attraverso la modulazione
indotta da una terza persona. Lo scopo di questo coinvolgimento deve essere
appunto la conoscenza sempre più accurata di un bambino difficile da
conoscere e da capire. Questo significa mettere inizialmente in secondo piano
lo scopo, l’obiettivo, la fantasia riparativa, che se è in grado di attenuare la
ferita narcisistica, rischia di lenire la dimensione depressiva in un agire, volto
ad ottenere più che a conoscere.
L’operatore ha in questo caso una funzione delicatissima, che è quella di
favorire un processo di attaccamento nella sua fase più critica, senza porsi
come un’alternativa della figura materna.
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Un secondo livello di intervento può essere definito “ecologico-ambientale”, ed
è rivolto a favorire nel bambino un investimento cognitivo. Esso è mirato a
costruire quella sorta di fiducia di base nelle proprie capacità di comprendere
il mondo. Questo viene perseguito ad es. attraverso situazioni che favoriscano
nel bambino Down la possibilità di confrontarsi con situazioni sufficientemente
stabili, anche ripetitive, che possano consentirgli un’inferenza, una previsione,
che attivino un ricordo; in una parola situazioni attendibili, che incidano
sull’atteggiamento intrinseco del bambino nei confronti dell’attività mentale.
Questo implica una specifica attenzione alle condizioni ambientali, agli spazi,
agli oggetti dell’intervento riabilitativo, in modo da creare una realtà
prevedibile, sia cognitivamente che affettivamente; tali eventi possono essere
vissuti insieme alla madre, la quale deve essere messa in grado di poter
leggere i comportamenti del figlio, dar loro un significato. Questo intervento
deve favorire una promozione e modulazione del focus attentivo, e della
soglia di reattività, particolarmente nel bambino Down, ma deve anche fornire
la possibilità di creare “entusiasmo”, partecipazione affettiva alle attività
(qualità spesso carente nei giochi spontanei dei bambini Down).
Un momento più specifico riguarda quegli interventi che possiamo definire
“strutturali”, e che sono volti alla costruzione nella mente del bambino di
strutture di pensiero più evolute. L’intervento riabilitativo cognitivo deve
rispettare alcuni requisiti di ordine generale. L’alternativa tra apprendimenti
meccanici ed automatici ed apprendimenti profondi è in realtà un falso
problema: se apprendere significa elaborare attivamente un contenuto in
modo da poterlo inserire in una rete di significati, il problema è quello di
favorire la creazione di una rete anche nel soggetto Down, in rapporto alle
caratteristiche ed al livello del suo funzionamento cognitivo.
Un quarto intervento avviene invece prevalentemente in un contesto di
piccolo gruppo, ed è volto a favorire un trasferimento ed un’applicazione in un
contesto sociale di acquisizioni precedenti. Tale contesto appare vantaggioso
rispetto ad un intervento individuale per la maggiore mobilità della situazione
di trattamento, per le modificazioni ambientali attivate dagli altri bambini, per
la minore tendenza dell’adulto a sostituirsi al bambino. Il gruppo si pone come
applicazione e scambio dell’appreso, nel quale all’imitazione bruta viene
associata l’identificazione. Si ritiene che, come per tutti gli altri bambini, la
condivisione di uno spazio di attività, di un progetto di gioco, rappresenti un
fattore stimolante e motivante, non soltanto sul piano strettamente affettivo e
relazionale,,ma anche su quello cognitivo.
Appare evidente come tale approccio si differenzi dal ricorso a tecniche
martellanti di apprendimenti meccanici, settoriali, spesso scarsamente
articolati tra loro, e quindi fortemente contestualizzati; il bambino Down, in
virtù di meccanismi imitativi particolarmente sviluppati, sembra prestarsi a
tali interventi meccanici, che da un lato possono limitare la sua partecipazione
attiva e consapevole al trattamento, deprimendo l’investimento del suo
strumento mentale, dall’altro possono dare al riabilitatore l’illusione di poter
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plasmare a suo volere il comportamento del bambino, negando la sua
depressione, o addirittura canalizzando la sua aggressività.
Integrazione sociale extrascolastica ed extralavorativa
L'espressione "integrazione sociale" nel suo significato più ampio comprende
sia l'integrazione in famiglia che quella scolastica. In questa sezione ci
limitiamo a considerare solo alcuni aspetti dell'integrazione sociale e cioè
quelli che non si realizzano né in famiglia, né a scuola, né al lavoro.
A partire soprattutto dagli anni attorno al 1970 i Comuni (in quantità sempre
crescente) organizzano Centri estivi (in località dello stesso comune e con
frequenza diurna) o Soggiorni climatici residenziali per tutti i minori, compresi
quelli con disabilità. Per i ragazzi queste possono essere ottime occasioni di
socializzazione. Fondamentale è la preparazione del personale. Ideale è la
situazione in cui vi è anche la supervisione di operatori psicopedagogici o
psicologi dello sviluppo e dell'educazione.
Si tratta di una realtà così diffusa attualmente e acquisita da non aver bisogno
di particolari commenti. Questa è una ottima occasione anche per i genitori.
Vivere lontano dal proprio figlio può inizialmente creare un senso di vuoto
(soprattutto nella madre), ma, con il passare del tempo, permette anche di
"riprendere" gli aspetti della propria identità che in qualche modo erano stati
offuscati dalla costante attenzione ai problemi del figlio e in qualche caso può
aiutare a trovare uno spazio temporale e mentale in cui la coppia dei genitori
può avere più tempo e disponibilità per sé e per il rapporto di coppia (e, se ci
sono, per gli altri figli).
L'articolo 23 della legge 104 del 5 febbraio 1992, "legge-quadro per
l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate", è
dedicato alla "rimozione di ostacoli per l'esercizio di attività sportive, turistiche
e ricreative". Notevoli sono stati i progressi anche in questo campo. Ad
esempio è frequente trovare nelle piscine pubbliche o sui campi da sci delle
persone con ritardo mentale. C'è da augurarsi che si diffondano sempre di più
altre iniziative, ad esempio quelle relative alla pratica delle attività tipiche
dell'atletica (corse veloci e di resistenza, salti, lanci ecc.) e di varie altre
attività sportive individuali o di gruppo.
L'utilità della pratica sportiva anche per i giovani con sindrome di Down è
stata evidenziata anche in una ricerca condotta da Ruiz, Gil, Fernandez-Pastor,
de Diego e Peran (2003) a Malaga. Lo studio ha valutato i benefici ottenuti
nell'arco di quattro anni di attività sportiva. Già alla fine del primo anno è
stata rilevata una opportuna perdita di peso grasso e un aumento di quello
muscolare e osseo (in particolare nelle femmine). Ovviamente sono migliorate
anche le prestazioni sportive rispetto a quelle di partenza (resistenza, velocità,
salti, lanci ecc.). Effetti positivi vi sono stati anche relativamente all'autostima,
all'autonomia, all'impegno, alla perseveranza e allo spirito di gruppo.
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12. LO SVILUPPO DELL’AUTONOMIA
Perché educare all’autonomia
Tutto lo sviluppo e la crescita del bambino può essere visto come un graduale
passaggio dall’indipendenza verso l’autonomia che diviene completa quando il
bambino diventa adulto e cittadino a tutti gli effetti, soggetto e oggetto dei
diritti, capace di lavorare ed avere rapporti paritari con gli altri.
Nella crescita verso l’autonomia, un bambino handicappato incontra due tipi di
ostacoli: da una parte le difficoltà legate al suo deficit, dall’altra gli
atteggiamenti di paura e le ambivalenze dell’ambiente che interferiscono con
il suo grado di autonomia potenziale, raggiungibile pur nella situazione di
svantaggio. Spesso i genitori, ma anche la gente in genere che il bambino con
handicap incontra, talvolta gli stessi operatori e insegnanti, sviluppano nei
suoi confronti un atteggiamento assistenziale e protettivo che ne limita
l’acquisizione di indipendenza. Sembra quasi che si voglia compensare con
maggiore effetto ed atteggiamenti più permissivi il disagio per il deficit, o che
per esso, il bambino venga ritenuto complessivamente incapace e quindi
bisognoso di assistenza e di qualcuno che operi al posto suo in ogni occasione.
Tra coloro che si occupano di ritardo mentale si è fatta strada, in questi anni,
la sempre più radicata convinzione dell’importanza dell’educazione
all’autonomia per lo sviluppo di una persona con handicap mentale e per il
suo inserimento sociale.
Non sfugge a nessuno come sia più facile, già in scuola materna, inserire un
bambino handicappato, se questi ha una propria autonomia nell’andare in
bagno o nel mangiare, se sa rispettare delle regole e come spesso la
conquista di queste abilità sia indipendente dalle difficoltà che egli ha su
apprendimenti più didattici. E ancora come una buona autonomia personale
sia poi, andando avanti, prerequisito fondamentale per l’inserimento sociale e
lavorativo di giovani e adulti con handicap mentale.
Spesso una persona tale ha potenzialmente le stesse capacità di autonomia
di una persona normale, ma lo sviluppo di esse viene subordinato rispetto al
raggiungimento di abilità didattiche o ritenuto poco importante.
Per tutti questi motivi, nell’approccio con le famiglie, l’accento sull’educazione
all’autonomia viene ormai posto molto precocemente, dal porre in mano il
biscotto al bambino d pochi mesi al farlo giocare sul pavimento,
all’inserimento precoce in strutture educative e poi via via dalla cura delle
propria persona alle prime esperienze fuori casa senza la famiglia.
Molte conquiste però, soprattutto nell’ambito dell’autonomia esterna, sono
difficilmente raggiungibili in ambito familiare soprattutto quando tale
problema viene posto in adolescenza, momento in cui i ragazzi handicappati,
57
così come gli adolescenti normali, iniziano a manifestare desiderio di distacco
dai genitori e mal sopportano le loro richieste.
Al tempo stesso anche per i genitori riconoscere e accettare che i loro figli
siano diventando grandi è spesso difficile e tale processo va in qualche modo
sostenuto.
Il tema quindi dell’educazione all’autonomia assume allora un particolare
risalto nell’età adolescenziale.
Adolescenza e sviluppo in soggetti non Down
Adolescenza (dal latino adolesco) significa ‘crescita, sviluppo, espansione’;
rappresenta dunque il momento in cui ciò che esisteva già prima si espande e
si sviluppa.
Il giovane adolescente alla ricerca di un proprio equilibrio psico-fisico viene a
confrontarsi sostanzialmente con tre problematiche:
•
La coscienza e l’identità del corpo, che riesce a raggiungere attraverso
il passaggio dallo schema corporeo inconscio all’immagine del corpo
operatoria e che è influenzata dai cambiamenti dovuti allo sviluppo del
sistema genitale evidenti anche nella sfera affettivo-emotiva;
•
Il riconoscimento delle proprie capacità senza il quale potrebbero
sussistere un potenziale rischio di insuccesso scolastico, difficoltà
nell’affermazione di sé e senso di inadeguatezza;
•
L’assunzione di un ruolo sociale.
Il sé, la società e l’amore diventano tre contesti che, da questo momento in
poi, caratterizzeranno la sua vita. Il superamento del problema sociale
avviene con minor problematicità se l’adolescente ha sviluppato, negli anni
precedenti, un interesse verso gli altri. Il ruolo della famiglia in questo ambito
è fondamentale: ogni bambino deve sentirsi membro della famiglia con gli
stessi diritti e doveri degli altri componenti. E’ in questo modo di vivere che
nascono spontaneamente le esperienze di collaborazione, fiducia e
responsabilità, altruismo, aiuto e cooperazione. Le funzioni umane sono
strutturate per legare l’individuo alla società e inserirlo nei rapporti
interpersonali; spesso gli insuccessi, gli errori e i conflitti nelle relazioni con gli
altri hanno la loro origine nella carenza del sentimento sociale. Adler
sottolinea che, quando il sentimento sociale è insufficiente, l’individuo può
subire disfunzioni che si ripercuotono in alcuni organi, soprattutto quelli che
normalmente reagiscono con maggiore sensibilità alle tensioni psichiche. Le
ghiandole endocrine ad esempio sono influenzate dal mondo esterno e
rispondono alle impressioni psichiche connesse allo stile di vita dell’individuo.
58
Il superamento del problema del sé e della propria identità viene favorito da
una maggiore conoscenza e coscienza del proprio corpo e delle sue
potenzialità. A proposito del sé, Damasio ha elaborato queste
considerazioni:”Per ogni persona chi si conosce vi è un corpo,….. non si sono
mai incontrate persone senza corpo,……. Ad ogni corpo si accompagna un solo
sé”. Secondo questo studioso, dunque, sé e corpo sono aspetti inscindibili,
potremmo dire ‘incorporati’; intervenendo sulla corporeità con ogni probabilità
si genera armonia nel sé, favorendo l’unitarietà della persona. Inoltre,
secondo R. May il sé rappresenta un centro di forza presente in ogni essere
umano, dal quale attingere energia e valore: va consapevolizzato per
giungere alla propria autorealizzazione. Il primo passo da compiere consiste
nella presa di coscienza del proprio corpo: le scoperte relative alle sensazioni
corporee sono elementi essenziali; è dal corpo che partono i primi
suggerimenti alla psiche, pertanto è importante imparare ad ascoltarlo ed
interpretarlo.
Come giungere all’autorealizzazione? La risposta è contenuta nella visione
umanistica di Carl Rogers, psicologo e psicoterapeuta americano appartenente
alla corrente psicologica umanistico-esistenziale. Egli afferma che:”L’individuo
rappresenta un centro vitale di aspirazioni allo sviluppo e alla realizzazione
piena delle proprie potenzialità; esso è inoltre un campo di esperienza ed
ospita nel sé il luogo del riconoscimento dell’esperienza come realmente
vissuta dal soggetto che se ne appropria come parte integrante di se stesso”.
L’espressione autentica del sé non va espressa ma sollecitata: questa è la
sfida dell’uomo del terzo millennio chiamato ad attivare il proprio potenziale
individuale in sintonia con l’ambiente esterno e nel rispetto degli altri.
L’espressività corporea più spontanea ed autentica è quella del bambino che
non è stato ancora sottoposto a condizionamenti e stereotipi; può rimanere
tale solo se non viene “imbevuta” con eccessive intellettualizzazioni e
complessualità.
Riguardo all’amore è opportuno che l’adolescente impari, anzitutto, ad
accettare ed amare se stesso, a partire dalla propria anima e dal proprio
corpo per arrivare ad esprimersi facendo del corpo in veicolo più autentico di
espressione della vita. L’adolescente costruisce progressivamente la
personalità attraverso l’integrazione degli aspetti affettivo-relazionali con i
processi cognitivi. La sua nuova identità si scontrerà con una realtà socioculturale in cui dovrà trovare un’adeguata collocazione. Si ritiene che le
scienze motorie e sportive siano le discipline che possono concorrere con più
efficacia allo sviluppo dell’adolescente grazie alla forte motivazione che
generano, alla ricchezza inesauribile di forme motorie di cui dispongono, alle
forti implicazioni corporee che le contraddistinguono ed al senso sociale che
ricreano nelle attività di gruppo.
Tutte le attività espressive e sportivo-educative possono dunque essere
proposte in questa fase dell’età evolutiva al fine di far vivere l’esperienza di
una socialità di tipo affettivo che conduca il giovane alla cooperazione con
l’altro e alla accettazione di sé.
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In adolescenza, ancor più che nel periodo precedente, il riconoscimento
istituzionale delle proprie capacità passa dal rendimento scolastico. Il giovane
consolida la sua identità anche attraverso le conferme che gli provengono
dalla riuscita in ambito scolastico e dall’efficacia degli apprendimenti.
Lo stile pedagogico attuale che fa corrispondere una ricompensa allo sforzo,
abitua lo studente a finalizzare lo studio alla valutazione, non alla passione
per la cultura e per la crescita personale. Da un punto di vista sociale questo
fenomeno è svantaggioso perché spinge il giovane verso forti aspettative
rispetto al mondo del lavoro, purtroppo non sempre supportate da certezze.
La scuola necessita di operare dei cambiamenti al suo interno e di orientare il
percorso educativo verso la formazione della persona e non verso l’istruzione
fine a se stessa. Affinché ogni giovane scopra le sue propensioni e possa
svilupparsi coerentemente con il proprio potenziale è necessario che si
appassioni alla cultura, che si leghi affettivamente all’ambiente scolastico e al
‘fare’ all’interno della scuola. Oggi persistono ancora con buona diffusione
modalità di insegnamento basate sul condizionamento che limitano il
coinvolgimento delle competenze cognitive a quelle elementari “abbassando”
conseguentemente il livello di intenzionalità e di coinvolgimento intellettivo
superiore dello studente. L’intenzionalità è lo “starter” di tutti gli sforzi di
apprendimento, determina l’avvio alla motivazione ad apprendere. Senza
motivazione è impossibile apprendere efficacemente e senza intenzionalità
non può attivarsi la motivazione.
Scolasticamente parlando l’educazione fisica è la disciplina che più si addice a
questo scopo grazie alla sua prerogativa di rivolgersi alla totalità della persona,
alla possibilità di attivare funzioni operative e percettive ed alle sue svariate
applicazioni in ambito sportivo ed espressivo.
Lo sport educativo e le attività espressive rappresentano ottimi supporti per
far vivere il gusto dello sforzo personale e il piacere del risultato. Lo sport
consente all’adolescente di sperimentare sé stesso, valutare le proprie
possibilità e conoscere i propri comportamenti imparando ad assumersi le
proprie responsabilità. Il clima di cooperazione che si viene creando con i
compagni di squadra, protagonisti nella realizzazione di un risultato comune
completa il quadro fortemente educativo e socializzante di questa attività,
naturale prolungamento del gioco infantile nel mondo adulto.
L’espressività corporea che si origina dalla necessità interiore di comunicare
messaggi personali per poi espandersi in armonia con le proprie
caratteristiche, favorisce la percezione delle sensazioni personali. Questa
avviene tramite la funzione di interiorizzazione che è rappresentata dal
particolare momento di intimo contatto con il proprio sé corporeo e di
attenzione verso la propria interiorità.
Il vissuto emozionale si manifesta nel corpo attraverso il gioco di tensioni e
rilasciamenti muscolari, atteggiamenti e posture. La possibilità che il giovane
60
ha di prenderne coscienza e di modularli adeguatamente, conferisce al
movimento ritmicità e fluidità ed educa alla gestione dell’energia.
Attraverso l’attenzione centrata sul proprio corpo sia statico sia in movimento,
l’adolescente scopre le proprie possibilità intenzionali sul piano operativo
(sport) ed espressivo (espressione di emozioni); questo determina autonomia
motoria e padronanza delle attitudini corporee. Secondo Rogers l’educazione
deve agevolare l’apprendimento che va realizzato attraverso processi e
mutamenti, non tramite conoscenze statiche. Solo in questo modo l’uomo può
adattarsi a vivere in un contesto ambientale in continuo cambiamento,
divenendo capace di giudicare criticamente e di operare nel mondo con
intelligenza. La scuola deve dunque offrire agli allievi un apprendimento
significativo che avvenga tramite il fare e che contempli la partecipazione del
giovane sia sul piano razionale-conoscitivo che su quello emozionale-affettivo;
l’individuo e il gruppo hanno un ruolo attivo nel percorso finalizzato
all’assunzione di responsabilità. L’insegnamento quindi non è un processo
fatto di imposizioni esterne ma si origina dai bisogni, dagli interessi e dalla
curiosità dell’allievo e ne rispetta le modalità e i tempi di apprendimento.
Avviene tramite il fare ed è quantificabile attraverso i cambiamenti del
comportamento.
Rogers esprime la sua profonda preoccupazione per l’educazione “dal collo in
su”, per la conoscenza priva di sentimenti e concentrata solo sulle idee che
pervade la concezione educativa attuale e genera nei giovani un senso di
insoddisfazione e di vuoto. Da qui deriva l’esigenza di “imparare come
persona totale”, cioè di partire da un’attenta analisi dei bisogni del giovane
per progettare un tipo di apprendimento che lo coinvolga in tutti gli aspetti di
sé; si tratta in questo caso di proporre un apprendimento che stimoli sia
l’intelligenza cognitiva sia i sentimenti e la corporeità, coniugando in armonia
l’esperienza con l’astrazione. Solo in questo modo sarà garantita l’autenticità
della persona e l’educazione diventerà vero strumento facilitante l’espressione
del proprio potenziale.
Nell’affrontare l’ambito della conoscenza e del saper fare l’atteggiamento
dell’adulto può assumere due direzioni differenti: essere di tipo istruttivo e
quindi somministrare nozioni preconfezionate, oppure formativo quindi
proporre apprendimenti che passano dall’attività e dall’esperienza del
soggetto. Il giovane è dotato di sistemi di apprendimento e di capacità
appropriate che se sollecitate adeguatamente dall’ambiente (famiglia, scuola,
agenzie educative), consentono di realizzare acquisizioni durature e di vivere
l’esperienza del successo. L’apprendimento può dunque realizzarsi attraverso
una modalità di tipo “lineare” (condizionamento operante) nella quale il
sapere viene acquisito secondo metodiche proprie ad ogni disciplina, o ad una
modalità di tipo ‘mediazione’ in cui l’allievo è implicato totalmente nel
processo di apprendimento e l’unitarietà della persona fa sì che i diversi saperi
siano sempre in relazione tra loro e con il soggetto operante.
Il sistema educativo dovrebbe aiutare l’adolescente a conquistare gli
strumenti necessari per superare le naturali difficoltà e disarmonie evolutive
61
consentendogli di strutturare a poco a poco la propria identità sulla base di
esperienze e di vissuti che passano dalla corporeità, dall’azione e
dall’espressione di sé attraverso il movimento.
Attraverso il movimento nelle sue forme più disparate e nelle espressioni più
diversificate, possiamo interagire sulla persona totale, far parlare il suo cuore,
stimolare la sua intelligenza, far danzare il suo corpo, in una parola… far
cantare la vita. Ed è proprio l’adolescenza il momento in cui questo “miracolo”
può accadere, perché è adesso che si sente pulsare dal dentro e se si impara
ad ascoltare, si impara anche a conoscersi e a crescere.
L’espressività corporea rappresenta una preziosa attività, l’attività per
eccellenza, quella che meglio si addice a questo fine coerentemente con
l’unità della persona. Nell’espressività corporea si armonizzano le proprie
emozioni con il corpo che si muove mentre l’intelligenza si diffonde in ogni
cellula, si condividono sensazioni nel divenire parte di un gruppo ed il gruppo
diventa parte di ogni individuo. La musica inonda ogni più piccolo gesto di
piacevole suono e si vive veramente l’esperienza della gioia, dell’amore.
Inoltre ci si può divertire con gli altri ad inventare e realizzare sequenze,
coreografie, progetti avvalendosi di oggetti, strumenti musicali, della voce e
del canto, si possono approcciare improvvisazioni, insomma divenire creativi.
La partecipazione a queste esperienze di maschi e femmine insieme e la
condivisione del percorso introducono alla conoscenza dell’altro, quella
conoscenza vera, priva di finzioni e di messe in scena che fa essere
veramente se stessi. Per i ragazzi sperimentare delle attività diverse dallo
sport significa entrare in relazione con il proprio corpo in modo nuovo e
completare la percezione dell’immagine di sé. Da un punto di vista
prettamente motorio l’espressività corporea, attivando il sistema muscolare
tonico-posturale, offre la possibilità di portare l’attenzione su di sé
alimentando quella preziosa funzione che è quella di interiorizzazione troppo
spesso ignorata dalla nostra cultura. Inoltre l’espressività dei gesti induce
l’adolescente a gestire la propria energia, lo aiuta ad abituarsi a controllare la
forza; questo rappresenta un elemento educativo molto importante
soprattutto per quei ragazzi eccessivamente “prorompenti” il cui disagio è
dovuto appunto alla difficoltà di controllare la propria energia. E, per
concludere, l’espressività corporea è efficace anche per educare all’affettività:
grazie alla sollecitazione motoria di tutte le parti del corpo nella più pura
naturalezza consente ai maschi e alle femmine di vivere l’affettività con
semplicità e spontaneità, “sdrammatizzando” finte paure, “vergogne” e
schemi mentali e li conduce a vivere questo passaggio secondo natura.
Per uno sviluppo equilibrato si ritiene utili sia l’educazione al “saper fare” sia
quella al “saper essere” ed al “conoscere”. Saper fare e conoscenze
rappresentano un insieme funzionale corrispondente alle funzioni mentali
fondate su basi psicomotorie e aspetti affettivo-relazionali.
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Il tipo di apprendimento proposto è un apprendimento unitario, realizzato con
l’intenzionalità del soggetto, attraverso lo sforzo personale di integrazione dei
dati che si fonde con i saperi precedenti già memorizzati determinando una
certa plasticità nella capacità di articolare le risposte. Talvolta accade che
durante l’infanzia l’adulto si sostituisca ripetutamente al bambino nella
soluzione di problemi pretendendo di insegnare a lui tutto, iperproteggiondolo e negandogli l’opportunità di fare le esperienze utili al suo
sviluppo funzionale.
Questo errore educativo ricrea nell’adolescente dipendenza e passività,
incapacità di essere protagonista e di cimentarsi in compiti personali
particolarmente impegnativi; tratti che vanno ad impoverire il suo sistema
energetico e a mantenere latenti le motivazioni all’agire in prima persona. Con
l’avvento delle problematiche adolescenziali, i più deboli non sono in grado di
sostenersi autonomamente e spesso demotivati, sono spinti verso la ricerca di
soluzioni palliative e compensative (droghe, alcool, fumo, ecc.).
Nutrire il proprio corpo e la propria psiche di emozioni piacevoli derivanti da
attività ed esperienze personali scaturite dai propri sani e naturali bisogni,
rappresenta un’ottima soluzione al senso di vuoto che pervade l’adolescente
del terzo millennio.
Crescere insieme al corpo e divenire attraverso il corpo è la sfida che l’essere
umano deve affrontare se intende vivere realizzandosi e contribuendo
all’evoluzione dell’umanità. Questi stili di vita non si possono improvvisare,
hanno bisogno di solide basi che vanno poste già dalla prima infanzia.
L’adolescente è capace di rappresentazione mentale, di percezione,
comprensione e soluzione di situazione problematiche, di intuizione e
creatività. Controlla la forza muscolare di differenti distretti corporei, può
perfezionare le capacità coordinative, apprendere sport e tecniche di ogni
genere. Per le nuove esigenze somato-funzionali deve però necessariamente
rielaborare gli schemi motori già acquisiti; i cambiamenti fisiologici e
morfologici in corso spesso soprattutto nel maschio, creano difficoltà
coordinative e senso di estraneità del proprio corpo. Benché sottomesso ad
una crisi psico-fisica che può protrarsi, l’adolescente ha i n sé tutti i requisiti
necessari per esprimersi efficacemente e con creatività, disponendo di una
motricità completa negli aspetti espressivi ed operativi.
Dal punto di vista relazionale, della comunicazione e degli scambi con gli altri,
abbiamo visto che l’adolescenza è caratterizzata dal bisogno di partecipazione
al gruppo, dalla ricerca di socializzazione e spesso anche dalla nascita del
primo amore. Sono pertanto molti e diversificati gli impulsi che il giovane
percepisce dentro di sé, a partire dai messaggi del corpo che cambia, dalle
spinte pulsionali, fino ai tumuli interiori dovuti all’affermazione della propria
identità e alla scoperta del sé affettivo ed emotivo. Dai ragazzi più sensibili
ogni minima difficoltà o cambiamento sono vissuti come un vero dramma e la
fragilità interiore a volte prende il sopravvento.
63
Si potrebbe definirlo come un periodo un po’ “bizzarro” che vede da una parte
la forza della vita “sprizzare da tutti i pori” e dall’altro il dramma del dover
crescere e la paura del nuovo, creando turbamento ed apprensione.
E’ indubbiamente una fase dell’esistenza particolarmente delicata in cui la
‘disorganizzazione’ generalizzata e diffusa deve riequilibrarsi ed armonizzarsi
punto di forza e carica vitale per il futuro adulto. Nonostante questo, il
momento è propizio perché lo sviluppo funzionale è giunto a compimento,
quindi l’adolescente può disporre di funzioni cognitive, motorie ed affettive
predisposte e pronte ad evolvere per essere utilizzate in vista della crescita e
della valorizzazione di sé.
Questo quadro ci porta a valorizzare l’attività motoria come uno dei mezzi più
adeguati a supportare il giovane nel superamento della delicata fase che sta
attraversando.
Che cosa si intende per autonomia esterna in un soggetto Down
Per delineare un itinerario educativo nell’ambito dell’autonomia esterna e
definire aree da esplorare e abilità da raggiungere è necessario rispondere alle
domande “Quali sono le esperienze minime essenziali per cavarsela fuori casa
da soli?” e ancora “Di che cosa ho bisogno per la mia vita quotidiana, per il
lavoro, per il tempo libero?”
Immediatamente ne scaturiscono una serie di risposte legate alla capacità di
spostamento ed altre legate alle capacità di acquisto e di uso dei servizi in
genere.
Analizzando tali esigenze formative è possibile raccogliere in 5 aree educative
gli obiettivi di tale itinerario:
•
•
•
•
•
Comunicazione;
Orientamento;
Comportamento stradale;
Uso del denaro;
Uso dei negozi e più in generale dei servizi.
Comunicazione. Nell’analisi dei requisiti per una vita adulta autonoma emerge
immediatamente come uno dei primi passi verso l’autonomia sia costituito dal
possedere una buona capacità di comunicazione, la possibilità cioè di poter
esprimere i propri bisogni, i propri desideri, i propri pensieri. Questo a volte
può essere semplice in un ambiente di persone conosciute e che ci conoscono,
ma può diventare una grossa difficoltà quando ci si muove all’esterno fra
estranei. D’altra parte è essenziale sviluppare la capacità di chiedere
informazioni, il poter spiegare che cosa si desidera nei negozi o negli uffici, il
saper dare i propri dati personali, il saper usare i telefoni pubblici, sia come
mezzo per raggiungere ciò che si desidera, sia per poter chiedere aiuto in
caso di difficoltà. Il possesso quindi di queste abilità e delle eventuali strategie
per aggirare le personali difficoltà di linguaggio sono quindi gli obiettivi da
perseguire in quest’area.
64
Orientamento. Spesso una persona handicappata è abituata ad essere guidata
dai genitori o da altri accompagnatori per raggiungere qualsiasi luogo. Ciò
determina una scarsissima attenzione rispetto al percorso da fare, ai punti di
riferimento, ai nomi delle strade. Bisognerà allora aumentare la capacità di
guardarsi intorno in modo consapevole: imparare a leggere e seguire
indicazioni stradali, individuare punti di riferimento, riconoscere fermate di
autobus, taxi, metropolitana,…
Comportamento stradale. Fondamentale per l’autonomia all’esterno è
l’assunzione di comportamenti adeguati che permettano di muoversi da soli
prestandola dovuta attenzione alle macchine in arrivo e ai vari segnali
pedonali.
Uso del denaro. L’obiettivo è in questo ambito permettere ai ragazzi di
utilizzare il denaro per poter fare acquisti autonomamente. Questo vuol dire
passare per diverse fasi: capire quale sia il significato e l’uso del denaro come
“oggetto di scambio”, riconoscere i diversi tagli di monete e banconote,
conteggiarlo, conoscere a grandi linee il valore dei principali articoli di uso più
consueto, leggere i prezzi, fornire il denaro richiesto, comprendere quando si
deve ricevere il resto e conteggiarlo.
Uso dei servizi. Bisognerà imparare a riconoscere ed utilizzare adeguatamente
e con dimestichezza i negozi ed i servizi di uso più comune. Per quanto
riguarda i negozi si tratterà di saper individuare i negozi utili all’acquisto dei
vari prodotti nonché l’uso di mercati e supermercati.
Tra gli altri servizi certamente interessante è la conoscenza e l’uso dei
principali uffici pubblici come l’ufficio postale e dei trasporti e dei più comuni
luoghi di divertimento come il bowling, il cinema, il luna-park, il fast-food, ecc.
Il corso di educazione all’autonomia dell’Associazione Bambini Down
L’Associazione Bambini Down è composta da famiglie che si propongono come
punto di riferimento per i genitori di bambini e adulti con la Sindrome di Down.
La spinta verso l’autonomia, verso il mettere le persone in grado di farcela da
sole anziché sostituirsi ad esse è un po’ lo spirito che anima all’interno
dell’Associazione non solo questo progetto, ma più in generale le scelte
politiche ed operative dell’Associazione che anche nei confronti delle famiglie
punta ad esempio ad offrire servizi di consulenza più che di assistenza, ad
informare i genitori dei loro diritti perché possano farli rispettare, a ridare in
genere alle persone Down il ruolo di soggetti di diritti piuttosto che oggetti di
assistenza. Il clima culturale quindi in cui si colloca questo progetto è
particolarmente sensibile al tema autonomia.
Affrontare io tema dell’autonomia vuol dire porsi, come operatori e come
genitori, non solo l’obiettivo del raggiungimento di alcune competenze, ma il
riconoscere e il favorire il cambiamento della condizione da bambino a quella
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di adolescente e di adulto. Vuol dire quindi creare un clima, un modo di
rapportarsi, una mentalità di fiducia e di rispetto nei confronti del ragazzo. E’
in questo clima che egli può trovare maggiore motivazione ad imparare e può
crescere più globalmente come persona.
Il programma del corso ha tenuto presenti tali presupposti e ha sviluppato
quindi al tempo stesso attività e attenzioni in tale direzione, sia nel rapporto
con i ragazzi, sia nella riflessione con le famiglie.
Struttura del corso:
il corso di educazione all’autonomia si colloca nell’ambito del tempo libero e
si struttura in una serie di incontri pomeridiani (3 ore circa). Ogni ragazzo si
incontra un pomeriggio a settimana con un gruppo composto da 6-8 ragazzi
Down e 3-4 operatori. Dopo un momento comune il gruppo si divide in
sottogruppi di 2-3 ragazzi più un operatore e, dove possibile, un volontario o
uno degli obiettori di coscienza in servizio presso l’ente; è all’interno del
sottogruppo che vengono proposte la maggior parte delle attività. Le attività
proposte sono incentrate sulle 5 aree individuate come fondamentali per
un’educazione all’autonomia esterna, già menzionate.
Un rapporto basato sulla “verità”.
E’ stato dato un grosso peso sulla motivazione come stimolo per ogni
apprendimento, nella convinzione che ciò possa essere un ottimo motore per
un insegnamento che parte e si colloca nel concreto. Questo vuol dire ad
esempio contare i soldi per andare a fare merenda al fast-food, usare l’amico
per contattare l’amico assente, chiedere informazioni per raggiungere un
luogo dove si vuole passare insieme il pomeriggio… Ciò è in evidente
contrasto con un apprendimento basato sulla pura esercitazione ripetitiva
come è talvolta quello scolastico o in genere con l’idea di chi crede che una
persona con handicap mentale impari più facilmente in modo meccanico e
ripetitivo.
Ma è anche la scelta di motivazioni reali e non fittizie rispetto alle quali i
ragazzi sono molto sensibili. Nessuno di loro va volentieri a comprare il latte
se c’è già in frigorifero o se sa che comunque ci andrà la madre se lui non si
muove.
Allo stesso tempo questa modalità di rapporto rinforza nei ragazzi la
convinzione di essere grandi e oggetto di fiducia da parte degli adulti.
Coinvolgimento attivo nelle scelte e nelle gestione delle attività.
Anche questa scelta punta ad una incentivazione dei ragazzi ad agire
correttamente e da grandi, rendendoli sempre più protagonisti delle varie
attività.
Essa ha determinato, oltre ad una serie di piccole e grandi attenzioni nella
cogestione coi ragazzi di scelte come cosa mangiare per merenda o come
organizzare un week end fuori, anche la scelta di lavorare sempre in piccoli
gruppi (6-8 ragazzi al giorno) con momenti di ulteriore suddivisione. Spesso
nella vita di questi ragazzi, anche quando viene proposto loro un ruolo attivo,
questo viene sempre presentato come una forma di aiuto (“Mi aiuti a cucinare,
66
mi aiuti a fare la spesa”, ecc.) un po’ come si fa coi bambini con l’idea di
renderli attivi, ma senza credere troppo nelle loro capacità. Essi avvertono
questo e sono perciò spesso poco disponibili, “Perché devo farlo se ci sei tu ed
io non sono necessario?”.
La scelta del corso è di porre attenzione a che il loro ruolo nelle varie attività
sia il più possibile di protagonisti. Anche per questo durante l’anno vengono
inserite due attività particolarmente importanti, la prima è la redazione con i
ragazzi di un “regolamento” del club: con loro, dopo un paio di mesi in cui
hanno sperimentato piacere e difficoltà nella vita di gruppo, vengono definite
le regole di comportamento che permettono di vivere bene insieme, il
regolamento viene poi sottoscritto da tutti e ha la funzione di spostare il
giudizio di buono o cattivo comportamento dalla figura adulta dell’educatore al
gruppo e cioè agli stessi ragazzi. Inoltre dopo i primi mesi viene proposta ai
ragazzi una “stella” di obiettivi personali molto concreti da raggiungere
attraverso l’attività, quali portare il proprio gruppo al cinema, fare una
telefonata, ecc. Il raggiungimento degli obiettivi è visualizzato per loro nel
diventare “ragazzi in gamba”, cioè più grandi e più capaci, questo patto
consapevole ed esplicito tra loro, gli operatori ed il gruppo è un ulteriore
stimolo al loro impegnarsi e ribadisce la fiducia in loro da parte degli adulti.
Strategie personalizzate.
Per ogni ragazzo vengono individuate strategie per renderli autonomi che
partano dalle loro risorse, ad es. se un ragazzo è capace di leggere viene
stimolato a farlo nel riconoscimento dei prodotti nei negozi, se non lo è viene
sollecitato a riconoscere l’immagine del prodotto o della scritta sulla scatola,
se ha buone capacità di linguaggio è stimolato a farsi aiutare di più dagli altri
attraverso il chiedere, ecc. Ogni abilità da acquisire viene vista, non in sé e
per sé, ma sempre in relazione all’obiettivo finale “autonomia” e quindi scelta
in funzione di esso e delle capacità o difficoltà del singolo ragazzo.
La metodologia di lavoro è globalmente caratterizzata da un approccio
progettuale in cui ogni proposta nasce sempre da un riferimento agli obiettivi,
l’analisi della situazione (ambientale e personale) e delle risorse.
Nello svolgimento delle attività vengono anche utilizzati “strumenti” che
possono facilitare l’esecuzione di alcuni compiti e fungere da ausili per il
raggiungimento degli obiettivi di autonomia scelti.
I risultati.
I ragazzi che hanno partecipato in questi anni al corso non hanno subito
alcuna selezione in entrata, l’unico criterio di accesso è stata l’età, tra i 15 e
20 anni, e l’accettazione esplicita da parte delle famiglie degli obiettivi e le
modalità di svolgimento dell’esperienza.
A tutti è stato proposto, sia pur con un rinnovo di adesione anno per anno, un
cammino articolato su tre anni di attività, dove il primo è generalmente di
67
scoperta delle prime autonomie e dell’essere considerato grande, il secondo di
maggiori acquisizioni, il terzo di consolidamento. Vengono fissati degli
obiettivi generali per l’attività e obiettivi personali per il ragazzo; all’inizio del
corso e poi, almeno due volte durante l’anno, vengono fatte delle valutazioni
dei cambiamenti dei ragazzi utilizzando allo scopo delle griglie di osservazione
strutturate, appositamente predisposte e compilate in situazione.
I ragazzi che hanno partecipato ai corsi a Roma erano impegnati il mattino in
attività diverse: scuola media inferiore e superiore, scuole speciali, corsi di
formazione professionali speciali e integrati, cooperative di lavoro, coprendo
l’intera gamma di possibilità scolastico-formative. Tale diversificazione negli
impegni scolastici è indicativa anche della diversità dei ragazzi dal punto di
vista delle competenze cognitive e didattiche di base.
Anche nelle competenze di autonomia possedute all’inizio dell’esperienza si
aveva una grossa variabilità che non appariva però correlata con il maggiore o
minore livello scolastico raggiunto. Fin dai primi colloqui con i genitori ci si è
resi conto che spesso l’assenza di abilità coincideva con la scarsa o totale
assenza di occasioni offerte nel passato: i genitori rispondevano spesso alle
nostre domande con espressioni tipo “non so, non ci ho mai provato”. E anche
laddove esisteva qualche abilità esse erano presenti in modo scoordinato,
frutto più della casualità dell’esperienza che di una precisa intenzionalità
educativa.
I genitori.
Non è possibile pensare ad un progetto di educazione all’autonomia che non
coinvolga le famiglie, tanto più se si tratta di un progetto situato all’interno
del tempo libero e quindi con un investimento di tempo molto limitato.
Durante l’esperienza del corso vengono utilizzate tre diverse modalità di
rapporto con le famiglie: il colloquio individuale, la riunione di grande gruppo
e quella di piccolo gruppo. Il colloquio individuale viene utilizzato all’inizio per
una prima conoscenza del caso e poi per verifiche più puntuali promosse dallo
staff con cadenza periodica o su specifici problemi e/o su richiesta della
famiglia. La riunione viene utilizzata per comunicazioni relative al programma
delle attività o per tematiche di interesse collettivo. L’incontro per piccoli
gruppi è preposto due o tre volte durante l’anno, coinvolgendo i genitori i cui
ragazzi escono nello stesso giorno (6-8 famiglie) e si rivela spesso il più ricco.
Tale situazione infatti,
oltre ad offrire la possibilità a tutti di esprimersi, offre ai genitori un’occasione
di confronto molto stimolante e dà agli operatori l’opportunità di sottolineare
alcuni atteggiamenti da tenere o da evitare con i ragazzi.
Nel lavoro svolto con i genitori si utilizza una metodologia che, partendo dal
racconto delle esperienze quotidiane, ne razionalizza le motivazioni e ne fa
emergere le esigenze che i ragazzi esprimono, così da promuovere nei
genitori una maggiore capacità di osservazione e di riflessione sulle conquiste
dei figli verso l’autonomia. Il partire sempre dall’analisi dell’esperienza
permette di entrare nel merito dei problemi in modo semplice e di individuare
68
insieme ai genitori le strategie più adeguate nelle vita domestica, evitando
regole generali e personalizzando sempre l’intervento. Durante le riunioni
vengono utilizzati anche filmati sulle attività dei ragazzi da commentare
insieme, che aiutano i familiari a costruirsi un’immagine più realistica e speso
più positiva dei propri figli e li stimola nell’individuazione di nuove opportunità.
Inoltre alla fine di ogni anno viene consegnata ai genitori una lettera-relazione
sulle conquiste operate dal proprio ragazzo durante l’anno e alcuni
suggerimenti su come aiutarne il mantenimento. Oltre a tali occasioni
strutturate, durante l’anno gli operatori che hanno seguito i ragazzi,
soprattutto nei primi tempi, colgono i momenti di incontro prima e dopo le
attività per sottolineare in modo informale le abilità acquisite e osservare
anche i più piccoli progressi, così da incoraggiare il genitore e stimolare la sua
attenzione.
Negli anni di corso fin qui realizzati abbiamo potuto notare, sia pur con le
ovvie differenze e sensibilità tra i genitori, una generale crescita di capacità di
osservazione e di attenzione nel dare spazi di autonomia ai ragazzi e una
maggiore consapevolezza delle loro potenzialità e del loro essere grandi. Il
corso è stato per tutti un momento di presa di coscienza dei propri
atteggiamenti inadeguati e al tempo stesso occasione di valorizzazione delle
competenze dei propri figli e di controllo della propria ansia. Il poter vedere,
ad esempio, i figli capaciti tornare a casa con l’autobus, fruendo del successo
del risultato, senza aver vissuto l’ansia della preparazione e della scelta è
stato per molti fonte di incoraggiamento e di nuova motivazione. I risultati
maggiori si sono ottenuti laddove i genitori si sono coinvolti a pieno nel clima
del corso, hanno creduto nelle capacità dei figli e hanno dato continuità alle
proposte nella vita quotidiana.
Conclusioni
In ultima analisi si può dire che dal punto di vista dell’analisi delle capacità di
tali soggetti, mette in luce come possano essere esplorate ancora molte
possibilità di sviluppo per essi, anche in età giovane e adulta, e come l’ambito
dell’inserimento sociale offra stimoli e opportunità per una crescita continua.
Dal punto di vista degli obiettivi di un progetto educativo per persone con
ritardo mentale, si evidenzia come la crescita dell’autonomia sia un procedere
nella prospettiva dell’integrazione, intesa come capacità di utilizzare ciò che si
sa e non, esplorare le proprie e le altri risorse. Autonomia non è fare tutto da
soli, è saper collaborare, domandare, mettere insieme. Per procedere in tale
direzione è necessario valorizzare il singolo, affermare la sua dignità,
riconoscere il suo diventare adulto.
Dal punto di vista metodologico, l’esperienza presentata offre alcuni spunti
per l’organizzazione di un intervento educativo che può trovare spazio in molti
ambiti, la famiglia, la scuola, la formazione professionale, il tempo libero, il
lavoro, ma la cui urgenza non può essere disattesa.
69
13. ESPERIENZE DI INSERIMENTO NELLA SCUOLA DELL’OBBLIGO
Ci troviamo di fronte a due problemi. Il primo riguarda le critiche che sono
state mosse all’integrazione scolastica e al suo svolgimento “normativo”
attuato senza badare troppo alla qualità e quindi senza la capacità di
organizzare diverse dorme di integrazione verificabile. Queste critiche
utilizzano a volte l’espressione “integrazione selvaggia”, con un’implicazione
semantica negativa che è quantomeno discutibile. Si potrebbe ribattere
ricordando come il termine “selvaggio” sia all’origine della svolta storica
dell’educazione degli handicappati (il sauvage de l’Aveyron) e come,
interpretando questo stesso termine nel senso dell’improvvisazione, la scuola
italiana dell’obbligo per la sua struttura a percorso unitario con fasce di
continuità dell’insegnamento, non fosse del tutto interpretata ad assumere
l’eterogeneità del gruppo-classe fra le sue caratteristiche qualificanti, e quindi
non improvvisasse.
Il primo problema, dunque, è di tipo critico, e comprende la constatazione che
l’integrazione scolastica in generale, e quindi anche quella di bambini Down, è
esaminata troppe volte attraverso esempi, racconti singoli, casi in qualche
modo eccezionali, accanto ai quali vi sarebbe una serie di situazioni mal
gestite, con false integrazioni, risultati scolastici dubbi e non verificabili; da
questa maggioranza emergerebbero in negativo situazioni più nettamente
drammatiche, tali da finire sui giornali. Mancherebbero dunque serie
possibilità di valutazione.
Questo primo problema va affrontato; si può intanto capire se è un problema
vero o falso. Ad esso si collega lo stato delle strutture di ricerca che non è
certo brillante.
Una studiosa, Madeleine Natanson, nota come, in un passato tutt’altro che
lontano, le reazioni di pietà potevano alternarsi con quelle di rifiuto e, in ogni
modo, i “mongoloidi” si trovavano ridotti al loro sintomo e soprattutto alla loro
apparenza fisica; nessuna prova di apprendimento poteva essere tentata,
dato che, nell’etichettatura globale, le differenze individuali non potevano che
essere negate.
J.A. Rondal (1986) rileva come un numero crescente di bambini trisomici
imparino ora a leggere, a scrivere e ad effettuare operazioni aritmetiche
elementari; mentre si pensava, in un passato recente, che queste acquisizioni
fossero, per definizione, fuori dalla portata dei bambini e delle persone con
trisomia 21.
Il secondo problema è dunque quello che propone Jean Grondeau (1980).
Cosa è speciale: l’educazione o i bambini?
E’ un problema che sta portando proprio nel quadro dell’educazione scolastica,
a soluzioni non previste nel recente passato. Sembra che la risposta tenda a
ridurre ed a riformulare la qualifica di “speciale”.
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La letteratura ha indicato, quasi all’unanimità, fino agli Sessanta, l’esistenza
di un deficit dell’attenzione, caratterizzato da un riflesso di orientazione
debole e dalla incapacità di mantenere l’attenzione.
In seguito è stata presentata un’ipotesi che ha sempre maggiore consistenza
di prove; gli handicappati mentali, come i bambini Down,avrebbero delle
deficienze a livello dell’astrazione e del trattamento dell’informazione,
piuttosto che nel riflesso di orientazione o in altri processi dell’attenzione in
rapporto con lo stimolo sensoriale (Mainardi e Lambert, 1984).
Questa svolta nelle ipotesi scientifiche è assai interessante e mette in seria
discussione la credibilità di programmi speciali basati, ad esempio, sulla
stimolazione sensoriale; sembra, invece, dare credibilità ad una prospettiva
pedagogica capace di servirsi della strutturazione delle risorse del contesto
reale.
E’ in questo senso che si rivela l’importanza del pensiero simbolico nella
regolazione dell’azione di un soggetto e la presa in considerazione dei processi
autoregolatori, vale a dire le influenze create dal soggetto stesso.
Risultati di una ricerca
Da una ricerca svolta tra 1985 e il 1988 sono emersi i seguenti dati: la ricerca
ha interessato 369 soggetti residenti in Emilia Romagna, vale a dire tutta la
popolazione Down compresa fra 6 e 15 anni, ad eccezione della provincia di
Ferrara. Il 60% era composto da maschi. La ricerca aveva come oggetto di
indagine l’integrazione nella scuola dell’obbligo ed aveva come strumento
privilegiato, l’intervista strutturata e la sua elaborazione attraverso la raccolta
dei dati e la loro analisi. Sono stati intervistati 177 insegnanti di sostegno e
181 insegnanti di classe; ancora sono state effettuate 117 interviste ai
genitori, con una campionatura casuale.
La distribuzione dei bambini e delle bambine per età nelle classi dimostrava
che non vi erano particolari problemi: la maggior parte dei bambini Down, il
62% nelle elementari e l’84% nelle medie, era inserita in una classe a tempo
normale e a tale scelta era compiuta anche in presenza di altre possibilità. Ma
nella scuola elementare, quando esisteva la possibilità di tempo pieno, il 60%
dei bambini Down vi era inserito, ed anche la partecipazione alle attività
integrative era più frequente nella scuola elementare.
Le scuole medie apparivano più ricche di spazi attrezzati e di strumentazione.
Gabriella Grandi rilevava: le modalità di lavoro che occupano quote rilevanti
del tempo scolastico dei bambini Down sono 3, attività di classe con la
presenza dell’insegnante di sostegno (circa il 27% del tempo totale), attività
in classe senza l’insegnante di sostegno (29%), attività fuori della classe con
insegnante di sostegno e senza altri compagni (22%).
71
La ricerca ha rivelato una diffusa autonomia nelle operazioni di ingresso e di
uscita dalla scuola, nella cura di sé e nelle funzioni igieniche.
Per quanto riguarda le competenze matematiche generali di base (capacità di
formare insiemi, contare, ecc.) è da considerarsi soddisfacente in relazione al
fatto che il 23% del campione ha un’età pari o inferiore a 9 anni e svolge
quindi attività scolastiche prevalentemente limitate alle sole competenze di
base. Le valutazioni dei docenti, infatti, definiscono un 81-83% di alunni che
sa contare, un 59-69% di alunni che conosce il denaro, e così via. La
situazione peggiora man mano che le richieste di prestazione scolastica si
fanno sempre più astratte e complesse: mentre il 75-76% del campione sa
fare addizioni, solo il 18-20% sa fare le divisioni.
In generale, i docenti di sostegno danno risposte tendenzialmente più
ottimistiche sulle capacità degli alunni di quanto non facciano gli insegnanti di
classe; questi ultimi totalizzano invece quote percentuali di risposte “non so”,
spesso più alte.
Per quanto riguarda le abilità linguistiche e comunicative è emerso che l’88%
dei casi esaminati sa leggere, anche frasi complesse. Le competenze nella
scrittura sono elevate, secondo quanto dichiarano gli insegnanti di sostegno,
l’89% dei bambini è in grado di scrivere.
Vi sono indicazioni di buone competenze grafico-pittoriche: il 94,3% degli
alunni con Sindrome di Down sa disegnare e dipingere. Anche la lettura
dell’immagine è considerata buona.
Altri dati riguardano l’area psicomotoria: in particolare per la motricità fine e
le mani, risulta che l’86% sa impugnare correttamente la penna. La
conoscenza del proprio corpo e della spazialità appare buona.
72
14. PRIME ESPERIENZE DI INSERIMENTO ALLA SCUOLA SUPERIORE
L’inserimento alla scuola superiore per i ragazzi Down si pone all’interno delle
più vaste problematiche dell’adolescente e dell’inserimento sociale. Terminata
la scuola dell’obbligo, per le famiglie si pone l’interrogativo sul che fare e sul
che cosa offrire al ragazzo in alternativa ad una permanenza forzata nella
terza media o ad un’attesa, spesso anche molto lunga, di occasioni formative
e lavorative.
La dismissione del ragazzo da forme di intervento riabilitativo non sempre
viene compensata da parte dei servizi, con modalità di intervento diverse (ad
es. il sostegno psicologico alla famiglia, l’individuazione di risorse di
inserimento sociale per il ragazzo), che proseguono il processo educativo e
riabilitativo condotto negli anni precedenti con il bambino e la famiglia.
Ci si trova così di fronte a due tendenze che possono anche presentarsi in
maniera contraddittoria: da una parte la spinta motivazionale del ragazzo a
crescere ed acquisire una sua propria autonomia, dall’altra la ricerca da parte
della famiglia di modalità di inserimento sociale che rispondano ai bisogni di
autonomia del ragazzo e che, nello stesso tempo, abbiano valenza formativa
per un eventuale inserimento lavorativo. La possibilità di iscrivere il ragazzo
alla scuola superiore, prevista dalla C.M. 262/88, va in tale direzione; va
ricordato che tale normativa va a collocarsi nel progetto più ampio della
riforma della scuola superiore che prevede un innalzamento a 16 anni dell’età
dell’obbligo scolastico. E’ stata garantita per i ragazzi portatori di handicap
fisici, sensoriali e psichici la frequenza al biennio delle scuole medie superiori.
Questa definisce un’indiscutibile occasione di crescita per tutti i ragazzi con
handicap, che hanno così la possibilità di posticipare l’eventuale formazione
professionale, considerate le scarse possibilità di inserimento a quest’età, nei
corsi di formazione e/o nei tirocini di lavoro.
Per rispondere ai bisogni degli adolescenti Down e delle loro famiglie,
l’Associazione Bambini Down di Roma ha avviato nel 1990 un progetto di
ricerca-intervento sulle problematiche emergenti dall’inserimento nelle scuole
medie superiori. Il progetto, che poi è proseguito negli anni successivi, aveva
come obiettivo prioritario quello di individuare strategie operative che
potessero far superare alcune inevitabili difficoltà di inserimento, considerato
che la scuola superiore per definizione è una scuola con obiettivi di
formazione che possono anche porsi in contrasto con talune caratteristiche di
apprendimento e socializzazione peculiari degli alunni con handicap.
Fasi del progetto
Il progetto è arrivato ad avere una forma definitiva nell’anno scolastico
1992/1993, anno a cui faremo riferimento per una descrizione delle varie fasi
dell’intervento.
73
I fase. Ricognizione degli alunni Down iscritti alle scuole superiori di Roma e
provincia, individuazione dei casi conosciuti dall’Associazione per i quali
attuare un intervento;
II fase. Valutazione comprensiva dei bisogni dell’adolescente Down e delle
loro famiglie;
III fase. Collaborazione con la scuola per affrontare le problematiche
emergenti dall’inserimento;
IV fase. Valutazione degli aspetti organizzativi dell’inserimento e degli effetti
di questo sul ragazzo e sulla famiglia.
Ricognizione degli alunni: nel territorio di Roma e provincia il fenomeno
dell’inserimento dei ragazzi Down nelle scuole superiori ha avuto un
considerevole incremento negli ultimi 3 anni. Due possono essere i fattori
legati a tale mutamento: prima di tutto una diminuzione dell’atteggiamento
restrittivo rispetto all’inserimento nella scuola superiore da parte della scuola
media. All’inizio, quando fu promulgata la C.M. 262/88, gli insegnanti della
scuola dell’obbligo nutrivano probabilmente più perplessità in proposito.
Attualmente essi offrono invece una maggiore informazione alle famiglie sulla
possibilità di continuare l’inserimento oltre l’obbligo e si dimostrano anche più
attenti al problema dell’orientamento per gli alunni portatori di handicap.
Un altro motivo è riconducibile alle diverse aspettative di vita sociale che
l’inserimento alle scuole superiori ha determinato nei genitori. Questa
opportunità viene infatti percepita come la giusta continuazione di un iter
scolastico normale, per il quale essi stessi si sono adoperati negli precedenti.
Nell’anno scolastico 1992/1993 a tutte le scuole cui erano inseriti casi
conosciuti dall’Associazione, è stata offerta la possibilità di usufruire di un
intervento specifico sulle problematiche dell’inserimento. La distribuzione dei
31 casi nelle varie tipologie di scuola media superiore rispecchia la
distribuzione che emerge anche nei dati del Provveditorato. Prevalgono le
scuole professionali, a conferma del fatto, abbastanza ovvio, che gli altri tipi
di scuola risultano essere per contenuti ed attività proposte, sicuramente più
difficoltosi per dei ragazzi che hanno un handicap mentale quale la Sindrome
di Down.
All’opportunità offerta dall’Associazione hanno risposto positivamente 24
scuole, pari ad altrettanti ragazzi Down, di età compresa tra i 15 e 21 anni.
Valutazione degli alunni Down. Per i 24 casi conosciuti dall’Associazione e le
cui scuole hanno aderito all’iniziativa, si è proceduto alla realizzazione della
seconda fase del progetto, e cioè la valutazione comprensiva dei bisogni dei
ragazzi Down e delle loro famiglie.
Abbastanza omogenea è la distribuzione tra le diverse classi frequentate a
conferma dell’ipotesi che gli operatori avevano formulato all’inizio del progetto,
e cioè che il gruppo dei Down che arriva alle scuole superiori è selezionato in
74
merito al livello di apprendimento scolastico raggiunto nelle scuole medie
dell’obbligo. Altrettanto buone sono le competenze in merito all’autonomia
personale, espressa attraverso la capacità di vestirsi, lavarsi, mangiare e
accudire sé stessi; unito alle abilità sociali, espresse attraverso la capacità di
usare il telefono, usare il denaro, comportarsi adeguatamente in un luogo
pubblico, spostarsi in maniera autonoma fuori dall’ambiente domestico.
Collaborazione con la scuola. Le modalità di intervento attuate dagli operatori
dell’Associazione, sempre su richiesta dei genitori o della scuola, sono state
diversificate a seconda dell’obiettivo cui erano finalizzate:
•
Partecipazione ai GLH operativi di Istituto, per dare un contributo ai fini
della stesura del profilo dinamico funzionale e del piano educativo
individualizzato, soprattutto ove il ragazzo non fosse conosciuto dal
Servizio (quasi sempre l’Usl di appartenenza della scuola superiore non
è la stessa della scuola media né della residenza della famiglia);
•
Partecipazione ai consigli di classe. Tale intervento è finalizzato a fornire
informazioni sulla Sindrome di Down in generale e sul caso particolare,
confrontare e chiarire in merito a problematiche emerse, per lo più di
socializzazione, mediare per una migliore comunicazione e
collaborazione scuola-famiglia, e mettere a punto strategie educative
adeguate ed efficaci;
•
Intervento per una informazione di base sulla Sindrome di Down,
nell’ambito di corsi di aggiornamento organizzate dalle scuole ai fini di
una sensibilizzazione dell’intero contesto educativo;
•
Intervento nella classe: discussione con i compagni di classe del ragazzo
inserito su problemi relazionali e di comunicazione col ragazzo stesso.
L’insegnante di sostegno è presente per 9 ore settimanali per quasi tutti i
ragazzi del gruppo e svolge le attività con l’alunno Down sempre in classe per
19 casi; i restanti 5 casi svolgono parte delle attività in classe e parte fuori.
L’assegnazione del monte-ore, molto condizionata dalle restrizioni imposte via
via dalla legge finanziaria, non è stata ben regolamentata.
La funzione dell’insegnante di sostegno, quale coordinatore tra i vari
insegnanti e insegnamenti, si esplica in classe come mediatore e raccordo tra
l’alunno e l’attività didattica in corso, mentre fuori della classe diventa
supporto individualizzato per l’ulteriore sviluppo delle competenze scolastiche
di base e per la rielaborazione e il consolidamento dei contenuti proposti nelle
lezioni collettive.
75
Conclusioni
Non è ancora possibile offrire, in base ai dati rilevati, una valutazione sugli
effetti che l’inserimento nelle scuole medie superiori ha avuto sui ragazzi
Down. Si può però dire che certamente la frequenza della scuola superiore
apre interessanti spazi di socializzazione e di apprendimento per loro, se è
attuata con tutte le condizioni previste dalla legge a garanzia dell’effettivo
diritto allo studio. In tal caso essa offre la possibilità di un rafforzamento di
alcune acquisizioni, di una maturazione globale, di una maggiore autonomia
sociale ed affettiva.
Non si ritiene però valido un inserimento nella scuola superiore finalizzato solo
alla socializzazione: l’area sociale diventa progressivamente più problematica
passando da un ordine di scuola al successivo. Anche un ragazzo Down ben
integrato nella scuola elementare e media trova minore disponibilità,
attenzione e sensibilità tra i suoi coetanei di scuola superiore, e cioè tra
ragazzi che si muovono, non meno del ragazzo Down, in mezzo a
problematiche adolescenziali alla ricerca della propria identità.
Se il contesto è attento, positivo, non protettivo ma neanche indifferente, il
ragazzo Down ha l’opportunità di crescere nell’autonomia, nell’identità,
nell’autostima e nelle competenze comunicative. Ma altresì importanti sono gli
spazi di apprendimento: per chiarire sempre più le proprie potenzialità, per
acquisire nuove competenze, per consolidare gli apprendimenti di base
attraverso nuovi contenuti proposti dalla scuola. Bisogna organizzare l’attività
didattica con estrema flessibilità e articolazione (sia dell’orario che delle
materie), prevedere collaborazione tra insegnante di sostegno e quella di
classe.
Alcuni aspetti strutturali dell’inserimento nella scuola superiore rimangono
problematici e andranno in futuro migliorati. La scuola superiore ha, per sua
struttura, finalità di formazione e preparazione professionale specifica e
rilascia diplomi aventi valore legale, alcuni dei quali spendibili nelle attività in
cui abilitano (ossia di quelli delle scuole professionali). E’ per questo che gli
insegnanti pongono continuamente il problema del programma da svolgere
con gli altri ragazzi, dimostrandosi non sempre disponibili e capaci di
predisporre programmi differenziati nelle proprie materie. D’altro canto va
riconosciuto come sia difficile e complesso gestire e perseguire
contemporaneamente obiettivi formativo-professionali per gli altri ragazzi.
E’ importante che ciascun ragazzo venga orientato, nella scelta dell’indirizzo
scolastico da perseguire, considerando una serie di fattori che vanno dal suo
livello di competenze scolastiche di base, al livello di maturità sociale ed
affettiva, alle sue competenze comunicative e relazionali, alla tipologia della
scuola prescelta, alla collocazione di questa nel territorio. Valutare quindi
l’idoneità o meno dell’inserimento nella scuola superiore.
Contemporaneamente andrebbero potenziati altri canali formativi dopo la
terza media, quali la formazione professionale e i tirocini di lavoro.
76
15. I CORSI PRELAVORATIVI
Riferimenti essenziali per un corretto orientamento post-obbligo
Troppo spesso la persona con handicap intellettivo, qualunque sia l’entità del
deficit e la sua capacità lavorativa, viene identificata con la figura di un
assistito a vita, non è considerato cittadino e non diventa mai protagonista.
Il Csa, Coordinamento Sanità e Assistenza, da molti anni impegnato nel
settore, si è posto come obiettivo l’integrazione lavorativa per tutte le persone
handicappate, in grado di svolgere un’attività lavorativa a partire dai seguenti
punti di riferimento:
1. gli handicappati, come tutti gli altri cittadini, hanno il diritto e il dovere
di partecipare allo sviluppo della società. Pertanto hanno anche diritto
di inserirsi nell’attività lavorativa scelta;
2. il collocamento obbligatorio al lavoro deve riguardare sia gli
handicappati con piena capacità lavorativa, sia quelli con ridotta
capacità lavorativa;
3. la prosecuzione agli studi dopo la scuola dell’obbligo e la frequenza di
corsi professionale o prelavorativa sono strumenti di fondamentale
importanza per un idoneo inserimento lavorativo; il settore
dell’assistenza sociale deve intervenire solo nei confronti degli
handicappati che non sono in grado di svolgere attività lavorativa
proficua o per fornire interventi diretti a compensare specifiche carenze
di autonomia (ad es. assistenza domiciliare).
Il diritto-dovere al lavoro non riguarda solo coloro che hanno un rendimento
lavorativo corrispondente alla media degli occupati, ma anche coloro che
hanno una ridotta capacità lavorativa come è il caso degli handicappati
intellettivi. Tuttavia, come per tutte le persone, a maggior ragione per questi
soggetti che presentano oggettive limitazioni di apprendimento, non è
ragionevole parlare di inserimento lavorativo senza affrontare il capitolo che
concerne la preparazione al lavoro.
Limiti della situazione esistente
Per il ragazzo ultraquindicenne insufficiente intellettivo, non grave (dotato
cioè di autonomia e capacità sufficiente per poter svolgere un’attività
lavorativa) e rientrano in questo gruppo la maggior parte dei ragazzi Down,
sono previsti in genere i seguenti sbocchi dopo la scuola dell’obbligo:
a) l’inserimento in strutture assistenziali (i centri diurni), che sono però
idonei per i soggetti con handicap lievi. Le attività di carattere
hobbistico o ludico, che in questi centri si svolgono in maniera
77
prevalente, portano purtroppo ad una conseguente diminuzione o
riduzione delle capacità precedentemente acquisite. Inoltre tale
condizione non aiuta la maturazione del ragazzo e non può quindi
essere considerata come risposta idonea per tutti quei ragazzi che
potenzialmente possono avere anche una minima possibilità di
inserimento lavorativo. Il centro diurno dovrebbe quindi essere
ricondotto alla sua funzione di assistenza specializzata, con elevato
grado di socializzazione, nei confronti di quei soggetti
ultraquattordicenni, che a causa delle loro condizioni fisiche e
psichiche, siano privi di potenzialità lavorative;
b) l’inserimento nei centri speciali di formazione professionale, che non
rappresentano ugualmente una soluzione sempre accettabile
perché:
• non rispondono spesso alle importanti esigenze di
socializzazione dei ragazzi; la struttura stessa li isola dal resto
dell’ambiente e li priva delle sollecitazioni e degli stimoli che
sono dati proprio dal contatto con le situazioni di normalità in
quanto accolgono persone solo handicappate, spesso senza
alcuna distinzione tra chi non ha la possibilità alcuna di poter
essere inserito al lavoro, a causa della gravità delle proprie
condizioni fisiche e/o psichiche e chi, al contrario, possiede
almeno potenzialmente, capacità lavorative, anche se ridotte;
• tendono a preparare per attività lavorative specifiche che però
non trovano quasi mai un riscontro lavorativo reale o perché
trattasi di mansioni non adatte per i soggetti a cui sono riferiti,
o perché non rispondenti alle richieste del mercato del lavoro;
• l’attività didattica non è finalizzata a sbocchi lavorativi reali;
per quanto si debba riconoscere il patrimonio di esperienze
maturato dagli insegnanti dei corsi speciali, per la
preparazione professionale specifica e per la specializzazione
acquisita nel rapporto continuo con il soggetto handicappato,
tuttavia va rilevato che la loro competenza non è impiegata in
direzione di una preparazione che permetta al ragazzo
handicappato intellettivo di acquisire capacità finalizzate
all’inserimento lavorativo. Di fatto si assiste spesso ad un
“parcheggio” in questi centri, più che ad un’attività di
formazione: l’orientamento è più volto a svolgere attività tese
ad occupare il soggetto, piuttosto che a prepararlo in funzione
di uno sbocco lavorativo successivo.
Non sempre l’inserimento nelle classi normali dei corsi di formazione
professionale è la risposta più corretta. Il corso prelavorativo viene proposto
come attività del Centro di formazione professionale; dopo un’attenta
valutazione gli stessi insegnanti hanno concluso che non era un’esperienza
positiva l’integrazione realizzata nelle classi normali degli handicappati
intellettivi.
78
Il giovane con handicap intellettivo, con buone capacità lavorative potenziali,
inserito all’interno dei corsi normali di formazione professionale raggiungeva
anche un buon grado di socializzazione con i propri compagni, ma presentava
grossi limiti per quanto riguardava l’apprendimento finalizzato alla
preparazione al lavoro.
Inoltre, mentre nella scuola dell’obbligo l’insegnante non rappresenta, almeno
solitamente, un elemento di disagio per il giovane allievo, nella scuola
superiore diventata motivo evidente di indifferenziazione.
Appare come una conferma del fatto che “io da solo non sono capace, sono
diverso dagli altri”.
E infine per gli allievi con handicap intellettivo che presentavano maggiori
difficoltà, e di conseguenza seguivano un cammino separato dagli altri allievi,
l’integrazione era davvero fittizia e il ragazzo sentiva di non appartenere a
nessuno.
A giudizio, quindi, degli insegnanti del Centro di formazione professionale,
questa situazione non aveva nulla a che vedere con quanto viene inteso
comunemente per integrazione e programmazione educativa mirata.
La specializzazione dei corsi (corso per meccanici, corso per elettricisti…) era
un limite oggettivo alla formazione pratica del giovane handicappato
intellettivo.
Non sempre le capacità manuali erano pienamente attivate e sviluppate: egli
doveva, al contrario, continuamente adeguarsi alla parte teorica del corso e ai
programmi della classe di appartenenza; anche se questi potevano a volte
essere ridimensionati, non erano però mai totalmente accessibili.
L’allievo con handicap vedeva i compagni progredire e sentiva la sua
inadeguatezza crescente culminare con l’esclusione dagli esami e, quindi,
dalla qualifica finale.
Gli allievi sperimentavano situazioni simulate di ambienti di lavoro, all’interno
dei laboratori del centro; ma questo non era sufficiente per i giovani con
handicap intellettivo: il tempo era troppo breve per permettere di instaurare
con l’azienda quel rapporto di collaborazione e sensibilizzazione che può
favorire la messa in luce delle potenzialità lavorative che effettivamente
possiedono. Infatti negli anni non si sono mai verificate situazioni di
assunzione.
Considerazioni conclusive
Cinque anni di esperienza hanno dimostrato che i corsi prelavoratvi svolgono
una funzione molto positiva sia nell’orientare i soggetti ultraquindicenni, con
handicap intellettivo, sia nel valorizzare le loro conoscenza e favorire la loro
maturazione. Anche se resta cruciale il nodo dell’inserimento lavorativo, dopo
la formazione prelavorativa, inserimento che dipende sia da un problema più
generale di riforma di collocamento al lavoro degli handicappati, che da una
decisa azione rivendicativa dei sindacati e delle associazioni di tutela
79
dell’utenza, tuttavia è comprovato che, con il corso prelavorativo si
aumentano le possibilità di occupazione degli handicappati intellettivi in
quanto sono sensibilizzati ed investiti del problema:
gli handicappati intellettivi stessi, in primo luogo;
la famiglia che modifica l’immagine del figlio, dato l’aumento delle sue
capacità;
i colleghi di lavoro, che maturano un atteggiamento più positivo nei
confronti delle persone con handicap;
l’ambiente sindacale, che non può prendere atto del loro bisogno di
lavorare;
i datori di lavoro, che ammettono il loro “saper fare” e la resa
produttiva;
gli Enti locali, che investono risorse che permettono di eliminare dal
circuito assistenziale un numero sempre più elevato di persone in
grado di raggiungere un’autonomia e una dipendenza economica.
Ci si è impegnati lungamente in questi vent’anni appena trascorsi per la
realizzazione del diritto alla frequenza della scuola di tutti. Anche qui si è
combattuto soprattutto con categorie di pensiero per un verso o per l’altro
ostili all’inserimento degli handicappati nelle classi comuni: alcuni perché
preoccupati per la loro incolumità, della mancanza di assistenza adeguata;
altri perché più egoisticamente preoccupati di ritardi eventuali
nell’insegnamento, di disturbo delle lezioni, di fastidio che semplicemente
potevano causare ai propri figli normali; altri solo perché ritengono gli
handicappati cittadini di serie “b”.
L’intuizione “profetica” di chi si è lanciato in questa sfida ha avuto ragione ed
è stata premiata con risultati, anche se non bisogna essere trionfalistici a tutti
i costi: molto resta ancora da fare, ma ciò che conta è che la strada ormai è
segnata.
Ma cosa capita a quei ragazzi di 14-15 anni che riescono a percorrerla fino in
fondo? Dopo la scuola dell’obbligo, che cosa viene offerto dalla società, quali
percorsi, quali prospettive di vita si configurano per loro? Parliamo
naturalmente dei soggetti che hanno capacità lavorative piene o anche ridotte.
Di fatto, si tratta di persone che devono, come gli altri, al termine della scuola
media, pensare al loro futuro: scuola, formazione, mestiere, lavoro. Certo è
che, se non si riescono a realizzare completamente queste sequenze di vita,
che vedono la logica conclusione nell’inserimento lavorativo della persona,
anche handicappata, si fallisce l’obiettivo. Non ha senso l’intervento, sono
sprecate le potenzialità raggiunte, i risultati ottenuti in anni di sforzo dalla
persona handicappata,ma sono anche uno spreco inutile delle risorse
finanziarie e dell’impegno degli educatori.
80
16. IL LAVORO E LA CONQUISTA DELL’IDENTITA’
L’Associazione Bambini Down che si occupa dell’integrazione lavorativa, è
abituata a mediare tra i bisogni delle persone che presentano un handicap
mentale e le richieste del mondo produttivo normale. Il compito degli
operatori del centro studi per l’integrazione lavorativa di giovani handicappati
psichici, è quello di rendere possibile l’incontro tra queste due realtà.
E’ importante individuare in che tempi, in quali spazi e con quali modalità
queste esigenze si possano felicemente coniugare.
Quando per la prima volta si incontra una persona Down, il fatto che
appartenga ad una categoria speciale di handicappati mentali, non aiuta ad
avere risposte preconfezionate e tanto meno a sapere già quello che si deve
fare. E’ necessario porsi di fronte al soggetto con un atteggiamento di attesa
e di ascolto, che permetta di intuirne e comprenderne le possibilità evolutive.
Bisogna capire le sue capacità reali e, attraverso una serie di tirocini formativi
in azienda, svilupparle e renderle stabili. Solo così sarà possibile immaginare
e permettere il suo cammino nel mondo della lavoro e della vita.
Il Centro studi della Usl 3 di Genova ha inserito con diversi progetti, nel
tessuto produttivo normale 50 soggetti Down. Dopo un anno di Borsa di
lavoro 6 sono stati assunti in aziende cittadine, 30 sono in Borsa a tempo
indeterminato e lavorano in enti pubblici ed associazioni. Questo progetto
assistenziale può permettere anche a coloro che non raggiungono la piena
produttività di rimanere nel circuito lavorativo.
Qui di seguito viene riportato un esempio di un soggetto inserito in ambito
lavorativo: Claudia, una giovane di 18 anni, è stata presentata al Centro 3
anni fa, con la richiesta di verificare la sua idoneità ad un percorso lavorativo.
Nel volto orientaleggiante è scritta la sua appartenenza alla categoria Down;
ha un handicap mentale di grado medio grave, il suo deficit intellettivo è stato
stimato e computato, comparandolo ad una serie di classificazioni che
descrivono lo sviluppo mentale tipico e le sue varie tappe di progressione. E’
emerso che il suo deficit intellettivo non le permette di unificare la realtà in
rappresentazioni intellettuali. Attorno a lei il mondo è semplice, fatto di vividi
particolari e di concretezza, un mondo di cui può cogliere le profondità
espressive ed emozionali o in cui può perdersi in una frammentarietà di
significati senza senso. Claudia non sa destreggiarsi tra le sottrazioni e le
moltiplicazioni, non conosce teoremi o i principi generali delle scienze. Il
mondo concreto intorno a lei è, però, integro e in questa realtà può orientarsi,
compiere azioni, viverci. E’ capace di svolgere tutta una serie di azioni
quotidiane, che fanno parte della vita di tutti. Nella scuola elementare, dove è
inserita con una Borsa a tempo indeterminato, si occupa, con senso di
responsabilità, del refettorio e della pulizia delle classi.
Senza poter filtrare il mondo con le idee astratte, Claudia si esprime con un
linguaggio ed un pensiero ricco di immagini e carico di emozioni. Per chi è
81
abituato a vivere nella formalità e nell’apparenza, la semplice capacità
comunicativa può apparire sconcertante.
Considerando l’insufficienza mentale un elemento che fortemente invalida la
vita di questi soggetti, li custodiamo e li accompagniamo costantemente,
lasciandoli vivere in una sorta di mondo irreale e felice. Sono trattati come
eterni bambini a cui non è permesso crescere; forse è più semplice e meno
perturbante relegarli per sempre nell’infanzia che pensarli uomini, capaci di
avere una loro autonomia di vita, una loro sessualità.
Il lavoro, quindi, è una tappa fondamentale; come una sorta di iniziazione
sociale,crea il confine tra il mondo dell’infanzia, dell’adolescenza e quello degli
adulti, segna il passaggio dallo spazio dei giochi, dove, custoditi e tutelati,
possono vivere in una situazione di dipendenza e lo spazio dei doveri e delle
responsabilità. Non c’è possibilità di un’identità reale adulta senza
l’assegnazione di ruoli sociali attivi.
Quando Claudia si è presentata al centro, le sue modalità relazionali erano
marcatamente infantili: voleva essere presa per mano, lodata, vezzeggiata.
Trattata da bambina si comportava come tale. I genitori, infatti, pensavano a
tutto, sostituendosi a lei; la vestivano, la pettinavano, ne definivano ogni
attimo della giornata. Nella costante opera di cura e di tutela, non avevano
più momenti da dedicare a se stessi. Il tempo era scandito e condizionato
dalla presenza di Claudia.
Il ruolo che la figlia aveva, all’interno del nucleo familiare, era caratterizzato
dalla passività; erano i genitori a svegliarla al mattino, a prepararle la
colazione, a rifarle il letto, a riordinare la camera. Forse per evitarle
frustrazioni, le era permesso di vivere in una realtà finta ed ovattata, in un
mondo senza regole né richieste.
Molto spesso anche le risposte sociali colludono con l’atteggiamento dei
genitori. Si costituiscono, per il benessere degli handicappati, strutture che
hanno un compito generico di accoglienza e di custodia. Ancora in molti paesi
europei, questi soggetti hanno percorsi differenziati, lontani dai circuiti
normali di vita.
Continuando a trattare gli handicappati mentali come bambini, anche quando
sono adolescenti o uomini, li lasceremo vivere in una dimensione astorica ed
irreale, non saranno più in grado di dare uno scopo ed un significato alla loro
esistenza, alla quale gli adulti stessi ne negano un senso. Per poter essere nel
mondo del lavoro Claudia, doveva modificare le sue modalità relazionali. Per
chi presenta, come lei, una fragilità relazionale o un “io” poco strutturato, può
provare, nei confronti di specifiche richieste, sentimenti di abbandono e di
profonda insicurezza.
Claudia richiedeva, nel rapporto con l’altro, una funzione ancora fortemente
contenitiva.
Consapevoli che, in casi come questo, il percorso lavorativo non può bastare a
risolvere al soggetto il problema identificatorio, sono stati coinvolti i genitori
di Claudia nel progetto.
82
Per esserle davvero utili, non erano necessarie battaglie sociali, dovevano
provare a distanziarsi un po’ da lei, darle fiducia, affidarle e richiederle compiti
precisi, tollerandone gli errori e le lentezze.
E’ stato proposto a Claudia di fare un’esperienza lavorativa semplice, con la
frequenza di poche ore settimanali, individuando gruppi di lavoro che fossero
sufficientemente accoglienti.
Inizialmente per lei il lavoro era una sorta di tempo occupato, che le riempiva
le ore della giornata, confuso nella sua testa tra le tante attività ricreative e
riabilitative che svolgeva. Il progetto, gli obiettivi, il significato dell’esperienza
non le appartenevano. Erano nella mente e nel pensiero degli adulti a cui lei
docilmente si affidava.
L’ingresso nel mondo del lavoro ha permesso a Claudia di sperimentare, al di
fuori della sfera familiare, un altro modo di essere nella relazione. Quando,
per noia o per stanchezza, interrompeva il lavoro iniziato, le colleghe la
riportavano, con calda fermezza, alle sue mansioni. In questo modo si può
mantenere la giusta distanza e stabilire un rapporto su di un piano di realtà; i
compagni accoglieranno il Down e lo accetteranno per quello che è realmente,
richiedendo, nel rispetto delle sue capacità e possibilità, dei compiti che sarà
tenuto a svolgere.
Nel percorso lavorativo, attraverso l’assegnazione del ruolo e delle mansioni,
Claudia ha iniziato lentamente a riconoscersi come persona capace di fare.
Stimata ed apprezzata dalle colleghe, è stato possibile per lei dare un senso e
un valore al proprio operato.
Nel percorso di integrazione lavorativa è necessario capire come il soggetto
handicappato mentale utilizza e sviluppa le proprie abilità e potenzialità, e con
quali modalità relazionali si pone nel confronto con gli altri.
Claudia presenta ancora tratti infantili ed immaturi, le lentezze sono, in parte,
rimaste. Ma il senso di responsabilità con cui affronta il lavoro e le sue
effettive capacità, le hanno permesso di avere nel mondo un proprio spazio, in
cui si muove non come soggetto Down, ma come bidella di una scuola
elementare.
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17. ANALISI DI ESPERIENZE LAVORATIVE DI ADULTI
CON SINDROME DI DOWN
L’idea di svolgere un’indagine sull’inserimento lavorativo delle persone Down
in Italia, è nata dalla consapevolezza della centralità del tema del lavoro e
dall’esigenza di affermare con forza il diritto delle persone Down ad esso.
Oggi il tema del lavoro assume particolare importanza, non solo perché
sancisce il diritto-dovere di essere cittadini lavoratori a tutti gli effetti per
quegli invalidi che hanno residua capacità lavorativa, ma anche perché
l’evoluzione delle persone Down e l’aumento di tale popolazione adulta
sollecita un investimento di attenzione e di risorse della società in tale
direzione.
Era necessario supportare tale affermazione di diritto con una
documentazione che ne dimostrasse la fattibilità e offrisse elementi di
riflessione a quanti, famiglie, operatori, strutture politiche e amministrative,
sono chiamati ad intervenire.
Mancava inoltre un’analisi sia quantitativa che qualitativa delle esperienze
comunque presenti sul territorio.
L’obiettivo della ricerca è stato quindi la raccolta del maggior numero possibile
di casi di lavoratori con Sindrome di Down. Su di essi si è poi avviata
un’analisi qualitativa che permettesse di conoscere, attraverso la storia con
cui si era arrivati agli inserimenti, le modalità di formazione e collocamento, le
caratteristiche dei lavoratori Down e l’organizzazione del lavoro, i fattori di
successo e di riproducibilità di tali esperienze.
Le aziende
Le aziende in cui sono stati inseriti i lavoratori con Sindrome di Down sono per
la maggior parte enti pubblici (25 su 34); 9 persone sono inserite nelle scuole
(asili nido, scuole materne ed elementari), 6 lavorano presso strutture
comunali, 3 nei ministeri (dell’Interno e delle Finanze), 3 negli ospedali, una
presso l’amministrazione della Provincia, una presso le Ferrovie dello Stato,
una alla Rai e una presso gli uffici di un’Unità sanitaria locale, un altro
lavoratore Down è inserito in un’azienda municipalizzata.
Come è evidente, il settore del terziario riveste una grossa importanza
nell’ambito dell’indagine, mentre i restanti settori risultano essere distribuiti in
ugual misura.
Contrariamente a chi vede le persone con handicap mentale più portate ad un
lavoro di tipo artistico-artigianale, i settori del terziario e dell’industria insieme
assorbono la maggioranza dei lavoratori, circa l’88%, mentre solo una piccola
parte lavora nel campo dell’agricoltura e dell’artigianato.
84
Modalità di collocamento
Analizzando le modalità attraverso cui sono state collocate al lavoro, dalle
risposte fornite dagli operatori e dalle famiglie, risulta che pochi sono stati
inseriti tramite Ufficio di collocamento ordinario o tramite il Collocamento
obbligatorio, mentre sono molto frequenti quei casi in cui l’assunzione è la
conclusione di un tirocinio professionale nella stessa azienda.
Oltre all’importanza del tirocinio va sottolineato il ruolo delle famiglie, non
solo per quei casi in cui hanno determinato l’individuazione del posto di lavoro,
ma anche per l’azione di pressione sociale esercitata da esse e citata in
commento nei questionari dagli operatori.
Relativamente all’anzianità di collocamento, un dato importante è che dei 34
lavoratori Down presi in esame, ben 5 lavorano da più di nove anni e altri 4
da più di sei anni.
Questi dati confermano l’ipotesi della ricerca e cioè che l’inserimento al lavoro
di persone con handicap mentale è effettivamente possibile e non è
necessariamente un’esperienza a tempo determinato. Il ruolo di lavoratore,
una volta conquistato, rimane fisso nel tempo conferendo al disabile e alla sua
famiglia maggiore tranquillità rispetto al futuro.
Tale affermazione assume maggior forza se consideriamo i tipi di contratto
con i quali sono stati assunti i lavoratori Down: di essi infatti il 76% ha un
contratto a tempo indeterminato.
Scelta della mansioni
Relativamente ai criteri di scelta delle mansioni da affidare ai lavoratori Down,
le aziende hanno utilizzato modalità diverse. Una buona parte dei lavoratori (il
41%), al momento dell’assunzione aveva già degli incarichi stabiliti durante il
tirocinio svolto precedentemente nella stessa azienda. Per altri lavoratori
Down (30%) la modalità prevalente utilizzata è stata quella di analizzare da
una parte le abilità tecniche necessarie per svolgere una data mansione e
dall’altra verificare la rispondenza con le effettive capacità lavorative.
E’ significativo che nella scelta delle mansioni siano state quasi sempre prese
in considerazione le capacità delle persone Down. Tale attenzione è
condizione necessaria per fornire ai disabili l’effettiva possibilità di svolgere il
loro lavoro.
La maggior parte dei lavoratori Down ha avuto una figura di riferimento come
supporto nell’apprendimento delle mansioni. Il ruolo di “istruttore” è stato
affidato nel 68% dei casi a colleghi.
Riportiamo qui di seguito qualche commento su alcuni lavoratori Down tratti
dalle interviste ai colleghi.
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Andrea ha 20 anni, lavora presso una Unità Sanitaria Locale ed è stato
assunto come commesso: smista la posta, esegue fotocopie, ecc. Dicono di lui
sul posto di lavoro:”L’esperienza lavorativa è molto positiva; il ragazzo ha
acquistato sicurezza nello svolgimento delle mansioni assegnateli, anche se
permane ancora il rifiuto di alcuni incarichi (come ad es. rispondere al
telefono). Ha un rapporto confidenziale con tutti i colleghi, ma ricerca e ha
bisogno di alcune persone di riferimento per parlare di sé e talvolta delle sue
paure. Complessivamente si mostra sereno, la sua presenza è comunque
puntuale, segue i turni ed è attento all’orario; mostra anche gioia ed interesse
nel lavoro”.
In alcuni casi i colleghi si interrogano sulla qualità degli inserimenti e su come
si potrebbero modificare. Come nel caso di Stefano, 21 anni, che lavora in
una fabbrica di cosmetici nel reparto di confezionamento:”Il fatto di non avere
appoggi esterni quali operatori che seguono da vicino il lavoratore Down pesa
molto. Gli si fa svolgere solo lavori semplici e ripetitivi, ma probabilmente
Stefano sarebbe in grado di fare anche cose più complesse. I colleghi si sono
mostrati disponibili e comunque Stefano dimostra di tenere molto al suo
lavoro”.
A conferma del fatto che la maggior parte dei lavoratori Down ha trovato una
collocazione adeguata, le aziende affermano che il 74% di essi non ha
cambiato mansione dall’assunzione ad oggi.
Quelli che hanno cambiato mansione lo hanno fatto per motivi diversi non
necessariamente legati a difficoltà di apprendimento del lavoro. Al contrario
tre lavoratori, dimostrando di essere in grado di progredire e di poter svolgere
un lavoro più impegnativo rispetto a quello inizialmente affidatogli.
Presenza in azienda
Rispetto alla presenza sul posto di lavoro, il 93% si presenta regolarmente;
dalle interviste ai colleghi ed alle famiglie emerge l’attaccamento al posto di
lavoro. Un padre racconta:”In questi giorni Paola è ancora più felice perché ha
avuto l’opportunità di essere applicata al centralino telefonico con il compito di
smistare le telefonate alle varie stanze; una sua collega mi ha assicurato che
svolge bene anche questo servizio e lei, naturalmente è oltremodo felice. Da
quando è entrata a lavorare sembra un’altra persona, più seria e più spigliata
in quanto si sente realizzata. Al mattino si alza prima delle sette anche senza
essere chiamata; non ha mai ritardato un giorno”.
L’82% dei lavoratori presi in esame rispetta l’orario di lavoro; il 41% del
gruppo inserito nella ricerca deve utilizzare quotidianamente macchine e
attrezzi di vario genere e di diverse difficoltà di utilizzazione. Alcuni di essi
lavorano ormai da molti anni; tuttavia non si sono verificati infortuni. Questo
si contrappone all’idea che le persone con ritardo mentale risultino, per la loro
condizione, difficilmente consapevoli della pericolosità di ambienti e macchine
e siano per questo fonte di problemi per l’azienda.
86
Cambiamenti nelle persone Down
E’ inevitabile che un rapporto di lavoro, in quanto regolato da norme e orari,
porti la persona ad adattarsi a nuove modalità di comportamento,
determinando necessariamente un modo di essere più adulto e responsabile.
Per la maggior parte dei lavoratori è cambiato non solo il modo di relazionarsi
con gli altri e di gestire i propri spazi, ma anche il modo di giudicare se stessi
e di sentirsi adulti.
L’esperienza del lavoro ha favorito l’acquisizione di alcune competenze e ha
rafforzato le abilità già esistenti. Ad esempio per quanto riguarda gli
spostamenti, il 73% raggiunge in modo autonomo il posto di lavoro (a piedi,
con gli autobus, due persone con il motorino)
Conclusioni
Lavorare è possibile anche per una persona Down; i lavoratori Down
conosciuti non sono persone speciali, non hanno un particolare livello
intellettivo né economico, anzi molti di loro avendo un’età superiore ai 25 anni
non hanno potuto usufruire di una serie di stimoli e opportunità, sia di tipo
riabilitativo che educativo a disposizione dei bambini Down di oggi. Quello di
cui hanno però potuto usufruire è stato un iter formativo-professionale e una
modalità di collocamento mirati. Dai dati delle aziende, essi sono dei
lavoratori a tutti gli effetti, con ruoli produttivi, sia pure dimensionati alle loro
effettive capacità.
Lavorare è importante, il lavoro è un valore che contribuisce a realizzare la
persona umana, oltre che a fornire la possibilità di sostentamento. In ogni
persona che diviene adulta e inizia a lavorare, crescono sicurezza, autostima e
spirito di iniziativa.
Attraverso questa indagine non si è potuto trovare il posto di lavoro ideale per
una persona Down, che garantisse il successo dell’inserimento, ma si sono
incontrate tante situazioni reali e diverse tra loro. Alcune caratteristiche erano
comuni alle varie esperienze: la semplicità delle mansioni e la scelta di un
posto adeguato o adeguabile alle singole persone Down. Questa
considerazione mette in luce due aspetti: l’unicità di ogni storia e la necessità
di confrontare i posti disponibili con i lavoratori possibili. Sarà allora possibile
inserire una persona Down in molti ambienti di lavoro purchè si rispettino le
caratteristiche sopra evidenziate e, un po’ come per tutti, si troveranno più
operai Down in aree industriali e più commessi di ufficio in aree dove prevale
il terziario.
87
PARTE SECONDA
18. ANALISI DI UN CASO ATTRAVERSO L’ARTETERAPIA
L’utilità dell’arteterapia
L'Arte Terapia è un trattamento psicologico che compare nella seconda metà
del XX secolo a seguito delle sperimentazioni di psicoterapia dinamica derivate
dalla Psicoanalisi anche se in alcuni campi, quali la musicoterapia e il
teatroterapia, vanta origini più antiche. Si conoscono infatti vere e proprie
pratiche di musicoterapia passiva (somministrazione di brani musicali con
scopo ansiolitico) nei Manicomi arabi già dal 800 d.c. e con Pinel la terapia
morale comincia proprio come pratica teatrale nei Manicomi europei.
Ma è dal 1950 che si conferma come terapia individuale per poi espandersi
sempre di più al gruppo e sempre di più in contesti rigorosi di espressione non
verbale.
Il setting delle arti terapie è un laboratorio dotato di materiali informi a basso
costo e di spazi ampi e sicuri per consentire la libertà dei movimenti,che sono
del corpo espressione non verbale. Per questa ragione alcuni esercizi
preliminari di significato psicomotorio possono precedere le sedute di
espressione figurativa o musicale o quant'altro. Generalmente il terapista non
fa consegne particolari, nè suggerisce il tema:ma dà la consegna di non usare
la parola,la voce sì,ma la parola no. L'abbigliamento deve essere informale e
deve potersi sporcare,le scarpe si devono poter togliere con facilità e si deve
poter camminare scalzi senza preoccupazioni. Tutto il setting è volto a
favorire la libertà dell'espressione non verbale purchè spontanea.
Il tema, fondamentalmente libero, può essere stimolato da alcune consegne
che facilitino l'attivazione di meccanismi proiettivi: quale quegli stimoli basilari
che indicano la costruzione di una maschera o di una scatola. Entrambi questi
suggerimenti portano nella dimensione del Self e della sua rappresentazione,
che comunque non deve avere la benchè minima preoccupazione estetica.
Costruire una scatola è dare forma al contenitore, che poi si riempie di
contenuti, così che diventa la rappresentazione del Self e la sua presentazione
all'esterno. Analogamente la maschera è il personaggio che si rappresenta.
Tratto saliente alla base dell'Arte Terapia, che si estrinseca in tutte le
discipline artistiche, è l'evidenza che esiste una comunicazione non verbale
che passa nella relazione in modo più efficace e più diretto. La situazione di
un setting Arte terapico è un contesto che passa dalla confusione magmatica
e caotica, spesso chiassosa, al silenzio percettivo. Il silenzio verbale non è il
silenzio del corpo e il movimento è sempre perciò consentito senza limitazione
alcuna. Quando un'Arte Terapia è prevalentemente centrata sul linguaggio del
88
corpo, movimenti ritmici o non ritmici, aggressivi o dolci, in ogni modo
spontanei si definisce danza terapia.
L'Arte Terapia condivide con l'Arte solo il primo presupposto che è quello
d'essere mezzo efficace di comunicazione valido però nei limiti del qui e ora e
di chi lo produce: cioè soggettivo come tutto il processo psicoanalitico.
Medesime riflessioni si devono porre tra l'Arte Astratta o informale e le
macchie di colore che l'Arte Terapia produce in modo esperenziale: nel primo
caso il messaggio e la comunicazione appartengono ad un ordine logico che,
anche se non immediatamente percettibile in senso figurativo, comunque
esiste nelle scelte d'accostamenti di linee e colori, mentre in Arte Terapia
quest'ordine logico non è richiesto e le licenze fantastiche hanno significato
solo soggettivo ed in ultima analisi meramente espressivo per evocare una
comunicazione attraverso l'emozione che dalle macchie può trasparire per
essere letta da chi ne ha interesse esclusivamente nell'ambito della relazione
trasferale.
Fermo restando quindi che occorre sempre distinguere se un proposta d'Arte
Terapia è invero proposta occupazionale o proposta psicoterapica integrata o
semplicemente un trattamento a sé, è indubbio che, in senso autentico, l'Arte
Terapia non produce Arte, ma trae un valore terapeutico dalla messa in atto
di un processo creativo che consente di sperimentare una strutturazione delle
funzioni dell'IO attraverso una regressione caotica che ripropone il caos precreativo. Nel prodotto si ricompongono le parti scisse e si va ad indurre un
cambiamento, anche se non consapevole, nel senso di una migliore
integrazione del Self che può corrispondere al miglioramento sintomatologico.
Poiché la sperimentazione del caos creativo è fenomeno naturale lo sviluppo
di un trattamento d'Arte Terapia appare più rapido e meno artificioso di un
trattamento psicoterapico dinamico.
Il ruolo della musica
Il ruolo della musica in Arte Terapia è un altro aspetto molto importante: essa
può essere definita come l’arte di comporre i suoni.
La musica e l’organizzazione dei suoni più in generale sono per l’uomo
un’invariante antropologica: da sempre, in ogni popolo egli ha suonato, ha
fatto musica. Tomatis sostiene che “ovunque sulla terra la musica è parte
integrante del patrimonio culturale, e la si può considerare come il riflesso
della diversità delle etnie. Corrisponde davvero alle differenze linguistiche che
si osservano nel mondo”. Noi occidentali siamo soliti riferirci al nostro
linguaggio musicale, ma è bene sapere che nel mondo esistono molti altri
sistemi musicali così come esistono moltissime tipologie di espressioni
musicali.
Secondo gli etnomusicologi, gli studiosi delle origini del fenomeno musicale,
all’origine della musica ci fu un linguaggio che utilizzava i suoni come codice
comunicativo; musica e linguaggio nacquero insieme; solo in un secondo
momento presero direzioni differenti.
89
L’essere umano è ritmicità, la sua voce risuona nel corpo che per stare bene
deve tendere ad un equilibrio generale basato su un’armonizzazione dei ritmi
fisiologici interni con quelli dell’ambiente. Il bisogno e ricerca di armonia sono
alla base del senso di benessere. Il concetto di armonia è sinonimo ed
espressione di proporzione e di accordo. Anche nei luoghi comuni si è soliti
dire che ci si sente in armonia quando si va d’accordo o, ancora, si giudica
armonioso un oggetto quando le sue parti sono ben proporzionate tra loro.
Quando la musica incontra il piacere di chi la ascolta e risuona piacevolmente
in tutto il nostro corpo, genera armonia conducendoci verso una condizione di
appagamento personale.
La psicologia esistenziale afferma da sempre che “l’intenzionalità primordiale
è armonia, ritmo, equilibrio e che la musicalità naturale insita nell’uomo
proviene dalla musicalità, dall’armonia dell’universo”. L’azione benefica della
musica sull’uomo è risaputa; quando ottiene l’effetto di farci entrare in
armonia con noi stessi e con l’ambiente è positiva. In alcune situazioni può
addirittura aiutarci a prendere coscienza di alcuni aspetti interiori inconsci
facendoci conoscere parti del corpo ancora sconosciute.
La musica a predominanza ritmica stimola ad una motricità in accordo con il
ritmo attraverso movimenti ben precisi, coordinati con le accentuazioni
sequenziali. Il ritmo infatti, segue le medesime leggi do organizzazione
temporale della contrazione muscolare: quando si ascolta una musica o ci si
muove in accordo, la sua ritmicità ci “pervade” all’istante senza gli interventi
del pensiero e della riflessione. La regolazione temporale dell’attività
muscolare influenzata dalla ritmicità della musica avviene prevalentemente a
livello sottocorticale. Ogni intervento cognitivo potrebbe causare la perdita
dell’espressività ritmico-gestuale spontanea, riducendo lo svolgersi dell’attività
a mera riproduzione di codici programmati mentalmente.
Quando la predominanza della musica è melodica, stimola ad una motricità
caratterizzata da un alternarsi di tensioni e detensioni muscolari
corrispondente al “crescere” e “decrescere” della musica, cioè all’intensità e
alla frequenza delle note. Questo fenomeno invita alla produzione di
movimenti armonici e rotondi che avvengono alla massima escursione
articolare coinvolgendo l’intera corporeità. E’ inoltre connesso con le
sensazioni emotive che la qualità della musica produce. Ciò accade perché
siamo visceralmente molto sensibili alle vibrazioni acustiche, anzi il nostro
corpo “risuona al suono” prodotto dalla musica. Alcuni tipi di musiche e di
suoni, soprattutto le vibrazioni prodotte dal tamburo, hanno effetti diretti ed
immediati sul nostro corpo attraverso la risonanza del diaframma. “All’inizio
era il tamburo” è una famosa frase di Sachs, il più grande ricercatore
dell’origine degli strumenti musicali. Il tamburo infatti è considerato
l’archetipo di ogni strumento, è il suono della terra, il ritmo dl cuore, è fatto
con la pelle di animale (in origine considerato sacro) e risuona nella pancia. E’
inoltre lo strumento musicale più diffuso e presente in ogni cultura e
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rappresenta la dimensione corporea del sentire grazie alle sue vibrazioni che
risuonano nel nostro diaframma.
Il diaframma infatti, oltre ad assolvere alle funzioni comunemente note come
la respirazione e il sostegno ai vari organi interni, è in grado di vibrare in
sintonia con le vibrazioni prodotte dalla pelle dal tamburo ed è anche
particolarmente sensibile alle variazioni emotive della persona. Recepisce i
messaggi emozionali provenienti sia dall’ambiente esterno che dall’interiorità
e reagisce vibrando con modalità differenti a seconda del tipo di emozione.
Questo avviene secondo il principio del sincronismo delle vibrazioni, cioè della
possibilità che uno strumento vibrando ha, di far risuonare altri corpi se
incontra in questi la medesima tonalità.
Il diaframma viscero-tonico possiede una vasta scala di tonalità e risuona
proprio come una scala di note musicali.
I suoni prodotti dagli strumenti a percussione rinforzano il sistema energetico
della persona grazie alla qualità vibratoria, all’alternanza di accentuazioni e
pause e alla ritmicità quasi “pulsativa” che li caratterizza. Il sistema
muscolare dell’uomo nei suoi aspetti tonico-affettivo-posturali inoltre, è
particolarmente sensibile alle emozioni e reagisce attraverso una sorta di
tensione e/o detensione che può anche cronicizzarsi.
Esiste con certezza una sorta di catena cinetica che collega le vibrazioni dei
suoni con le emozioni che vanno ad influenzare l’attività della formazione
reticolare ed il tono di base. I suoni accentuati, tipici delle percussioni
aumentano il livello del tono muscolare articolare e degli arti, le musiche
melodiche invece abbassano il tono muscolare ed hanno un effetto calmante.
Nelle attività espressive lo stimolare la motricità attraverso il supporto
musicale consente dunque di “incontrare” l’interezza della persona favorendo
l’aggiustamento dei ritmi personali con quelli esterni e rinforzando la
dimensione emozionale del sé grazie alla ricchezza di melodie di cui la musica
dispone.
Non dimentichiamo dell’importanza sia degli interessi degli allievi sia degli
obiettivi funzionali. Se l’uso che verrà fatto della musica sarà “vantaggioso”
per la crescita di ciascuno, quindi se l’educatore sarà capace di “sentire” le
vibrazioni della musica e scegliere quelle più adeguate e più consone allo
sviluppo degli allievi, tale percorso rivelerà con il tempo effetti positivi sulla
crescita globale della personalità.
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Presentazione di un caso con relativo intervento
Quest’anno il tirocinio è rivolto a L., un ragazzo di 16 anni affetto dalla
Sindrome di Down accompagnata da un lieve ritardo mentale.
Durante la fase di osservazione ho potuto notare che viene sempre
accompagnato dalla madre, che segue con attenzione ciò che L. compie
durante le attività. Frequenta una scuola per soggetti con disabilità e ritardo
mentale, qui oltre a svolgere attività volte all’apprendimento, segue vari
laboratori in cui vengono esercitate diverse attività manuali, in particolare
quello artigianale.
Attraverso due incontri di presentazione ho potuto osservare e notare alcune
caratteristiche fisiche e comportamentali: la sua corporatura è esile, per certi
tratti quasi fragile; le spalle sporgenti protendono in avanti accentuando una
postura sbilanciata. Le gambe minute si muovono con disinvoltura nello
spazio circostante, evidenziando una notevole padronanza e conoscenza di
alcuni movimenti corporei.
Nonostante alcune limitazioni di movimento dovute ad una difficoltà di
appoggio dei piedi, L. ha un buon contatto col suolo e si muove liberamente
manifestando grande entusiasmo e partecipazione.
Dietro gli occhiali compaiono due occhietti azzurrini che sono sempre vigili,
seguono lo sguardo dell’insegnante in ogni suo movimento, pronti per
assimilarli e poterli ripetere. Di fronte a qualche difficoltà non perde la sua
espressione serena, ma si impegna cercando di superarle; quando ci riesce
ecco che un sorriso illumina il suo visino.
Gli piace muoversi usando tutto il corpo e manifesta un buon orientamento
nello spazio. Sembra trovarsi a suo agio e segue sempre con attenzione le
direttive dell’insegnante.
L’espressione verbale è carente, pronuncia poche parole e si esprime con una
certa difficoltà, dovuta anche alla presenza di balbuzie minime.
Il tono di voce è piuttosto basso, ma quando esprime la sua gioia, emette
grida di esultazione.
Contenuti: sulla base di quanto ho potuto osservare il progetto è impostato
sfruttando ed evidenziando la spiccata qualità di espressione corporea,
attraverso il gioco, il colore, la musica.
Verranno utilizzati vari strumenti come fogli, stoffe colorate,palloncini, ecc.
tutto ciò al fine di stimolare l’immaginazione attraverso le percezioni
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sensoriali, stabilire un contatto acquisendo fiducia e favorendo lo sviluppo di
una relazione spazio-corpo.
Successivamente verranno fissati i seguenti obiettivi:
Potenziamento dell’espressione corporea;
Sviluppo del Sé corporeo;
Miglioramento dell’equilibrio;
Potenziamento dell’attività creativa attraverso la realizzazione di un
oggetto.
Setting: gli incontri si svolgono presso la Fashion Dance School Ballet in via
XX settembre, 8 a Busto Arsizio e avvengono il sabato della durata di un’ora o
poco più.
Il locale a disposizione è molto confortevole ed ampio: le pareti dipinte di
giallo-arancio creano un’atmosfera rilassante, quasi familiare; al centro vi è
una colonna che ostacola il percorso dell’intera stanza, ma al tempo stesso
crea una sorta di “campo immaginario” dove essa può diventare e
simboleggiare qualunque cosa.
SVOLGIMENTO DEGLI INCONTRI
1 ^INCONTRO (27 gennaio):
Come in ogni primo incontro che si rispetti la tensione e mille dubbi sull’esito
del primo contatto hanno invaso mente e corpo, facendo in modo da sentirmi
abbastanza agitata. La mia paura maggiore era quella di non riuscire ad
interessare L. con le mie proposte, ma ogni incertezza e paura sono svanite
nel momento in cui si è seduto di fronte a me: appare tranquillo, rilassato e
per nulla preoccupato della nostra presenza.
Introduco una breve presentazione degli incontri che faremo insieme, facendo
anche delle domande relative ai gusti musicali ed altri interessi.
A questo punto ho distribuito sul pavimento dei cartoncini colorati e gli ho
chiesto di scegliere il suo colore preferito: ha scelto il rosso; a turno noi
abbiamo indicato i nostri motivandone la scelta (in alcuni incontri ha
collaborato una mia compagna con il ruolo di osservatrice), così ha fatto
anche lui rispondendo che il rosso gli ricorda la Ferrari, poi ha sottolineato che
comunque gli piacciono un po’ tutti i colori. Nella scelta del colore si mette in
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posa di riflessione col dito poggiato sulla tempia, si concede qualche minuto e
poi risponde.
Ora distribuisco i ritagli colorati dalle diverse forme e propongo di posizionarli
su di un foglio bianco a piacimento. Durante questa operazione ( fatta a turno
anche da noi) rivolgo alcune domande a L. relative alle sue preferenze
sportive o altro genere, egli mi guarda e risponde con aria abbastanza sicura,
è molto attento a tutto ciò che avviene e se qualcuno di noi dimentica di
scegliere un cartoncino, interviene prontamente dicendo:”Tocca a te!”; sa
aspettare il suo turno e quando giunge il suo momento assume una posizione
fiera e compare un sorriso di soddisfazione.
Una volta riempito il foglio gli chiedo se è soddisfatto del risultato o se
preferisce continuare ad inserire le ultime forme rimaste: non si preoccupa di
sovrapporre più colori e si diverte ad usare tutti i cartoncini.
A questo punto gli chiedo di osservare la composizione e dare un parere al
risultato ottenuto, ma non riuscendo ad esprimere nulla, gli propongo di
guardarlo provando a girare il foglio, questa volta focalizzando l’attenzione su
di un particolare. Con l’aiuto di Stefania da una forma è riuscito a trovare
un’associazione appropriata: un palloncino.
Durante l’esercizio è passato da una posizione seduta con le gambe incrociate
ad una sdraiata con i gomiti poggiati sul pavimento, il viso disteso e
interessato al gioco.
Ora gli propongo da fare il contrario, ossia togliere gli elementi in eccesso in
modo da creare una sorta di “ordine”, per giungere poi al passaggio
successivo di realizzare un disegno ben definito; sceglie un quadrato giallo e
lo posiziona al centro del foglio, quest’ ultimo messo in posizione verticale;
con l’aggiunta di un triangolo rosso è diventata una casa, poi ha fatto l’albero,
un prato, dei fiori.
A lavoro ultimato gli chiedo se gli piace o se vuole cambiare qualcosa, ma è
soddisfatto così e quindi gli propongo di incollare i pezzi in modo da poter
ammirare l’opera realizzata; accetta volentieri e incolla i ritagli partendo dal
basso del disegno.
Al termine dell’operazione ammira compiaciuto il suo lavoro e con aria
soddisfatta lo mostra alla sua mamma.
Come primo incontro mi sono sentita molto tranquilla e rilassata nel vedere
che era molto interessato ad ogni proposta che facevo; si è creato subito un
clima disteso e ciò ha favorito ad un buon svolgimento dell’incontro.
Anche il livello di intesa con Stefania è stato buono, ha trovato subito il suo
ruolo e ha interagito molto bene sia con L. che con me; bastava uno sguardo
tra di noi per intenderci.
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2^ INCONTRO (17 febbraio):
Ho portato dei palloncini, dopo che L. ha scelto il colore che preferiva, rosso,
li ho gonfiati.
Ci siamo sdraiati a terra e gli ho spiegato come tenere il palloncino poggiato
sull’addome per vedere cosa succede quando respira. Non riusciva a calibrare
il peso delle mani che comprimevano il palloncino, allora ho suggerito di
tenerlo solo con due dita e così il contatto è stato più leggero.
Gli ho spiegato brevemente come funziona la respirazione, prendendo come
esempio il palloncino; dopodichè l’attenzione si è rivolta al resto del corpo:
mani, braccia, testa, gambe e piedi hanno avvertito il contatto col palloncino.
Gradualmente ci siamo alzati e abbiamo iniziato a giocare lanciandolo in alto,
poi provando a farlo passare da una mano all’altra e poi ancora a calciarlo.
Ora ci muoviamo nello spazio lanciandolo di qua e di là; L. è divertito ed
interessato, soprattutto quando si è avvicinato alla colonna della stanza e il
palloncino è rimasto sospeso senza scendere, era sorpreso e continuava a
ridere del misterioso avvenimento; poi, dopo averlo mosso si è ripresa
l’attività questa volta provando a correre mentre si lancia il palloncino: ci sono
state alcune difficoltà nel riuscire a compiere due azioni contemporaneamente,
ma ciò nonostante ha continuato a divertirsi ugualmente.
Suggerisco di danzare col palloncino, facendo movimenti leggeri e fluidi: in
questo caso dimostra una buona capacità e scioltezza nei movimenti.
Il gioco prosegue in gruppo passandoci il palloncino a vicenda; ancora una
volta conferma il rispetto del turno e la totale disponibilità a renderci partecipi,
ma soprattutto compagne di gioco.
Per ravvivare un po’ l’attività propongo di lanciare in alto il palloncino quasi a
toccare il soffitto facendo dei salti; ogni qualvolta riesce nell’impresa un
enorme sorriso si accende sul suo viso e ci guarda compiaciuto, noi
ricambiamo complimentandoci.
Ora per rilassarci propongo di sdraiarci nuovamente e sentire com’è il respiro
dopo quell’attività, cos’è cambiato nel corpo: guidandolo con alcune domande
ha preso coscienza del suo corpo, ha sentito il battito del cuore accelerato, le
gambe e le braccia molli.
Gli chiedo di chiudere gli occhi e di sentire cos’altro succede nel corpo e se
una parte di esso che sente di più; ha difficoltà a chiudere gli occhi, li riapre
subito e dice di sentire solo la musica in sottofondo.
Sempre guidandolo gli chiedo quale parte del corpo ha sentito di più, mi
risponde dicendo i muscoli; allora gli propongo di provare a disegnarli su di un
foglio bianco utilizzando dei pastelli a cera: sono molto piccoli, ora li colora e
poi sperimenta il colore punteggiato, si diverte e prosegue in questo modo.
Al termine dell’attività gli chiedo se si è divertito a giocare col palloncino e mi
risponde affermativamente mentre nel disegnare mi ha confermato che non
gli è piaciuto molto e ciò lo si intuiva dalla sua espressione poco convinta.
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3^ INCONTRO (12 maggio):
dopo una breve chiacchierata sullo stato di salute di L., ci siamo seduti in
mezzo alla stanza e ho proposto di fare alcuni esercizi di estensione e
allungamento delle braccia, delle mani, delle gambe, prima seduti e poi in
piedi.
Ci muoviamo nello spazio guardandolo come se fosse la prima volta che lo
vediamo, quindi tocchiamo ogni superficie per appropriarci dei limiti e delle
possibilità di movimento. L. appare divertito ed interessato, segue con
attenzione e precisione le diverse attività.
Ora camminiamo guardando per terra come se dovessimo cercare qualcosa
che abbiamo perso…… per terra appaiano dei punti colorati e noi li seguiamo
camminando nella direzione che essi indicano. Anche in questo caso non ha
alcuna difficoltà a svolgere l’esercizio, i suoi movimenti sono armonici e fluidi.
Ci troviamo nel centro del setting e gli chiedo di fare una passeggiata nello
spazio a disposizione e di fermarsi in un punto che preferisce: sceglie uno
spazio proprio all’estremità del muro, ma presto scopro che in realtà è stato
attirato da due pesi che erano lì; allora gli propongo di scegliere uno spazio
lontano da ostacoli e oggetti pericolosi, così si è diretto verso un altro punto
della stanza ma sempre verso la parte esterna, evitando notevolmente il
centro.
In questo punto ci sediamo e gli mostro un foglio grande bianco da riempire
con vario materiale che ho portato: acquerelli, gessetti, pastelli a cera, una
spugna bagnata, cartoncini colorati, ecc.. Gli propongo di riempire quello
spazio bianco come se fosse la sua camera segreta, piena di giochi, dove ha
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la libertà di fare ciò che gli piace; accetta di buon grado ma appare impacciato
ed impaurito nel cominciare, così iniziamo tutti insieme: è stata una buona
soluzione perché è apparso subito più tranquillo.
Col blu ha cominciato a dipingere la parte bassa del foglio e, dopo un paio di
pennellate, ha liberamente detto che gli sembrava il mare; poi ha scelto il
giallo ma si è divertito a mischiarlo col blu, facendo comparire un verdastro.
Ad ogni colore che aggiungevo lo mescolava con gli altri e si divertiva a
sperimentare il risultato di quel miscuglio.
Dopo un po’ introduco il collage con alcune forme di cartoncino colorato: le
incollo qua e là e poi lo fa anche lui.
Ora uso la spugna immergendola nel colore, gli chiedo se la vuole provare ma
risponde che non gli piace sporcarsi le mani, così preferisce utilizzare pastelli
a cera piuttosto che i gessetti.
Dopo aver guardato il lavoro gli chiedo se vuole aggiungere qualcosa, ci pensa
un po’ e poi prende altre forme di cartone e le incolla; ora si sente soddisfatto.
4^ INCONTRO (19 maggio)
L’incontro di oggi è stato impostato al fine di dar libero sfogo al movimento e
stabilire un contatto col proprio corpo; ciò di cui infatti necessita L. poiché
recentemente ha subito un intervento chirurgico che lo ha costretto
all’assoluto riposo per un determinato periodo.
Già durante il colloquio precedente ha manifestato in più occasioni il bisogno
di potersi muovere in totale libertà. Così l’ho assecondato iniziando in questo
modo l’incontro: con una musica rilassante ci siamo sdraiati e abbiamo fatto il
risveglio del corpo, ossia fare alcuni movimenti tipici del risveglio, al mattino,
dopo un lungo sonno; dopodichè abbiamo cominciato a muovere solo alcune
parti del corpo: prima i piedi, poi le gambe, la schiena e così via fino a
muovere tutto il corpo anche in posizione verticale.
Con una musica molto allegra danziamo e ci muoviamo liberamente in tutto lo
spazio: è molto divertito e si muove con una tale energia e scioltezza da
sembrare una piccola libellula.
Ora gli propongo di seguire i movimenti che faccio e ripeterli insieme come
una sorta di specchio: non ha alcuna difficoltà, ma piuttosto appare sicuro e
disinvolto, anche perché questo esercizio solitamente lo svolge in altre attività.
A questo punto gli chiedo se vuole provare a fare dei movimenti che io
ripeterò: con un timido sorriso accetta; inizialmente i suoi movimenti sono
lenti e semplici, poi divertito dalla situazione comincia a compiere movimenti
sempre più completi e rapidi, fino a giungere quasi ad una piccola coreografia
(probabilmente sarà un ricordo delle lezioni di danza che segue) che a fatica
riesco ad eseguire; per non farlo affaticare troppo decido di cambiare
esercizio: uno di fronte all’altro camminiamo insieme sincronizzando i nostri
passi, mi accorgo che segue con qualche difficoltà e allora gli prendo le mani e
questa volta si lascia guidare liberamente mantenendo il ritmo. Ora si
invertono i ruoli, è Loris a condurmi nello spazio circostante; ad un certo
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punto aumenta la velocità, si diverte molto e si sente capace. Sempre più
divertito comincia a fare un girotondo che sembra non finire mai, infatti devo
essere io a chiedergli di smettere prima che venga un capogiro.
Torniamo al centro della stanza e facciamo dei lunghi respiri. Prendo dei fogli
di giornale e gli spiego a cosa servono: normalmente il giornale viene usato
per la lettura ed è un oggetto utilizzato per lo più da gente adulta, ma questa
volta per noi diventa uno strumento per giocare insieme.
Un gioco è attraverso le stagioni: immaginiamo di essere in inverno, fa
freddo e per ripararci ci copriamo con i fogli di giornale; man mano sentiamo
che un po’ di calore giunge dall’esterno e così lentamente cominciamo a
togliere i fogli che ci ricoprono (è bravissimo nell’eseguire l’esercizio poiché
effettua dei movimenti molto rallentati). Ora possiamo alzarci e ammirare
l’arrivo della primavera: prendiamo due fogli e li muoviamo come se fossero
degli uccellini che volano; ci muoviamo qua e là occupando tutto lo spazio.
Giunge l’estate e sugli alberi compaiono dei magnifici frutti che realizziamo
accartocciando alcuni fogli di giornale dandogli una forma tondeggiante; li
prendiamo e dopo averli maneggiati un po’ li lanciamo in alto: L. si scatena a
tirare più forte che può fino a far toccare il soffitto; mi chiede di fare
altrettanto e mi fa un complimento dopo aver lanciato contro il soffitto la palla.
Dopo averlo fatto divertire un po’, il racconto prosegue giungendo l’autunno:
cadono le foglie, soffia un vento freddo e compare la pioggia. Per fare questi
effetti strappiamo in tanti piccoli pezzi dei fogli; è divertito e nello stesso
tempo incuriosito da questa insolita attività. Dopo averne fatti a sufficienza li
raccogliamo e li lanciamo in aria, così da creare una leggera pioggerella
d’autunno. Naturalmente i lanci sono molto graditi da L., che si diverte ad
osservare la direzione che seguono i pezzetti.
Per dare l’effetto del vento prendiamo dei fogli interi ed effettuiamo dei lanci,
ma più ci sforziamo di farli andare lontano più rimangono vicini, suscitando in
L. tanto divertimento.
Ora anziché volare in alto “le foglie” vengono trascinate per terra dal vento;
quindi stavolta usiamo i piedi e cerchiamo di sollevare e spostare i fogli.
Concludiamo il ciclo delle stagioni ritornando all’inverno, dove una candida
neve si è posata a terra, quindi stendiamo i fogli aperti tutti vicini e ci
camminiamo sopra.
Da qui prendo lo spunto e cerco di creare un piccolo percorso da seguire,
facendo attenzione a posare i piedi solo sui fogli che ho disposto un po’ sparsi
qua e là.
Ancora una volta L. dimostra agilità e abilità nell’eseguire l’esercizio, si
sposta da un foglio ad un altro con estrema facilità e appare sempre molto
molto divertito.
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5^ INCONTRO (9 giugno):
ho distribuito per terra dei rotoli di tessuto tagliati a strisce lunghe; lascio che
L. incuriosito dagli strani oggetti, li esamini toccandoli, per scoprirne la loro
utilità; infatti poco dopo comincia a srotolarne uno. Propongo di scegliere il
tessuto in base al colore e L. prende quello arancione; ognuno di noi comincia
a srotolare il tessuto legando l’estremità in un punto a scelta della stanza
( ma tutti e tre sono più o meno vicini) e portando il rotolo a spasso con noi
occupando tutto lo spazio: la concentrazione più alta si trova intorno ad una
colonna situata proprio nel centro del locale. Alla fine ci fermiamo a guardare
il risultato ottenuto: un insieme di linee colorate che si incrociano e si
disperdono per tutto lo spazio. Scegliamo una linea da seguire e vediamo
dove ci conduce.
A questo punto propongo il percorso al contrario, cioè arrotolare il tessuto fino
a giungere alla parte legata, impresa per nulla semplice poiché dall’incontro di
più linee si sono formati vari nodi da sciogliere, ma L. non si è mai perso
d’animo e ha proseguito il suo lavoro fino a portarlo a conclusione.
Chiedo di scegliere nuovamente un rotolo e questa volta portarlo in giro senza
legarlo, occupando tutto lo spazio possibile. Ora confluiscono attorno al nostro
corpo, una volta legati proviamo a muoverci ma i movimenti risultano più
difficili, bloccati, ma L. non sembra affatto preoccupato ma piuttosto divertito.
Ci si libera dal tessuto che viene messo da parte; ora immaginiamo una linea
nel corpo, la prendiamo e la portiamo al di fuori disegnandola nello spazio
circostante.
La linea si concretizza su di un foglio bianco; ognuno ha il proprio e sceglie un
pastello colorato per tracciare la linea. Le linee si confondono con altri colori
fino a riempire tutto il foglio: L. traccia delle linee che seguono tutte uno
stesso andamento circolare, come a formare un cerchio.
Scegliamo una linea da seguire col dito; anche in questa circostanza L. esegue
senza alcuna difficoltà l’esercizio, mostrando una particolare attenzione.
Nuovamente la linea torna nello spazio, una volta in basso, una volta in alto,
intorno a noi e poi lontano.
99
Ho appeso su alcune pareti dei fogli bianchi, ognuno sceglie un colore e un
foglio e comincia a tracciare delle linee, al mio stop si cambia posto e si va in
quello di un altro tracciando ancora delle linee e così via finchè tutti i fogli non
si sono riempiti completamente. A lavoro ultimato ci fermiamo a guardare il
lavoro ottenuto: un groviglio di linee impazzite! Anche L. appare divertito
dalla confusione di quelle linee e stavolta non compaiono più forme circolari.
Riprendiamo i tessuti e ci muoviamo con loro, ma questa volta le nostre linee
si incontrano con altre, giocano insieme e si incrociano, fino a legarci tutti
insieme… Ridiamo divertiti dalla situazione e lentamente ci liberiamo.
Sul pavimento ho disposto un foglio grande da riempire sempre con le linee,
ma questa volta operiamo insieme: inizialmente ognuno cerca di non invadere
lo spazio altrui ma poi cominciano delle piccole sfide; il gioco diventa per L.
interessante e si prosegue. Stefania e L. hanno intrapreso una gara di velocità
e ostacoli mentre io faccio il “giudice”; L. si diverte tantissimo, ride di gusto e
si rivolge verso la mamma per condividere il suo entusiasmo.
6^ INCONTRO (23 giugno):
l’incontro di oggi è impostato su movimenti ad occhi aperti e ad occhi chiusi,
al fine di verificare il suo orientamento ed equilibrio nello spazio.
Propongo a L. di camminare liberamente, ora provare a farlo ad occhi chiusi;
sperimentiamo varie direzioni ma noto che ha difficoltà e credo anche un
certo timore a tenere gli occhi chiusi.
Così gli propongo cautamente se vuole provare a bendarsi, è un po’ titubante
ma accetta; per rassicurarlo gli tengo le mani e lo conduco in giro, lentamente
ci teniamo solo con una mano e i movimenti diventano più distesi e fluidi.
Ora il conduttore è lui e io mi lascio guidare dalle sue mani che mi conducono
nello spazio intorno. L. è divertito da questa situazione e si sente importante
e capace.
Nuovamente bendato, ora che ha acquisito più sicurezza gli chiedo di provare
a danzare compiendo dei piccoli movimenti, prima tenendolo per mano e poi
senza: naturalmente gli faccio sentire la mia presenza e con movimenti
leggeri e delicati prova a danzare.
Ora la danza diventa liberatoria, infatti tolta la benda si può sfogare
compiendo salti, giri in modo libero, senza costrizioni; i suoi movimenti sono
sempre armonici ed energici.
Ci sediamo per terra e gli chiedo di disegnare su di un foglio un oggetto,
assume la solita posa dell’indeciso,col dito poggiato sulla tempia, ci pensa un
po’ e poi disegna un pallone; faccio un disegno anch’io. Ora gli chiedo di
provare a fare lo stesso disegno chiudendo gli occhi, esercizio che svolgiamo
entrambi; ridiamo insieme dei nostri disegni che hanno assunto altre forme e
ci consoliamo per il risultato ottenuto in quanto non era un’impresa al quanto
facile.
100
Preparo un piccolo percorso composto da vario materiale che L. proverà ad
indovinare: una grossa spugna, foglie, del riso avvolto in una pellicola, ecc.
Una volta bendato lo conduco alla scoperta del percorso: i suoi piedi nudi
toccano materiali che non conosce e il suo viso esprime incertezza; poi giunge
alla spugna che la riconosce e fa un sorriso; riconosce anche alcuni odori e si
diverte nell’esplorare alcune sensazioni.
Dopo avergli fatto ripetere un po’ di volte il percorso bendato, ora può
scoprire tutti gli elementi che ha toccato e, con sua meraviglia li guarda con
attenzione.
Infine gli propongo il gioco della scatola magica, ossia indovinare degli oggetti
semplicemente toccandoli con la mano: ci sono oggetti semplici ed altri un po’
complicati, ma di uso comune. L. ne indovina diversi e ogni volta fa un sorriso
di compiacimento.
Come premio gli faccio scegliere un oggetto che può tenere: sceglie un anello
motivandone la scelta, lo avrebbe regalato alla sua fidanzata.
Ecco quindi come compaiono atteggiamenti adolescenziali mescolati con quelli
più infantili.
7^ INCONTRO (30 giugno):
abbiamo cominciato facendo un po’ di riscaldamento poiché L. ha esordito
manifestando la sua voglia di ballare, ha portato un suo cd e il ballo è iniziato:
movimenti energici,briosi e pieni di vitalità, il suo viso appare più luminoso ed
esprime un’immensa gioia.
Dopodichè abbiamo fatto alcuni esercizi di equilibrio, sollevando una gamba,
prima piegata e poi tesa, in avanti e indietro, inizialmente col supporto della
sbarra sulla quale ci si reggeva e successivamente senza alcun appoggio: in
questo caso si sono manifestate alcune ovvie difficoltà a mantenere l’equilibrio,
ma ciò nonostante ha mantenuto inalterato il suo umore particolarmente
gioioso.
Ho proposto di camminare molto lentamente come se fossimo una lumaca,
poi veloce e poi ancora ad andatura normale. Ora a piccoli passi come una
formica e poi passi da gigante, pesanti come un elefante e leggeri come un
uccellino; in quest’ultimo esercizio L. si è divertito molto a sprigionare la sua
forza scaricandola sulle gambe e notare il contrasto pesante-leggero.
Ora sperimentiamo la corsa, in un primo momento molto leggera, quasi
saltellata, poi un po’ più rapida ed infine una corsa vera e propria. Anche qui
non è mancato il divertimento, ogni occasione di sfogo è un momento di
grande entusiasmo.
A questo punto ci riposiamo respirando profondamente e continuando a
camminare.
101
Adesso gli chiedo di continuare sempre a camminare ma facendo attenzione
alle direttive: si procede in avanti, quando vi è un ostacolo si cammina
all’indietro e poi di lato; L. è accanto a me e segue ogni mio spostamento
senza alcuna difficoltà; ora il ritmo si fa più sostenuto e i comandi più rapidi,
quindi occorre maggior attenzione, ma L. non si fa cogliere impreparato e
segue perfettamente tutte le indicazioni, orientandosi molto bene nello spazio.
Il gioco si conclude camminando in cerchio per tutto lo spazio.
Ci sdraiamo su alcuni materassini e cominciamo a muoverci come se stessimo
nuotando, aprendo e chiudendo braccia e gambe; qui commetto una
leggerezza dando per scontato che l’esercizio sia semplice da eseguire e
invece presenta una certa difficoltà di coordinazione. L. infatti non riesce a
muovere contemporaneamente braccia e gambe; così muoviamo prima solo le
gambe e poi solo le braccia, dopo essersi assicurato propongo di muovere
entrambe le parti e questa volta l’esercizio ha buon esito.
Ora i movimenti sono liberi, usando varie parti del corpo, finchè non
cominciamo a rotolare da una parte e poi dall’altra.
Adesso proviamo a strisciare lungo i materassini: L. è molto agile, si muove
destreggiandosi molto bene manifestando curiosità ed interesse. Prima di
passare ad un gioco successivo vuole mostrare la sua bravura compiendo una
serie di movimenti di una certa difficoltà che realizza con precisione.
Con l’aiuto di Stefania posso proporre il gioco della statuina, cioè quando si
interrompe la musica ci si deve fermare assumendo una posa da statua. Così
io e L. cominciamo a muoverci stando attenti alla musica mentre Stefania si
prepara ad interrompere. L’ascolto e l’attenzione sono molto presenti, L. si
ferma rispettando le pause ed assumendo varie pose.
Riprendendo l’esercizio dei vari passi di alcuni animali, propongo di scegliere
quelli che si addicono alla musica; aiutandolo nella scelta esegue movimenti
leggeri e delicati quando la musica lo richiede, ritmati e sostenuti in altri
momenti.
8^INCONTRO (14 luglio):
Ho ripreso in parte alcuni esercizi della volta precedente… tra cui camminare
come un animale a scelta, seguendo però il ritmo della musica. L. mi segue
sempre, un po’ al mio fianco e un po’ rimanendo indietro, ripetendo gli stessi
movimenti miei: prima leggeri come quelli di un uccellino, poi veloci e poi
ancora pesanti come quelli di un elefante; in questo caso si diverte molto, in
quanto può impiegare e sprigionare tutta l’energia.
Ora invece non c’è più il vincolo della musica, la proposta è di camminare
liberamente nel setting e di immaginare di essere in una foresta dove si
incontrano degli animali; l’intento era quello di fargli proporre dei movimenti
di animali, ma non gli veniva in mente niente e così, ancora una volta, ero io
a scegliere i movimenti da seguire.
102
Riuscire a farlo parlare è molto difficile, la principale forma di espressione è
quella corporea; per quanto riguarda la comunicazione verbale, si limita a
dare risposte monosillabiche o comunque ridotte all’essenziale. Raramente
esprime qualcosa di sua iniziativa, solo in occasioni di particolare gioia.
Introduco nuovamente l’ascolto della musica attraverso il gioco delle statuine,
solo che questa volta si trova ad essere solo ad eseguire il gioco, in quanto io
ho il compito dell’interruzione della musica; gli chiedo se vuole provare e mi
dice di sì: anche senza imitare riesce molto bene a seguire la musica e a
fermarsi quasi subito; per quanto riguarda le posizioni, varia poco e per lo più
usando le braccia e le mani.
Ora la musica assume un colore e una forma, attraverso l’uso di alcuni fogli
colorati. Chiedo a L. di scegliere un colore che preferisce e seguire il ritmo
della musica, disegnando con i pastelli a cera ciò che vuole o semplicemente
disegnare ciò che si ascolta. Ovviamente l’esercizio l’abbiamo svolto insieme,
in modo da fornirgli gli spunti per l’esecuzione; sebbene si limitasse a seguire
ciò che facevo, era perfettamente in grado di seguire il ritmo, evidenziando
con un segno più marcato l’uso (in quel momento) di strumenti musicali dal
suono grave, relativamente al brano che si stava ascoltando (brano di musica
classica).
Si è passati infine all’utilizzo di elastici dalle varie forme e colori; ognuno di
noi ne ha preso uno e lo ha sperimentato su alcune parti del corpo: in alcuni
momenti era da supporto al movimento, in altri creava un impedimento.
Prima seduti eseguendo vari allungamenti con le braccia e con le gambe, poi
in piedi provando anche a camminare attraverso l’elastico.
Inizialmente L. non sembrava trovarsi molto a suo agio con l’elastico, pareva
non gradirlo, ma poi, lentamente, dopo averlo sperimentato più volte e in
molti modi, si è divertito ad eseguire movimenti nuovi che un po’ lo
facilitavano e un po’ ne limitavano il movimento.
103
A questo punto l’elastico è diventato un “compagno” di gioco col quale poter
danzare, prima lontano dal corpo (tenendolo solo con le dita) e poi sul corpo
stesso.
Infine, per la gioia di L., è stata la volta dei lanci: utilizzando più elastici, si
lanciavano in alto e si guardava la direzione che seguivano e se cadevano
vicini oppure no.
Ogni qualvolta si compie un lancio, con qualsiasi strumento, per L. è un
momento di puro divertimento; probabilmente poiché questo gesto è
liberatorio, tutte le energie vengono canalizzate e pronte per essere espulse,
per poi essere nuovamente recuperate. Dall’altro potrebbe essere un gesto
simbolico: solitamente si getta, si butta via ciò che non piace, che non è
gradito e quindi ci si ne libera, lasciando un senso di giovamento.
9^INCONTRO (16 settembre):
il tema principale del giorno è la parola “incontro”, sviluppata attraverso vari
stimoli; dopo un breve riscaldamento, ma soprattutto sfogo per sprigionare
tutte le energie raccolte, ho introdotto il tema del giorno:prima camminiamo
per la palestra in fila (chi sta davanti è il conduttore e decide che movimenti
fare con le braccia mentre si cammina, e in quale direzione andare); come già
sottolineato più volte, non ha nessuna difficoltà nell’imitare i movimenti, ma
anche quando è stata la volta di condurre non ha trovato nessun ostacolo,
dimostrando di avere delle indiscusse capacità e padronanza di movimento:
ha proposto esercizi con le braccia di sua iniziativa, senza utilizzare quelli
proposti da me. Si sentiva fiero di fare il conduttore, aveva un ruolo
importante e gli riusciva bene; il suo entusiasmo è stato tale da richiamare
l’attenzione della madre per farle notare la sua bravura.
Ora ognuno cammina liberamente seguendo una propria direzione, ogni
qualvolta ci si incontra nella stessa direzione, ci si saluta; ora invece si compie
un gesto usando varie parti del corpo (alzare una gamba, portare indietro un
braccio, piegarsi con la schiena, ecc.); L. segue sempre con attenzione,
imitando in modo preciso i miei movimenti.
Poi è stata la volta di alcuni oggetti dalla forma conica: li ho disposti sparsi
qua e là nella palestra. La consegna data è quella di camminare nella
direzione che si vuole, ogni qualvolta si “incontra” nel percorso un oggetto, lo
si raccoglie e si crea una breve danza oppure un gioco.
L. inizialmente li scansava come se fossero degli ostacoli da evitare (la forma
ne era un richiamo forte), poi è tornato indietro, li ha raccolti ed ha eseguito
correttamente la richiesta.
104
A questo punto ho introdotto l’uso del colore; ho preparato tutto l’occorrente
e ho spiegato brevemente l’esercizio: nella parte bassa del foglio si dipinge col
blu, fino a giungere più o meno alla metà del foglio; dall’alto si usa il giallo
che pian piano avanza verso il blu fino a giungere all’”incontro”. Da qui si
genera il verde, ricco di sfumature, dal chiaro allo scuro.
Nell’esecuzione L. si è rilassato molto assumendo una posizione da sdraiato
con i gomiti poggiati a terra; appare interessato e concentrato nel dipingere.
Usa molto colore e lo stende a piccole pennellate; di tanto in tanto si ferma
per chiedere la mia approvazione e poi prosegue fiducioso.
Per certi aspetti sembra temere o non volere occupare tutto lo spazio, come
se quello usato fosse già troppo.
Gradisce molto la mia vicinanza e se assumo le sue stesse posizioni (come a
volte accade) sorride compiaciuto.
105
10^INCONTRO (29 settembre):
l’incontro di oggi ha visto protagonisti ancora una volta il movimento e la
forma.
L. evidenzia sempre più il bisogno e la voglia di muoversi, appena arriva si
toglie subito le scarpe e comincia a correre e a muoversi, come se fosse alla
ricerca di conferme.
Quindi ecco che comincia un po’ di riscaldamento fatto di corsette, movimenti
liberi e di danze. Si sente appagato e sorride felice di poter esprimere il suo
potenziale.
Ora introduco dei bastoni di legno (per intenderci simili ai manici delle scope)
ed eseguiamo insieme esercizi di manipolazione, con due mani e poi anche
con una. Sembra padroneggiarla bene e addirittura propone esercizi nuovi
(probabilmente si ricorda di averlo già usato in altre attività, come le lezioni di
danza) che esegue con sicurezza e disinvoltura. In queste circostanze il livello
di autostima aumenta vertiginosamente e manifesta il suo entusiasmo
richiedendo anche l’attenzione della madre.
Per quanto riguarda gli esercizi di equilibrio, c’è stata qualche difficoltà e
anche l’esecuzione ne ha risentito poiché non riusciva a seguire l’ordine dei
movimenti.
106
Senza insistere più del dovuto, siamo passati all’uso della palla di spugna,
prima sempre con esercizi di manipolazione usando le mani e poi
coinvolgendo anche il resto del corpo fino ai piedi.
Ora abbiamo ripreso alcuni esercizi che avevamo svolto con i bastoni
(coordinazione, equilibrio) notando la differenza fra i due strumenti: i
movimenti erano più sciolti e sicuri con la palla, proprio per le sue
caratteristiche intrinseche (rotondità, morbidezza, richiamo del sostegno
quando ci si appoggia,…).
Dopo averci giocato un po’ lanciandola in aria e facendola rotolare qua e là,
ho proposto di passare ad un’altra attività: ho preso un foglio bianco da
disegno e l’ho bagnato con una spugna in modo da rendere il colore più
scorrevole e il contatto del pennello sul foglio più “morbido” e più libero.
Infatti L. non ha avuto nessuna esitazione nell’iniziare l’attività pittorica, come,
invece, era accaduto in altre occasioni.
La consegna data era quella di stendere del colore a scelta sul foglio e poi
aggiungerne gradualmente altri a piacimento, creando delle forme
geometriche o simili. L’idea iniziale era quella di creare una sorta di “base” sul
quale poter modellare e modificare forme e colori; ma in realtà questo
passaggio non è stato possibile in quanto L. usava molto colore riuscendo a
renderlo scuro, nonostante fosse diluito con acqua. Si concentrava su piccole
parti del foglio, prima delineava il confine e poi passava a riempirlo; i colori si
sono concentrati nella parte bassa del foglio e le forme sono risultate facili e
immediate da realizzare, ha scelto colori scuri, partendo dal nero al marrone e
poi passando ad altri più vivaci come il rosso e l’azzurro.
Dopo poco, però, si è stancato di dipingere e così ho introdotto dei cartoncini
colorati già ritagliati con delle forme geometriche e di altro genere, da
collocare a piacimento e riempire gli spazi vuoti.
Dopodichè ho chiesto di delimitarne il contorno con il pennello; ci siamo poi
divertiti a togliere qualche cartoncino e vedere come la forma rimasta intatta
sul colore.
107
A lavoro ultimato gli ho chiesto di osservare il lavoro per vedere se volesse
aggiungere qualcos’altro, ma era soddisfatto così.
Allora abbiamo ripreso la palla e ne abbiamo delineato la forma seguendola
con le mani; la palla rotolava nello spazio circostante e ciò scaturiva
divertimento in L.
Infine abbiamo “disegnato” con la palla, nell’aria, varie forme geometriche: un
cerchio, un quadrato, un triangolo.
L’intento era quello di creare un collegamento tra il movimento e le forme.
108
CONSIDERAZIONI
Inizialmente ero tesa e spaventata dal pensiero di operare su di un soggetto
affetto da Sindrome di Down, era la prima volta in assoluto che mi dovevo
confrontare con un paziente non normo-dotato. Infatti anche nei precedenti
tirocini ho lavorato con bambini e ragazzi che non presentavano limiti fisici o
psichici.
Ancor prima di conoscerlo temevo di non riuscire a conquistare la sua fiducia,
di non essere in grado di instaurare una relazione proficua e di conseguenza
non suscitargli alcun interesse verso le attività proposte.
Durante la fase dell’osservazione ho realizzato che in realtà è un ragazzo
molto disponibile, curioso ed interessato e lo ha dimostrato in tutti gli incontri.
Le difficoltà maggiori che ho riscontrato fanno riferimento alla gestione ed
organizzazione del primo incontro, nel senso che dovevo trovare un modo
giusto ed equilibrato per attirare la sua attenzione senza però risultare
invasivo. Per questo ho optato per una situazione di tranquillità e rilassatezza
attraverso il gioco con i cartoncini colorati.
Un’altra difficoltà è inerente all’età: 16 anni, età critica adolescenziale, per cui
è strettamente necessario valutare molto attentamente tutte le attività da
proporre e cercare di trovare un giusto equilibrio fra l’infantile e
l’adolescenziale. Tutto ciò reso ancora più difficile dal suo , se pur lieve,
ritardo mentale: ne sapevo poco, o meglio, non avevo idea della sua
condizione, quindi mi risultava difficoltoso impostare varie attività senza
sapere fin dove potermi spingere; così molti sono stati tentativi a volte ben
riusciti altre ho dovuto optare in favore di esercizi nuovi impostati in modo più
adeguato, come per esempio quelli di coordinazione, oppure altri in cui si
richiedeva la sua libera iniziativa. Necessitava della continua guida e a volte si
innescavano dei meccanismi di imitazione che non potevo evitare. Credo che
questa circostanza sia dovuta anche al fatto che segue delle lezioni di danza
per cui si rende giusto e necessario guardare ed imitare ciò che l’insegnante
fa. Ciò nonostante ci sono stati comunque vari momenti in cui si sentiva
pienamente libero di esprimersi attraverso i movimenti che preferiva e
questo si è verificato in particolare durante i recenti incontri.
Un altro meccanismo che si era innescato era quello di ricercare
continuamente lo specchio, sempre collegato al discorso della danza, in cui
esso era un punto di riferimento fondamentale per lo svolgimento delle lezioni.
Solitamente siamo abituate a coprire gli specchi per conseguire l’obiettivo di
percepirsi non vedendosi; quindi durante i primi due incontri ho coperto gli
specchi, ma data l’ampiezza ne ho lasciato scoperti una parte. Ho notato che
L. ricercava la sua immagine riflessa per fare propri i movimenti, sembrava
infastidito e disturbato da quei giornali che coprivano gli specchi e questo mi
ha fatto molto riflettere: ho capito che per lui era troppo contraddittorio non
109
usare lo specchio quando fino all’ora precedente esso rappresentava la sua
guida. Mi sembrava ingiusto porgli quel limite; in questo modo, compiendo
una forzatura avrei ottenuto solo il contrario. Così ho deciso di non coprire più
gli specchi e di stare a vedere come si sarebbe comportato…. E’ stata una
saggia decisione perché i risultati si sono notati subito negli incontri
successivi: non ricercava più in modo assiduo la sua immagine, quando
voleva mostrare le sue doti di ballerino si rivolgeva a me e non allo specchio,
non più considerato un punto di riferimento.
Purtroppo c’è stata una sospensione degli incontri di circa due mesi a causa di
un intervento chirurgico che ha dovuto affrontare al cuore, piccola disfunzione
probabilmente connessa alla sua malattia.
Riprendere gli incontri significava cominciare dal principio, riconquistare
quell’iniziale fiducia che si stava instaurando e fare in modo che L. potesse
riappropriarsi dei suoi vissuti corporei, tenendo ben presente che reduce da
un’operazione. Ma ancora una volta ha stravolto le mie aspettative: avevo di
fronte a me un ragazzino pieno di energie, di voglia di fare, di muoversi e
dimostrare tutte le sue qualità; manifestava sempre più il bisogno di usare il
corpo come forma di espressione, di potersi muovere e dare sfogo alle sue
energie. Ho notato che la sua era una vera e propria esigenza: era rimasto
per un lungo periodo fermo e ora era pronto per esplodere come un vulcano.
Per questo ho basato gli incontri in considerazione di questa sua necessità più
che desiderio; ogni qualvolta che saltava, correva, ballava era un momento di
gioia, un rigenerarsi e riappropriarsi del suo corpo usandolo nel modo in cui
meglio riusciva.
E’ davvero meraviglioso vederlo in quello stato di benessere, trasmette una
gioia ed una vitalità contagiose, i suoi occhi si illuminano e un enorme sorriso
compare magicamente.
Adora i complimenti, ne è molto gratificato e quando riesce bene in qualche
impresa fa un gesto di esultazione.
Un’altra considerazione da fare è relativa all’intervento di tipo individuale: ho
sempre pensato che era l’ideale per instaurare una relazione empatica e per
cogliere al meglio ogni esigenza e difficoltà del paziente; credevo fosse un
intervento migliore rispetto a quello di gruppo, poiché, come ho potuto
verificare nei precedenti tirocini, non si riescono ad osservare in maniera
precisa le dinamiche che avvengono all’interno del gruppo. Devo però
ammettere che in realtà può essere limitante, non ci sono confronti né spunti
per instaurare altre relazioni e di conseguenza non si possono innescare
determinati meccanismi.
Quindi questo tirocinio ma ha dato l’opportunità di sperimentare quella che è
sempre stata solo un’idea e che nella pratica presenta i suoi limiti.
Ciò su cui ho fatto leva per la realizzazione del progetto è la capacità e il
desiderio di movimento di L.: sin dalle prime osservazioni è emerso questo
aspetto assolutamente da considerare come un’importante risorsa da coltivare
e nutrire.
110
Ho cercato di fornirgli diversi stimoli per accrescere e migliorare i suoi vissuti
corporei, attraverso l’utilizzo di semplici strumenti quali un giornale, matite
colorate, ma soprattutto l’uso del corpo in modo armonioso e liberatorio.
Contemporaneamente ho fatto in modo di stimolare anche la sua creatività,
fornendogli spunti per ampliarli e sperimentarli anche a casa.
Non posso dire cosa possa aver recepito da questi incontri, se gli stimoli sono
bastati e se qualcuno è giunto a destinazione; non c’è stato il tempo
necessario per approfondire bene e per verificarne il risultato, ma posso
invece dire che il ragazzo che ora vedo è più sciolto e disinibito dei primi
incontri, è diventato più affettuoso e premuroso, si sente più sicuro ed esegue
dei movimenti autonomamente in modo armonioso e fluido; gestisce l’uso
dello spazio in maniera appropriata e non si ferma più ai bordi come faceva
inizialmente, ma occupa tutto lo spazio.
Ciò che è rimasto invariato è la sua completa disponibilità, la curiosità e
soprattutto la voglia di fare; tutte queste sue caratteristiche hanno contribuito
notevolmente alla realizzazione del progetto e mi hanno dato motivo di farmi
sentire tranquilla, completamente a mio agio e divertirmi insieme a lui
condividendo le varie situazioni.
Un altro punto di forza rilevante è la sua mamma, figura sempre presente
negli incontri. Si è subito interessata allo svolgimento degli interventi e si è
mostrata attenta e disponibile.
Man mano anche il rapporto di fiducia con lei è cresciuto e negli ultimi incontri
si assentava per poi ricomparire al termine.
Mi ha fornito diverse informazioni relative allo stato di salute del figlio,
rendendomi partecipe anche delle relazioni in famiglia e di alcuni
atteggiamenti in casa e a scuola. Mi ha infatti reso partecipe delle sue
preoccupazioni in merito ai comportamenti di L. in varie situazioni, sul
graduale livello di autonomia che vorrebbe egli potesse raggiungere,
incoraggiandolo e stimolandolo costantemente.
Inoltre mi ha parlato del rapporto particolare che L. ha con suo fratello
maggiore: esegue tutto ciò che gli chiede di fare, temendo qualche
rimprovero, mentre, nonostante vari solleciti, non sempre ascolta la mamma.
Tutti questi elementi hanno reso davvero speciale e unico questo tirocinio.
Sono molto contenta di avere conosciuto una persona come L., che mi ha
trasmesso coraggio attraverso la sua tranquillità e totale disponibilità.
Mi ha colpito molto la sua determinazione, in particolare quando trovava delle
difficoltà nello svolgimento di alcuni esercizi, non si scoraggiava affatto ma
insisteva fino a che non si sentiva soddisfatto.
Ad accompagnare ciò c’era anche una buona dose di testardaggine che
difficilmente riuscivo a contrastare: se decideva che era giunto il momento di
111
sfogarsi e ballare un po’ non c’era verso di fargli cambiare idea; però dopo
averlo assecondato, seguiva tutte le direttive senza mai opporsi.
Mi ha trasmesso molto e ho avuto modo di accrescere le mie conoscenze e
avere spunti per fare diverse riflessioni.
Devo dire che mi dispiace un po’ dover concludere il tirocinio con lui, ma sono
davvero contenta di aver fatto un’esperienza costruttiva, con la
consapevolezza che in qualche modo abbiamo interagito e ci siamo scambiati
emozioni e sensazioni reciproche.
Si è instaurato un rapporto basato sulla fiducia e complicità; ho cercato di
pormi come una compagna di giochi con la quale condividere esperienze e
situazioni nuove, cimentandomi con lui nelle varie attività. Questo intento è
ben riuscito poiché L. mi chiedeva di partecipare ai vari giochi o si esibiva in
particolari danze, sicuro del fatto che avrei gradito molto la sua esecuzione e
che poteva riporre fiducia in me.
112
Bibliografia
Anna Contardi e Stefano Vicari, Le persone Down – Aspetti neuropsicologici,
educativi e sociali, Franco Angeli.
Francesco Casolo Stefania Melica, Il corpo che parla, V&P 2005.
B.C.J. Lievegoed, Le età evolutive dall’infanzia alla maggiore età, Natura &
Cultura Editrice.
Franco Nanetti, I segreti del corpo, Armando Editore.
Articoli internet:
http://digilander.libero.it/faqdown, Faq sulla Sindrome di Down.
http://it.wikipedia.org/wiki, Sindrome di Down.
http://www.siblings.it/dasapere, Medico e genitori di Az.
Federica Cantaluppi- Laboratorio III- Espressività dei linguaggi.
Memo – Disabilità intellettive – Ritardo mentale,Integrazione e trattamento.
PSYCHOMEDIA – Anna Maria Meoni, Arteterapia.
113
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