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23. La donna cerbiatta tremante in Orazio

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23. La donna cerbiatta tremante in Orazio
23.
La donna cerbiatta tremante in Orazio, Anacreonte, Ariosto
Si confronti l’incipit dell’ode oraziana col fr. 39 D. di Anacreonte, da cui Orazio
prese le mosse cimentandosi in una specie di traduzione che, secondo il
procedimento dell’antica aemulatio, consisteva in una rielaborazione del
modello. Da questo il poeta coglieva i brevia semina: piccoli spunti poi dilatati,
amplificati, sì che da una parola isolata poteva nascere un quadro, come
nell’esempio di aemulatio omerica da parte di Virgilio citato in Macrobio 5, 11,
22: «… e accogliendo da Omero il breve spunto della frusta, descrisse gli
aurighi che scuotono le briglie ondeggianti e si chinano proni per frustare».
… a¬ganøv oi©á te nebròn
neoqhléa galaqhnón, oçst∫ e¬n uçlhıv keroésshv a¬poleifqeìv u™pò
mhtròv e¬ptoäqh.
…
teneramente, come
una cerva piccina,
che si svia nella selva, e non trova
la mamma
con le sue grandi corna, e si spaura.
(Trad. F.M. Pontani)
Per il confronto col modello anacreonteo sono illuminanti queste considerazioni
di La Penna:
«È probabile che anche in Anacreonte il primo termine della similitudine fosse una
fanciulla: già Alceo (fr. 123 D.) paragonava ad una cerbiatta una fanciulla innamorata e
timida (diversamente Bacchilide 12, 84, paragonerà alla cerbiatta una fanciulla per la
sua agilità e la sua grazia). Non sappiamo se Anacreonte offrisse lo spunto anche per il
delicatissimo giuoco di sensazioni con cui è composto il quadro della cerbiatta
tremante; probabile, però, che la seconda strofa sia una fine creazione di Orazio. Già
nella prima strofa, del resto, il distacco da Anacreonte è sensibile. In Anacreonte due
aggettivi per sottolineare la tenera età della cerbiatta sono troppi; l’epiteto dato alla
madre (a parte la sua inesattezza, perché le cerve non hanno corna) sembra esornativo,
superfluo. Orazio non ha meno aggettivi di Anacreonte, ma essi servono tutti ad
animare il quadro, a farci penetrare nei sentimenti dei personaggi o dello spettatore: la
madre è fuggita per la paura (pavidam); i monti sono impervii e una paurosa solitudine
avvolge la scena; la vanità della paura della cerbiatta è avvertita dallo spettatore con un
lieve distacco ironico. Solo virides nella seconda strofa, riferito alle lucertole, e
Gaetulus nella terza, riferito al leone, paiono superflui.
Il distacco ironico si avverte soprattutto nell’ammonimento finale, ma resta appena
percettibile: la partecipazione umana ai sentimenti della fanciulla resta molto viva.
Orazio non si abbandona al pathos, anzi vi si abbandona meno del poco passionale
Anacreonte (in cui e¬ptoäqh è piuttosto forte); in compenso fa rivivere i sentimenti della
fanciulla con una delicatezza eccezionale, attenta a sensazioni fini, impercettibili: si
direbbe che mai quanto in questo caso Orazio è stato vicino ad una sensibilità
virgiliana».
Altra cosa, rispetto alla traduzione-imitazione, parrebbe essere il
riecheggiamento d’un motivo topico. Così l’immagine oraziana della cerva che
fugge rivive nei versi dell’Ariosto riportati sotto. Ma sia l’imitazione sia l’eco più
o meno consapevole si spiegano col fatto che la letteratura è un sistema, che
sempre «i libri parlano di libri, ovvero è come se parlassero tra loro» (U. Eco, Il
nome della rosa). Insomma, la memoria degli scrittori è intessuta della parola di
altri scrittori e ogni autore non è un mondo in se stesso, ma è legato ad altri
autori da una fitta rete di relazioni.
Fugge tra selve spaventose e scure,
per lochi inabitati, ermi e selvaggi.
Il mover de le frondi e di verzure,
che di cerri sentia, d’olmi e di faggi,
fatto le avea con subite paure
trovar di qua di là strani vïaggi;
ch’ad ogni ombra veduta o in monte o in valle,
temea Rinaldo aver sempre alle spalle.
Qual pargoletta o damma o capriuola,
che tra le fronde del natio boschetto
alla madre veduta abbia la gola
stringer dal pardo, o aprirle ’l fianco o ’l petto,
di selva in selva dal crudel s’invola,
e di paura triema e di sospetto:
ad ogni sterpo che passando tocca,
esser si crede all’empia fera in bocca.
(Ludovico Ariosto, Orlando furioso I, XXXIII-XXXIV)
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