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un`inchiesta partita con il piede sbagliato
UN’INCHIESTA PARTITA CON IL PIEDE SBAGLIATO Di questo primo duplice delitto viene sospettato il marito di Barbara Locci, Stefano Mele. E’ un ex pastore sardo, semianalfabeta, che lavora come manovale. I carabinieri lo prelevano dalla sua abitazione alle sei di mattina del 22 agosto: non è a letto malato - come aveva raccontato il figlio - ma vestito e con le mani sporche di grasso. L’uomo viene interrogato tre volte in due giorni: dapprima nega, quindi confessa di essere l'omicida. La sua ricostruzione del delitto è imprecisa e quando i carabinieri gli porgono una pistola, chiedendogli di simulare ciò che aveva fatto la notte precedente, sembra che Mele non sappia nemmeno come si tiene in mano un'arma. L'uomo risulta positivo alla prova del guanto di paraffina, gli stessi autori del test ritengono però che sia poco attendibile. Anche a causa delle testimonianze del figlio, che in un primo momento l'aveva invece scagionato dicendo che era «a letto ammalato», Stefano Mele viene condannato per il duplice omicidio Locci-Lo Bianco, con sentenza passata in giudicato, e rimarrà in carcere fino al 1981. LA BERETTA CALIBRO 22 E’ nel delitto di Lastra a Signa, primo della lunga e tragica serie, che fa la sua apparizione per la prima volta la pistola Beretta calibro 22, modello Long Rifle. Insieme all'arma maledetta compaiono le cartucce: sono proiettili Winchester, serie H, appartenenti a due scatole diverse. Il Mostro di Firenze continuerà ad usare, fino all'ottavo duplice delitto del 1985, la stessa pistola e gli stessi proiettili provenienti dalle stesse due confezioni. L'uxoricida confesso Stefano Mele, condannato per quello che sembra essere un classico omicidio passionale, fornisce due versioni diverse sul destino della Beretta: «L'ho buttata nel torrente», dice una volta. «L'ho riconsegnata a chi me l'ha fornita per uccidere mia moglie e il suo amante Antonio Lo Bianco; l'ho data a Francesco Vinci», dice un'altra volta. Le ricerche dell'arma sono vane. La Beretta è introvabile. Nel corso di un terzo interrogatorio Mele, oltre a Francesco Vinci, coinvolge anche il fratello di quest'ultimo, Salvatore Vinci. Il nome di Salvatore viene fatto in una delle tante e discordanti dichiarazioni anche da Natalino Mele. Il racconto di Stefano Mele e del figlio - come osserveranno gli stessi magistrati che indagheranno sul clan dei sardi - è viziato da inquinamenti di ogni genere, dato che il bambino viene affidato al padre la sera stessa del delitto, e i due possono parlarsi. I sardi Francesco e Salvatore Vinci erano stati, in epoche diverse, entrambi amanti di Barbara Locci. Pur essendo accusati nei primi anni Ottanta dei delitti del Mostro di Firenze, negheranno sempre ogni addebito e ogni coinvolgimento. A scagionarli, prima della sentenza del giudice Mario Rotella, nel dicembre del 1989, ci penserà lo stesso Mostro di Firenze, che colpirà più volte mentre, a turno, gli appartenenti al clan dei sardi sono in carcere. Il clan dei sardi è implicato nei successivi delitti del Mostro? I giudici stabiliranno di no. Ma nel primo omicidio del '68 potrebbero avere avuto un qualche ruolo. Un particolare interessante è costituito infatti dalla provenienza dei fratelli Francesco e Salvatore Vinci: sono originari di Villacidro, in Sardegna. E proprio lì, in quel piccolo paese, anni prima si sono perse le tracce di una Beretta calibro 22 modello Long Rifle, identica a quella che, ha firmato indelebilmente gli omicidi del maniaco, acquistata da un emigrante morto in Olanda negli anni Sessanta senza che la pistola fosse ritrovata. Se è quella la pistola incriminata con cui il Mostro assassinerà le sue sedici vittime, è possibile che gli sia stata data da uno dei Vinci. Forse Francesco Vinci sa chi è il Mostro, lo ha conosciuto, magari è un suo coetaneo. Ma ha una tale paura di lui da coprirlo: i sardi temono la vendetta dell'omicida che sanno essere crudele e determinato ed accettano anche il carcere, accusandosi l'un l'altro piuttosto di fornire qualche elemento su questo individuo. Il Mostro, da parte sua, li ricambia scagionandoli, con l'esecuzione di nuovi omicidi ogni qual volta uno dei sardi finisce in carcere. L’INCHIESTA SBAGLIATA DEL GIUDICE CAPONNETTO L’inchiesta per il delitto del 1968, che si conclude con la condanna del marito di Barbara Locci, reo confesso viene condotta da un giovane sostituto procuratore che diventerà poi famoso per aver creato il pool antimafia di Palermo: Antonino Caponnetto. Un caso definitivamente chiuso, risolto. anni dopo, nel 1982, e solo grazie ad una segnalazione anonima verrà ricollegato alla serie del Mostro di Firenze. Stefano Mele, il marito tradito, ha davvero ucciso Barbara Locci per una questione d'onore? Era davvero presente sulla scena dei delitto? Un forte dubbio sulla veridicità delle sue confessioni (Stefano Mele sarà in seguito dichiarato «oligofrenico») è dato dalla presenza nella vettura del piccolo Natalino. Mele sa che Natalino è con la madre Barbara, li ha visti uscire insieme la sera. Difficile pensare che un padre uccida premeditatamente la madre di suo figlio sotto gli occhi dello stesso figlio, magari correndo il rischio di ferirlo o di essere riconosciuto nell'atto di sparare. Non è forse più logico pensare che l'assassino non sapesse della presenza del bambino coricato sul sedile posteriore? E, dunque, che si tratti di un estraneo, qualcuno che forse conosce i due amanti o comunque li ha già visti appartarsi sia di giorno che di notte nella stradina sterrata? C'è un'altra apparente anomalia nel comportamento di chi ha appena commesso l'omicidio: dopo essersi reso conto della presenza del piccolo Natalino se lo carica sulle spalle, lo tranquillizza, lo «catechizza» su quello che dovrà dire e percorre oltre due chilometri (tempo necessario da un minimo di mezz'ora ad un'ora) di strada impervia, con sassi e buche, nella più completa oscurità. Non compie ciò che sarebbe stato più logico, cioè fare a ritroso e a piedi lo stesso percorso della vettura di Antonio Lo Bianco: appena cento metri, un minuto di tempo, e sarebbe arrivato sulla provinciale per Comeana, di fronte ad un gruppo di case e di ville dove avrebbe potuto lasciare Natalino e quindi fuggire indisturbato. Se il Mostro avesse seguito in macchina le sue vittime l'avrebbe verosimilmente lasciata su questa strada o all'inizio della stradina sterrata. Perché invece si attarda e percorre tutta la stradina nella direzione opposta, e non lascia il piccolo davanti ad una delle case che si trovano lungo quel cammino impervio? GLI ABBAGLI DEI CARABINIERI I carabinieri sosterranno che ha agito così per ritardare il ritrovamento dei cadaveri e dunque l'inizio delle indagini. Avevano visto giusto, ma se non si fossero lasciati attirare dalle prime apparenze e avessero fatto maggiore attenzione alla realtà obiettiva avrebbero capito che entrambe le ipotesi (ritardo e depistaggio) potevano riguardare qualcun altro piuttosto che il povero Stefano Mele. Gli investigatori avrebbero dovuto chiedersi immediatamente in che modo e da dove l'assassino era giunto sul posto, dato che appare evidente anche a loro che un tale omicidio non poteva essere casuale. Si potevano fare solo due ipotesi: la prima che il killer fosse partito anche lui da lontano e avesse seguito per un lungo tratto, almeno dall'uscita del cinema, le due vittime; la seconda doveva prevedere che egli fosse già sul posto o comunque nelle immediate vicinanze, in modo da poter colpire così spietatamente a con tanta determinazione al momento giusto. Le indagini resero subito chiaro che l'omicida non era sopraggiunto con un'automobile ed addirittura si disse anche che lo stesso Stefano Mele e il suo complice si fossero serviti di biciclette, che avrebbero lasciato al cimitero di Castelletti. Ma era evidente che il delitto era stato compiuto da non più di un quarto d'ora, venti minuti dopo l'arrivo dei due amanti sul posto. Avevano assistito all'ultima proiezione e presumibilmente non sono usciti dal cinema prima di mezzanotte, mezzanotte e mezza. Tenendo presente che per andare dal cinema al luogo in cui sono stati trovati occorre almeno un quarto d'ora, il loro arrivo non può essere avvenuto prima di mezz'ora o tre quarti d'ora dopo la mezzanotte. Calcolando poi in circa un'ora il cammino necessario per giungere alla casa colonica dei De Felice, dove Natalino giunge alle 2, non rimane che circa mezz'ora di tempo dal momento dell'arrivo della Giulietta bianca sulla stradina sterrata all'inizio della partenza del bambino. Se poi si valuta in circa un quarto d'ora la fase dei preliminari amorosi che precede il vero e proprio rapporto sessuale, e che proprio un attimo prima di questo rapporto gli amanti sono stati colpiti, non si può che ritenere che Barbara Locci e Antonio Lo Bianco siano stati uccisi tra mezzanotte e tre quarti e l'una di quella tragica notte. Tenendo conto che per giungere a piedi dal cimitero di Castelletti al luogo del delitto occorrono almeno venti minuti, è irrealistico pensare che qualcuno abbia potuto lasciare lì il proprio mezzo di locomozione per poi andare a compiere il delitto. Ugualmente irrealistico è pensare che l'assassino avrebbe potuto lasciare il proprio mezzo di notte in un punto qualunque, scoperto, di una via provinciale stretta e trafficata o che fosse casualmente sul posto a farsi una passeggiata all'una di notte, già armato di pistola, in un luogo non frequentato abitualmente da altre coppiette. Infine è impossibile che l'assassino potesse sapere già in precedenza che la coppia si sarebbe appartata proprio in quel luogo, dato che è stato deciso dai due amanti all'ultimo momento. LA CASA DEL MOSTRO Dunque l'ipotesi più realistica e, quindi, più attendibile è che l'assassino sia giunto sul posto a piedi partendo da un luogo molto vicino solo dopo aver visto sopraggiungere la Giulietta di Lo Bianco. Si può inoltre ritenere che l'omicida vivesse nei paraggi, perché ha avuto l'occasione di prepararsi all'ultimo momento per compiere un delitto così efferato portandosi dietro almeno la pistola, le cartucce e una torcia elettrica. Se ha visto la coppia giungere con l'auto, si può perciò ipotizzare che nel 1968 il futuro maniaco abitasse nei paraggi, magari proprio in una delle case che si trovano nei pressi della provinciale per Comeana e quindi vicinissimo alla stradina sterrata dove ha colpito per la prima volta con la Beretta calibro 22. Così si spiegherebbe perché ha preferito allontanare Natalino Mele portandolo sulla soglia di una casa colonica ad oltre due chilometri di distanza, nella direzione opposta. Per spostare così l'attenzione degli investigatori da un'altra parte rispetto a quella da dove lui era venuto e dove molto probabilmente abitava. Infatti, una volta accettata l'ipotesi che colloca l'abitazione dell'assassino nelle vicinanze del luogo dell'omicidio, tutti i comportamenti successivi - che prima apparivano anomali - diventano facilmente interpretabili e comprensibili sul piano logico e pratico. Potrebbe così essere spiegato anche il particolare della freccia destra lasciata accesa, l'unica immagine della scena del delitto che il bambino ricorda nitidamente. Potrebbe essere stata lasciata così da Antonio Lo Bianco. Ma è più verosimile che l'abbia accesa lo stesso assassino e che il gesto sia stato fatto di proposito: se il Mostro abita nella direzione opposta a quella in cui ha portato il bambino sotto shock, ed è arrivato sul posto a piedi, dovrà necessariamente ritornare sui suoi passi per rientrare a casa. La freccia accesa e visibile ad una certa distanza lo assicura del fatto che il delitto non è stato ancora scoperto e può accertarsi, grazie alla sua luce, se ci siano o meno delle persone attorno all'auto. In conclusione, quindi, si comprende bene, seguendo questa interpretazione, come e perché l'assassino abbia compiuto quelle azioni così apparentemente anomale e prive di ogni funzionalità se si inquadrano nella teoria che i carabinieri sposano appena il giorno dopo, quando prendono per buona la confessione prima, e successivamente le accuse che Stefano Mele rivolge quasi ad ogni componente della sua famiglia. E’ probabile che gli investigatori abbiano sottovalutato l'importanza della patologia mentale di cui Mele era portatore. E che al tempo stesso si siano lasciati suggestionare da una confessione che appariva congrua con un delitto passionale e d'onore, che affondava le sue radici in un ambiente sordido, incolto e per di più composto da persone provenienti da una diversa regione. I RACCONTI DI NATALINO Appare, quindi, evidente e forse scusabile l'errore di non battere altre piste alternative, magari rivolte verso opposte e più delicate direzioni. La spiegazione del delitto è apparsa sufficiente a molti giudici che hanno ritenuto colpevole Stefano Me- le anche se l'impianto accusatorio faceva acqua da tutte le parti, come poi è stato ampiamente dimostrato sia nella sentenza del giudice Rotella, sia nella sentenza dei processi di primo e secondo grado contro Pietro Pacciani. Un'altra trappola in cui sono caduti i carabinieri appare oggi il fatto di aver dato importanza non solo ai racconti di Stefano Mele, ma anche a quelli del piccolo Natalino, considerato testimone oculare del delitto e fino ad ora ritenuto l'unica persona che ha stabilito un contatto personale con il Mostro. E’ invece molto più probabile che il bambino non abbia ricordi coscienti su quanto è avvenuto quella sera e che non abbia potuto assistere o conoscere granché, né dell'omicidio e né della persona che poi lo ha aiutato a raggiungere la casa dei De Felice. C'è da rammaricarsi che mai nessun investigatore abbia tentato di sottoporre ad ipnosi il giovane che si è dichiarato più volte disponibile. Tuttavia è giusto cercare di capire che cosa possa essere successo quella sera. L’assassino probabilmente ha scoperto la presenza di Natalino un attimo prima di sparare i primi colpi o subito dopo la conclusione della sparatoria: il bambino dormiva, gli spari in rapida successione non possono non averlo svegliato, né è possibile che lui si sia reso conto di ciò che stava succedendo in quell'attimo. Ancora in stato di shock è stato portato fuori dalla macchina e probabilmente rassicurato con frasi di circostanza e con un'autoqualificazione di «zio» da parte del Mostro, che ha poi compiuto rapidamente gli atti di rovistare tra gli oggetti e soprattutto nella borsetta della donna, forse ha sistemato i cadaveri sugli schienali dei rispettivi sedili, ha acceso il quadro lasciando innestata la freccia destra e poi si è caricato Natalino in braccio avviandosi lungo la stradina sterrata. Se questo è plausibile, allora si capisce come Natalino in realtà non possa avere ricordi strutturati di quanto è successo sia perché non era cosciente quando è avvenuto il delitto, sia perché è stato «catechizzato» dal Mostro che gli ha spiegato per filo e per segno sia cosa era avvenuto sia che cosa doveva dire. I suoi ricordi infatti riguardano solo la consapevolezza della mamma che non gli risponde più, la luce della macchina che si spegne e si accende e la presenza rassicurante di uno «zio» a lui poco noto. Che tuttavia lo tranquillizza dicendogli: «La mamma e lo zio sono morti, non per colpa mia» e gli spiega che lui avrebbe dovuto chiedere aiuto a dei signori e che non poteva essere riaccompagnato subito a casa perché il babbo era a letto ammalato. Sempre oggi, con la coscienza dei poi, possiamo dire che forse in quella occasione, come poi anche nelle successive, il Mostro agisse sotto un particolare camuffamento che gli dava la certezza di non essere riconosciuto dal bambino che lo aveva visto poco e male e certamente pochissimo in volto. Fonte: Francesco Bruno e Andrea Tornielli – Analisi di un mostro – Arbor, 1996