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art. 2752, comma 1
dottrina LA VERIFICA DEI SINGOLI CREDITI TRIBUTARI SOMMARIO: 1. IL PRIVILEGIO AFFERENTE LE IMPOSTE DIRETTE (ART. 2752, COMMA 1, C.C.) – 2. IL PRIVILEGIO AFFERENTE I CREDITI IRPEF, IRPEG, ILOR, LIMITATAMENTE ALL’IMPOSTA SUI REDDITI IMMOBILIARI DI NATURA FONDIARIA NON DETERMINABILI CATASTALMENTE; 2.1 Il privilegio afferente i crediti per le imposte sul reddito IRPEF, IRPEG e ILOR – 3. IL PRIVILEGIO DI CUI AL SECONDO COMMA DELL’ART. 2752 c.c.; 3.1 Il privilegio dei tributi locali (art. 2752, comma 4, c.c.); 3.2 Se il privilegio ex art. 2752, comma 4, c.c., afferisca anche ai tributi regionali; 4. IL CREDITO RELATIVO ALLA TASSA PER LO SMALTIMENTO DEI RIFIUTI SOLIDI URBANI (TARSU) – 5. IL CREDITO PER ICI – 6. IL PRIVILEGIO DI CUI AL COMMA 3 DELL’ART. 2752 C.C. – 7. GLI ACCESSORI DEL CREDITO TRIBUTARIO; 7.1 Le sanzioni; 7.2 Gli interessi; 7.3 Gli interessi di mora – 8. I COMPENSI E LE SPESE DEL CONCESSIONARIO DELLA RISCOSSIONE – 9. I CREDITI DELLO STATO NEI CONFRONTI DEL DATORE DI LAVORO PER OMESSO VERSAMENTO DELLE RITENUTE D’ACCONTO – 10. IL PRIVILEGIO IN TEMA DI CREDITO DI RIVALSA IVA; 10.1 Il privilegio in tema di credito di rivalsa IVA dei professionisti. 1. IL PRIVILEGIO AFFERENTE LE IMPOSTE DIRETTE (ART. 2752, COMMA 1, C.C.) Il comma 1 dell’art. 2752 c.c., nella formulazione previgente l’entrata in vigore del D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, recitava come segue: «hanno privilegio generale sui mobili del debitore i crediti dello Stato per l’imposta sul reddito delle persone fisiche, sul reddito delle persone giuridiche e per l’imposta locale sui redditi, limitatamente all’imposta o alla quota di imposta non imputabile ai redditi immobiliari e a quelli di natura fondiaria non determinabili catastalmente, iscritti nei ruoli principali, suppletivi, speciali e straordinari posti in riscossione nell’anno in cui si procede alla esecuzione e nell’anno precedente». Vigente tale formulazione dell’art. 2752 c.c., la dottrina (1) riteneva che due fossero le condizioni poste per il riconoscimento del privilegio: che il credito d’imposta risultasse iscritto in ruoli posti in riscossione nell’anno in cui si procede alla esecuzione e nel ruolo dell’anno precedente, e che il privilegio non superasse un certo numero di annualità di imposta, condizione necessitata dalla circostanza che in taluni tipi di ruolo possono essere iscritte molteplici annualità di imposta. Tali condizioni dovevano sussistere congiuntamente affinché potesse riconoscersi il diritto in questione; ognuna di esse, separatamente considerata, era infatti condizione necessaria ma non sufficiente per il riconoscimento del privilegio. A seguito dell’emanazione del D.Lgs. n. 46/1999, l’art. 2752, comma 1, c.c., è stato modificato come segue: «hanno privilegio generale sui mobili del debitore i crediti dello Stato per l’imposta sul reddito delle persone fisiche, per l’imposta sul reddito delle persone giuridiche e per l’imposta locale sui redditi, diversi da quelli indicati nel comma 1 dell’art. 2771, iscritti nei ruoli resi esecutivi nell’anno in cui il concessionario del sevizio di riscossione procede o interviene nell’esecuzione e nell’anno precedente». Mentre, quindi, nel precedente sistema di cui all’art. 2752 c.c. non vi era univocità di vedute sul momento di “messa in riscossione dei ruoli”, poiché una parte della dottrina riteneva che tale momento dovesse coincidere (1) Cfr. per tutti QUATRARO-D’AMORA, Il curatore fallimentare, Milano, 1999, 2861 ss. con la data di dichiarazione del fallimento, e, come sopra illustrato, la tesi maggioritaria riteneva che il momento di messa in riscossione del ruolo fosse coincidente con il momento in cui il concessionario della riscossione intervenisse nella procedura fallimentare. Il legislatore, quindi, ha portato chiarezza nella interpretazione della temporalità privilegiata espressa dalla norma in esame, attribuendo il privilegio generale ai crediti dello Stato, in relazione al momento in cui il concessionario della riscossione procede o interviene nell’esecuzione. Al fine poi di evitare un cumulo di annualità d’imposta privilegiate tale da pregiudicare, pur nel rispetto dell’interesse pubblico, la par condicio creditorum (in pratica la possibilità di soddisfacimento degli altri creditori), il legislatore ha limitato il periodo di esercizio del privilegio ai due anni precedenti, due anni che devono essere intesi – secondo l’orientamento maggioritario e consolidato della dottrina e della giurisprudenza –, per ogni imposta, come l’ammontare di imposta che viene iscritta a ruolo nell’anno in cui il concessionario procede o interviene nell’esecuzione e nell’anno precedente. L’anno di intervento deve quindi essere riferito non alla data della sentenza dichiarativa di fallimento, ma alla data della domanda di insinuazione al passivo. La locuzione “nell’anno” deve inoltre essere intesa, secondo l’opinione prevalente in dottrina, come riferita all’arco temporale compreso nei dodici mesi successivi al momento in cui è stata attribuita l’esecutività del ruolo. Nell’ipotesi di una procedura concorsuale il momento di intervento del concessionario della riscossione non può che coincidere con la data di deposito della domanda per l’insinuazione del credito al passivo fallimentare. Si ricordi inoltre che il D.Lgs. n. 46/1999 non ha solo modificato il disposto dell’art. 2752 c.c., ma ha anche modificato quello dell’art. 2771 c.c., il quale statuisce ora che «il privilegio previsto al comma 1 è limitato alle imposte iscritte nei ruoli resi esecutivi nell’anno in cui il concessionario del servizio di riscossione procede o interviene nell’esecuzione e nell’anno precedente», e quindi non utilizza più la precedente e nota espressione di «ruoli (…) posti in riscossione nell’anno in cui si procede all’esecuzione e nell’anno precedente». Il fatto che la nuova formulazione del comma 1 Boll. Trib. 17 • 2010 1271 dottrina dell’art. 27652 c.c. faccia riferimento non alla data di dichiarazione del fallimento, ma alla data in cui il concessionario della riscossione procede o interviene nell’esecuzione, non deve far ritenere che si venga a creare una ragione di privilegio differente per i crediti tributari rispetto agli altri crediti concorsuali, dovendo negarsi che un credito d’imposta il cui presupposto sia posteriore alla dichiarazione di fallimento venga considerato come credito d’imposta concorsuale. Il senso dell’art. 2752, comma 1, c.c., non è quello dell’attribuzione, con riferimento alla data dell’insinuazione, di un privilegio, che la legge per disposizione generale riconosce in virtù della causa del credito (e cioè dei motivi economici, sociali o etici che il legislatore riconosce come causa giustificante della particolare tutela adottata e che, nei crediti d’imposta, inerisce alla natura stessa delle relative situazioni soggettive attive), ma di individuare i limiti temporali del privilegio che connota comunque il credito fin dal suo sorgere. In definitiva, i crediti d’imposta previsti dall’art. 2752 c.c., nascono già privilegiati e, in virtù della disciplina limitativa del comma 1 dell’art. 2752 c.c., l’esattore può perdere il privilegio se non provvede all’insinuazione nel fallimento entro due anni dall’emissione dei ruoli (2). 2. IL PRIVILEGIO AFFERENTE I CREDITI IRPEF, IRPEG, ILOR, LIMITATAMENTE ALL’IMPOSTA SUI REDDITI IMMOBILIARI DI NATURA FONDIARIA NON DETERMINABILI CATASTALMENTE L’art. 2771 c.c., nel testo modificato dall’art. 34 del D.Lgs. n. 46/1999, entrato in vigore il 1° luglio 1999, dispone: «I crediti dello Stato per l’imposta sul reddito delle persone fisiche, per l’imposta sul reddito delle persone giuridiche e per l’imposta locale sui redditi, limitatamente all’imposta o alla quota proporzionale di imposta imputabile ai redditi immobiliari, compresi quelli di natura fondiaria non determinabili catastalmente, sono privilegiati sopra gli immobili tutti del contribuente situati nel territorio del comune in cui il tributo si riscuote e sopra i frutti, i fitti e le pigioni degli stessi immobili, senza pregiudizio dei mezzi speciali di esecuzione autorizzati dalla legge. Il privilegio previsto nel primo comma è limitato alle imposte iscritte nei ruoli resi esecutivi nell’anno in cui il concessionario del servizio di riscossione procede o interviene all’esecuzione e nell’anno precedente. Qualora l’accertamento del reddito iscritto a ruolo sia stato determinato sinteticamente ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, la ripartizione proporzionale dell’imposta, prevista dal primo comma, viene effettuata sulla base dei redditi iscritti o iscrivibili ai fini dell’imposta locale sui redditi». Il privilegio in esame riguarda i crediti dello Stato per IRPEF, IRPEG e ILOR, limitatamente all’imposta o alla quota di imposta imputabile ai redditi immobiliari. L’oggetto del privilegio è costituito dai beni immobili dei contribuenti situati nel territorio del Comune in cui il tributo si riscuote; inoltre il privilegio in esame si esercita anche sopra i frutti, i fitti e le pigioni degli stessi immobili. Tuttavia, qualora il privilegio si eserciti separatamente sopra i frutti, i fitti e le pigioni degli immobili, l’art. 2778, n. 2, c.c., considera detto privilegio come mobiliare. (2) Si veda in questo senso, anche se in riferimento alla previgente formulazione della norma, Cass., sez. I, 27 settembre 1996, n. 8524, in Fall., 1997, 510. 1272 Boll. Trib. 17 • 2010 2.1 Il privilegio afferente i crediti per le imposte sul reddito IRPEF, IRPEG e ILOR In tema poi di privilegio sopra determinati mobili, l’art. 2759 c.c. stabilisce che: «I crediti dello Stato per l’imposta sul reddito delle persone fisiche, sul reddito le persone giuridiche e per l’imposta locale sui redditi, dovuta per i due anni anteriori a quello in cui si procede, hanno privilegio, limitatamente all’imposta o alla quota d’imposta imputabile al reddito d’impresa, sopra i mobili che servono all’esercizio di imprese commerciali e sopra le merci che si trovano nel locale adibito all’esercizio stesso o nell’abitazione dell’imprenditore. Il privilegio si applica sui beni indicati nel comma precedente ancorché appartenenti a persona diversa dall’imprenditore, salvo che si tratti di beni rubati o smarriti, di merci affidate all’imprenditore per la lavorazione o di merci non ancora nazionalizzate munite di regolare bolletta doganale. Qualora l’accertamento del reddito iscritto a ruolo sia stato determinato sinteticamente ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, la ripartizione proporzionale dell’imposta prevista dal primo comma, viene effettuata sulla base dei redditi iscritti o iscrivibili ai fini dell’imposta locale sui redditi». Il privilegio in esame riguarda solo i crediti dello Stato per IRPEF, IRPEG e ILOR dovuta per i due anni anteriori a quello in cui si procede, limitatamente all’imposta o alla quota d’imposta imputabile al reddito d’impresa. Si tenga presente che il termine di due anni si riferisce alla produzione del reddito e non all’iscrizione nei ruoli. In base all’ultimo comma dell’art. 2759 c.c. e al comma 5 dell’art. 56 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, se l’accertamento del reddito iscritto a ruolo è stato determinato sinteticamente ai fini IRPEF, la ripartizione proporzionale dell’imposta, prevista nel primo comma dell’art. 2759 c.c., è effettuata sulla base dei redditi iscritti o iscrivibili ai fini dell’ILOR, atteso che il maggior reddito determinato sinteticamente è considerato reddito di capitale e quindi soggetto a tale ultimo tributo. Per quanto riguarda i beni oggetto di privilegio, la norma in esame si riferisce a beni mobili che servono all’esercizio dell’impresa commerciale (cioè ai beni strumentali), ovunque essi si trovino, ed alle merci che si trovano nel locale adibito all’esercizio della stessa o nell’abitazione dell’imprenditore. Si ritiene che anche i beni immateriali ed i crediti vantati dal contribuente nei confronti dei terzi in relazione all’attività da lui esercitata costituiscono oggetto del privilegio. 3. IL PRIVILEGIO DI CUI AL SECONDO COMMA DELL’ART. 2752 c.c. Il D.Lgs. n. 46/1999 ha anche abrogato il comma 2 dell’art. 2752 c.c., il quale, in precedenza, stabiliva che: «se si tratta di ruoli suppletivi, e si procede per imposte relative a periodi d’imposta anteriori agli ultimi due, il privilegio non può esercitarsi per un importo superiore a quello degli ultimi due anni, qualunque sia il periodo cui le imposte si riferiscono». L’eliminazione del secondo comma dell’art. 2752 c.c. deriva, in primo luogo, dalla intervenuta abrogazione dell’iscrizione nei ruoli suppletivi, che sono stati sostituiti dai ruoli ordinari e straordinari, e, in secondo luogo, dall’aver introdotto chiaramente, nel comma 1 della medesima norma, la limitazione del privilegio, dottrina per il concessionario della riscossione che procede o interviene nell’esecuzione, solo per le imposte iscritte nei ruoli resi esecutivi nell’anno in cui si interviene e nell’anno precedente. Di conseguenza si deve ritenere implicito, nell’art. 2752, comma 1, sia il vincolo dell’intervento del concessionario, sia il limite dei due periodi d’imposta che possono ottenere il privilegio di cui all’art. 2752 c.c. 3.1 Il privilegio dei tributi locali (art. 2752, comma 4, c.c.) Ciò premesso, il quarto comma 4 dell’art. 2752 c.c., come sostituito dall’art. 33 del D.Lgs. n. 46/1999, entrato in vigore il 1° luglio 1999, stabilisce che «hanno lo stesso privilegio, subordinatamente a quello dello Stato, i crediti per le imposte, tasse e tributi dei comuni e delle province previsti dalla legge per la finanza locale e dalle norme relative all’imposta comunale sulla pubblicità e ai diritti sulle pubbliche affissioni». In base a tale disposizione, il privilegio che assiste i tributi locali è identico, quindi, a quello che assiste i tributi statali diretti, ed è pertanto soggetto al limite biennale sancito dall’art. 2752. Tuttavia, dal momento che molti tributi locali non vengono riscossi a mezzo ruolo, appare in questi casi dubbio il rispetto del termine del biennio. Si segnala in proposito che, a seguito dell’approvazione del D.Lgs. n. 46/1999, l’art. 17 del medesimo decreto ha esteso la riscossione mediante ruolo a tutte le entrate coattive dello Stato anche diverse dalle imposte sui redditi e a quelle degli enti pubblici previdenziali esclusi quelli economici. Come già esplicitato, tale sistema della riscossione tramite ruolo diviene il sistema prioritario di riscossione delle entrate dello Stato. Ma come si è visto, il sistema di riscossione a mezzo ruolo non è obbligatorio, ma solo facoltativo per gli enti locali: se esso viene utilizzato, allora opera sicuramente il limite biennale di cui all’art. 2752 c.c. In questo senso si è espresso il Tribunale di Milano (3), che così ha argomentato: «il comma 3 dell’art. 2752 c.c., che nel testo originario (…) era collocato immediatamente di seguito alle disposizioni che fissavano l’estensione temporale del privilegio, dispone che: “hanno lo stesso privilegio”, subordinatamente a quello dello Stato, i crediti per le imposte, tasse e tributi dei comuni e delle province, previsti dalla legge sulla finanza locale, e dalle norme relative all’imposta comunale sulla pubblicità e ai diritti sulle pubbliche affissioni. Nessun dubbio poteva sussistere prima della novella del 1975 sul fatto che l’espressione “hanno lo stesso privilegio” richiamasse non solo il tipo di privilegio, ma anche l’arco temporale di applicabilità del beneficio. La disposizione di cui al comma 2 della norma ora citata – introdotta con l. n. 426 del 1976 – disciplina il privilegio generale sui mobili per imposte, pene pecuniarie e soprattasse dovute secondo le norme relative all’imposta sul valore aggiunto. Per tali crediti privilegiati non vale, secondo l’interpretazione largamente prevalente, il limite temporale prescritto per il privilegio applicato ad Irpef, Irpeg ed Ilor. Considerato che la disposizione in tema di IVA esordisce con l’espressione “hanno altresì privilegio generale sui mobili …” è fondato credere che essa si ponga come un’eccezione al principio generale, che limita ad un ristretto periodo l’applicabilità del privilegio. Non si dimentichi che – almeno riguardo alla tassa di smaltimento dei rifiuti – l’art. 72, comma 6, d.lgs. n. (3) Cfr. Trib. Milano 11 febbraio 2002, in Fall., 2002, 787 ss. 507 del 1993 richiama l’art. 298 t.u. finanza locale, che applica – ai crediti in commento – il privilegio prescritto dagli artt. 1957 e 1962 del c.c. allora vigente (1865). Va notato che anche queste ultime disposizioni fissavano il limite biennale del privilegio in parola. Tenuto dunque conto del richiamo testuale ora indicato, della collocazione originaria del comma 3 nel contesto dell’art. 2752 c.c., nonché del carattere eccezionale che riveste l’assenza di limitazioni temporali al beneficio per crediti Iva, ritiene il Tribunale che anche i crediti tributari di comuni e province abbiano il privilegio solo relativamente ai ruoli dell’anno in corso, e di quello antecedente. In tal senso depone un’altra considerazione, che attiene a fondamento razionale della disposizione in questione. Si osservi, infatti, che il privilegio di cui al comma 3 dell’art. 2752 c.c. è espressamente collocato in grado subordinato rispetto a quello per i crediti dello Stato. Riesce pertanto difficile credere – ad avviso del collegio – che il privilegio che assiste crediti di enti locali, pur collocato in grado posteriore rispetto a quello dei crediti e per tributi statali diretti, possa essere dotato di estensione temporale illimitata». Alla medesima conclusione è pervenuto ancora il Tribunale di Milano, in un’altra sentenza (4), che però ha fatto decorrere il biennio dalla data di dichiarazione del fallimento. A prescindere da quanto sopra, l’interpretazione della norma in esame è comunque oggetto di interpretazioni contrastanti. Secondo una prima corrente di pensiero, l’art. 2759, comma 4, c.c., deve infatti essere interpretato in senso restrittivo, nel senso che l’espressione “legge per la finanza locale”, ivi contenuta, debba intendersi riferita alle sole imposte contemplate nel Testo Unico per la finanza locale emanato con R.D. 14 settembre 1931, n. 1175, e quindi, oltre all’imposta comunale sulla pubblicità ed ai diritti sulle pubbliche affissioni (espressamente considerate dall’art. 2752, comma 4, c.c.), alla tassa per lo smaltimento dei rifiuti ed alla tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche (entrambe richiamate nel T.U. per la finanza locale). A fondamento di tale impostazione sono state fornite le seguenti argomentazioni: – se il legislatore, che è intervenuto in più di un’occasione sul testo dell’art. 2752 c.c., prima nel 1975 e poi nel 1999, avesse inteso veramente accordare il privilegio a tutti i crediti per i tributi locali, non avrebbe avuto senso l’ulteriore aggiunta dell’espressione “previsti dalla legge per la finanza locale”; – quando il legislatore ha inteso attribuire il privilegio a tributi non compresi nel Testo Unico del 1931, lo ha fatto in modo espresso, come avvenuto per l’imposta comunale sulla pubblicità e per i diritti di pubblica affissione. In questa direzione si è posta, di recente, la Suprema Corte (5), la quale ha osservato che l’ultimo comma dell’art. 2759 c.c. «ha inteso riferirsi ai crediti previsti dalla legge per la finanza locale di cui al provvedimento legislativo n. 1175 del 1931 e successive modifiche, altrimenti sarebbe inutiliter data l’ulteriore precisazione della previsione del privilegio in parola anche per l’imposta comunale sulla pubblicità e per i diritti sulle pubbliche affissioni, specificazione questa non necessaria ove il ri(4) Cfr. Trib. Milano 1° aprile 2004, in Dir. fall., 2005, II, 567. (5) Cfr. Cass., sez. trib., 29 marzo 2006, n. 7309, in Boll. Trib. On-line. Boll. Trib. 17 • 2010 1273 dottrina ferimento alla legge per la finanza locale avesse dovuto intendersi relativo a qualsiasi legge istitutiva d’imposta, tassa e tributo dei comuni e delle province. In altri termini, la circostanza che il legislatore, nella norma in esame del codice civile, abbia ben precisato l’estensione della prelazione ad una specifica imposta comunale esclude che il precedente richiamo alla legge per la finanza locale possa di per sé valere ad estendere il privilegio in parola ad imposte, tasse o tributi dei comuni e delle province diverse da quelle ipotizzate (…). Del resto, secondo giurisprudenza consolidata di questa Suprema Corte (cfr. per tutte Cass. S.U. 5246/93) il regime dei privilegi, per il contenuto limitativo che esso presenta nei confronti del debitore (e in particolare, di quello d’imposta), non può essere interpretato in caso di mancata previsione espressa in via analogica. Le norme che prevedono i privilegi sono cioè di stretta interpretazione e non consentono l’estensione del privilegio alle imposte se non nelle ipotesi espressamente previste». Una diversa corrente di pensiero applica invece estensivamente la disposizione surriportata, e ritiene che alla locuzione normativa “legge per la finanza locale” vada attribuito significato di genere e non di specie: il Testo Unico per la finanza locale – si ragiona – comprende infatti diverse leggi specifiche istitutive delle singole imposte richiamate dall’art. 2752, ultimo comma, c.c., in via riassuntiva con il sostantivo reso al singolare. A detto richiamo deve attribuirsi effetto di rinvio all’atto astrattamente generatore dell’imposizione, non ad una legge specifica istitutiva della singola imposta. A riprova della correttezza di detta impostazione si aggiunge poi che se il legislatore avesse voluto operare un riferimento esplicito solo ai tributi inseriti nel corpo del Testo Unico, allora avrebbe usato un richiamo tecnicamente più preciso, riportando gli estremi di identificazione del testo legislativo, e si sottolinea anche un dato di carattere storico, costituito dal contenuto della Relazione del Guardasigilli al Re che ha accompagnato la promulgazione del codice civile del 1942: in tale relazione si legge infatti che il privilegio generale dei tributi sia esteso (art. 2752, ultimo comma, c.c.), subordinatamente a quello dello Stato, ai tributi degli enti locali, “per porre in armonia il sistema del codice con la legge sulla finanza locale”. In altri termini, secondo tale impostazione, tutti i tributi locali devono avere collocazione privilegiata ai sensi del quarto comma dell’art. 2752 c.c. Va poi opportunamente rimarcato che il privilegio per i tributi locali spetta a condizione che i ruoli siano stati resi esecutivi nell’anno in cui il concessionario della riscossione si insinua al passivo fallimentare e nell’anno precedente. In tale senso depone il tenore della legge che, nell’affermare che “hanno lo stesso privilegio”, fa chiaramente riferimento al privilegio previsto per le imposte di cui al primo comma. La formulazione originaria della norma – prima delle modifiche apportate nel 1975 – non prevedeva infatti la disciplina del privilegio IVA, e pertanto lo “stesso privilegio” era, ed è, chiaramente riconducibile a quello previsto per le imposte sui redditi (6). 3.2 Se il privilegio ex art. 2752, comma 4, c.c., afferisca anche ai tributi regionali Sul problema dell’applicabilità anche ai tributi regionali del privilegio previsto dall’art. 2752, comma 4, c.c., (6) Cfr. Trib. Milano 11 febbraio 2002, cit. 1274 Boll. Trib. 17 • 2010 la dottrina (7) si è espressa nei seguenti termini: «Si discute se il privilegio generale possa esser riferito anche ai tributi regionali. La questione è certamente delicata, se si pensa che le norme sui privilegi non sono suscettibili di integrazione analogica e se si tiene conto, d’altra parte, che la legge finanziaria regionale (l. 16 maggio 1970, n. 281) è stata emanata vari anni prima della modifica apportata all’art. 2752, c.c. nel quale non si fa parola dei crediti tributari della Regione. Mi sembra, tuttavia, che si debba operare una distinzione: rispetto alle tasse sulle concessioni regionali, alla tassa di circolazione (ora sul possesso) di veicoli e alla tassa per l’occupazione di spazi e aree pubbliche, gli artt. 3, 4 e 5 della L. n. 281 del 1970 rinviano, per quanto non espressamente disposto, alle norme statali che disciplinano gli stessi tributi. Ritengo perciò che i corrispondenti privilegi statali e provinciali possano trovare applicazione ai relativi crediti della Regione, mentre non mi par configurabile un privilegio riferibile alle somme dovute per imposta sulle concessioni statali del demanio e del patrimonio indisponibile. Neppure mi pare possibile riferire il privilegio all’imposta regionale sulle attività produttive. Vero è che l’art. 25 d.lgs. 15 dicembre 1977, n. 446 prevede che, fino a che le Regioni non abbiano disciplinato le procedure applicative del tributo, si applichino, per l’accertamento e la riscossione, le disposizioni proprie delle imposte erariali sui redditi e che, per gli artt. 26 e 27, parte del gettito viene attribuito allo Stato ed è prevista la compartecipazione delle province e dei comuni al gettito medesimo, ma è problematico ricondurre le norme sui privilegi alla nozione di disposizioni per l’accertamento e la riscossione mentre la parziale attribuzione del gettito allo Stato e agli altri enti territoriali non trasforma il tributo regionale in un tributo erariale, comunale o provinciale». In relazione all’IRAP diversa è l’opinione dell’Amministrazione finanziaria, che, interpretando estensivamente (e non analogicamente) il primo comma dell’art. 2752 c.c., ha ritenuto che il credito per IRAP gode del privilegio previsto da questa norma, trattandosi di tributo reale erariale. Le argomentazioni fatte proprie dall’Agenzia delle entrate hanno tuttavia formato oggetto di penetranti critiche da parte della giurisprudenza di merito, la quale ha ritenuto che i privilegi ex artt. 2752, comma 1, 2759, comma 1, e 2771, comma 1, trovano la loro giustificazione nel rapporto di strumentalità esistente tra i beni costituenti l’oggetto del privilegio e la produzione del reddito gravato dall’imposta costituente l’oggetto dei crediti previsti dalle norme suindicate, ed ha concluso quindi che, non essendo l’IRAP un’imposta sul reddito, al relativo credito non può riconoscersi il privilegio generale sui mobili previsto dall’art. 2752, comma 1, c.c., neppure alla stregua di una sua interpretazione estensiva. In senso opposto si è recentemente espressa, invece, in numerose decisioni, la giurisprudenza del Tribunale di Milano, che ha aderito alla tesi favorevole alla collocazione privilegiata del credito IRAP ai sensi dell’art. 2752, comma 4, c.c. Il percorso della motivazione, riproposto senza variazioni sostanziali nelle varie composizioni dei colleghi chiamati a decidere la questione, si trova da ultimo (7) Ved. BATISTONI FERRARA, Lezioni di diritto tributario, Torino, 1993; in senso conforme, con specifico riguardo all’IRAP, MANDRIOLI, L’IRAP nel fallimento, in Fall., 1998, 765 ss., e STASI, Profili fiscali, 1998, 353. dottrina così sviluppato in quattro decisioni “gemelle” rese dai giudici milanesi in pari data (8): «l’art. 2752, comma 3, c.c., estende il privilegio generale sui mobili, subordinatamente a quello dello Stato, ai crediti per imposte, tasse e tributi dei comuni e delle province previsti dalla legge sulla finanza locale, nonché dalle norme relative all’imposta comunale sulla pubblicità e ai diritti sulle pubbliche affissioni. Indubbiamente l’uso della predetta espressione “legge per la finanza locale”, in senso storico sottendeva un chiaro richiamo alle disposizioni del Testo Unico per la finanza locale – RD 14 settembre 1931, n. 1175 – che, all’opera, rappresentava il corpus normativo organico della materia; pertanto per le imposte, le tasse, e tributi in esso previsti si intendeva riconosciuto a favore di Comuni e Province, in via generale ed indifferenziata, il privilegio stabilito dall’art. 2752 c.c.: con l’ovvia considerazione che le Regioni all’epoca non erano ancora state istituite, e quindi il legislatore non poteva contemplare un ente territoriale non ancora esistente. Proprio l’originario riferimento ad un testo normativo nell’ambito del quale si esauriva la disciplina del settore della finanza locale, indice il Collegio a ritenere che la locuzione in esame non possa e non debba essere riferita esclusivamente a quel singolo e specifico testo normativo, poiché tale dicitura contiene invece un più ampio e generale richiamo ad una categoria omogenea di norme organicamente afferente alla disciplina del settore della finanza locale. L’intendimento del legislatore è dunque stato proprio quello di introdurre una norma idonea a garantire un raccordo con lo sviluppo dinamico e l’evoluzione della disciplina di settore, attraverso un riferimento a norme successive ed ulteriori, purché ascrivibili al genio di riferimento, in quanto regolanti la finanza locale. È allora fuori di dubbio che la disciplina istitutiva dell’Irap – art. 3, comma 143, legge n. 662/1996 e d.lgs. n. 446/1997 – sia da ricomprendere a pieno titolo nella categoria omogenea di norme richiamate dall’art. 2752 cc con la locazione “legge per la finanza locale”; al riguardo è opportuno evidenziare che l’art. 15, d.lgs. n. 446/1997 prevede che “l’imposta è dovuta alla regione nel cui territorio il valore della produzione netta è realizzato” sicché è fuori di dubbio la ricomprensione delle norme in esame nella categoria indicata; ed è così peraltro spiegato il motivo del mancato espresso riconoscimento di rango privilegiato da parte della legge istitutiva dell’Irap, poiché a tale scopo era ed è già sufficiente ed adeguata la più volte richiamata generale previsione dell’art. 2752 cc. In senso contrario alle considerazioni fin qui svolte, si è osservato che il legislatore allora non avrebbe avuto alcuna necessità di procedere ad un espresso riconoscimento del privilegio in questione con riferimento ad altri e diversi tributi locali, segnatamente comunali, quali la tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche e l’imposta comunale sulla pubblicità e diritto delle pubbliche affissioni, conformemente alle specifiche disposizioni contenute nel d.lgs. n. 507/1993, anch’esse di riordino della finanza territoriale. Tuttavia detti riconoscimenti espliciti non presentano un carattere tassativo, assumendo piuttosto un valore meramente ricognitivo del rango proprio (8) Trib. Milano 28 maggio 2008, in cause Esatri Esazione Tributi s.p.a. c. Fall. Agenzia Masi s.a.s.; Equitalia Esatri s.p.a. c. Fal. Autocarrozzeria Jenner s.a.s.; Equitalia Esatri s.p.a. c. Fall. Auto Linesys s.r.l.; Equitalia Esatri s.p.a. c. Fall. Nuova Edil di Magistrelli s.n.c. dei predetti tributi, al medesimo comunque già attribuito dall’art. 2752 cc, in forza della interpretazione sistematica in precedenza illustrata. Il Tribunale osserva inoltre che l’art. 2752, comma 3, cc. nella parte in cui riconosce lo stesso privilegio, subordinatamente a quello dello Stato, ai crediti degli enti locali, intende richiamare lo stesso privilegio previsto dal comma 1 non solo con riferimento all’oggetto, ma anche con riferimento alla sua estensione temporale; sarebbe infatti palesemente illogica una collocazione subordinata del privilegio dei crediti tributari locali ai crediti tributari dello Stato, come previsti dal comma 1, con riferimento, rispettivamente, ad un intervallo temporale potenzialmente illimitato, per la finanza locale, e per conto tassativamente circoscritto ai ruoli resi esecutivi nei due anni considerato al comma 1, per i crediti fiscali dello Stato. Peraltro questa interpretazione appare la più corretta anche alla luce della stratificazione temporale delle norme, dato che nel testo originario il comma 3 era collocato immediatamente dopo la disposizione che stabiliva anche la predetta estensione temporale del privilegio». L’orientamento che assegna al credito IRAP il privilegio di cui all’art. 2752 c.c. è stato fatto proprio anche dal Tribunale di Como (9), il quale ha enunciato che «il riconoscimento della natura erariale dell’imposta IRAP comporta l’attribuzione al relativo credito del privilegio ex art. 2752, primo comma e 2759 c.c. in quanto l’art. 2752, primo comma c.c., pur facendo espresso riferimento all’Irpef, all’Irpeg (ora Ires) e all’Ilor non contiene, al contrario di quanto previsto dall’ultimo comma per le imposte locali, alcuna espressa limitazione (crediti per le imposte, tasse e tributi dei comuni e delle province previsti dalla legge per la finanza locale), ostativa ad una interpretazione estensiva della norma». La questione in esame ha peraltro trovato, da ultimo, espressa soluzione normativa: l’art. 39, comma 2, del D.L. 1° ottobre 2007, n. 159 [convertito, con modificazioni, dalla legge 29 novembre 2007, n. 222 (“Interventi urgenti in materia economico-finanziaria, per lo sviluppo e l’equità sociale”)], ha infatti modificato la formulazione dell’art. 2752, comma 1, c.c., inserendovi, dopo le parole “per l’imposta sul reddito delle persone giuridiche”, anche l’IRAP, il cui credito risulta quindi assistito dal privilegio generale sui mobili del debitore al pari dei crediti dello Stato per IRPEF, IRPEG e ILOR. La giurisprudenza di merito ha peraltro precisato che, in virtù di quanto previsto dall’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale, la novella ha effetto solo per l’avvenire, e quindi solo per i crediti sorti successivamente alla sua entrata in vigore (10). 4. IL CREDITO RELATIVO ALLA TASSA PER LO SMALTIMENTO DEI RIFIUTI SOLIDI URBANI (TARSU) La questione della riconoscibilità o meno della natura privilegiata al credito relativo alla tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (c.d. TARSU) è stata affrontata e risolta negativamente dal Tribunale di Monza (11), che in questi termini ha motivato: «non vi è motivo di dubitare, in effetti, che i canoni in questione, come entità corrispettive delle prestazioni di sevizi che l’ente pubblico territoriale deve effettuare in (9) Cfr. Trib. Como 2 maggio 2007, in Fall., 2008, 710. (10) Ved. le citate Trib. Milano 28 dicembre 2007; Trib. Milano 23 maggio 2008; e Trib. Milano 28 maggio 2008. (11) Cfr. Trib. Monza 3 dicembre 1990, in Fall., 1991, 632 ss. Boll. Trib. 17 • 2010 1275 dottrina ragione dei suoi compiti istituzionali, e che esso stesso determina e quantifica autoritativamente, abbiano la dedotta natura tributaria. A questa stregua non può che condividersi quanto affermato dal Consiglio di Stato con il parere espresso dalla III Sezione in data 12 giugno 1979, su richiesta del Ministero delle Finanze, nonché quanto argomentato dallo stesso Ministero con la circolare 10 dicembre 1981 n. 8, entrambi favorevoli all’assimilazione dei canoni di cui alla legge “Merli” alle entrate di natura tributaria, analoghe alle entrante comunali connesse al servizio pubblico di raccolta dei rifiuti solidi urbani. Non può tuttavia da tale premessa trarsi in primo luogo, sic et simpliciter, la conseguenza dell’applicabilità del privilegio generale previsto dall’art. 2752, quarto comma, codice civile. Tale ultima norma, infatti, è stata formulata, nel testo attualmente in vigore, in modo assai chiaro e specifico: essa non attribuisce indiscriminatamente e in via generale il privilegio a tutti i crediti tributari di comuni e province, ma solo a quelli “previsti dalle legge per la finanza locale e dalle norme relative all’imposta comunale sulla pubblicità e ai diritti sulle pubbliche affissioni”. La formulazione letterale della norma è talmente chiara e significativa che non appare lecito valersi di alcuna forma di interpretazione integrativa (omissis). Ne consegue, in conclusione, che l’assimilazione dei canoni in parola ai tributi locali vale ai soli fini dell’accertamento, non al fine di attribuzione di una tutela privilegiata, che non potendo peraltro estrapolarsi in via estensiva dall’art. 2752 codice civile, in relazione al rinvio fatto da tale norma ai tributi regolati dal T.U. sulla Finanza Locale (fra i quali non sono compresi i canoni della legge “Merli” e non possono a fortiori farvisi rientrare retroattivamente), deve reputarsi insussistente. Certamente una tale situazione si risolve in una carenza di tutela nei confronti di crediti che, sotto il profilo causale, appaiono meritevoli di un trattamento di favore, come ogni altro tributo pubblico. Ma la mancata previsione di una tutela privilegiata per i canoni di smaltimento e depurazione delle acque da insediamenti produttivi, imputabile se si vuole, eventualmente, ad una semplice dimenticanza legislativa o ad un pur deprecabile difetto di coordinamento con le norme privilegiate, non può essere emendata, per tutte le già dette ragioni, in sede interpretativa. Ne consegue, come inevitabile corollario, il rigetto puro e semplice dell’opposizione e per implicito la conferma del provvedimento già assunto dal giudice delegato». Più di recente la soluzione negativa è stata ribadita in giurisprudenza in relazione alla tariffa di igiene ambientale (c.d. T.I.A.), introdotta dal D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, dovuta per l’attività di raccolta e smaltimento dei rifiuti e composta da una quota determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio e da una quota rapportata alla quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito ed all’entità dei costi di gestione. In questa direzione si è collocata infatti la pronuncia resa dal Tribunale di Firenze (12), secondo la quale «l’importo dovuto per la T.I.A., Tariffa di Igiene Ambientale, a titolo di corrispettivo delle attività di raccolta e smaltimento rifiuti, non è assistito dal privilegio di cui all’art. 2752 c.c.», non essendo «possibile estendere la portata del terzo comma di tale norma a tributi diversi da quelli previsti dalla legge per la finanza locale, poiché le norme (12) Cfr. Trib. Firenze 28 maggio 2007, in www.ilcaso.it. 1276 Boll. Trib. 17 • 2010 sui privilegi rappresentano eccezioni ai principi generali e devono essere oggetto di stretta interpretazione». In senso contrario si è espresso invece il Tribunale di Milano (13), il quale ha ritenuto che il credito relativo alla TARSU sia assistito da privilegio ai sensi del comma 4 dell’art. 2752 c.c., con il limite temporale biennale fissato dal primo comma della medesima disposizione. 5 IL CREDITO PER ICI Come noto, l’imposta comunale sugli immobili (ICI) è stata istituita dal D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, e, quindi, non è compresa nel Testo Unico per la finanza locale di cui al R.D. 14 settembre 1931, n. 1175. Poiché il quarto comma dell’art. 2752 c.c. riconosce il privilegio al credito dei Comuni e delle Province per le imposte, tasse e tributi previsti dalla legge per la finanza locale (cioè dal predetto Testo Unico), ne dovrebbe conseguire che all’ICI ed all’ICIAP non possa essere riconosciuto il privilegio in esame. In proposito si è rilevato infatti che, dopo l’emanazione del Testo Unico per la finanza locale, il legislatore ha infatti attribuito espressamente il privilegio di cui al comma quarto dell’art. 2752 c.c. ad alcuni tributi commerciali (come l’imposta sulla pubblicità e i diritti sulle pubbliche affissioni, la TOSAP, e la TARSU), ma non anche all’ICI ed all’ICIAP, e che le norme attributive del privilegio non sono suscettibili di applicazione analogica, anche perché l’art. 2752, comma 4, c.c., fa riferimento alla “legge” (al singolare) per la finanza locale (cioè al menzionato Testo Unico del 1931), e non alle leggi (anche successive) riguardanti la predetta finanza locale. Di questa opinione si sono dichiarate la dottrina e la giurisprudenza di merito prevalenti (14). Opposte sono state invece le conclusioni e le argomentazioni del Tribunale di Milano (15), e della Corte d’Appello di Milano (16), che, movendosi nel solco già tracciato da precedenti decisioni del Tribunale meneghino (17), hanno riconosciuto al credito ICI il privilegio ex art. 2752, ultimo comma, c.c. (13) Cfr. Trib. Milano 5 maggio 2004, in causa Esatri c. Fall. Trans Alpine Express s.r.l., inedita, seguito da Trib. Milano 1° luglio 2004, in causa Comune di Magenta c. Fall. Beta 13 s.r.l., inedita, e dal già citato Trib. Milano 28 dicembre 2007, in causa Equitalia Esatri s.p.a. c. Fall. Bocconi Mauro Prodotti Ittici s.r.l., pure inedita. (14) Ved. in questo senso, in relazione all’ICI, Trib. Padova 2 maggio 2002, in Giur. mer., 2002, 1148; Trib. Gorizia 25 marzo 2004, n. 147, inedita; Trib. Milano 9 luglio 2004, in Fall., 2004, 1404; Trib. Milano 27 aprile 2005, ivi, 2006, 223; Trib. Monza 6 giugno 2005, ivi, 2005, 1413, e in Dir. fall., 2006, II, 703; Trib. Perugia 21 gennaio 2006, in Banca Dati Utet; Trib. Bergamo 9 febbraio 2006, in Dir. prat. fall., 2006, 81 ss., con riferimento all’ICIAP, e, sempre in termini negativi, Trib. Reggio Emilia 25 luglio 1995, in Dir. fall., 1996, II, 553; Trib. Grosseto 9 ottobre 1995, in Riv. giur. trib., 1996, 884; Trib. Perugia 12 maggio 1998, in Rass. giur. umbra, 1999, 379; Trib. Torino 13 marzo 2000, in Fall., 2000, 922; Trib. Milano 29 aprile 2002, in causa Comune di Varazze c. Fall. COFIM, inedita; e Trib. Sulmona 18 dicembre 2003, in Fall., 2004, 580. (15) Cfr. Trib. Milano 27 novembre 2006, in Fall., 2007, 833. (16) Cfr. App. Milano 10 marzo 2003, in causa Fall. Arti Grafiche di G. Pizzi & C. s.r.l. c. Comune di Peschiera Borromeo, inedita, e riportata in massima in Fall., 2003, 1124. (17) Ved. in particolare Trib. Milano 2 ottobre 2000, in Riv. giur. trib., 2001, 157; Trib. Milano 1° aprile 2004, cit.; Trib. Milano 5 maggio 2004, in Fall., 2004, 1404; Trib. Milano 13 luglio 2004, ibidem; e Trib. Milano 29 dicembre 2005, in causa Comune di Sedriano c. Fall. Edilgest Iniziative Immobiliari, inedita. dottrina Ad avviso del Tribunale: «indubbiamente l’uso della predetta espressione “legge per la finanza locale”, in senso storico, sottendeva un chiaro richiamo alle disposizioni del Testo Unico per la finanza locale – RD 14 settembre 1931, n. 1175 – che, all’epoca, rappresentava il corpus normativo organico della materia, pertanto, per le imposte, le tasse e tributi in essi previsti si intendeva riconosciuto a favore di Comuni e Province, in via generale e indifferenziata, il privilegio stabilito dall’art. 2752 c.c. Proprio l’originario riferimento ad un testo normativo nell’ambito del quale si esauriva la disciplina del settore della finanza locale, induce il Collegio a ritenere che la locuzione in esame non possa e non debba essere riferita esclusivamente a quel singolo testo normativo, poiché tale dicitura contiene invece un più ampio e generale richiamo ad una categoria omogenea di norme, organicamente afferente alla disciplina del settore della finanza locale. L’intendimento del legislatore è dunque stato quello di introdurre una norma idonea a garantire un raccordo con lo sviluppo dinamico e l’evoluzione della disciplina di settore, attraverso un riferimento a norme successive ed ulteriori, purché ascrivibili al genus di riferimento, in quanto regolanti la finanza locale. È allora fuori di dubbio che la disciplina istitutiva dell’ICI – D.Lgs. 20 dicembre 2002, n. 504, significativamente titolata “Riordino della finanza degli enti territoriali” – sia da ricomprendere a pieno titolo nella categoria omogenea di norme richiamate dall’art. 2752 c.c. con la locuzione “legge per la finanza locale”; ciò che peraltro spiega il motivo del mancato espresso riconoscimento di rango privilegiato da parte della legge istitutiva dell’ICI, poiché a tale scopo era ed è già sufficiente ed adeguata la più volte richiamata previsione dell’art. 2752 c.c. In senso contrario alle considerazioni fin qui svolte, si è osservato che il legislatore allora non avrebbe avuto alcuna necessità di procedere ad un espresso riconoscimento del privilegio in esame con riferimento ad altri e diversi tributi locali, segnatamente alla tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, alla tasse per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche e all’imposta comunale sulla pubblicità e diritto delle pubbliche affissioni, conformemente alle specifiche contenute nel D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, anch’esse di riordino della finanza territoriale. Tuttavia detti riconoscimenti espliciti non presentano un carattere costitutivo, assumendo piuttosto un valore meramente ricognitivo del rango proprio dei predetti tributi, ai medesimi comunque già attribuito dall’art. 2752 c.c., in forza della interpretazione sistemativa in precedenza illustrata. Peraltro, una differente lettura dell’art. 2752 c.c., fondata su un diverso e più ristretto significato della locuzione “legge per la finanza locale”, determinerebbe, in ipotesi l’esclusione del privilegio per il tributo – appunto l’ICI – che per entità di gettito concorre, più di ogni altra fonte tributaria, ad assicurare il “finanziamento” dei Comuni e, quindi, in ultima analisi a garantire da parte dell’ente territoriale la tutela di quegli interessi generali e pubblici, a presidio dei quali è evidentemente posta la norma attributiva del privilegio stesso». L’iter argomentativo e la decisione del Tribunale riprendono dichiaramene la parte motiva della menzionata pronunzia della Corte d’Appello di Milano (del 10 marzo 2003), per la quale la locuzione “legge per la finanza locale” usata dal quarto comma dell’art. 2752 va interpretata estensivamente. L’orientamento più liberale, fatto proprio dalle richia- mate decisioni del distretto milanese, ha manifestato negli ultimi anni una tendenza espansiva, come dimostra la circostanza che l’ammissione in via privilegiata del credito ICI è stata sostenuta anche da altri Tribunali (18). 6. IL PRIVILEGIO DI CUI AL COMMA 3 DELL’ART. 2752 C.C. I crediti dello Stato indicati dal terzo comma dell’art. 2752 c.c. sono collocati al n. 19 dell’art. 2778 c.c. L’art. 2752 (quale risulta sostituito dell’art. 3 della legge 29 luglio 1975, n. 426) stabilisce al terzo comma che hanno privilegio generale sui mobili del debitore i crediti dello Stato per le imposte, le pene pecuniarie e le soprattasse dovute secondo le norme relative all’IVA. Detta norma riproduce quanto già disposto dal comma 3 dell’art. 62 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, secondo cui i crediti dello Stato per le imposte, le pene pecuniarie e le soprattasse dovute ai sensi del decreto istitutivo dell’IVA hanno privilegio generale sui mobili del debitore con grado successivo a quello indicato al n. 15 dell’art. 2778 c.c. Soggetto attivo del privilegio in esame è lo Stato, mentre l’oggetto del privilegio è costituito, oltre che dall’imposta dovuta, dalle relative pene pecuniarie e soprattasse. A seguito della riforma del sistema sanzionatorio tributario attuata con i decreti legislativi n. 471 e n. 472 del 18 dicembre 1997, si deve ritenere – come meglio si vedrà nel prosieguo – che in tema di IVA il privilegio di cui al comma 3 dell’art. 2752 si estende non alle pene pecuniarie e soprattasse, che non sono più contemplate nel nuovo apparato sanzionatorio, ma alle sanzioni. 7. GLI ACCESSORI DEL CREDITO TRIBUTARIO 7.1 Le sanzioni Il nuovo sistema sanzionatorio introdotto dai decreti legislativi nn. 471, 472 e 473 del 1997, che è entrato in vigore il 1° aprile 1998, prevede, quali accessori del credito principale per i tributi, soltanto le sanzioni amministrative e gli interessi. Di fatto, quindi, le sanzioni amministrative sostituiscono le precedenti soprattasse e pene pecuniarie, contemplate dalle abrogate norme tributarie, e, solo nei casi espressamente previsti delle singole leggi, potranno essere irrogate anche sanzioni accessorie, aventi contenuto interdittivo. Fino all’entrata in vigore della legge di riforma del sistema sanzionatorio tributario, era molto dibattuto in dottrina ed in giurisprudenza il problema della qualificazione della soprattassa e delle pene pecuniarie, e tale problema veniva sollevato proprio in ragione della riconoscibilità o meno del medesimo privilegio del tributo a tali accessori del tributo stesso. In sintesi, una parte della dottrina ravvisava nella soprattassa e nelle pene pecuniarie la stessa natura dell’imposta (o, perlomeno, l’identità di causa) ed era quindi orientata a riconoscere loro il privilegio in applicazione del presunto principio “accessorium sequitur principale”. Al contrario, altro settore della dottrina ten(18) E in particolare da Trib. Torino 6 luglio 2004, in Dir. prat. trib., 2005, 1381; Trib. Rovigo 16 dicembre 2004, n. 931, inedita; Trib. Firenze 26 gennaio 2005, in Fall., 2006; Trib. Potenza 12 maggio 2005, in Dir. fall., 2006, II, 605; e Trib. Palmi 7 novembre 2005, in Fall., 2006, 223. Boll. Trib. 17 • 2010 1277 dottrina deva a sottolineare le caratteristiche sanzionatorie e la funzione afflittiva propria delle soprattasse e delle pene pecuniarie, osteggiando quindi la teoria dell’identica natura e disciplina, e facendone quindi derivare una disciplina autonoma e, ove la legge taceva, la natura chirografaria di tale credito (19). Su quest’ultima posizione si era attestata anche la giurisprudenza più recente, proprio in considerazione del fatto che negli unici casi in cui la legge ha espressamente voluto riconoscere il privilegio alle pene pecuniarie e alle soprattasse (il caso dell’IVA, di cui all’art. 2752, comma 3 – oggi comma 2, – c.c.), la stessa legge ha espressamente sancito l’estensione di tale privilegio, secondo il noto principio ubi lex voluti dixit. Il principio è stato condiviso e ribadito dal Tribunale di Milano, 13 giugno 2005 (20), per il quale: «le sopratasse per omesso versamento di tributi diretti (….) non godono del privilegio di cui all’art. 2753 c.c., a differenza di quelle dovute secondo le norme relative all’IVA, alle quali è espressamente riconosciuto; la S.C. ha avuto modi di affermare che l’eccezionalità delle previsioni relative ai privilegi, la cui disciplina non è suscettibile di applicazione analogica, porta ad escludere che alle soprattasse in questione possa riconoscersi il rango privilegiato attribuito a quelle per omesso versamento di IVA (Cass. 24.1.1995, n. 838; Cass. 29.10.1994, n. 8930)». Si deve quindi ritenere che con la riforma del sistema sanzionatorio, per quanto concerne le sanzioni nell’ambito della procedura fallimentare, continui a considerarsi ius receptum la tesi già prevalente in giurisprudenza. La funzione della “sanzione pecuniaria”, che unifica ora la soprattassa e la pena pecuniaria, resta quella afflittiva e di stimolo all’osservanza della legge, per cui la sua natura non può essere considerata risarcitoria o meramente accessoria (e quindi assimilabile al tributo cui inerisce) (21) . Nello stesso senso, in tema di esclusione del privilegio per l’importo delle sanzioni, si erano pronunziate anche le sezioni unite della Suprema Corte (22), le quali avevano chiarito che «il privilegio sui mobili del debitore, accordato ai crediti dello Stato per imposta sul reddito delle persone fisiche dall’art. 2752 comma 1 (sostituito dall’art. 3 L. 29 luglio 1975 n. 426) – non suscettibile di applicazione analogica, data l’eccezionalità delle norme istitutive delle cause di prelazione, – mentre si estende agli interessi, ai sensi dell’art. 2749 c.c. e all’indennità di mora, che assolve alla medesima funzione risarcitoria degli interessi, non si estende, invece, in mancanza di espressa previsione normativa (contenuta per contro nel comma 3 del citato art. 2752 c.c. relativamente all’Iva e nella normativa in materia di Invim, di cui al D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 643) alle soprattasse per omesso pagamento dell’Irpef, che hanno natura non risarcitoria, ma afflittiva, essendo esplicitamente annoverate fra le sanzioni a carico del contribuente». Da tutto sopra esposto derivano due importanti con(19) Per una ricostruzione del dibattito ved. MIGLIETTA-PRANDI, I privilegi, Torino, 1995, 330 ss. (20) In causa Esatri e. Fall. T.A.C. s.a.s., inedita. (21) In questo senso, fra gli altri, PATTI, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, 2003, 308-309, il quale sottolinea al riguardo i caratteri “parapenalistici” della nuova sanzione pecuniaria; per l’ammissione in chirografo della sovrattassa ved. altresì FORGILLO-ISERNIA-MADDALENA-MONTAPERTO, Crediti tributari e fallimento, in Fall., 2005, 29. (22) Cass., sez. un., 6 maggio 1993, n. 5246, in Boll. Trib., 1993, 1078, con nota di TESAURO. 1278 Boll. Trib. 17 • 2010 seguenze: 1) al credito derivante dalla sanzione non potrà estendersi il privilegio dell’imposta (salvo quando ciò è espressamente previsto dalla legge: e cioè per le sanzioni riguardanti l’IVA, alle quali dovrà continuare ad applicarsi la disposizione dettata dall’art. 2752 c.c. per le soprattasse e le pene pecuniarie di questo tributo); 2) la sanzione diviene esigibile con il provvedimento irrogativo della pena, che trasforma la pretesa punitiva da potenziale ad attuale: ciò nel senso che la stessa sanzione si deve ritenere sorta al verificarsi dell’infrazione, cioè nel momento in cui il soggetto ha assunto il comportamento fiscalmente sanzionabile, ma tale sanzione sarà esigibile nei confronti della procedura fallimentare soltanto con il manifestarsi del provvedimento irrogativo della pena. 7.2 Gli interessi Il D.P.R. n. 602/1973 prevede le seguenti categorie di interessi: 1) l’art. 20 stabilisce che «sulle imposte o sulle maggiori imposte dovute in base alla liquidazione ed al controllo formale della dichiarazione od all’accertamento d’ufficio si applicano, a partire dal giorno successivo a quello di scadenza del pagamento e fino alla data di consegna al concessionario dei ruoli nei quali tali imposte sono iscritte, gli interessi al tasso del 5 per cento annuo». Prima della correzione attuata dal D.Lgs. n. 46/1999, gli interessi decorrevano dal termine di presentazione della dichiarazione. La rettifica di tale articolo deriva dal fatto che il termine di presentazione della dichiarazione non coincide più con il termine di pagamento dell’imposta, mentre in precedenza i due termini coincidevano. Si ricorda infatti che, per effetto delle modificazioni introdotte dal D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, per le società di capitali, ad esempio, il termine di versamento dell’imposta scade il settimo mese successivo alla chiusura dell’esercizio, mentre il termine per la presentazione della dichiarazione, qualora presentata in via telematica, coincide con la fine del decimo mese successivo alla chiusura dell’esercizio; 2) l’art. 21 dispone che «sulle somme il cui pagamento è stato rateizzato o sospeso ai sensi dell’art. 19, comma 1, si applicano gli interessi al tasso del 6 per cento annuo. L’ammontare degli interessi dovuti è determinato nel provvedimento con il quale viene accordata la prolungata rateazione dell’imposta ed è riscosso unitamente all’imposta alle scadenze stabilite. I privilegi generali e speciali che assistono le imposte sui redditi sono estesi a tutto il periodo per il quale la rateazione è prolungata e riguardano anche gli interessi previsti dall’art. 20 e dal presente articolo». Con riferimento poi alla decorrenza degli interessi per dilazione di pagamento, si deve ritenere che gli stessi interessi debbano essere applicati dalla data di scadenza del termine di pagamento, se l’istanza di dilazione è stata presentata prima di tale data, e dalla data di presentazione dell’istanza di dilazione, in tutti casi in cui quest’ultima data sia successiva alla data di scadenza del termine di pagamento. Se ne deduce che, in quest’ultimo caso, il contribuente si troverà in mora, e dovrà pertanto versare gli interessi di mora, di cui all’art. 30 del D.P.R. n. 602/1973, dalla data di scadenza del termine di pagamento alla data di presentazione dell’istanza di dilazione, e dovrà invece versare gli interessi di rateazione dalla data di presentazione dell’istanza per tutta la durata della stessa dilazione. Si dottrina deve inoltre ricordare che, per effetto delle modifiche apportate al menzionato art. 21, ad opera dell’art. 2 del D.Lgs. n. 46/1999, gli interessi per dilazione di pagamento si applicano non solo alle imposte sui redditi, ma anche alle altre entrate tributarie: da ciò consegue che sono soggette all’imposizione di cui all’art. 21 per interessi di dilazione anche tutte le dilazioni di pagamento dell’IVA e dell’imposta di registro; 3) in tema di interessi per mancati o ritardati versamenti diretti, si deve segnalare che l’art. 9 è stato abrogato dall’art. 37 del D.Lgs. n. 46/1999. Per quanto riguarda gli interessi per mancato o ritardato versamento occorre quindi far riferimento all’art. 20 del D.P.R. n. 602/1973, alla norma circa il ravvedimento operoso (art. 13 del D.Lgs. n. 472/1997) quando questo sia il caso e alle singole leggi di imposta. Il menzionato art. 9 prevedeva che, in caso di omesso o tardivo versamento diretto, sulle imposte non versate o versate in ritardo doveva essere applicato l’interesse in ragione del 5% annuo con decorrenza dal giorno successivo a quello di scadenza e fino alla data di pagamento o della scadenza dalla prima rata del ruolo in cui erano state iscritte le somme non versate. Si ricorda inoltre che l’art. 20 del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, definisce nella misura pari al tasso previsto dell’art. 9 del D.P.R. n. 602/1973, maggiorato di un punto, e quindi nella misura complessiva del 6% annuo, il tasso di interesse da corrispondere nei casi di pagamenti parziali. Rimane invece ferma la sanzione del 30% in tutti i casi di omessi o tardivi versamenti diretti, salvo nel caso di effettuazione della procedura di ravvedimento operoso: in quest’ultimo caso l’art. 13 del D.Lgs. n. 472/1997 prevede il calcolo degli interessi per il ritardato o omesso pagamento nella misura del tasso legale di interesse (attualmente pari al 3% annuo) con maturazione giorno per giorno; 4) dispone inoltre l’art. 30 che: «decorso inutilmente il termine previsto dall’art. 25, comma 2, sulle somme iscritte a ruolo si applicano, a partire dalla data della notifica della cartella e fino alla data del pagamento, gli interessi di mora al tasso determinato annualmente con decreto del Ministero delle Finanze con riguardo alla media dei tassi bancari attivi». In sede fallimentare questa disposizione deve essere posta a confronto con l’art. 55 della legge fallimentare che, per i crediti privilegiati, consente il decorso degli interessi al tasso legale (cioè a quello sancito dal codice civile) e non ad altro tasso (quello previsto dalla normativa tributaria), e comunque fino alla data della vendita dei beni gravati dal privilegio (e non fino alla data del pagamento, come stabilito dalla normativa tributaria). Inoltre, in sede fallimentare è consolidato il principio per il quale non è configurabile mora debendi a carico delle procedure concorsuali con riguardo ai crediti pecuniari ammessi al passivo fallimentare. In particolare, la giurisprudenza della Suprema Corte afferma che non sono dovuti interessi moratori, neppure nella forma del risarcimento del maggior danno previsto dall’art. 1224, comma 2, c.c., neanche con riferimento ai crediti ammessi in prededuzione per il tempo intercorso tra il riconoscimento di detti crediti in sentenza esecutiva ed il loro pagamento ad opera del curatore fallimentare, atteso che nella procedura fallimentare non è concepibile una mora debendi in relazione a qualsiasi tipo di credito, essendo incompatibile con il carattere satisfattivo della procedura concorsuale e, soprattutto, con i tempi e le modalità previste per i pagamenti, oggetto di attività procedimentali regolate da specifici adem- pimenti, salvo il dovere di imprimere alla procedura fallimentare la massima speditezza possibile in relazione ai casi concreti ed al potere di sollecitazione e di reclamo delle parti (23). In tema di interessi afferenti crediti tributari, nel vigore della legge fallimentare del 1942 si ponevano due rilevanti questioni, ed in particolare: a) se la prelazione che assiste il credito tributario per sorte capitale si estende anche (ed in quali limiti) agli interessi successivi all’apertura della procedura fallimentare; b) qual è il “dies ad quem” in cui tali interessi cessano di prodursi. I problemi ora indicati traevano origine dalla circostanza che il primo comma dell’art. 55 della legge fallimentare, nel far salvo “quanto disposto dal comma 3 dell’art. 54 l. fall.”, richiamava, quanto all’estensione del diritto di prelazione agli interessi, gli artt. 2788 e 2855 c.c., ma non anche l’art. 2749 c.c., che disciplina l’estensione della prelazione agli interessi prodotti dai crediti privilegiati. Il mancato richiamo del predetto art. 2749 c.c. poneva quindi il problema del significato che ad esso doveva essere attribuito. Le diverse opinioni dottrinali sono state, spesso, disattese dalla giurisprudenza della Suprema Corte, presso la quale si era consolidato il principio secondo il quale «il mancato richiamo dell’art. 2749 va considerato come indice della volontà del legislatore di ottenere un trattamento differenziale per i crediti privilegiati, rispetto a quelli pignoratizi ed ipotecari. I crediti assistiti da privilegio, dunque, producono interessi anche per il periodo successivo all’apertura della procedura concorsuale ma, a differenza di quelli anteriori, non beneficiano della prelazione e vanno, quindi, ammessi al passivo della procedura in via chirografaria. Il corso di tali interessi cessa gradualmente e proporzionatamente in corrispondenza della graduale liquidazione del patrimonio mobiliare del debitore» (24). Allo stesso modo la Suprema Corte (25) aveva deciso che, qualora l’imprenditore moroso fosse successivamente fallito, il privilegio che tutela il credito tributario per quota capitale non si estendeva agli interessi anteriori alla dichiarazione di fallimento. La Corte Costituzionale (26) aveva ritenuto che l’art. 54 della legge fallimentare, nella parte in cui non prevedeva la prelazione a favore degli interessi di crediti privilegiati che fossero maturati prima della dichiarazione di fallimento, non si ponesse in contrasto con l’art. 3 Cost. (23) Cass., sez. I, 27 marzo 1993, n. 3728, in Fall., 1993, 1025; Cass., sez. I, 1° settembre 1995, n. 9227, ivi, 1996, 163; Cass., sez. I, 29 ottobre 1997, n. 10639, ivi, 1998, 792; Cass., sez. I, 25 novembre 2003, n. 17932, in Arch. civ., 2004, 1098; per la giurisprudenza di merito ved. Trib. Messina 11 ottobre 2005, in Fall., 2006, 97; Trib. Trapani 4 aprile 2001, in Giur. mer., 2002, 544; Trib. Genova 14 giugno 1999, in Fall., 2000, 802; Trib. Napoli 11 giugno 1997, in Dir. fall., 1998, II, 791; Trib. Roma 29 settembre 1993, ivi, 1994, II, 619; e Trib. Palermo 20 agosto 1991, ivi, 1992, II, 309. (24) Così Cass. 8 marzo 1977, n. 952, in Mass. Giust. civ., 1977; Cass. 25 ottobre 1978, n. 4838, ivi, 1978; e Cass. 9 agosto 1978, n. 3890, ibidem. (25) Cfr. Cass., sez. I, 8 maggio 1995, n. 5020, in Foro it., 1995, I, 2856. (26) Corte Cost. 28 luglio 1993, n. 350, in Boll. Trib., 1993, 1490, e Corte Cost. 19 maggio 1994, n. 195, in Fall., 1994, 1231. Boll. Trib. 17 • 2010 1279 dottrina Solo anni più tardi (27), la Corte Costituzionale aveva espresso il principio generale in virtù del quale, nelle procedure concorsuali, anche gli interessi maturati sui crediti privilegiati godono del diritto di prelazione, ritenendo «costituzionalmente illegittimo l’art. 54, comma 3, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, nella parte in cui non richiama, ai fini dell’estensione del diritto di prelazione degli interessi, l’art. 2749 c.c.». In proposito la Corte aveva osservato che: «(…) non esiste una qualsivoglia ragione giustificativa della deroga in tal modo apportata alla disciplina codicistica e della disparità di trattamento che si viene a determinare a danno dei creditori privilegiati in sede di esecuzione concorsuale rispetto ai creditori privilegiati ai quali, agendo in sede di esecuzione individuale, l’art. 2749 c.c. si applica. In proposito, non è privo di significato che in dottrina, prima del consolidarsi dell’orientamento della giurisprudenza di cui si è detto, il mancato richiamo dell’art. 2749 c.c. fosse a tal punto ritenuto inspiegabile, da essere imputato ad una mera svista del legislatore. La norma denunciata risulta, dunque, nella parte relativa al mancato richiamo dell’art. 2749 c.c., lesiva dell’art. 3 della Costituzione, ed entro tali limiti va dichiarata costituzionalmente illegittima». La sentenza della Corte Costituzionale aveva, da un lato, dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’ultimo comma dell’art. 54 della legge fallimentare, nella parte in cui non estendeva la prelazione agli interessi dovuti sui crediti assistiti da privilegio di cui all’art. 2749 c.c., ma aveva anche – e soprattutto – sancito l’uguaglianza dell’azione proposta dal creditore sia nei casi di fallimento del debitore, con l’assunzione al privilegio degli interessi maturati, sia nel caso dell’azione individuale esecutiva del creditore già prevista dall’art. 2749 c.c. Al riguardo aveva infatti chiarito che «la disciplina sostanziale delle cause legittime di prelazione nel fallimento è modellata su quella dettata in materia del codice civile, la quale è dunque unitariamente riferibile ai diritti dei creditori indipendentemente dalla concorsualità o meno della esecuzione in cui tali diritti si realizzano». La norma di cui all’art. 2749 c.c. era stata ritenuta incostituzionale, non con riferimento all’art. 36 Cost., ma con riferimento all’art. 3, in tema di diritti soggettivi: in altri termini, la censura di incostituzionalità aveva riguardo non al profilo oggettivo, ossia al rapporto tra le diverse cause di prelazione, ma al profilo soggettivo dei rapporti tra il titolare di un medesimo credito (privilegiato) e la procedura fallimentare, in considerazione del fatto che il titolare del medesimo diritto potrebbe trovarsi in due differenti situazioni soggettive a seconda che agisca in sede fallimentare, e quindi senza diritto al privilegio circa il credito per interessi, ovvero in sede esecutiva individuale, ove gli interessi del credito potrebbero invece beneficiare del privilegio. La circostanza, poi, che la fattispecie oggetto dell’esame del giudice remittente riguardasse interessi prefallimentari, aveva consentito alla Corte di intervenire direttamente sull’art. 54, comma 3, della legge fallimentare, sicchè la pronuncia rivestiva una portata generale che si estendeva anche agli interessi post fallimentari, per effetto del richiamo a tale norma contenuto nel successivo art. 55, comma 1, della medesima legge. L’Agenzia delle entrate (28) aveva diffuso agli Uf(27) Cfr. Corte Cost. 28 maggio 2001, n. 162, in Boll. Trib., 2001, 1033, con nota di BENINCASA. (28) Con circ. n. 84/E del 15 novembre 2002, in Boll. Trib., 1280 Boll. Trib. 17 • 2010 fici competenti le istruzioni in merito alle domande di insinuazione al passivo, tenuto conto del grado di privilegio, degli interessi maturati sui crediti tributari. Riteneva in particolare, alla luce di quest’ultima interpretazione giurisprudenziale, che gli Uffici dovessero «far valere il privilegio sugli interessi maturati sia anteriormente che successivamente all’instaurazione della procedura concorsuale. È necessario, inoltre, far valere la prelazione sugli interessi anche nelle ipotesi di amministrazione straordinaria stante l’espresso richiamo all’art. 54, comma 3, operato dall’art. 18, comma 1, del D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270 (…). Si precisa infine che la citata sentenza della Corte Cost. n. 162 del 2001 ha effetto anche nei confronti delle procedure di liquidazione coatta amministrativa, in quanto l’art. 201 l. fall. rinvia, tra l’altro, alle disposizioni di cui agli artt. 54 e 55 citati». La stessa circolare, in relazione alla misura degli interessi, precisava che «il privilegio sugli interessi, essendo regolato anche da quanto disposto dagli art. 2855 e 2788 c.c.», potesse «maturare per il periodo successivo la data di dichiarazione del fallimento nella misura pari al tasso legale di interesse». La recente riforma del diritto fallimentare, e le modifiche da questa introdotte alla disciplina degli interessi, hanno tuttavia posto definitivamente termine al dibattito in materia, che al cospetto della nuova disciplina ha ormai assunto un semplice valore storico. Il D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, ha infatti riformulato il terzo comma dell’art. 54 della legge fallimentare e, per un verso, ha esteso il diritto di prelazione, già riservato agli interessi sui crediti pignoratizi ed ipotecari di cui agli artt. 2788 e 2855 c.c., anche agli interessi sui crediti pignoratizi ed ipotecari di cui agli artt. 2788 e 2855 c.c., anche agli interessi sui crediti privilegiati di cui all’art. 2749 c.c., e ciò – come si legge nella relazione ministeriale – al dichiarato «fine di rimediare a quello che la dottrina e la giurisprudenza prevalenti consideravano una mera svista del legislatore del 1942»; per altro verso ha precisato che «per i crediti assistiti da privilegio generale, il decorso degli interessi cessa dalla data del deposito del progetto di riparto nel quale il credito è soddisfatto anche se parzialmente». Come notato subito dai primi commentatori (29) la novella del 2006 ha quindi tradotto in formula normativa i princìpi già espressi dalla Corte Costituzionale con la citata pronuncia del 2001, sicché, nella nuova disciplina (30): – la prelazione che assiste il credito munito di privilegio generale (e, quindi, anche il credito tributario) per sorte capitale si estende anche agli interessi successivi all’apertura della procedura fallimentare; – tali interessi, assistiti da privilegio, cessano di ridursi al momento del deposito del piano di riparto nel quale il credito cui afferiscono è, anche parzialmente, soddisfatto. In relazione a tale ultimo profilo, si è notato (31), la soluzione privilegiata dalla novella del 2006 introduce peraltro una deroga alla disciplina generale posta dall’art. 2749 c.c., perché tale disposizione estende il privilegio agli interessi post-pignoramento fino alla data della vendita, e non – come prevede il nuovo art. 54, comma 3, della legge fallimentare – fino all’effetti2003, 205. (29) La Manna, 2006, 122; Lo Cascio, 2007, 352. (30) Minutoli (3), 2007, 382 e 385. (31) Minutoli (3), 382. dottrina va ripartizione del ricavato. In virtù di tale discrasia, in ambito fallimentare potrebbe quindi realizzarsi un possibile trattamento deteriore dei crediti assistiti da privilegio generale, laddove questi vengano soddisfatti – come spesso avviene – attraverso più riparti: in tale ipotesi, infatti, «il decorso degli interessi, che per l’art. 2749 dovrebbe proseguire fino all’ultima vendita dei beni compresi nella massa mobiliare, si arresterà prima, vale a dire al momento del primo progetto di riparto che sia solo in minima parte satisfattivo», e ciò per effetto di «una scelta casuale (o consapevolmente gestita dal curatore ad usum delphini)» che non mancherà di dare adito a possibili dubbi di costituzionalità della disciplina. 7.3 Gli interessi di mora L’art. 61, comma 6, lett. c), del D.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43, ha posto a carico del contribuente il pagamento «degli interessi semestrali di mora per il ritardato pagamento delle somme iscritte a ruolo», da determinare annualmente in base a decreto del Ministero delle finanze, con riguardo alla media dei tassi bancari attivi, così abrogando dalla sua entrata in vigore (dal 1° gennaio 1990), a mente del disposto del secondo comma dell’art. 130, ogni altra disposizione incompatibile con la riscossione disciplinata dal citato decreto, e in particolare l’art. 30 del D.P.R. n. 602/1973, secondo il quale, «decorso il termine utile per il pagamento» (decorrente dalla notifica della cartella di pagamento), «il contribuente che non ha pagato in tutto o in parte la rata di imposta è obbligato a corrispondere sulla somma non pagata l’indennità di mora» in misure prefissate, variabili in funzione del momento in cui era effettuato il ritardato pagamento. In tema di privilegio sull’indennità di mora prevista dall’abrogato art. 30, si deve segnalare il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui il privilegio di cui è fornito il credito dello Stato per tributi si estendeva a detta indennità: in particolare, l’indennità di mora, «ragguagliata al fatto oggettivo, dell’omesso pagamento nel termine con due tassi unici e forfetari non ragguagliati alla durata del ritardo nella soddisfazione del credito di imposta», costitutiva – nelle parole della Suprema Corte – «un accessorio naturale e necessario del tributo, come indennizzo forfetario, avente lo stesso carattere pubblicistico del tributo stesso che fa carico all’obbligato per una causa oggettiva, indipendentemente da ogni soggettiva valutazione del comportamento dell’obbligato e da ogni possibilità di indagine sulla imputabilità dell’inadempimento» (32). Si trattava quindi, secondo la giurisprudenza di legittimità, di una misura risarcitoria avente, al pari degli interessi moratori, funzione riparatoria del danno conseguente al ritardato pagamento, e sprovvista quindi di ogni connotato sanzionatorio (33). Muovendo da questa premessa (34), la Suprema Cor(32) Così Cass., sez. I, 14 maggio 1997, n. 4255, in Fall., 1998, 248. (33) Cass., sez. I, 25 gennaio 1997, n. 780, in Fall., 1997, 1168; in senso conforme ved. fra le altre, Cass., sez. I, 29 ottobre 1994, n. 8930, in Boll. Trib., 1995, 1193; Cass., sez. I, 28 giugno 1994, n. 6214, ibidem, 1193; Cass., sez. un., 6 maggio 1993, n. 5246, ivi, 1993, 1078. (34) Condivisa anche dalla prevalente dottrina: ved. RUISIPALERMO-PALERMO, I privilegi, Torino, 1980, 440, e BATISTONI-FERRARA, op. cit., 23, per i quali l’estensione del privilegio all’indennità in discorso deriva direttamente dal fatto che, nel vigente sistema di riscossione delle imposte dirette, il credito dei concessionari in sede di assegnazione oltre all’imposta comprende anche le soprattasse, le pene pecuniarie, gli interessi e te traeva il corollario, altrettanto consolidato, secondo il quale l’indennità di mora doveva considerarsi sempre dovuta in caso di fallimento sia per i ruoli precedenti che per i ruoli successivi alla dichiarazione di fallimento. In questi termini si era infatti pronunciata ripetutamente la Corte di Cassazione (35), anche se nutrito risultava, soprattutto presso le corti territoriali, l’indirizzo di chi propendeva per l’opposta opinione, e negava quindi che il credito per indennità di mora potesse essere ammesso al passivo fallimentare in relazione a tributi iscritti a ruolo dopo la dichiarazione di fallimento (36). Delineato il quadro interpretativo relativo alla vecchia indennità di mora, occorre ora considerare il diverso criterio di remunerazione per il tardivo pagamento delle imposte introdotto dall’art. 61 del D.P.R. n. 43/1988, ed in particolare verificare se gli interessi di mora semestrali ivi previsti siano o meno assimilabili alla suddetta indennità, e ne seguano quindi il trattamento in sede fallimentare. Alcuni giudici di merito si sono pronunciati in termini positivi, sostenendo la piena assimilabilità delle due figure, ed hanno affermato che «gli interessi semestrali di mora di cui all’art. 61 del D.P.R. n. 43/1988, come l’indennità di mora di cui al D.P.R. n. 602/1973, attesa la loro sostanziale parificazione, rappresentano un accessorio del tributo, di cui ne seguono le sorti, con la conseguenza che il relativo credito è assistito dal privilegio previsto dagli artt. 2752, 2759 e 2771, c.c.» (37). Nel medesimo ordine di idee sembra collocarsi anche la dottrina, la quale ha precisato che «interessi di mora e indennità di mora, seppur strutturalmente diversi, sono istituti in tutto assimilabili, in considerazione della funzione che entrambi svolgono (risarcitoria del danno subito dall’Erario), commesso con il fatto oggettivo “omissione di tempestivo pagamento di somme iscritte a ruolo”» (38). La Suprema Corte invece ha ripetutamente affermato che al credito per interessi di mora si debba riconoscere il privilegio anche per i periodi maturati nel corso della procedura fallimentare indipendentemente dalla sua qualificazione come credito privilegiato o meno. Ciò posto si possono assumere le seguenti conclusioni: a) se il contribuente non ha pagato il tributo iscritto in ruoli messi in riscossione prima della sua dichiarazione di fallimento, gli interessi di mora vanno ammessi al passivo del fallimento con il privilegio proprio del tributo non pagato; b) non vanno ammessi al passivo gli interessi di mora, se il ruolo nel quale il tributo è iscritto viene pubblicato e posto in riscossione dopo la dichiarazione di fallimento del contribuente-debitore. le indennità di mora. (35) Ved. Cass. 29 gennaio 1977, in Giur. comm., 1976, II, 304; Cass. 20 dicembre 1978, n. 802, in Dir. fall., 1978, II, 190; Cass., sez. I, 13 dicembre 1994, n. 10619, in Mass. Foro it., 1994; Cass., sez. I, 30 marzo 1992, n. 3878, in Corr. trib., 1992, 1959; Cass., sez. I, 4 marzo 1994, n. 2143, in Fall., 1994, 716; e Cass. n. 780/1997, cit. (36) Ved. fra gli altri Trib. Milano 14 maggio 1990, in Fall., 1991, 184; Trib. Torino 26 aprile 1989, in Giur. piem., 1989, 607; Trib. Venezia 29 luglio 1988, in Fall., 1988, 684; per un riscontro dottrinale ved. MIGLIETTA-PRANDI, op. cit., 330, e PATTI, op. cit., 310-311, ove ulteriori riferimenti. (37) Conforme App. Torino 10 maggio 1993, in Ascotributi rassegna, 1993, 44. (38) Così GIAMBIANCO, in Ascotributi rivista, 1991, 545; nello stesso ved. PATTI, op. cit., 310, il quale sottolinea la coincidenza anche strutturale fra i due istituti. Boll. Trib. 17 • 2010 1281 dottrina In senso conforme a tali ipotesi, si sono espresse la dottrina (39) e la giurisprudenza. In relazione infatti alla problematica di ammissione al passivo degli interessi di mora in relazione ad un tributo per il quale il ruolo viene pubblicato e posto in riscossione in data successiva la data di dichiarazione di fallimento, il Tribunale di Genova (40) ha ritenuto che l’impossibilità per il curatore di provvedere al pagamento dei crediti tributari, al di fuori delle ipotesi e delle procedure previste dalla legge fallimentare, libera il curatore medesimo da qualsiasi colpa; la mancanza di colpa del curatore libera, a sua volta, la procedura dall’obbligo di pagamento dell’indennità di mora maturata successivamente alla dichiarazione di fallimento, oggi sostituiti dagli interessi semestrali di mora. Se la questione non fosse intesa in questi termini, sostiene il Tribunale di Genova, si assisterebbe alla insostenibile prevalenza del sistema tributario sulla disciplina fallimentare che impone invece rigidi termini e procedure per il soddisfacimento dei creditori. D’altronde i più recenti orientamenti della Corte di Cassazione sembrano escludere che si possa configurare mora debendi nel corso della procedura fallimentare proprio in ragione del fatto che la procedura impone rigide regole per il soddisfacimento graduale dei creditori. 8. I COMPENSI E LE SPESE DEL CONCESSIONARIO DELLA RISCOSSIONE L’art. 17, comma 1, del D.Lgs. 13 aprile 1999, n. 112, stabilisce che «l’attività degli agenti della riscossione viene remunerata con un aggio pari al nove per cento delle somme iscritte a ruolo riscosse; (…)». Il 3° comma specifica che «l’aggio di cui al comma 1 è a carico del debitore: ...». In altri termini è il “compenso” destinato a “remunerare” la complessiva attività del concessionario per tutte le spese che esso affronta nell’intera attività di riscossione, ivi comprese quelle attinenti all’idonea organizzazione sul territorio di mezzi e persone, e prescinde quindi dagli oneri affrontati per le attività di esecuzione ... nei casi specifici. Tali oneri rappresentano, in sostanza, i costi aggiuntivi e peculiari che il concessionario deve sostenere nell’ambito della sua attività organizzativa e che, se non recuperati, finirebbero con incidere anche la misura sensibile sul ricavo del gettito tributario. Benché l’aggio venga per legge fatto gravare, almeno per una percentuale, sul soggetto debitore nel caso di mancato tempestivo pagamento del tributo (secondo una misura proporzionale alle somme iscritte a ruolo, determinata in via regolamentare), non può configurarsi come un credito diretto del concessionario nei confronti del debitore perché la titolarità del diritto relativo è dell’ente impositore, che poi procede a corrispondere i compensi medesimi al concessionario in remunerazione dell’attività prestata. «Il relativo credito inerisce dunque sin dall’origine – con vincolo indisgiungibile – a quello tributario, ponendosi in rapporto di accessorietà con lo stesso e venendo così assistito dall’identico titolo preferenziale al soddisfacimento ad esso spettante». Il sesto comma e settimo aggiungono «al concessionario spetta il rimborso delle spese relative alle procedure (39) Cfr. FORGILLI-ISERNIA-MADDALENA-MONTAPERTO, op. cit., 26. (40) Ved. Trib. Genova 14 giugno 1999, in Fall., 2000, 802. 1282 Boll. Trib. 17 • 2010 esecutive, sulla base di una tabella approvata con decreto del Ministero delle finanze, con il quale sono altresì stabilite le modalità di erogazione del rimborso stesso. Tale rimborso è a carico: a) dell’ente creditore, se il ruolo viene annullato per effetto di provvedimenti di sgravio o se il concessionario ha trasmesso la comunicazione di inesigibilità di cui all’articolo 19, comma 1; b) del debitore, negli altri casi. In caso di delega di riscossione, i compensi, corrisposti dall’ente creditore al delegante, sono ripartiti in via convenzionale fra il delegante ed il delegato in proporzione ai costi da ciascuno sostenuti». Il rimborso delle spese di remunerazione nelle procedure concorsuali spetta ai concessionari, sia perché espressamente previsto dalla tabella sopra riportata, sia perché il fallimento è una procedura esecutiva, sia pure con caratteristiche particolari rispetto a quelle individuali. È disputato se il credito in esame debba essere ammesso al passivo del fallimento in via chirografaria o privilegiata. Va in primo luogo premesso che il Tribunale di Milano (41), confortato da una parte della dottrina (42), ha negato che in sede di ammissione (tempestiva o tardiva) possa essere riconosciuto al concessionario per la riscossione un credito per spese previsto dal citato decreto ministeriale, e ciò per le seguenti considerazioni: «la legge delega stabilisce che in caso di sgravio e di procedure concorsuali vengano addebitate le spese effettivamente sostenute, mentre il decreto ministeriale prevede un sistema di importi forfetizzati che inoltre per crediti superiori a L. 2.000.000 variano in proporzione delle somme iscritte a ruolo sulla falsariga di quanto stabilisce l’art. 17.6 cit. La circostanza che il D.M. prevede espressamente nell’allegato A al n. 5 l’istanza di insinuazione nelle procedure concorsuali, stabilendo la somma fissa di L. 300.000 per i crediti fino a due milioni, da aumentarsi proporzionalmente per quelli superiori, non può avere alcuna valenza derogatoria – come attribuitagli dalla circolare di altro tribunale invocata da parte attrice – nei confronti del disposto dell’art. 101 l.f. trattandosi di fonte regolamentare in quanto tale di rango inferiore e quindi inidonea a modificare una norma di legge. Né d’altro canto, tale effetto può essere fatto discendere dall’art. 17 del D.Lgs. n. 112/1999, che non fa alcuna menzione delle procedure concorsuali e che, a sua volta, non potrebbe essere così inteso – cioè come previsione di rimborsi spese forfetizzati e proporzionali nei confronti di dette procedure, in quanto parificate a tutte le altre procedure esecutive – a pena di contrasto con l’art. 77 Cost. (41) Trib. Milano 13 agosto 2005, in causa Esatri c. Fall. T.A.C. spa, inedito, seguito da Trib. Milano 7 luglio 2005, in causa Esatri c. Fall. Sintender srl in liquidazione, inedito; Trib. Milano 28 dicembre 2007, in causa Equitalia Esatri spa c. Fall. Bocconi Mauro Prodotti Ittici srl, inedito; Trib. Milano 3 marzo 2008, in causa Equitalia Esatri spa c. Fall. Panificio Padani snc di Padani Aleardo e C., inedito; Trib. Milano 7 febbraio 2008, in causa Equitalia Esatri spa c. Fall. Edilzeta srl, inedito; Trib. Milano 3 marzo 2008, in causa Equitalia Esatri spa c. Fall. Milani Silvia, inedito; Trib. Milano 23 maggio 2008, in causa Equitalia Esatri spa c. Fall. E.W.M. Euro Wiring Milan srl, inedito; Trib. Milano 28 maggio 2008, in causa Equitalia Esatri spa c. Fall. Linesys srl; Trib. Milano 28 maggio 2008, in causa Equitalia Esatri spa c. Fall. Auto Carrozzeria Jenner srl, inedito; Trib. Milano 28 maggio 2008, in causa Esatri Esazione Tributi spa, c. Fall. Agenzia Masi sas, inedito. (42) Ved. PATTI, op. cit., 311-312. dottrina per eccesso di delega (come ritenuto anche dal Tribunale di Ravenna nella sentenza del 4 febbraio 2002, S.O.R.I.T. c. Fall. Cavi srl, citata e prodotta in copia dal Fallimento), essendo dovere per il giudice di interpretare la legge nel senso che risulti conforme alla carta fondamentale (c.d. interpretazione adeguatrice), dovere costantemente affermato dalla Consulta (da ultimo, Corte Cost. 6 luglio 2004, n. 305; 28 marzo 2003, n. 91; 26 marzo 2003, n. 107), oltre che dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 9 agosto 2003, n. 12143; Cass. 4 luglio 2003 n. 10570, fra le più recenti). Lo stesso criterio ermeneutico impedisce, altresì, per quanto attiene alle spese dell’insinuazione, un’interpretazione del combinato disposto risultante dal cit. art. 17.6 del D.Lgs. n. 112/1999 e dal D.M. n. 1120/2000 che introdurrebbe una deroga al principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost. Valgono in proposito le considerazioni espresse dalla S.C. nella sentenza 19 giugno 1996, n. 5662 in relazione all’art. 61.4 del D.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43. La sentenza esclude che tale norma possa contenere una implicita deroga al principio dell’art. 101 l. fall., in quanto la diversa interpretazione non si sottrarrebbe a sospetti d’illegittimità, per contrasto con l’art. 3 della Costituzione. Così si esprime la motivazione: il ritardo nell’insinuazione al passivo del concessionario della riscossione delle imposte non è assistito da certezza o da rilevante probabilità di non colpevolezza, per addebitabilità al fatto altrui od al caso fortuito, perché come può essere effetto inevitabile delle peculiari vicende del rapporto tributario così può derivare da semplice trascuratezza o negligenza. L’attribuzione, in favore di detto concessionario ed a discapito degli altri creditori, del rimborso delle spese di insinuazione tardiva, quali che siano le ragioni del ritardo, e quindi pure nel secondo degli indicati casi, porrebbe l’art. 61 D.P.R. n. 43 del 1988 in aperto conflitto con il precetto costituzionale dell’uguaglianza di trattamento a parità di situazioni, dato che introdurrebbe un vantaggio ingiustificato per un creditore autorizzandolo a ritardo, l’intervento nella procedura fallimentare, anche per mera inerzia, senza subirne i maggiori oneri». A tali considerazioni merita aggiungere, per completezza, che anche nelle domande tempestive al creditore che si insinua al passivo le spese eventualmente sostenute per la domanda non vengono riconosciute, al di là di eventuali spese borsuali opportunamente documentate, in considerazione del principio della cristallizzazione del passivo al momento dell’apertura del concorso, che è uno dei cardini del sistema fallimentare e che si desume da norme come gli artt. 52, 55 e 59 l. fall., le quali riservano al soddisfacimento dei crediti sorti prima della dichiarazione di fallimento – mentre le attività svolte dal concessionario della riscossione sono successive, il che vale anche per il costo sostenuto per la notificazione delle cartelle, impropriamente definito “diritti di notifica” – il ricavato della liquidazione dei beni (cfr. Cass. 29 settembre 2004, n. 19533; Cass. 21 febbraio 2001, n. 2481; Cass. 15 giugno 2000, n. 8160; Cass. 8 aprile 2000 n. 4484, ex plurimis)». La legittimità della non ammissione al passivo del c.d. “decreto esecutivo” in esame è espressamente riconosciuto dalla Esatri che così motiva: «Come ha esattamente rilevato l’Esatri, “cosa ben diversa” è invece la disciplina del credito relativo ai c.d. “diritti esecutivi”, previsti dal successivo comma 6 dell’art. 17 del D.Lgs. n. 112/1999, che fa riferimento al “rimborso delle spese relative alle procedure esecutive”, anch’esse iscritte a ruolo e poste per legge a carico del debitore (nella misura stabilita dal D.M. 21 novembre 2000 e salvi i casi di sgravio o di inesigibilità), ma che a differenza dell’“aggio”» – non possono essere opposte alla massa fallimentare. Il relativo credito si riferisce infatti agli oneri specificamente sostenuti dalla concessionaria per il recupero coattivo del credito nel caso concreto e dunque non è insinuabile nel passivo fallimentare in quanto violerebbe il principio della par condicio, di cui l’art. 101 della legge fallimentare (applicabile anche al concessionario alla riscossione) è puntuale espressione, laddove stabilisce che il creditore istante sopporta le spese conseguenti al ritardo nella presentazione della domanda. La stessa appellante del resto riconosce la legittimità della loro esclusione laddove, nel ricordare che «il debitore contribuente è fallito ed è stata quindi aperta una procedura concorsuale», sottolinea che i crediti inerenti ai “diritti esecutivi” (N.d.R. evidenziati in calce agli estratti di ruolo in atti con la dizione <spese di insinuazione … D.M. 21 novembre 2000 ex art. 17 comma 6 D.Lgs. 13 aprile 1999 n. 112>) «sono costituiti dalle spese sostenute dalla Concessionaria per l’introduzione della domanda di ammissione tardiva al passivo del credito tributario promosso con ricorso ex art. 101 L. Fall. e successive occorrende». Altre Corti ritengono invece che le somme in questione debbano essere riconosciute ed ammesse al passivo, ma si discute se l’ammissione debba avvenire in via privilegiata o in via chirografaria. Secondo il Tribunale di Napoli 22 novembre 1996 (43), i crediti in esame sono assistiti dal privilegio ai sensi dell’art. 2749, comma 1, parte prima, c.c., mentre il Tribunale di Torino 8 maggio 1993 (44), che riconosce ai crediti da riscossione gli stessi privilegi che spettano alle imposte insinuate e ammesse, seguito dalla dottrina (45), ha negato, in via di principio, il privilegio ex art. 2752 c.c., sostenendo che il credito in esame non fa parte dell’obbligazione tributaria. 9. I CREDITI DELLO STATO NEI CONFRONTI DEL DATORE DI LAVORO PER OMESSO VERSAMENTO DELLE RITENUTE D’ACCONTO Altro problema che si è posto all’esame dei giudici di merito è se il credito dello Stato nei confronti del datore di lavoro che abbia effettuato ma non abbia poi versato le ritenute d’acconto per l’IRPEF, sia o meno assistito dal privilegio previsto dall’art. 2752 c.c. Al quesito ha dato risposta negativa il Tribunale di Modena (46), sostenendo che la ritenuta d’acconto ha una funzione meramente cautelare «a garanzia di un debito d’imposta solo eventuale ed indeterminato», con esclusione della fattispecie normativa della sostituzione d’imposta nella quale il sostituto è «soggetto passivo dell’imposta e comunque titolare dell’obbligazione tributaria derivante dalla realizzazione del presupposto», mentre il presupposto dell’obbligazione di «ritenere alla fonte parzialmente quando viene corrisposto» è semplicemente «il pagamento di somme a terzi per determinati titoli nell’intento di fornire allo Stato una mera garanzia per (43) In Fall., 1997, 327 (44) In Fall., 1993, 1275, riformato però da App. Torino 3 maggio 1994, ivi, 1994, 1091. (45) Cfr. FORGILLI-ISERNIA-MADDALENA-MONTAPERTO, op. cit., 29-30. (46) Cfr. Trib. Modena 11 settembre 1978, in Riv. dir. fin., 1971, II, 21; conf. Trib. Modena 10 febbraio 1979, in Riv. dir. lav., 1979, II, 550. Boll. Trib. 17 • 2010 1283 dottrina l’eventuale debito d’imposta del terzo percipiente». Tale opinione è stata disattesa (e, a nostro avviso, giustamente e convincentemente) in sede di gravame (47), in base alle seguenti argomentazioni: 1) il datore di lavoro è sostituto d’imposta nell’accezione fissata dall’art. 64 del D.P.R. n. 600/1973, e cioè un soggetto che «in forza di disposizione di legge è obbligato al pagamento di imposta in luogo di altri, per fatti o situazioni a questi riferibili ed anche a titolo di acconto» (48); 2) la stessa nozione di “acconto” conferma che l’oggetto dell’obbligazione del datore di lavoro verso lo Stato è una prestazione d’imposta, perché l’acconto è, nella sua accezione tecnico-giuridica, un parziale adempimento preventivo; 3) essendo il datore di lavoro un sostituto d’imposta, ed essendo dunque la sua una obbligazione tributaria, ne consegue che il credito dello Stato derivante dal mancato versamento delle ritenute operate dal datore di lavoro gode del privilegio sancito dall’art. 2752 c.c.; 4) argomentando a contrariis dall’art. 35 del D.P.R. n. 602/1973 si desume che, nei confronti dello Stato, non vi è solidarietà tra sostituto (datore di lavoro) e sostituito (lavoratore) nell’ipotesi in cui le ritenute siano state effettuate ma non versate. «In questo caso, infatti, si deve ritenere che l’obbligazione del sostituito sia rimasta estinta con il prelievo eseguito sul suo credito dal soggetto all’uopo abilitato dalla legge per conto dell’ente impositore. Una diversa soluzione sarebbe manifestamente errata, oltre che iniqua, dato che, nei confronti del contribuente, il prelievo è stato regolarmente eseguito. Unico debitore nei confronti dello Stato resta dunque, nel caso di ritenuta operata e non versata, il sostituto. Qualora al credito dello Stato nei suoi confronti, si negasse l’assistenza del privilegio, si verificherebbe un’altra conseguenza del tutto ingiustificabile, perché lo Stato verrebbe spogliato del privilegio inerente al suo credito per una circostanza accidentale ed imputabile esclusivamente al debitore». 10. IL PRIVILEGIO IN TEMA DI CREDITO DI RIVALSA IVA Hanno privilegio speciale mobiliare «i crediti di rivalsa verso il cessionario ed il committente, previsti dalle norme relative all’imposta sul valore aggiunto, sui beni che hanno formato oggetto della cessione o ai quali si riferisce il servizio» (art. 2758, comma 2, c.c., così come modificato dalla legge 29 luglio 1975, n. 426). «Eguale privilegio hanno i crediti di rivalsa, verso il cessionario ed il committente, previsti dalle norme relative all’imposta sul valore aggiunto, sugli immobili che hanno formato oggetto della cessione o ai quali si riferisce il servizio» (art. 2772, comma 3, c.c., così come modificato dalla citata legge n. 426/1975). In precedenza, la disciplina del credito di rivalsa IVA era contenuta nell’art. 18 del D.P.R. n. 633/1972, il quale – a seguito della modifica introdotta dal D.P.R. 23 dicembre 1974, n. 687 – così disponeva: «il credito di rivalsa (…) se è relativa alla cessione di beni mobili, ha privilegio sulla generalità dei mobili del debitore con lo stesso grado del privilegio generale stabilito dall’art. 2752 (47) App. Bologna 11 febbraio 1980, in Giur. comm., 1980, II, 721; nello stesso senso, App. Bologna 8 maggio 1984, in Fall., 1984, 1535; Cass. 23 novembre 1982, n. 6329, in Giur. it., 1983, I, 1, 1270, e in Giust. civ., 1983, I, 812. (48) Così anche autorevole dottrina: MICHELI, 1974, 126 ss.; POTITO, 1978, 108 ss. e 365 ss. 1284 Boll. Trib. 17 • 2010 c.c., cui tuttavia è proposto». Quindi, mentre il citato art. 18 prevedeva per i crediti di rivalsa IVA il privilegio generale mobiliare, l’art. 2758, comma 2, c.c., a seguito della novella di cui alla legge n. 426/1975, contemplava per i medesimi crediti il privilegio speciale mobiliare. La presenza di due norme contrastanti e successive nel tempo aveva posto quindi agli interpreti il problema della individuazione del tipo di privilegio che assiste i crediti di rivalsa del cessionario o del committente, per le cessioni dei beni mobili o per i servizi relativi agli stessi. La questione, a lungo oggetto di vivace disputa, vide subito fronteggiarsi due schieramenti nettamente contrapposti (49). Secondo un primo filone interpretativo, infatti, il legislatore del 1975, nel formulare l’art. 2758, comma 2, c.c., non aveva inteso abrogare l’art. 18 del D.P.R. n. 633/1972, e pertanto sarebbe persistito il privilegio generale mobiliare previsto da tale norma per il credito di rivalsa IVA (50). Di segno diametralmente opposto era invece l’orientamento fatto proprio dalla prevalente giurisprudenza di merito, e in particolare dal Tribunale di Milano, che – muovendo dalla riconosciuta portata generale della legge n. 426/1975, e all’intento sistematico del legislatore di collocare la disciplina dei privilegi fiscali nell’ambito del codice civile – riteneva che la novella del 1975 comportasse una esplicita abrogazione delle norme precedenti, e che il credito di rivalsa per IVA fosse quindi assistito esclusivamente dal privilegio speciale mobiliare (o immobiliare) di cui all’art. 2758, comma 2 (o 2772, comma 3), c.c. (51). Tale seconda, più restrittiva, lettura, veniva in seguito accolta dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ribadiva in più occasioni che «il credito per rivalsa IVA, spettante al cedente di beni od al prestatore di servizi, è assistito dal solo privilegio speciale sui beni che hanno formato oggetto della cessione od ai quali si riferisce il servizio, ai sensi dell’art. 2758, 2° comma, c.c. nel testo fissato dalla l. 29 luglio 1975, n. 426, non anche dal privilegio generale di cui all’art. 18, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (modificato dall’art. 1, D.P.R. 23 dicembre 1974, n. 687), dovendosi tale norma ritenere abrogata per effetto dell’entrata in vigore della citata l. n. 426 del 1975, la quale regola compiutamente l’intera materia dei privilegi dei crediti inerenti alla suddetta imposta» (52); e trovava quindi definitiva consacrazione nella sentenza della Corte Costituzionale n. 25 del 15 febbraio 1984 (53). Sulla scorta della soluzione esegetica prevalsa, alcuni giudici di merito avevano infatti denunciato il contrasto (49) Per un’accurata ricostruzione dei termini del dibattito ved. BOZZA-SCHIAVON, L’accertamento dei crediti nel fallimento: le cause legittime di prelazione, 1992, 1089 ss., e MIGLIETTAPRANDI, op. cit., 343 ss., ove i necessari riferimenti. (50) Così, fra le altre, App. Milano 30 ottobre 1979, in Fall., 1980, 96; App. Milano 16 maggio 1979, in Dir. prat. trib., 1980, II, 282. (51) Ved. in questa direzione, fra le altre, Trib. Milano 20 gennaio 1977, in Dir. fall., 1977, II, 236; Trib. Milano 28 aprile 1977, in Boll. Trib., 1977, 1023; Trib. Milano 2 febbraio 1981, in causa Cartiere Burgo spa c. Fall. Printeco spa, inedita; Trib. Milano 16 aprile 1981, in causa Cartiere Burgo spa c. Fall. Istituto Editoriale Italiano, inedita; Trib. Torino 2 febbraio 1984, in Giur. piem., 1984, 374; Trib. Genova 20 gennaio 1982, in Giur. comm., 1983, II, 787. (52) Così Cass. 21 gennaio 1985, n. 205, in Fall., 1985, 729; conf. Cass. 23 novembre 1979, n. 6120, in Giur. comm., 1980, II, 495; Cass. 7 settembre 1984, n. 4781, in Foro it., 1985, I, 502. (53) In Foro it., 1984, I, 1804, e in Fall., 1984, 677. dottrina dell’art. 5 della legge n. 426/1975 con l’art. 3 Cost., in quanto lesivo del principio di uguaglianza, nella misura in cui tale norma apprestava una reale protezione al credito di rivalsa IVA del cedente di beni in consumabili, mentre lasciava privo di qualsiasi tutela sostanziale il cedente di beni per loro natura consumabili o di energie, essendo tali beni non rinvenibili nel patrimonio del debitore e riducendosi quindi il privilegio speciale, in tale ipotesi, ad un nudum nomen. Ma tale censura di costituzionalità veniva disattesa dalla Consulta, la quale, pur riconoscendo che «i lamentati inconvenienti indubbiamente sussistono e chiaramente derivano da uno squilibrio normativo in quanto vengono regolate in modo eguale situazioni sostanzialmente diverse», ne dichiarava l’inammissibilità, perché «se pure la situazione è quella innanzi delinata, solo il legislatore» avrebbe potuto «porvi rimedio ed assicurare, con i mezzi che crederà più idonei, il necessario equilibrio normativo», difettando al riguardo la Corte «di ogni potere di intervento». Identica sorte ha del resto seguito, in tempi più recenti, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge n. 426/1975, sollevata, sempre con riferimento all’art. 3 Cost., da Tribunale di Monza 30 luglio 2001 (54): con ordinanza n. 391 del 23 luglio 2002 (55), la Corte Costituzionale ha dichiarato infatti ancora una volta inammissibile la questione sollevata, ritenendo che «il giudice rimettente, quale giudice istruttore, non è chiamato a fare applicazione della norma censurata, essendo la causa di opposizione allo stato passivo attribuita alla cognizione del tribunale in composizione collegiale». Sebbene il problema avesse trovato così formale consacrazione, restava comunque il fatto che il giudice delle leggi non aveva affrontato nel merito la questione di costituzionalità prospettata, ed aveva anzi dato espressamente atto – come si è visto – delle incongruenze della disciplina lamentate dai giudici emittenti. Ciò spiega la ragione per cui, negli anni successivi, le Corti abbiano concentrato gli sforzi nel tentativo di «giustificare e legittimare la correttezza costituzionale della disciplina disposta dal legislatore del 1975 in ordine al riconoscimento del solo privilegio speciale in caso di cessione di beni consumabili, anche indipendentemente dalla motivazione addotta dalla Corte Costituzionale e quindi con motivazioni che superino la censura costituzionale della norma». In questa prospettiva si è così precisato che il riconoscimento del solo privilegio speciale anche al credito per rivalsa inerente a cessioni di beni immediatamente consumabili non si pone in contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost., perché la concreta inutilità di tale privilegio in detta ipotesi configura un “mero inconveniente pratico”, ovviabile evitando di anticipare la fatturazione della prestazione rispetto al pagamento dell’utente (56); e che i dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 2758, comma 2, c.c., non avevano motivo di porsi con riferimento all’art. 36 Cost., dal momento che la garanzia costituzionale tutela la determinazione del compenso, ma non anche necessariamente i mezzi per la percezione del credito in caso di inadempienza o di insolvenza del debitore (57). (54) In Fall., 2002, 75. (55) In Giur. cost., 2002, 2871. (56) In questi termini Trib. Milano 7 ottobre 1991, in Fall., 1992, 507. (57) Cass., sez. I, 13 novembre 1992, n. 12207, in Fall., 1993, 500. A eliminare ogni residuo dubbio, e a chiudere ogni discorso al riguardo, ben avrebbe potuto provvedere, da ultimo, il legislatore delegato, ove avesse dato seguito alla precisa direttiva contenuta nella legge delega n. 80/2005, il cui art. 1, comma 6, lett. c), prevedeva che «i redditi di rivalsa verso il cessionario (…) se relativi alla cessione di beni mobili, abbiano privilegio generale sui mobili con lo stesso grado di privilegio di cui all’art. 2752 e 2753 del c.c., cui tuttavia è posposto». Tale indicazione non ha tuttavia trovato alcuna attuazione del D.Lgs. n. 5/2006, a causa del «ridotto ed inspiegabilmente iniquo ambito applicativo del principio di delega, destinato, infatti, ad agevolare le sole cessioni di beni, e non anche le prestazioni di servizi» (58), e pertanto la risposta al quesito della individuazione del privilegio di cui alle argomentazioni offerte dal diritto vivente nei termini in precedenza illustrati. Ciò vale, in particolare, anche per l’onere di specificazione che incombe sul titolare del credito di rivalsa che invochi il privilegio speciale in esame. Secondo la giurisprudenza, il creditore che invochi una causa legittima di prelazione ha infatti l’onere di dimostrare non solo l’astratta natura privilegiata del credito, ma anche i presupposti necessari per il concreto esercizio del privilegio, indicando i beni che ne sono oggetto e provandone l’esistenza tra quelli assoggettati all’espropriazione (59). Ne consegue che il creditore che voglia partecipare al concorso deve, nella domanda di ammissione, indicare non solo la causa e l’entità del credito, ma anche i beni sui quali il privilegio viene fatto valere (60). In questa prospettiva, se si accerta quindi che il bene non è più nel patrimonio del fallito, il credito di rivalsa IVA va ammesso quindi in chirografo: così si è espresso, ad esempio, il Tribunale di Torino 20 novembre 2001 (61), il quale ha ritenuto che «non può essere riconosciuto il privilegio speciale di cui all’art. 2758, comma 2, c.c., quando non sia individuabile, sulla base della domanda di insinuazione del credito, il bene specifico al quale il servizio si riferisce» (62). 10.1 Il privilegio in tema di credito di rivalsa IVA dei professionisti Ai sensi dell’art. 6, comma 3, del D.P.R. n. 633/1972, «le prestazioni di servizi si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo». È opinione di chi scrive che tale disposizione sia stata introdotta nel nostro ordinamento fiscale al fine di accordare un regime agevolativo per i professionisti, i quali non hanno l’obbligo, ma la semplice facoltà di emettere la fattura non al termine del servizio prestato, (58) Così POLLIO-PAPALEO, La fiscalità nelle nuove procedure concorsuali, Milano, 2007, 306. (59) Cass. 25 luglio 1975, n. 2901, in Dir. fall., 1976, II, 89. (60) Cass. 20 marzo 1972, n. 843, in Mass. Giust. civ., 1972; Trib. Ancona 11 novembre 1992, in Dir. fall., 1993, II, 567. (61) In Fall., 2002, 685. (62) Conf. Trib. Bologna 21 giugno 2004, in Guida al dir., 2004, fasc. 34, 75; Trib. Roma 4 novembre 2002, in Giur. comm., 2003, II, 800; App. Torino 31 marzo 1988, in Fall., 1989, 336 ss., e, in dottrina, BOZZA-SCHIAVON, op. cit., 1093; in senso contrario ved. però Trib. Roma 23 luglio 1980, in Dir. fall., 1981, II, 87, per il quale «non rileva un’indagine sulla concreta esistenza dei beni gravati, perché il giudice che decide sull’ammissione del credito al passivo del fallimento deve solo tener conto della natura del credito, con le sue intrinseche connotazioni. Il problema della effettiva esistenza nella massa attiva fallimentare dei beni sui quali il privilegio va ad esercitarsi attiene al riparto, nel quale quel presupposto deve essere verificato». Boll. Trib. 17 • 2010 1285 dottrina ma, appunto, nel successivo momento di incasso dei corrispettivi. Di conseguenza si deve ritenere che il citato art. 6 del D.P.R. n. 633/1972 sia norma idonea a stabilire il momento in cui si producono gli effetti rilevanti ai fini dell’IVA (e precipuamente l’effetto di dover addebitare l’imposta per rivalsa ex art. 18 del D.P.R. n. 633/1972); non si tratta invece di una norma in grado di identificare il momento in cui ha avuto termine la prestazione del servizio. Il momento in cui ha avuto termine la prestazione del servizio deve piuttosto essere determinato secondo le usuali norme civilistiche e, quindi, nei casi in esame, è sempre da riferirsi a data antecedente la data della dichiarazione di fallimento: sono infatti i momenti in cui ha avuto origine e termine la prestazione che determinano l’ammissione del credito del professionista al passivo fallimentare al privilegio ex art. 2751-bis c.c., o in prededuzione. Alla luce di quanto esposto si deve ritenere che nessuna differenza sostanziale possa emergere nel caso in cui il servizio sia stato comunque effettuato e terminato prima della dichiarazione di fallimento, e quindi la relativa fattura del professionista sia stata emessa in data precedente la data di dichiarazione di fallimento o all’atto della riscossione di una parte o della totalità del compenso. Non si può infatti sostenere che l’emissione della fattura in pendenza della procedura di fallimento consenta di giustificare, ai sensi dell’art. 6 del D.P.R. n. 633/1972, che il servizio reso possa considerarsi terminato in pendenza della procedura concorsuale e sia quindi qualificabile un debito della massa prededucibile per l’IVA di rivalsa addebitata dallo stesso professionista. Non può infatti configurarsi in questo caso un debito della massa, visto che sono debiti della massa i debiti assunti dagli organi fallimentari subentrati al fallito nell’amministrazione e nella disponibilità dei suoi beni e possono quindi riguardare le “spese” necessarie allo svolgimento dell’esecuzione collettiva nonché l’attività del curatore in rapporto al subingresso nei contratti pendenti. Peraltro è prevalente in dottrina ed in giurisprudenza la tesi che soltanto i crediti per le prestazioni successive al subingresso fruiscano della prededuzione, mentre, al contrario, i crediti aventi titolo in prestazioni effettuate prima della dichiarazione di fallimento, anche se scadono successivamente, sono da considerarsi crediti concorsuali (fatte salve le eccezioni relative al contratto di assicurazione ed ai contratti di somministrazione). La procedura fallimentare è infatti totalmente estranea sia al rapporto professionale instauratosi, che ai sensi delle norme civilistiche ha avuto termine prima della data di dichiarazione di fallimento, sia al credito di rivalsa IVA, che non può costituire debito della massa da soddisfare in prededuzione poiché totalmente estraneo alla scelta degli organi della procedura, che non hanno mai optato per la prosecuzione e neppure per l’effettuazione dello stesso servizio (63). La mera opportunità offerta dalla legge tributaria ai professionisti di provvedere all’emissione della fattura all’atto del pagamento del corrispettivo anziché al momento di conclusione del servizio, non può essere elemento utile al cambiamento della natura del credito (63) Ved. in termini analoghi BOZZA-SCHIAVON, op. cit., 1096, nonché, in giurisprudenza, Trib. Bologna 20 aprile 1988, in Nuovo giur. civ. comm., 1989, I, 501. 1286 Boll. Trib. 17 • 2010 professionale e dell’IVA di rivalsa (64). In senso contrario si sono espresse in verità alcune corti di merito (65), che hanno ritenuto prededucibile il credito per rivalsa IVA. In realtà, ad avviso di chi scrive, la norma di cui all’art. 6 del D.P.R. n. 633/1972 non può identificare – come si è visto – il momento in cui si è concluso il servizio, ma individua soltanto a fini fiscali il momento in cui le operazioni effettuate diventano imponibili a fini IVA, e l’imposta diventa esigibile. Non può quindi dipendere dalla facoltà attribuita al professionista di emettere la propria fattura all’atto del compimento del servizio richiesto o nel momento, generalmente successivo, di incasso dei corrispettivi, l’ammissione dello stesso credito IVA in prededuzione o al chirografo. Infatti la natura del credito IVA fa comunque riferimento ad un servizio che è stato reso nell’interesse del fallito, che è stato commissionato dal fallito e che ha avuto termine prima della data di dichiarazione di fallimento, e i cui costi non possono quindi in alcun modo essere a carico della massa fallimentare in prededuzione. È evidente che se non si aderisse a tale tesi si configurerebbe una palese violazione dell’art. 3 Cost. per disparità di trattamento di situazioni giuridiche identiche: «infatti la modalità di realizzazione del credito di rivalsa nell’ambito del fallimento, dipenderebbe dalla mera circostanza di fatto, non prescritta dalla legge e rimessa alla valutazione del soggetto IVA – creditore di rivalsa della fatturazione del corrispettivo precedentemente o successivamente alla dichiarazione di fallimento; con la conseguenza che nell’ambito del medesimo fallimento due o più creditori di rivalsa IVA (situazioni giuridiche identiche) sarebbero trattati diversamente sul piano giuridico, non solo in carenza di un’espressa disposizione di legge, ma anche di qualsiasi ragionevole giustificazione, postoché la sottrazione alla regola del concorso dipenderebbe dalla mera volontà del creditore di rivalsa IVA» (66). Restano ovviamente invece ferme le norme (ved. art. 2758, comma 2, c.c.), che disciplinano il privilegio per il credito di rivalsa IVA, ma che correlano tale privilegio non al momento della fatturazione, ma alla prova dell’esistenza dei beni ai quali si è riferito il servizio svolto. I giudici di legittimità (67) hanno ribadito che il credito del professionista per rivalsa IVA non rappresenta un accessorio di quello per le corrispondenti prestazioni professionali, e ha, rispetto a quest’ultimo, una diversa collocazione ai fini dell’ammissione al passivo fallimentare in forza delle norme sulla graduazione dei privilegi. La Suprema Corte, inoltre, ha ritenuto che il credito del professionista avente ad oggetto la rivalsa per IVA dovuta relativamente a compenso per prestazione professionale svolta in favore di un imprenditore poi dichiarato fallito, ancorché la fatturazione del servizio reso ed il connesso addebito d’imposta avvenga suc(64) Cfr. Cass., sez. I, 4 giugno 1994, n. 5429, in Fall., 1995, 38. (65) Trib. Firenze 22 dicembre 1995, in Rep. Foro it., 1996, voce “Valore aggiunto (imposta)”, n. 239; Trib. Pisa 12 febbraio 1999, in il fisco, 1999, 5315; Trib. Roma 6 maggio 1999, in Foro it., 2000, I, 1413; Trib. Genova, sez. fall., comunicato del presidente Torti del 7 novembre 2001, in Fall., 2002, 1234. (66) Così Cass. n. 5429/1994, cit. (67) Cass., sez. I, 6 agosto 1993, n. 8556, in Fall., 1994, 138. dottrina cessivamente all’apertura della procedura concorsuale, costituisce, al pari del detto compenso, un debito del fallito senza che ciò implichi violazione del principio costituzionale della capacità contributiva, poiché, con la suddetta rivalsa, è soltanto autorizzato un fenomeno di traslazione dell’onere economico dell’obbligazione tributaria, restando il professionista titolare di quest’ultima, essendo stata compiuta un’operazione che, in ultima analisi, ha pur sempre determinato uno spostamento di ricchezza in suo favore (68). Nella stessa occasione la Cassazione ha altresì precisato che il credito per rivalsa IVA deve essere accertato secondo le regole del concorso, e che l’IVA di rivalsa «non è prededucibile in quanto, da un lato, il debito non può ritenersi contratto per l’amministrazione del fallimento e, dall’altro, solo occasionalmente e per scelta del creditore, può sorgere dopo il fallimento». La Suprema Corte (69) ha poi chiarito che al credito per rivalsa IVA non può essere attribuito carattere prededuttivo in quanto il diritto di rivalsa sorge nel corso della procedura fallimentare per effetto del pagamento che ne fa il curatore in esecuzione del piano di riparto con conseguente emissione di fattura, mentre i debiti di massa vanno individuati non in base al momento in cui sorge il debito, ma in base alla loro finalità, essendo essi debiti contratti dagli organi del fallimento in occasione ed in funzione della procedura concorsuale. Nello stesso ordine di idee si colloca la giurisprudenza milanese (70), e in particolare le due sentenze “gemelle” rese il 18 aprile 2005 dalla Corte di Appello di Milano nelle cause Studio legale Afferni Cespo e C., c. Fall. C.O.VE. S. scarl e Prof. G. Lombardo c. Fall. C.O.VE.S. scarl, (68) Cass. n. 5429/1994, cit. (69) Cass., sez. I, 2 febbraio 1995, n. 1227, in Fall., 1995, 1008. (70) Trib. Milano 7 giugno 2001, in Giust., 2001, 2884; Trib. Milano 2 aprile 2005, in Fall., 2005, 1198. che così hanno motivato: «Si ritiene quindi che: (a) il credito di rivalsa IVA non è prededucibile, perché l’evento generatore dello stesso si è verificato e concluso prima della dichiarazione di fallimento ed ha riguardato il fallito, perché inoltre il curatore non ha assunto alcuna obbligazione nei confronti del professionista e quindi subentra soltanto negli adempimenti relativi all’IVA e non anche nei rapporti obbligatori che ne costituiscono la fonte; (b) il privilegio del credito IVA può essere ammesso soltanto quando ricorrano le condizioni previste per l’applicazione dell’art. 2772, co. 3, o dell’art. 2758, co. 2, c.c., e tali condizioni – per giurisprudenza assolutamente concorde – non possono essere assunte come verificate dal giudice delegato, ma devono essere dimostrate dal creditore istante; (c) nel caso in cui non sussistano le condizioni per l’applicazione dell’art. 2772, co. 3, o dell’art. 2758, co. 2, c.c., ed il credito da rivalsa IVA non trovi utile collocazione in sede concorsuale, non è configurabile una fattispecie di indebito arricchimento, ai sensi dell’art. 2041 c.c., in relazione al vantaggio conseguibile dal fallimento mediante la detrazione dell’IVA di cui alla fattura, poiché tale situazione è conseguenza del sistema normativo concorsuale» (71). Dott. Bartolomeo Quatraro (71) Cfr. Cass. 1° giugno 1995, n. 6149, in Mass. Giur. it., 1995; e Cass. 26 maggio 1997, n. 4648, in Fall., 1998, 36; in senso contrario ved. però Trib. Como 6 novembre 1989, in Dir. fall., 1990, II, 555, per il quale «il credito di rivalsa per IVA del professionista nei confronti del fallimento non dà diritto a prededuzione, ma soltanto a un’azione di arricchimento senza causa, qualora ne siano provati gli estremi». Boll. Trib. 17 • 2010 1287