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art. 2752, comma 1

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art. 2752, comma 1
dottrina
LA VERIFICA DEI SINGOLI CREDITI TRIBUTARI
SOMMARIO: 1. IL PRIVILEGIO AFFERENTE LE IMPOSTE DIRETTE (ART. 2752, COMMA 1, C.C.) – 2. IL PRIVILEGIO
AFFERENTE I CREDITI IRPEF, IRPEG, ILOR, LIMITATAMENTE ALL’IMPOSTA SUI REDDITI IMMOBILIARI DI NATURA
FONDIARIA NON DETERMINABILI CATASTALMENTE; 2.1 Il privilegio afferente i crediti per le imposte sul reddito
IRPEF, IRPEG e ILOR – 3. IL PRIVILEGIO DI CUI AL SECONDO COMMA DELL’ART. 2752 c.c.; 3.1 Il privilegio dei
tributi locali (art. 2752, comma 4, c.c.); 3.2 Se il privilegio ex art. 2752, comma 4, c.c., afferisca anche ai tributi
regionali; 4. IL CREDITO RELATIVO ALLA TASSA PER LO SMALTIMENTO DEI RIFIUTI SOLIDI URBANI (TARSU)
– 5. IL CREDITO PER ICI – 6. IL PRIVILEGIO DI CUI AL COMMA 3 DELL’ART. 2752 C.C. – 7. GLI ACCESSORI
DEL CREDITO TRIBUTARIO; 7.1 Le sanzioni; 7.2 Gli interessi; 7.3 Gli interessi di mora – 8. I COMPENSI E LE
SPESE DEL CONCESSIONARIO DELLA RISCOSSIONE – 9. I CREDITI DELLO STATO NEI CONFRONTI DEL DATORE
DI LAVORO PER OMESSO VERSAMENTO DELLE RITENUTE D’ACCONTO – 10. IL PRIVILEGIO IN TEMA DI CREDITO
DI RIVALSA IVA; 10.1 Il privilegio in tema di credito di rivalsa IVA dei professionisti.
1. IL PRIVILEGIO AFFERENTE LE IMPOSTE DIRETTE
(ART. 2752, COMMA 1, C.C.)
Il comma 1 dell’art. 2752 c.c., nella formulazione previgente l’entrata in vigore del D.Lgs. 26 febbraio 1999,
n. 46, recitava come segue: «hanno privilegio generale
sui mobili del debitore i crediti dello Stato per l’imposta
sul reddito delle persone fisiche, sul reddito delle persone
giuridiche e per l’imposta locale sui redditi, limitatamente
all’imposta o alla quota di imposta non imputabile ai
redditi immobiliari e a quelli di natura fondiaria non determinabili catastalmente, iscritti nei ruoli principali, suppletivi, speciali e straordinari posti in riscossione nell’anno
in cui si procede alla esecuzione e nell’anno precedente».
Vigente tale formulazione dell’art. 2752 c.c., la dottrina (1) riteneva che due fossero le condizioni poste per
il riconoscimento del privilegio: che il credito d’imposta
risultasse iscritto in ruoli posti in riscossione nell’anno
in cui si procede alla esecuzione e nel ruolo dell’anno
precedente, e che il privilegio non superasse un certo
numero di annualità di imposta, condizione necessitata
dalla circostanza che in taluni tipi di ruolo possono
essere iscritte molteplici annualità di imposta.
Tali condizioni dovevano sussistere congiuntamente
affinché potesse riconoscersi il diritto in questione;
ognuna di esse, separatamente considerata, era infatti
condizione necessaria ma non sufficiente per il riconoscimento del privilegio.
A seguito dell’emanazione del D.Lgs. n. 46/1999, l’art.
2752, comma 1, c.c., è stato modificato come segue:
«hanno privilegio generale sui mobili del debitore i crediti dello Stato per l’imposta sul reddito delle persone
fisiche, per l’imposta sul reddito delle persone giuridiche
e per l’imposta locale sui redditi, diversi da quelli indicati nel comma 1 dell’art. 2771, iscritti nei ruoli resi
esecutivi nell’anno in cui il concessionario del sevizio di
riscossione procede o interviene nell’esecuzione e nell’anno precedente».
Mentre, quindi, nel precedente sistema di cui all’art.
2752 c.c. non vi era univocità di vedute sul momento di
“messa in riscossione dei ruoli”, poiché una parte della
dottrina riteneva che tale momento dovesse coincidere
(1) Cfr. per tutti QUATRARO-D’AMORA, Il curatore fallimentare,
Milano, 1999, 2861 ss.
con la data di dichiarazione del fallimento, e, come
sopra illustrato, la tesi maggioritaria riteneva che il
momento di messa in riscossione del ruolo fosse coincidente con il momento in cui il concessionario della
riscossione intervenisse nella procedura fallimentare.
Il legislatore, quindi, ha portato chiarezza nella interpretazione della temporalità privilegiata espressa dalla
norma in esame, attribuendo il privilegio generale ai
crediti dello Stato, in relazione al momento in cui il
concessionario della riscossione procede o interviene
nell’esecuzione.
Al fine poi di evitare un cumulo di annualità d’imposta privilegiate tale da pregiudicare, pur nel rispetto
dell’interesse pubblico, la par condicio creditorum (in
pratica la possibilità di soddisfacimento degli altri creditori), il legislatore ha limitato il periodo di esercizio del
privilegio ai due anni precedenti, due anni che devono
essere intesi – secondo l’orientamento maggioritario e
consolidato della dottrina e della giurisprudenza –, per
ogni imposta, come l’ammontare di imposta che viene
iscritta a ruolo nell’anno in cui il concessionario procede o interviene nell’esecuzione e nell’anno precedente.
L’anno di intervento deve quindi essere riferito non
alla data della sentenza dichiarativa di fallimento, ma
alla data della domanda di insinuazione al passivo.
La locuzione “nell’anno” deve inoltre essere intesa,
secondo l’opinione prevalente in dottrina, come riferita
all’arco temporale compreso nei dodici mesi successivi
al momento in cui è stata attribuita l’esecutività del
ruolo.
Nell’ipotesi di una procedura concorsuale il momento
di intervento del concessionario della riscossione non può
che coincidere con la data di deposito della domanda
per l’insinuazione del credito al passivo fallimentare.
Si ricordi inoltre che il D.Lgs. n. 46/1999 non ha solo
modificato il disposto dell’art. 2752 c.c., ma ha anche
modificato quello dell’art. 2771 c.c., il quale statuisce
ora che «il privilegio previsto al comma 1 è limitato alle
imposte iscritte nei ruoli resi esecutivi nell’anno in cui
il concessionario del servizio di riscossione procede o interviene nell’esecuzione e nell’anno precedente», e quindi
non utilizza più la precedente e nota espressione di
«ruoli (…) posti in riscossione nell’anno in cui si procede
all’esecuzione e nell’anno precedente».
Il fatto che la nuova formulazione del comma 1
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dottrina
dell’art. 27652 c.c. faccia riferimento non alla data
di dichiarazione del fallimento, ma alla data in cui il
concessionario della riscossione procede o interviene
nell’esecuzione, non deve far ritenere che si venga a
creare una ragione di privilegio differente per i crediti
tributari rispetto agli altri crediti concorsuali, dovendo
negarsi che un credito d’imposta il cui presupposto sia
posteriore alla dichiarazione di fallimento venga considerato come credito d’imposta concorsuale.
Il senso dell’art. 2752, comma 1, c.c., non è quello
dell’attribuzione, con riferimento alla data dell’insinuazione, di un privilegio, che la legge per disposizione
generale riconosce in virtù della causa del credito (e
cioè dei motivi economici, sociali o etici che il legislatore riconosce come causa giustificante della particolare
tutela adottata e che, nei crediti d’imposta, inerisce alla
natura stessa delle relative situazioni soggettive attive),
ma di individuare i limiti temporali del privilegio che
connota comunque il credito fin dal suo sorgere. In
definitiva, i crediti d’imposta previsti dall’art. 2752 c.c.,
nascono già privilegiati e, in virtù della disciplina limitativa del comma 1 dell’art. 2752 c.c., l’esattore può
perdere il privilegio se non provvede all’insinuazione nel
fallimento entro due anni dall’emissione dei ruoli (2).
2. IL PRIVILEGIO AFFERENTE I CREDITI IRPEF, IRPEG, ILOR, LIMITATAMENTE ALL’IMPOSTA SUI REDDITI IMMOBILIARI DI NATURA FONDIARIA NON DETERMINABILI CATASTALMENTE
L’art. 2771 c.c., nel testo modificato dall’art. 34 del
D.Lgs. n. 46/1999, entrato in vigore il 1° luglio 1999,
dispone:
«I crediti dello Stato per l’imposta sul reddito delle persone fisiche, per l’imposta sul reddito delle persone giuridiche e per l’imposta locale sui redditi, limitatamente all’imposta o alla quota proporzionale di imposta imputabile ai
redditi immobiliari, compresi quelli di natura fondiaria
non determinabili catastalmente, sono privilegiati sopra
gli immobili tutti del contribuente situati nel territorio
del comune in cui il tributo si riscuote e sopra i frutti, i
fitti e le pigioni degli stessi immobili, senza pregiudizio dei
mezzi speciali di esecuzione autorizzati dalla legge.
Il privilegio previsto nel primo comma è limitato alle
imposte iscritte nei ruoli resi esecutivi nell’anno in cui
il concessionario del servizio di riscossione procede o interviene all’esecuzione e nell’anno precedente.
Qualora l’accertamento del reddito iscritto a ruolo sia
stato determinato sinteticamente ai fini dell’imposta sul
reddito delle persone fisiche, la ripartizione proporzionale
dell’imposta, prevista dal primo comma, viene effettuata
sulla base dei redditi iscritti o iscrivibili ai fini dell’imposta locale sui redditi».
Il privilegio in esame riguarda i crediti dello Stato per
IRPEF, IRPEG e ILOR, limitatamente all’imposta o alla
quota di imposta imputabile ai redditi immobiliari.
L’oggetto del privilegio è costituito dai beni immobili dei contribuenti situati nel territorio del Comune in
cui il tributo si riscuote; inoltre il privilegio in esame
si esercita anche sopra i frutti, i fitti e le pigioni degli
stessi immobili. Tuttavia, qualora il privilegio si eserciti
separatamente sopra i frutti, i fitti e le pigioni degli immobili, l’art. 2778, n. 2, c.c., considera detto privilegio
come mobiliare.
(2) Si veda in questo senso, anche se in riferimento alla
previgente formulazione della norma, Cass., sez. I, 27 settembre
1996, n. 8524, in Fall., 1997, 510.
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2.1 Il privilegio afferente i crediti per le imposte sul
reddito IRPEF, IRPEG e ILOR
In tema poi di privilegio sopra determinati mobili,
l’art. 2759 c.c. stabilisce che:
«I crediti dello Stato per l’imposta sul reddito delle
persone fisiche, sul reddito le persone giuridiche e per
l’imposta locale sui redditi, dovuta per i due anni anteriori a quello in cui si procede, hanno privilegio, limitatamente all’imposta o alla quota d’imposta imputabile al
reddito d’impresa, sopra i mobili che servono all’esercizio
di imprese commerciali e sopra le merci che si trovano
nel locale adibito all’esercizio stesso o nell’abitazione dell’imprenditore.
Il privilegio si applica sui beni indicati nel comma
precedente ancorché appartenenti a persona diversa dall’imprenditore, salvo che si tratti di beni rubati o smarriti, di merci affidate all’imprenditore per la lavorazione
o di merci non ancora nazionalizzate munite di regolare
bolletta doganale.
Qualora l’accertamento del reddito iscritto a ruolo sia
stato determinato sinteticamente ai fini dell’imposta sul
reddito delle persone fisiche, la ripartizione proporzionale
dell’imposta prevista dal primo comma, viene effettuata
sulla base dei redditi iscritti o iscrivibili ai fini dell’imposta locale sui redditi».
Il privilegio in esame riguarda solo i crediti dello
Stato per IRPEF, IRPEG e ILOR dovuta per i due anni
anteriori a quello in cui si procede, limitatamente all’imposta o alla quota d’imposta imputabile al reddito
d’impresa. Si tenga presente che il termine di due anni
si riferisce alla produzione del reddito e non all’iscrizione nei ruoli.
In base all’ultimo comma dell’art. 2759 c.c. e al comma 5 dell’art. 56 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, se
l’accertamento del reddito iscritto a ruolo è stato determinato sinteticamente ai fini IRPEF, la ripartizione proporzionale dell’imposta, prevista nel primo comma dell’art. 2759 c.c., è effettuata sulla base dei redditi iscritti
o iscrivibili ai fini dell’ILOR, atteso che il maggior reddito determinato sinteticamente è considerato reddito di
capitale e quindi soggetto a tale ultimo tributo.
Per quanto riguarda i beni oggetto di privilegio, la
norma in esame si riferisce a beni mobili che servono all’esercizio dell’impresa commerciale (cioè ai beni
strumentali), ovunque essi si trovino, ed alle merci che
si trovano nel locale adibito all’esercizio della stessa o
nell’abitazione dell’imprenditore. Si ritiene che anche i
beni immateriali ed i crediti vantati dal contribuente
nei confronti dei terzi in relazione all’attività da lui
esercitata costituiscono oggetto del privilegio.
3. IL PRIVILEGIO DI CUI AL SECONDO COMMA DELL’ART. 2752 c.c.
Il D.Lgs. n. 46/1999 ha anche abrogato il comma 2
dell’art. 2752 c.c., il quale, in precedenza, stabiliva che:
«se si tratta di ruoli suppletivi, e si procede per imposte
relative a periodi d’imposta anteriori agli ultimi due, il
privilegio non può esercitarsi per un importo superiore
a quello degli ultimi due anni, qualunque sia il periodo
cui le imposte si riferiscono».
L’eliminazione del secondo comma dell’art. 2752 c.c.
deriva, in primo luogo, dalla intervenuta abrogazione
dell’iscrizione nei ruoli suppletivi, che sono stati sostituiti dai ruoli ordinari e straordinari, e, in secondo
luogo, dall’aver introdotto chiaramente, nel comma 1
della medesima norma, la limitazione del privilegio,
dottrina
per il concessionario della riscossione che procede o
interviene nell’esecuzione, solo per le imposte iscritte
nei ruoli resi esecutivi nell’anno in cui si interviene e
nell’anno precedente. Di conseguenza si deve ritenere
implicito, nell’art. 2752, comma 1, sia il vincolo dell’intervento del concessionario, sia il limite dei due periodi d’imposta che possono ottenere il privilegio di cui
all’art. 2752 c.c.
3.1 Il privilegio dei tributi locali (art. 2752, comma 4,
c.c.)
Ciò premesso, il quarto comma 4 dell’art. 2752 c.c.,
come sostituito dall’art. 33 del D.Lgs. n. 46/1999, entrato in vigore il 1° luglio 1999, stabilisce che «hanno lo
stesso privilegio, subordinatamente a quello dello Stato, i
crediti per le imposte, tasse e tributi dei comuni e delle
province previsti dalla legge per la finanza locale e dalle
norme relative all’imposta comunale sulla pubblicità e ai
diritti sulle pubbliche affissioni».
In base a tale disposizione, il privilegio che assiste
i tributi locali è identico, quindi, a quello che assiste
i tributi statali diretti, ed è pertanto soggetto al limite
biennale sancito dall’art. 2752. Tuttavia, dal momento
che molti tributi locali non vengono riscossi a mezzo
ruolo, appare in questi casi dubbio il rispetto del termine del biennio.
Si segnala in proposito che, a seguito dell’approvazione del D.Lgs. n. 46/1999, l’art. 17 del medesimo decreto
ha esteso la riscossione mediante ruolo a tutte le entrate
coattive dello Stato anche diverse dalle imposte sui redditi e a quelle degli enti pubblici previdenziali esclusi
quelli economici. Come già esplicitato, tale sistema della
riscossione tramite ruolo diviene il sistema prioritario di
riscossione delle entrate dello Stato. Ma come si è visto,
il sistema di riscossione a mezzo ruolo non è obbligatorio, ma solo facoltativo per gli enti locali: se esso viene
utilizzato, allora opera sicuramente il limite biennale
di cui all’art. 2752 c.c. In questo senso si è espresso il
Tribunale di Milano (3), che così ha argomentato:
«il comma 3 dell’art. 2752 c.c., che nel testo originario
(…) era collocato immediatamente di seguito alle disposizioni che fissavano l’estensione temporale del privilegio,
dispone che: “hanno lo stesso privilegio”, subordinatamente a quello dello Stato, i crediti per le imposte, tasse e tributi dei comuni e delle province, previsti dalla legge sulla
finanza locale, e dalle norme relative all’imposta comunale
sulla pubblicità e ai diritti sulle pubbliche affissioni.
Nessun dubbio poteva sussistere prima della novella
del 1975 sul fatto che l’espressione “hanno lo stesso privilegio” richiamasse non solo il tipo di privilegio, ma
anche l’arco temporale di applicabilità del beneficio.
La disposizione di cui al comma 2 della norma ora
citata – introdotta con l. n. 426 del 1976 – disciplina il
privilegio generale sui mobili per imposte, pene pecuniarie
e soprattasse dovute secondo le norme relative all’imposta
sul valore aggiunto. Per tali crediti privilegiati non vale,
secondo l’interpretazione largamente prevalente, il limite
temporale prescritto per il privilegio applicato ad Irpef,
Irpeg ed Ilor. Considerato che la disposizione in tema di
IVA esordisce con l’espressione “hanno altresì privilegio
generale sui mobili …” è fondato credere che essa si ponga come un’eccezione al principio generale, che limita ad
un ristretto periodo l’applicabilità del privilegio.
Non si dimentichi che – almeno riguardo alla tassa
di smaltimento dei rifiuti – l’art. 72, comma 6, d.lgs. n.
(3) Cfr. Trib. Milano 11 febbraio 2002, in Fall., 2002, 787 ss.
507 del 1993 richiama l’art. 298 t.u. finanza locale, che
applica – ai crediti in commento – il privilegio prescritto
dagli artt. 1957 e 1962 del c.c. allora vigente (1865). Va
notato che anche queste ultime disposizioni fissavano il
limite biennale del privilegio in parola.
Tenuto dunque conto del richiamo testuale ora indicato,
della collocazione originaria del comma 3 nel contesto dell’art. 2752 c.c., nonché del carattere eccezionale che riveste
l’assenza di limitazioni temporali al beneficio per crediti
Iva, ritiene il Tribunale che anche i crediti tributari di
comuni e province abbiano il privilegio solo relativamente
ai ruoli dell’anno in corso, e di quello antecedente.
In tal senso depone un’altra considerazione, che attiene
a fondamento razionale della disposizione in questione.
Si osservi, infatti, che il privilegio di cui al comma 3
dell’art. 2752 c.c. è espressamente collocato in grado subordinato rispetto a quello per i crediti dello Stato. Riesce
pertanto difficile credere – ad avviso del collegio – che
il privilegio che assiste crediti di enti locali, pur collocato in grado posteriore rispetto a quello dei crediti e per
tributi statali diretti, possa essere dotato di estensione
temporale illimitata».
Alla medesima conclusione è pervenuto ancora il Tribunale di Milano, in un’altra sentenza (4), che però ha
fatto decorrere il biennio dalla data di dichiarazione
del fallimento.
A prescindere da quanto sopra, l’interpretazione della
norma in esame è comunque oggetto di interpretazioni
contrastanti.
Secondo una prima corrente di pensiero, l’art. 2759,
comma 4, c.c., deve infatti essere interpretato in senso restrittivo, nel senso che l’espressione “legge per la
finanza locale”, ivi contenuta, debba intendersi riferita
alle sole imposte contemplate nel Testo Unico per la
finanza locale emanato con R.D. 14 settembre 1931, n.
1175, e quindi, oltre all’imposta comunale sulla pubblicità ed ai diritti sulle pubbliche affissioni (espressamente considerate dall’art. 2752, comma 4, c.c.), alla
tassa per lo smaltimento dei rifiuti ed alla tassa per
l’occupazione di spazi ed aree pubbliche (entrambe richiamate nel T.U. per la finanza locale). A fondamento di tale impostazione sono state fornite le seguenti
argomentazioni:
– se il legislatore, che è intervenuto in più di un’occasione sul testo dell’art. 2752 c.c., prima nel 1975 e
poi nel 1999, avesse inteso veramente accordare il privilegio a tutti i crediti per i tributi locali, non avrebbe
avuto senso l’ulteriore aggiunta dell’espressione “previsti
dalla legge per la finanza locale”;
– quando il legislatore ha inteso attribuire il privilegio a tributi non compresi nel Testo Unico del 1931, lo
ha fatto in modo espresso, come avvenuto per l’imposta
comunale sulla pubblicità e per i diritti di pubblica
affissione.
In questa direzione si è posta, di recente, la Suprema
Corte (5), la quale ha osservato che l’ultimo comma
dell’art. 2759 c.c. «ha inteso riferirsi ai crediti previsti
dalla legge per la finanza locale di cui al provvedimento
legislativo n. 1175 del 1931 e successive modifiche, altrimenti sarebbe inutiliter data l’ulteriore precisazione della
previsione del privilegio in parola anche per l’imposta
comunale sulla pubblicità e per i diritti sulle pubbliche
affissioni, specificazione questa non necessaria ove il ri(4) Cfr. Trib. Milano 1° aprile 2004, in Dir. fall., 2005, II, 567.
(5) Cfr. Cass., sez. trib., 29 marzo 2006, n. 7309, in Boll.
Trib. On-line.
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dottrina
ferimento alla legge per la finanza locale avesse dovuto
intendersi relativo a qualsiasi legge istitutiva d’imposta,
tassa e tributo dei comuni e delle province. In altri termini, la circostanza che il legislatore, nella norma in esame
del codice civile, abbia ben precisato l’estensione della
prelazione ad una specifica imposta comunale esclude
che il precedente richiamo alla legge per la finanza locale
possa di per sé valere ad estendere il privilegio in parola
ad imposte, tasse o tributi dei comuni e delle province
diverse da quelle ipotizzate (…).
Del resto, secondo giurisprudenza consolidata di questa Suprema Corte (cfr. per tutte Cass. S.U. 5246/93) il
regime dei privilegi, per il contenuto limitativo che esso
presenta nei confronti del debitore (e in particolare, di
quello d’imposta), non può essere interpretato in caso di
mancata previsione espressa in via analogica. Le norme
che prevedono i privilegi sono cioè di stretta interpretazione e non consentono l’estensione del privilegio alle imposte se non nelle ipotesi espressamente previste».
Una diversa corrente di pensiero applica invece estensivamente la disposizione surriportata, e ritiene che alla
locuzione normativa “legge per la finanza locale” vada
attribuito significato di genere e non di specie: il Testo
Unico per la finanza locale – si ragiona – comprende
infatti diverse leggi specifiche istitutive delle singole
imposte richiamate dall’art. 2752, ultimo comma, c.c.,
in via riassuntiva con il sostantivo reso al singolare. A
detto richiamo deve attribuirsi effetto di rinvio all’atto
astrattamente generatore dell’imposizione, non ad una
legge specifica istitutiva della singola imposta. A riprova della correttezza di detta impostazione si aggiunge
poi che se il legislatore avesse voluto operare un riferimento esplicito solo ai tributi inseriti nel corpo del
Testo Unico, allora avrebbe usato un richiamo tecnicamente più preciso, riportando gli estremi di identificazione del testo legislativo, e si sottolinea anche
un dato di carattere storico, costituito dal contenuto
della Relazione del Guardasigilli al Re che ha accompagnato la promulgazione del codice civile del 1942: in
tale relazione si legge infatti che il privilegio generale
dei tributi sia esteso (art. 2752, ultimo comma, c.c.),
subordinatamente a quello dello Stato, ai tributi degli
enti locali, “per porre in armonia il sistema del codice
con la legge sulla finanza locale”.
In altri termini, secondo tale impostazione, tutti i
tributi locali devono avere collocazione privilegiata ai
sensi del quarto comma dell’art. 2752 c.c.
Va poi opportunamente rimarcato che il privilegio
per i tributi locali spetta a condizione che i ruoli siano stati resi esecutivi nell’anno in cui il concessionario
della riscossione si insinua al passivo fallimentare e
nell’anno precedente. In tale senso depone il tenore della legge che, nell’affermare che “hanno lo stesso privilegio”, fa chiaramente riferimento al privilegio previsto
per le imposte di cui al primo comma. La formulazione
originaria della norma – prima delle modifiche apportate nel 1975 – non prevedeva infatti la disciplina del
privilegio IVA, e pertanto lo “stesso privilegio” era, ed
è, chiaramente riconducibile a quello previsto per le
imposte sui redditi (6).
3.2 Se il privilegio ex art. 2752, comma 4, c.c., afferisca
anche ai tributi regionali
Sul problema dell’applicabilità anche ai tributi regionali del privilegio previsto dall’art. 2752, comma 4, c.c.,
(6) Cfr. Trib. Milano 11 febbraio 2002, cit.
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la dottrina (7) si è espressa nei seguenti termini:
«Si discute se il privilegio generale possa esser riferito anche ai tributi regionali. La questione è certamente delicata, se si pensa che le norme sui privilegi non
sono suscettibili di integrazione analogica e se si tiene
conto, d’altra parte, che la legge finanziaria regionale (l.
16 maggio 1970, n. 281) è stata emanata vari anni prima della modifica apportata all’art. 2752, c.c. nel quale
non si fa parola dei crediti tributari della Regione. Mi
sembra, tuttavia, che si debba operare una distinzione:
rispetto alle tasse sulle concessioni regionali, alla tassa
di circolazione (ora sul possesso) di veicoli e alla tassa
per l’occupazione di spazi e aree pubbliche, gli artt. 3, 4
e 5 della L. n. 281 del 1970 rinviano, per quanto non
espressamente disposto, alle norme statali che disciplinano gli stessi tributi. Ritengo perciò che i corrispondenti
privilegi statali e provinciali possano trovare applicazione ai relativi crediti della Regione, mentre non mi par
configurabile un privilegio riferibile alle somme dovute
per imposta sulle concessioni statali del demanio e del
patrimonio indisponibile.
Neppure mi pare possibile riferire il privilegio all’imposta regionale sulle attività produttive. Vero è che l’art. 25
d.lgs. 15 dicembre 1977, n. 446 prevede che, fino a che le
Regioni non abbiano disciplinato le procedure applicative
del tributo, si applichino, per l’accertamento e la riscossione, le disposizioni proprie delle imposte erariali sui
redditi e che, per gli artt. 26 e 27, parte del gettito viene
attribuito allo Stato ed è prevista la compartecipazione
delle province e dei comuni al gettito medesimo, ma è
problematico ricondurre le norme sui privilegi alla nozione di disposizioni per l’accertamento e la riscossione
mentre la parziale attribuzione del gettito allo Stato e agli
altri enti territoriali non trasforma il tributo regionale in
un tributo erariale, comunale o provinciale».
In relazione all’IRAP diversa è l’opinione dell’Amministrazione finanziaria, che, interpretando estensivamente
(e non analogicamente) il primo comma dell’art. 2752
c.c., ha ritenuto che il credito per IRAP gode del privilegio previsto da questa norma, trattandosi di tributo
reale erariale.
Le argomentazioni fatte proprie dall’Agenzia delle entrate hanno tuttavia formato oggetto di penetranti critiche da parte della giurisprudenza di merito, la quale
ha ritenuto che i privilegi ex artt. 2752, comma 1, 2759,
comma 1, e 2771, comma 1, trovano la loro giustificazione nel rapporto di strumentalità esistente tra i beni
costituenti l’oggetto del privilegio e la produzione del
reddito gravato dall’imposta costituente l’oggetto dei crediti previsti dalle norme suindicate, ed ha concluso quindi che, non essendo l’IRAP un’imposta sul reddito, al relativo credito non può riconoscersi il privilegio generale
sui mobili previsto dall’art. 2752, comma 1, c.c., neppure
alla stregua di una sua interpretazione estensiva.
In senso opposto si è recentemente espressa, invece,
in numerose decisioni, la giurisprudenza del Tribunale
di Milano, che ha aderito alla tesi favorevole alla collocazione privilegiata del credito IRAP ai sensi dell’art.
2752, comma 4, c.c.
Il percorso della motivazione, riproposto senza variazioni sostanziali nelle varie composizioni dei colleghi
chiamati a decidere la questione, si trova da ultimo
(7) Ved. BATISTONI FERRARA, Lezioni di diritto tributario, Torino, 1993; in senso conforme, con specifico riguardo all’IRAP,
MANDRIOLI, L’IRAP nel fallimento, in Fall., 1998, 765 ss., e STASI, Profili fiscali, 1998, 353.
dottrina
così sviluppato in quattro decisioni “gemelle” rese dai
giudici milanesi in pari data (8): «l’art. 2752, comma
3, c.c., estende il privilegio generale sui mobili, subordinatamente a quello dello Stato, ai crediti per imposte,
tasse e tributi dei comuni e delle province previsti dalla
legge sulla finanza locale, nonché dalle norme relative
all’imposta comunale sulla pubblicità e ai diritti sulle
pubbliche affissioni.
Indubbiamente l’uso della predetta espressione “legge
per la finanza locale”, in senso storico sottendeva un
chiaro richiamo alle disposizioni del Testo Unico per la
finanza locale – RD 14 settembre 1931, n. 1175 – che, all’opera, rappresentava il corpus normativo organico della
materia; pertanto per le imposte, le tasse, e tributi in esso
previsti si intendeva riconosciuto a favore di Comuni e
Province, in via generale ed indifferenziata, il privilegio
stabilito dall’art. 2752 c.c.: con l’ovvia considerazione
che le Regioni all’epoca non erano ancora state istituite,
e quindi il legislatore non poteva contemplare un ente
territoriale non ancora esistente.
Proprio l’originario riferimento ad un testo normativo
nell’ambito del quale si esauriva la disciplina del settore
della finanza locale, indice il Collegio a ritenere che la
locuzione in esame non possa e non debba essere riferita
esclusivamente a quel singolo e specifico testo normativo, poiché tale dicitura contiene invece un più ampio e
generale richiamo ad una categoria omogenea di norme
organicamente afferente alla disciplina del settore della
finanza locale.
L’intendimento del legislatore è dunque stato proprio
quello di introdurre una norma idonea a garantire un
raccordo con lo sviluppo dinamico e l’evoluzione della
disciplina di settore, attraverso un riferimento a norme
successive ed ulteriori, purché ascrivibili al genio di riferimento, in quanto regolanti la finanza locale.
È allora fuori di dubbio che la disciplina istitutiva
dell’Irap – art. 3, comma 143, legge n. 662/1996 e d.lgs.
n. 446/1997 – sia da ricomprendere a pieno titolo nella
categoria omogenea di norme richiamate dall’art. 2752
cc con la locazione “legge per la finanza locale”; al riguardo è opportuno evidenziare che l’art. 15, d.lgs. n.
446/1997 prevede che “l’imposta è dovuta alla regione nel
cui territorio il valore della produzione netta è realizzato”
sicché è fuori di dubbio la ricomprensione delle norme in
esame nella categoria indicata; ed è così peraltro spiegato
il motivo del mancato espresso riconoscimento di rango
privilegiato da parte della legge istitutiva dell’Irap, poiché
a tale scopo era ed è già sufficiente ed adeguata la più
volte richiamata generale previsione dell’art. 2752 cc.
In senso contrario alle considerazioni fin qui svolte,
si è osservato che il legislatore allora non avrebbe avuto
alcuna necessità di procedere ad un espresso riconoscimento del privilegio in questione con riferimento ad altri
e diversi tributi locali, segnatamente comunali, quali la
tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche e l’imposta comunale sulla pubblicità e diritto delle pubbliche
affissioni, conformemente alle specifiche disposizioni contenute nel d.lgs. n. 507/1993, anch’esse di riordino della
finanza territoriale. Tuttavia detti riconoscimenti espliciti
non presentano un carattere tassativo, assumendo piuttosto un valore meramente ricognitivo del rango proprio
(8) Trib. Milano 28 maggio 2008, in cause Esatri Esazione
Tributi s.p.a. c. Fall. Agenzia Masi s.a.s.; Equitalia Esatri s.p.a.
c. Fal. Autocarrozzeria Jenner s.a.s.; Equitalia Esatri s.p.a. c. Fall.
Auto Linesys s.r.l.; Equitalia Esatri s.p.a. c. Fall. Nuova Edil di
Magistrelli s.n.c.
dei predetti tributi, al medesimo comunque già attribuito
dall’art. 2752 cc, in forza della interpretazione sistematica
in precedenza illustrata.
Il Tribunale osserva inoltre che l’art. 2752, comma
3, cc. nella parte in cui riconosce lo stesso privilegio,
subordinatamente a quello dello Stato, ai crediti degli
enti locali, intende richiamare lo stesso privilegio previsto dal comma 1 non solo con riferimento all’oggetto,
ma anche con riferimento alla sua estensione temporale; sarebbe infatti palesemente illogica una collocazione
subordinata del privilegio dei crediti tributari locali ai
crediti tributari dello Stato, come previsti dal comma 1,
con riferimento, rispettivamente, ad un intervallo temporale potenzialmente illimitato, per la finanza locale, e
per conto tassativamente circoscritto ai ruoli resi esecutivi nei due anni considerato al comma 1, per i crediti
fiscali dello Stato.
Peraltro questa interpretazione appare la più corretta
anche alla luce della stratificazione temporale delle norme, dato che nel testo originario il comma 3 era collocato immediatamente dopo la disposizione che stabiliva
anche la predetta estensione temporale del privilegio».
L’orientamento che assegna al credito IRAP il privilegio di cui all’art. 2752 c.c. è stato fatto proprio anche
dal Tribunale di Como (9), il quale ha enunciato che
«il riconoscimento della natura erariale dell’imposta IRAP
comporta l’attribuzione al relativo credito del privilegio
ex art. 2752, primo comma e 2759 c.c. in quanto l’art.
2752, primo comma c.c., pur facendo espresso riferimento all’Irpef, all’Irpeg (ora Ires) e all’Ilor non contiene, al
contrario di quanto previsto dall’ultimo comma per le
imposte locali, alcuna espressa limitazione (crediti per
le imposte, tasse e tributi dei comuni e delle province
previsti dalla legge per la finanza locale), ostativa ad una
interpretazione estensiva della norma».
La questione in esame ha peraltro trovato, da ultimo,
espressa soluzione normativa: l’art. 39, comma 2, del
D.L. 1° ottobre 2007, n. 159 [convertito, con modificazioni, dalla legge 29 novembre 2007, n. 222 (“Interventi
urgenti in materia economico-finanziaria, per lo sviluppo
e l’equità sociale”)], ha infatti modificato la formulazione dell’art. 2752, comma 1, c.c., inserendovi, dopo le
parole “per l’imposta sul reddito delle persone giuridiche”, anche l’IRAP, il cui credito risulta quindi assistito
dal privilegio generale sui mobili del debitore al pari
dei crediti dello Stato per IRPEF, IRPEG e ILOR.
La giurisprudenza di merito ha peraltro precisato
che, in virtù di quanto previsto dall’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale, la novella ha effetto
solo per l’avvenire, e quindi solo per i crediti sorti successivamente alla sua entrata in vigore (10).
4. IL CREDITO RELATIVO ALLA TASSA PER LO SMALTIMENTO DEI RIFIUTI SOLIDI URBANI (TARSU)
La questione della riconoscibilità o meno della natura privilegiata al credito relativo alla tassa per lo
smaltimento dei rifiuti solidi urbani (c.d. TARSU) è
stata affrontata e risolta negativamente dal Tribunale
di Monza (11), che in questi termini ha motivato:
«non vi è motivo di dubitare, in effetti, che i canoni
in questione, come entità corrispettive delle prestazioni
di sevizi che l’ente pubblico territoriale deve effettuare in
(9) Cfr. Trib. Como 2 maggio 2007, in Fall., 2008, 710.
(10) Ved. le citate Trib. Milano 28 dicembre 2007; Trib. Milano 23 maggio 2008; e Trib. Milano 28 maggio 2008.
(11) Cfr. Trib. Monza 3 dicembre 1990, in Fall., 1991, 632 ss.
Boll. Trib. 17 • 2010
1275
dottrina
ragione dei suoi compiti istituzionali, e che esso stesso
determina e quantifica autoritativamente, abbiano la dedotta natura tributaria.
A questa stregua non può che condividersi quanto
affermato dal Consiglio di Stato con il parere espresso
dalla III Sezione in data 12 giugno 1979, su richiesta
del Ministero delle Finanze, nonché quanto argomentato
dallo stesso Ministero con la circolare 10 dicembre 1981
n. 8, entrambi favorevoli all’assimilazione dei canoni di
cui alla legge “Merli” alle entrate di natura tributaria,
analoghe alle entrante comunali connesse al servizio pubblico di raccolta dei rifiuti solidi urbani.
Non può tuttavia da tale premessa trarsi in primo luogo, sic et simpliciter, la conseguenza dell’applicabilità del
privilegio generale previsto dall’art. 2752, quarto comma,
codice civile.
Tale ultima norma, infatti, è stata formulata, nel testo
attualmente in vigore, in modo assai chiaro e specifico:
essa non attribuisce indiscriminatamente e in via generale il privilegio a tutti i crediti tributari di comuni e province, ma solo a quelli “previsti dalle legge per la finanza
locale e dalle norme relative all’imposta comunale sulla
pubblicità e ai diritti sulle pubbliche affissioni”.
La formulazione letterale della norma è talmente chiara
e significativa che non appare lecito valersi di alcuna
forma di interpretazione integrativa (omissis).
Ne consegue, in conclusione, che l’assimilazione dei
canoni in parola ai tributi locali vale ai soli fini dell’accertamento, non al fine di attribuzione di una tutela
privilegiata, che non potendo peraltro estrapolarsi in via
estensiva dall’art. 2752 codice civile, in relazione al rinvio fatto da tale norma ai tributi regolati dal T.U. sulla
Finanza Locale (fra i quali non sono compresi i canoni
della legge “Merli” e non possono a fortiori farvisi rientrare retroattivamente), deve reputarsi insussistente.
Certamente una tale situazione si risolve in una carenza di tutela nei confronti di crediti che, sotto il profilo causale, appaiono meritevoli di un trattamento di
favore, come ogni altro tributo pubblico. Ma la mancata previsione di una tutela privilegiata per i canoni di
smaltimento e depurazione delle acque da insediamenti
produttivi, imputabile se si vuole, eventualmente, ad una
semplice dimenticanza legislativa o ad un pur deprecabile
difetto di coordinamento con le norme privilegiate, non
può essere emendata, per tutte le già dette ragioni, in
sede interpretativa.
Ne consegue, come inevitabile corollario, il rigetto puro
e semplice dell’opposizione e per implicito la conferma
del provvedimento già assunto dal giudice delegato».
Più di recente la soluzione negativa è stata ribadita in
giurisprudenza in relazione alla tariffa di igiene ambientale (c.d. T.I.A.), introdotta dal D.Lgs. 5 febbraio 1997,
n. 22, dovuta per l’attività di raccolta e smaltimento dei
rifiuti e composta da una quota determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio e da
una quota rapportata alla quantità di rifiuti conferiti,
al servizio fornito ed all’entità dei costi di gestione. In
questa direzione si è collocata infatti la pronuncia resa
dal Tribunale di Firenze (12), secondo la quale «l’importo dovuto per la T.I.A., Tariffa di Igiene Ambientale,
a titolo di corrispettivo delle attività di raccolta e smaltimento rifiuti, non è assistito dal privilegio di cui all’art.
2752 c.c.», non essendo «possibile estendere la portata
del terzo comma di tale norma a tributi diversi da quelli
previsti dalla legge per la finanza locale, poiché le norme
(12) Cfr. Trib. Firenze 28 maggio 2007, in www.ilcaso.it.
1276
Boll. Trib. 17 • 2010
sui privilegi rappresentano eccezioni ai principi generali e
devono essere oggetto di stretta interpretazione».
In senso contrario si è espresso invece il Tribunale
di Milano (13), il quale ha ritenuto che il credito relativo alla TARSU sia assistito da privilegio ai sensi del
comma 4 dell’art. 2752 c.c., con il limite temporale
biennale fissato dal primo comma della medesima disposizione.
5 IL CREDITO PER ICI
Come noto, l’imposta comunale sugli immobili (ICI)
è stata istituita dal D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504,
e, quindi, non è compresa nel Testo Unico per la finanza locale di cui al R.D. 14 settembre 1931, n. 1175.
Poiché il quarto comma dell’art. 2752 c.c. riconosce il
privilegio al credito dei Comuni e delle Province per
le imposte, tasse e tributi previsti dalla legge per la
finanza locale (cioè dal predetto Testo Unico), ne dovrebbe conseguire che all’ICI ed all’ICIAP non possa
essere riconosciuto il privilegio in esame.
In proposito si è rilevato infatti che, dopo l’emanazione del Testo Unico per la finanza locale, il legislatore
ha infatti attribuito espressamente il privilegio di cui
al comma quarto dell’art. 2752 c.c. ad alcuni tributi
commerciali (come l’imposta sulla pubblicità e i diritti
sulle pubbliche affissioni, la TOSAP, e la TARSU), ma
non anche all’ICI ed all’ICIAP, e che le norme attributive del privilegio non sono suscettibili di applicazione
analogica, anche perché l’art. 2752, comma 4, c.c., fa
riferimento alla “legge” (al singolare) per la finanza locale (cioè al menzionato Testo Unico del 1931), e non
alle leggi (anche successive) riguardanti la predetta finanza locale. Di questa opinione si sono dichiarate la
dottrina e la giurisprudenza di merito prevalenti (14).
Opposte sono state invece le conclusioni e le argomentazioni del Tribunale di Milano (15), e della Corte
d’Appello di Milano (16), che, movendosi nel solco già
tracciato da precedenti decisioni del Tribunale meneghino (17), hanno riconosciuto al credito ICI il privilegio ex art. 2752, ultimo comma, c.c.
(13) Cfr. Trib. Milano 5 maggio 2004, in causa Esatri c. Fall.
Trans Alpine Express s.r.l., inedita, seguito da Trib. Milano 1°
luglio 2004, in causa Comune di Magenta c. Fall. Beta 13 s.r.l.,
inedita, e dal già citato Trib. Milano 28 dicembre 2007, in causa Equitalia Esatri s.p.a. c. Fall. Bocconi Mauro Prodotti Ittici
s.r.l., pure inedita.
(14) Ved. in questo senso, in relazione all’ICI, Trib. Padova 2
maggio 2002, in Giur. mer., 2002, 1148; Trib. Gorizia 25 marzo
2004, n. 147, inedita; Trib. Milano 9 luglio 2004, in Fall., 2004,
1404; Trib. Milano 27 aprile 2005, ivi, 2006, 223; Trib. Monza 6
giugno 2005, ivi, 2005, 1413, e in Dir. fall., 2006, II, 703; Trib.
Perugia 21 gennaio 2006, in Banca Dati Utet; Trib. Bergamo 9
febbraio 2006, in Dir. prat. fall., 2006, 81 ss., con riferimento
all’ICIAP, e, sempre in termini negativi, Trib. Reggio Emilia 25
luglio 1995, in Dir. fall., 1996, II, 553; Trib. Grosseto 9 ottobre
1995, in Riv. giur. trib., 1996, 884; Trib. Perugia 12 maggio
1998, in Rass. giur. umbra, 1999, 379; Trib. Torino 13 marzo
2000, in Fall., 2000, 922; Trib. Milano 29 aprile 2002, in causa
Comune di Varazze c. Fall. COFIM, inedita; e Trib. Sulmona 18
dicembre 2003, in Fall., 2004, 580.
(15) Cfr. Trib. Milano 27 novembre 2006, in Fall., 2007,
833.
(16) Cfr. App. Milano 10 marzo 2003, in causa Fall. Arti
Grafiche di G. Pizzi & C. s.r.l. c. Comune di Peschiera Borromeo,
inedita, e riportata in massima in Fall., 2003, 1124.
(17) Ved. in particolare Trib. Milano 2 ottobre 2000, in Riv.
giur. trib., 2001, 157; Trib. Milano 1° aprile 2004, cit.; Trib. Milano 5 maggio 2004, in Fall., 2004, 1404; Trib. Milano 13 luglio
2004, ibidem; e Trib. Milano 29 dicembre 2005, in causa Comune
di Sedriano c. Fall. Edilgest Iniziative Immobiliari, inedita.
dottrina
Ad avviso del Tribunale: «indubbiamente l’uso della
predetta espressione “legge per la finanza locale”, in senso
storico, sottendeva un chiaro richiamo alle disposizioni
del Testo Unico per la finanza locale – RD 14 settembre
1931, n. 1175 – che, all’epoca, rappresentava il corpus
normativo organico della materia, pertanto, per le imposte, le tasse e tributi in essi previsti si intendeva riconosciuto a favore di Comuni e Province, in via generale e
indifferenziata, il privilegio stabilito dall’art. 2752 c.c.
Proprio l’originario riferimento ad un testo normativo
nell’ambito del quale si esauriva la disciplina del settore della finanza locale, induce il Collegio a ritenere che
la locuzione in esame non possa e non debba essere
riferita esclusivamente a quel singolo testo normativo,
poiché tale dicitura contiene invece un più ampio e generale richiamo ad una categoria omogenea di norme,
organicamente afferente alla disciplina del settore della
finanza locale.
L’intendimento del legislatore è dunque stato quello di
introdurre una norma idonea a garantire un raccordo
con lo sviluppo dinamico e l’evoluzione della disciplina
di settore, attraverso un riferimento a norme successive
ed ulteriori, purché ascrivibili al genus di riferimento, in
quanto regolanti la finanza locale.
È allora fuori di dubbio che la disciplina istitutiva
dell’ICI – D.Lgs. 20 dicembre 2002, n. 504, significativamente titolata “Riordino della finanza degli enti territoriali” – sia da ricomprendere a pieno titolo nella categoria
omogenea di norme richiamate dall’art. 2752 c.c. con la
locuzione “legge per la finanza locale”; ciò che peraltro
spiega il motivo del mancato espresso riconoscimento di
rango privilegiato da parte della legge istitutiva dell’ICI,
poiché a tale scopo era ed è già sufficiente ed adeguata
la più volte richiamata previsione dell’art. 2752 c.c.
In senso contrario alle considerazioni fin qui svolte,
si è osservato che il legislatore allora non avrebbe avuto
alcuna necessità di procedere ad un espresso riconoscimento del privilegio in esame con riferimento ad altri
e diversi tributi locali, segnatamente alla tassa per lo
smaltimento dei rifiuti solidi urbani, alla tasse per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche e all’imposta comunale sulla pubblicità e diritto delle pubbliche affissioni,
conformemente alle specifiche contenute nel D.Lgs. 15
novembre 1993, n. 507, anch’esse di riordino della finanza territoriale. Tuttavia detti riconoscimenti espliciti non
presentano un carattere costitutivo, assumendo piuttosto
un valore meramente ricognitivo del rango proprio dei
predetti tributi, ai medesimi comunque già attribuito dall’art. 2752 c.c., in forza della interpretazione sistemativa
in precedenza illustrata.
Peraltro, una differente lettura dell’art. 2752 c.c., fondata su un diverso e più ristretto significato della locuzione
“legge per la finanza locale”, determinerebbe, in ipotesi
l’esclusione del privilegio per il tributo – appunto l’ICI
– che per entità di gettito concorre, più di ogni altra
fonte tributaria, ad assicurare il “finanziamento” dei Comuni e, quindi, in ultima analisi a garantire da parte
dell’ente territoriale la tutela di quegli interessi generali
e pubblici, a presidio dei quali è evidentemente posta la
norma attributiva del privilegio stesso».
L’iter argomentativo e la decisione del Tribunale riprendono dichiaramene la parte motiva della menzionata pronunzia della Corte d’Appello di Milano (del 10
marzo 2003), per la quale la locuzione “legge per la
finanza locale” usata dal quarto comma dell’art. 2752
va interpretata estensivamente.
L’orientamento più liberale, fatto proprio dalle richia-
mate decisioni del distretto milanese, ha manifestato
negli ultimi anni una tendenza espansiva, come dimostra la circostanza che l’ammissione in via privilegiata
del credito ICI è stata sostenuta anche da altri Tribunali (18).
6. IL PRIVILEGIO DI CUI AL COMMA 3 DELL’ART.
2752 C.C.
I crediti dello Stato indicati dal terzo comma dell’art.
2752 c.c. sono collocati al n. 19 dell’art. 2778 c.c.
L’art. 2752 (quale risulta sostituito dell’art. 3 della legge 29 luglio 1975, n. 426) stabilisce al terzo comma che
hanno privilegio generale sui mobili del debitore i crediti dello Stato per le imposte, le pene pecuniarie e le
soprattasse dovute secondo le norme relative all’IVA.
Detta norma riproduce quanto già disposto dal comma 3 dell’art. 62 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633,
secondo cui i crediti dello Stato per le imposte, le pene
pecuniarie e le soprattasse dovute ai sensi del decreto
istitutivo dell’IVA hanno privilegio generale sui mobili
del debitore con grado successivo a quello indicato al
n. 15 dell’art. 2778 c.c.
Soggetto attivo del privilegio in esame è lo Stato,
mentre l’oggetto del privilegio è costituito, oltre che
dall’imposta dovuta, dalle relative pene pecuniarie e
soprattasse.
A seguito della riforma del sistema sanzionatorio tributario attuata con i decreti legislativi n. 471 e n. 472
del 18 dicembre 1997, si deve ritenere – come meglio si
vedrà nel prosieguo – che in tema di IVA il privilegio di
cui al comma 3 dell’art. 2752 si estende non alle pene
pecuniarie e soprattasse, che non sono più contemplate
nel nuovo apparato sanzionatorio, ma alle sanzioni.
7. GLI ACCESSORI DEL CREDITO TRIBUTARIO
7.1 Le sanzioni
Il nuovo sistema sanzionatorio introdotto dai decreti
legislativi nn. 471, 472 e 473 del 1997, che è entrato
in vigore il 1° aprile 1998, prevede, quali accessori del
credito principale per i tributi, soltanto le sanzioni amministrative e gli interessi.
Di fatto, quindi, le sanzioni amministrative sostituiscono le precedenti soprattasse e pene pecuniarie, contemplate dalle abrogate norme tributarie, e, solo nei
casi espressamente previsti delle singole leggi, potranno
essere irrogate anche sanzioni accessorie, aventi contenuto interdittivo.
Fino all’entrata in vigore della legge di riforma del
sistema sanzionatorio tributario, era molto dibattuto in
dottrina ed in giurisprudenza il problema della qualificazione della soprattassa e delle pene pecuniarie, e
tale problema veniva sollevato proprio in ragione della
riconoscibilità o meno del medesimo privilegio del tributo a tali accessori del tributo stesso.
In sintesi, una parte della dottrina ravvisava nella
soprattassa e nelle pene pecuniarie la stessa natura
dell’imposta (o, perlomeno, l’identità di causa) ed era
quindi orientata a riconoscere loro il privilegio in applicazione del presunto principio “accessorium sequitur
principale”. Al contrario, altro settore della dottrina ten(18) E in particolare da Trib. Torino 6 luglio 2004, in Dir.
prat. trib., 2005, 1381; Trib. Rovigo 16 dicembre 2004, n. 931,
inedita; Trib. Firenze 26 gennaio 2005, in Fall., 2006; Trib.
Potenza 12 maggio 2005, in Dir. fall., 2006, II, 605; e Trib.
Palmi 7 novembre 2005, in Fall., 2006, 223.
Boll. Trib. 17 • 2010
1277
dottrina
deva a sottolineare le caratteristiche sanzionatorie e la
funzione afflittiva propria delle soprattasse e delle pene
pecuniarie, osteggiando quindi la teoria dell’identica
natura e disciplina, e facendone quindi derivare una
disciplina autonoma e, ove la legge taceva, la natura
chirografaria di tale credito (19).
Su quest’ultima posizione si era attestata anche la
giurisprudenza più recente, proprio in considerazione
del fatto che negli unici casi in cui la legge ha espressamente voluto riconoscere il privilegio alle pene pecuniarie e alle soprattasse (il caso dell’IVA, di cui all’art.
2752, comma 3 – oggi comma 2, – c.c.), la stessa legge
ha espressamente sancito l’estensione di tale privilegio,
secondo il noto principio ubi lex voluti dixit. Il principio è stato condiviso e ribadito dal Tribunale di Milano, 13 giugno 2005 (20), per il quale:
«le sopratasse per omesso versamento di tributi diretti
(….) non godono del privilegio di cui all’art. 2753 c.c.,
a differenza di quelle dovute secondo le norme relative
all’IVA, alle quali è espressamente riconosciuto; la S.C.
ha avuto modi di affermare che l’eccezionalità delle previsioni relative ai privilegi, la cui disciplina non è suscettibile di applicazione analogica, porta ad escludere che alle
soprattasse in questione possa riconoscersi il rango privilegiato attribuito a quelle per omesso versamento di IVA
(Cass. 24.1.1995, n. 838; Cass. 29.10.1994, n. 8930)».
Si deve quindi ritenere che con la riforma del sistema sanzionatorio, per quanto concerne le sanzioni
nell’ambito della procedura fallimentare, continui a
considerarsi ius receptum la tesi già prevalente in giurisprudenza. La funzione della “sanzione pecuniaria”, che
unifica ora la soprattassa e la pena pecuniaria, resta
quella afflittiva e di stimolo all’osservanza della legge,
per cui la sua natura non può essere considerata risarcitoria o meramente accessoria (e quindi assimilabile
al tributo cui inerisce) (21) .
Nello stesso senso, in tema di esclusione del privilegio
per l’importo delle sanzioni, si erano pronunziate anche
le sezioni unite della Suprema Corte (22), le quali avevano chiarito che «il privilegio sui mobili del debitore,
accordato ai crediti dello Stato per imposta sul reddito
delle persone fisiche dall’art. 2752 comma 1 (sostituito
dall’art. 3 L. 29 luglio 1975 n. 426) – non suscettibile
di applicazione analogica, data l’eccezionalità delle norme
istitutive delle cause di prelazione, – mentre si estende
agli interessi, ai sensi dell’art. 2749 c.c. e all’indennità
di mora, che assolve alla medesima funzione risarcitoria
degli interessi, non si estende, invece, in mancanza di
espressa previsione normativa (contenuta per contro nel
comma 3 del citato art. 2752 c.c. relativamente all’Iva e
nella normativa in materia di Invim, di cui al D.P.R. 26
ottobre 1972 n. 643) alle soprattasse per omesso pagamento dell’Irpef, che hanno natura non risarcitoria, ma
afflittiva, essendo esplicitamente annoverate fra le sanzioni a carico del contribuente».
Da tutto sopra esposto derivano due importanti con(19) Per una ricostruzione del dibattito ved. MIGLIETTA-PRANDI, I privilegi, Torino, 1995, 330 ss.
(20) In causa Esatri e. Fall. T.A.C. s.a.s., inedita.
(21) In questo senso, fra gli altri, PATTI, Il fallimento e le
altre procedure concorsuali, 2003, 308-309, il quale sottolinea
al riguardo i caratteri “parapenalistici” della nuova sanzione
pecuniaria; per l’ammissione in chirografo della sovrattassa
ved. altresì FORGILLO-ISERNIA-MADDALENA-MONTAPERTO, Crediti
tributari e fallimento, in Fall., 2005, 29.
(22) Cass., sez. un., 6 maggio 1993, n. 5246, in Boll. Trib.,
1993, 1078, con nota di TESAURO.
1278
Boll. Trib. 17 • 2010
seguenze:
1) al credito derivante dalla sanzione non potrà
estendersi il privilegio dell’imposta (salvo quando ciò
è espressamente previsto dalla legge: e cioè per le sanzioni riguardanti l’IVA, alle quali dovrà continuare ad
applicarsi la disposizione dettata dall’art. 2752 c.c. per
le soprattasse e le pene pecuniarie di questo tributo);
2) la sanzione diviene esigibile con il provvedimento
irrogativo della pena, che trasforma la pretesa punitiva
da potenziale ad attuale: ciò nel senso che la stessa
sanzione si deve ritenere sorta al verificarsi dell’infrazione, cioè nel momento in cui il soggetto ha assunto il
comportamento fiscalmente sanzionabile, ma tale sanzione sarà esigibile nei confronti della procedura fallimentare soltanto con il manifestarsi del provvedimento
irrogativo della pena.
7.2 Gli interessi
Il D.P.R. n. 602/1973 prevede le seguenti categorie
di interessi:
1) l’art. 20 stabilisce che «sulle imposte o sulle maggiori imposte dovute in base alla liquidazione ed al controllo
formale della dichiarazione od all’accertamento d’ufficio
si applicano, a partire dal giorno successivo a quello
di scadenza del pagamento e fino alla data di consegna
al concessionario dei ruoli nei quali tali imposte sono
iscritte, gli interessi al tasso del 5 per cento annuo».
Prima della correzione attuata dal D.Lgs. n. 46/1999,
gli interessi decorrevano dal termine di presentazione
della dichiarazione. La rettifica di tale articolo deriva
dal fatto che il termine di presentazione della dichiarazione non coincide più con il termine di pagamento dell’imposta, mentre in precedenza i due termini
coincidevano. Si ricorda infatti che, per effetto delle
modificazioni introdotte dal D.P.R. 22 luglio 1998, n.
322, per le società di capitali, ad esempio, il termine di
versamento dell’imposta scade il settimo mese successivo alla chiusura dell’esercizio, mentre il termine per
la presentazione della dichiarazione, qualora presentata
in via telematica, coincide con la fine del decimo mese
successivo alla chiusura dell’esercizio;
2) l’art. 21 dispone che «sulle somme il cui pagamento
è stato rateizzato o sospeso ai sensi dell’art. 19, comma
1, si applicano gli interessi al tasso del 6 per cento annuo. L’ammontare degli interessi dovuti è determinato
nel provvedimento con il quale viene accordata la prolungata rateazione dell’imposta ed è riscosso unitamente
all’imposta alle scadenze stabilite. I privilegi generali e
speciali che assistono le imposte sui redditi sono estesi
a tutto il periodo per il quale la rateazione è prolungata
e riguardano anche gli interessi previsti dall’art. 20 e dal
presente articolo».
Con riferimento poi alla decorrenza degli interessi
per dilazione di pagamento, si deve ritenere che gli
stessi interessi debbano essere applicati dalla data di
scadenza del termine di pagamento, se l’istanza di dilazione è stata presentata prima di tale data, e dalla
data di presentazione dell’istanza di dilazione, in tutti
casi in cui quest’ultima data sia successiva alla data
di scadenza del termine di pagamento. Se ne deduce
che, in quest’ultimo caso, il contribuente si troverà in
mora, e dovrà pertanto versare gli interessi di mora,
di cui all’art. 30 del D.P.R. n. 602/1973, dalla data di
scadenza del termine di pagamento alla data di presentazione dell’istanza di dilazione, e dovrà invece versare
gli interessi di rateazione dalla data di presentazione
dell’istanza per tutta la durata della stessa dilazione. Si
dottrina
deve inoltre ricordare che, per effetto delle modifiche
apportate al menzionato art. 21, ad opera dell’art. 2 del
D.Lgs. n. 46/1999, gli interessi per dilazione di pagamento si applicano non solo alle imposte sui redditi,
ma anche alle altre entrate tributarie: da ciò consegue
che sono soggette all’imposizione di cui all’art. 21 per
interessi di dilazione anche tutte le dilazioni di pagamento dell’IVA e dell’imposta di registro;
3) in tema di interessi per mancati o ritardati versamenti diretti, si deve segnalare che l’art. 9 è stato
abrogato dall’art. 37 del D.Lgs. n. 46/1999. Per quanto
riguarda gli interessi per mancato o ritardato versamento occorre quindi far riferimento all’art. 20 del D.P.R. n.
602/1973, alla norma circa il ravvedimento operoso (art.
13 del D.Lgs. n. 472/1997) quando questo sia il caso e
alle singole leggi di imposta. Il menzionato art. 9 prevedeva che, in caso di omesso o tardivo versamento diretto, sulle imposte non versate o versate in ritardo doveva
essere applicato l’interesse in ragione del 5% annuo con
decorrenza dal giorno successivo a quello di scadenza
e fino alla data di pagamento o della scadenza dalla
prima rata del ruolo in cui erano state iscritte le somme
non versate. Si ricorda inoltre che l’art. 20 del D.Lgs. 9
luglio 1997, n. 241, definisce nella misura pari al tasso
previsto dell’art. 9 del D.P.R. n. 602/1973, maggiorato
di un punto, e quindi nella misura complessiva del 6%
annuo, il tasso di interesse da corrispondere nei casi
di pagamenti parziali. Rimane invece ferma la sanzione
del 30% in tutti i casi di omessi o tardivi versamenti
diretti, salvo nel caso di effettuazione della procedura
di ravvedimento operoso: in quest’ultimo caso l’art. 13
del D.Lgs. n. 472/1997 prevede il calcolo degli interessi
per il ritardato o omesso pagamento nella misura del
tasso legale di interesse (attualmente pari al 3% annuo)
con maturazione giorno per giorno;
4) dispone inoltre l’art. 30 che: «decorso inutilmente
il termine previsto dall’art. 25, comma 2, sulle somme
iscritte a ruolo si applicano, a partire dalla data della
notifica della cartella e fino alla data del pagamento, gli
interessi di mora al tasso determinato annualmente con
decreto del Ministero delle Finanze con riguardo alla media dei tassi bancari attivi».
In sede fallimentare questa disposizione deve essere
posta a confronto con l’art. 55 della legge fallimentare
che, per i crediti privilegiati, consente il decorso degli
interessi al tasso legale (cioè a quello sancito dal codice
civile) e non ad altro tasso (quello previsto dalla normativa tributaria), e comunque fino alla data della vendita
dei beni gravati dal privilegio (e non fino alla data del
pagamento, come stabilito dalla normativa tributaria).
Inoltre, in sede fallimentare è consolidato il principio
per il quale non è configurabile mora debendi a carico
delle procedure concorsuali con riguardo ai crediti pecuniari ammessi al passivo fallimentare. In particolare,
la giurisprudenza della Suprema Corte afferma che non
sono dovuti interessi moratori, neppure nella forma del
risarcimento del maggior danno previsto dall’art. 1224,
comma 2, c.c., neanche con riferimento ai crediti ammessi in prededuzione per il tempo intercorso tra il
riconoscimento di detti crediti in sentenza esecutiva ed
il loro pagamento ad opera del curatore fallimentare,
atteso che nella procedura fallimentare non è concepibile una mora debendi in relazione a qualsiasi tipo di
credito, essendo incompatibile con il carattere satisfattivo della procedura concorsuale e, soprattutto, con i
tempi e le modalità previste per i pagamenti, oggetto
di attività procedimentali regolate da specifici adem-
pimenti, salvo il dovere di imprimere alla procedura
fallimentare la massima speditezza possibile in relazione ai casi concreti ed al potere di sollecitazione e di
reclamo delle parti (23).
In tema di interessi afferenti crediti tributari, nel vigore della legge fallimentare del 1942 si ponevano due
rilevanti questioni, ed in particolare:
a) se la prelazione che assiste il credito tributario
per sorte capitale si estende anche (ed in quali limiti) agli interessi successivi all’apertura della procedura
fallimentare;
b) qual è il “dies ad quem” in cui tali interessi cessano di prodursi.
I problemi ora indicati traevano origine dalla circostanza che il primo comma dell’art. 55 della legge
fallimentare, nel far salvo “quanto disposto dal comma
3 dell’art. 54 l. fall.”, richiamava, quanto all’estensione
del diritto di prelazione agli interessi, gli artt. 2788 e
2855 c.c., ma non anche l’art. 2749 c.c., che disciplina
l’estensione della prelazione agli interessi prodotti dai
crediti privilegiati.
Il mancato richiamo del predetto art. 2749 c.c. poneva quindi il problema del significato che ad esso
doveva essere attribuito. Le diverse opinioni dottrinali
sono state, spesso, disattese dalla giurisprudenza della
Suprema Corte, presso la quale si era consolidato il
principio secondo il quale «il mancato richiamo dell’art.
2749 va considerato come indice della volontà del legislatore di ottenere un trattamento differenziale per i crediti
privilegiati, rispetto a quelli pignoratizi ed ipotecari. I
crediti assistiti da privilegio, dunque, producono interessi
anche per il periodo successivo all’apertura della procedura concorsuale ma, a differenza di quelli anteriori, non
beneficiano della prelazione e vanno, quindi, ammessi al
passivo della procedura in via chirografaria. Il corso di
tali interessi cessa gradualmente e proporzionatamente in
corrispondenza della graduale liquidazione del patrimonio
mobiliare del debitore» (24).
Allo stesso modo la Suprema Corte (25) aveva deciso che, qualora l’imprenditore moroso fosse successivamente fallito, il privilegio che tutela il credito tributario per quota capitale non si estendeva agli interessi
anteriori alla dichiarazione di fallimento.
La Corte Costituzionale (26) aveva ritenuto che l’art.
54 della legge fallimentare, nella parte in cui non prevedeva la prelazione a favore degli interessi di crediti
privilegiati che fossero maturati prima della dichiarazione di fallimento, non si ponesse in contrasto con
l’art. 3 Cost.
(23) Cass., sez. I, 27 marzo 1993, n. 3728, in Fall., 1993,
1025; Cass., sez. I, 1° settembre 1995, n. 9227, ivi, 1996, 163;
Cass., sez. I, 29 ottobre 1997, n. 10639, ivi, 1998, 792; Cass.,
sez. I, 25 novembre 2003, n. 17932, in Arch. civ., 2004, 1098;
per la giurisprudenza di merito ved. Trib. Messina 11 ottobre
2005, in Fall., 2006, 97; Trib. Trapani 4 aprile 2001, in Giur.
mer., 2002, 544; Trib. Genova 14 giugno 1999, in Fall., 2000,
802; Trib. Napoli 11 giugno 1997, in Dir. fall., 1998, II, 791;
Trib. Roma 29 settembre 1993, ivi, 1994, II, 619; e Trib. Palermo 20 agosto 1991, ivi, 1992, II, 309.
(24) Così Cass. 8 marzo 1977, n. 952, in Mass. Giust. civ.,
1977; Cass. 25 ottobre 1978, n. 4838, ivi, 1978; e Cass. 9 agosto
1978, n. 3890, ibidem.
(25) Cfr. Cass., sez. I, 8 maggio 1995, n. 5020, in Foro it.,
1995, I, 2856.
(26) Corte Cost. 28 luglio 1993, n. 350, in Boll. Trib., 1993,
1490, e Corte Cost. 19 maggio 1994, n. 195, in Fall., 1994,
1231.
Boll. Trib. 17 • 2010
1279
dottrina
Solo anni più tardi (27), la Corte Costituzionale aveva
espresso il principio generale in virtù del quale, nelle
procedure concorsuali, anche gli interessi maturati sui
crediti privilegiati godono del diritto di prelazione, ritenendo «costituzionalmente illegittimo l’art. 54, comma
3, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, nella parte in cui non
richiama, ai fini dell’estensione del diritto di prelazione
degli interessi, l’art. 2749 c.c.». In proposito la Corte
aveva osservato che:
«(…) non esiste una qualsivoglia ragione giustificativa della deroga in tal modo apportata alla disciplina
codicistica e della disparità di trattamento che si viene
a determinare a danno dei creditori privilegiati in sede
di esecuzione concorsuale rispetto ai creditori privilegiati
ai quali, agendo in sede di esecuzione individuale, l’art.
2749 c.c. si applica. In proposito, non è privo di significato che in dottrina, prima del consolidarsi dell’orientamento della giurisprudenza di cui si è detto, il mancato
richiamo dell’art. 2749 c.c. fosse a tal punto ritenuto
inspiegabile, da essere imputato ad una mera svista del
legislatore. La norma denunciata risulta, dunque, nella
parte relativa al mancato richiamo dell’art. 2749 c.c., lesiva dell’art. 3 della Costituzione, ed entro tali limiti va
dichiarata costituzionalmente illegittima».
La sentenza della Corte Costituzionale aveva, da un
lato, dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’ultimo
comma dell’art. 54 della legge fallimentare, nella parte
in cui non estendeva la prelazione agli interessi dovuti
sui crediti assistiti da privilegio di cui all’art. 2749 c.c.,
ma aveva anche – e soprattutto – sancito l’uguaglianza
dell’azione proposta dal creditore sia nei casi di fallimento del debitore, con l’assunzione al privilegio degli
interessi maturati, sia nel caso dell’azione individuale
esecutiva del creditore già prevista dall’art. 2749 c.c. Al
riguardo aveva infatti chiarito che «la disciplina sostanziale delle cause legittime di prelazione nel fallimento è
modellata su quella dettata in materia del codice civile,
la quale è dunque unitariamente riferibile ai diritti dei
creditori indipendentemente dalla concorsualità o meno
della esecuzione in cui tali diritti si realizzano». La norma di cui all’art. 2749 c.c. era stata ritenuta incostituzionale, non con riferimento all’art. 36 Cost., ma con
riferimento all’art. 3, in tema di diritti soggettivi: in
altri termini, la censura di incostituzionalità aveva riguardo non al profilo oggettivo, ossia al rapporto tra
le diverse cause di prelazione, ma al profilo soggettivo
dei rapporti tra il titolare di un medesimo credito (privilegiato) e la procedura fallimentare, in considerazione
del fatto che il titolare del medesimo diritto potrebbe
trovarsi in due differenti situazioni soggettive a seconda
che agisca in sede fallimentare, e quindi senza diritto al privilegio circa il credito per interessi, ovvero in
sede esecutiva individuale, ove gli interessi del credito
potrebbero invece beneficiare del privilegio.
La circostanza, poi, che la fattispecie oggetto dell’esame del giudice remittente riguardasse interessi prefallimentari, aveva consentito alla Corte di intervenire
direttamente sull’art. 54, comma 3, della legge fallimentare, sicchè la pronuncia rivestiva una portata generale
che si estendeva anche agli interessi post fallimentari,
per effetto del richiamo a tale norma contenuto nel
successivo art. 55, comma 1, della medesima legge.
L’Agenzia delle entrate (28) aveva diffuso agli Uf(27) Cfr. Corte Cost. 28 maggio 2001, n. 162, in Boll. Trib.,
2001, 1033, con nota di BENINCASA.
(28) Con circ. n. 84/E del 15 novembre 2002, in Boll. Trib.,
1280
Boll. Trib. 17 • 2010
fici competenti le istruzioni in merito alle domande
di insinuazione al passivo, tenuto conto del grado di
privilegio, degli interessi maturati sui crediti tributari.
Riteneva in particolare, alla luce di quest’ultima interpretazione giurisprudenziale, che gli Uffici dovessero
«far valere il privilegio sugli interessi maturati sia anteriormente che successivamente all’instaurazione della
procedura concorsuale. È necessario, inoltre, far valere
la prelazione sugli interessi anche nelle ipotesi di amministrazione straordinaria stante l’espresso richiamo all’art.
54, comma 3, operato dall’art. 18, comma 1, del D.Lgs.
8 luglio 1999, n. 270 (…). Si precisa infine che la citata sentenza della Corte Cost. n. 162 del 2001 ha effetto
anche nei confronti delle procedure di liquidazione coatta
amministrativa, in quanto l’art. 201 l. fall. rinvia, tra
l’altro, alle disposizioni di cui agli artt. 54 e 55 citati».
La stessa circolare, in relazione alla misura degli interessi, precisava che «il privilegio sugli interessi, essendo
regolato anche da quanto disposto dagli art. 2855 e 2788
c.c.», potesse «maturare per il periodo successivo la data
di dichiarazione del fallimento nella misura pari al tasso
legale di interesse».
La recente riforma del diritto fallimentare, e le modifiche da questa introdotte alla disciplina degli interessi,
hanno tuttavia posto definitivamente termine al dibattito in materia, che al cospetto della nuova disciplina
ha ormai assunto un semplice valore storico.
Il D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, ha infatti riformulato
il terzo comma dell’art. 54 della legge fallimentare e,
per un verso, ha esteso il diritto di prelazione, già riservato agli interessi sui crediti pignoratizi ed ipotecari
di cui agli artt. 2788 e 2855 c.c., anche agli interessi
sui crediti pignoratizi ed ipotecari di cui agli artt. 2788
e 2855 c.c., anche agli interessi sui crediti privilegiati
di cui all’art. 2749 c.c., e ciò – come si legge nella
relazione ministeriale – al dichiarato «fine di rimediare
a quello che la dottrina e la giurisprudenza prevalenti
consideravano una mera svista del legislatore del 1942»;
per altro verso ha precisato che «per i crediti assistiti
da privilegio generale, il decorso degli interessi cessa dalla data del deposito del progetto di riparto nel quale il
credito è soddisfatto anche se parzialmente».
Come notato subito dai primi commentatori (29) la
novella del 2006 ha quindi tradotto in formula normativa i princìpi già espressi dalla Corte Costituzionale
con la citata pronuncia del 2001, sicché, nella nuova
disciplina (30):
– la prelazione che assiste il credito munito di privilegio generale (e, quindi, anche il credito tributario) per
sorte capitale si estende anche agli interessi successivi
all’apertura della procedura fallimentare;
– tali interessi, assistiti da privilegio, cessano di ridursi al momento del deposito del piano di riparto nel
quale il credito cui afferiscono è, anche parzialmente,
soddisfatto.
In relazione a tale ultimo profilo, si è notato (31),
la soluzione privilegiata dalla novella del 2006 introduce peraltro una deroga alla disciplina generale posta dall’art. 2749 c.c., perché tale disposizione estende
il privilegio agli interessi post-pignoramento fino alla
data della vendita, e non – come prevede il nuovo art.
54, comma 3, della legge fallimentare – fino all’effetti2003, 205.
(29) La Manna, 2006, 122; Lo Cascio, 2007, 352.
(30) Minutoli (3), 2007, 382 e 385.
(31) Minutoli (3), 382.
dottrina
va ripartizione del ricavato. In virtù di tale discrasia,
in ambito fallimentare potrebbe quindi realizzarsi un
possibile trattamento deteriore dei crediti assistiti da
privilegio generale, laddove questi vengano soddisfatti
– come spesso avviene – attraverso più riparti: in tale
ipotesi, infatti, «il decorso degli interessi, che per l’art.
2749 dovrebbe proseguire fino all’ultima vendita dei beni
compresi nella massa mobiliare, si arresterà prima, vale a
dire al momento del primo progetto di riparto che sia solo
in minima parte satisfattivo», e ciò per effetto di «una
scelta casuale (o consapevolmente gestita dal curatore ad
usum delphini)» che non mancherà di dare adito a possibili dubbi di costituzionalità della disciplina.
7.3 Gli interessi di mora
L’art. 61, comma 6, lett. c), del D.P.R. 28 gennaio
1988, n. 43, ha posto a carico del contribuente il pagamento «degli interessi semestrali di mora per il ritardato
pagamento delle somme iscritte a ruolo», da determinare
annualmente in base a decreto del Ministero delle finanze, con riguardo alla media dei tassi bancari attivi, così abrogando dalla sua entrata in vigore (dal 1°
gennaio 1990), a mente del disposto del secondo comma dell’art. 130, ogni altra disposizione incompatibile
con la riscossione disciplinata dal citato decreto, e in
particolare l’art. 30 del D.P.R. n. 602/1973, secondo il
quale, «decorso il termine utile per il pagamento» (decorrente dalla notifica della cartella di pagamento), «il
contribuente che non ha pagato in tutto o in parte la
rata di imposta è obbligato a corrispondere sulla somma
non pagata l’indennità di mora» in misure prefissate,
variabili in funzione del momento in cui era effettuato
il ritardato pagamento.
In tema di privilegio sull’indennità di mora prevista
dall’abrogato art. 30, si deve segnalare il consolidato
orientamento giurisprudenziale, secondo cui il privilegio di cui è fornito il credito dello Stato per tributi si
estendeva a detta indennità: in particolare, l’indennità
di mora, «ragguagliata al fatto oggettivo, dell’omesso pagamento nel termine con due tassi unici e forfetari non
ragguagliati alla durata del ritardo nella soddisfazione
del credito di imposta», costitutiva – nelle parole della
Suprema Corte – «un accessorio naturale e necessario
del tributo, come indennizzo forfetario, avente lo stesso
carattere pubblicistico del tributo stesso che fa carico all’obbligato per una causa oggettiva, indipendentemente da
ogni soggettiva valutazione del comportamento dell’obbligato e da ogni possibilità di indagine sulla imputabilità
dell’inadempimento» (32). Si trattava quindi, secondo la
giurisprudenza di legittimità, di una misura risarcitoria
avente, al pari degli interessi moratori, funzione riparatoria del danno conseguente al ritardato pagamento, e
sprovvista quindi di ogni connotato sanzionatorio (33).
Muovendo da questa premessa (34), la Suprema Cor(32) Così Cass., sez. I, 14 maggio 1997, n. 4255, in Fall.,
1998, 248.
(33) Cass., sez. I, 25 gennaio 1997, n. 780, in Fall., 1997,
1168; in senso conforme ved. fra le altre, Cass., sez. I, 29 ottobre 1994, n. 8930, in Boll. Trib., 1995, 1193; Cass., sez. I, 28
giugno 1994, n. 6214, ibidem, 1193; Cass., sez. un., 6 maggio
1993, n. 5246, ivi, 1993, 1078.
(34) Condivisa anche dalla prevalente dottrina: ved. RUISIPALERMO-PALERMO, I privilegi, Torino, 1980, 440, e BATISTONI-FERRARA, op. cit., 23, per i quali l’estensione del privilegio
all’indennità in discorso deriva direttamente dal fatto che, nel
vigente sistema di riscossione delle imposte dirette, il credito
dei concessionari in sede di assegnazione oltre all’imposta comprende anche le soprattasse, le pene pecuniarie, gli interessi e
te traeva il corollario, altrettanto consolidato, secondo
il quale l’indennità di mora doveva considerarsi sempre dovuta in caso di fallimento sia per i ruoli precedenti che per i ruoli successivi alla dichiarazione di
fallimento. In questi termini si era infatti pronunciata
ripetutamente la Corte di Cassazione (35), anche se
nutrito risultava, soprattutto presso le corti territoriali, l’indirizzo di chi propendeva per l’opposta opinione,
e negava quindi che il credito per indennità di mora
potesse essere ammesso al passivo fallimentare in relazione a tributi iscritti a ruolo dopo la dichiarazione
di fallimento (36).
Delineato il quadro interpretativo relativo alla vecchia
indennità di mora, occorre ora considerare il diverso
criterio di remunerazione per il tardivo pagamento delle imposte introdotto dall’art. 61 del D.P.R. n. 43/1988,
ed in particolare verificare se gli interessi di mora semestrali ivi previsti siano o meno assimilabili alla suddetta indennità, e ne seguano quindi il trattamento in
sede fallimentare.
Alcuni giudici di merito si sono pronunciati in termini positivi, sostenendo la piena assimilabilità delle due
figure, ed hanno affermato che «gli interessi semestrali
di mora di cui all’art. 61 del D.P.R. n. 43/1988, come
l’indennità di mora di cui al D.P.R. n. 602/1973, attesa la
loro sostanziale parificazione, rappresentano un accessorio
del tributo, di cui ne seguono le sorti, con la conseguenza
che il relativo credito è assistito dal privilegio previsto
dagli artt. 2752, 2759 e 2771, c.c.» (37). Nel medesimo
ordine di idee sembra collocarsi anche la dottrina, la
quale ha precisato che «interessi di mora e indennità
di mora, seppur strutturalmente diversi, sono istituti in
tutto assimilabili, in considerazione della funzione che
entrambi svolgono (risarcitoria del danno subito dall’Erario), commesso con il fatto oggettivo “omissione di tempestivo pagamento di somme iscritte a ruolo”» (38).
La Suprema Corte invece ha ripetutamente affermato
che al credito per interessi di mora si debba riconoscere
il privilegio anche per i periodi maturati nel corso della procedura fallimentare indipendentemente dalla sua
qualificazione come credito privilegiato o meno.
Ciò posto si possono assumere le seguenti conclusioni:
a) se il contribuente non ha pagato il tributo iscritto
in ruoli messi in riscossione prima della sua dichiarazione di fallimento, gli interessi di mora vanno ammessi al passivo del fallimento con il privilegio proprio del
tributo non pagato;
b) non vanno ammessi al passivo gli interessi di
mora, se il ruolo nel quale il tributo è iscritto viene
pubblicato e posto in riscossione dopo la dichiarazione
di fallimento del contribuente-debitore.
le indennità di mora.
(35) Ved. Cass. 29 gennaio 1977, in Giur. comm., 1976, II,
304; Cass. 20 dicembre 1978, n. 802, in Dir. fall., 1978, II,
190; Cass., sez. I, 13 dicembre 1994, n. 10619, in Mass. Foro
it., 1994; Cass., sez. I, 30 marzo 1992, n. 3878, in Corr. trib.,
1992, 1959; Cass., sez. I, 4 marzo 1994, n. 2143, in Fall., 1994,
716; e Cass. n. 780/1997, cit.
(36) Ved. fra gli altri Trib. Milano 14 maggio 1990, in Fall.,
1991, 184; Trib. Torino 26 aprile 1989, in Giur. piem., 1989,
607; Trib. Venezia 29 luglio 1988, in Fall., 1988, 684; per un
riscontro dottrinale ved. MIGLIETTA-PRANDI, op. cit., 330, e PATTI, op. cit., 310-311, ove ulteriori riferimenti.
(37) Conforme App. Torino 10 maggio 1993, in Ascotributi
rassegna, 1993, 44.
(38) Così GIAMBIANCO, in Ascotributi rivista, 1991, 545; nello
stesso ved. PATTI, op. cit., 310, il quale sottolinea la coincidenza
anche strutturale fra i due istituti.
Boll. Trib. 17 • 2010
1281
dottrina
In senso conforme a tali ipotesi, si sono espresse la
dottrina (39) e la giurisprudenza. In relazione infatti
alla problematica di ammissione al passivo degli interessi di mora in relazione ad un tributo per il quale il ruolo viene pubblicato e posto in riscossione in
data successiva la data di dichiarazione di fallimento,
il Tribunale di Genova (40) ha ritenuto che l’impossibilità per il curatore di provvedere al pagamento dei
crediti tributari, al di fuori delle ipotesi e delle procedure previste dalla legge fallimentare, libera il curatore
medesimo da qualsiasi colpa; la mancanza di colpa del
curatore libera, a sua volta, la procedura dall’obbligo
di pagamento dell’indennità di mora maturata successivamente alla dichiarazione di fallimento, oggi sostituiti
dagli interessi semestrali di mora. Se la questione non
fosse intesa in questi termini, sostiene il Tribunale di
Genova, si assisterebbe alla insostenibile prevalenza del
sistema tributario sulla disciplina fallimentare che impone invece rigidi termini e procedure per il soddisfacimento dei creditori.
D’altronde i più recenti orientamenti della Corte di
Cassazione sembrano escludere che si possa configurare
mora debendi nel corso della procedura fallimentare proprio in ragione del fatto che la procedura impone rigide
regole per il soddisfacimento graduale dei creditori.
8. I COMPENSI E LE SPESE DEL CONCESSIONARIO
DELLA RISCOSSIONE
L’art. 17, comma 1, del D.Lgs. 13 aprile 1999, n.
112, stabilisce che «l’attività degli agenti della riscossione
viene remunerata con un aggio pari al nove per cento
delle somme iscritte a ruolo riscosse; (…)».
Il 3° comma specifica che «l’aggio di cui al comma
1 è a carico del debitore: ...».
In altri termini è il “compenso” destinato a “remunerare” la complessiva attività del concessionario per
tutte le spese che esso affronta nell’intera attività di
riscossione, ivi comprese quelle attinenti all’idonea organizzazione sul territorio di mezzi e persone, e prescinde quindi dagli oneri affrontati per le attività di
esecuzione ... nei casi specifici.
Tali oneri rappresentano, in sostanza, i costi aggiuntivi e peculiari che il concessionario deve sostenere nell’ambito della sua attività organizzativa e che, se non
recuperati, finirebbero con incidere anche la misura
sensibile sul ricavo del gettito tributario.
Benché l’aggio venga per legge fatto gravare, almeno
per una percentuale, sul soggetto debitore nel caso di
mancato tempestivo pagamento del tributo (secondo
una misura proporzionale alle somme iscritte a ruolo,
determinata in via regolamentare), non può configurarsi come un credito diretto del concessionario nei
confronti del debitore perché la titolarità del diritto
relativo è dell’ente impositore, che poi procede a corrispondere i compensi medesimi al concessionario in
remunerazione dell’attività prestata.
«Il relativo credito inerisce dunque sin dall’origine –
con vincolo indisgiungibile – a quello tributario, ponendosi in rapporto di accessorietà con lo stesso e venendo
così assistito dall’identico titolo preferenziale al soddisfacimento ad esso spettante».
Il sesto comma e settimo aggiungono «al concessionario spetta il rimborso delle spese relative alle procedure
(39) Cfr. FORGILLI-ISERNIA-MADDALENA-MONTAPERTO, op. cit.,
26.
(40) Ved. Trib. Genova 14 giugno 1999, in Fall., 2000, 802.
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esecutive, sulla base di una tabella approvata con decreto
del Ministero delle finanze, con il quale sono altresì stabilite le modalità di erogazione del rimborso stesso. Tale
rimborso è a carico:
a) dell’ente creditore, se il ruolo viene annullato per
effetto di provvedimenti di sgravio o se il concessionario ha trasmesso la comunicazione di inesigibilità di cui
all’articolo 19, comma 1;
b) del debitore, negli altri casi.
In caso di delega di riscossione, i compensi, corrisposti
dall’ente creditore al delegante, sono ripartiti in via convenzionale fra il delegante ed il delegato in proporzione
ai costi da ciascuno sostenuti».
Il rimborso delle spese di remunerazione nelle procedure concorsuali spetta ai concessionari, sia perché
espressamente previsto dalla tabella sopra riportata, sia
perché il fallimento è una procedura esecutiva, sia pure
con caratteristiche particolari rispetto a quelle individuali.
È disputato se il credito in esame debba essere ammesso al passivo del fallimento in via chirografaria o
privilegiata.
Va in primo luogo premesso che il Tribunale di Milano (41), confortato da una parte della dottrina (42),
ha negato che in sede di ammissione (tempestiva o tardiva) possa essere riconosciuto al concessionario per la
riscossione un credito per spese previsto dal citato decreto ministeriale, e ciò per le seguenti considerazioni:
«la legge delega stabilisce che in caso di sgravio e di
procedure concorsuali vengano addebitate le spese effettivamente sostenute, mentre il decreto ministeriale prevede
un sistema di importi forfetizzati che inoltre per crediti superiori a L. 2.000.000 variano in proporzione delle
somme iscritte a ruolo sulla falsariga di quanto stabilisce
l’art. 17.6 cit. La circostanza che il D.M. prevede espressamente nell’allegato A al n. 5 l’istanza di insinuazione
nelle procedure concorsuali, stabilendo la somma fissa di
L. 300.000 per i crediti fino a due milioni, da aumentarsi proporzionalmente per quelli superiori, non può avere
alcuna valenza derogatoria – come attribuitagli dalla circolare di altro tribunale invocata da parte attrice – nei
confronti del disposto dell’art. 101 l.f. trattandosi di fonte
regolamentare in quanto tale di rango inferiore e quindi
inidonea a modificare una norma di legge.
Né d’altro canto, tale effetto può essere fatto discendere
dall’art. 17 del D.Lgs. n. 112/1999, che non fa alcuna
menzione delle procedure concorsuali e che, a sua volta,
non potrebbe essere così inteso – cioè come previsione di
rimborsi spese forfetizzati e proporzionali nei confronti di
dette procedure, in quanto parificate a tutte le altre procedure esecutive – a pena di contrasto con l’art. 77 Cost.
(41) Trib. Milano 13 agosto 2005, in causa Esatri c. Fall.
T.A.C. spa, inedito, seguito da Trib. Milano 7 luglio 2005, in
causa Esatri c. Fall. Sintender srl in liquidazione, inedito; Trib.
Milano 28 dicembre 2007, in causa Equitalia Esatri spa c. Fall.
Bocconi Mauro Prodotti Ittici srl, inedito; Trib. Milano 3 marzo
2008, in causa Equitalia Esatri spa c. Fall. Panificio Padani snc
di Padani Aleardo e C., inedito; Trib. Milano 7 febbraio 2008,
in causa Equitalia Esatri spa c. Fall. Edilzeta srl, inedito; Trib.
Milano 3 marzo 2008, in causa Equitalia Esatri spa c. Fall.
Milani Silvia, inedito; Trib. Milano 23 maggio 2008, in causa
Equitalia Esatri spa c. Fall. E.W.M. Euro Wiring Milan srl, inedito; Trib. Milano 28 maggio 2008, in causa Equitalia Esatri
spa c. Fall. Linesys srl; Trib. Milano 28 maggio 2008, in causa
Equitalia Esatri spa c. Fall. Auto Carrozzeria Jenner srl, inedito;
Trib. Milano 28 maggio 2008, in causa Esatri Esazione Tributi
spa, c. Fall. Agenzia Masi sas, inedito.
(42) Ved. PATTI, op. cit., 311-312.
dottrina
per eccesso di delega (come ritenuto anche dal Tribunale
di Ravenna nella sentenza del 4 febbraio 2002, S.O.R.I.T.
c. Fall. Cavi srl, citata e prodotta in copia dal Fallimento), essendo dovere per il giudice di interpretare la legge
nel senso che risulti conforme alla carta fondamentale
(c.d. interpretazione adeguatrice), dovere costantemente
affermato dalla Consulta (da ultimo, Corte Cost. 6 luglio
2004, n. 305; 28 marzo 2003, n. 91; 26 marzo 2003, n.
107), oltre che dalla giurisprudenza di legittimità (Cass.
9 agosto 2003, n. 12143; Cass. 4 luglio 2003 n. 10570,
fra le più recenti).
Lo stesso criterio ermeneutico impedisce, altresì, per
quanto attiene alle spese dell’insinuazione, un’interpretazione del combinato disposto risultante dal cit. art.
17.6 del D.Lgs. n. 112/1999 e dal D.M. n. 1120/2000
che introdurrebbe una deroga al principio di uguaglianza
sancito dall’art. 3 Cost.
Valgono in proposito le considerazioni espresse dalla
S.C. nella sentenza 19 giugno 1996, n. 5662 in relazione
all’art. 61.4 del D.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43. La sentenza esclude che tale norma possa contenere una implicita
deroga al principio dell’art. 101 l. fall., in quanto la diversa interpretazione non si sottrarrebbe a sospetti d’illegittimità, per contrasto con l’art. 3 della Costituzione. Così
si esprime la motivazione: il ritardo nell’insinuazione al
passivo del concessionario della riscossione delle imposte
non è assistito da certezza o da rilevante probabilità di
non colpevolezza, per addebitabilità al fatto altrui od al
caso fortuito, perché come può essere effetto inevitabile
delle peculiari vicende del rapporto tributario così può
derivare da semplice trascuratezza o negligenza.
L’attribuzione, in favore di detto concessionario ed a
discapito degli altri creditori, del rimborso delle spese di
insinuazione tardiva, quali che siano le ragioni del ritardo, e quindi pure nel secondo degli indicati casi, porrebbe l’art. 61 D.P.R. n. 43 del 1988 in aperto conflitto con
il precetto costituzionale dell’uguaglianza di trattamento a
parità di situazioni, dato che introdurrebbe un vantaggio
ingiustificato per un creditore autorizzandolo a ritardo,
l’intervento nella procedura fallimentare, anche per mera
inerzia, senza subirne i maggiori oneri».
A tali considerazioni merita aggiungere, per completezza, che anche nelle domande tempestive al creditore che si
insinua al passivo le spese eventualmente sostenute per la
domanda non vengono riconosciute, al di là di eventuali
spese borsuali opportunamente documentate, in considerazione del principio della cristallizzazione del passivo al
momento dell’apertura del concorso, che è uno dei cardini
del sistema fallimentare e che si desume da norme come
gli artt. 52, 55 e 59 l. fall., le quali riservano al soddisfacimento dei crediti sorti prima della dichiarazione di fallimento – mentre le attività svolte dal concessionario della
riscossione sono successive, il che vale anche per il costo
sostenuto per la notificazione delle cartelle, impropriamente definito “diritti di notifica” – il ricavato della liquidazione dei beni (cfr. Cass. 29 settembre 2004, n. 19533; Cass.
21 febbraio 2001, n. 2481; Cass. 15 giugno 2000, n. 8160;
Cass. 8 aprile 2000 n. 4484, ex plurimis)».
La legittimità della non ammissione al passivo del
c.d. “decreto esecutivo” in esame è espressamente riconosciuto dalla Esatri che così motiva:
«Come ha esattamente rilevato l’Esatri, “cosa ben diversa” è invece la disciplina del credito relativo ai c.d.
“diritti esecutivi”, previsti dal successivo comma 6 dell’art. 17 del D.Lgs. n. 112/1999, che fa riferimento al
“rimborso delle spese relative alle procedure esecutive”,
anch’esse iscritte a ruolo e poste per legge a carico del
debitore (nella misura stabilita dal D.M. 21 novembre
2000 e salvi i casi di sgravio o di inesigibilità), ma che
a differenza dell’“aggio”» – non possono essere opposte
alla massa fallimentare.
Il relativo credito si riferisce infatti agli oneri specificamente sostenuti dalla concessionaria per il recupero
coattivo del credito nel caso concreto e dunque non è
insinuabile nel passivo fallimentare in quanto violerebbe il principio della par condicio, di cui l’art. 101 della
legge fallimentare (applicabile anche al concessionario
alla riscossione) è puntuale espressione, laddove stabilisce che il creditore istante sopporta le spese conseguenti al ritardo nella presentazione della domanda.
La stessa appellante del resto riconosce la legittimità
della loro esclusione laddove, nel ricordare che «il debitore contribuente è fallito ed è stata quindi aperta una
procedura concorsuale», sottolinea che i crediti inerenti ai “diritti esecutivi” (N.d.R. evidenziati in calce agli
estratti di ruolo in atti con la dizione <spese di insinuazione … D.M. 21 novembre 2000 ex art. 17 comma
6 D.Lgs. 13 aprile 1999 n. 112>) «sono costituiti dalle
spese sostenute dalla Concessionaria per l’introduzione
della domanda di ammissione tardiva al passivo del credito tributario promosso con ricorso ex art. 101 L. Fall.
e successive occorrende».
Altre Corti ritengono invece che le somme in questione debbano essere riconosciute ed ammesse al passivo,
ma si discute se l’ammissione debba avvenire in via
privilegiata o in via chirografaria.
Secondo il Tribunale di Napoli 22 novembre 1996
(43), i crediti in esame sono assistiti dal privilegio ai
sensi dell’art. 2749, comma 1, parte prima, c.c., mentre
il Tribunale di Torino 8 maggio 1993 (44), che riconosce ai crediti da riscossione gli stessi privilegi che spettano alle imposte insinuate e ammesse, seguito dalla
dottrina (45), ha negato, in via di principio, il privilegio
ex art. 2752 c.c., sostenendo che il credito in esame
non fa parte dell’obbligazione tributaria.
9. I CREDITI DELLO STATO NEI CONFRONTI DEL DATORE DI LAVORO PER OMESSO VERSAMENTO DELLE
RITENUTE D’ACCONTO
Altro problema che si è posto all’esame dei giudici
di merito è se il credito dello Stato nei confronti del
datore di lavoro che abbia effettuato ma non abbia poi
versato le ritenute d’acconto per l’IRPEF, sia o meno
assistito dal privilegio previsto dall’art. 2752 c.c.
Al quesito ha dato risposta negativa il Tribunale di
Modena (46), sostenendo che la ritenuta d’acconto ha
una funzione meramente cautelare «a garanzia di un
debito d’imposta solo eventuale ed indeterminato», con
esclusione della fattispecie normativa della sostituzione
d’imposta nella quale il sostituto è «soggetto passivo
dell’imposta e comunque titolare dell’obbligazione tributaria derivante dalla realizzazione del presupposto», mentre
il presupposto dell’obbligazione di «ritenere alla fonte
parzialmente quando viene corrisposto» è semplicemente
«il pagamento di somme a terzi per determinati titoli
nell’intento di fornire allo Stato una mera garanzia per
(43) In Fall., 1997, 327
(44) In Fall., 1993, 1275, riformato però da App. Torino 3
maggio 1994, ivi, 1994, 1091.
(45) Cfr. FORGILLI-ISERNIA-MADDALENA-MONTAPERTO, op. cit.,
29-30.
(46) Cfr. Trib. Modena 11 settembre 1978, in Riv. dir. fin.,
1971, II, 21; conf. Trib. Modena 10 febbraio 1979, in Riv. dir.
lav., 1979, II, 550.
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dottrina
l’eventuale debito d’imposta del terzo percipiente».
Tale opinione è stata disattesa (e, a nostro avviso,
giustamente e convincentemente) in sede di gravame
(47), in base alle seguenti argomentazioni:
1) il datore di lavoro è sostituto d’imposta nell’accezione fissata dall’art. 64 del D.P.R. n. 600/1973, e
cioè un soggetto che «in forza di disposizione di legge
è obbligato al pagamento di imposta in luogo di altri,
per fatti o situazioni a questi riferibili ed anche a titolo
di acconto» (48);
2) la stessa nozione di “acconto” conferma che l’oggetto dell’obbligazione del datore di lavoro verso lo
Stato è una prestazione d’imposta, perché l’acconto è,
nella sua accezione tecnico-giuridica, un parziale adempimento preventivo;
3) essendo il datore di lavoro un sostituto d’imposta,
ed essendo dunque la sua una obbligazione tributaria,
ne consegue che il credito dello Stato derivante dal
mancato versamento delle ritenute operate dal datore
di lavoro gode del privilegio sancito dall’art. 2752 c.c.;
4) argomentando a contrariis dall’art. 35 del D.P.R.
n. 602/1973 si desume che, nei confronti dello Stato,
non vi è solidarietà tra sostituto (datore di lavoro) e
sostituito (lavoratore) nell’ipotesi in cui le ritenute siano
state effettuate ma non versate. «In questo caso, infatti,
si deve ritenere che l’obbligazione del sostituito sia rimasta estinta con il prelievo eseguito sul suo credito dal
soggetto all’uopo abilitato dalla legge per conto dell’ente
impositore. Una diversa soluzione sarebbe manifestamente
errata, oltre che iniqua, dato che, nei confronti del contribuente, il prelievo è stato regolarmente eseguito. Unico
debitore nei confronti dello Stato resta dunque, nel caso
di ritenuta operata e non versata, il sostituto. Qualora al
credito dello Stato nei suoi confronti, si negasse l’assistenza del privilegio, si verificherebbe un’altra conseguenza del
tutto ingiustificabile, perché lo Stato verrebbe spogliato
del privilegio inerente al suo credito per una circostanza
accidentale ed imputabile esclusivamente al debitore».
10. IL PRIVILEGIO IN TEMA DI CREDITO DI RIVALSA
IVA
Hanno privilegio speciale mobiliare «i crediti di rivalsa verso il cessionario ed il committente, previsti dalle
norme relative all’imposta sul valore aggiunto, sui beni
che hanno formato oggetto della cessione o ai quali si
riferisce il servizio» (art. 2758, comma 2, c.c., così come
modificato dalla legge 29 luglio 1975, n. 426).
«Eguale privilegio hanno i crediti di rivalsa, verso il
cessionario ed il committente, previsti dalle norme relative all’imposta sul valore aggiunto, sugli immobili che
hanno formato oggetto della cessione o ai quali si riferisce il servizio» (art. 2772, comma 3, c.c., così come
modificato dalla citata legge n. 426/1975).
In precedenza, la disciplina del credito di rivalsa IVA
era contenuta nell’art. 18 del D.P.R. n. 633/1972, il quale – a seguito della modifica introdotta dal D.P.R. 23
dicembre 1974, n. 687 – così disponeva: «il credito di
rivalsa (…) se è relativa alla cessione di beni mobili, ha
privilegio sulla generalità dei mobili del debitore con lo
stesso grado del privilegio generale stabilito dall’art. 2752
(47) App. Bologna 11 febbraio 1980, in Giur. comm., 1980,
II, 721; nello stesso senso, App. Bologna 8 maggio 1984, in
Fall., 1984, 1535; Cass. 23 novembre 1982, n. 6329, in Giur.
it., 1983, I, 1, 1270, e in Giust. civ., 1983, I, 812.
(48) Così anche autorevole dottrina: MICHELI, 1974, 126 ss.;
POTITO, 1978, 108 ss. e 365 ss.
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c.c., cui tuttavia è proposto».
Quindi, mentre il citato art. 18 prevedeva per i crediti di rivalsa IVA il privilegio generale mobiliare, l’art.
2758, comma 2, c.c., a seguito della novella di cui alla
legge n. 426/1975, contemplava per i medesimi crediti il privilegio speciale mobiliare. La presenza di due
norme contrastanti e successive nel tempo aveva posto
quindi agli interpreti il problema della individuazione
del tipo di privilegio che assiste i crediti di rivalsa del
cessionario o del committente, per le cessioni dei beni
mobili o per i servizi relativi agli stessi.
La questione, a lungo oggetto di vivace disputa, vide
subito fronteggiarsi due schieramenti nettamente contrapposti (49).
Secondo un primo filone interpretativo, infatti, il legislatore del 1975, nel formulare l’art. 2758, comma
2, c.c., non aveva inteso abrogare l’art. 18 del D.P.R.
n. 633/1972, e pertanto sarebbe persistito il privilegio
generale mobiliare previsto da tale norma per il credito
di rivalsa IVA (50). Di segno diametralmente opposto
era invece l’orientamento fatto proprio dalla prevalente
giurisprudenza di merito, e in particolare dal Tribunale
di Milano, che – muovendo dalla riconosciuta portata
generale della legge n. 426/1975, e all’intento sistematico del legislatore di collocare la disciplina dei privilegi
fiscali nell’ambito del codice civile – riteneva che la
novella del 1975 comportasse una esplicita abrogazione
delle norme precedenti, e che il credito di rivalsa per
IVA fosse quindi assistito esclusivamente dal privilegio
speciale mobiliare (o immobiliare) di cui all’art. 2758,
comma 2 (o 2772, comma 3), c.c. (51).
Tale seconda, più restrittiva, lettura, veniva in seguito accolta dalla giurisprudenza di legittimità, la quale
ribadiva in più occasioni che «il credito per rivalsa IVA,
spettante al cedente di beni od al prestatore di servizi, è
assistito dal solo privilegio speciale sui beni che hanno
formato oggetto della cessione od ai quali si riferisce il
servizio, ai sensi dell’art. 2758, 2° comma, c.c. nel testo
fissato dalla l. 29 luglio 1975, n. 426, non anche dal privilegio generale di cui all’art. 18, D.P.R. 26 ottobre 1972,
n. 633 (modificato dall’art. 1, D.P.R. 23 dicembre 1974,
n. 687), dovendosi tale norma ritenere abrogata per effetto
dell’entrata in vigore della citata l. n. 426 del 1975, la
quale regola compiutamente l’intera materia dei privilegi
dei crediti inerenti alla suddetta imposta» (52); e trovava quindi definitiva consacrazione nella sentenza della
Corte Costituzionale n. 25 del 15 febbraio 1984 (53).
Sulla scorta della soluzione esegetica prevalsa, alcuni
giudici di merito avevano infatti denunciato il contrasto
(49) Per un’accurata ricostruzione dei termini del dibattito
ved. BOZZA-SCHIAVON, L’accertamento dei crediti nel fallimento:
le cause legittime di prelazione, 1992, 1089 ss., e MIGLIETTAPRANDI, op. cit., 343 ss., ove i necessari riferimenti.
(50) Così, fra le altre, App. Milano 30 ottobre 1979, in Fall.,
1980, 96; App. Milano 16 maggio 1979, in Dir. prat. trib., 1980,
II, 282.
(51) Ved. in questa direzione, fra le altre, Trib. Milano 20
gennaio 1977, in Dir. fall., 1977, II, 236; Trib. Milano 28 aprile
1977, in Boll. Trib., 1977, 1023; Trib. Milano 2 febbraio 1981,
in causa Cartiere Burgo spa c. Fall. Printeco spa, inedita; Trib.
Milano 16 aprile 1981, in causa Cartiere Burgo spa c. Fall. Istituto Editoriale Italiano, inedita; Trib. Torino 2 febbraio 1984,
in Giur. piem., 1984, 374; Trib. Genova 20 gennaio 1982, in
Giur. comm., 1983, II, 787.
(52) Così Cass. 21 gennaio 1985, n. 205, in Fall., 1985, 729;
conf. Cass. 23 novembre 1979, n. 6120, in Giur. comm., 1980, II,
495; Cass. 7 settembre 1984, n. 4781, in Foro it., 1985, I, 502.
(53) In Foro it., 1984, I, 1804, e in Fall., 1984, 677.
dottrina
dell’art. 5 della legge n. 426/1975 con l’art. 3 Cost., in
quanto lesivo del principio di uguaglianza, nella misura
in cui tale norma apprestava una reale protezione al
credito di rivalsa IVA del cedente di beni in consumabili, mentre lasciava privo di qualsiasi tutela sostanziale il cedente di beni per loro natura consumabili o di
energie, essendo tali beni non rinvenibili nel patrimonio
del debitore e riducendosi quindi il privilegio speciale,
in tale ipotesi, ad un nudum nomen. Ma tale censura
di costituzionalità veniva disattesa dalla Consulta, la
quale, pur riconoscendo che «i lamentati inconvenienti
indubbiamente sussistono e chiaramente derivano da uno
squilibrio normativo in quanto vengono regolate in modo
eguale situazioni sostanzialmente diverse», ne dichiarava
l’inammissibilità, perché «se pure la situazione è quella innanzi delinata, solo il legislatore» avrebbe potuto
«porvi rimedio ed assicurare, con i mezzi che crederà più
idonei, il necessario equilibrio normativo», difettando al
riguardo la Corte «di ogni potere di intervento».
Identica sorte ha del resto seguito, in tempi più recenti, la questione di legittimità costituzionale dell’art.
5 della legge n. 426/1975, sollevata, sempre con riferimento all’art. 3 Cost., da Tribunale di Monza 30 luglio
2001 (54): con ordinanza n. 391 del 23 luglio 2002 (55),
la Corte Costituzionale ha dichiarato infatti ancora una
volta inammissibile la questione sollevata, ritenendo che
«il giudice rimettente, quale giudice istruttore, non è chiamato a fare applicazione della norma censurata, essendo
la causa di opposizione allo stato passivo attribuita alla
cognizione del tribunale in composizione collegiale».
Sebbene il problema avesse trovato così formale consacrazione, restava comunque il fatto che il giudice
delle leggi non aveva affrontato nel merito la questione di costituzionalità prospettata, ed aveva anzi dato
espressamente atto – come si è visto – delle incongruenze della disciplina lamentate dai giudici emittenti. Ciò spiega la ragione per cui, negli anni successivi,
le Corti abbiano concentrato gli sforzi nel tentativo di
«giustificare e legittimare la correttezza costituzionale della disciplina disposta dal legislatore del 1975 in ordine
al riconoscimento del solo privilegio speciale in caso di
cessione di beni consumabili, anche indipendentemente
dalla motivazione addotta dalla Corte Costituzionale e
quindi con motivazioni che superino la censura costituzionale della norma».
In questa prospettiva si è così precisato che il riconoscimento del solo privilegio speciale anche al credito
per rivalsa inerente a cessioni di beni immediatamente
consumabili non si pone in contrasto con gli artt. 3 e
53 Cost., perché la concreta inutilità di tale privilegio
in detta ipotesi configura un “mero inconveniente pratico”, ovviabile evitando di anticipare la fatturazione
della prestazione rispetto al pagamento dell’utente (56);
e che i dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 2758,
comma 2, c.c., non avevano motivo di porsi con riferimento all’art. 36 Cost., dal momento che la garanzia
costituzionale tutela la determinazione del compenso,
ma non anche necessariamente i mezzi per la percezione del credito in caso di inadempienza o di insolvenza
del debitore (57).
(54) In Fall., 2002, 75.
(55) In Giur. cost., 2002, 2871.
(56) In questi termini Trib. Milano 7 ottobre 1991, in Fall.,
1992, 507.
(57) Cass., sez. I, 13 novembre 1992, n. 12207, in Fall., 1993,
500.
A eliminare ogni residuo dubbio, e a chiudere ogni
discorso al riguardo, ben avrebbe potuto provvedere,
da ultimo, il legislatore delegato, ove avesse dato seguito alla precisa direttiva contenuta nella legge delega n.
80/2005, il cui art. 1, comma 6, lett. c), prevedeva che
«i redditi di rivalsa verso il cessionario (…) se relativi alla
cessione di beni mobili, abbiano privilegio generale sui
mobili con lo stesso grado di privilegio di cui all’art. 2752
e 2753 del c.c., cui tuttavia è posposto». Tale indicazione
non ha tuttavia trovato alcuna attuazione del D.Lgs. n.
5/2006, a causa del «ridotto ed inspiegabilmente iniquo
ambito applicativo del principio di delega, destinato, infatti, ad agevolare le sole cessioni di beni, e non anche
le prestazioni di servizi» (58), e pertanto la risposta al
quesito della individuazione del privilegio di cui alle
argomentazioni offerte dal diritto vivente nei termini
in precedenza illustrati.
Ciò vale, in particolare, anche per l’onere di specificazione che incombe sul titolare del credito di rivalsa
che invochi il privilegio speciale in esame. Secondo la
giurisprudenza, il creditore che invochi una causa legittima di prelazione ha infatti l’onere di dimostrare
non solo l’astratta natura privilegiata del credito, ma
anche i presupposti necessari per il concreto esercizio
del privilegio, indicando i beni che ne sono oggetto e
provandone l’esistenza tra quelli assoggettati all’espropriazione (59). Ne consegue che il creditore che voglia
partecipare al concorso deve, nella domanda di ammissione, indicare non solo la causa e l’entità del credito,
ma anche i beni sui quali il privilegio viene fatto valere
(60). In questa prospettiva, se si accerta quindi che
il bene non è più nel patrimonio del fallito, il credito di rivalsa IVA va ammesso quindi in chirografo:
così si è espresso, ad esempio, il Tribunale di Torino
20 novembre 2001 (61), il quale ha ritenuto che «non
può essere riconosciuto il privilegio speciale di cui all’art.
2758, comma 2, c.c., quando non sia individuabile, sulla
base della domanda di insinuazione del credito, il bene
specifico al quale il servizio si riferisce» (62).
10.1 Il privilegio in tema di credito di rivalsa IVA dei
professionisti
Ai sensi dell’art. 6, comma 3, del D.P.R. n. 633/1972,
«le prestazioni di servizi si considerano effettuate all’atto
del pagamento del corrispettivo».
È opinione di chi scrive che tale disposizione sia stata introdotta nel nostro ordinamento fiscale al fine di
accordare un regime agevolativo per i professionisti, i
quali non hanno l’obbligo, ma la semplice facoltà di
emettere la fattura non al termine del servizio prestato,
(58) Così POLLIO-PAPALEO, La fiscalità nelle nuove procedure
concorsuali, Milano, 2007, 306.
(59) Cass. 25 luglio 1975, n. 2901, in Dir. fall., 1976, II, 89.
(60) Cass. 20 marzo 1972, n. 843, in Mass. Giust. civ., 1972;
Trib. Ancona 11 novembre 1992, in Dir. fall., 1993, II, 567.
(61) In Fall., 2002, 685.
(62) Conf. Trib. Bologna 21 giugno 2004, in Guida al dir.,
2004, fasc. 34, 75; Trib. Roma 4 novembre 2002, in Giur.
comm., 2003, II, 800; App. Torino 31 marzo 1988, in Fall.,
1989, 336 ss., e, in dottrina, BOZZA-SCHIAVON, op. cit., 1093;
in senso contrario ved. però Trib. Roma 23 luglio 1980, in
Dir. fall., 1981, II, 87, per il quale «non rileva un’indagine sulla
concreta esistenza dei beni gravati, perché il giudice che decide
sull’ammissione del credito al passivo del fallimento deve solo
tener conto della natura del credito, con le sue intrinseche connotazioni. Il problema della effettiva esistenza nella massa attiva
fallimentare dei beni sui quali il privilegio va ad esercitarsi attiene al riparto, nel quale quel presupposto deve essere verificato».
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dottrina
ma, appunto, nel successivo momento di incasso dei
corrispettivi.
Di conseguenza si deve ritenere che il citato art. 6
del D.P.R. n. 633/1972 sia norma idonea a stabilire il
momento in cui si producono gli effetti rilevanti ai fini
dell’IVA (e precipuamente l’effetto di dover addebitare
l’imposta per rivalsa ex art. 18 del D.P.R. n. 633/1972);
non si tratta invece di una norma in grado di identificare il momento in cui ha avuto termine la prestazione
del servizio. Il momento in cui ha avuto termine la
prestazione del servizio deve piuttosto essere determinato secondo le usuali norme civilistiche e, quindi, nei
casi in esame, è sempre da riferirsi a data antecedente
la data della dichiarazione di fallimento: sono infatti
i momenti in cui ha avuto origine e termine la prestazione che determinano l’ammissione del credito del
professionista al passivo fallimentare al privilegio ex
art. 2751-bis c.c., o in prededuzione.
Alla luce di quanto esposto si deve ritenere che nessuna differenza sostanziale possa emergere nel caso in
cui il servizio sia stato comunque effettuato e terminato prima della dichiarazione di fallimento, e quindi
la relativa fattura del professionista sia stata emessa in
data precedente la data di dichiarazione di fallimento o
all’atto della riscossione di una parte o della totalità del
compenso. Non si può infatti sostenere che l’emissione
della fattura in pendenza della procedura di fallimento
consenta di giustificare, ai sensi dell’art. 6 del D.P.R. n.
633/1972, che il servizio reso possa considerarsi terminato in pendenza della procedura concorsuale e sia quindi qualificabile un debito della massa prededucibile per
l’IVA di rivalsa addebitata dallo stesso professionista.
Non può infatti configurarsi in questo caso un debito
della massa, visto che sono debiti della massa i debiti assunti dagli organi fallimentari subentrati al fallito
nell’amministrazione e nella disponibilità dei suoi beni
e possono quindi riguardare le “spese” necessarie allo
svolgimento dell’esecuzione collettiva nonché l’attività
del curatore in rapporto al subingresso nei contratti
pendenti.
Peraltro è prevalente in dottrina ed in giurisprudenza
la tesi che soltanto i crediti per le prestazioni successive al subingresso fruiscano della prededuzione, mentre,
al contrario, i crediti aventi titolo in prestazioni effettuate prima della dichiarazione di fallimento, anche se
scadono successivamente, sono da considerarsi crediti
concorsuali (fatte salve le eccezioni relative al contratto
di assicurazione ed ai contratti di somministrazione).
La procedura fallimentare è infatti totalmente estranea sia al rapporto professionale instauratosi, che ai
sensi delle norme civilistiche ha avuto termine prima
della data di dichiarazione di fallimento, sia al credito di rivalsa IVA, che non può costituire debito della
massa da soddisfare in prededuzione poiché totalmente
estraneo alla scelta degli organi della procedura, che
non hanno mai optato per la prosecuzione e neppure
per l’effettuazione dello stesso servizio (63).
La mera opportunità offerta dalla legge tributaria ai
professionisti di provvedere all’emissione della fattura all’atto del pagamento del corrispettivo anziché al
momento di conclusione del servizio, non può essere
elemento utile al cambiamento della natura del credito
(63) Ved. in termini analoghi BOZZA-SCHIAVON, op. cit., 1096,
nonché, in giurisprudenza, Trib. Bologna 20 aprile 1988, in
Nuovo giur. civ. comm., 1989, I, 501.
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professionale e dell’IVA di rivalsa (64).
In senso contrario si sono espresse in verità alcune
corti di merito (65), che hanno ritenuto prededucibile
il credito per rivalsa IVA.
In realtà, ad avviso di chi scrive, la norma di cui
all’art. 6 del D.P.R. n. 633/1972 non può identificare
– come si è visto – il momento in cui si è concluso il
servizio, ma individua soltanto a fini fiscali il momento
in cui le operazioni effettuate diventano imponibili a
fini IVA, e l’imposta diventa esigibile. Non può quindi
dipendere dalla facoltà attribuita al professionista di
emettere la propria fattura all’atto del compimento del
servizio richiesto o nel momento, generalmente successivo, di incasso dei corrispettivi, l’ammissione dello
stesso credito IVA in prededuzione o al chirografo.
Infatti la natura del credito IVA fa comunque riferimento ad un servizio che è stato reso nell’interesse
del fallito, che è stato commissionato dal fallito e che
ha avuto termine prima della data di dichiarazione di
fallimento, e i cui costi non possono quindi in alcun
modo essere a carico della massa fallimentare in prededuzione.
È evidente che se non si aderisse a tale tesi si configurerebbe una palese violazione dell’art. 3 Cost. per
disparità di trattamento di situazioni giuridiche identiche: «infatti la modalità di realizzazione del credito di rivalsa nell’ambito del fallimento, dipenderebbe dalla mera
circostanza di fatto, non prescritta dalla legge e rimessa
alla valutazione del soggetto IVA – creditore di rivalsa
della fatturazione del corrispettivo precedentemente o
successivamente alla dichiarazione di fallimento; con la
conseguenza che nell’ambito del medesimo fallimento due
o più creditori di rivalsa IVA (situazioni giuridiche identiche) sarebbero trattati diversamente sul piano giuridico,
non solo in carenza di un’espressa disposizione di legge,
ma anche di qualsiasi ragionevole giustificazione, postoché la sottrazione alla regola del concorso dipenderebbe
dalla mera volontà del creditore di rivalsa IVA» (66).
Restano ovviamente invece ferme le norme (ved. art.
2758, comma 2, c.c.), che disciplinano il privilegio per
il credito di rivalsa IVA, ma che correlano tale privilegio non al momento della fatturazione, ma alla prova
dell’esistenza dei beni ai quali si è riferito il servizio
svolto.
I giudici di legittimità (67) hanno ribadito che il credito del professionista per rivalsa IVA non rappresenta
un accessorio di quello per le corrispondenti prestazioni professionali, e ha, rispetto a quest’ultimo, una
diversa collocazione ai fini dell’ammissione al passivo
fallimentare in forza delle norme sulla graduazione dei
privilegi.
La Suprema Corte, inoltre, ha ritenuto che il credito del professionista avente ad oggetto la rivalsa per
IVA dovuta relativamente a compenso per prestazione
professionale svolta in favore di un imprenditore poi
dichiarato fallito, ancorché la fatturazione del servizio
reso ed il connesso addebito d’imposta avvenga suc(64) Cfr. Cass., sez. I, 4 giugno 1994, n. 5429, in Fall., 1995,
38.
(65) Trib. Firenze 22 dicembre 1995, in Rep. Foro it., 1996,
voce “Valore aggiunto (imposta)”, n. 239; Trib. Pisa 12 febbraio
1999, in il fisco, 1999, 5315; Trib. Roma 6 maggio 1999, in
Foro it., 2000, I, 1413; Trib. Genova, sez. fall., comunicato del
presidente Torti del 7 novembre 2001, in Fall., 2002, 1234.
(66) Così Cass. n. 5429/1994, cit.
(67) Cass., sez. I, 6 agosto 1993, n. 8556, in Fall., 1994,
138.
dottrina
cessivamente all’apertura della procedura concorsuale,
costituisce, al pari del detto compenso, un debito del
fallito senza che ciò implichi violazione del principio
costituzionale della capacità contributiva, poiché, con la
suddetta rivalsa, è soltanto autorizzato un fenomeno di
traslazione dell’onere economico dell’obbligazione tributaria, restando il professionista titolare di quest’ultima,
essendo stata compiuta un’operazione che, in ultima
analisi, ha pur sempre determinato uno spostamento
di ricchezza in suo favore (68).
Nella stessa occasione la Cassazione ha altresì precisato che il credito per rivalsa IVA deve essere accertato
secondo le regole del concorso, e che l’IVA di rivalsa
«non è prededucibile in quanto, da un lato, il debito
non può ritenersi contratto per l’amministrazione del fallimento e, dall’altro, solo occasionalmente e per scelta del
creditore, può sorgere dopo il fallimento».
La Suprema Corte (69) ha poi chiarito che al credito
per rivalsa IVA non può essere attribuito carattere prededuttivo in quanto il diritto di rivalsa sorge nel corso
della procedura fallimentare per effetto del pagamento
che ne fa il curatore in esecuzione del piano di riparto
con conseguente emissione di fattura, mentre i debiti di
massa vanno individuati non in base al momento in cui
sorge il debito, ma in base alla loro finalità, essendo essi
debiti contratti dagli organi del fallimento in occasione
ed in funzione della procedura concorsuale. Nello stesso ordine di idee si colloca la giurisprudenza milanese
(70), e in particolare le due sentenze “gemelle” rese il
18 aprile 2005 dalla Corte di Appello di Milano nelle
cause Studio legale Afferni Cespo e C., c. Fall. C.O.VE.
S. scarl e Prof. G. Lombardo c. Fall. C.O.VE.S. scarl,
(68) Cass. n. 5429/1994, cit.
(69) Cass., sez. I, 2 febbraio 1995, n. 1227, in Fall., 1995,
1008.
(70) Trib. Milano 7 giugno 2001, in Giust., 2001, 2884; Trib.
Milano 2 aprile 2005, in Fall., 2005, 1198.
che così hanno motivato:
«Si ritiene quindi che:
(a) il credito di rivalsa IVA non è prededucibile, perché
l’evento generatore dello stesso si è verificato e concluso
prima della dichiarazione di fallimento ed ha riguardato
il fallito, perché inoltre il curatore non ha assunto alcuna obbligazione nei confronti del professionista e quindi
subentra soltanto negli adempimenti relativi all’IVA e
non anche nei rapporti obbligatori che ne costituiscono
la fonte;
(b) il privilegio del credito IVA può essere ammesso
soltanto quando ricorrano le condizioni previste per l’applicazione dell’art. 2772, co. 3, o dell’art. 2758, co. 2,
c.c., e tali condizioni – per giurisprudenza assolutamente
concorde – non possono essere assunte come verificate
dal giudice delegato, ma devono essere dimostrate dal
creditore istante;
(c) nel caso in cui non sussistano le condizioni per
l’applicazione dell’art. 2772, co. 3, o dell’art. 2758, co. 2,
c.c., ed il credito da rivalsa IVA non trovi utile collocazione in sede concorsuale, non è configurabile una fattispecie di indebito arricchimento, ai sensi dell’art. 2041
c.c., in relazione al vantaggio conseguibile dal fallimento
mediante la detrazione dell’IVA di cui alla fattura, poiché tale situazione è conseguenza del sistema normativo
concorsuale» (71).
Dott. Bartolomeo Quatraro
(71) Cfr. Cass. 1° giugno 1995, n. 6149, in Mass. Giur. it.,
1995; e Cass. 26 maggio 1997, n. 4648, in Fall., 1998, 36; in
senso contrario ved. però Trib. Como 6 novembre 1989, in
Dir. fall., 1990, II, 555, per il quale «il credito di rivalsa per
IVA del professionista nei confronti del fallimento non dà diritto
a prededuzione, ma soltanto a un’azione di arricchimento senza
causa, qualora ne siano provati gli estremi».
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