Una buona traduzione in versi dovrebbe poter fare a meno di
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Una buona traduzione in versi dovrebbe poter fare a meno di
MICHEL ORCEL NOTA SULLA TRADUZIONE DELL’ORLANDO FURIOSO IN FRANCESE* Una buona traduzione in versi dovrebbe poter fare a meno di commenti. Avevo deciso di non “giustificarmi”, ma, come scrive Audiberti, “tous les poètes, à tel ou tel moment, se croient tenus [...] de donner leurs raisons” (“tutti i poeti, ad un certo punto, credono di essere tenuti [...] a esporre le proprie ragioni”). Ecco le mie. 1. Una traduzione in versi A partire dalle traduzioni originali, spesso inesatte ma non sprovviste di un certo fascino sia in prosa che in versi1, la maggior parte delle versioni francesi dell’Orlando è in prosa. Raramente sgradevoli, queste traduzioni del XVIII (la più nota è quella del conte di Tressan) o del XIX secolo (in questo periodo è quella di Philippon de La Madeleine che fa da padrona) s’allontanano spesso di molto dal testo originale per accentuare l’aspetto romanzesco e divertente del poema. È da questo che derivano, senza considerare le numerose interpretazioni erronee (da cui la presente traduzione non è, con ogni probabilità, esente), le mancate soluzioni delle difficoltà e, soprattutto, la riduzione dell’opera al suo schema narrativo. A mio parere, la “meno peggio” di queste esperienze è la traduzione di Francisque Reynard, pubblicata nel 1880 presso Lemerre. Tradurre un poema da poeta è quindi già una scelta. Nonostante dei bei risultati ottenuti su brevi opere romantiche (penso alle traduzioni di Heine da parte di Nerval), l’ipotesi di una traduzione in * D’accordo con l’autore si riproduce, tradotta da Marika Piva, la Note sur la traduction, del volume L’Arioste, Roland furieux, Paris, Seuil, 2000, I, pp. 6-9. 1 Si veda a questo proposito A. CIORANESCU, L’Arioste en France, 2 voll., Paris, Les Presses modernes, 1938. 51 prosa non mi è nemmeno passata per la mente. Le ragioni sono molteplici: oltre al fatto che un’opera letteraria è, ai miei occhi, una totalità formale, utilizzo qui il termine di forma nel senso aristotelico, quindi “genetico”, l’epoca dell’Orlando (poiché il “classicismo” italiano è in anticipo di un buon secolo e mezzo sul nostro), l’ampiezza e la varietà dei suoi registri poetici, e soprattutto la sua appartenenza a un genere determinato, esigevano una traduzione in versi. Bisognava, e bisogna, far sentire nel poema di Ariosto sia l’eco di una poesia orale finemente trasformata in poesia di corte, sia la sua ambiguità tra romanzo e poesia, il suo essere ciò che a ragione si chiama il “poema cavalleresco”. Paradossalmente tradurre l’Orlando in prosa avrebbe significato precludersi non soltanto la possibilità di estendere la politonalità dell’opera, ma soprattutto di comprendere perché, nelle due direzioni opposte, Tasso e Cervantes non avrebbero potuto esistere senza Ariosto. 2. La strofa Stabilito questo, ho scelto senza esitazioni di rispettare l’ottava italiana, detta stanza – da stanza in quanto “sala, camera”. Si tratta di un dettaglio di un certo peso. Non potendo riprodurre in modo identico il sistema di rime della stanza italiana – ovvero a b a b a b c c – senza incappare in una grave infedeltà semantica, ho scelto per i primi sei versi un decasillabo libero, assonanzato, o rimato quando possibile, e mi sono imposto di avvalermi, per il distico finale di ogni stanza, di una rima baciata ma obbligata, rispettando così la forma chiusa dell’originale italiano. 3. Il metro L’endecasillabo italiano, nonostante la sua denominazione, è un verso in cui è accentuata la decima sillaba (che, il più delle volte, è seguita da una sillaba muta o, per meglio dire, atona; non mi risultano, nell’Orlando furioso, esempi di verso sdrucciolo, vale a dire di un verso in cui l’accento finale è seguito da più di una sillaba atona). L’equivalente francese dell’endecasillabo italiano sarebbe dunque il nostro verso di dieci sillabe con finale femminile. Per un poema dell’epoca e dell’ampiezza dell’Orlando furioso, il decasillabo francese, 52 verso epico, peculiare della poesia francese, s’imponeva da solo. In seguito a questa scelta, ho dovuto sopprimere qua o là degli aggettivi (e numerosi articoli, adeguandomi così alla sintassi rinascimentale e alla lingua italiana), ma mi è altresì accaduto, in rari casi, di dover arricchire il testo con alcune parole di mia ispirazione. Si immaginino le sequele a cui si vede obbligato il traduttore che sceglie l’alessandrino. Ma, oltre a costringere ad ampliare incessantemente il testo, la traduzione in alessandrini è soprattutto, appare evidente, un errore sia estetico che storico. Lo si può verificare nel Roland furieux di Hector Lacoche – che per di più concatena le rime baciate come in una tragedia del XVII secolo. (Confesso comunque di aver tratto da quest’ultimo “traduttore” cinque o sei rime particolarmente riuscite). Per quanto mi riguarda, ho preso come base la cesura classica 4/6 o 6/4, autorizzandomi ad ogni modo a utilizzare accenti o pause più insolite, per adeguarmi al testo o variare la narrazione. Ma ho sistematicamente evitato la cesura 5/5, che non può intervallarsi alla cesura classica. La poesia italiana è, si sa, ricca di licenze e inversioni; ma è soprattutto dotata di una straordinaria propensione all’apocope e all’elisione, tre vocali in successione, per esempio, possono venire agglutinate in una. Per poter rispettare il metro dell’originale, ho dunque deciso, sulla scia dei miei saggi di traduzione di Michelangelo, di utilizzare, moderatamente, l’apostrofo contrattivo – che si trova nei nostri migliori autori dell’epoca, nonché in alcuni poeti più tardi. Per esempio, Guillaume Crétin: “S’amour, lors font tels cas...”; Marot: “Je suis aimé de la plus belle, / qui soit vivant’ dessoubz les cieux”; Ronsard: “S’Europe avait l’estomac...”, o “Or’, je suis glace, et ores un feu chaud”, o, ancora più esasperato: “Rasant nos champs, dites, a’ vous point veu...” (per: “n’avez-vous point vu”); Desportes: “Ce ne sont pas vos grand’s lances creusées...”; l’abate Gauchet: “Bel ouvrage de Caen: de taf’tas à gros grain” ecc. Mi sono d’altro canto rifiutato di utilizzare la cesura detta “epica”, che la presenza di una “e” muta avrebbe autorizzato – cesura ripresa da André Pézard nella sua traduzione della Divina Commedia – per non infastidire metricamente il lettore moderno. La divisione sillabica di una parola a fine verso, per quanto rara e riservata esclusivamente a parole composte, sembra straordinariamente audace ai nostri occhi di francesi. La si trova in Ariosto: “Ancor 53 ch’egli conosca che diretta-/mente a sua Maestà danno si faccia” (canto XXVIII, stanza XLI, versi 3-4); “Fece la donna di sua man le sopra-/ vesti a cui l’arme converrian più fine” (XLI, XXXII, 1-2); “Dico come vestir, come precisa-/ mente abbia a dir, come le prieghi e tenti” (XLIII, CV, 3-4). Ne ho utilizzate appena un po’ di più del mio modello. Ho generalmente seguito Richelet, e la prassi moderna, per la dieresi nelle parole come “couard”, “tuer”, che bisogna quindi considerare (non dispiaccia ai partigiani del francese del Nord) bisillabe. Per alcuni participi passati, per delle parole il cui computo sillabico è cambiato dal XIX secolo (“passion”, “silencieux” ecc.), o la cui misura varia in funzione alle pronunce geografiche (“jouir”), laddove alla prima lettura può sorgere un dubbio, ho usato la dieresi per segnalare il fenomeno. Il problema persiste per di vocaboli come “ouïr” o “Argaïl”, in cui la dieresi, obbligatoria quando si tratta di un nome comune, non è sempre significativa. Infine, mi sono conformato alla pronuncia attuale che non elide la vocale muta della parola che precede l’affermazione “oui” (es.: in “C’est Bradamante, oui...”, si conteranno sei sillabe, e non cinque, come esigerebbe in teoria l’elisione della “e” muta di Bradamente). Ringrazio in anticipo tutti i lettori che mi segnaleranno i versi errati che, nonostante le mie cure, saranno sfuggiti alla mia attenzione e a quella dei benevoli revisori della mia copia. 4. La rima Nel caso della poesia in rima, e in particolare dell’Ariosto, si può constatare che la densità vocalica caratteristica dell’italiano, associata a una disinvoltura (sprezzatura) tipica del Rinascimento, diminuisce foneticamente l’importanza della rima, il più delle volte ridotta a una rima povera, suscettibile persino di ripetizione, o basata su uno stesso radicale, una stessa forma grammaticale, o addirittura una stessa parola – tutti procedimenti prescritti dalla poesia classica e romantica francese. Mi sono il più delle volte accontentato di una rima povera, che potrebbe persino, in alcuni casi, sembrare una quasiassonanza, e mi sono richiamato (per esempio per la proibizione classica della rima tra singolare e plurale) non soltanto agli studi precoci di Verlaine, ma soprattutto ai bei testi teorici di Argon. Del resto, qualsiasi appassionato può giudicare quanto spesso la rima 54 francese sia aberrante, soddisfacendo a volte l’occhio a volte l’orecchio: perché impedirsi in effetti di accoppiare, per esempio, delle finali in “is” e “it”, quando si accetta di far rimare “repaire” con “repère”? Non mi sono avvalso che quattro o cinque volte, per necessità, della rima detta “normanna” (che fa rimare la grafia e non il suono), autorizzata dai manuali antichi. Mi sono a volte divertito, per facilitare la rima, a francesizzare alcuni nomi stranieri (si veda la parata delle truppe di Gran Bretagna nel canto X) o a sopprimere, per la soddisfazione dell’occhio, la consonante finale di una parola, come si faceva un tempo (“pié” per “pied” per esempio). Mi sono ovviamente preso più libertà (ma una libertà tutta ariostesca) nel distico finale, obbligandomi a segnalare in nota, ogni volta che mi distaccavo nettamente dalla traduzione fedele, il senso letterale dell’italiano. 5. Le licenze Oltre alle licenze a cui ho già accennato (apostrofi contrattivi e talvolta persino elisioni finali, dieresi “fluttuanti” ecc.), alla frequente francesizzazione dei nomi antichi o storici (come si praticava un tempo), alla riattivazione dei termini antichi o alla creazione di alcuni vocaboli (per questo si veda il glossario di circa trecento termini che ho costituito) e infine a un ampio margine di libertà sintattica (accordo latineggiante del verbo con il soggetto più vicino, soppressione dell’articolo piuttosto che del pronome soggetto ecc.), non mi sono negato la possibilità, per preservare il sapore ritmico dell’originale, di eliminare alcune consonanti ingombranti. Questo è il caso di Charle(s), Jule(s), Thèbe(s), ecc. Per finire ho utilizzato per i nomi propri la forma italiana originale (Ruggero), il suo equivalente francese (Roger) o una forma antica (Rogier) a mio piacimento. Si troveranno queste varianti nella tavola dei “Principali personaggi del poema”. Per la toponomastica fantastica utilizzata dall’Ariosto, ho allo stesso modo adottato, a seconda delle mie necessità, traslazioni letterali o equivalenti reali (“Arzilla” può così divenire “Arzille” o “Asilah”). 55