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N. 4/2015 - Processo Penale e Giustizia

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N. 4/2015 - Processo Penale e Giustizia
PROCESSO
PENALE
E GIUSTIZIA
4-2015
Diretta da Adolfo Scalfati
Comitato di direzione:
Ennio Amodio, Giuseppe Di Chiara, Paolo Ferrua, Giulio Garuti, Luigi Kalb,
Sergio Lorusso, Mariano Menna, Gustavo Pansini, Francesco Peroni, Giorgio Santacroce
Giudicato ed esecuzione penale
Res iudicata and execution of penal sentence
Ruolo della difesa tecnica in tema di alcooltest
Role of lawyer in alcool test
Il “periculum in mora” nel sequestro conservativo penale
The “periculum in mora” in the preventive attachment
La particolare tenuità del fatto
The new reform on diversion for minor offences
La nuova responsabilità civile dei magistrati
The new discipline of civil liability of judges
G. Giappichelli Editore – Torino
Processo penale e Giustizia: Rivista telematica bimestrale pubblicata da G. Giappichelli s.r.l. – Registrazione Tribunale di Torino n. 2/2015 – ISSN 20394527 –
Direttore Responsabile Prof. Adolfo Scalfati
PROCESSO
PENALE
E GIUSTIZIA
Diretta da Adolfo Scalfati
4-2015
Comitato di direzione:
Ennio Amodio, Giuseppe Di Chiara, Paolo Ferrua, Giulio Garuti, Luigi Kalb
Sergio Lorusso, Mariano Menna, Gustavo Pansini, Francesco Peroni, Giorgio Santacroce
G. Giappichelli Editore – Torino
© Copyright 2015 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO
VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100
http://www.giappichelli.it
Comitato di Direzione
Ennio Amodio, professore di procedura penale, Università di Milano Statale
Giuseppe Di Chiara, professore ordinario di procedura penale, Università di Palermo
Paolo Ferrua, professore ordinario di procedura penale, Università di Torino
Giulio Garuti, professore ordinario di procedura penale, Università di Modena e Reggio Emilia
Luigi Kalb, professore ordinario di procedura penale, Università di Salerno
Sergio Lorusso, professore ordinario di procedura penale, Università di Foggia
Mariano Menna, professore ordinario di procedura penale, Seconda Università di Napoli
Gustavo Pansini, professore di procedura penale, Università di Napoli SOB
Francesco Peroni, professore ordinario di procedura penale, Università di Trieste
Giorgio Santacroce, primo presidente della Corte di cassazione
Coordinamento delle Sezioni
Teresa Bene, professore associato di procedura penale, Seconda Università di Napoli
Maria Elena Catalano, professore associato di procedura penale, Università dell’Insubria
Paola Corvi, professore associato di procedura penale, Università Cattolica di Piacenza
Donatella Curtotti, professore associato di procedura penale, Università di Foggia
Mitja Gialuz, professore associato di procedura penale, Università di Trieste
Vania Maffeo, professore associato di procedura penale, Università di Napoli Federico II
Carla Pansini, professore associato di procedura penale, Università di Napoli Parthenope
Nicola Triggiani, professore associato di procedura penale, Università di Bari “Aldo Moro”
Cristiana Valentini, professore associato di procedura penale, Università di Ferrara
Daniela Vigoni, professore associato di procedura penale, Università di Milano Statale
Redazione
Gastone Andreazza, magistrato – Fulvio Baldi, magistrato – Antonio Balsamo, magistrato – Giuseppe Biscardi, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Orietta Bruno, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Lucio Camaldo, professore associato di diritto processuale penale, Università di Milano Statale – Sonia Campailla, ricercatore di diritto dell’unione europea,
Università di Roma Tor Vergata – Laura Capraro, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor
Vergata – Assunta Cocomello, magistrato – Marilena Colamussi, ricercatore di procedura penale, Università di Bari “Aldo Moro” – Antonio Corbo, magistrato – Gaetano De Amicis, magistrato – Alessandro Diddi, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Ada Famiglietti, ricercatore di procedura
penale, Università di Roma Tor Vergata – Rosa Maria Geraci, ricercatore di procedura penale, Università
di Roma Tor Vergata – Paola Maggio, ricercatore di procedura penale, Università di Palermo – Antonio
Pagliano, ricercatore di procedura penale, Seconda Università di Napoli – Giorgio Piziali, magistrato –
Roberto Puglisi, dottore di ricerca in procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Alessia Ester
Ricci, assegnista di ricerca in diritto processuale penale, Università di Foggia – Nicola Russo, magistrato –
Alessio Scarcella, magistrato – Elena Zanetti, ricercatore di procedura penale, Università di Milano Statale
Peer review
La “revisione dei pari” garantisce il livello qualitativo dei contenuti della Rivista.
La valutazione viene compiuta tenendo conto della fisionomia tradizionale dei generi letterari (Articolo
e Nota), misurandone la chiarezza espositiva, i profili ricostruttivi, il grado di ricerca, la prospettiva
critica e le soluzioni interpretative offerte. La verifica è effettuata a rotazione da due professori ordinari
di discipline corrispondenti o affini alle materie oggetto dei lavori, i quali esprimono un giudizio sulla
meritevolezza o meno della pubblicazione. Nell’ipotesi di valutazioni contrastanti tra i revisori, detto
giudizio è rimesso al Direttore della Rivista.
Il controllo avviene in forma reciprocamente anonima.
I contenuti editi nella Sezione denominata “Scenari” non sono soggetti a revisione.
Peer reviewers
Enrico Mario Ambrosetti, professore ordinario di diritto penale, Università di Padova
Alessandro Bernasconi, professore ordinario di procedura penale, Università di Brescia
Piermaria Corso, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Statale
Agostino De Caro, professore ordinario di procedura penale, Università del Molise
Mariavaleria del Tufo, professore ordinario di diritto penale, Università di Napoli SOB
Marzia Ferraioli, professore ordinario di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata
Carlo Fiorio, professore straordinario di procedura penale, Università di Perugia
Novella Galantini, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Statale
Maria Riccarda Marchetti, professore ordinario di procedura penale, Università di Sassari
Oliviero Mazza, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Bicocca
Paolo Moscarini, professore ordinario di procedura penale, Università di Roma LUISS
Angelo Pennisi, professore ordinario di procedura penale, Università di Catania
Tommaso Rafaraci, professore ordinario di procedura penale, Università di Catania
Antonio Scaglione, professore ordinario di procedura penale, Università di Palermo
Andrea Scella, professore ordinario di procedura penale, Università di Udine
Gianluca Varraso, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Cattolica
Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
V
Sommario
Editoriale | Editorial
DANIELA VIGONI
Giudicato ed esecuzione penale: confini normativi e frontiere giurisprudenziali /
Res iudicata and enforcement of criminal judgments: legislative action and cutting
edge case law
1
Scenari | Overviews
Novità legislative interne / National legislative news (ADA FAMIGLIETTI)
10
Novità sovranazionali / Supranational news (MARINA TROGLIA)
18
De jure condendo (NICOLA TRIGGIANI)
22
Corti europee / European Courts (AMALIA CAVALLO)
26
Corte costituzionale (ALESSIA ESTER RICCI)
33
Sezioni Unite (PAOLA MAGGIO)
38
Decisioni in contrasto (PAOLA CORVI)
43
Avanguardie in giurisprudenza | Cutting Edge Case Law
L’impegno professionale del difensore in altro procedimento costituisce legittimo impedimento in presenza di condizioni obiettive
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 2 febbraio 2015, n. 4909 – Pres. Santacroce; Rel.
Romis
A proposito del regime di sospensione del corso della prescrizione: il concomitante impegno del difensore e l’effettività della difesa tecnica / About regime of the prescription.
The concomitant professional appointment of the layer and the value of defense (TERESA BENE)
46
Termini per eccepire la nullità dell’alcooltest se è omesso l’avviso della facoltà di assistenza difensiva
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 5 febbraio 2015, n. 5396 – Pres. Santacroce; Est. Conti
Valorizzato il ruolo della difesa tecnica in tema di alcooltest / Enhanced the role of lawyer in
alcohol test (EVA MARIUCCI)
63
Sequestro conservativo anche in assenza di pericolo di dispersione patrimoniale del debitore
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, Sentenza 11 dicembre 2014, n. 51660 – Pres. Rel. de Roberto
Il “periculum in mora” nel sequestro conservativo penale: finalmente intervengono le Sezioni Unite / The “periculum in mora” in the preventive attachment: finally the joint session
of the supreme court of cassation attends (MARTINO ROSATI)
Emendabile in esecuzione l’illegalità della pena accessoria
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 12 febbraio 2015, n. 6240 – Pres. Santacroce;
Rel. Amoresano
I poteri del giudice dell’esecuzione sulla determinazione della pena accessoria illegale:
presupposti e limiti / Powers of execution’s judge and illegal addiction penalty: suppositions
and limits (TERESA ALESCI)
SOMMARIO
58
69
75
80
93
106
Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
Legittimo impedimento dell’arrestato e giudizio direttissimo contestuale alla convalida
Corte di Cassazione, Sezione VI, sentenza 30 dicembre 2014, n. 53850 – Pres. Agrò; Rel. Citterio
Il legittimo impedimento della persona arrestata a comparire all’udienza non inficia la
legittimità della convalida dell’arresto e del contestuale giudizio direttissimo / Lawful
impediment of the arrested person to appear in the hearing does not affect the legitimacy of the
validation of arrest and the contextual summary judgement (MARIA SIMONA CHELO)
Opposizione della persona offesa ed archiviazione de plano
Corte di Cassazione, Sezione V, sentenza 3 marzo 2015, n. 9305 – Pres. Palla; Rel. Settembre
L’archiviazione de plano tra economia processuale e tutela della persona offesa / The decree ordering that the case be dropped between the purpose of economy of the proceeding and the
defense of the victim (ANNA CIGNACCO)
Messa alla prova e giudizi pendenti in cassazione
Corte di Cassazione, Sezione IV, sentenza 13 gennaio 2015, n. 1281 – Pres. Foti; Rel. Marinelli
L’assenza di una disciplina intertemporale o transitoria per la messa alla prova degli
adulti: uno spinoso problema tra lex mitior e tempus regit actum / The absence of intertemporal or transitory discipline for adult’s probation: a complex issue between lex mitior and tempus regit actum (JACOPO DELLA TORRE)
Letture per sopravvenuta impossibilità di ripetizione e regole di valutazione
Corte di Cassazione, Sezione II, sentenza 9 gennaio 2015, n. 509 – Pres. Petti; Rel. Gallo
Acquisizione mediante lettura e regole sovranazionali di valutazione delle dichiarazioni
ormai irripetibili / Acquisition by reading and rules of proof imposed by the case law of the
Echr (ATTILIO MARI)
VI
115
118
126
128
131
134
147
150
Dibattiti tra norme e prassi | Debates: Law and Praxis
Deflazione e razionalizzazione del sistema: la ricetta della particolare tenuità dell’offesa
/ Judicial deflation and rationalization of the criminal system: the recipe of the new reform
on diversion for minor offences (SERENA QUATTROCOLO)
159
Modifiche alla disciplina della responsabilità civile dei magistrati o new deal nei rapporti tra politica e magistratura? / The new law no. 18/2015: modifications of the discipline of
civil liability of judges or new deal in the relationship between politics and the judiciary?
(ALESSIO SCARCELLA)
172
Analisi e prospettive | Analysis and Prospects
Ne bis in idem e market abuse: quali prospettive (aspettando la Consulta) / Ne bis in idem
and market abuse: the prospects (waiting for the decision of the Consulta) (STEFANIA RICCIO)
185
Indici | Index
Autori / Authors
193
Provvedimenti / Measures
194
Materie / Topics
195
SOMMARIO
Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
1 Editoriale | Editorial
DANIELA VIGONI
Professore associato di Diritto processuale penale – Università degli Studi di Milano
Giudicato ed esecuzione penale: confini normativi e frontiere
giurisprudenziali
Res iudicata and enforcement of criminal judgments: legislative
action and cutting edge case law
Dall’evoluzione del quadro normativo e dai recenti sviluppi giurisprudenziali emerge sempre di più il valore relativo del giudicato: sensibile alle esigenze di salvaguardia dei diritti fondamentali della persona, permeabile alle
istanze di giustizia sostanziale e processuale, recessivo rispetto ai tradizionali obiettivi di certezza e di stabilità del
decisum.
By evolution of legislative action and further to Suprem Court’s decision emerges more and more the relative
value of res iudicata: sensitive to protection of human rights, permeable to instances of justice and fair trial, recessive in relation to traditional aim of certainty and stability of decisum.
LA MAPPA E LE COORDINATE
Chi si ponesse nella prospettiva di osservare l’attuale panorama offerto dalla disciplina dell’esecuzione
penale 1, confrontandolo con quello emergente dall’originaria geografia normativa, coglierebbe linee e
contorni non poco diversi. Se poi quel panorama lo si volesse vedere alla luce delle aree limitrofe – riguardanti le impugnazioni straordinarie – e attraverso la lente delle interpretazioni accolte dalla giurisprudenza nazionale ed europea – relativamente ad alcune materie – si noterebbe quanto l’orizzonte sia
ampio, mobile e in espansione.
Nella topografia normativa del libro X si sono ridotti i confini, essendo venuti meno gli spazi, che
peraltro esulavano dall’area propria dell’esecuzione, relativi al casellario giudiziale (titolo IV) e alle
spese (titolo V): ad essi, com’è noto, sono stati dedicati due autonomi corpi normativi, e cioè i testi unici
n. 313 e n. 115/2002.
Restano invece nell’ambito della sistematica codicistica le disposizioni racchiuse nel capo II del titolo
III, pur essendo di pertinenza penitenziaria. Alcune norme relative alla competenza territoriale (e, in
parte, per materia) della magistratura di sorveglianza (art. 677 c.p.p.) e al procedimento di sorveglianza
(art. 678 c.p.p.) si giustificano in base a specifiche previsioni della legge-delega (v. in particolare la dir.
n. 98) dirette a “giurisdizionalizzare” la procedura e a unificarla nella base normativa. Altre norme, che
si raccordano all’ordinamento penitenziario o al codice penale, riguardano diversi istituti: rispettiva-
1
In materia v. F. Caprioli-D. Vicoli, Procedura penale dell’esecuzione, II ed., Torino, 2011; A. Gaito-G. Ranaldi, Esecuzione penale, II
ed., Milano, 2005; G. Dean, Ideologie e modelli dell’esecuzione penale, Torino, 2004; F. Corbi-F. Nuzzo, Guida pratica all’esecuzione penale,
Torino, 2003. Sul giudicato v. in particolare E.M. Mancuso, Il giudicato nel processo penale, Milano, 2012; F. Callari, La firmitas del giudicato penale: essenza e limiti, Milano, 2009; D. Vigoni, Relatività del giudicato ed esecuzione della pena detentiva, Milano, 2009.
EDITORIALE | GIUDICATO ED ESECUZIONE PENALE: CONFINI NORMATIVI E FRONTIERE GIURISPRUDENZIALI
Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
2
mente per le misure di sicurezza, la liberazione condizionale, la riabilitazione, il rinvio dell’esecuzione
gli artt. 679-680, 682, 683 e 684 c.p.p. prevedono peculiarità procedurali e al contempo definiscono le attribuzioni di tipo decisorio della magistratura di sorveglianza; a proposito della grazia, l’art. 681 c.p.p.
delinea i profili istruttori della complessa procedura 2. Il capo II ha incontrato nel tempo limitate modifiche normative: è di particolare rilievo l’intervento legislativo (d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito
con modificazioni in l. 21 febbraio 2014, n. 10) che, ispirandosi ad esigenze di economia e celerità processuale, è venuto a ridurre l’ambito di operatività del procedimento ex art. 678 c.p.p., mutuando, per
alcune materie attribuite al magistrato di sorveglianza, il modello de plano, a contraddittorio eventuale e
differito, descritto nell’art. 667, comma 4, c.p.p. 3.
Se l’art. 236 norme att. c.p.p. segnava la persistente vigenza, a fianco del procedimento di sorveglianza 4, di preesistenti varianti procedurali e modelli atipici di fonte penitenziaria, l’ulteriore incremento di
modelli decisori di nuova generazione normativa (v. artt. 35-bis e 69-bis ord. penit.), acuisce i problemi operativi che derivano sul piano del coordinamento delle diverse previsioni, accentuando discrasie sistematiche e alimentando aporie interpretative. Le difficoltà derivanti dalla compresenza di diverse fonti e di eterogenee forme d’intervento della giurisdizione di sorveglianza dovrebbero suggerire una riflessione che riconsideri se si debba mantenere nel libro X un’enclave normativa dedicata all’esecuzione penitenziaria oppure, più ragionevolmente, optare per un’organica disciplina tutta interna all’ordinamento penitenziario.
Riguardo alle attribuzioni giurisdizionali di sorveglianza, la giurisprudenza costituzionale ha inciso,
in modo significativo, su piani differenti. La sentenza d’illegittimità costituzionale n. 274/1990 ha portato a termine l’opera di “giurisdizionalizzazione” della fase esecutiva, sottraendo alla discrezionalità
dell’organo esecutivo ogni decisione sul differimento dell’esecuzione della pena ex art. 684 c.p.p. e riservando esclusivamente al tribunale di sorveglianza di provvedere in merito. La sentenza d’illegittimità
costituzionale n. 135/2014 ha aperto la possibilità, su istanza degli interessati, che il procedimento per
l’applicazione delle misure di sicurezza si svolga, di fronte agli organi giurisdizionali di sorveglianza,
nelle forme dell’udienza pubblica. A questa prima pronuncia seguono ulteriori sentenze d’illegittimità
costituzionale, che consentono un’udienza pubblica nel procedimento davanti al tribunale di sorveglianza, per tutte le materie di sua competenza (n. 97/2015), e nel procedimento di esecuzione attivato
dall’opposizione contro l’ordinanza applicativa della confisca (n. 109/2015). Non va dimenticata, ad integrazione di una disciplina carente sul piano delle determinazioni in esito al procedimento di grazia, la
sentenza della Corte costituzionale n. 200/2006, che ha risolto un conflitto di attribuzioni fra Ministro
della giustizia e Presidente della Repubblica, definendo i compiti del guardasigilli nella procedura
istruttoria e riconoscendo al Capo dello Stato la titolarità esclusiva dell’atto di clemenza.
L’area esclusivamente destinata all’esecuzione penale, delineata dal titolo I del libro X, muove dalla
fondamentale nozione di giudicato per poi considerare i suoi effetti: alcune modifiche riguardanti
l’efficacia extrapenale del provvedimento irrevocabile e taluni problematici sviluppi relativi al principio
che vieta un secondo giudizio in idem aprono nuovi scenari e pongono all’interprete inediti temi che richiedono meditate soluzioni.
Il profilo esecutivo dei provvedimenti giurisdizionali è disciplinato nella dualistica prospettiva del
facere – secondo le funzioni attribuite al p.m. – oggetto del titolo II, e del dicere ius – in base alla competenza funzionale del giudice dell’esecuzione a risolvere ogni questione relativa al provvedimento irrevocabile – a cui si riferisce il capo I del titolo III.
Innovazioni inerenti alle procedure sospensive dell’esecuzione rendono instabile il quadro normativo, che risente di periodiche emergenze e contingenti riassetti, e carica l’organo esecutivo, impegnato
nel ruolo di “contabile penale”, di compiti impegnativi, anche di carattere paragiurisdizionale, diretti a
gestire l’avvio dell’esecuzione.
Nuove prerogative si configurano, poi, sul fronte della giurisdizione esecutiva, a seguito di determinazioni giurisprudenziali che, nella prospettiva di garantire la legalità della pena in executivis, riconoscono al giudice il potere d’incidere sul contenuto sanzionatorio del giudicato.
2
Al riguardo v. M. Pisani, Grazia e giustizia, Milano, 2007 (e Id., Dossier sul potere di grazia, Padova, II ed., 2006).
3
Un’altra modifica legislativa – si tratta del d.l. n. 92/2014, convertito con modificazioni in l. n. 117/2014 –– ha inserito
nell’art. 678 c.p.p. un ulteriore comma – il 3-bis – che riguarda i provvedimenti restrittivi della libertà personale di condannati
da Tribunali o Corti penali internazionali.
4
V.M. Ruaro, La magistratura di sorveglianza, Milano, 2009.
EDITORIALE | GIUDICATO ED ESECUZIONE PENALE: CONFINI NORMATIVI E FRONTIERE GIURISPRUDENZIALI
Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
3
IL TERRENO SU CUI INSISTE IL GIUDICATO
L’autorità della res iudicata, che esprime la forza del giudicato sostanziale e trova fondamento nell’irrevocabilità della pronuncia, si manifesta nelle tre direzioni che rappresentano i diversi effetti del giudicato: l’esecutività, il ne bis in idem, l’incidenza del giudicato in altri ambiti giurisdizionali. Quest’ultimo
profilo è collocato nella cornice normativa tracciata dagli artt. 651-654 c.p.p., da cui emerge un quadro
complesso ed articolato, dove si coglie un duplice criterio di fondo: di favor separationis, nella direzione
di favorire l’esercizio dell’azione civile di danno nella sua sede naturale; di autonomia di giudizio nelle
diverse sedi giurisdizionali, nella prospettiva di evitare meccanismi sospensivi diretti a privilegiare
l’accertamento penale.
Un ritocco normativo ad opera della l. 27 marzo 2001, n. 97 viene opportunamente ad integrare
quanto previsto nell’art. 653 c.p.p. riguardo al procedimento disciplinare, inserendovi un riferimento
(anche) all’efficacia della sentenza di condanna; la previsione rileva pure per la sentenza di applicazione della pena su richiesta, per effetto dell’interpolazione dell’art. 445 c.p.p. che aggiunge, nel comma 1bis, una clausola di salvezza appunto relativa all’art. 653 c.p.p.
Di recente, il quadro normativo degli effetti extrapenali è stato innovato dal d.lgs. 16 marzo 2015, n.
28, che ha aggiunto l’art. 651-bis c.p.p.: poiché la sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del
fatto presuppone l’accertamento del reato e della responsabilità dell’imputato, si è inteso attribuire alla
medesima, emessa in esito al dibattimento o al giudizio abbreviato, al pari di quanto già previsto
nell’art. 651 c.p.p. per la sentenza di condanna, efficacia nel giudizio civile o amministrativo di danno.
L’opzione normativa pone un vincolo a favore del danneggiato, nel senso che non dovrà provare in sede civile l’esistenza del fatto penalmente rilevante e la responsabilità all’imputato; al tempo stesso, però, sembra incidere negativamente sul piano risarcitorio, se si riflette sulla circostanza che nella sede
penale l’offesa è stata ritenuta di particolare tenuità. Nulla è detto, peraltro, circa l’efficacia del giudicato de quo in altri giudizi civili ed ammnistrativi, nonché nel giudizio disciplinare davanti alle pubbliche
autorità. Tutto ciò lascia spazio a prevedibili contrasti giurisprudenziali nelle varie sedi giurisdizionali
circa l’incidenza del giudicato penale di proscioglimento per particolare tenuità del fatto.
Fuori dal contesto normativo espresso con riguardo al giudicato è invece disciplinata l’efficacia in altri processi penali della sentenza penale irrevocabile. Nella diversa, e discutibile, collocazione sistematica della prova documentale, l’ambigua e criticata disposizione prevista nell’art. 238-bis c.p.p. assegna
valore probatorio in altro giudizio penale all’accertamento operato dalla sentenza penale irrevocabile,
nei limiti segnati da un duplice richiamo: all’art. 187 c.p.p. (superfluo, per la sua valenza generale) e
all’art. 192, comma 3, c.p.p. (opportuno, in quanto in certo modo riequilibrante la compressione di garanzie e diritti). Sorta al fine di scongiurare la dispersione delle prove e per semplificare gli accertamenti relativi ai reati associativi, in particolare riguardo alla prova del sodalizio criminoso, la norma assume valenza generale e risulta eccentrica rispetto a generali scelte sistematiche e a particolari opzioni
espresse circa i rapporti fra giudicato e pregiudizialità.
È però con riferimento all’effetto penale, di segno negativo, costituito dal divieto di bis in idem (art.
649 c.p.p.), con il quale si esprime il connaturato valore preclusivo del giudicato rispetto a ulteriori procedimenti penali nei confronti della stessa persona e per il medesimo fatto, che vengono a profilarsi
nuovi sviluppi in ragione della previsione contenuta nell’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Cedu, così come
interpretata dalla sentenza della Corte europea relativa al caso Grande Stevens 5. La norma processuale
interna si misura su una nuova lunghezza d’onda che la rapporta a evenienze extrapenali, ossia al caso
in cui l’imputato sia stato giudicato per il medesimo fatto con un provvedimento irrevocabile che rappresenta l’epilogo di un giudizio amministrativo per l’applicazione di una sanzione a cui va riconosciuta natura penale in base alla Cedu e ai relativi Protocolli. La soluzione diretta ad ampliare la dimensione operativa del divieto nei rapporti fra procedimento penale e procedimento amministrativo, mediante una declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p. (per contrasto con l’art. 117 Cost., letto in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Cedu) 6, non sembra tener conto di indici costituzionali
che guidano verso altre soluzioni. Segnatamente, rileva, sul piano processuale, il principio di obbligatorietà dell’azione penale espresso dall’art. 112 Cost., che non sopporta cause di improcedibilità o impro5
Corte e.d.u., sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia, in questa Rivista, 2014, n. 5, p. 78, con nota di A.F. Tripodi, Abusi di mercato (ma non solo) e ne bis in idem: scelte sanzionatorie da ripensare?
6
Cfr. Cass., sez. V, ord. 15 gennaio 2015, n. 1782; Cass., sez. trib. civ., ord. 21 gennaio 2015, n. 950.
EDITORIALE | GIUDICATO ED ESECUZIONE PENALE: CONFINI NORMATIVI E FRONTIERE GIURISPRUDENZIALI
Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
4
seguibilità dell’azione in rapporto a un fatto che integra reato. Incontrerebbe identiche obiezioni anche
l’opzione diretta a propugnare una disapplicazione automatica della norma interna a favore di quella
europea (art. 50 Cdfue). Un’interpretazione della norma interna conforme all’art. 4 Prot. n. 7 Cedu contrasterebbe invece con insuperabili dati testuali e sistematici che rivelano l’esclusiva pertinenza dell’art.
649 c.p.p. al giudicato penale e l’essenziale funzione fondante l’autorità della cosa giudicata, diretta a
preservare la certezza e la stabilità del decisum, quale garanzia oggettiva e soggettiva.
Il contrasto della disciplina relativa al doppio binario sanzionatorio con il principio del ne bis idem
codificato nell’art. 4 del citato Protocollo sembra destinato a risolversi in altro modo, e cioè ex ante, attraverso un intervento legislativo, sul fronte sostanziale e riguardo all’assetto strutturale, diretto ad evitare la duplicazione di analoghe sanzioni provenienti da diversa fonte; non ex post, mediante soluzioni
sul versante processuale che trovano origine nel divieto di bis in idem.
LA PERMEABILITÀ DEL GIUDICATO ALLE IMPUGNAZIONI STRAORDINARIE: L’INGIUSTIZIA SOSTANZIALE E
L’INGIUSTIZIA PROCESSUALE
Dal particolare punto di osservazione relativo alle impugnazioni straordinarie si rileva non solo un incremento dei rimedi, ma anche un’evoluzione funzionale che risponde alle sollecitazioni provenienti
dalla giurisprudenza europea.
Rispetto alla disciplina originaria del codice del 1988, che prevedeva soltanto la revisione quale rimedio all’errore giudiziario a tutela dell’innocenza (artt. 629-642 c.p.p.) 7, sono stati introdotti ulteriori
particolari mezzi di tipo straordinario: prima, il ricorso straordinario per cassazione (art. 625-bis
c.p.p.) 8, a favore del condannato e in rapporto all’errore materiale o all’errore di fatto relativi alle sentenze di cassazione; poi, la rescissione del giudicato (art. 625-ter) 9, correlata alla prova dell’incolpevole
mancata conoscenza della celebrazione del processo, nell’ottica della rinnovazione del giudizio di merito.
Pur essendo tutti questi istituti generalmente ricondotti alla categoria dei mezzi straordinari
d’impugnazione, in quanto esperibili avverso il provvedimento irrevocabile, si tratta, all’evidenza, di
strumenti tra loro assai diversi per natura, presupposti e finalità.
Già sotto l’identica insegna del ricorso straordinario per cassazione si accomunano diverse tipologie
di errore – materiale o di fatto – a cui è correlata la peculiare disciplina che consente di superare il carattere inoppugnabile delle decisioni della Cassazione, mediante interventi correttivi o ablativi dell’errore
operati dallo stesso giudice di legittimità.
Il più recente strumento rescissorio, allestito nella prospettiva ripristinatoria dei diritti dell’imputato
ingiustamente giudicato in assenza, quando provi che l’assenza sia conseguenza dell’incolpevole mancata conoscenza del procedimento, si ricollega alla nuova dinamica che ha ripudiato dal sistema la contumacia e inteso prefigurare l’alternativa “processo in assenza-sospensione del processo” (l. 28 aprile
2014, n. 67) 10: la revoca del giudicato si colloca quale estremo rimedio a favore dell’assente volto a promuovere la rinnovazione del giudizio.
Anche la stessa revisione ha subìto una mutazione sul piano funzionale, trovando un nuovo ambito
operativo a seguito della sentenza d’illegittimità n. 113 del 2011, con la quale la Corte costituzionale è
intervenuta a configurare l’impugnazione straordinaria non allo scopo di ottenere una pronuncia di
proscioglimento, ma a quello di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, par. 1, della Cedu, per conformarsi ad una sentenza (definitiva) della Corte europea dei
diritti dell’uomo. Quale ultimo approdo di sviluppi giurisprudenziali tesi a sopperire all’assenza di
specifici e adeguati strumenti normativi, ricorrendo alle soluzioni offerte dagli artt. 670 11, 625-bis 12,
7
Circa l’assetto normativo v. A. Scalfati, L’esame sul merito nel giudizio preliminare di revisione, Padova, 1995; G. Dean, La revisione, Padova, 1999; M. D’Orazi, La revisione del giudicato penale – Percorsi costituzionali e requisiti di ammissibilità, Padova, 2003.
8
In proposito v. M. Gialuz, Il ricorso straordinario per cassazione, Milano, 2006.
9
Al riguardo v. Cass., sez. un., 17 luglio 2014, n. 36848, in CED Cass., n. 259990-92.
10
In tema si rinvia a D. Vigoni (a cura di), Il giudizio in assenza dell’imputato, Torino, 2014.
11
Corte e.d.u., 9 settembre 1998, Dorigo c. Italia; Cass., sez. I, 1° dicembre 2006, n. 2800, in CED Cass., n. 235447.
12
Corte e.d.u., 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia; Cass., sez. VI, 12 novembre 2008, n. 45807, in CED Cass., 241753-54; Corte
e.d.u., GC, 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia; Cass., sez. V, 11 febbraio 2010, n. 16507, in CED Cass., n. 247244.
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175 13 c.p.p., la revisione si propone quale mezzo mirato, oltre che agli obiettivi di giustizia sostanziale
nei casi previsti nell’art. 630 c.p.p., anche ad altri fini, ossia per conformarsi alle sentenze della Corte di
Strasburgo che abbiano accertato una violazione alla Convenzione europea o ai relativi Protocolli.
In particolare, la nuova ipotesi di revisione consente di rimuovere sentenze irrevocabili – quando
siano state riscontrate, nella citata sede giurisdizionale europea, violazioni dei fondamentali canoni di
fair trial – attraverso la riapertura del processo.
Al di là del fatto che la via indicata non è l’unica, e non è sempre percorribile di fronte alla eterogeneità e specificità dei casi e delle differenti violazioni riscontrate, importa qui sottolineare, in primo
luogo, che il superamento del giudicato si può prospettare non solo in relazione ad istanze di carattere
sostanziale, di ingiustizia dell’esito del processo e al fine di rimediare all’errore nella direzione del favor
rei et libertatis, ma anche in rapporto a violazioni di carattere processuale, quando non vi sia stato un
giusto processo, e perciò in chiave riparatoria, al fine di realizzare la restitutio in integrum.
È la stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 113 del 2011 a rimarcare la differenza fra l’originaria
finalità per cui la revisione consente di riparare all’ingiustizia dell’esito, componendo «il dissidio tra la
“verità processuale”, consacrata dal giudicato, e la “verità storica” risultante da elementi fattuali
“esterni” al giudicato stesso», e la nuova dimensione funzionale, per cui la revisione è volta a «porre
rimedio, oltre i limiti del giudicato (considerati tradizionalmente comunque insuperabili con riguardo
agli errores in procedendo) a un “vizio” interno al processo tramite una riapertura del medesimo che
ponga l’interessato nelle condizioni in cui si sarebbe trovato in assenza della lesione».
In secondo luogo, e a prescindere dalle varianti, rispetto al rimedio straordinario tipico, che la revisione europea comporta quantomeno nei presupposti – diversi, in quanto derivanti dalla violazione accertata dalla sentenza della Cedu – e rispetto agli esiti – non necessariamente di proscioglimento – è riservato al giudice ogni profilo operativo diretto individuare la disciplina concretamente applicabile che
consenta di rimediare alla violazione accertata rimuovendo la causa di iniquità processuale e ripristinando diritti e garanzie.
Attraverso i mezzi straordinari d’impugnazione, dunque, ragioni d’ingiustizia sostanziale – per
l’esito del processo frutto di errore – o processuale – per la violazione dei fondamentali canoni di fair
trial – possono essere causa di risoluzione del giudicato.
LA METAMORFOSI DELLA PENA – DA DETENTIVA IN ALTERNATIVA PENITENZIARIA – ATTRAVERSO LA PROCEDURA SOSPENSIVA DELL’ESECUZIONE
Al di là dell’introduzione dell’art. 657-bis c.p.p. (l. n. 67/2014) – che consente il computo, per la determinazione della pena da eseguire, del periodo di prova 14, nel caso di revoca o esito negativo – e della
reviviscenza dell’art. 660 c.p.p. – dopo la dichiarazione d’incostituzionalità (sentenza n. 212 del 2003)
dell’art. 299 t.u. in materia di spese, che aveva abrogato la citata norma codicistica – il quadro normativo che disciplina le attribuzioni del p.m. nella fase esecutiva ha registrato innovazioni di rilievo soprattutto riguardo all’esecuzione delle pene detentive.
Le diverse vie d’ingresso all’esecuzione penitenziaria, secondo schemi differenziati per posizione,
rappresentano il punto d’arrivo di uno sviluppo che trova sbocco nell’art. 656 c.p.p., con il quale
s’innesta nel sistema un protocollo sospensivo dell’ordine di esecuzione, diretto a favorire, nel caso di
sanzioni di breve/media durata, l’accesso dalla libertà alle misure alternative ordinarie o speciali.
Nell’intento di generalizzare l’operatività di dinamiche preesistenti e già sperimentate dirette ad evitare il passaggio in carcere, la legge Simeone (l. 27 maggio 1998, n. 165) inserisce un nuovo schema esecutivo che incide direttamente sul profilo sanzionatorio, variando la natura della pena, sul piano della
qualità e delle modalità: l’art. 656 si pone così quale braccio normativo che, raccordando il momento
esecutivo con quello penitenziario, innova il sistema penale attraverso l’immediata applicazione delle
misure penitenziarie. Nel segno di un recupero del modello bifasico, tipico dei sistemi di common law, si
consente, infatti, prima che l’esecuzione abbia inizio, di verificare se, in luogo della pena detentiva de13
Corte e.d.u., 25 novembre 2008, Cat Berro c. Italia; Cass., sez. V, 15 novembre 2006, n. 4395, in CED Cass., n. 235446; Corte
e.d.u., 18 maggio 2004, Somogyi c. Italia; Cass., sez. I, 12 luglio 2006, n. 32678, in CED Cass., n. 235035-36.
14
Sul “nuovo” procedimento speciale v. in particolare N. Triggiani (a cura di), La deflazione giudiziaria – Messa alla prova degli
adulti e proscioglimento per tenuità del fatto, Torino, 2014.
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finita in sentenza dal giudice di cognizione, possa prospettarsi una misura alternativa determinata dal
tribunale di sorveglianza.
Il congegno sospensivo dell’esecuzione, che scatta quando la pena è contenuta entro certi limiti e
sempre che non vi siano alcune condizioni ostative, è funzionale a consentire l’istanza ad hoc del condannato e ad attendere la decisione sulla misura penitenziaria alternativa alla pena.
Nel tempo l’art. 656 è stato più volte oggetto di modifiche, tese a rimodellare l’assetto del protocollo
sospensivo diretto a favorire l’accesso alle misure penitenziarie, risentendo delle tensioni sottostanti alle scelte, anche estemporanee, di politica criminale e di contrasto alle emergenze.
Con una prima riforma legislativa – si tratta del d.l. 24 novembre 2000, n. 341, convertito con modificazioni in l. 19 gennaio 2001, n. 4 – si è intervenuti sul profilo dinamico, apportando varianti volte a risolvere alcuni problemi pratici e operativi, introducendo talune cautele dirette a favorire sia l’effettiva
conoscenza da parte dell’interessato, sia un’effettiva difesa tecnica, e modificando le regole relative a
chi si trovi agli arresti domiciliari.
Di interventi legislativi ne sono succeduti altri che, inserendosi in più ampie manovre dirette a mutare il regime sostanziale e trattamentale, hanno influito sui presupposti applicativi della procedura sospensiva, per un verso, ampliandone l’utilizzo per fini di deflazione penitenziaria e, per altro verso,
escludendone il ricorso in rapporto a talune tipologie di autori di reato o a specifiche fattispecie penali.
Si fa riferimento, in successione temporale: alla legge 5 dicembre 2005, n. 251 (c.d. ex Cirielli), che ha introdotto un’ulteriore condizione di “non meritevolezza” dell’immediato accesso dalla libertà alla misura alternativa in rapporto alla “recidiva reiterata” (art. 99, comma 4, c.p.); al d.l. 30 dicembre 2005, n.
272, convertito con modificazioni in l. 21 febbraio 2006, n. 49, relativo al tossico/alcool-dipendente, che
ha ampliato fino a sei anni i limiti di accesso alle misure alternative speciali e introdotto altre modifiche
correlate a tale particolare condizione soggettiva; al d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modificazioni in l. 24 luglio 2008, n. 125, che ha inciso sul numero di reati ostativi (per questi v. anche Corte cost.
n. 249 del 2010).
Da ultimo, considerevoli variazioni sono state apportate dal d.l. 1 luglio 2013, n. 78, convertito con
modificazioni in l. 9 agosto 2013, n. 94: ora l’avvio di un percorso che si profila in tutto o in parte extracarcerario è possibile quando la pena (anche residua) sia inferiore a tre anni; a quattro anni nei casi di
cui all’art. 47-ter, comma 1, ord. penit.; a sei anni in rapporto alle misure di favore previste dagli artt. 90
e 94 t.u. stup. Lo spazio operativo della procedura sospensiva dell’esecuzione della pena è ulteriormente esteso per effetto dell’anticipato calcolo, che dovrà essere effettuato dal p.m., delle riduzioni di pena
che deriverebbero dalla concessione della liberazione anticipata; la “recidiva reiterata” non rappresenta
più una condizione impeditiva della sospensione; viene ridefinito il catalogo dei reati ostativi.
Concepita in un’ottica perequativa e nell’intento di aggregare sia istanze rieducative dirette a privilegiare l’immissione nel circuito extracarcerario, sia esigenze di deflazione penitenziaria, con l’ultima
riforma la procedura sospensiva generale si prospetta, accanto a quella particolare prevista dall’art. 1
della legge n. 199/2010, quale rimedio privilegiato diretto a contenere il sovraffollamento delle carceri,
il cui carattere strutturale ed endemico è, com’è noto, alla base delle pressanti sollecitazioni provenienti
dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, culminate nella “sentenza pilota” relativa al caso Torreggiani 15 (2013).
IL VALORE RELATIVO DEL GIUDICATO E I NUOVI AMBITI D’INTERVENTO DEL GIUDICE DELL’ESECUZIONE
Composito ed eterogeneo risulta il quadro d’intervento del giudice dell’esecuzione: se ne ricordano solitamente i poteri di carattere selettivo (art. 669 c.p.p.), sospensivo (art. 670 c.p.p.), ricostruttivo (artt. 671
c.p.p. e 188 norme att. c.p.p.), modificativo (artt. 672 e 676 c.p.p.) risolutivo (art. 673 c.p.p.), complementare e supplente (artt. 674 e 675 c.p.p.).
Al di là dei considerevoli ambiti tipizzati, è per via giurisprudenziale che si sono ricavati ulteriori
spazi dove si accredita il valore relativo del giudicato: sensibile alle esigenze di salvaguardia dei diritti
fondamentali della persona, permeabile alle istanze di giustizia sostanziale processuale, recessivo rispetto ai tradizionali obiettivi di certezza e di stabilità del decisum.
15
Corte e.d.u., 8 gennaio 2013, Torreggiani c. Italia.
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Di regola, il giudicato resiste a modificazioni in senso favorevole al reo derivanti da una diversa valutazione del disvalore del fatto sulla base di sopravvenuti interventi legislativi. Tale criterio di fondo
di indifferenza allo ius superveniens, espresso dall’art. 2, comma 4, c.p., che regola la successione della
legge nel tempo, conosce una sola deroga, introdotta nel comma 3 dell’art. 2 c.p., volta a segnare la retroattività della lex mitior che preveda per il reato esclusivamente la pena pecuniaria, nel qual caso è richiesto un tempestivo intervento giudiziale di conversione della pena detentiva inflitta nella corrispondente pena pecuniaria. Questa deroga all’intangibilità del giudicato coglie soltanto la variazione più incisiva del trattamento sanzionatorio, che muta per tipologia e comminatoria; per ogni altro caso vale il
principio generale d’impermeabilità del giudicato all’applicazione retroattiva della legge penale nel caso di sopravvenuta modifica in senso favorevole al reo.
Viceversa, allorché intervenga sia l’abrogazione, sia la declaratoria d’illegittimità costituzionale della
norma incriminatrice 16, gli artt. 2, comma 2 c.p., 136 Cost. e 30 l. 11 marzo 1953, n. 87 impongono la cessazione dell’esecuzione e di ogni effetto penale della condanna. A tali riferimenti normativi corrisponde
l’art. 673 c.p.p., in cui si prevede che, quando vi sia stata abolitio criminis 17, il giudice dell’esecuzione, a
seconda dei casi, debba risolvere totalmente il giudicato, o rimuoverlo parzialmente, ridefinendone la
portata sul piano sanzionatorio ed adottando i provvedimenti conseguenti 18, ferma restando l’intangibile giudizio sul fatto così come operato nella sede cognitiva.
Se il quadro normativo tende ad assicurare la tenuta della statuizione giudiziale irrevocabile e a limitare negli ambiti definiti dalle norme citate ogni intervento di carattere correttivo o demolitivo, un
deciso impulso verso il superamento del giudicato, a tutela dei diritti fondamentali dell’individuo e in
particolare della libertà personale, è stato impresso dagli sviluppi giurisprudenziali che hanno progressivamente inteso attribuire al giudice dell’esecuzione il potere di incidere sul contenuto sanzionatorio
in ragione del ruolo di controllo di qualità del titolo esecutivo e della funzione di garanzia della perdurante conformità del giudicato alla legge sostanziale. I più recenti approdi giurisprudenziali in argomento sono
rappresentati dalle sentenze delle Sezioni unite che hanno riconosciuto alla giurisdizione esecutiva la
funzione di provvedere sia alla sostituzione della pena inflitta con quella ritenuta legittima a livello
convenzionale e costituzionale 19, sia alla rideterminazione della pena quando la dichiarazione d’illegittimità costituzionale abbia investito disposizioni penali diverse dalla previsione incriminatrice, ma comunque relative al trattamento sanzionatorio 20.
16
Considerate le nuove prospettive aperte dalle fonti europee, può inquadrarsi nell’ambito dell’abrogazione pure l’ipotesi di
norme comunitarie dotate di efficacia diretta che determinano la disapplicazione delle norme interne confliggenti, e può assimilarsi alla dichiarazione d’illegittimità costituzionale anche la pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione europea che abbia
ritenuto la norma nazionale incompatibile con quella comunitaria. Pare invece scontata la soluzione espressa dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 230/2012, che, a fronte dell’immutato assetto legislativo, ha ritenuto estranea all’abolitio criminis
l’ipotesi del mutamento giurisprudenziale, sia pur accreditato dalle Sezioni Unite, secondo cui il fatto oggetto del giudicato non
è previsto dalla legge come reato (e ciò, nonostante l’art. 7 par. 1 Cedu debba intendersi nel senso di comprendere tanto il diritto
di fonte legislativa, quanto il diritto di formazione giurisprudenziale).
17
Sotto il profilo sostanziale v. G.L. Gatta, Abolitio criminis e successione di norme “integratrici”: teoria e prassi, Milano, 2008.
18
Cass., sez. un., 20 dicembre 2005, n. 4687, in CED Cass., n. 232610. Al riguardo v. già, anche per un inquadramento, M. Pisani, Abolitio criminis e sospensione condizionale della pena in sede esecutiva, in Cass. pen., 2004, p. 2177 ss.
19
Cass., sez. un., 24 ottobre 2013, n. 18821, in CED Cass., nn. 258649-51. La questione, com’è noto, trae origine dal caso Scoppola: la Corte edu, GC, con la sentenza 17 settembre 2009, aveva ritenuto contraria all’art. 7 Cedu, per violazione del principio di
retroattività della lex mitior, l’applicazione di una pena più severa (l’ergastolo) rispetto a quella (la reclusione a trent’anni) che,
per un fatto commesso sotto la legge anteriore, sarebbe stata irrogata in base alla legge processuale vigente al momento del processo penale e della condanna, quando ciò sia avvenuto in virtù di una successiva legge di interpretazione autentica avente effetto retroattivo (riguardando imputati che avessero scelto il giudizio abbreviato durante la vigenza della precedente disciplina). Posto che nel caso di specie si prospettava per il condannato, a seguito della sentenza di Strasburgo, il diritto di ottenere la
modifica della pena applicata dal giudice di cognizione, per tutti i casi analoghi a quello sopra riferito, riguardanti condannati (i
c.d. “fratelli minori” di Scoppola) che non avessero previamente esperito il ricorso individuale ex art 34 Cedu, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 210 del 2013, perveniva a dichiarare l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 117 Cost.,
della disposizione (art. 7, comma 1 d.l. n. 341 del 2000, convertito con modificazioni in l. n. 4/2001) lesiva del principio di legalità della pena espresso dall’art. 7 Cedu, che comporta la retroattività della legge penale più favorevole. Mentre nel caso Scoppola
era stata data attuazione alla sentenza della Corte e.d.u. con la procedura ex art. 625-bis c.p.p., dopo la sentenza d’illegittimità
costituzionale le Sezioni unite, nella citata sentenza del 2013 relativa al caso Ercolano, individuavano nel giudice dell’esecuzione
l’organo competente per operare la sostituzione della pena, su richiesta di parte, in virtù dei «suoi poteri di controllo sulla permanente legittimità della pena in esecuzione», nel quadro delle attribuzioni previste dagli artt. 665 e 670 c.p.p.
20
Cass., sez. un, 29 maggio 2014, n. 42858, in questa Rivista, 2015, n. 3, p. 50, con nota di E. Turco, Illegittimità costituzionale di
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Le difficoltà di individuare espliciti riferimenti normativi volti a riconoscere tali interventi post iudicatum sul profilo sanzionatorio hanno indotto, per un verso, a promuovere una rilettura dell’art. 30,
comma 4, l. n. 87 del 1953, intendendo la norma nel senso che la declaratoria d’incostituzionalità di
“qualsiasi tipologia di norma penale” (che incida anche solo sul trattamento sanzionatorio, senza costituire norma incriminatrice) imponga la cessazione dell’esecuzione e di ogni effetto penale della sentenza irrevocabile; per altro verso, a forzare lo strumento previsto nell’art. 670 c.p.p., utilizzandolo quale
esemplare parametro per un intervento in executivis che consenta di ritenere la pena non eseguibile e al
contempo di provvedere alla sua sostituzione.
Sul piano processuale-esecutivo, è da ritenere che, poiché la giurisdizione esecutiva è deputata a risolvere ogni incidente che sorga in merito all’attuazione del dictum giudiziale, nelle ipotesi citate che
legittimano l’intervento sulla pena illegale si debba seguire la dinamica prevista nell’art. 666 c.p.p. 21,
applicabile in via generale per ogni questione relativa al titolo esecutivo che non trova espressa disciplina nel modus procedendi. Di conseguenza: l’iniziativa per la rideterminazione della pena spetta al p.m.
(o al condannato e al suo difensore); è consentito un incremento cognitivo negli ambiti istruttori delineati dal comma 5 dell’art. 666; s’intende comunque preclusa nella sede esecutiva ogni valutazione del
fatto diversa rispetto a quella operata dal giudice di cognizione ed emergente nella sentenza irrevocabile. Restano invece da individuare i criteri per rideterminare in executivis il trattamento sanzionatorio.
Soprattutto, prima ancora, e in termini assai più ampi, è da vagliare la coerenza del principio della retroattività (o ultrattività) in mitius delle disposizioni che definiscono reati e pene, espresso dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, con il criterio di fondo, enunciato in via generale nell’art. 2, comma 4, c.p., che pone il limite del provvedimento irrevocabile.
Le aperture giurisprudenziali verso operazioni risolutive o correttive del giudicato in favorem rei, che
pongono la sede giurisdizionale esecutiva quale estremo presidio di garanzia di legalità della pena e di
uguaglianza del trattamento penale, rappresentano anche il punto di partenza per ulteriori sviluppi diretti a stabilire se, e come, le esigenze di giustizia sostanziale manifestatesi post iudicatum possano essere
soddisfatte anche in ipotesi diverse da quelle oggetto dei riferiti interventi che muovevano dalla giurisprudenza europea e costituzionale. Ne risultano in particolare coinvolti fenomeni inerenti all’esito
sanzionatorio illegale: a fronte di rapsodici interventi della giurisprudenza di legittimità 22 volti a riconoscere, conformemente al principio di legalità della pena, e pur in assenza di specifica previsione al
riguardo, la possibilità d’intervento del giudice dell’esecuzione sulla pena principale inflitta extra o contra legem è, segnatamente, riguardo alla pena accessoria che le Sezioni unite 23 si sono recentemente
espresse. Posto che un intervento in executivis in materia di pene accessorie è legittimato in via generale
dalle disposizioni di cui agli artt. 676 c.p.p. e 183 norme att. c.p.p., secondo la Corte di cassazione
l’applicazione di una pena accessoria illegale può essere rilevata ed emendata anche nella fase esecutiva, sempre che ciò non derivi da un errore valutativo del giudice di cognizione e purché essa sia determinata nella specie e nella durata per legge o possa determinarsi senza alcuna discrezionalità da parte
del giudice dell’esecuzione. Ed è prevedibile che, proprio sul piano del trattamento sanzionatorio e sul
versante del diritto sostanziale, attraverso le determinazioni della giurisprudenza di legittimità si manifesti di nuovo il carattere relativo e tangibile del giudicato, destinato a cedere al cospetto di prioritarie
esigenze di garanzia della legalità e degli obiettivi di giustizia.
una norma penale non strettamente incriminatrice e rimodulazione della pena in executivis: un altro passo verso la graduabile erosione del
“mito del giudicato”.
21
Sugli schemi d’intervento in executivis v. S. Lorusso, Giudice, pubblico ministero e difesa nella fase esecutiva, Milano, 2002 e, volendo, D. Vigoni, I procedimenti dell’esecuzione penale, in Bellantoni-D. Vigoni (a cura di), Studi in onore di Mario Pisani, vol. III,
Piacenza, 2010, p. 126 ss.
22
V. Cass., sez. I, 23 gennaio 2013, n. 38712, in CED Cass., n. 256879; Cass., sez. IV, 16 maggio 2012, n. 26117, in CED Cass.,
253562; Cass., sez. I, 3 marzo 2009, n. 12453, in CED Cass., n. 243742; Cass., sez. I, 6 giugno 2000, n. 4869, in CED Cass., n. 216746.
23
Cass., sez. un., 27 novembre 2014, n. 6240, in questo numero della Rivista, con nota di T. Alesci, I poteri del giudice
dell’esecuzione sulla determinazione della pena accessoria illegale: presupposti e limiti.
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Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
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Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
Scenari
Overviews
SCENARI | NOVITÀ LEGISLATIVE INTERNE
Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
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NOVITÀ LEGISLATIVE INTERNE
NATIONAL LEGISLATIVE NEWS
di Ada Famiglietti
MODIFICHE AL CODICE DI PROCEDURA PENALE IN MATERIA DI MISURE CAUTELARI PERSONALI. MODIFICHE ALLA LEGGE 26 LUGLIO 1975, N. 354, IN MATERIA DI VISITA A PERSONE AFFETTE DA HANDICAP IN SITUAZIONE DI GRAVITÀ (L. 16 APRILE 2015, N. 47)
La l. 16 aprile 2015, n. 47 (G.U., Sr. gen., 23 aprile 2015, n. 94), entrata in vigore l’8 maggio 2015, interviene su svariate disposizioni del libro IV c.p.p., proseguendo l’eterogeneo cammino di riforme che si
sono susseguite in questi anni in materia di misure cautelari personali (al riguardo, A. Scalfati, Legislazione “a pioggia” sulle cautele ad personam: l’effervescente frammentarietà di un triennio, in questa Rivista,
2014, n. 6, p. 1).
È noto, infatti, che il d.l. 26 giugno 2014, n. 92, convertito con modificazioni nella l. 11 agosto, n. 117,
aveva già modificato l’art. 275, comma 2-bis, c.p.p. con l’introduzione del divieto di applicare la custodia in carcere a fronte di una valutazione prognostica del giudice sulla pena da irrogare non superiore a
tre anni (in argomento, C. Pansini, Novità legislative interne, in questa Rivista, 2014, n. 6, p. 12).
Precedentemente, l’art. 280, comma 2, c.p.p. era stato novellato dal d.l. 1 luglio 2013, n. 78 (convertito, con modificazioni, nella l. 9 agosto 2013, n. 94), che aveva innalzato il limite minimo necessario per
la custodia cautelare da quattro a cinque anni, lasciando la possibilità di ricorrere alla misura inframuraria per il reato di finanziamento illecito dei partiti, di cui all’art. 7, l. 2 maggio 1974 n. 195 (punito con
la reclusione fino a quattro anni).
Si innesta, in tale variegato panorama normativo, la legge in commento, il cui intento riformatore è
quello di trovare una concreta soluzione al problema del sovraffollamento carcerario, coerentemente
alle sentenze della Corte e.d.u., 9 ottobre 2013, Torreggiani c. Italia e della Corte costituzionale 9 ottobre
2013, n. 279 (al riguardo, V. Pazienza, Rel. n. III/03/2015, 6 maggio 2015, www.cortedicassazione.it).
In tale direzione si orientano, da un lato, le modifiche apportate all’art. 274 c.p.p. concernenti i pericula legittimanti l’applicazione di una misura cautelare personale; dall’altro, le disposizioni relative alla
presunzione di adeguatezza della sola misura carceraria, ai sensi dell’art. 275, comma 3, c.p.p.
Si interviene, inoltre, sulla motivazione dell’ordinanza applicativa delle misure cautelari, che, ai sensi dell’art. 292 c.p.p., deve contenere anche “l’autonoma valutazione” da parte del giudice degli indizi,
delle esigenze cautelari, degli elementi forniti dalla difesa e dell’inadeguatezza della misura cautelare.
Altrettanto incisive sono alcune modifiche in tema di misure interdittive, con specifica attenzione ai
termini di durata massima delle stesse.
Infine, un ulteriore segmento di innovazioni interessa il procedimento incidentale delle impugnazioni in materia cautelare personale, in riferimento al riesame ed al giudizio di rinvio a seguito della
decisione di annullamento della Corte di cassazione.
Nello specifico, la riforma ritocca le esigenze cautelari; qui la relazione di accompagnamento alla proposta di legge ha sostenuto la necessità di prevedere che il pericolo di fuga «debba essere non solo concreto, ma anche attuale, nel senso che il rischio che la persona possa fuggire debba essere imminente».
In tal senso, l’art. 274, comma 1, lett. b) e c), c.p.p. è interessato da un’operazione di maquillage, che
introduce il requisito dell’attualità sia nel pericolo di fuga, che in quello di reiterazione del reato. Nel
contempo, si interviene simmetricamente su entrambi i pericula con l’introduzione del seguente inciso:
«Le situazioni di concreto e attuale pericolo non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità
del titolo di reato per il quale si procede». È da notare che nell’art. 274 lett. c) si precisa che tale preclusione valutativa opera «anche in relazione alla personalità dell’imputato».
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Tale operazione di innesto consente, però, di recuperare anche il coordinamento con l’art. 280 c.p.p.,
cessato per effetto delle modifiche apportate nel 2013. Attualmente, infatti, l’ambito delle fattispecie di
reato per le quali è possibile applicare la custodia in carcere, qualora sussista il pericolo di reiterazione
di delitti della stessa specie, coincide nuovamente con quello individuato dall’art. 280, comma 2, c.p.p.,
quale condizione generale di applicabilità della predetta misura (delitti puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, nonché delitto di illecito finanziamento dei partiti).
L’aspetto più rilevante della riforma in esame concerne la riscrittura del principio di gradualità della
custodia cautelare in carcere, sempre più intesa quale extrema ratio.
La n. 47/2015, infatti, ha inteso effettuare un’ulteriore riduzione dell’utilizzo della misura custodiale, perseguendo tale obiettivo nei seguenti modi:
– valorizzando e favorendo il ricorso a soluzioni alternative, quali l’applicazione cumulativa delle altre misure coercitive, o quella degli arresti domiciliari, seguendo le procedure presenti nell’art. 275-bis
c.p.p., nel testo modificato dal d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito dalla l. 21 febbraio 2014, n. 10;
– intervenendo sulle disposizioni del codice che precludevano al giudice una valutazione discrezionale relativamente all’individuazione della misura più idonea, e che imponevano la sola misura carceraria. Ed infatti, nel novellato art. 275, comma 3, c.p.p. è previsto che la misura cautelare «può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate».
Esempi di inadeguatezza sono rappresentati dai reati di incendio boschivo, maltrattamenti in famiglia, atti persecutori, furto in abitazione o con strappo, nonché quelli indicati nell’art. 4-bis ord. penit.
Inoltre gli arresti domiciliari non possono essere disposti quando sussiste la mancanza di un idoneo
luogo per l’esecuzione della misura.
Viene introdotto, altresì, un ulteriore obbligo motivazionale a carico del giudice che dispone la misura carceraria, laddove l’art. 275, comma 3-bis, c.p.p. afferma che «nel disporre la custodia cautelare in
carcere il giudice deve indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari con le procedure di controllo di cui all’articolo 275-bis, comma 1». La prescrizione delle procedure di controllo elettronico deve, infatti, essere disposta dal giudice, ai sensi del d.l. n.
146 del 2013 (conv. dalla l. n. 10/2014), che modifica il citato art. 275-bis c.p.p.
La legge in esame modifica, inoltre, la seconda parte dell’art. 275, comma 3, c.p.p. relativa
all’individuazione dei reati per i quali si applica solo la misura della custodia in carcere, sulla scia delle
pressanti indicazioni intervenute nel quinquennio 2010/2015 da parte del Giudice delle leggi. È noto,
infatti, che la Corte costituzionale ha emesso ben nove sentenze di illegittimità costituzionale, culminate
con la pronuncia del 25 febbraio 2015, n. 48, che ha dichiarato incostituzionale, per violazione degli artt.
3, 13 e 27 Cost., la presunzione di adeguatezza della sola custodia in carcere nella parte in cui non viene
fatta «salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai
quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure».
Così, nel nuovo testo dell’art. 275, comma 3, c.p.p. la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere è stata mantenuta solo per il delitto di cui all’art. 416-bis c.p. e per le ipotesi associative
di cui agli artt. 270 e 270-bis c.p. (associazioni sovversive, con finalità terroristiche e che violano la democrazia), mentre viene eliminata per i delitti con finalità di terrorismo (ad eccezione della predetta
ipotesi associativa). Infatti, la legge n. 47 del 2015 ha stabilito che, quando sussistano gravi indizi per i
delitti indicati nell’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p.: «è applicata la custodia in carcere, salvo che
siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che, in relazione al caso
concreto, le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure».
Tale precetto viene utilizzato anche per altri delitti per i quali il regime cautelare era già stato ritenuto costituzionalmente illegittimo: si tratta degli «articoli 575, 600-bis, primo comma, 600-ter, escluso il
quarto comma, 600-quinquies e, quando non ricorrano le circostanze attenuanti contemplate, 609-bis,
609-quater e 609-octies del codice penale».
Lungo la medesima finalità di riduzione della area di applicazione della custodia cautelare, rilevanti
sono gli interventi sulle norme che – a fronte di particolari condotte (trasgressione delle prescrizioni relative agli arresti domiciliari ex art. 276, comma 1-ter, c.p.p.) o condizioni personali (condanna per evasione nei precedenti cinque anni, ai sensi dell’art. 284, comma 5-bis, c.p.p.) – imponevano l’applicazione
della custodia cautelare, sottraendo al giudice ogni margine di discrezionalità. Da un lato, infatti, la sostituzione degli arresti domiciliari con la custodia in carcere, in caso di trasgressione alle prescrizioni
sul divieto di allontanarsi, viene oggi disposta dal giudice «salvo che il fatto sia di lieve entità», così
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imponendo una valutazione in ordine al disvalore del fatto per cui si procede.
Dall’altro, ai sensi del nuovo art. 284, comma 5-bis, c.p.p., vige comunque il divieto di concessione
degli arresti domiciliari al condannato per evasione nel precedente quinquennio, «salvo che il giudice
ritenga, sulla base di specifici elementi, che il fatto sia di lieve entità e che le esigenze cautelari possano
essere soddisfatte con tale misura». Per effetto della l. n. 47 del 2015, quindi, il divieto non è più assoluto, dal momento che può essere derogato sulla base del duplice presupposto del fatto di lieve entità e
della idoneità degli arresti domiciliari in relazione alle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto, secondo il criterio di adeguatezza di cui all’art. 275, comma 1, c.p.p.
Con la legge in esame si interviene, inoltre, anche in materia di misure cautelari interdittive, con due
modifiche aventi ad oggetti l’espletamento dell’interrogatorio di garanzia limitato alla sola misura della
sospensione dall’esercizio di un pubblico servizio o ufficio, nonché i termini di durata massima di tutte
le misure interdittive, che vengono completamente ridefiniti (art. 308 c.p.p.).
Com’è noto, l’art. 289 c.p.p. dispone che, nel corso delle indagini preliminari, il giudice procede
all’interrogatorio prima di decidere sulla richiesta del pubblico ministero di sospensione dall’esercizio
di un pubblico ufficio o servizio. La legge in commento (art. 7) ha invece stabilito che, se la misura della
sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio «è disposta dal giudice in luogo di una misura coercitiva richiesta dal pubblico ministero, l’interrogatorio ha luogo nei termini di cui al comma 1
bis dell’art. 294», ossia entro dieci giorni dall’esecuzione del provvedimento o dalla sua notificazione.
Pertanto, nell’ipotesi in cui il giudice procedente abbia disposto la suddetta sospensione in luogo della
misura coercitiva richiesta dal p.m., non sussiste l’obbligo di procedere all’interrogatorio preventivo.
Viene, poi, completamente riscritta la disciplina dei termini di durata delle misure interdittive, eliminando – con la totale abrogazione dell’art. 308, comma 2-bis, c.p.p. – il “doppio binario” introdotto
dalla l. 6 novembre 2012, n. 190, che ampliava detti termini limitatamente ai procedimenti per i delitti di
peculato (artt. 314 e 316 c.p.), malversazione (art. 316-bis c.p.), indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (art. 316-ter c.p.), concussione (art. 317 c.p.), corruzione (artt. 318, 319, 319-ter, 320 c.p.),
induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319-quater, comma 1, c.p.). Per tutte queste fattispecie di reato, le misure interdittive perdevano efficacia decorsi sei mesi (e non due) dall’inizio della loro
esecuzione. Analogamente, la l. n. 190 del 2012 era intervenuta anche sulla durata delle misure interdittive disposte per esigenze probatorie, delle quali, in tutti i reati precedentemente elencati, il giudice poteva disporre la rinnovazione anche oltre sei mesi dall’inizio della loro esecuzione, ma non oltre il triplo
dei termini previsti dall’art. 303 c.p.p.
La l. n. 47/2015 ha, invece, eliminato il precedente termine di due mesi (e di sei mesi, per le ipotesi
di cui all’abrogato comma 2-bis), prevedendo una durata non superiore a dodici mesi, con la con successiva perdita di efficacia della misura, decorso il termine fissato dal giudice nell’ordinanza. Altrettanto importante è l’ulteriore modifica concernente le misure interdittive disposte per esigenze probatorie,
che possono essere rinnovate non oltre un anno.
Interessata dalla riforma è anche la motivazione dell’ordinanza applicativa delle misure cautelari
che, secondo il novellato art. 292 c.p.p., deve contenere la “autonoma valutazione” da parte del giudice
degli indizi, delle esigenze cautelari, degli elementi forniti dalla difesa e della inadeguatezza della misura cautelare. Se tale ennesima interpolazione può apparire pleonastica, essendo già richiesta
“l’esposizione” dei suddetti elementi, ciò che rileva maggiormente sono le conseguenze derivanti dalla
carenza motivazionale, in sede di impugnazione davanti al Tribunale del riesame.
Ed infatti l’art. 11 della legge in esame ha aggiunto, all’art. 309, comma 9, c.p.p. il seguente periodo conclusivo: «Il tribunale annulla il provvedimento impugnato se la motivazione manca o non contiene l’autonoma
valutazione, a norma dell’art. 292, delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa».
La riconfigurazione dei poteri decisori attribuiti al Tribunale del riesame ci porta nel vivo delle modifiche concernenti le impugnazioni delle misure cautelari.
A tal fine, non si può prescindere dal dibattito interpretativo in materia di partecipazione del ricorrente al giudizio di riesame. Com’è noto, infatti, la disciplina dell’art. 309, comma 8, c.p.p. opera un mero rinvio all’art. 127 c.p.p., che delinea un modello generale di procedimento camerale a partecipazione
non necessaria, secondo cui l’interessato (espressione ampia che intende tanto l’imputato cui è applicata una misura cautelare, quanto il condannato definitivo) ha diritto ad essere sentito se compare; qualora sia detenuto o internato in luogo posto fuori della circoscrizione del giudice e ne fa richiesta, ha diritto di essere sentito prima dell’udienza camerale dal magistrato di sorveglianza del luogo in cui è ristretto (art. 127, comma 3, c.p.p.).
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Secondo un primo orientamento, in base ai principi affermati dalla Corte costituzionale con la sentenza 31 gennaio 1991 n. 45, il diritto del detenuto o internato a essere sentito personalmente vincola il
giudice, a pena di nullità assoluta e insanabile, a disporne la traduzione davanti a sé, senza possibilità
di alcuna valutazione discrezionale e senza che da ciò scaturisca l’inefficacia della misura già adottata
(Cass., sez. VI, 31 ottobre 2013, n. 44415, in Dir. pen. proc., 2014, p. 706).
A questo orientamento maggioritario se ne è contrapposto un altro, secondo cui, data la natura tipicamente camerale del procedimento di riesame, ai sensi dell’art. 127, comma 3, c.p.p., il diritto ad interloquire del detenuto fuori circoscrizione sarebbe pienamente garantito dall’audizione dello stesso presso il magistrato di sorveglianza, prima del giorno dell’udienza; conseguentemente, solo l’eventuale
omissione di tale audizione può produrre una nullità assoluta ed insanabile dell’udienza camerale e del
suo provvedimento conclusivo (Cass., sez. IV, 29 maggio 2013, n. 26993, in CED Cass., n. 255461).
In tale panorama interpretativo, è intervenuto l’art. 11 l. n. 47/2015, con la modifica dell’art. 309,
comma 6, c.p.p., secondo cui con la richiesta di riesame, oltre a poter essere enunciati anche i motivi di
gravame, «l’imputato può chiedere di comparire personalmente». Inoltre, è stato aggiunto al comma 8bis dell’art. 309 c.p.p. (dedicato alla legittimazione del p.m. richiedente la misura a partecipare
all’udienza camerale) il seguente ulteriore periodo: «L’imputato che ne abbia fatto richiesta ai sensi del
comma 6 ha diritto di comparire personalmente».
Il dato normativo enuncia in modo netto il diritto del ricorrente di comparire all’udienza camerale
fissata per la trattazione, anche se detenuto fuori distretto, previa formulazione della relativa richiesta
nell’atto di riesame. La nuova legge, peraltro, non ha modificato l’art. 309, comma 8, c.p.p. che continua
a rinviare alle disposizioni generali del procedimento in camera di consiglio contenute nell’art. 127
c.p.p., lasciando immutata la possibilità, per il ricorrente detenuto fuori distretto, di intervenire nel procedimento camerale chiedendo di essere sentito, prima dell’udienza, dal magistrato di sorveglianza del
luogo di detenzione.
Un’ulteriore modifica di rilievo concerne l’introduzione dell’art. 309, comma 9-bis c.p.p., a norma del
quale: «Su richiesta formulata personalmente dall’imputato entro due giorni dalla notificazione dell’avviso, il tribunale differisce la data dell’udienza da un minimo di cinque ad un massimo di dieci giorni
se vi siano giustificati motivi. In tal caso il termine per la decisione e quello per il deposito dell’ordinanza sono prorogati nella stessa misura». L’ambito applicativo di tale nuova disposizione è stato
esteso anche ai procedimenti di riesame avverso provvedimenti di sequestro, in virtù dell’espresso rinvio inserito nell’art. 324 c.p.p.
In tale contesto, l’art. 10, comma 5 della legge in commento ha inserito nell’art. 309, comma 10, c.p.p.
altre ulteriori importanti novità. In primo luogo: «Se la trasmissione degli atti non avviene nei termini
di cui al comma 5 o se la decisione sulla richiesta di riesame o il deposito dell’ordinanza del tribunale in
cancelleria non intervengono nei termini prescritti, l’ordinanza che dispone la misura coercitiva perde
efficacia e, salve eccezionali esigenze cautelari pacificamente motivate, non può essere rinnovata».
In secondo luogo, si prevede un differente ed ulteriore termine per il deposito dell’ordinanza in cancelleria, misurato in trenta giorni decorrenti dalla decisione, salvo che la stesura della motivazione si
riveli particolarmente complessa «per il numero degli arrestati o la gravità delle imputazioni»: in tale
ipotesi, il giudice può disporre per il deposito un termine più lungo, comunque non superiore il quarantacinquesimo giorno da quello della decisione. È così sancita la possibilità di depositare l’ordinanza
in un momento successivo rispetto a quello della decisione, ed in particolare anche oltre i dieci giorni
indicati nell’art. 309, comma 9, c.p.p. Non si può, però, fare a meno di evidenziare che il nuovo termine
– come quelli relativi alla trasmissione degli atti ed alla decisione – ha natura perentoria; conseguentemente, la sua violazione determinerà la perdita di efficacia dell’ordinanza applicativa della misura cautelare. Inoltre, la l. n. 47/2015 diminuisce sensibilmente la possibilità di emettere un nuovo provvedimento cautelare: l’art. 309, comma 10, prevede infatti che, in caso di perdita di efficacia per il mancato
rispetto di uno dei termini predetti, «l’ordinanza che dispone la misura coercitiva perde efficacia e, salve eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate, non può essere rinnovata».
Con l’art. 12, viene poi modificata la disciplina dei termini per la decisione adottata dal tribunale in
sede di appello ex art. 310 c.p.p. Il testo finora vigente si limitava a prevedere che «il tribunale decide
entro venti giorni dalla ricezione degli atti» (art. 310, secondo comma, ultimo periodo). La novella è intervenuta aggiungendo al predetto termine per la decisione, anche nel giudizio di appello, un termine
per il deposito dell’ordinanza, sempre quantificato in trenta giorni, salva la possibilità di disporre un
termine più lungo (comunque non eccedente i quarantacinque giorni) in caso di complessità della mo SCENARI | NOVITÀ LEGISLATIVE INTERNE
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tivazione desunta «dal numero degli arrestati o la gravità delle imputazioni».
La disposizione introdotta nell’art. 310 c.p.p. è così identica a quella inserita nell’art. 309, comma 10,
c.p.p. ma con conseguenze diametralmente opposte nell’ipotesi di mancato rispetto del termine introdotto, che nel giudizio di appello conserva il carattere ordinatorio. Conseguentemente, il mancato rispetto dei termini per la decisione e per il deposito dell’ordinanza, di cui al novellato art. 310, non produce effetti quanto alla validità ed efficacia della misura cautelare.
Infine, l’art. 311, comma 5-bis, c.p.p. introduce anche per il giudizio di rinvio a seguito di annullamento in cassazione un doppio termine: dieci giorni dalla ricezione degli atti per la decisione del giudice e trenta giorni dalla decisione per il deposito dell’ordinanza. Nel caso in cui i predetti termini non
vengano rispettati, «l’ordinanza che ha disposto la misura coercitiva perde efficacia, salvo che
l’esecuzione sia sospesa ai sensi dell’articolo 310, comma 3, e, salve eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate, non può essere rinnovata». Pertanto, anche nel procedimento conseguente ad una
decisione di annullamento con rinvio, i termini sono perentori e la loro violazione determina la perdita
di efficacia della misura.
Da ultimo, si segnalano le modifiche apportate all’art. 21-ter l. 26 luglio 1975, n. 354, che registra un
ampliamento delle possibilità di visita ed assistenza del figlio di persone condannate, detenute o internate, anche all’ipotesi in cui egli sia «affetto da handicap in situazione di gravità, ai sensi dell’articolo 3,
comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, accertata ai sensi dell’articolo 4 della medesima legge», ed
indipendentemente dalla minore età. In secondo luogo, viene ampliata la sfera applicativa dell’art. 21ter ord. penit., inserendovi un comma 2-bis, ai sensi del quale i due commi precedenti «si applicano anche nel caso di coniuge o convivente» affetto da handicap grave. Tale situazione di gravità deve essere
stata accertata «dalle unità sanitarie locali mediante le commissioni mediche di cui all’articolo 1 della
legge 15 ottobre 1990, n. 295, che sono integrate da un operatore sociale e da un esperto nei casi da esaminare, in servizio presso le unità sanitarie locali» (art. 3, comma 4, l. n. 104 del 1992).
CONTRASTO AL TERRORISMO, ANCHE INTERNAZIONALE, PROROGA DELLE MISSIONI INTERNAZIONALI
DELLE FORZE ARMATE E DI POLIZIA, E INIZIATIVE DI COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO E SOSTEGNO AI PROCESSI DI RICOSTRUZIONE (L. 17 APRILE 2015, N. 43)
Con la legge in epigrafe (G.U., Sr. gen., 20 aprile 2015, n. 91) è stato convertito il d.l. 18 febbraio 2015, n.
7 (G.U., Sr. gen., 19 febbraio 2015, n. 41) per il commento del quale si rimanda a N. Russo, Novità legislative interne, in questa Rivista, 2015, n. 3, p. 20.
Tra le modifiche apportate in sede di conversione, si segnala l’introduzione, nella disciplina delle intercettazioni preventive, dei delitti di cui all’art. 51, comma 3-quater, c.p.p. commessi mediante
l’impiego di tecnologie informatiche o telematiche. Si inserisce, inoltre, nell’art. 226 norme att. c.p.p., un
comma 3-bis, in base al quale il Procuratore della Repubblica può autorizzare, per un periodo non superiore a ventiquattro mesi, la conservazione dei dati acquisiti, anche relativi al traffico telematico, esclusi
i contenuti delle comunicazioni, quando gli stessi siano indispensabili per la prosecuzione dell’attività
finalizzata alla prevenzione dei delitti indicati nella norma.
Si interviene, inoltre, in materia di arresto obbligatorio in flagranza di reato, estendendone l’ambito
oggettivo anche ai delitti di “fabbricazione, detenzione o uso di documento di identificazione falso”,
ovvero ai delitti di “promozione, direzione, organizzazione, finanziamento o effettuazione di trasporto
di persone ai fini dell’ingresso illegale nel territorio dello Stato”, ai sensi del novellato art. 380, comma
2, lett. m-bis e m-ter, c.p.p.
GARANTE NAZIONALE DEI DIRITTI DELLE PERSONE DETENUTE O PRIVATE DELLA LIBERTÀ PERSONALE
(D.M. 11 MARZO 2015, N. 36)
È entrato in vigore il 15 aprile scorso il decreto del Ministro della Giustizia 11 marzo 2015, n. 36 (G.U.,
Sr. gen., 31 marzo 2015, n. 75), recante il regolamento concernente la struttura e la composizione dell’ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute, istituito in attuazione dell’art. 7 d.l. n.
146/2013.
Compito di tale organo sarà quello di controllare le condizioni di reclusione dei detenuti, per prevenire eventuali violazioni di diritti fondamentali, coerentemente alla sentenza della Corte e.d.u., 9 otto SCENARI | NOVITÀ LEGISLATIVE INTERNE
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bre 2013, Torreggiani. In particolare il Garante è costituito in collegio, composto dal presidente e da due
componenti scelti tra persone, non dipendenti delle pubbliche amministrazioni, che assicurino indipendenza e competenza nelle discipline afferenti la tutela dei diritti umani. Tali componenti sono nominati previa delibera del Consiglio dei ministri, con decreto del Presidente della Repubblica, sentite le
competenti commissioni parlamentari.
L’ufficio del garante è istituito presso il Ministero della giustizia con una dotazione di personale di
venticinque unità e senza gravare di maggiori oneri il bilancio dello Stato. Scopo ulteriore dell’ufficio è
quello di fare da raccordo con i Garanti a livello territoriale competenti per i luoghi di restrizione della
libertà che ricadono nella giurisdizione del territorio, compresi i Centri di identificazione e di espulsione e le comunità terapeutiche.
DISPOSIZIONI IN MATERIA DI DELITTI CONTRO L’AMBIENTE (L. 22 MAGGIO 2015, N. 68)
La legge in epigrafe (G.U., Sr. gen., 28 maggio 2015, n. 122) introduce nel codice penale, dopo un tortuoso iter normativo caratterizzato da una lunga gestazione, un nuovo titolo VI-bis nel libro II, intitolato
“Dei delitti contro l’ambiente”. Tra questi meritano di essere evidenziati: il delitto di inquinamento ambientale, di cui all’art. 452-bis c.p., che punisce con la reclusione da due a sei anni e con la multa da euro
10.000 a euro 100.000 «chiunque abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e
misurabili: a) delle acque o dell’aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo; b) di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna»; il delitto di morte o lesioni come conseguenza del reato di inquinamento ambientale, previsto dall’art. 452-ter c.p.; il delitto di disastro ambientale, ex art. 452-quater c.p., che sanziona con la reclusione da cinque a quindici anni chiunque, al di
fuori dei casi previsti dall’art. 434 c.p., «abusivamente cagiona un disastro ambientale». La nuova disciplina
incide anche sul versante delle misure di sicurezza patrimoniali adottabili, introducendo una nuova
ipotesi di confisca delle cose che costituiscono il prodotto o il profitto del reato o che sono servite a
commettere il reato, salvo che appartengano a persone estranee al reato. Tale confisca è obbligatoria, secondo l’indicazione testuale della norma, per cui la stessa «è sempre ordinata» nel caso di condanna o
di applicazione della pena su richiesta delle parti, ai sensi dell’art. 444 c.p.p., per i delitti previsti dagli
articoli 452-bis, 452-quater, 452-sexies, 452-septies e 452-octies c.p.
Nel caso in cui la confisca di beni non sia possibile, il giudice individua beni di valore equivalente di
cui il condannato abbia, anche indirettamente o per interposta persona, la disponibilità e ne ordina la
confisca. I beni confiscati o i loro eventuali proventi sono messi nella disponibilità della pubblica amministrazione competente e vincolati all’uso per la bonifica dei luoghi. L’istituto della confisca non trova applicazione nell’ipotesi in cui l’imputato abbia efficacemente provveduto alla messa in sicurezza e,
ove necessario, alle attività di bonifica e di ripristino dello stato dei luoghi. Infine, ai sensi dell’art. 452duodecies c.p., quando pronuncia sentenza di condanna ovvero di patteggiamento per taluno dei delitti
previsti dal titolo VI-bis c.p., il giudice ordina il recupero e, ove tecnicamente possibile, il ripristino dello stato dei luoghi, ponendone l’esecuzione a carico del condannato e degli enti forniti di personalità
giuridica civilmente obbligati per la pena pecuniaria.
La legge contiene anche una parte concernente l’estinzione, in via amministrativa, delle ipotesi di
contravvenzioni di cui al d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, con l’introduzione di una nuova “Parte sesta-bis”,
intitolata “Disciplina sanzionatoria degli illeciti amministrativi e penali in materia di tutela ambientale”. Risultano, pertanto, sottoposte alla nuova disciplina, sempre nel presupposto che non abbiano «cagionato danno o pericolo concreto e attuale di danno alle risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche protette» varie fattispecie in materia di: autorizzazione integrata ambientale; scarichi di acque reflue industriali; rifiuti; bonifica di siti contaminati; emissioni in atmosfera.
L’art. 318-ter del Testo unico ambientale, dunque, stabilisce che «allo scopo di eliminare la contravvenzione accertata, l’organo di vigilanza, nell’esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria di cui
all’articolo 55 del codice di procedura penale, ovvero la polizia giudiziaria impartisce al contravventore
un’apposita prescrizione (…) asseverata tecnicamente dall’ente specializzato competente nella materia
trattata», fissando per la regolarizzazione un termine non prorogabile per più di sei mesi. Si prevede,
inoltre, l’obbligo di notificare o comunicare la prescrizione anche al rappresentante legale dell’ente
nell’ambito del quale opera il contravventore (comma 2), con potestà, per l’organo accertatore, di «imporre specifiche misure atte a far cessare situazioni di pericolo ovvero la prosecuzione di attività poten SCENARI | NOVITÀ LEGISLATIVE INTERNE
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zialmente pericolose». Permane, in entrambi i casi, l’obbligo per l’organo di vigilanza di riferire al p.m.
la notizia di reato relativa alla contravvenzione, ai sensi dell’art. 347 c.p.p.
Rilevante è fase di la verifica dell’adempimento (articolo 318-quater, d.lgs. n. 152/2006), secondo cui
entro e non oltre sessanta giorni dalla scadenza del termine fissato nella prescrizione, l’organo accertatore dovrà verificare «se la violazione è stata eliminata secondo le modalità e nel termine indicati dalla
prescrizione». Sono due i possibili epiloghi: la verifica dell’avvenuto adempimento alla prescrizione,
oppure l’eventuale inadempimento della stessa, che comporterà, per l’organo accertatore, l’obbligo di
comunicazione al p.m. e il conseguente riavvio dell’azione penale fino a questo momento sospesa. Si
prevede, infatti, ai sensi del nuovo art. 318-sexies la “sospensione del procedimento” per la contravvenzione, decorrente dal momento dell’iscrizione della notizia di reato nel registro delle notizie di reato di
cui all’art. 335 c.p.p. e fino al momento in cui il p.m. riceve una delle due comunicazioni alternative circa l’avvenuto adempimento entro i termini, ovvero l’inadempimento. La sospensione del procedimento
non preclude l’assunzione delle prove con incidente probatorio, né l’adozione degli eventuali atti urgenti di indagine preliminare, o il sequestro preventivo.
L’adempimento della prescrizione e l’annesso pagamento, entro il termine di trenta giorni, della
somma pari ad un quarto del massimo dell’ammenda stabilita per la contravvenzione determinano
l’estinzione del reato, con conseguente obbligo di chiedere l’archiviazione da parte del p.m., ai sensi
dell’art. 318-septies. Si prevede, inoltre, l’ipotesi di adempimento della prescrizione in un tempo superiore a quello indicato; se questo risulta “congruo”, si valuterà l’applicazione dell’oblazione ai sensi
dell’art. 162-bis c.p. con riduzione, in tal caso, della somma da versare fino alla metà del massimo
dell’ammenda stabilita per la contravvenzione commessa (articolo 318-septies, comma 3, d.lgs. n.
152/2006).
DISPOSIZIONI IN MATERIA DI DELITTI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE, DI ASSOCIAZIONI DI TIPO MAFIOSO E DI FALSO IN BILANCIO (L. 27 MAGGIO 2015, N. 69).
È stata pubblicata la nuova legge anti-corruzione (G.U., Sr. gen., 30 maggio 2015, n. 124), finalmente
approvata dal Parlamento, dopo oltre due anni dall’inizio del suo complesso iter legislativo. L’intervento normativo tende ad un generalizzato aumento delle pene in materia di delitti contro la pubblica
amministrazione e aggiorna, altresì, le norme del codice civile, in materia societaria, modificando l’art
2621 c.c. relativo alle “False comunicazioni sociali” e l’art. 2622 c.c., recante le “False comunicazioni sociali delle società quotate”. Si introducono, inoltre, sempre nel codice civile, gli articoli 2621-bis e 2621ter, che prevedono attenuanti per “Fatti di lieve entità” e ipotesi di “Non punibilità per particolare tenuità del fatto”.
Tra le novità da segnalare, nel codice penale, vi è l’aumento della pena per il reato di induzione indebita a dare o promettere utilità, di cui all’art. 319-quater, il cui tetto normativo è stato innalzato «da 6
anni a 10 anni e 6 mesi». Il legislatore, inoltre, sull’onda del dibattito interpretativo maturato in materia di concussione (art. 317 c.p.), ha ricompreso fra i soggetti attivi del reato anche l’incaricato di un
pubblico servizio, così come già previsto nella versione precedente alla c.d. legge Severino (l. n. 190 del
2012).
Nei casi di condanna per i reati previsti dagli artt. 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320 e 322-bis,
c.p., la sospensione condizionale della pena è subordinata al pagamento di una somma equivalente al
profitto del reato ovvero all’ammontare di quanto indebitamente percepito dal pubblico ufficiale o
dall’incaricato di un pubblico servizio, a titolo di riparazione pecuniaria in favore dell’amministrazione
lesa dalla condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio.
Inoltre, la l. n. 69/2015 disciplina una nuova circostanza attenuante per la “collaborazione processuale
” (art. 323-bis c.p.), che si applica ai responsabili di delitti contro la p.a., che si adoperino efficacemente per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori e forniscano concreta collaborazione, con una riduzione di pena da un terzo a due terzi.
Sotto il profilo strettamente processuale, invece, rilevante è la modifica concernente il patteggiamento, la cui ammissibilità della richiesta è subordinata, nei procedimenti per i delitti suindicati (ad eccezione dell’art. 320 c.p.) alla restituzione integrale del prezzo o del profitto, ai sensi del novellato art. 444,
comma 1-ter, c.p.p.
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Degna di interesse, altresì, lungo la scia già intrapresa dal d.l. 10 dicembre 2013, n. 136 sulla “Terra
dei fuochi”, è l’innovazione dell’art. 129 norme att. c.p.p., che estende anche in relazione ai delitti di cui
agli artt. 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322, 322-bis, 346-bis, 353 e 353-bis c.p., gli obblighi di informazione del pubblico ministero, in sede di esercizio dell’azione penale, al presidente
dell’Autorità nazionale anticorruzione.
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NOVITÀ SOVRANAZIONALI
SUPRANATIONAL NEWS
di Marina Troglia
LA RATIFICA DEL TRATTATO DI ASSISTENZA GIUDIZIARIA IN MATERIA PENALE FRA
ITALIA E CINA
La legge 29 aprile 2015, n. 64 (in G.U., 19 maggio 2015, n. 114) autorizza il nostro Paese alla ratifica ed
esecuzione del Trattato stipulato a Roma, il 7 ottobre 2010, fra Italia e Repubblica popolare cinese in
materia di reciproca assistenza giudiziaria penale (v. M. D’Aiuto, De jure condendo, in questa Rivista,
2013, 3, pp. 13-14).
La Repubblica popolare cinese non è parte – né ha inteso aderirvi come Stato terzo – della Convenzione del Consiglio d’Europa in materia di assistenza giudiziaria, firmata a Strasburgo il 20 aprile 1959.
Si prosegue, così, nello sviluppo delle intese bilaterali (in materia v. M. Pisani, L’assistenza giudiziaria
internazionale, in Nuovi temi e casi di procedura penale internazionale, Milano, 2007, p. 33 e ss.), con cui gli
Stati si impegnano a prestarsi reciprocamente assistenza giudiziaria, nell’ottica di un generale rafforzamento della cooperazione in materia penale, sulla base del “reciproco rispetto della sovranità,
dell’uguaglianza e del mutuo vantaggio” (v. Preambolo del Trattato).
Questo accordo segna un importante passo in avanti nel contesto degli strumenti finalizzati alla regolamentazione dei rapporti di cooperazione tra Italia e Stati non appartenenti al Consiglio d’Europa.
Gli sviluppi spesso si verificano fra sistemi giuridici non omogenei (peraltro, con la Cina erano stati sottoscritti il 7 ottobre 2010 due trattati, di estradizione e cittadinanza, e ne dava notizia D. Vigoni, in questa Rivista, 2011, 1, p. 11; con riferimento ai fattori che hanno condotto allo sviluppo di accordi bilaterali,
v. E. Zanetti, Recenti convenzioni internazionali in tema di cooperazione giudiziaria, in Legislazione pen., 2010,
p. 103 e ss.), nel solco di un rafforzato impegno comune che non risulta limitato alle previsioni del Trattato ma che, come il medesimo precisa, “non impedisce alle Parti di concedersi reciproca assistenza
conformemente ad altri accordi internazionali applicabili o alla legislazione nazionale” (art. 20).
Il Trattato in materia di assistenza giudiziaria penale fra Italia e Cina si compone di 22 disposizioni
ed è redatto in lingua italiana, cinese ed inglese con la precisazione per cui, in caso di divergenze di interpretazione, prevarrà il testo in lingua inglese. La durata dell’accordo è indeterminata, ma si fa salva
la possibilità, per ognuna delle due Parti, di recedere in qualsiasi momento, purché sia fornita comunicazione scritta all’altra, per via diplomatica; il Trattato cesserà di avere effetto dopo 180 giorni dalla data di comunicazione della denuncia (art. 22, par. 3). Si precisa, inoltre, che il Trattato concerne le richieste di assistenza trasmesse dopo la sua entrata in vigore, anche laddove “gli atti o le omissioni siano stati commessi prima” di detto momento (art. 22 par. 4).
Con riferimento all’ambito di applicazione, le Parti si impegnano ad una generale prestazione della
“più ampia assistenza giudiziaria reciproca in materia penale” (art. 1 par. 1), e in particolare il Trattato
chiarisce puntualmente che detta assistenza comprende (art. 1 par. 2): la notifica di documenti relativi a
procedimenti penali (lett. a); l’assunzione di testimonianze o dichiarazioni, nonché di perizie (lett. b e c);
l’invio di documenti, atti ed elementi di prova (lett. d); la ricerca e l’identificazione di persone (lett. e);
l’esecuzione di ispezioni giudiziarie o l’esame di luoghi od oggetti (lett. f); il trasferimento di persone
detenute al fine di rendere testimonianza o partecipare ad altri atti processuali (lett. g); l’esecuzione di
indagini, le perquisizioni, i congelamenti e i sequestri di beni nonché la confisca dei proventi e delle cose pertinenti al reato (lett. h e i); la comunicazione dell’esito dei procedimenti penali e la trasmissione di
informazioni desunte dagli archivi giudiziari, nonché lo scambio di informazioni in materia di diritto
(lett. j e k). Infine, la cooperazione riguarda anche “qualsiasi altra forma di assistenza che non contrasti
con le leggi della Parte richiesta” (lett. l).
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Il Trattato non trova, invece, applicazione nei seguenti casi (art. 1, par. 3): estradizione di persone
(lett. a); esecuzione di sentenze penali o decisioni pronunciate nella Parte richiedente, salvo quanto consentito dalle leggi della Parte richiesta e dal Trattato medesimo (lett. b); trasferimento della persona
condannata ai fini dell’esecuzione della pena (lett. c); trasferimento dei procedimenti penali (lett. d).
Con riferimento ai canali di comunicazione, le richieste vanno indirizzate, per iscritto, alle autorità
centrali degli Stati (art. 2) individuate, tanto per l’Italia, quanto per la Repubblica popolare cinese, nei
rispettivi Ministeri della Giustizia, che comunicheranno direttamente riguardo a ogni questione connessa alle domande di assistenza giudiziaria e ai quali è altresì devoluta la risoluzione di eventuali controversie in merito all’interpretazione e all’applicazione del Trattato medesimo (art. 21, par. 1); nel caso
in cui non si pervenga ad un accordo, il conflitto sarà composto per via diplomatica (par. 2).
Tra i motivi di rifiuto dell’assistenza giudiziaria (art. 3) sono contemplate alcune ipotesi, che riguardano i casi in cui: la domanda si riferisca ad una condotta che non costituisce reato ai sensi delle leggi
della Parte richiesta (vale, dunque, il generale principio di doppia incriminabilità) (lett. a); la Parte richiesta ritenga che la domanda riguardi un reato di natura politica, con l’eccezione dei reati di terrorismo o dei reati che non si considerino come illeciti politici sulla base di quanto previsto dalle Convenzioni internazionali delle quali entrambi gli Stati siano Parti (lett. b); la richiesta si riferisca ad un reato
di natura esclusivamente militare, secondo la normativa della parte richiedente (lett. c); vi siano fondati
motivi per la Parte richiesta di ritenere che la domanda sia stata formulata al fine di indagare, perseguire, punire, o promuovere altre azioni nei confronti di una persona per motivi di razza, sesso, religione,
nazionalità, opinione politica o nel caso in cui la posizione di tale persona possa essere pregiudicata per
uno dei motivi indicati (lett. d); la Parte richiesta abbia già concluso, o anche solo iniziato, un procedimento penale, oppure sia già stata pronunciata sentenza definitiva nei confronti della medesima persona indagata o imputata per lo stesso reato indicato nella domanda (lett. e); la Parte richiesta ritenga che
l’eventuale accoglimento della domanda possa compromettere la propria sovranità, sicurezza, ordine
pubblico od altri interessi di natura essenziale dello Stato ovvero possa determinare conseguenze che
contrastino con i principi fondamentali della propria legislazione nazionale (lett. f). È altresì previsto
che la Parte richiesta possa rinviare la concessione dell’assistenza richiesta nel caso in cui l’esecuzione
della domanda interferisca con un procedimento penale in corso. È tuttavia prevista (par. 3) la possibilità di valutare, prima del rifiuto o del rinvio, se – a determinate condizioni – l’assistenza giudiziaria possa comunque essere soddisfatta: in questo caso, quando la Parte richiedente accetti l’assistenza, è tenuta
a rispettare le condizioni apposte. Comunque, sussiste un obbligo di informazione circa le ragioni
dell’eventuale rifiuto o rinvio (par. 4).
Quanto alla forma e al contenuto, oltre a dover essere redatta per iscritto, munita di firma o timbro
dell’autorità richiedente e tradotta nella lingua della Parte richiesta, la domanda di assistenza giudiziaria dovrà contenere alcune indicazioni minime (fra le quali, ad esempio, il nome dell’autorità competente che conduce il procedimento penale a cui si riferisce la richiesta, nonché l’indicazione del reato e
delle norme che lo prevedono, l’esposizione dei fatti e una descrizione delle attività richieste: cfr. art. 4),
fermo restando che, laddove quelle fornite siano ritenute insufficienti, è consentito richiedere all’altra
Parte informazioni integrative (art. 4, par. 4).
Ove non sussistano motivi di rifiuto e i requisiti di forma e contenuto siano soddisfatti, alla richiesta
dovrà essere data immediata esecuzione, conformemente alla legislazione interna (art. 5, par. 1), sempre
che la Parte richiedente non abbia individuato peculiari modalità di esecuzione, nel qual caso sarà consentito di darvi attuazione, sempre che le medesime non siano in contrasto con la legislazione dello Stato richiesto (par. 2). Sempre che ciò sia possibile e non contrasti con le legislazioni interne, le Parti possono accordarsi per l’utilizzo di collegamenti in videoconferenza, quando si debba procedere all’assunzione di
testimonianze o altre dichiarazioni in situazioni particolari (par. 3). Da ultimo, sussiste un generale obbligo di informazione, tempestiva, circa l’esito dell’esecuzione della domanda, e immediata, nel caso in cui,
invece, l’esecuzione non possa avere luogo, con contestuale indicazione dei motivi (par. 4).
Ulteriori previsioni di ordine generale attengono, in primo luogo, al carattere di riservatezza attribuito tanto alle richieste di assistenza giudiziaria, quanto all’esito delle medesime: nel caso in cui non
possa essere dato seguito alla richiesta senza che la riservatezza risulti violata, si prevede un obbligo di
informazione alla Parte richiedente, cui spetterà l’ultima decisione circa l’esecuzione della domanda
(art. 6, par. 1). Inoltre, nel rispetto del principio di specialità (par. 2), la Parte richiedente si impegna ufficialmente, in assenza di una previa autorizzazione da parte dello Stato richiesto, a non utilizzare le informazioni o le prove ottenute per fini diversi da quelli sottesi alla domanda.
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Il Trattato dedica specifiche previsioni agli strumenti di assistenza giudiziaria oggetto di possibili richieste, a partire dalla disciplina in tema di notificazioni di documenti relativi a procedimenti penali
(art. 7). Tali notifiche vanno effettuate secondo la legislazione nazionale della Parte richiesta, a cui spetta provvedere a trasmettere a quella richiedente un’attestazione di avvenuta notifica che rechi, per
quanto possibile, le informazioni necessarie a verificare data, luogo e modalità, corredata inoltre di firma e timbro dell’autorità notificante. Anche in questo caso, laddove non sia stato possibile eseguire detto adempimento, la Parte richiedente sarà destinataria di un avviso, con l’indicazione dei motivi a sostegno della mancata esecuzione (art. 7, par. 2).
Quanto, poi, all’assunzione delle prove (art. 8), che avverrà secondo la legislazione nazionale della
Parte richiesta di assistenza, con riguardo alla trasmissione di atti e documenti è consentito l’invio di
copie o fotocopie, certificate conformi, sempre che non siano stati espressamente richiesti gli originali;
documenti e altro materiale da trasmettere devono essere certificati secondo le modalità stabilite dalla
Parte richiedente, sempre che ciò non contrasti con la legislazione della Parte richiesta; documenti, atti e
oggetti trasmessi andranno poi restituiti, a fronte di specifica domanda (par. 1, 2, 3 e 4). Si prevede,
inoltre, a determinate condizioni, che la Parte richiesta possa autorizzare ad essere presenti all’esecuzione persone specificamente indicate nella domanda di assistenza, le quali hanno facoltà, per il tramite
delle autorità competenti della Parte richiesta, di formulare domande in relazione alle attività di assistenza giudiziaria; di qui l’impegno ad una tempestiva informazione della data e del luogo di esecuzione della richiesta (par. 5).
In favore di chi viene indicato, nella richiesta, come testimone, il Trattato prevede alcune garanzie,
prima fra tutte quella relativa alla facoltà di rifiutarsi di deporre, a condizione che ciò sia consentito i)
dalla legislazione della Parte richiesta in situazioni analoghe ii) dalla legislazione dello Stato richiedente
in tutti i casi in cui il rifiuto di testimoniare sia previsto, sempre che ne sia stata fatta menzione espressa
nella domanda (art. 9). In secondo luogo, si prevede specificamente che il testimone o il perito non sia
indagato perseguito, arrestato o sottoposto a misure privative della libertà personale in relazione a fatti
precedenti la sua entrata nel territorio, e anche che non sia obbligato a testimoniare a partecipare ad altro atto in un procedimento diverso da quello indicato nella domanda, salvo espresso consenso del
soggetto e della Parte richiesta (art. 12 par. 1). Un’eccezione alla regola riguarda il caso in cui la persona
in questione, informata del fatto che la sua presenza non è più necessaria sul territorio, si trattenga nel
Paese oltre il quindicesimo giorno dalla ricezione di detta comunicazione, ovvero vi abbia fatto ritorno
volontariamente, sempre che le ragioni della prosecuzione del soggiorno non siano estranee alla sua volontà (par. 2). Da ultimo (par. 3), si precisa che il soggetto che abbia rifiutato di collaborare non sarà
comunque sanzionato, né sarà destinatario di misure coercitive privative della libertà personale.
Dell’avvenuta trasmissione dell’invito a comparire, così come della eventuale disponibilità della persona, sarà resa edotta la Parte richiedente, la quale dovrà indicare la sussistenza e la misura di eventuali
indennità e rimborsi spesa nei confronti del soggetto richiesto (art. 10).
In linea con tali disposizioni si pone anche la norma che consente il temporaneo trasferimento di una
persona detenuta (art. 11), al fine di comparire davanti ad un’autorità dello Stato richiedente per rendere testimonianza o compiere altri atti processuali, sempre che la persona medesima presti il proprio
consenso e sussista un accordo scritto tra le Parti, che indichi precisamente le condizioni del trasferimento (par. 1). Il soggetto dovrà essere trattenuto in stato di detenzione fino all’avvenuto espletamento
dell’atto richiesto, al termine del quale sarà immediatamente riconsegnato (par. 2 e 3). Peraltro, sarà riconosciuto, ai fini dell’esecuzione della pena inflitta dalla Parte richiesta, anche il periodo detentivo trascorso per l’atto di assistenza giudiziaria (par. 4).
Altre attività di natura investigativa oggetto di assistenza giudiziaria specificamente considerate nel
Trattato riguardano, in particolare: indagini, perquisizioni, congelamento e sequestro di beni (art. 13);
accertamenti bancari (art. 14); sequestro dei proventi e delle cose pertinenti al reato e relativa confisca
(art. 15); lo scambio di informazioni, tanto sui procedimenti penali (art. 16), quanto sulla legislazione
interna (art. 17).
Con riferimento alle attività di indagine, perquisizione, congelamento e sequestro di beni (art. 13
par. 1) si prevede l’esecuzione conformemente alla legislazione nazionale della Parte richiesta e ogni informazione al riguardo (par. 2); fatti salvi i diritti dei terzi in buona fede e la possibilità di riconsegna
dei beni al legittimo proprietario, la Parte richiesta può porre a disposizione dello Stato richiedente
quanto oggetto di sequestro (par. 3).
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Anche in ordine alle attività di accertamento di conti bancari di una persona fisica o giuridica,
l’adempimento dovrà essere effettuato “prontamente”, mentre l’esito va comunicato “senza indugio”
(art. 14, par. 1). È importante sottolineare che l’assistenza non potrà essere rifiutata opponendo motivi
di segreto bancario (par. 2).
Quanto, poi, alle indagini relative alla verifica, sul territorio della Parte richiesta, di proventi di reato
o di cose pertinenti al reato (art. 15, par. 1), la Parte richiedente è tenuta ad indicare le ragioni per cui si
ritiene che nel territorio della Parte richiesta possano trovarsi proventi o cose pertinenti al reato. Nel caso di effettivo rinvenimento, si consente alla Parte richiesta, previa specifica indicazione della richiedente, di adottare le misure previste dalla legislazione nazionale al fine del congelamento, del sequestro
e della confisca di detti beni, i quali potranno altresì essere trasferiti, così come le somme conseguite
mediante la loro vendita (par. 2 e 3). La disposizione contempla, infine, una clausola di salvaguardia
dei diritti della Parte richiesta, nonché dei terzi, su tali proventi e sulle cose pertinenti al reato (par. 4).
Flussi informativi si prospettano sia, in rapporto al procedimento penale per il quale è formulata la
richiesta di assistenza, circa i procedimenti penali, i precedenti penali, le condanne inflitte nei confronti
dei cittadini della Parte richiedente (art. 16), sia, per quanto interessa ai fini dell’applicazione del Trattato, riguardo alla legislazione e alle procedure giudiziarie dei rispettivi Paesi, (art. 17).
Si specifica anche che per la trasmissione di ogni documento non è richiesta alcuna forma di legalizzazione (art. 18).
Alcune disposizioni riguardano poi la ripartizione delle spese per l’esecuzione della rogatoria (art.
19): di regola è la Parte richiesta a sostenere i costi per l’esecuzione della rogatoria, eccettuate alcune
spese espressamente indicate; laddove l’esecuzione della richiesta di assistenza comporti spese straordinarie, verranno concordate le condizioni di esecuzione e i criteri di suddivisione dei costi.
Il Trattato Italia-Cina in materia di assistenza giudiziaria entra in vigore il “trentesimo giorno dalla
data dello scambio degli strumenti di ratifica”, che avverrà a Roma (art. 22, parr. 1 e 2); si applicherà a
ogni richiesta presentata dopo la sua entrata in vigore, anche se riguarda reati commessi precedentemente (par. 4).
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DE JURE CONDENDO
di Nicola Triggiani
LA RIFORMA DELLA DISCIPLINA DEI RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE
La Commissione Giustizia e la Commissione Affari esteri e comunitari della Camera dei Deputati stanno esaminando il d.d.l. C. 2813, presentato il 13 gennaio 2015 dal Ministro della Giustizia Orlando di
concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze Padoan e recante “Delega al Governo per la riforma
del libro XI del codice di procedura penale. Modifiche alle disposizioni in materia di estradizione per l’estero: termine per la consegna e durata massima delle misure coercitive”.
Ove approvato, si tratterebbe del più incisivo intervento operato dal legislatore sull’ultimo libro del
c.p.p., dedicato ai “Rapporti giurisdizionali con autorità straniere”, dopo la l. 5 ottobre 2001, n. 367
(“Ratifica ed esecuzione dell’Accordo tra Italia e Svizzera che completa la Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 20 aprile 1959 e ne agevola l’applicazione, fatta a Roma il 10 settembre 1998, nonché conseguenti modifiche al codice penale e al codice di procedura penale sulle rogatorie internazionali”).
La riforma proposta dal Governo – come emerge dalla Relazione di accompagnamento al disegno di
legge – trova fondamento nell’unanime riconoscimento dell’inadeguatezza dell’attuale sistema normativo di assistenza giudiziaria, a fronte di una criminalità (in particolare, quella organizzata) che ha ormai esteso il suo raggio d’azione ben oltre i confini territoriali dei singoli Stati ed è tesa a sfruttare tutte
le opportunità offerte dalla globalizzazione dei mercati e dalle nuove tecnologie di comunicazione e informazione. Le modifiche che si vorrebbero introdurre costituiscono anche una priorità d’azione nella
prospettiva della ratifica di molte convenzioni internazionali stipulate negli ultimi anni, a dimostrazione di una sempre maggiore volontà di cooperazione nel contrasto dei fenomeni criminali.
Il progetto di legge – che ha tenuto conto dei risultati della Commissione di riforma del codice di
procedura penale istituita con d.m. 26 luglio 2006 e presieduta dal Prof. Giuseppe Riccio (c.d. “Bozza
Riccio”), nonché dei lavori in precedenza svolti dalla Commissione ministeriale incaricata di provvedere allo studio e alla redazione di schemi di testi normativi per l’adeguamento della normativa vigente
agli atti internazionali concernenti l’Italia in materia processuale penale e allo studio dei necessari aggiornamenti del libro XI del c.p.p., Commissione quest’ultima istituita con d.m. 30 luglio 1999 e presieduta dal Consigliere della Corte di Cassazione Giuseppe La Greca – si compone di 4 articoli e valorizza
la distinzione tra cooperazione in materia penale con le autorità degli Stati che non fanno parte
dell’Unione Europea e cooperazione con i Paesi che sono invece membri dell’Unione.
L’art. 1, comma 1, d.d.l. contiene tutti i principi direttivi della delega in materia di assistenza giudiziaria, estradizione, riconoscimento di sentenze penali di altri Stati ed esecuzione all’estero di sentenze
penali italiane, mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie nei rapporti con gli altri Stati membri
dell’Unione Europea: il Governo è delegato ad adottare uno o più decreti legislativi per la riforma del
libro XI del c.p.p. entro il termine di un anno dall’entrata in vigore della nuova legge (art. 1, comma 2,
d.d.l.), fatta salva la possibilità di emanare uno o più decreti legislativi correttivi e integrativi entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore dell’ultimo dei decreti legislativi finalizzati a dare attuazione
alla citata delega (art. 1, comma 3, d.d.l.). L’art. 2 d.d.l. modifica gli artt. 708 e 714 c.p.p., in tema, rispettivamente, di termine per la consegna dell’estradando (comma 1) e di termine di durata massima delle
misure coercitive da applicare all’estradando (comma 2); l’art. 3 d.d.l. prevede la clausola di invarianza
finanziaria; l’art. 4 d.d.l., infine, dispone l’entrata in vigore della legge il giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.
Passando ad esaminare più in dettaglio i criteri direttivi della delega, occorre soffermarsi anzitutto
sulle direttive dettate in materia di disciplina processuale dell’assistenza giudiziaria a fini di giustizia
penale (art. 1, comma 1, lett. a d.d.l.).
SCENARI | DE JURE CONDENDO
Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
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Vengono esplicitati gli ambiti del potere di intervento del Ministro della Giustizia, il quale può decidere di non dare corso alla rogatoria proveniente da Stati diversi da quelli membri dell’Unione Europea
a tutela di interessi essenziali dello Stato come la sovranità e la sicurezza, mentre con riferimento alle
richieste di assistenza giudiziaria provenienti da Paesi membri dell’Unione Europea tale potere potrà
essere esercitato nei casi e nei limiti stabiliti dalle convenzioni in vigore tra gli Stati ovvero dagli atti
adottati dal Consiglio dell’Unione (art. 1, comma1, lett. a), n. 1 d.d.l.).
Si prevede che, se la richiesta ha per oggetto acquisizioni probatorie da compiersi davanti al giudice
ovvero attività che secondo la legge dello Stato non possono svolgersi senza l’autorizzazione del giudice, il procuratore della Repubblica presenti senza ritardo le proprie richieste al giudice per le indagini
preliminari del tribunale del capoluogo del distretto (art. 1, comma 1, lett. a), n. 3) e che, negli altri casi,
il procuratore della Repubblica dia senza ritardo esecuzione alla richiesta di assistenza giudiziaria con
decreto motivato (art. 1, comma 1, lett. a), n. 4 d.d.l.). In particolare, sul versante passivo della cooperazione a fini di acquisizione probatoria e del sequestro a fini di confisca, si prevede l’intervento del procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto e del giudice per le indagini
preliminari del medesimo ufficio (art. 1, comma 1, lett. a) n. 2 d.d.l.), in luogo di quello del procuratore
generale presso la corte d’appello e della corte medesima, avendo l’esperienza evidenziato le difficoltà,
per un giudice come la corte d’appello, di governare materie ed esigenze investigative affidate ordinariamente alle competenze di organi diversi. Nella stessa ottica di accelerazione e semplificazione, si inquadra la prevista eliminazione dell’intervento della Corte di cassazione per l’individuazione dell’organo competente, in caso di atti da compiersi in diversi distretti giudiziari: l’art. 1, comma 1, lett. a) n. 4
d.d.l. prevede al riguardo che dovranno essere individuati criteri predeterminati per la concentrazione
delle procedure di esecuzione di atti da compiersi in distretti giudiziari diversi e procedure semplificate
per la risoluzione di eventuali contrasti e conflitti.
Altre direttive della delega che meritano di essere segnalate sono quella che prevede la possibilità di
autorizzare rappresentanti ed esperti dell’autorità richiedente ad assistere alle attività da compiersi,
dandone comunicazione al Ministro della Giustizia se la richiesta proviene da autorità diverse da quelle
di Stati membri dell’Unione Europea (art. 1, comma 1, lett. a), n. 5 d.d.l.) e quella relativa alla disciplina
delle modalità e delle condizioni di utilizzabilità delle audizioni di testimoni e periti mediante videoconferenza o conferenza telefonica (art. 1, comma 1, lett. a), n. 8 d.d.l.).
Numerose sono anche le direttive dettate per la nuova disciplina dell’estradizione (art. 1, comma 1,
lett. b), d.d.l.), con l’obiettivo di differenziare le aree di esercizio delle concorrenti potestà dell’autorità
politica e dell’autorità giudiziaria, in modo da evitare la sovrapposizione di valutazioni riferite ai medesimi parametri. Innanzitutto, si prevede il potere del Ministro della Giustizia di non dare corso alla
domanda di estradizione soltanto laddove questa possa compromettere interessi essenziali dello Stato,
come la sovranità o la sicurezza della Repubblica – dandone comunicazione allo Stato richiedente e
all’autorità giudiziaria (art. 1, comma 1, lett. b), n. 1 e n. 5 d.d.l.) –, di subordinare a condizioni la concessione dell’estradizione e di rifutare, in casi predeterminati, l’estradizione del cittadino prevista da
accordi internazionali (art. 1, comma 1, lett. b), n. 2 d.d.l.).
Per quanto concerne il c.d. “principio di specialità” – in forza del quale, com’è noto, non è consentito
allo Stato richiedente di processare e punire l’estradato per fatti diversi da quelli indicati nella domanda di estradizione – si prevede (art. 1, comma1, lett. b), n. 4) l’irrevocabilità del potere di rinunzia, salvo
che intervengano fatti nuovi che modifichino la situazione di fatto esistente al momento della rinunzia
(in conformità a quanto affermato da Cass., Sez. Un., 29 novembre 2007, n. 11971). Sul versante passivo,
si prevede che il principio di specialità operi come causa di sospensione del procedimento e
dell’esecuzione della pena, così aprendosi la strada all’assunzione non soltanto di prove urgenti e comunque non rinviabili, ma anche di quelle che possono condurre al proscioglimento dell’imputato (art.
1, comma 1, lett. b), n. 8).
Altri punti importanti in materia di estradizione previsti nella delega – in ossequio a ragioni di equità – sono la previsione che la custodia cautelare subita all’estero ai fini dell’estradizione sia computata
ad ogni effetto processuale (art. 1, comma 1, lett. b), n. 6) e la previsione della riparazione dell’ingiusta
detenzione subìta all’estero a fini estradizionali (art. 1, comma 1, lett. b), n. 9).
Quanto al riconoscimento di sentenze penali di altri Stati non appartenenti all’Unione Europea e
all’esecuzione di sentenze penali italiane all’estero, l’art. 1, comma 1, lett. c) d.d.l. indica soltanto due
direttive: la previsione di condizioni e forme del riconoscimento di sentenze penali di altri Stati e dell’esecuzione di sentenze penali italiane all’estero secondo criteri di massima semplificazione e la previsioSCENARI | DE JURE CONDENDO
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ne di condizioni e forme del trasferimento delle procedure (art. 1, comma 1, lett. c) n. 1 e 2).
Un altro profilo qualificante della riforma è l’attuazione del principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie nei rapporti con gli altri Stati membri dell’Unione Europea (art. 1, comma 1, lett.
d) d.d.l.), che viene affermato in via generale, ma avendo cura di puntualizzare che altre disposizioni di
legge si applichino solo se compatibili con le norme contenute nel c.p.p. e che in ogni caso l’esecuzione
della decisione non deve pregiudicare l’osservanza degli obblighi internazionali assunti dallo Stato (art.
1, comma 1, lett. d) n. 1): chiaro il riferimento agli obblighi già assunti in materia di esecuzione di ordini
di blocco di beni e di sequestro probatorio, di ordini di confisca di beni, strumenti e proventi del reato,
di provvedimenti di imposizione di sanzioni pecuniarie ovvero relativi all’ordine europeo di indagini
penale di cui alla direttiva n. 2014/41/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 3 aprile 2014,
come sottolinea la Relazione illustrativa del disegno di legge in esame.
Il dato più significativo è rappresentato dalla circostanza che viene meno la preventiva valutazione
del Ministro della Giustizia sulla richiesta di riconoscimento, al fine di verificare l’eseguibilità della decisione straniera in Italia, prevedendo che le decisioni giudiziarie da eseguirsi nel territorio dello Stato
possano essere trasmesse direttamente all’autorità giudiziaria territorialmente competente per l’esecuzione e che l’autorità giudiziaria possa trasmettere direttamente allo Stato di esecuzione le decisioni
delle quali si chiede il riconoscimento, con comunicazione al Ministro della Giustizia nei casi e nei modi
previsti dalla legge (art. 1, comma 1, lett. d) n. 2). Ciò in considerazione del fatto che il controllo sul rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento è preventivamente effettuato in relazione ai Paesi
europei, salva la sussistenza del potere del Ministro della Giustizia di garantire – nei casi e nei modi
previsti dalla legge – l’osservanza delle condizioni eventualmente richieste in casi particolari per l’esecuzione all’estero o nel territorio dello Stato della decisione della quale è stato chiesto il riconoscimento
(art. 1, comma 1, lett. d) n. 3). Premesso che le decisioni oggetto di reciproco riconoscimento possono riguardare anche le persone giuridiche (art. 1, comma 1, lett. d) n. 4), il d.d.l. indica come ulteriori criteri
direttivi: la previsione che la decisione sul riconoscimento della decisione da eseguirsi nel territorio dello Stato sia adottata con la massima urgenza, e comunque in tempi e modalità tali da assicurarne la
tempestività e l’efficacia e con regole speciali per l’esecuzione di decisioni al riconoscimento delle quali
l’interessato abbia prestato consenso (art. 1, comma 1, lett. d) n. 5); la previsione che l’autorità giudiziaria italiana, nei casi stabiliti dalla legge, dia esecuzione alle decisioni giudiziarie degli altri Stati membri
dell’Unione Europea anche nel caso in cui il fatto non sia previsto come reato dalla legge nazionale e
che non possa essere sindacato il merito della decisione, il cui riconoscimento sia richiesto dall’autorità
di un altro Stato membro dell’Unione Europea (salva l’osservanza delle disposizioni necessarie ad assicurare in ogni caso il rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico) (art. 1, comma1,
lett. d) n. 6).
Passando ad esaminare il contenuto dell’art. 2 d.d.l., le modifiche agli artt. 708 e 714 c.p.p. in materia
di estradizione per l’estero – previste come immediatamente operative – rispondono all’esigenza di
colmare una lacuna normativa che è stata più volte segnalata anche dalla giurisprudenza di legittimità
(v. per tutte, Cass., sez. VI, 27 marzo 2007, n. 12677). In particolare, con la sostituzione del comma 5
dell’art. 708 c.p.p. ad opera dell’art. 2, comma 1, d.d.l., si prevede un’ipotesi di sospensione del termine
per la consegna dell’estradando, in caso di sospensione dell’efficacia della decisione favorevole del Ministro della Giustizia da parte del competente giudice amministrativo. Il termine riprende a decorrere
dalla data di deposito del provvedimento di revoca del provvedimento cautelare o del provvedimento
con cui è accolto il gravame proposto avverso il provvedimento cautelare o della sentenza che rigetta il
ricorso ovvero della decisione che dichiara l’estinzione del giudizio.
In coerenza con tale modifica, l’art. 2, comma 2, d.d.l. dispone, poi, l’inserimento di un nuovo comma 4 bis nell’art. 714 c.p.p., allo scopo di prevedere uno specifico termine massimo di durata delle misure coercitive per la fase successiva all’emissione del decreto ministeriale. Accanto alle ipotesi di revoca delle misure coercitive già contemplate dal comma 4 dell’art. 714 c.p.p., si prevede, dunque, che esse
debbano essere altresì revocate se sono trascorsi tre mesi dalla pronuncia della decisione favorevole del
Ministro della Giustizia sulla richiesta di estradizione senza che l’estradando sia stato consegnato allo
Stato richiedente. Tale termine è sospeso dalla data di deposito del ricorso presentato al giudice amministrativo avverso la decisione del Ministro della Giustizia, fino alla data di deposito della sentenza che
rigetta il ricorso o della decisione che dichiara l’estinzione del giudizio, comunque per un periodo non
superiore a sei mesi.
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Merita in conclusione di essere segnalato che, nel corso dei lavori parlamentari, al progetto governativo sono stati abbinati diversi disegni di legge di iniziativa parlamentare già depositati (C. 1332, C.
1334, C. 1460, C. 2440 e C. 2747), tutti aventi per oggetto “Ratifica ed esecuzione della Convenzione relativa
all’assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri dell’Unione europea, fatta a Bruxelles il 29 maggio 2000, e delega al Governo per la sua attuazione".
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CORTI EUROPEE
EUROPEAN COURTS
di Amalia Cavallo
LIMITAZIONI DEL DIRITTO ALLA VITA PRIVATA E FAMILIARE
(Corte e.d.u., 21 aprile 2015, Kubiak c. Polonia)
L’art. 8 Cedu, deputato alla tutela del diritto alla vita privata e familiare, del domicilio e della corrispondenza, non esclude tout court l’intervento limitativo di un’autorità pubblica, bensì lo condiziona al
duplice presupposto dell’esistenza di una espressa previsione di legge e della “necessità in una società
democratica”, in vista del perseguimento di superiori fini (sicurezza nazionale, benessere economico
del Paese, prevenzione dei reati, protezione della salute, della morale, dei diritti e delle libertà altrui).
Allo Stato spetta perciò un certo margine di apprezzamento, cui è ricollegato in ogni caso un imprescindibile obbligo di motivazione; quest’ultimo argomento assume poi ancor più valore se si tratta di
soggetti sui generis come i carcerati, già di per sé detentori di diritti e libertà “compressi”.
L’istanza del ricorrente Kubiak, respinta dalla Corte europea, inerisce la supposta lesione ad opera
dello Stato polacco del suo diritto a lasciare momentaneamente il carcere per presenziare al funerale
della nonna.
Nel caso di specie, il responso dei giudici strasburghesi non si spiega sulla base del mero rilievo
dell’insussistenza di un’effettiva violazione, da parte delle autorità statali, del diritto del detenuto al rispetto della propria vita privata e familiare. Estrapolando il fatto dal più ampio contesto di riferimento,
una lesione sembrerebbe essere anzi pacificamente ravvisabile: il provvedimento di diniego, in realtà,
costituisce solitamente l’extrema ratio in assenza di altre strade praticabili, considerato che un modo per
assicurare l’uscita controllata del detenuto per brevi periodi nonché il suo ritorno in sicurezza al penitenziario, di norma, esiste sempre. Analizzando le eccezioni proposte dal Governo, tuttavia, ben si
comprende come le autorità nazionali incaricate della concessione del permesso non siano state materialmente poste in condizione di farlo, a causa di un ritardo nelle comunicazioni attribuibile unicamente
ai parenti del recluso (avvisato il giorno precedente a quello fissato per il rito) e non, invece, alle competenti strutture carcerarie, solerti nella trasmissione della richiesta. Non solo, poi, la notizia tardiva della
morte della nonna non aveva lasciato il tempo necessario all’approntamento di un servizio di scorta,
ma – ciò che più conta – Kubiak risultava detenuto a seguito di una condanna per omicidio e la sua
condotta carceraria fino a quel momento non era stata affatto irreprensibile. L’allontanamento dall’istituto, se pure temporaneo e per gravi motivi, appariva dunque veramente troppo rischioso. Preso atto di
tutti questi dati, per la Corte la limitazione del diritto del ricorrente diviene allora giustificata e necessaria nei termini previsti dall’art. 8, in quanto in un giudizio di bilanciamento l’esigenza di salvaguardare
l’ordine pubblico e di prevenire il crimine appare prevalente.
La legge italiana, per quel che qui interessa, subordina la possibilità di abbandonare momentaneamente il carcere per motivi di famiglia a due previsioni molto sintetiche e quasi “in bianco” quanto ai
requisiti necessari ai fini della concessione del permesso. L’art. 28, della l. n. 354/1975, dedicata alla disciplina dell’ordinamento penitenziario, stabilisce infatti in via di principio che “particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie”. Il successivo
art. 30, in aggiunta, prescrive che, “nel caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente”
(o, comunque, “per eventi di particolare gravità”), ai condannati e agli internati possa essere concessa l’autorizzazione di recarsi a visitare l’infermo, con le cautele previste dal regolamento. Proprio nulla si dispone tuttavia, neppure a livello generale, in merito ai presupposti in presenza dei quali il beneficio
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può essere accordato. Tale ultima norma, com’è naturale, non ha la finalità di attribuire un diritto assoluto al soggetto sottoposto al regime carcerario; essa, al contrario, conferisce alle autorità competenti un
indiscutibile potere discrezionale (l’uso, al terzo comma, dell’avverbio “eccezionalmente” sembrerebbe
confermarlo). In assenza di indicazioni ulteriori, tuttavia, essa rischia di esporre i destinatari di questi
provvedimenti a possibili abusi. Una siffatta pronuncia ha dunque inevitabili ricadute sull’ordinamento
nostrano, poiché non solo mette in risalto l’esigenza di garantire compiutamente il diritto del detenuto
ai rapporti con la famiglia, ma riconosce altresì la necessità di anteporre la sua attuazione all’imprescindibile tutela di predeterminati interessi di natura collettiva.
LIBERTA’ DI ESPRESSIONE E FUNZIONAMENTO DELLA GIUSTIZIA. QUALI LIMITI PER GLI AVVOCATI?
(Corte e.d.u., 23 aprile 2015, Morice c. Francia)
Le cronache riportano quotidianamente notizia dello svolgimento di indagini e riferiscono spesso con
dovizia di particolari indiscrezioni sul contenuto di peculiari atti investigativi, perpetrando non di rado
una violazione tanto sistematica quanto inaccettabile della normativa sul segreto istruttorio. Se a questo
si aggiungono la questione inerente il confine tra libera espressione del pensiero e diffamazione ed il
problema del rapporto tra giudici ed avvocati, ben si comprende quanto il tema trattato in questa sentenza sia terribilmente attuale anche nel contesto italiano.
Procedendo ad una sintesi dei fatti in discorso, oggetto di questa pronuncia è un complesso insieme
di eventi, in relazione ai quali la Corte strasburghese, per quel che è il petitum, dà tuttavia una risposta
netta. Ricorrente è l’avvocato francese Morice; al tempo della misteriosa morte del giudice d’oltralpe
Borrel a Gibouti, la sua storia si intreccia con quella della vedova di costui (da lui difesa in quanto parte
civile nel processo) e con quella di due giudici, suoi antagonisti nei diversi procedimenti cui questa vicenda fa cenno.
Morice, in una prima fase, si batte per ottenere un approfondimento ed una maggiore cura nelle indagini nel frattempo avviate sul caso Borrel e dirette dal giudice M.: egli è persuaso che, viste le condizioni del cadavere, l’ipotesi del suicidio non sia per nulla soddisfacente. A fronte delle crescenti irregolarità ed inspiegabili incongruenze nella gestione dell’inchiesta, viene quindi aperto un procedimento –
in cui il giudice viene sentito come testimone – contro il Procuratore di Gibouti ed il capo dei locali servizi segreti, accusati di aver precostituito prove false. L’iter si conclude con la condanna degli imputati
e la rimozione di M. dall’incarico.
Morice, mentre le indagini proseguono sotto la guida di altro magistrato, fa pervenire una missiva al
Guardasigilli, nella quale lamenta un contegno “completely at odds with the principles of impartiality and
fairness” da parte di M. (par. 33). Il contenuto di tale corrispondenza, acquisito da un giornalista tramite
fonti proprie, viene in seguito pubblicato sulla testata Le Monde, corredato di commenti espressi per telefono dallo stesso avvocato circa il censurabile operato di M., reo a suo parere di aver volontariamente
omesso di tener conto di una fonte di prova importante in virtù di una “otrageous connivance” con il
Procuratore di Gibouti.
Narrati gli antefatti, occorre analizzare le circostanze poste alla base del ricorso di Morice alla Corte
di Strasburgo. A seguito della divulgazione dell’articolo, M. fa denuncia contro il giornale, l’autore dell’articolo e l’avvocato per diffamazione di funzionario dello Stato. Le Corti francesi interpellate nei vari
gradi confermano che accusare un giudice di essere parziale ed ingiusto realizza sicuramente gli estremi della diffamazione, in quanto va a mettere in discussione l’integrità morale e professionale di questa
figura, nonché la sua capacità di svolgere il ruolo assegnatogli. L’uso del termine “connivenza”, inoltre,
ha ugualmente finalità denigratoria, considerato il suo carattere virulento.
I tribunali nazionali aditi, in altre parole, rimproverano a Morice un concorso nel reato principale
perpetrato dal giornalista: l’avvocato, infatti, al momento di rendere le dichiarazioni era perfettamente
consapevole del fatto che queste sarebbero state rese note attraverso i media e del loro possibile impatto.
Le sue asserzioni, tra l’altro, vengono ritenute prive di fondamento e finalizzate a creare un clima di sospetto, a motivo di un personale rancore nei confronti del giudice M. (par. 50). Egli viene di conseguenza condannato al pagamento di una multa, al risarcimento dei danni ed alla corresponsione delle spese
(parr. 41-46).
L’ultimo passaggio della vicenda coincide con il ricorso per Cassazione presentato nel 2009, con il
quale l’avvocato chiede ragione della condanna subita, invocando l’art. 10 Cedu sulla libertà d’opinione
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e la sezione 41 della Legge sulla Libertà di Stampa. Egli, in particolare, contesta l’infrazione del suo diritto ad esprimere liberamente il proprio pensiero su tematiche di rilevanza essenziale, quali la conduzione di indagini e, più in generale, il funzionamento della giustizia; lamenta, inoltre, di non aver avuto
la possibilità di discolparsi, dimostrando la veridicità delle affermazioni rese e, quindi, la propria buona
fede.
Senza preavviso, la Suprema Corte giudica su questo ricorso in composizione “rafforzata” (10 componenti). Tra i membri del collegio compare inaspettatamente il giudice J.M., che nove anni prima aveva pubblicamente espresso il proprio appoggio al collega M., sottoposto ad un’inchiesta interna del
Consiglio Superiore della Magistratura per non aver sufficientemente investigato sui fatti del caso
“Scientology” (nel quale Morice rivestiva ugualmente il ruolo di difensore di parte civile). Il rigetto
dell’istanza, a questo punto, apre all’avvocato la strada del ricorso alla Corte di Strasburgo, per asserita
violazione degli artt. 6 e 10 Cedu.
Quanto al primo motivo di impugnazione, il ricorrente contesta la violazione del suo diritto ad un
processo equo (“fair”) tenuto da un “independent and impartial tribunal established by law”. Le circostanze
di fatto su cui questa doglianza si basa sono quelle appena citate: per Morice la presenza non segnalata
del magistrato J.M., il quale già in passato aveva platealmente manifestato il proprio sostegno al collega
M., non costituisce una garanzia di indipendenza ed imparzialità del giudicante. La Corte accoglie la
richiesta del difensore francese: è indubbio che la terzietà del giudice vada presunta fino a prova contraria (ibidem, par. 73; si veda anche Kyprianou v. Cyprus [GC], n. 73797/01, par. 118, ECHR 2005-XIII;
Micallef v. Malta [GC], n. 17056/06, par. 93, ECHR 2009); ma qualora sorga il sospetto (debitamente motivato) di una condotta contraria ai canoni di imparzialità ed indipendenza, è doveroso che costui si
astenga. Lo impone la necessità, propria di una società democratica, di ottenere la fiducia dei cittadini
nelle istituzioni (par. 78).
Nel caso in esame, la Corte ritiene di non poter accettare le eccezioni del Governo d’oltralpe: considerata la segretezza della fase deliberativa, invero, l’osservatore esterno non può conoscere la concreta
incidenza di un singolo soggetto sulla decisione (il ricorrente, a maggior ragione, non era stato informato né della costituzione di un collegio numeroso, né della presenza del giudice J.M., non potendo proporre pertanto alcuna opposizione in merito).
Sul punto della supposta violazione dell’art. 10 Cedu da parte delle autorità francesi, la Corte fornisce una spiegazione molto puntuale, affrontando parallelamente il discorso relativo alla funzione della
magistratura in uno Stato di diritto. Nell’ottica dei giudici di Strasburgo, essa deve poter godere di rispetto e benemerenza da parte dei consociati; ciò non la esime, tuttavia, dall’essere il bersaglio di critiche anche taglienti, finalizzate a stigmatizzare mancanze e ritardi nell’amministrazione della giustizia.
Lo Stato deve pertanto sicuramente proteggere le sue istituzioni, ma mostrarsi allo stesso tempo cauto
nel condannare chi esprima dissenso nei loro confronti, anche nel caso in cui le sanzioni comminate risultino relativamente lievi (par. 127).
Ci sono poi dei temi particolarmente delicati, in relazione ai quali ad un’ampia garanzia del diritto
individuale alla libera espressione del pensiero corrispondono, dal punto di vista dello Stato, un esiguo
margine di apprezzamento ed una ristrettissima possibilità di imporre limiti e divieti: tali sono tipicamente le questioni che interessano la società nel suo insieme. La Corte inoltre, riprendendo un suo consolidato orientamento, ribadisce il discrimine esistente tra giudizi di fatto e di valore: mentre i primi
sono empiricamente dimostrabili in quanto hanno ad oggetto eventi riscontrabili in rerum natura, non è
possibile provare la assoluta veridicità dei secondi. Essi sono al di sopra degli accadimenti naturali, i
quali devono comunque costituirne l’imprescindibile base (parr. 126, 155).
Nell’opinione dei giudici di Strasburgo, in sostanza, le problematiche inerenti il funzionamento della
giustizia rientrano tra le questioni di pubblico interesse su cui si possono esprimere giudizi di valore: si
comprende, così, come mai i magistrati possano essere oggetto di critiche anche più pesanti rispetto ai
normali cittadini, fatta eccezione per gli attacchi infondati e, in quanto tali, grandemente pregiudizievoli (si veda per esempio July and SARL Libération, n. 20893/03, 2008, par. 74).
Gli avvocati, nelle loro vesti di intermediari tra cittadini e corti, hanno il fondamentale compito di
assicurare il buon andamento della giustizia, conquistandole in questo modo la stima dei consociati.
Per raggiungere tale obiettivo, tuttavia, l’opinione pubblica deve preventivamente maturare un consapevole affidamento nella capacità degli stessi di rappresentare effettivamente gli interessi dei clienti,
tenendo presente che, a differenza dei magistrati, costoro sono liberi professionisti e prendono posizione non in nome dell’intero sistema, bensì per conto e nell’esclusivo interesse dei propri assistiti. È ne SCENARI | CORTI EUROPEE
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cessario perciò garantire a questi operatori del diritto la possibilità di esprimere il proprio pensiero
liberamente, sia nei contenuti che nelle forme: gli avvocati devono poter commentare in pubblico
l’amministrazione della giustizia, anche facendo riferimento a casi in corso di trattazione, purché siano rispettati alcuni imprescindibili canoni deontologici (onore, riservatezza, integrità). In un continuum logico, la libertà d’espressione è un presupposto indispensabile dell’indipendenza della professione forense, a sua volta corollario della buona amministrazione della giustizia (Sialkowska v. Poland,
n. 8932/05, par. 111, 22 marzo 2007). Solo in casi eccezionali, perciò, la limitazione della libertà d’opinione degli avvocati può ritenersi consentita, in quanto necessaria in una società democratica (tra le
altre, si veda Nikula v. Finland, n. 31611/96, par. 55 e Kyprianou, cit., par. 174). Come già detto, infatti,
l’istituzione giudiziaria va pur sempre tenuta indenne da attacchi infondati e gratuiti, costituenti parte di una strategia preordinata unicamente a concentrare l’attenzione dei media su una particolare
vertenza.
Sempre avendo a mente la figura professionale dell’avvocato, i giudici strasburghesi si soffermano a
questo punto diffusamente sul tema della differenza che corre tra l’esercizio del diritto d’espressione in
aula e fuori. All’interno dei luoghi normalmente adibiti all’applicazione concreta della legge, la Corte
ammette pacificamente che le varie parti processuali possano e debbano interagire, scambiandosi opinioni in maniera anche forte, sulle problematiche oggetto della controversia, a condizione che i pareri
espressi non riguardino qualità professionali o personali del destinatario (par. 137). Al di fuori dei palazzi di giustizia, invece, la difesa del cliente non è affatto incompatibile con l’apparizione in tv o col rilascio di dichiarazioni sui giornali, nella misura in cui ciò possa risultare utile al fine di informare il
pubblico e di mantenerne viva l’attenzione su argomenti di interesse collettivo. Ciò non significa che un
avvocato possa esser ritenuto responsabile di tutto ciò che la stampa rende noto nella forma dell’intervista, tanto meno qualora egli non abbia pronunciato le affermazioni che gli vengono attribuite; né costui può essere accusato di violazione del segreto istruttorio allorché esprima meri commenti circa lo
svolgimento di investigazioni su casi particolarmente eclatanti (per la gravità dei fatti o la particolare
qualità delle persone implicate), e perciò già portati dai media all’attenzione degli utenti (si veda Foglia
v. Switzerland, n. 35865/04, par. 97, 13 Dicembre 2007). Ciononostante, resta comunque fermo che la deontologia professionale e la legge penale impongono in generale a tutti gli operatori di astenersi dal fornire informazioni riservate coperte da segreto.
In virtù di quanto appena detto, la Corte di Strasburgo nel caso de quo ritiene che il ricorrente abbia
subito un’ingiustificata lesione del diritto a manifestare liberamente le proprie idee, pur rimanendo incontestata l’irruenza dei toni adoperati. La condanna per complicità in diffamazione pronunciata a suo
carico, a questo punto risulta un’ingerenza sproporzionata (e, dunque, non necessaria) rispetto al diritto protetto dall’art. 10 Cedu.
In linea con quanto emerge da una lunga ed ormai consolidata giurisprudenza, d’altronde, “freedom
of expression is applicable not only to ‘information’ or ‘ideas’that are favourably received or regarded as inoffensive or as a matter of indifference, but also to those that offend, shock or disturb. Similarly, the use of a ‘caustic
tone’ in comments aimed at a judge is not incompatible with the provisions of Article 10 of the Convention” (cfr.
la decisione che si annota, par. 161, nonché, tra le altre, Gouveia Gomes Fernandes and Freitas e Costa v.
Portugal, n. 1529/08, par. 48, 29 marzo 2011).
La Corte conclude anzi significativamente che “la giustizia può beneficiare di critiche costruttive” (par.
167); non costituiscono un limite in questo senso né l’esigenza di garantire in generale il rispetto per i
suoi organi, né tantomeno il rilievo sul punto dell’impossibilità per gli appartenenti all’ordine giudiziario di replicare alle accuse ricevute, in ossequio ad un peculiare dovere di discrezione.
Tale lunghissima pronuncia va ad integrare quanto in qualche misura già stabilito in via di principio, nell’ordinamento italiano, dal Codice Deontologico Forense: tale testo si occupa invero, per quel
che qui interessa, di disciplinare i rapporti degli avvocati con gli organi di stampa, improntandoli ad
“equilibrio e misura” nel “rispetto dei doveri di discrezione e riservatezza” (art. 18); l’articolato fa poi
espresso riferimento alle relazioni con la magistratura (art. 53), imponendo altresì ai difensori di non
“usare espressioni sconvenienti od offensive […] nell’attività professionale in genere” (art. 20).
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DIRITTO ALLA VITA: PROFILI SOSTANZIALI E PROCEDURALI
(Corte e.d.u., 21 aprile 2015, Pisari c. Repubblica di Moldavia e Russia)
Tra le prerogative riconosciute ad uno Stato di diritto c’è l’uso – legittimo in quanto espressamente e
tassativamente regolamentato ex lege – della forza pubblica. In caso di “assoluta necessità” le forze dell’ordine possono dunque far ricorso alle armi, addirittura fino al punto di privare un individuo della
vita, senza che ciò integri una violazione punibile ex art. 2 Cedu.
Un orientamento ormai consolidato della Corte di Strasburgo prevede che il fondamentale principio
espresso da quest’ultima norma – derogabile solo in via eccezionale e previa congrua motivazione –
possa essere interpretato sia in senso sostanziale che procedurale. Il primo significato attribuibile alla
disposizione è quello “classico”, in base al quale ognuno ha diritto al rispetto della propria vita. Nell’altra accezione, invece, l’art. 2 impone agli Stati un duplice onere: in primis quello di dare avvio, ogniqualvolta un soggetto muoia in conseguenza dell’uso della forza pubblica, ad indagini ufficiali ed effettive, ossia “capable, firstly, of ascertaining the circumstances in which the incident took place and, secondly, of
leading to the identification and punishment of those responsible” (par. 52). Come più volte rammentato dalla
Corte, si tratta di un obbligo di mezzi e non di risultato. Non meno doveroso per le autorità nazionali è,
in secondo luogo, il riconoscimento ai parenti delle vittime dell’opportunità di prendere parte attiva ai
procedimenti così incardinati.
Oggetto della sentenza de quo è il ricorso che due genitori presentano a seguito della morte violenta
del figlio, colpevole di aver eluso vari posti di blocco e per questo colpito a morte dagli spari di V.K.,
uno degli operanti. Quest’ultimo aveva negato la volontarietà del suo gesto, asserendo di aver fatto
fuoco mirando agli pneumatici e con il solo obiettivo di costringere il guidatore a fermarsi, costituendo
il giovane una minaccia per gli uomini in servizio e non essendo possibile fare altrimenti. A seguito
dell’incidente, le autorità russe avevano intrapreso degli accertamenti volti ad appurare l’eventuale
colpevolezza di V.K.: all’iniziale sollecitudine delle competenti strutture, tuttavia, erano subito seguite
l’interruzione di ogni dialogo e l’archiviazione dell’indagine per innocenza dell’accusato. Il diniego ab
origine dello status formale di vittime, come se non bastasse, aveva precluso ai ricorrenti non solo
l’esercizio dei più elementari diritti processuali, ma anche la possibilità di essere tenuti semplicemente
al corrente dei risultati ottenuti.
La ratio dell’istanza rivolta dai coniugi Pisari alla Corte di Strasburgo coincide evidentemente con
l’auspicio di veder sancita la condanna del Governo russo per violazione della norma posta a tutela della vita, in entrambi i significati cui si è preventivamente fatto cenno. I giudici strasburghesi, nel caso di
specie, riconoscono la fondatezza del ricorso nel suo complesso, argomentando in diritto a partire dalle
risultanze di fatto. Costoro sottolineano, in particolare, come l’art. 2, par. 2 Cedu non scrimini tout court l’omicidio di un cittadino, bensì giustifichi – nei casi tassativamente previsti alle lettere a), b), c) – un
uso della forza tale da cagionare la morte come conseguenza non voluta. Nell’opinione della Corte tale
bilanciamento dev’essere operato con un rigore estremo, anche maggiore di quello richiesto dall’esame
del parametro affine della “necessità in una società democratica”, rinvenibile nel secondo capoverso
degli artt. 8-11 Cedu. (parr. 47-48 della sentenza che si annota, ma anche McCann and Others v. the United Kingdom, 27 Settembre 1995, par. 149; Nachova and Others v. Bulgaria [GC], nn. 43577/98 – 43579/98,
par. 94, ECHR 2005-VII). Il requisito dell’“assoluta necessità” – in presenza del quale l’art. 2 consente la
deroga di un principio altrimenti inviolabile – dev’essere perciò valutato avendo esclusivo riguardo al
raggiungimento di uno degli obiettivi legittimi previsti, pur non dimenticando mai di tener conto del
complesso delle circostanze concretamente occorse. Qualora il soggetto non risulti pericoloso né si sia
macchiato di condotte violente, ad esempio, l’assoluta necessità in discorso non può ravvisarsi neppure rispetto al fine, previsto dalla lettera b), di eseguire un arresto regolare (Juozaitienė and Bikulčius
v. Lithuania, nn. 70659/01-74371/01, par. 72, 24 Aprile 2008). Il caso in esame lo dimostra: la Corte ha
ritenuto infatti che il ricorso alla forza, se pure avvenuto avendo di mira un obiettivo lecito, abbia
materialmente ecceduto i limiti consentiti, non costituendo affatto l’extrema ratio a fronte di un pericolo imminente e non altrimenti evitabile. L’esistenza di una violazione dell’art. 2 nella sua accezione
sostanziale appare dunque palese, in presenza di una sproporzione tra scopo perseguito e mezzi
adoperati.
Quanto al suo profilo procedurale, la norma medesima può ritenersi ugualmente violata, in virtù
della deliberata estromissione dei genitori della vittima dal procedimento a carico di V.K. . Ciò è inaccettabile se si considera che – come la Corte europea ha ribadito in molteplici occasioni – il coinvolgi SCENARI | CORTI EUROPEE
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mento dei parenti nelle indagini è doveroso: è indispensabile, infatti, tutelare i loro legittimi interessi,
come pure assicurare che, nell’eventualità in cui un individuo deceda sotto la responsabilità di agenti o
strutture dello Stato, le istituzioni pubbliche ne rispondano alla collettività (tra le altre si veda Anguelova v. Bulgaria, n. 38361/97, par. 137– 140, ECHR 2002-IV).
Sul tema oggetto di questa pronuncia si è formata negli anni una copiosa giurisprudenza europea,
comprensiva di una decisione resa contro il nostro Paese nel caso Alikaj (n. 47357/08, 29 marzo 2011) in
relazione a fatti sostanzialmente identici a quelli qui narrati. La Corte di Strasburgo, come è noto, ha
condannato l’Italia per il mancato svolgimento di indagini effettive sulla morte di un cittadino albanese,
ucciso da un colpo partito per sbaglio dalla pistola di un poliziotto in servizio, prosciolto per intervenuta prescrizione, nonché per l’assenza di una regolamentazione appropriata sull’uso delle armi da parte
delle forze di polizia. Ciò che più preme sottolineare, ad ogni modo, è il profondo ripensamento delle
tradizionali categorie penalistiche cui, almeno a livello teorico, dottrina e giurisprudenza nostrane sono
state indotte a seguito di questa sentenza. Il Primo Presidente della Corte di Cassazione, in particolare,
nella sua relazione del 2012 ha sottoposto all’attenzione degli operatori giuridici la questione dell’inadeguatezza del regime interno delle cause estintive del reato (e, in primis, proprio della prescrizione) rispetto ai delitti, anche colposi, commessi dalle forze dell’ordine in violazione degli artt. 2 e 3 Cedu, sulla base del rilievo dell’eccessivo disvalore insito nella condotta del rappresentante delle istituzioni che
violi in maniera sconsiderata un diritto essenziale del cittadino. Volendo dare credito a questa tesi, in
altre parole, il legislatore dovrebbe pertanto escludere del tutto l’operatività di tali strumenti in circostanze del genere (non sarebbe di conseguenza più possibile, per esempio, emettere una sentenza di
non doversi procedere per il maturare della prescrizione, come invece avevano fatto i giudici interni del
caso Alikaj prima del ricorso a Strasburgo). Se certamente apprezzabile appare la ratio di questa proposta, non meno meritevoli di attenzione, tuttavia, risultano le critiche provenienti da quella dottrina che
ravvisa in questo “doppio binario” il rischio di inaccettabili abusi: eliminare tout court tali cause di non
punibilità per tutti i delitti – ancorché colposi – contro la vita dei singoli, solo perché perpetrati da agenti dello Stato, significherebbe infatti imporre alle autorità nazionali obblighi eccessivamente gravosi.
Al di là delle considerazioni astratte, comunque, in Italia una disciplina di portata generale sull’allungamento dei termini di prescrizione è ancora lungi dall’essere approvata.
NE BIS IN IDEM: GIURISDIZIONE PENALE E AMMINISTRATIVA. PRESUNZIONE D’INNOCENZA.
(Corte e.d.u., 30 aprile 2015, Kapetanios e altri c. Grecia)
La decisione de quo riunisce le istanze, praticamente identiche quanto alle questioni di fatto e di diritto,
di tre cittadini greci. Le loro storie sono molto simili: tutti processati per contrabbando dai giudici penali nazionali, tutti successivamente assolti dalle accuse con sentenza definitiva, tutti nondimeno in seguito condannati dalle autorità amministrative al pagamento di sanzioni pecuniarie in relazione a quei
medesimi fatti.
Il ricorso alla Corte di Strasburgo avviene a seguito di quello – infruttuoso – al Consiglio di Stato,
giudice supremo del contenzioso amministrativo anche nell’ordinamento ellenico. Tale organo aveva
invero rigettato le richieste d’annullamento presentate dai ricorrenti sulla base di alcuni rilievi. In primis, aveva eccepito l’assoluta indipendenza del giudizio amministrativo da quello penale precedentemente celebrato sugli stessi fatti, con l’unica eccezione delle sentenze di condanna passate in giudicato
(le sole ipso iure vincolanti); da qui, nell’opinione dei Consiglieri, sarebbe di conseguenza derivata
l’inesistenza dell’obbligo, per il giudice amministrativo, di tener conto ex officio di una pronuncia penale
assolutoria, ancorché – come nei casi in discorso – già divenuta definitiva. Il doppio procedimento a carico degli istanti, in aggiunta, sarebbe stato giustificato dalla diversità dei profili del fatto esaminati nelle due sedi (la colpevolezza in ambito penale, il doveroso pagamento delle imposte evase e delle relative sanzioni in campo amministrativo). Opinare diversamente, secondo le autorità di Atene, avrebbe
portato ad un’inaccettabile trasgressione delle tradizioni costituzionali greche.
I ricorrenti lamentano pertanto l’avvenuta violazione del principio “ne bis in idem” (art. 4 del Protocollo Addizionale n. 7 alla Cedu), poiché i giudici amministrativi non avevano dato alcun peso alla sentenza penale di proscioglimento, sebbene essa avesse già acquisito l’autorità di cosa giudicata; allegano,
in aggiunta, l’inosservanza del diritto alla presunzione d’innocenza, cristallizzato nella previsione
dell’art. 6, par. 2.
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Quanto al primo motivo di impugnazione, la Corte smentisce buona parte delle eccezioni opposte
dal Governo e rammenta che il ne bis in idem opera ogniqualvolta un certo soggetto sia stato condannato
o assolto con decisione definitiva, impedendo in generale di perseguirlo per gli stessi fatti in futuro.
(Sergueï Zolotoukhine c. Russia [GC], n. 14939/03, par. 82-84, 2009). L’art. 4 del settimo Protocollo Addizionale non si limita cioè a stabilire il diritto a non essere puniti due volte, ma estende la garanzia anche
alla duplicità delle procedure ed opera altresì laddove – come nei casi in discorso – la vertenza si sia
conclusa in senso favorevole all’imputato. Presupposto della sua applicazione è, in altre parole, la sussistenza di una pronuncia definitiva; la norma in esame, di conseguenza, non preclude di per sé il parallelo svolgimento di processi afferenti ad una medesima violazione, ma richiede comunque il loro reciproco coordinamento (cfr. in senso conforme Lucky Dev c. Svezia, n. 7356/10, 27 novembre 2014).
Nell’accogliere l’istanza dei cittadini ellenici, il collegio elabora quindi un articolato ragionamento,
rinviando inoltre in più punti ad una decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Hans
Åkerberg Fransson, C-617/10, 26 febbraio 2013). In tale provvedimento, in particolare, si chiarisce come il
rispetto del divieto di bis in idem non impedisca tout court agli Stati di applicare sanzioni sia penali che
amministrative a fronte di un identico fatto, a condizione, però, che esse vengano inflitte nel corso di un
unico iter giudiziario, oppure che quella comminata per prima non abbia natura penale (par. 34 ss. della
sentenza citata). Procedendo nell’argomentazione, i giudici strasburghesi sottolineano come una determinata misura punitiva possa definirsi di carattere penale non solo in virtù della sua qualificazione
nel diritto interno, ma altresì avuto riguardo alla sua gravità ed al suo concreto coefficiente afflittivo (si
veda Engel e altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976, par. 82, serie A n. 22). Nei casi in esame, in particolare, essi ritengono che le pene inflitte ai tre cittadini – nonostante la loro formale natura amministrativa – assurgano a pieno titolo al rango di sanzioni penali, considerato il loro impatto significativamente negativo sulla situazione patrimoniale dei destinatari (in questo senso, viste anche le implicazioni per il nostro Paese, illuminante è Grande Stevens c. Italia, nn. 18640/10, 18647/10, 18663/10, 18668/10, 18698/10,
par. 99, 4 marzo 2014). I procedimenti amministrativi, incardinati per secondi, avevano in sostanza dato
vita surrettiziamente a nuovi giudizi penali aventi ad oggetto le medesime circostanze. Essendo ad ogni
modo inconfutabili, d’altronde, l’identità dei fatti contestati nei due processi ed il passaggio in giudicato della prima sentenza, risultava in definitiva evidente la violazione del ne bis in idem allegata dai ricorrenti.
Il secondo motivo di ricorso, benché relativo a questioni molto diverse, è logicamente connesso al
precedente, ragion per cui la Corte non può far altro che accogliere l’istanza. I tre cittadini chiedono il
riconoscimento dell’avvenuta lesione del loro diritto ad essere presunti innocenti, protetto dall’art. 6
par. 2 Cedu: oggetto della doglianza, tuttavia, non è la violazione del principio in discorso nella sua accezione classica di prerogativa tipicamente processuale (avente effetti sulla ripartizione dell’onere della
prova o sul diritto a non auto-incriminarsi); in discussione è invero il suo significato ulteriore, che
emerge ogniqualvolta il giudizio si concluda con l’assoluzione piena od anche solo con il mero proscioglimento dell’imputato. I ricorrenti dei casi in parola adducono precisamente la palese inosservanza, da
parte dei giudici amministrativi greci, del diritto ad essere considerati non più responsabili degli illeciti
loro ascritti in conseguenza della decisione assolutoria definitiva. Il principio di presunzione di innocenza, di fatto, non opera solo nel corso di un processo al fine di impedire una condanna ingiusta: dalla
sentenza favorevole (tanto più se su di essa si è formato il giudicato) discende nondimeno anche il diritto a veder salvaguardati pro futuro il proprio onore e la propria reputazione. Nelle sue implicazioni pratiche, ciò equivale ad essere ritenuti non colpevoli da una qualsiasi altra autorità procedente che si pronunci in un secondo momento – in via principale o anche solo incidentale – su quei medesimi fatti.
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CORTE COSTITUZIONALE
di Alessia Ester Ricci
LA CONFISCA «IN ASSENZA DI CONDANNA» TRA PRINCIPIO DI LEGALITÀ E TUTELA DEI DIRITTI FONDAMENTALI
(Corte cost., sent. 26 marzo 2015, n. 49)
La Corte costituzionale (sentenza 26 marzo 2015, n. 49) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 44, comma 2, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – Testo A), sollevata, in riferimento agli artt. 2, 9, 32, 41, 42 e
117, primo comma, della Costituzione promossa dal Tribunale ordinario di Teramo, in composizione
monocratica, con ordinanza del 17 gennaio 2014 e dalla Corte di cassazione, terza sezione penale, con
ordinanza del 20 maggio 2014, nella parte in cui, in forza dell’interpretazione della Corte europea dei
diritti dell’uomo, tale disposizione «non può applicarsi nel caso di dichiarazione di prescrizione del reato anche qualora la responsabilità penale sia stata accertata in tutti i suoi elementi».
I giudici rimettenti reputano che, per effetto della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo
29 ottobre 2013, Varvara contro Italia (ric. n. 17475 del 2009), la norma impugnata abbia assunto il significato che è preclusa la confisca dei beni quando non viene pronunciata una condanna per il reato di
lottizzazione abusiva. La misura non potrebbe perciò essere più adottata quando il reato è prescritto, e
nonostante sia stata, o possa venire, incidentalmente, accertata la responsabilità personale di chi è soggetto alla confisca. I rimettenti osservano che simile indirizzo, non univoco nella giurisprudenza europea, si pone in conflitto con una linea di tendenza legislativa volta a prevedere ipotesi di «confisca senza condanna» (direttiva 3 aprile 2014, n. 2014/42/UE); tuttavia, esso, promanando dalla Corte di Strasburgo, andrebbe in ogni caso recepito.
Da ciò discenderebbe un contrasto con gli artt. 2, 9, 32, 41, 42 e 117, primo comma, Cost., in quanto
tale assetto determinerebbe una forma di iperprotezione del diritto di proprietà, nonostante il bene
abusivo non assolva ad una funzione di utilità sociale (artt. 41 e 42 Cost.), con il sacrificio di principi costituzionali di rango costituzionalmente superiore, ovvero del diritto a sviluppare la personalità umana
in un ambiente salubre (artt. 2, 9 e 32 Cost.).
Nel ritenere inammissibile la questione sollevata dalla Corte di cassazione e dal Tribunale ordinario
di Teramo, la Corte costituzionale reputa che le argomentazione addotte a sostegno della stessa si fondano su un duplice, erroneo presupposto interpretativo.
I giudici rimettenti, infatti, pur divergendo in ordine agli effetti che la sentenza Varvara dovrebbe
produrre nell’ordinamento giuridico nazionale, sono convinti che con tale pronuncia la Corte e.d.u. abbia enunciato un principio di diritto tanto innovativo, quanto vincolante per il giudice chiamato ad applicarlo, raggiungendo un nuovo approdo ermeneutico nella lettura dell’art. 7 della Cedu.
Il primo fraintendimento imputabile ai giudici a quibus, osserva la Corte, verte innanzitutto sul significato che essi hanno tratto dalla sentenza della Corte di Strasburgo.
Nonostante le questioni siano state sollevate, in conformità ai casi oggetto dei giudizi principali, con
specifico riferimento al divieto di adottare una misura riconducibile all’art. 7 Cedu unitamente ad una
sentenza che abbia accertato la prescrizione del reato, il principio di diritto selezionato dai rimettenti
mostra un respiro ben più ampio. Stando alle argomentazioni prospettate, la Corte europea, in definitiva, avrebbe affermato che, una volta qualificata una sanzione ai sensi dell’art. 7 della Cedu, e dunque
dopo averla reputata entro questo ambito una “pena”, essa non potrebbe venire inflitta che dal giudice
penale, attraverso la sentenza di condanna per un reato. Per effetto di ciò, la confisca urbanistica, che
fino ad oggi continuava ad operare sul piano interno a titolo di sanzione amministrativa, irrogabile anzitutto dalla pubblica amministrazione, pur con l’arricchimento delle garanzie offerte dall’art. 7 della
Cedu, sarebbe stata integralmente riassorbita nell’area del diritto penale, o, in altri termini, alle tutele
sostanziali assicurate dall’art. 7 si sarebbe aggiunto un ulteriore presidio formale, costituito dalla riser SCENARI | CORTE COSTITUZIONALE
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va di competenza del giudice penale in ordine all’applicazione della misura a titolo di “pena”, e perciò
solo unitamente alla pronuncia di condanna.
Ne seguirebbe quale corollario che l’illecito amministrativo, che il legislatore distingue con ampia
discrezionalità dal reato (ordinanza n. 159/1994; in seguito, sentenze n. 273/2010, n. 364/2004 e n.
317/1996; ordinanze n. 212/2004 e n. 177/2003), appena fosse tale da corrispondere, in forza della Cedu, agli autonomi criteri di qualificazione della “pena”, subirebbe l’attrazione del diritto penale dello
Stato aderente. Si sarebbe così operata una saldatura tra il concetto di sanzione penale a livello nazionale e quello a livello europeo. Per effetto di ciò, l’area del diritto penale sarebbe destinata ad allargarsi
oltre gli apprezzamenti discrezionali dei legislatori, persino a fronte di sanzioni lievi, ma per altri versi
pur sempre costituenti una “pena” ai sensi dell’art. 7 della Cedu (Grande Camera, sentenza 23 novembre 2006, Jussila c. Finlandia).
La Corte sostiene che i rimettenti, nell’enunciazione di una simile premessa, non colgono che essa si
mostra di dubbia compatibilità sia con la Costituzione, sia con la stessa Cedu, per come quest’ultima
vive attraverso le pronunce della Corte di Strasburgo.
Su questo piano, non può sfuggire infatti che l’autonomia dell’illecito amministrativo dal diritto penale, oltre che ad impingere nel più ampio grado di discrezionalità del legislatore nel configurare gli
strumenti più efficaci per perseguire la «effettività dell’imposizione di obblighi o di doveri» (sentenza
n. 317/1996), corrisponde altresì, sul piano delle garanzie costituzionali, al «principio di sussidiarietà,
per il quale la criminalizzazione, costituendo l’ultima ratio, deve intervenire soltanto allorché, da parte
degli altri rami dell’ordinamento, non venga offerta adeguata tutela ai beni da garantire» (sentenza n.
487 del 1989; in seguito, sentenze n. 447/1998 e n. 317/1996 secondo le quali «le esigenze costituzionali
di tutela non si esauriscono […] nella (eventuale) tutela penale, ben potendo invece essere soddisfatte
con diverse forme di precetti e di sanzioni».
Ne discende che in questo doppio binario, ove da un lato scorrono senza opposizione le scelte di politica criminale dello Stato, ma dall’altro ne sono frenati gli effetti di detrimento delle garanzie individuali, si manifesta in modo vivido la natura della Cedu, quale strumento preposto, pur nel rispetto della discrezionalità legislativa degli Stati, a superare i profili di inquadramento formale di una fattispecie,
per valorizzare piuttosto la sostanza dei diritti umani che vi sono coinvolti, e salvaguardarne l’effettività.
Alla luce di tali considerazioni la Corte dubita che la sentenza Varvara si sia davvero incamminata
sulla via indicata da entrambi i giudici a quibus, introducendo un elemento disarmonico nel più ampio
contesto della Cedu; né i rimettenti si sono adoperati per risolvere un simile dubbio, impiegando gli
strumenti di cui dispongono a tal fine.
A fronte di una pluralità di significati potenzialmente compatibili con il significante, l’interprete è
tenuto a collocare la singola pronuncia nel flusso continuo della giurisprudenza europea, per ricavarne
un senso che possa conciliarsi con quest’ultima, e che, comunque, non sia di pregiudizio per la Costituzione; nell’ipotesi definita dalla sentenza Varvara, la Corte reputa che una tale attività per i rimettenti
fosse doverosa e che il mancato esaurimento di essa li abbia indotti ad attribuire a questa pronuncia
una portata che era invece tutta da verificare, anche alla luce del caso concreto. Al riguardo la Corte ribadisce che «Ancorché tenda ad assumere un valore generale e di principio, la sentenza pronunciata
dalla Corte di Strasburgo […] resta pur sempre legata alla concretezza della situazione che l’ha originata» (sentenza n. 236/2011).
La questione da risolvere, secondo i criteri appena enunciati dell’interpretazione costituzionalmente
e convenzionalmente conforme, consiste allora nel decidere se il giudice europeo, quando ragiona
espressamente in termini di “condanna”, abbia a mente la forma del pronunciamento del giudice, ovvero la sostanza che necessariamente si accompagna a tale pronuncia, laddove essa infligga una sanzione
criminale ai sensi dell’art. 7 della Cedu, vale a dire l’accertamento della responsabilità.
Rispetto a ciò la Corte sottolinea che le espressioni, linguisticamente aperte ad un’interpretazione
che non costringa l’accertamento di responsabilità nelle sole forme della condanna penale, ben si accordano sul piano logico con la funzione, propria della Corte e.d.u., di percepire la lesione del diritto umano nella sua dimensione concreta, quale che sia stata la formula astratta con cui il legislatore nazionale
ha qualificato i fatti. Come già affermato in precedenza, nell’ordinamento giuridico italiano la sentenza
che accerta la prescrizione di un reato non denuncia alcuna incompatibilità logica o giuridica con un
pieno accertamento di responsabilità; quest’ultimo, anzi, è doveroso qualora si tratti di disporre una
confisca urbanistica. Pertanto decidere se l’accertamento vi sia stato, oppure no, è questione di fatto, ar SCENARI | CORTE COSTITUZIONALE
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gomenta la Corte, dalla cui risoluzione dipende la conformità della confisca rispetto alla Cedu (oltre che
al diritto nazionale) ed è appunto questo compito, che istituzionalmente le spetta in ultima istanza, che
la Corte di Strasburgo ha assolto nel caso di specie, concludendo per la violazione del diritto, dato che
era mancato un congruo accertamento di responsabilità.
Conclusivamente, sottolinea la Corte, si tratta quindi non della forma della pronuncia, ma della sostanza dell’accertamento. La stessa Corte di Strasburgo, pronunciandosi in altra occasione sulla compatibilità con la presunzione di non colpevolezza di una condanna alle spese adottata nonostante la prescrizione del reato, ha infatti escluso di poter decidere la controversia sulla base della sola natura in rito
della sentenza adottata dal giudice nazionale, senza invece valutare come quest’ultimo avesse motivato
in concreto (sentenza 25 marzo 1983, Minelli contro Svizzera).
In definitiva, a parere della Corte, i giudici a quibus non solo non erano tenuti ad estrapolare dalla
sentenza Varvara il principio di diritto dal quale muovono gli odierni incidenti di legittimità costituzionale, ma avrebbero dovuto attestarsi su una lettura ad esso contraria. Quest’ultima è infatti compatibile con il testo della decisione e gli estremi della vicenda decisa, più armonica rispetto alla tradizionale
logica della giurisprudenza europea, e comunque rispettosa del principio costituzionale di sussidiarietà
in materia penale, nonché della discrezionalità legislativa nella politica sanzionatoria degli illeciti, con
eventuale opzione per la (interna) natura amministrativa della sanzione.
Non sfugge infine alla Corte un ulteriore osservazione che conduce a denunciare un ulteriore causa
di inammissibilità: i rimettenti erroneamente hanno ritenuto di essere altresì obbligati a recepire il principio di diritto che avevano ricavato dalla sentenza Varvara; in tal modo essi hanno attribuito all’art. 7
della Cedu un significato non immediatamente desumibile da tale disposizione, benché la pronuncia
appena citata non fosse, con ogni evidenza, espressione di un’interpretazione consolidata nell’ambito
della giurisprudenza europea.
A tal riguardo la Corte ribadisce il principio secondo cui il giudice comune è tenuto ad uniformarsi
alla «giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente» (sentenze n. 236/2011 e n. 311 del
2009), «in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza» (sentenza n. 311/2009; nello stesso
senso, sentenza n. 303/2011), fermo il margine di apprezzamento che compete allo Stato membro (sentenze n. 15 del 2012 e n. 317 del 2009). Se ne deduce, pertanto, che è solo un “diritto consolidato”, generato dalla giurisprudenza europea, che il giudice interno è tenuto a porre a fondamento del proprio
processo interpretativo, mentre nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano
espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo.
LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DEI LIMITI AL PATTEGGIAMENTO PER I REATI TRIBUTARI
(Corte cost., sent. 28 maggio 2015, n. 95)
Con ordinanza del 3 dicembre 2013 il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di La
Spezia dubita della legittimità costituzionale di due disposizioni in materia penale tributaria, introdotte
dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, in sede di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 13
agosto 2011, n. 138 («Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo»).
I dubbi investono, in primo luogo, l’art. 12, comma 2-bis, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25
giugno 1999, n. 205), aggiunto dall’art. 2, comma 36-vicies semel, lettera h), del citato d.l. n. 138 del 2011,
come convertito, in forza del quale l’istituto della sospensione condizionale della pena non si applica ai
delitti previsti dagli artt. da 2 a 10 del medesimo decreto legislativo, quando l’ammontare dell’imposta
evasa superi – congiuntamente – il trenta per cento del volume d’affari e tre milioni di euro.
Secondo il giudice rimettente la norma censurata violerebbe l’art. 3 Cost., sottoponendo i reati tributari considerati ad un trattamento irragionevolmente più severo di quello riservato alla generalità degli
altri reati, ivi compresi taluni delitti contro il patrimonio pubblico con tratti di infedeltà ancora più accentuati, quali il peculato e la malversazione, per i quali non sono previste analoghe preclusioni; la disposizione denunciata si porrebbe, altresì, in contrasto con l’art. 25, comma 2, Cost., in quanto impedirebbe al giudice di valutare la concreta gravità del reato, ai fini della concessione della sospensione
condizionale, sulla base di tutti gli elementi indicati dall’art. 133 c.p., rompendo così il rapporto di proporzionalità fra la risposta punitiva e il fatto commesso; violerebbe, infine, l’art. 27, comma 1, Cost.,
perché collegherebbe il trattamento sanzionatorio alla sola rilevanza del danno causato dal reato, anzi SCENARI | CORTE COSTITUZIONALE
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ché al «rimprovero soggettivo» che può essere mosso all’agente, in contrasto con il principio di personalità della responsabilità penale. Comprometterebbe, infine, la finalità rieducativa della pena (art. 27,
terzo comma, Cost.), imponendo un trattamento punitivo che può risultare, in concreto, inadeguato e
desocializzante.
Il rimettente censura, in secondo luogo, l’art. 13, comma 2-bis, del d.lgs. n. 74 del 2000, aggiunto
dall’art. 2, comma 36-vicies semel, lettera m), del d.l. n. 138/2011, ove si stabilisce che, per i delitti di cui
al medesimo decreto legislativo, l’applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura
penale può essere chiesta dalle parti solo qualora ricorra la circostanza attenuante di cui ai commi 1 e 2
dello stesso art. 13, e cioè solo nel caso di estinzione, mediante pagamento, dei debiti tributari relativi ai
fatti costitutivi dei predetti delitti. Tale previsione violerebbe tanto l’art. 3 Cost., determinando una irragionevole disparità di trattamento tra soggetti imputati del medesimo reato, a seconda delle loro
condizioni economiche; quanto l’art. 24 Cost., limitando il diritto di difesa dell’imputato non abbiente,
il quale vedrebbe precluso l’accesso al rito speciale esclusivamente per motivi legati alla propria condizione di impossidenza.
Invertendo l’ordine di prospettazione del rimettente, la Corte esamina per prima, in quanto logicamente pregiudiziale, la questione afferente alla limitazione del “patteggiamento” prevista dall’art. 13, comma
2-bis, d.lgs. n. 74/2000. Nel ritenerla infondata nel merito, i giudici della Consulta evidenziano in primis di
aver già escluso – con risalente decisione – i vulnera costituzionali denunciati in rapporto alla circostanza
attenuante comune del risarcimento del danno, di cui all’art. 62, numero 6), prima parte, del codice penale, rispetto alla quale quella tributaria si pone in rapporto di specialità (sentenza n. 111 del 1964, le cui affermazioni sono state successivamente ribadite dalla sentenza n. 49/1975, con riguardo alla possibilità di
subordinare la sospensione condizionale della pena alla riparazione del danno).
Nell’occasione, la Corte rileva che qualunque norma che imponga oneri patrimoniali per il raggiungimento di determinati fini risulta diversamente utilizzabile a seconda delle condizioni economiche dei
soggetti interessati a conseguirli. Non per questo solo, tuttavia, essa è costituzionalmente illegittima.
Ciò avviene infatti esclusivamente in due ipotesi: da un lato, quando ne risulti compromesso l’esercizio
di un diritto che la Costituzione garantisce a tutti paritariamente (quale il diritto di azione e difesa in
giudizio, come avveniva per i vecchi istituti del solve et repete e della cautio pro expensis: sentenze n.
21/1961 e n. 67/1960); dall’altro, quando gli oneri imposti non risultino giustificati da ragioni connesse
a circostanze obiettive, così da determinare irragionevoli situazioni di vantaggio o svantaggio.
La Corte esclude senza indugio che questa seconda ipotesi ricorra nel caso in esame: il generale interesse pubblico (oltre che della persona offesa) all’eliminazione delle conseguenze dannose del reato, anche per il suo valore sintomatico del processo di ravvedimento del reo – interesse che giustifica le disparità di trattamento indotte dal citato art. 62, numero 6), prima parte, cod. pen. (sentenza n. 111/1964)
– si coniuga, infatti, nel frangente, allo specifico interesse alla integrale riscossione dei tributi evasi. Allo
stesso modo si esclude che ricorra la prima ipotesi: e ciò ancorché l’onere patrimoniale imposto dalla
norma censurata incida – tramite il richiamo all’anzidetta circostanza attenuante – sulla fruizione di un
istituto che, a differenza di questa, non ha natura esclusivamente sostanziale, ma “ibrida” (processualesostanziale), quale il “patteggiamento”; rito alternativo cui si collega, in funzione incentivante, la possibilità di beneficiare di una consistente riduzione della pena (fino a un terzo: art. 444, comma 1, c.p.p.).
Se è pur vero che, per reiterata affermazione della Corte, la facoltà di chiedere i riti alternativi –
quando è riconosciuta – costituisce una modalità, tra le più qualificanti ed incisive (sentenze n. 237/
2012 e n. 148/2004), di esercizio del diritto di difesa (ex plurimis, sentenze n. 273 del 2014, n. 333/2009 e
n. 219/2004), allo stesso tempo la negazione legislativa di tale facoltà in rapporto ad una determinata
categoria di reati non vulnera il nucleo incomprimibile del predetto diritto. La facoltà di chiedere l’applicazione della pena non può essere evidentemente considerata una condicio sine qua non per un’efficace tutela della posizione giuridica dell’imputato, tanto è vero che essa è esclusa per un largo numero di
reati.
Si specifica, infine, che con riguardo ai reati tributari vi è, di regola – anche se non immancabilmente
– una diretta correlazione tra entità del danno cagionato e risorse economiche del reo (ove questi si
identifichi nel contribuente persona fisica), o da lui comunque gestite (ove si tratti dell’amministratore
o del liquidatore di società o enti), posto che il profitto conseguente al reato corrisponde all’imposta sottratta al fisco.
Conseguentemente, conclude la Corte, la riscontrata infondatezza della questione inerente alla preclusione del “patteggiamento” rende inammissibile, per difetto di rilevanza, la questione relativa al di SCENARI | CORTE COSTITUZIONALE
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vieto di concessione della sospensione condizionale della pena per i delitti di cui agli articoli da 2 a 10,
d.lgs. n. 74/2000, sancita dal censurato art. 12, comma 2-bis, del medesimo decreto.
La richiesta presentata dagli imputati nel giudizio a quo va, infatti, comunque disattesa per la pregiudiziale ragione che il “patteggiamento” non è consentito in rapporto ai reati per cui si procede: di
modo che l’eventuale rimozione dell’ostacolo alla concessione della sospensione condizionale, cui la richiesta è subordinata, rimarrebbe del tutto ininfluente sulla decisione che il rimettente è chiamato ad
adottare.
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SEZIONI UNITE
di Paola Maggio
IL LOCUS COMMISSI DELICTI DELL’ACCESSO ABUSIVO A UN SISTEMA INFORMATICO È QUELLO IN CUI IL
SOGGETTO EFFETTUA L’INTRODUZIONE NEL SISTEMA
(Cass., sez. un., 24 aprile 2015, n. 17325)
Le Sezioni Unite hanno ritenuto che il luogo di consumazione del delitto di accesso abusivo a un sistema informatico o telematico, ex art. 615-ter c. p., coincida con «quello nel quale si trova il soggetto che
effettua l’introduzione abusiva o vi si mantiene abusivamente». Gli snodi essenziali della soluzione
proposta risiedono nella configurazione del ‘sistema telematico’ come complesso unitario e nella concezione dello spazio informatico come ubiquitario e virtuale.
Sotto un profilo tecnico il delitto informatico si realizza a distanza mediante un collegamento tra più
sistemi informatici con l’introduzione illecita, o non autorizzata, di un soggetto, all’interno di un elaboratore elettronico, che si trova spesso in luogo diverso da quello in cui è situata la banca-dati. Ai fini
della determinazione del locus commissi delicti, ingresso e mantenimento della condotta delittuosa sono,
tuttavia, elementi di difficile localizzazione materiale.
Nella sporadica giurisprudenza in materia, si registrava la prevalenza della tesi secondo cui luogo
processualmente rilevante è quello in cui si trova il server (Cass., sez. I, 27 maggio 2013, n. 40303), tenuto
conto del momento in cui viene posta in essere la condotta che si connota per l’abusività. In questa prospettiva, il delitto si perfeziona quando l’agente, interagendo con il sistema informatico o telematico altrui, si introduce in esso o vi si intrattiene contro la volontà di chi ha il diritto di estromettere l’estraneo,
ovvero violando le regole di condotta imposte. Sottolineata la centralità dello jus excludendi, la consumazione ha luogo quando il client, colloquiando con il sistema, ne oltrepassi le barriere protettive o, introdottosi per mezzo di un valido titolo abilitativo, vi permanga oltre i limiti di validità dello stesso. Conseguentemente, la procedura di accesso, a prescindere dal luogo in cui essa si verifichi in concreto, viene a
configurare una mera attività prodromica rispetto all’effettiva introduzione nel sistema.
Secondo questa lettura, si può parlare di consumazione del delitto soltanto in esito al superamento
delle barriere logiche dopo l’immissione delle credenziali di autenticazione da remoto (analogamente,
Cass., sez. III, 24 maggio 2012, n. 23798). Inoltre, le singole postazioni remote costituiscono localizzazioni passive di accesso al server e non fanno parte del sistema principale, che risulta smembrato e
frammentato.
Tenuto, però, conto dei casi, sempre più frequenti, di introduzione o mantenimento abusivi nel sistema informatico da una piattaforma aliunde dislocata rispetto al server, un mutato indirizzo interpretativo ha valorizzato l’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 615-ter c.p. In tal modo client e server
vengono a comporre un unico sistema telematico; l’accesso penalmente rilevante comincia dalla postazione remota e si perfeziona nel luogo ove si trova l’utente, normalmente diverso da quello in cui è ubicato il server (Cass., sez. I, 15 giugno 2014, De Bo, non massimata).
Le Sezioni Unite privilegiano questa seconda impostazione e, richiamandosi alla nozione di ‘sistema
informatico’, elaborata dalla Convenzione europea di Budapest del 23 novembre 2001, si riferiscono a
«qualsiasi apparecchiatura o gruppi di apparecchiature interconnesse o collegate, una o più delle quali,
in base ad un programma, compiono l’elaborazione dei dati».
A parere delle Supremo consesso, dunque, per localizzare in concreto l’introduzione o il mantenimento abusivo nel sistema, dovrà attribuirsi rilevanza maggiore – più che al luogo in cui materialmente
si trova il sistema informatico – a quello da cui parte il dialogo elettronico tra i sistemi interconnessi e
dove le informazioni vengono trattate dall’utente.
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L’inquadramento normativo e giurisprudenziale del delitto di cui all’art. 615-ter c.p. induce dunque
la Corte a privilegiare il concetto di spazio informatico come virtuale, seppure riconducibile nel campo
di applicatività dell’art. 8 c.p.p., che è tradizionalmente ancorato ad un’idea fisica della dimensione
spaziale. Nel cyberspazio della rete internet, infatti, i flussi di dati informatici sono nella disponibilità di
un numero indefinito di utenti, abilitati a accedervi da qualsiasi altro luogo, in una dimensione “fluida”, contestualmente compresente e consultabile da tutte le postazioni remote autorizzate all’accesso.
Dalla prospettata unitarietà del sistema telematico (software di gestione che presiede al funzionamento della rete, condivisione della banca dati, archiviazione delle informazioni, distribuzione e invio dei
dati ai singoli terminali interconnessi) discende quindi l’impossibilità di scindere terminali periferici e
server centrale.
«L’ingresso o l’introduzione abusiva, allora, vengono a essere integrati nel luogo in cui l’operatore
materialmente digita la password di accesso o esegue la procedura di login, che determina il superamento delle misure di sicurezza apposte dal titolare del sistema, in tal modo realizzando l’accesso alla banca-dati».
Questa è l’azione materiale e volontaria (penalmente rilevante) che abilita al possesso di tutte le informazioni visionabili dal soggetto e da quello stesso momento nella sua piena disponibilità. Le suddette attività coincidono, peraltro, con le operazioni di ‘trattamento’, menzionate dall’art. 4, lett. a), d.lgs.
30 giugno 2003, n. 196 (Codice della privacy).
La condotta è già abusiva nel momento in cui l’operatore non autorizzato accede al computer remoto e si fa riconoscere o autenticare manifestando, in tale modo, la volontà di introdursi illecitamente nel
sistema con possibile violazione dell’integrità dei dati; laddove, invece, il server non risponda o non validi le credenziali, il reato si fermerà alla soglia del tentativo punibile.
A conforto del descritto percorso, le Sezioni Unite sottolineano come il luogo in cui l’utente agisce
sul computer, normalmente coincida sia con quello in cui si reperiscono gli elementi probatori del reato,
sia con quello in cui il disvalore della violazione penale viene meglio percepita dalla collettività. Esso
rispecchia, altresì, il canone del giudice naturale sancito all’art. 25, comma 1, Cost., così come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale (C. cost., sent. n. 168/2006, secondo cui il diritto e la giustizia
devono riaffermarsi proprio nel luogo essi in cui sono stati violati).
Per le evidenziate ragioni, il luogo dell’accesso soddisfa pienamente i parametri di cui all’art. 8 c.p.p.
e, soltanto in ipotesi oltremodo residuali – nelle quali non è individuabile la postazione da cui agisce il
client per la mobilità degli utenti e per la flessibilità di uso dei dispositivi portatili – la competenza sarà
fissata in base alle regole suppletive dettate dall’art. 9 c.p.p.
L’organo nomofilattico avvalora la prospettata individuazione del locus commissi delicti, guardando
infine alla strutturazione delle circostanze aggravanti previste dal comma 2 dell’art. 615-ter c. p.: nell’aggravante di cui al numero 2 del predetto comma, è infatti proprio l’attività violenta dell’agente con
la relativa collocazione territoriale a fissare, naturalisticamente, il locus commissi delicti; allo stesso modo,
è sempre il luogo in cui si trova e opera il client ad individuare il ‘fatto’ penalmente rilevante, ove da esso sia derivata, a norma del numero 3, la interruzione, la distruzione o il danneggiamento del sistema o
di qualche sua componente.
La conclusione sulla determinazione del luogo dell’accesso abusivo è riferibile pure alla diversa ipotesi nella quale un soggetto si intrattenga nel sistema contro la volontà del titolare, eccedendo i limiti
dell’autorizzazione. Secondo le Sezioni Unite, infatti, anche per le condotte abusive di mantenimento, si
dovrà guardare all’inizio della condotta omissiva che coincide con un uso illecito dell’elaboratore, a
prescindere dall’avvenuta o dalla mancata captazione di dati nel prospettato parallelismo, l’operatore
remoto si relaziona con impulsi elettronici e dialoga dalla sua postazione periferica con il sistema.
IL DIFENSORE ASTENUTO DELL’IMPUTATO HA DIRITTO AL RINVIO DELL’UDIENZA CAMERALE A PARTECIPAZIONE FACOLTATIVA
(Cass., sez. un., 14 aprile 2015, n. 15232)
Il diritto di astensione del difensore, esercitato nel rispetto della disciplina del Codice di autoregolamentazione, impone al giudice di disporre il rinvio dell’udienza, anche camerale a partecipazione facoltativa, salvo il caso in cui l’imputato manifesti un proprio interesse contrario al differimento del procedimento. Con questa enunciazione, le Sezioni Unite risolvono affermativamente il precedente contrasto
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giurisprudenziale relativo alla necessità, dinnanzi alle legittime astensioni di categoria del difensore, di
disporre il rinvio delle udienze camerali a partecipazione non obbligatoria.
Il ragionamento del Supremo consesso muove da un riordino delle fonti costituzionali, legislative
ordinarie e regolamentari, disciplinanti la complessa materia. Le argomentazioni traggono, anzitutto,
spunto dalla natura costituzionalmente tutelata dell’astensione del difensore ma si collocano in un
quadro composito, caratterizzato da espliciti richiami ai propri precedenti (in particolare, Cass., sez.
un., 30 maggio 2013, n. 26711 e Cass., sez. un., 27 marzo 2014, n. 40187), ai percorsi della Corte costituzionale (C. cost., sentt. n. 114/ 1994 e n. 171/ 1996) nonché alle modifiche normative seguire alle censure della Consulta.
Com’è noto, infatti, dopo la declaratoria d’illegittimità dell’art. 2 della l. 12 giugno 1990, n. 146, (C.
cost., sent. n.171/1996) che ha tributato all’astensione del difensore la natura di diritto fondamentale, il
legislatore con la l. 11 aprile 2000, n. 83, ha inserito l’art. 2-bis nella normativa sullo sciopero nei servizi
pubblici essenziali e successivamente approvato, il codice di autoregolamentazione (dichiarato idoneo
dalla Commissione di garanzia con Delib. 13 dicembre 2007 e pubblicato sulla G.U. del 4 gennaio 2008),
ove, in ottemperanza alle prescrizioni di legge, l’art. 3 prevede i presupposti e gli effetti di una astensione legittima, mentre l’art. 4 individua le prestazioni indispensabili da assicurare nei procedimenti
penali. Richiamandosi espressamente al proprio precedente (Cass., sez. un., 27 marzo 2014, n. 40187), le
Sezioni Unite escludono che l’astensione dei difensori, in forza della riconducibilità all’art. 18 Cost.,
possa essere fatta rientrare fra gli impedimenti legittimi. La scelta del difensore di aderire o meno è infatti libera e, nel caso di rinvio, la sospensione non è limitata ai sessanta giorni ma opera per l’intero periodo.
Quanto al codice di autoregolamentazione, le disposizioni, introdotte nel testo della l. 12 giugno
1990, n. 146, dalla l. 11 aprile 2000, n. 83, assumono «valore di normativa secondaria», alla quale il giudice deve obbligatoriamente conformarsi, con la conseguenza che la loro trasgressione può essere oggetto di ricorso per cassazione per violazione di legge, mentre la loro interpretazione deve avvenire in
conformità ai canoni di cui all’art. 12 delle preleggi.
Anzi, il legislatore ha approntato un sistema idoneo a realizzare un esauriente «bilanciamento» tra il
diritto all’astensione e gli altri valori costituzionali, tra i quali spicca il principio di ragionevole durata
del processo.
Entro queste coordinate, il giudice è chiamato ad accertare la ritualità dell’astensione nonché a operare una interpretazione in chiave sistematica o adeguatrice delle norme primarie e secondarie rilevanti
che risulti il più possibile conforme ai principi costituzionali in discorso.
Né la portata del codice di autoregolamentazione potrebbe essere limitata, in base a pretesi contrasti
con le disposizioni dettate dal codice di procedura penale, in tema di legittimo impedimento: innanzitutto, perché i due tipi di norme regolano materie e situazioni diverse; in secondo luogo, perché le
norme ‘speciali’ non sono del tutto sovrapponibili con quelle codicistiche, in quanto sono mirate espressamente a dettare una disciplina differente da quella ordinaria, proprio per le ipotesi di astensione collettiva degli avvocati legittimamente proclamata; infine, perché se tali norme potessero essere disapplicate sulla base della mancata contemplazione nel codice di rito se ne impedirebbe ogni reale applicazione e si relegherebbero ad un rango «meramente endoassociativo», disattendendo così le finalità che la
Corte costituzionale e il legislatore ordinario hanno assegnato alle medesime.
Si tratta dunque di norme “volutamente” speciali e non collimanti con quelle generali del codice di
rito con le quali entrano in un rapporto di antinomia solo ‘apparente’. Esse potrebbero porsi in contrasto con le norme procedurali solo quando il legislatore codicistico intervenga successivamente, in modo
espresso o inequivoco, per disciplinare in maniera diversa lo specifico rapporto relativo all’astensione
collettiva degli avvocati. Deve, cioè, emergere chiaramente la voluntas legis di sottrarre il regime dell’astensione forense alla disciplina speciale, per assoggettarlo a quella generale della norma di rito.
Entrando ancor più nel vivo della questione, il supremo Collegio ricorda, come il dettato dell’art. 3,
comma 1, del vigente codice di autoregolamentazione, con la locuzione, «ancorché non obbligatoria»,
costituisca un dato letterale di conferma della facoltà per il difensore di astenersi nelle udienze camerali
a partecipazione non necessaria. Agevole è poi, per le Sezioni Unite, sovvertire gli argomenti principali
rinvenibili nei percorsi interpretativi delle sezioni semplici, utilizzati al fine di negare l’applicazione
della disciplina di garanzia nei riti camerali (ex multis, Cass., sez. VI, 23 settembre 2004, n. 40542; Cass.,
sez. V, 16 luglio 2010, n. 36623; Cass., sez. VI, 19 febbraio 2009, n. 14396; Cass., sez. I, 13 febbraio 2002, n.
32955; Cass., sez. V, 27 settembre 2013, n. 7433; Cass., sez. I, 20 dicembre 2012, n. 9775).
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Essi si fondano da un lato sulla ritenuta inapplicabilità a tali udienze delle disposizioni sul legittimo
impedimento del difensore (Cass., sez. V, 27 febbraio 2014, n. 28500; Cass., sez. VI, 16 maggio 2013, n.
44958), dall’altro, sulla ritenuta irrilevanza delle disposizioni emanate ai sensi della novellata legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali. Si consideri poi che queste soluzioni sviliscono al rango di
mera libertà il diritto all’astensione (Cass., sez. V, 27 settembre 2013, n. 7433).
La replica puntuale dell’organo nomofilattico ribalta, da subito, la natura dell’astensione puntando
sulla evidenziata differenza contenutistica rispetto al legittimo impedimento. Da questo punto di vista,
appare pertanto fuorviante l’argomento secondo cui è irrazionale un sistema che riconosca
all’astensione del difensore il diritto al rinvio dell’udienza in un procedimento camerale, ove, normalmente, il legittimo impedimento – ossia una situazione di impossibilità oggettiva di partecipare dello
stesso difensore – non riceve tutela.
L’obiezione non coglie infatti appieno la differenza degli istituti e la loro diversità di trattamento: il
legittimo impedimento è funzionale al diritto di difesa dell’assistito tanto che il suo esercizio viene modulato in considerazione del rito a cui accede e in funzione dello scopo del giudizio; «l’astensione per
adesione all’agitazione di categoria è, invece, funzionale all’esercizio di un diritto costituzionale del difensore, che ha valenza pari agli altri diritti costituzionali e fondamentali che vengono in gioco nel procedimento, ma in relazione ai quali il legislatore ha introdotto un autonomo sistema per operare, a
monte, il loro bilanciamento».
La totale autonomia dell’astensione rispetto al legittimo impedimento partecipativo emerge anche dal
codice di autoregolamentazione, ove non si è differenziato l’esercizio del diritto da parte del difensore a
seconda del rito, bensì, unicamente, in funzione del diritto di libertà dell’imputato. Ne discende che la
portata ampia dell’art. 3, comma 1, del codice di autoregolamentazione non tollera distinzioni alcuna tra
udienze a cui il difensore deve partecipare in via obbligatoria e atti a partecipazione facoltativa. Pertanto,
anche laddove non sia prevista come obbligatoria, la presenza del difensore non può condizionare negativamente l’esercizio del diritto di astensione, con conseguente rinvio dell’udienza, purché il difensore
comunichi, nelle forme e nei termini stabiliti dal medesimo art. 3, comma 1, la volontà di astenersi, manifestando in questo modo anche la sua volontà di essere presente alle udienze suddette.
La soluzione proposta presenta un’evidente giustificazione logica, poiché, altrimenti, l’astensione
del difensore subirebbe un pesante condizionamento, con una sorta di imposizione per l’avvocato, costretto a scegliere tra l’esercizio del proprio diritto e l’esigenza di non lasciare privo di difesa tecnica
l’assistito.
In ultimo, le Sezioni Unite riservano una precisazione in ordine ai rapporti fra la dichiarazione di
astensione del difensore della parte civile sulla contraria volontà espressa, tramite il proprio difensore,
dall’imputato.
In questi casi, l’art. 3, comma 2, del codice di autoregolamentazione deve essere interpretato nel senso della prevalenza dell’interesse ad una celere definizione del procedimento, con la conseguenza che la
dichiarazione di astensione del difensore della parte civile non legittima il rinvio, in presenza di una
contraria volontà manifestata dal difensore dell’imputato (Cass., sez. VI, 12 luglio 2013, n. 43213). A ben
vedere, infatti, il diritto di astenersi è previsto dal codice di autoregolamentazione anche a vantaggio
del difensore della parte civile o della persona offesa; però non è regolato direttamente, sotto il profilo
processuale, il caso in cui vi sia una diversità di posizioni, rispetto alla richiesta di rinvio per astensione,
fra difensore dell’imputato o dell’indagato, da una parte, e difensore della persona offesa o della parte
civile, dall’altra.
Tale lacuna è colmabile in via interpretativa alla luce di importanti dati sistematici.
La partecipazione del difensore della persona offesa o della parte civile è caratterizzata infatti da alcune significative deroghe codicistiche: si pensi alla irrilevanza dell’impedimento, ai sensi dell’art. 420ter c.p.p. (Cass., sez. V, 13 luglio 2011, n. 39334), ovvero, all’art. 23 disp. att. c. p. p., secondo cui l’assenza
delle parti private diverse dall’imputato non determina la sospensione o il rinvio del dibattimento a
norma degli artt. 420-bis e 420-ter c.p.p. Inoltre, per questi difensori non operano i tradizionali “contrappesi” – sospensione dei termini di prescrizione e dei termini di custodia – che tradizionalmente riequilibrano l’esercizio del diritto del difensore dell’imputato ad astenersi. Tale complesso di disposizioni
conferma, dunque, la ‘ragionevolezza’ del differente rilievo degli interessi di cui l’imputato e la parte
civile sono portatori, unitamente alla diversa natura degli scopi perseguiti, così riflette sulla disciplina
prevista in relazione al diritto di partecipazione al processo e, quindi, sulla presenza del difensore (C.
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cost., sent. n. 217/2009). Conclusivamente, nelle udienze penali, a partecipazione facoltativa del difensore, l’astensione del difensore della parte civile o della persona offesa, non dà diritto al rinvio ogniqualvolta il difensore dell’imputato o dell’indagato non abbia espressamente (o implicitamente) formulato analoga dichiarazione, così mostrando un proprio interesse a una celere definizione del procedimento. Da quest’angolo visuale, l’interesse dell’imputato o del suo difensore prevalgono rispetto al
ruolo della persona offesa e all’effettività del suo diritto di difesa nel processo penale.
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DECISIONI IN CONTRASTO
di Paola Corvi
PER IL RISPETTO DEL TERMINE ENTRO IL QUALE DEVE INTERVENIRE LA DECISIONE SULLA RICHIESTA DI
RIESAME AVVERSO IL PROVVEDIMENTO DI SEQUESTRO È SUFFICIENTE UNA PRONUNCIA INTERLOCUTORIA?
(Cass., sez. II, 29 aprile 2015, n. 17853)
Nel procedimento di riesame nei confronti del provvedimento di sequestro, l’art. 324, comma 5, c.p.p.
prevede che il tribunale del riesame decida sulla richiesta nel termine di dieci giorni dalla ricezione degli atti. In forza del richiamo dell’art. 324, comma 7, c.p.p. alle disposizioni contenute nell’art. 309,
commi 9 e 10, c.p.p., qualora la decisione non intervenga entro il termine prescritto, il provvedimento
che dispone la misura cautelare reale o il sequestro probatorio perde efficacia. Nel caso in cui, tuttavia,
nel corso del procedimento venga dichiarata la propria incompetenza dal tribunale del riesame e successivamente venga sollevato un conflitto di competenza e quindi la pronuncia di merito intervenga
quando ormai è ampiamente scaduto il termine di legge, occorre stabilire se il decorso del termine
comporti l’inefficacia della misura in mancanza di una decisione sul merito o se per il rispetto del termine sia sufficiente la dichiarazione di incompetenza.
Secondo un primo orientamento, qualora il tribunale del riesame, a cui è indirizzata la relativa richiesta, abbia dichiarato la propria incompetenza e trasmesso gli atti al tribunale ritenuto competente,
senza provvedere sul merito della richiesta di riesame, non essendo rispettato il termine di legge, si
produce l’effetto della inefficacia del provvedimento di sequestro, ai sensi del combinato disposto degli
artt. 324 e 309 c.p.p. (Cass., sez. VI, 28 giugno 2013, n. 28267).
Con la sentenza in esame la Seconda Sezione, modificando il precedente orientamento della Suprema Corte, afferma che, nel procedimento di riesame del provvedimento di sequestro, entro il termine
perentorio di dieci giorni previsto dall’art. 324, comma 5, c.p.p., non deve necessariamente intervenire
una decisione di merito, essendo, invece, sufficiente anche una mera pronuncia di rito, come una dichiarazione di incompetenza per territorio. In tal senso depongono sia il testo dell’art. 324, comma 5,
c.p.p., che non richiede necessariamente la pronuncia di una decisione di merito nel termine perentorio
di dieci giorni, sia la ratio della norma, che non è quella di pervenire in termini così ristretti a un giudicato cautelare – che del resto si formerebbe solo successivamente, essendo la decisione suscettibile di
ricorso per cassazione –, bensì quella di evitare tempi morti nell’ambito del procedimento incidentale.
Un ulteriore argomento a conforto di questa tesi è rinvenuto nell’ottavo comma dell’art. 324 c.p.p. che
prevede, in caso di contestazione della proprietà, il rinvio della controversia al giudice civile, mantenendo nel frattempo il sequestro: in questa ipotesi la misura quindi sopravvive pur in assenza di una
pronuncia di merito e anzi, secondo la giurisprudenza, la pronuncia interlocutoria e di mero rito con
cui gli atti vengono trasmessi al giudice civile comporta la sospensione obbligatoria del procedimento e
l’astensione del giudice dalla pronuncia sulla richiesta d’esame (Cass., sez. II, 3 luglio 2013, n. 28555;
Cass., sez. III, 14 novembre 2007, n. 41879; Cass., Sez. V, 10 giugno 2003, n. 24928). A parere della Seconda Sezione non è dunque coessenziale al sistema che la pronuncia entro il termine di dieci giorni fissato dall’art. 324 c. 5 c.p.p. debba essere necessariamente sul merito del riesame, a pena di inefficacia
del sequestro.
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OPERATIVITÀ IPSO IURE O OPE IUDICIS DELL’ESTINZIONE DEL REATO OGGETTO DI UNA SENTENZA DI PATTEGGIAMENTO
(Cass., sez. V, 14 maggio 2015, n. 20068)
Il tema affrontato dalla sentenza in esame riguarda la circostanza se l’estinzione del reato, che ha costituito oggetto di una sentenza di patteggiamento, a seguito della mancata commissione nel termine previsto – di cinque anni, se la sentenza concerne un delitto o due anni se la sentenza riguarda una contravvenzione – di un delitto o di una contravvenzione della stessa indole operi ipso iure o richieda una
formale pronuncia da parte del giudice dell’esecuzione. L’interrogativo non è di poco conto, in quanto
dalla diversa soluzione data al quesito può dipendere la sussistenza o meno della recidiva e quindi in
ultima analisi la determinazione della pena.
La questione era già stata presa in esame dalla Corte di cassazione che in una precedente pronuncia
aveva concluso per la necessità di una dichiarazione formale di estinzione da parte del giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 676 c.p.p., in presenza delle condizioni previste dall’art. 445, c. 2 c.p.p., affermando che la situazione di fatto da cui origina la causa estintiva del reato, per espressa statuizione di
legge, necessita, per divenire condizione di diritto, dell’intervento ricognitivo del giudice dell’esecuzione, il quale è tenuto, nell’assolvimento di un suo preciso dovere funzionale, ad emettere il relativo
provvedimento tanto più se sollecitato dalla parte che ha interesse a ottenerlo (Cass., sez. IV, 21 marzo
2002, n. 11560) .
La decisione, rimasta sostanzialmente isolata nella giurisprudenza di legittimità, è stata seguita dalla
giurisprudenza amministrativa. I giudici amministrativi, chiamati a verificare i requisiti soggettivi dei
partecipanti alle procedure concorsuali o di appalto, richiamando i principi contenuti nella citata pronuncia della Corte di cassazione, hanno precisato – sia pure con riguardo al differente caso del reato
espunto dall’ordinamento per depenalizzazione – che l’estinzione della condanna non consegue automaticamente, occorrendo al contrario uno specifico provvedimento del giudice competente (Cons. Stato, sez. V, 9 giugno 2003, n 3241; Cons. Stato, sez. V, 20 marzo 2007, n. 1331).
La sentenza in esame, in contrapposizione al precedente orientamento giurisprudenziale e conformemente alla dottrina, ritiene invece che l’effetto estintivo operi ope legis. La Corte sottolinea come l’art.
676 c.p.p. attribuisca al giudice dell’esecuzione la competenza a decidere dell’estinzione del reato dopo
la sentenza di condanna, senza prevedere nulla in ordine al momento a partire dal quale si produrrebbero gli effetti propri della causa estintiva; tuttavia ai fini dell’individuazione del dies a quo soccorre il
dato testuale contenuto nell’art. 445, comma 2 c.p.p., che subordina l’estinzione al verificarsi della condizione della mancata commissione, entro il termine previsto, di un delitto o di una contravvenzione
della stessa indole: il provvedimento dichiarativo dell’estinzione, successivo e ricognitivo di un effetto
già verificatosi, resta dunque estraneo al decorrere del tempo ai fini dell’estinzione del reato ex art. 445
c.p.p. La tesi prospettata risulta peraltro conforme ai principi enunciati recentemente dalle Sezioni Unite, che, affrontando un’analoga questione in tema di indulto, ha affermato la necessità di fare riferimento, ai fini dell’individuazione del dies a quo per il decorso della prescrizione della pena in caso di revoca
di benefici, al momento in cui siano maturate, per legge, le condizioni che hanno portato alla revoca e
non a quello in cui viene adottato il provvedimento di revoca del beneficio (Cass., sez. un., 2 gennaio
2015, n. 2). Del resto, la Corte di cassazione sottolinea che, se si richiedesse l’intervento del giudice dell’esecuzione, sebbene in funzione meramente dichiarativa e ricognitiva, l’effetto estintivo, dipendendo
dalla attività giudiziaria diretta alla declaratoria della causa estintiva, si produrrebbe in tempi spesso
lunghi e comunque variabili per i diversi condannati, a seconda della maggiore o minore tempestività
dei provvedimenti giudiziali. L’interpretazione costituzionalmente orientata della norma porta dunque
ad affermare la tesi dell’automatismo degli effetti estintivi.
SCENARI | DECISIONI IN CONTRASTO
Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
Avanguardie in Giurisprudenza
Cutting Edge Case Law
Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
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L’impegno professionale del difensore in altro procedimento
costituisce legittimo impedimento in presenza
di condizioni obiettive
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE, SENTENZA 2 FEBBRAIO 2015, N. 4909 – PRES. SANTACROCE; REL.
ROMIS
L’impegno professionale del difensore in altro procedimento costituisce legittimo impedimento che dà luogo ad
assoluta impossibilità a comparire ai sensi dell’art. 420-ter, comma 5, c.p.p., a condizione che il difensore prospetti
l’impedimento appena conosciuta la contemporaneità dei diversi impegni, indichi specificamente le ragioni che
rendono essenziale l’espletamento della sua funzione nel diverso processo, rappresenti l’assenza in detto procedimento di altro codifensore che possa validamente difendere l’imputato, e l’impossibilità di avvalersi di un sostituto ai sensi dell’art. 102 c.p.p. sia nel processo a cui intende partecipare sia in quello di cui chiede il rinvio; con
conseguente congelamento del termine fino ad un massimo di sessanta giorni dalla cessazione dell’impedimento
stesso.
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di Asti condannava T.G. – in ordine al delitto di diffamazione in danno di G.F. e G. R.,
con l’aggravante di aver commesso il fatto con il mezzo della pubblicità – alla pena di Euro 1.032,00 di
multa, con la concessione delle attenuanti generiche valutate equivalenti alla contestata aggravante; il
T. veniva altresì condannato al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili, da liquidare
in separato giudizio.
2. Avverso detta sentenza proponeva rituale e tempestivo appello il T.
2.1. In assenza di contestazioni sul merito della vicenda, con i motivi di gravame veniva chiesto il riconoscimento della scriminante di cui all’art. 599 c.p., in quanto l’imputato, già occupato con funzioni
apicali presso la società ACPLAST s.p.a. rappresentata dalle persone offese, era stato, a suo dire, da
queste indotto ad ingiuste dimissioni. Sicché egli aveva agito nell’ambito di una sorta di reazione ad un
comportamento vessatorio ed ingiusto posto in essere ai suoi danni in ambito lavorativo.
2.2. In subordine, si sosteneva che i fatti si sarebbero estinti per prescrizione e in via ulteriormente
subordinata veniva chiesto il riconoscimento della prevalenza delle circostanze attenuanti generiche
sulla contestata aggravante poiché l’imputato, resosi conto degli illeciti commessi, aveva chiesto scusa
alle vittime del reato offrendo di versare in loro favore una somma di denaro a titolo di risarcimento
che tuttavia non era stata accettata.
3. La Corte di appello di Torino, con sentenza in data 3 marzo 2014, disattendeva le doglianze sui
capi penali della sentenza impugnata, ribadendo la sussistenza nel merito dell’addebito ascritto
all’imputato, ritenendo prive di qualsiasi rilievo le motivazioni che lo avrebbero indotto all’illecito.
3.1. Con riferimento alla richiesta declaratoria di improcedibilità per intervenuta prescrizione del
reato, il Collegio escludeva che ne fosse maturato il termine finale, evidenziando in particolare che il
procedimento era stato oggetto di numerosi rinvii richiesti ed ottenuti dalla difesa dell’imputato, anche
in sede di appello, per impedimenti, tentativi di accordi transattivi e partecipazione a scioperi di categoria: differimenti che avrebbero costituito altrettante cause di sospensione della prescrizione e che, pur
se limitati al periodo di 60 giorni ciascuno, avrebbero comunque determinato un prolungamento del
termine di prescrizione di quasi sette mesi.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | L’IMPEGNO PROFESSIONALE DEL DIFENSORE IN ALTRO PROCEDIMENTO
Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
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3.2. La Corte distrettuale, infine, riduceva la provvisionale concessa dal primo giudice in favore delle
parti civili, rideterminandola in Euro 10.000,00 ciascuno per G.F. e R. e in Euro 5.000,00 per la
ACPLAST s.p.a.
4. Con atto datato 11 aprile 2014, T.G. ha proposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore, avverso tale sentenza, sviluppando due motivi di impugnazione per vizi di violazione di legge e di
difetto, contraddittorietà ed illogicità della motivazione.
4.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 159
c.p., nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in relazione al mancato riconoscimento dell’estinzione del reato per intervenuta prescrizione.
Si rileva in particolare che, diversamente da quanto affermato dalla Corte distrettuale, il reato sarebbe ormai definitivamente estinto per prescrizione. Si sostiene infatti che, partendo dalla data di decorrenza del termine – coincidente con la data di consumazione del reato, individuata, con la sentenza di
primo grado, nel marzo 2006 – avrebbe dovuto tenersi conto del minor termine sospensivo pari a 147
giorni (e non sette mesi), con esclusione dei cinque periodi di rinvio disposti nel corso del giudizio di
primo grado per impedimento del giudice, per la pendenza di trattative volte alla rimessione della querela, per omessa citazione dei testimoni da parte del P.M. e per impedimento del difensore di parte civile. Sotto tale profilo, la motivazione della sentenza impugnata sarebbe affetta da gravi errori nella valutazione dei singoli differimenti delle udienze, da cui discenderebbe l’erronea applicazione della disciplina della sospensione dei termini di prescrizione. In primo luogo, si rileva come il rinvio intervenuto
in sede d’appello risulta richiesto dal difensore di parte civile per sue ragioni di salute: impedimento
non idoneo a sospendere il corso della prescrizione. In relazione poi al giudizio di primo grado, evidenzia il ricorrente come, degli otto rinvii disposti dal Tribunale di Asti, solo tre risulterebbero essere
stati idonei a sospendere il corso della prescrizione: alcune udienze sarebbero state infatti rinviate in
conseguenza di un impedimento del giudice. Ad avviso del ricorrente, pari menti inidoneo a sospendere i termini di prescrizione deve considerarsi il rinvio disposto a causa dell’omessa citazione dei testimoni da parte del Pubblico Ministero; e, secondo l’assunto difensivo, anche il rinvio disposto dal Tribunale il 7 ottobre 2009 – in ragione delle trattative pendenti tra le parti per addivenire ad un accordo ai
fini della eventuale remissione della querela – non integrerebbe una causa di sospensione della prescrizione. Il ricorrente conclude, dunque, che, dei rinvii di cui la Corte territoriale da atto in sentenza, soltanto tre sarebbero stati richiesti dalla difesa dell’Imputato.
In particolare: a) due rinvii sarebbero stati disposti per impedimento, ritenuto legittimo, del difensore, e ciò comporterebbe, per ciascun rinvio, una sospensione del tempo necessario a prescrivere non superiore a 60 giorni, pur in presenza di rinvio disposto per un tempo superiore (sul punto vengono evocate due decisioni della Corte di cassazione: n. 43428 del 3 settembre 2010, delle Sezioni Unite, e n.
20845 del 28 aprile 2011, della Terza Sezione); b) altro rinvio sarebbe stato disposto invece a seguito della adesione da parte del difensore all’astensione dalle udienze proclamata dall’Unione delle Camere
Penali: in tale ultimo caso non opererebbe il limite di cui all’art. 159 c.p., comma 1, n. 3. Ad avviso del
ricorrente, pertanto, sulla scorta di tale ricostruzione, il corso della prescrizione sarebbe stato sospeso
per complessivi giorni 147 e non per quasi sette mesi, come asserito dalla Corte di appello di Torino, di
guisa che il reato si sarebbe definitivamente estinto per prescrizione alla data del 24 febbraio 2014, dunque prima della data della sentenza oggetto del ricorso.
4.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata difetti di motivazione in
punto di condanna dell’imputato al pagamento della provvisionale, per la mancanza di prova del danno subito dalle parti civili per fatto dell’imputato e, comunque, di un danno non patrimoniale che raggiunga la somma complessiva rideterminata dalla Corte di appello. La mera diminuzione della provvisionale concessa nel giudizio di primo grado, senza indicare alcuna prova del danno per l’ammontare
in seguito rideterminato e facendo un vago riferimento ai “danni provati e liquidati”, non costituirebbe
motivazione idonea a supportare con logicità la condanna dell’imputato al pagamento della somma.
5. La Sezione Feriale, assegnataria del ricorso, con ordinanza n. 42800 del 21 agosto 2014, dep. il 13
ottobre 2014, ha rilevato come la questione sollevata con il primo motivo di ricorso evidenzi una problematica in relazione alla quale è riscontrabile un contrasto interpretativo nella giurisprudenza di legittimità, concernente il quesito se in caso di rinvio del processo per concomitante impegno professionale del difensore operi o meno, ai fini della sospensione del corso della prescrizione, il limite temporale di 60 giorni di cui all’art. 159 c.p., comma 1, n. 3.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | L’IMPEGNO PROFESSIONALE DEL DIFENSORE IN ALTRO PROCEDIMENTO
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5.1. In via preliminare, nell’ordinanza viene evidenziata la necessità di procedere all’accertamento
della data di consumazione del reato dalla quale far decorrere il termine di prescrizione del reato in
conformità al disposto dell’art. 158 c.p., nel testo novellato, applicabile nel caso di specie. Si rileva, dunque, che “dalla verifica degli atti rimessi a questa Corte, risulta che l’unica querela orale fu effettivamente presentata alla P.G. in data 11 marzo 2006. Appare quindi logico e corretto far coincidere con tale
data, quella di consumazione del reato, ancorandola all’unico elemento realmente dotato di inequivoca
certezza. Ne discende che risultano procedibili tutte le condotte diffamatorie commesse fino alla suddetta data. Per quelle successive, asseritamente commesse fino al settembre 2006 alla stregua della incolpazione, dovrebbe invece operare la causa di improcedibilità dell’azione penale per difetto di querela, eventualmente da rilevarsi d’ufficio ex art. 129 codice di rito. Facendo quindi decorrere dall’11 marzo
2006 il termine massimo di prescrizione di anni sette e mesi sei, previsto dalla vigente normativa in materia, il reato de quo si sarebbe estinto, l’11 settembre 2013”.
5.2. Osserva tuttavia la Sezione Feriale che su tale termine hanno comunque inciso alcune cause di
sospensione conseguenti a rinvii disposti nel corso del giudizio di primo grado ed in particolare: 1) dal
23 dicembre 2009 al 18 marzo 2010: richiesta di rinvio disposto, senza opposizione di P.M. e delle parti
civili, per impedimento dell’avv. B., difensore dell’imputato, in quanto bloccato a Torino a causa del
maltempo: mesi 2 e giorni 22; 2) dal 17 febbraio al 28 giugno 2012: rinvio disposto, con sospensione del
termine di prescrizione, per impedimento professionale dello stesso difensore dell’Imputato: mesi 4 e
giorni 10; 3) dal 17 novembre al 15 dicembre 2011: rinvio disposto per adesione del difensore dell’imputato all’astensione dalle udienze proclamata dall’associazione di categoria: giorni 28. Ciò posto, rileva
ancora la Sezione Feriale, che per la sospensione di cui al punto 1), trattandosi certamente di un impedimento assoluto a comparire, non potrebbe dubitarsi in ordine all’applicabilità del limite temporale di
cui al citato art. 159 c.p.; limite che, di contro, non troverebbe applicazione in relazione all’ipotesi sub
3), laddove, non potendosi parlare di “impedimento” ma di “richiesta”, seppure legittima, di rinvio, e
non operando dunque tale limite, la durata della sospensione dovrebbe necessariamente corrispondere
all’intervallo temporale tra le due udienze (peraltro pari a soli 28 giorni). Con riferimento, da ultimo,
all’ipotesi di sospensione della prescrizione per il rinvio di cui al punto 2) – dipendente dal concomitante impegno professionale del difensore – nell’ordinanza di rimessione si osserva che, invece, si pone il
problema se anch’essa sia da considerare, al pari della prima, quale legittimo impedimento e quindi
soggetta al limite dei 60 giorni di sospensione del corso della prescrizione, o se, invece, non essendo assimilabile il concomitante impegno professionale ad un vero e proprio “impedimento”, l’intervallo tra
le due udienze, ai fini del calcolo della sospensione, debba essere computato per intero.
5.2.1. Nella prima ipotesi, venendo il periodo totale di sospensione ad ammontare a mesi 4 e giorni
28, la prescrizione sarebbe maturata il giorno 28 febbraio 2014 e quindi in data antecedente a quella di
pronunzia della sentenza gravata di ricorso (3 marzo 2014).
5.2.2. Nella seconda ipotesi, il totale del periodo di sospensione comporterebbe che la prescrizione
sarebbe maturata invece in data successiva alla suddetta pronunzia.
6. In considerazione, pertanto, dell’importanza primaria, per l’esito del ricorso, della decisione sul
primo motivo di impugnazione, la Sezione rimettente evidenzia l’esigenza di comporre il contrasto sopra menzionato in ordine alla interpretazione della disposizione dettata dall’art. 159 c.p., comma 1, n. 3.
7. Nell’affrontare la questione, l’ordinanza di rimessione da conto di un primo e più risalente orientamento di legittimità, avviato da Sez. 1, n. 44609 del 14/10/2008, Errante, Rv. 242042 e successivamente ribadito da Sez. 2, n.1 17344 del 29/03/2011, Ciarlante, Rv. 250076, secondo il quale l’impedimento
del difensore per contemporaneo impegno professionale non costituirebbe un’ipotesi di impossibilità
assoluta a partecipare all’attività difensiva e quindi, pur dando luogo ad un legittimo rinvio
dell’udienza, non farebbe scattare i limiti di durata della sospensione della prescrizione di cui all’art.
159 c.p., comma 1, n. 3. In tale ipotesi, pertanto, non sarebbe configurarle un impedimento in senso tecnico del difensore ma una deliberata scelta, ancorché legittima, fatta – valere attraverso la richiesta di
rinvio. La Sezione Feriale, inoltre, mette in rilievo come tali pronunce fondino la loro motivazione sulla
giurisprudenza di legittimità formatasi sulla questione relativa alla natura del rinvio disposto per adesione del difensore alia astensione proclamata dalle associazioni di categoria, laddove si è consolidato il
principio per cui l’astensione dalle udienze non può essere ricondotta nell’alveo del legittimo impedimento con la conseguenza che la sospensione del corso della prescrizione deve abbracciare l’intero periodo di rinvio non soffrendo la limitazione dei sessanta giorni (si citano Sez. 3, n. 4071 del 17/10/2007,
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Regine, Rv. 238544; Sez. 2, n. 20574 del 12/02/2008, Rosano, Rv. 239890; Sez. 1, n. 25714 del 17/06/2008,
Arena, Rv. 240460).
8. Sulla questione la Sezione Feriale segnala, poi, l’esistenza di un contrapposto orientamento, espresso da Sez. 4, n. 10926 del 18/12/2013, dep. 2014, La China, Rv. 258618, per il quale (Impedimento
del difensore per concomitante impegno professionale in altro procedimento, una volta valutato e verificato dal giudice penale che abbia accolto la relativa richiesta di rinvio, integra un caso di assoluta impossibilità a comparire tenuto conto dell’esigenza di garantire l’effettività della difesa tecnica come sottolineato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 4708 del 1992, con conseguente applicazione della “limitazione” della sospensione della prescrizione ex art. 159 c.p., comma 1, n. 3. In considerazione pertanto
del rilevato conflitto interpretativo affermatosi in relazione a tale disposizione, il ricorso è stato rimesso
alle Sezioni Unite.
9. Con decreto del 23 ottobre 2014, il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna pubblica udienza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di ricorso – formulato con specifico riferimento al diniego da parte della Corte
territoriale di declaratoria di estinzione del reato per prescrizione – investe la questione relativa all’attribuibilità o meno della natura di legittimo impedimento per il difensore, con conseguente sua impossibilità assoluta di comparire (art. 420 ter c.p.p.), all’ipotesi di concomitante impegno professionale in
altro procedimento: e ciò, ai fini dell’applicabilità o meno, in tal caso, del limite temporale di 60 giorni
della sospensione del decorso del termine prescrizionale, previsto dall’art. 159 c.p., comma 1, n. 3, secondo periodo, come formulato con le modifiche introdotte con la L. n. 251 del 2005 (legge c.d. ex Cirielli). Per completezza espositiva, è doverosa una precisazione. Il ricorrente, nell’accennare al rinvio del
dibattimento disposto su richiesta del difensore di parte civile per motivi di salute dello stesso, cita – a
sostegno dell’affermazione che si tratterebbe di ipotesi di rinvio non soggetta a sospensione del decorso
della prescrizione (cfr. pag. 3 del ricorso) – due precedenti della giurisprudenza di legittimità, e precisamente la sentenza n. 39334 del 2011 e la sentenza n. 10822 del 2009: orbene, va evidenziato che, mentre la prima delle due evocate sentenze è relativa specificamente al caso di rinvio disposto su richiesta
(del difensore) della parte civile (che non comporta la sospensione del decorso del termine di prescrizione), la seconda si riferisce al (diverso) caso di imputato difeso da due difensori ed al rinvio del dibattimento disposto dal giudice per adesione all’astensione dalle udienze di uno solo dei due difensori
(ipotesi che pure non costituisce causa di sospensione del decorso del termine di prescrizione).
2. Il quesito di diritto cui le Sezioni Unite devono dare risposta – che, come anticipato, è riconducibile al primo motivo di ricorso – scaturisce dalla diversa interpretazione sistematica data dalla giurisprudenza di legittimità in subiecta materia e può così essere sintetizzato: “se, ai fini della sospensione del
corso della prescrizione del reato, il contemporaneo impegno professionale del difensore in altro procedimento possa integrare un caso di “impedimento”, con conseguente congelamento del termine fino
ad un massimo di sessanta giorni dalla sua cessazione”.
3. Come evidenziato nell’ordinanza di rimessione, il contrasto può essere ricostruito attraverso
l’analisi di due orientamenti della Corte di cassazione, ciascuno dei quali appare sostanzialmente tracciato sulla base di una diversa qualificazione della natura del diritto del difensore al differimento
dell’udienza nel caso di concomitante impegno professionale in altro procedimento.
4. Secondo un primo orientamento il concomitante impegno professionale del difensore, benché tutelato dall’ordinamento con il riconoscimento del diritto ai rinvio dell’udienza, non costituirebbe
un’ipotesi di impedimento legittimo e conseguente impossibilità assoluta a partecipare all’attività difensiva: non darebbe luogo, pertanto, ad un caso in cui trovano applicazione i limiti di durata della sospensione del corso della prescrizione previsti dall’art. 159 c.p., comma 1, n. 3, nel testo introdotto dalla
L. 5 dicembre 2005, n. 251, art. 6. Tale principio, affermato da Sez. 1, n. 44609 del 14/10/2008, Errante,
Rv. 242042, è stato successivamente ribadito in termini del tutto adesivi da Sez. 2, n. 17344 del
29/03/2011, Ciarlante, Rv. 250076, nella quale si è precisato che a detta conclusione si deve giungere In
considerazione dell’interpretazione del novellato art. 159 c.p., comma 1, n. 3, – quale elaborata dalla
giurisprudenza di legittimità – per cui la sospensione del termine di prescrizione del reato a seguito
della sospensione del processo è limitata al periodo di sessanta giorni, oltre al tempo dell’impedimento,
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esclusivamente nel caso in cui venga disposto il rinvio dell’udienza per impedimento di una delle parti
o di uno dei difensori, ma non anche in caso di rinvio conseguente a richiesta dell’imputato o del suo
difensore. Va poi segnalata Sez. 1, n. 5956 del 11/02/2009, Tortorella, Rv. 243374, che, seppure con riferimento alla diversa fattispecie relativa alla richiesta di rinvio motivata dall’adesione del difensore
all’agitazione della categoria professionale, ha affermato il principio secondo il quale “la sospensione
del termine di prescrizione, come conseguenza della sospensione del processo, è limitata al periodo di
sessanta giorni, oltre al tempo dell’impedimento, nel caso di rinvio dell’udienza per impedimento di
una delle parti o di uno dei difensori, ma non anche in caso di rinvio dell’udienza a seguito di richiesta
dell’imputato o del suo difensore”. Negli stessi termini si sono ancora espresse: Sez. 5, n. 33335 del
23/04/2008, Inserra, Rv. 241387; Sez. 3, n. 4071 del 28/01/2008, Regine, Rv. 238544; Sez. 5, n. 44924 del
14/11/2007, Marras, Rv. 237914. Richiamandosi a tali principi, le sentenze Errante e Ciarlante, sopra
ricordate, concludono affermando esplicitamente che la disposizione di cui all’art. 159 c.p., comma 1, n.
3, non potrebbe trovare applicazione nel caso di rinvio dell’udienza a seguito di richiesta del difensore
per contemporaneo impegno professionale, posto che, trattandosi di istanza comunque ricollegabile ad
una scelta dello stesso difensore, per quanto legittima, non costituirebbe impedimento in senso tecnico
non essendo espressione di una impossibilità assoluta e oggettivamente insuperabile a comparire. Secondo la ricostruzione esegetica in esame, la fattispecie relativa al rinvio per concomitante impegno
professionale del difensore dovrebbe dunque essere trattata conformemente a quella del rinvio per
astensione collettiva dalle udienze, già risolta dalla giurisprudenza di legittimità nel senso del riconoscimento al difensore di un diritto costituzionalmente tutelato il cui esercizio non è tuttavia configurabile quale impedimento legittimo, ed assoluta impossibilità a comparire in udienza, con la conseguenza
che in tal caso non opera il limite temporale di 60 giorni di sospensione della prescrizione previsto
dall’art. 159 c.p. L’indirizzo affermato dalle citate sentenze Errante e Ciarlante risulta condiviso anche
da altre pronunce – non massimate – tra le quali possono ricordarsi le seguenti: Sez. 3, n. 11874 del
31/01/2014, Farina; Sez. 2, n. 2194 del 05/11/2013, dep. 2014, Palisto; Sez. 3, n. 13941 del 19/12/2011,
dep 2012, Scintu; Sez. 6, n. 26071 del 08/06/2011, S.A.M.; Sez. 2, n. 41269 del 03/07/2009, Tatavitto. Anche tali decisioni – muovendo dalla ravvisata eadem ratio tra l’ipotesi del rinvio dell’udienza a seguito di
richiesta per concomitante impegno professionale e quella del differimento dell’udienza chiesto dal difensore per l’adesione all’astensione dalle udienze proclamata dalla categoria – giungono alla conclusione che in entrambe le ipotesi, non trattandosi di impossibilità assoluta a partecipare all’attività difensiva, non potrebbero trovare applicazione i limiti di durata della sospensione del corso della prescrizione introdotti dalla legge c.d. ex Cirielli.
5. A fronte dell’opzione interpretativa appena illustrata, si registrano pronunce in cui la Suprema
Corte ha affermato, in termini diametralmente opposti, che anche il concomitante impegno professionale dei difensore può costituire il legittimo impedimento richiesto dalla norma, in tutti i casi in cui esso
sia stato non soltanto comunicato tempestivamente, ma documentato anche in riferimento
all’essenzialità e non sostituibilità della presenza del difensore in altro processo; in tal senso, ex plurimis:
Sez. 3, n. 17218 del 03/03/2009, Giretti, n.m. sul punto; Sez. 3, n. 13766 del 06/03/2007, Medico, n.m.
Sicché, qualora ricorrano tali condizioni, il giudice del processo di cui si chiede il rinvio deve effettuare
un bilanciamento tra l’interesse difensivo e l’interesse pubblico all’immediata trattazione del procedimento (presenza di imminenti cause estintive, esaurimento dei termini di fase della custodia cautelare e
situazioni analoghe). Pertanto, secondo tale orientamento, qualora a seguito di siffatta rigorosa verifica
il giudice accerti la sussistenza di idonei elementi in ordine alla indispensabilità della presenza del difensore nell’altro procedimento, si determinerebbe una “assoluta impossibilità a comparire”, con conseguente applicazione del limite temporale di cui all’art. 159 c.p., comma 1, n. 3, ed impossibilità di tenere conto, ai fini del calcolo della sospensione del termine di prescrizione, del periodo eccedente quello fissato ex lege. Detta soluzione ermeneutica è stata in epoca recente recepita da Sez. 4, n. 10926 del
18/12/2013, La China, Rv. 258618, che ha affermato il principio secondo il quale “l’Impedimento del
difensore per contemporaneo impegno professionale, tutelato dall’ordinamento con il diritto al rinvio
dell’udienza, costituisce un’ipotesi di impossibilità assoluta a partecipare all’attività difensiva, di talché
l’udienza non può essere rinviata oltre il sessantesimo giorno e, ove ciò avvenga, la sospensione della
prescrizione non può comunque avere durata maggiore, dovendosi applicare la disposizione di cui
all’art. 159 c.p., comma 1, n. 3, nel testo introdotto dall’art. 6 della I. 5 dicembre 2005, n. 251”. In tale
pronuncia, la Corte ha evidenziato come il diverso orientamento sconti “il vizio di un mancato confronto con la ricognizione della natura del diritto al differimento della trattazione su istanza del difensore,
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impegnato professionalmente in altro procedimento”: si tratterebbe, invero, di una fattispecie peculiare
e del tutto diversa rispetto all’istanza di rinvio avanzata per altre ragioni seppure connesse alla necessità di meglio esercitare il diritto di difesa quali, ad esempio, l’acquisizione di documenti, lo studio degli
atti, il reperimento di precedenti giurisprudenziali, l’esigenza di attendere definizioni giudiziarie o anche l’adesione ad astensione dall’attività proclamata da organi rappresentativi della categoria. La pronuncia in esame, riprendendo le argomentazioni già in parte sviluppate nella precedente sentenza Giretti (sopra citata), ha ricostruito l’impedimento del difensore per concorrente impegno professionale
richiamandosi sostanzialmente al principio enunciato – in relazione al testo allora vigente dell’art. 486
c.p.p., comma 5, – dalle Sezioni Unite con la sentenza Fogliani (Sez. U, n. 4708, 27/03/1992, Rv. 190828),
secondo cui “perché l’impegno professionale del difensore in altro procedimento possa essere assunto
quale legittimo impedimento che dà luogo ad assoluta impossibilità a comparire ai sensi dell’art. 486
c.p.p., comma 5, è necessario che il difensore prospetti l’impedimento e chieda il rinvio non appena conosciuta la contemporaneità dei diversi impegni e che non si limiti a comunicare e documentare
l’esistenza di un contemporaneo impegno professionale in altro processo, ma esponga le ragioni che
rendono essenziale l’espletamento della sua funzione in esso per la particolare natura dell’attività a cui
deve presenziare, l’assenza in detto procedimento di altro codifensore che possa validamente difendere
l’imputato, l’impossibilità di avvalersi di un sostituto ai sensi dell’art. 102 c.p.p., sia nel processo a cui si
intende partecipare sia in quello di cui si chiede il rinvio. Il giudice di quest’ultimo processo deve valutare accuratamente, bilanciando le esigenze di difesa dell’imputato da un lato e quelle di affermazione
del diritto e della giustizia dall’altro, le documentate deduzioni difensive, anche alla luce delle eventuali necessità di un rapido esaurimento della procedura trattata, per accertare che l’impedimento non sia
funzionale a manovre dilatorie o non possa nuocere all’attuazione della giustizia nel caso in esame. Il
provvedimento di accoglimento o di reiezione dell’istanza deve essere conseguentemente motivato secondo criteri di logicità”. Altro argomento addotto nella sentenza La China, a sostegno della soluzione
prospettata, si fonda sull’interpretazione anche lessicale delle norme che disciplinano la materia: l’art.
159 c.p., comma 1, n. 3, e l’art. 420 ter c.p.p. Si rileva, in particolare, che la prima disposizione si limita
ad assimilare all’impedimento dell’imputato quello del difensore, mentre la seconda, che disciplina
l’aspetto procedimentale, dopo aver circoscritto la assoluta impossibilità a comparire dell’imputato alle
ipotesi di caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento, dispone poi che il giudice provvede a norma del comma 1 (rinviando cioè il dibattimento) anche nel caso di assenza del difensore,
quando risulta che la stessa è dovuta ad assoluta impossibilità a comparire per legittimo impedimento
purché tempestivamente comunicato. Il legittimo impedimento del difensore, secondo la sentenza La
China, sarebbe dunque riconducibile ad una categoria ontologica diversa da quella presa in rassegna
per l’imputato, tanto che l’impedimento, pur sempre assoluto (e l’assolutezza ricorre ove restino integrati i presupposti individuati dalle Sezioni Unite con la sentenza Fogliani), viene qualificato legittimo,
cioè giustificato, non strumentale o defatigante, sempre a condizione che venga prontamente comunicato: ove la nozione del legittimo impedimento dei difensore coincidesse con quella della forza maggiore
o del caso fortuito, non sempre sarebbe possibile la pronta comunicazione; ovviamente, ha precisato
ancora la sentenza La China, anche per il difensore, oltre al legittimo impedimento per concomitante
impegno professionale, il rinvio è dovuto in caso di eventi costituenti forza maggiore o caso fortuito.
Nel medesimo solco interpretativo si è posta Sez. 3, n. 37171 del 07/05/2014, Di Mauro, Rv. 260106. Tale pronuncia, dinanzi alle contrastanti interpretazioni sulla riconducibilità del concorrente impegno
professionale del difensore all’istituto del legittimo impedimento, e sulla conseguente applicabilità, in
tale ipotesi, del termine breve di sospensione del corso della prescrizione, richiama preliminarmente e
diffusamente le motivazioni di Sez. 6, n. 1826 del 24/10/2013, S., Rv. 258335 e di Sez. 3, n. 19856 del
19/03/2014, Pierri, Rv. 259440, affermando di volerne condividere le conclusioni laddove è stato precisato che l’astensione dalle udienze non può essere ricondotta all’interno dell’istituto del “legittimo impedimento”. Si evidenzia invero che mentre il legittimo impedimento è direttamente funzionale al diritto di difesa, l’astensione collettiva dalle udienze costituisce esercizio di un diritto di libertà costituzionalmente collegato al diritto di associazione tutelato dall’art. 18 Cost., il cui corretto esercizio, attuato in
ottemperanza a tutte le prescrizioni formali e sostanziali Indicate dalle pluralità di fonti regolatrici,
comporterebbe il rinvio anche delle udienze camerati, trovando la sua ragione nell’esercizio stesso di
un diritto di libertà: la diversità di tali situazioni giustificherebbe pertanto la diversità di trattamento.
Muovendo proprio da siffatti rilievi la sentenza Di Mauro si contrappone alla tesi antitetica, osservando
che mentre è possibile sostenere che l’adesione del difensore all’astensione dalle udienze proclamata
dalle associazioni di categoria non configura un legittimo impedimento, in quanto il difensore può libe AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | L’IMPEGNO PROFESSIONALE DEL DIFENSORE IN ALTRO PROCEDIMENTO
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ramente scegliere se aderirvi o meno non essendo egli impedito a comparire in un luogo piuttosto che
in un altro ma manifestando la sua volontà di esercitare un diritto di libertà non presentandosi
nell’unico luogo nel quale avrebbe dovuto assolvere l’attività defensionale, altrettanto non può sostenersi in relazione all’ipotesi del concorrente impegno professionale del difensore: quest’ultimo, invero,
non è chiamato, se non indirettamente, a scegliere il processo cui presenziare, e dunque l’udienza alla
quale comparire, ma è tenuto solo a comprovare, sul presupposto dell’oggettiva impossibilità fisica di
assicurare la presenza nello stesso tempo in due luoghi diversi e tra loro incompatibili, la ragione di un
impedimento assoluto, che radica anche un diritto al rinvio, alla stregua dei principi e dei criteri selettivi fissati dalle Sezioni Unite con la sentenza Fogliani (sopra ricordata), proprio al fine di evitare possibili espedienti dilatori. Pertanto la sentenza Di Mauro conclude nel senso che, in presenza delle condizioni indicate dalla sentenza Fogliani, e come affermato anche da Sez. U, n. 29529 del 25/06/2009, De Marino, Rv. 244109, spetta al giudice effettuare una valutazione comparativa dei diversi impegni al fine di
contemperare le esigenze della difesa e quelle della giurisdizione. Una recentissima sentenza, pronunciata dalla Corte di cassazione in materia, appartiene pure a questo indirizzo interpretativo: sono state
infatti ribadite in Sez. F, n. 46817 del 13/08/2014, Cipolla, Rv. 260550, le ragioni per cui non appare
condivisibile il contrapposto orientamento. Tale decisione, in particolare, ricorda gli obblighi di diligenza che gravano sul difensore – che gli impongono di dare preferenza alla posizione processuale che
risulterebbe maggiormente pregiudicata dalla mancata trattazione del giudizio – nonché le stesse disposizioni in materia di astensione collettiva dalle udienze che escludono la possibilità di astenersi proprio in presenza di alcune particolari tipologie di eventi procedimentali di speciale importanza (si richiama sul punto l’art. 4 del codice di autoregolamentazione). Cosi, anche l’impegno professionale può
acquisire efficacia impeditiva assoluta allorquando si accerti la presenza di circostanze che impongono
al difensore di partecipare al diverso procedimento risultando solo in tal modo garantita l’effettività del
diritto di difesa.
6. Ritengono le Sezioni Unite di dover aderire al secondo degli orientamenti sopra illustrati. Dal descritto panorama giurisprudenziale di legittimità, emerge chiaramente che, ai fini della soluzione della
questione che in questa sede rileva, occorre individuare le differenze ravvisabili – con riferimento alla
sfera volitiva del difensore interessato – tra la richiesta di rinvio del procedimento, per adesione all’astensione dalle udienze proclamata dalla categoria, e quella per un prospettato concomitante impegno professionale. Secondo i sostenitori dell’indirizzo interpretativo contrario alla configurabilità del
concomitante impegno professionale quale impedimento legittimo ed assoluto, non vi sarebbe alcuna
differenza trattali ipotesi di rinvio, posto che in entrambi i casi il rinvio dell’udienza scaturirebbe da
una “richiesta” avanzata dal difensore, dunque da una “scelta” di quest’ultimo, e non da un evento
esterno ed oggettivo di carattere cogente tale da impedire in maniera assoluta al difensore di comparire
in udienza al di là della sua stessa volontà. Orbene siffatto ragionamento non può essere condiviso, per
plurime ragioni.
7. Mette conto evidenziare che secondo l’interpretazione ormai consolidata di questa Corte il limite
massimo di sessanta giorni di sospensione del corso della prescrizione non può trovare applicazione
nel caso di astensione del difensore dalle udienze, restando il termine prescrizionale sospeso per l’intero periodo di differimento: e ciò, perché detta astensione non costituisce impedimento in senso tecnico bensì un vero e proprio “diritto al rinvio” quale immediata conseguenza dell’esercizio del diritto costituzionale di libertà di associazione del difensore. Si è conseguentemente sostenuto che la richiesta di
rinvio dell’udienza per aderire ad una astensione collettiva deve essere considerata una richiesta tutelata dall’ordinamento col diritto ad ottenere un differimento, ma non costituisce un impedimento in senso tecnico, visto che non discende da una assoluta impossibilità a partecipare all’attività difensiva: di tal
che, la richiesta di differimento dell’udienza per aderire ad una astensione collettiva si inquadra nella
seconda ipotesi prevista dall’art. 159 c.p., comma 1, n. 3, (tra le tante: Sez. 4, n. 10621 del 29/01/
2013, M., Rv. 256067; Sez. 6, n. 26079 del 13/05/2010, G.G.; Sez. 5, n. 18071 del 08/02/2010, Piacentino,
Rv. 247142; Sez. 2, n. 44391 del 29/10/2008, Palumbo; Sez. 1, n. 25714 del 17/06/2008, Arena, Rv.
240460). Dunque, l’adesione all’astensione collettiva va inquadrata all’Interno dell’esercizio di un diritto: per un verso, il concetto di “impedimento a comparire” risulta chiaramente incompatibile con una
condotta (quella di non intervenire all’udienza in forza dell’adesione alla proclamata astensione dalle
udienze) non imposta da eventi o cause esterne ma frutto della libera volontà di scelta del professionista interessato; e, per altro verso, appare non priva di significato la riconducibilità dell’adesione in oggetto all’Interno del diritto di associazione costituzionalmente tutelato dall’art. 18, così come affermato
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dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 171 del 1996: il Giudice delle leggi, in particolare, ha qualificato l’astensione degli avvocati come “manifestazione incisiva della dinamica associativa volta alla tutela di questa forma di lavoro autonomo”, sì da escludere che l’astensione possa “essere ricondotta a
mera facoltà di rilievo costituzionale”, rientrando piuttosto nell’ambito dei diritti “di libertà dei singoli
e dei gruppi che ispira l’intera prima parte della Costituzione”. Le stesse Sezioni Unite hanno ritenuto
di dover aderire a tale opzione con la sentenza n. 26711 del 30/05/2013, Ucciero, laddove è stato precisato che l’adesione all’astensione di categoria è “un diritto, e non semplicemente un legittimo impedimento partecipativo”. L’astensione degli avvocati dalle udienze – in conseguenza della L. n. 83 del
2000, che ha novellato la L. n. 146 del 1990 (disciplina dell’esercizio del diritto di sciopero nei servizi essenziali) con l’introduzione dell’art. 2 bis) e del codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle
udienze degli avvocati, adottato il 4 aprile 2007 dagli organismi di categoria e valutato idoneo dalla
Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali con
deliberazione del 13 dicembre 2007 – ha acquisito una piena legittimazione nel nostro ordinamento giuridico quale diritto di libertà, il cui esercizio resta solo subordinato ad una serie di regole e formalità: di
tal che, una volta che queste risultano rispettate, il giudice è tenuto ad accogliere la richiesta di rinvio
dell’udienza formulata dal difensore che dichiari di aderire all’astensione collettiva (proclamata a norma di legge) senza alcun margine di discrezionalità.
8. Così analizzate, sia la natura dell’adesione del difensore all’astensione dalle udienze proclamata
dall’associazione di categoria, sia le conseguenze del rinvio dell’udienza ad altra data per tale ragione –
e passando ad esaminare l’ipotesi del concorrente impegno del difensore in due distinti procedimenti –
va innanzi tutto evidenziato che il presupposto dal quale scaturisce il concomitante impegno professionale, vale a dire la fissazione dell’udienza di due distinti procedimenti per la medesima data, è evento
rispetto al quale il difensore, impegnato in entrambi i procedimenti, ha una posizione assolutamente
neutra, non potendo certo egli orientare i giudici dei due diversi procedimenti a rinviare l’udienza alla
stessa data: l’individuazione da parte del giudice della data cui rinviare l’udienza, dipende, ovviamente, dalla natura dei processo, dalle esigenze di urgenza dello stesso e dall’organizzazione dell’ufficio cui
il giudice appartiene. Dunque, da un punto di vista strettamente fattuale emerge all’evidenza l’estraneità della volontà del difensore rispetto al presupposto da cui scaturisce la contemporaneità del suo impegno professionale in due diversi procedimenti; già questa peculiarità varrebbe a differenziare
l’ipotesi in esame da quella dell’adesione del difensore all’astensione dalle udienze proclamata dalla categoria: questa sì, per quanto sopra detto, è certamente frutto di una libera scelta dell’interessato.
9. Come accennato, anche altre ragioni – di ordine tecnico e sistematico, nonché di tenuta costituzionale – militano a favore della tesi interpretativa che il Collegio ritiene di dover privilegiare. Va ricordato che la Corte costituzionale era stata a suo tempo investita proprio del tema relativo ai possibili abusi
cui poteva andare incontro la previsione che consentiva di far leva sul legittimo impedimento del difensore dovuto a concomitanti impegni professionali per ottenere rinvii del dibattimento, in tal modo
generando il rischio di una paralisi processuale senza meccanismi di possibile sindacato da parte del
giudice in ordine all’oggetto dell’impegno addotto dal difensore. La Corte, nell’occasione, contestò la
validità dell’assunto da cui muoveva il giudice rimettente, osservando che l’art. 486 c.p.p., comma 5,
poi “trasferito” nell’art. 420 ter c.p.p., comma 5, ad opera della L. 16 dicembre 1999, n. 479, art. 19, non
precludeva affatto al giudice di operare una valutazione comparativa tra le esigenze defensionali relative alla sede processuale in cui veniva richiesto il rinvio e quella che: rappresentava la circostanza
“impeditiva”, aggiungendo che – contrariamente alla tesi del giudice a quo – doveva escludersi che tale
valutazione potesse “essere ostacolata dalla mancanza di criteri e principi prefissati e selettivi, solo in
presenza dei quali sarebbe consentito al giudice un giudizio di priorità”. Tale giudizio può difatti essere
compiuto dal giudice – precisò la Corte ù “secondo i canoni di ragionevolezza in sede di esame comparativo delle situazioni messe a confronto, dovendosi anche tener conto che tali canoni andranno sempre
più ad arricchirsi in conseguenza di una più prolungata pratica giurisprudenziale, in sede di applicazione concreta della norma denunciata” (che da poco era entrata in vigore e costituiva una novità rispetto alla precedente disciplina processuale).
D’altronde, la norma denunciata – puntualizzò ancora la Corte “riferendosi ad un impedimento legittimo del difensore, ovviamente presuppone, da parte del giudice dinanzi al quale viene fatto valere
l’impedimento, un apprezzamento diretto a stabilire la legittimità della richiesta. Cosi l’eventuale sindacato, da parte del giudice di grado superiore, in ordine ad una impugnazione in cui si lamenti la violazione del diritto alla difesa, conseguente al rifiuto di ammettere la legittimità dell’impedimento, do AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | L’IMPEGNO PROFESSIONALE DEL DIFENSORE IN ALTRO PROCEDIMENTO
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vrebbe a sua volta consistere nella verifica della ragionevolezza della determinazione adottata in ordine
alla comparazione fra le situazioni messe a raffronto” (Corte cost., sent. n. 178 del 1991).
Il Giudice delle leggi, dunque, già a ridosso della entrata in vigore del nuovo codice di procedura
penale, non ebbe difficoltà alcuna ad inquadrare l’ipotesi del concomitante impegno professionale del
difensore tra i casi in cui – salvo l’accertamento dei relativi presupposti – il dibattimento doveva essere
sospeso o rinviato per assoluta impossibilità di comparizione del difensore per legittimo impedimento.
Anzi, a ben guardare, il riferimento al diverso regime che invece caratterizzava la disciplina prevista
dal codice abrogato – sul punto del tutto silente – stava chiaramente a denotare come, nella prospettiva
coltivata dalla Corte costituzionale, proprio l’impedimento professionale fosse la ipotesi paradigmaticamente evocata dai legislatore del codice, considerata la centralità del ruolo difensivo in un processo
ispirato al modello accusatorio e nell’ambito dei quale la difesa tecnica – anche per ciò che atteneva alla
scelta dei riti alternativi – doveva essere assicurata in termini di reale effettività.
9.1. La sentenza Fogliani – cardine e fondamento giurisprudenziale sul quale si basa l’indirizzo interpretativo che le Sezioni Unite intendono seguire – aveva dunque sostanzialmente ripreso, e portato a
completamento, la linea già tracciata dai giudici della Consulta, individuando in concreto i presupposti
per poter assumere l’impegno professionale del difensore in altro processo come “legittimo impedimento che da luogo ad assoluta impossibilità a comparire ai sensi dell’art. 486 c.p.p., comma 5” (oggi
art. 420 ter c.p.p., comma 5), attraverso un’opera ricognitiva tesa ad enucleare proprio quei parametri di
ragionevole bilanciamento fra i diversi impegni professionali, atti a far risaltare la sede processuale da
privilegiare rispetto all’altra, sul piano delle concrete esigenze defensionali e, dunque, tale da legittimare gli effetti sospensivi del rinvio. Sicché, in tale quadro di riferimento, finisce per assumere uno specifico risalto la ratio che sta alla base della peculiare previsione dettata dal novellato art. 159 c.p., comma
1, n. 3, secondo periodo, e che appare essere del tutto trasparente alla luce dei lavori parlamentari della
legge n. 251 del 2005. Nella relazione svolta alla Camera dei deputati nella seduta del 26 settembre
2005, nell’illustrare la previsione secondo la quale veniva introdotto un “limite di durata della sospensione derivante da impedimento delle parti o dei difensori, stabilendo che l’udienza non possa essere
differita oltre il sessantesimo giorno successivo alla prevedibile cessazione dell’impedimento, dovendosi avere riguardo, in caso contrario (di non fissazione, cioè, dell’udienza), al tempo dell’impedimento
aumentato di sessanta giorni”, si chiariva come l’intendimento perseguito fosse proprio quello di ottenere il superamento di una “prassi degenerativa da lungo tempo instauratasi nei nostri tribunali per la
quale, a fronte di un impedimento di un giorno, si rinvia di un anno la prescrizione, arrecando grave
danno e lesione ai diritti degli imputati”; soggiungendo come, attraverso quella modifica, si desse “ai
magistrati ... un paletto di riferimento congruo dal punto di vista della possibilità del rinvio, ma certamente non tale da consentire loro scelte arbitrarie o eccessivamente discrezionali”. In una siffatta prospettiva, non avrebbe alcun senso non qualificare come “impedimento”, legittimo e di carattere assoluto, l’impossibilità defensionale che derivi da altra, prevalente esigenza difensiva, dovendo essere garantito il concreto ed effettivo esercizio del munus difensivo di sicuro rango costituzionale: il prospettato
concomitante impegno professionale, posto a base di un’istanza di rinvio, non può essere qualificato
alla stregua di una mera richiesta di rinvio, dovuta alle più varie, anche se legittime, ragioni, private o
professionali che siano, che non possano assumere la connotazione e la caratura dell’impedimento assoluto. Né, come puntualmente messo in luce dai sostenitori dell’orientamento giurisprudenziale cui le
Sezioni Unite intendono aderire (cfr., in particolare, la sentenza La China, cit.), appare priva di significato la circostanza che il codice di rito, nel disciplinare l’impedimento del difensore, anziché far riferimento, come per l’imputato, al caso fortuito alla forza maggiore o ad “altro legittimo impedimento” –
correlando, dunque, quest’ultimo termine ai caratteri della cogenza e della estraneità del fatto impeditivo alla volontà della parte – si limiti ad evocare la “assoluta impossibilità di comparire per legittimo
impedimento purché tempestivamente comunicato”, in tal modo accreditando, anche attraverso l’onere
della tempestiva comunicazione, una lettura della norma che privilegi proprio l’aspetto dell’impedimento professionale, sempre che lo stesso presenti i caratteri di “assolutezza” elaborati dalla giurisprudenza di legittimità. Non ignora il Collegio che le Sezioni Unite, nell’ambito del percorso motivazionale
seguito nella sentenza n. 43428 del 30/09/2010, Corsini, hanno affermato che “il novellato disposto
dell’art. 159 c.p., comma 1, n. 3, non può applicarsi al di fuori delle ipotesi ivi espressamente previste
(impedimento delle parti o dei difensori) e, quindi, in particolare, per quanto rileva ai fini in discorso, ai
rinvii disposti per adesione dei difensori all’astensione indetta dalle Camere penali o per concomitante
impegno professionale del difensore”, evocando in proposito la sentenza Errante (sopra citata, in linea
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con l’indirizzo interpretativo contrario alla attribuibilità della natura di impedimento legittimo ed assoluto al concomitante impegno professionale). Mette conto tuttavia precisare che nell’occasione le Sezioni Unite erano state chiamate a pronunciarsi in merito alla disciplina transitoria prevista dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, art. 10, comma 3, enunciando il principio di diritto per il quale “ai fini del calcolo
dei termini di prescrizione del reato, deve tenersi conto della disposizione per cui, in caso di sospensione del processo per impedimento dell’imputato o del suo difensore, l’udienza non può essere differita
oltre il sessantesimo giorno successivo alla prevedibile cessazione dell’impedimento, soltanto con riguardo ai rinvii disposti dopo la sua introduzione, avvenuta con la L. 5 dicembre 2005, n. 251”; le Sezioni Unite, quindi, non si occuparono approfonditamente e specificamente della questione qui in rilievo: si è trattato, dunque, di una mera indicazione incidentale alla quale non può pertanto attribuirsi valenza di enunciazione di principio.
9.2. È bene precisare che certamente la mera concomitanza di altri impegni professionali non integra
di per sé un legittimo impedimento, altrimenti si rimetterebbe effettivamente all’arbitrio del difensore
quale dei due procedimenti privilegiare. Come dianzi si è avuto modo di chiarire non si tratta di un fenomeno di mera “scelta” del difensore, rimessa alle individuali – e incontrollabili – strategie difensive,
ma del ben diverso ambito in cui è chiamata ad operare una condizione “obiettiva” (come tale positivamente scrutinata dal giudice) di impossibilità assoluta di prestare la propria opera in una sede processuale, in quanto “compromessa” da un concomitante e (in quel momento) “prevalente” impegno difensivo.
10. Volendo ora trarre le conclusioni da quanto fin qui argomentato, può essere enunciato il principio che fornisce la risposta al quesito rimesso al vaglio delle Sezioni Unite: “L’impegno professionale
del difensore in altro procedimento costituisce legittimo impedimento che dà luogo ad assoluta impossibilità a comparire ai sensi dell’art. 420 ter c.p.p., comma 5, a condizione che il difensore prospetti
l’impedimento appena conosciuta la contemporaneità dei diversi impegni, indichi specificamente le ragioni che rendono essenziale l’espletamento della sua funzione nel diverso processo e rappresenti
l’assenza in detto procedimento di altro condifensore che possa validamente difendere l’imputato, nonché l’impossibilità di avvalersi di un sostituto ai sensi dell’art. 102 c.p.p., sia nel processo a cui intende
partecipare sia in quello di cui chiede il rinvio; con conseguente congelamento del termine fino ad un
massimo di sessanta giorni dalla cessazione dell’impedimento stesso”. In presenza delle condizioni appena indicate, il giudice, chiamato a decidere sull’istanza di rinvio così articolata e documentata, dovrà
accertare se sia effettivamente prevalente il diverso impegno rappresentato, proprio in quanto esso, per
assumere l’efficacia impeditiva richiesta dalla norma, deve presentare anche la caratteristica della obiettività, nel senso che la priorità della esigenza difensiva nel procedimento “pregiudicante” deve trovare
il suo fondamento non nella soggettiva opinione del difensore, ma deve risultare ancorata a specifiche
circostanze: sempreché non sussistano, ovviamente, contrarie ragioni di urgenza, che il giudice deve
valutare con ponderata delibazione, nel necessario bilanciamento fra le contrapposte esigenze. Deve, in
particolare, ritenersi particolarmente pregnante l’obbligo per il difensore di prospettare, al giudice ai
quale si chiede il rinvio, con assoluta tempestività, il proprio impedimento (appunto, “appena conosciuta” la contemporaneità dei diversi impegni): e ciò, al fine di poter consentire al giudice stesso di individuare la data della nuova udienza (in caso di accoglimento dell’istanza di differimento) anche in
relazione alle esigenze organizzative del proprio ufficio, e far si che “l’eventuale rinvio avvenga in
tempo utile per evitare disagi alle altre parti o disfunzioni giudiziarie” (cfr. sentenza Fogliani, cit.).
10.1. Proprio per la necessità che il coevo impegno del difensore – onde poter giustificare il rinvio
del processo – implichi una assoluta impossibilità a comparire, è evidente che qualora l’impedimento
allegato consista in un impegno professionale concomitante presso la stessa sede giudiziaria o presso
una sede diversa, ma non lontana da quella in considerazione, alla verifica della possibile designazione
di un sostituto deve aggiungersi quella di una possibile variazione di orario, per consentire la partecipazione del difensore ad entrambi i giudizi.
10.2. Ove l’onere di documentazione dell’impedimento non sia osservato dal difensore, non può
dunque ritenersi sussistente il legittimo impedimento e quindi neppure un “diritto al rinvio” della causa; tuttavia, può eventualmente il giudice, contemperando comunque le esigenze della difesa con quelle
della giurisdizione, concedere il rinvio secondo il suo prudente apprezzamento – tenendo conto delle
esigenze organizzative dell’ufficio giudiziario, dei diritti e delle facoltà per le altre parti coinvolte nel
processo, dei principi costituzionali di ragionevole durata ed efficienza della giurisdizione – così qualificando la richiesta di differimento non come legittimo impedimento ma come “mera richiesta di rin AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | L’IMPEGNO PROFESSIONALE DEL DIFENSORE IN ALTRO PROCEDIMENTO
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vio” per assicurare all’imputato di essere assistito dal difensore che meglio conosce la vicenda processuale: ciò comportando, conseguentemente, la sospensione del decorso della prescrizione per tutto il
periodo del differimento.
11. Come precisato nell’ordinanza di rimessione, la data del commesso reato addebitato al T. deve ritenersi cristallizzata all’11 marzo 2006, giorno in cui fu presentata la querela (e tale punto non è stato
oggetto di contestazione). Ne deriva che per i fatti successivi a tale data – ed addebitati all’imputato con
il capo di imputazione come commessi fino al settembre 2006 – deve essere pronunciato annullamento
senza rinvio dell’impugnata sentenza perché l’azione penale non poteva essere iniziata per mancanza
di querela.
12. Venendo ora ad esaminare specificamente le doglianze dedotte dal T. con il ricorso, alla luce dei
principi quali sopra enunciati, risulta fondata la tesi del ricorrente secondo cui i giudici di merito
avrebbero dovuto considerare limitato a 60 giorni il periodo di sospensione della prescrizione per il
rinvio disposto nella ritenuta sussistenza del concomitante impegno professionale prospettato dall’avv.
B. (rinvio nel corso del giudizio di primo grado dal 17 febbraio 2012 al 28 giugno 2012). Orbene, i periodi dei rinvii nelle fasi di merito, che assumono rilievo ai fini del decidere, come desumibili dagli atti
a disposizione di questa Corte, vanno precisati come segue: 1) dal 23 dicembre 2009 al 18 marzo 2010,
rinvio disposto, senza opposizione del P.M. e del difensore delle parti civili, per impedimento dell’avv.
B., difensore dell’imputato, in quanto bloccato a Torino a causa del maltempo (intervallo temporale tra
le due udienze pari a 2 mesi e 22 giorni, calcolando il periodo di inattività processuale dal 23 dicembre
2009 – udienza di mero rinvio – al 17 marzo 2010); 2) dal 17 febbraio al 28 giugno 2012, rinvio disposto,
con contestuale sospensione del termine di prescrizione, per concomitante impedimento professionale
del difensore dell’imputato: 4 mesi e 10 giorni (calcolando il periodo della sospensione della prescrizione, come disposta dal giudice, per inattività processuale, dal 17 febbraio 2012 – udienza di mero rinvio
– al 27 giugno 2012); 3) dal 17 novembre al 15 dicembre 2011: rinvio disposto per adesione del difensore
dell’imputato all’astensione dalle udienze proclamata dall’associazione di categoria: 28 giorni (calcolando il periodo di inattività processuale dal 17 novembre 2011 – udienza di mero rinvio – al 14 dicembre 2011); 4) nel ricorso si afferma che le parti all’udienza del 7 ottobre 2009 chiesero “concordemente”
altro rinvio avuto riguardo alle trattative pendenti per addivenire ad un accordo in ordine al risarcimento del danno e conseguente remissione di querela: dall’esame del verbale dell’udienza si rileva che
il dibattimento fu rinviato al 23 dicembre 2009 su richiesta dei difensore della parte civile avanzata
“congiuntamente” all’avv. B. (difensore dell’imputato), per trattative finalizzate al risarcimento del
danno e conseguente remissione della querela. In proposito mette conto sottolineare che il ricorrente
sostiene che il motivo di detto rinvio non integrerebbe una causa di sospensione del corso della prescrizione e, a sostegno di tale assunto, richiama le sentenze della Corte di cassazione n. 7337 del 22/02/
2007 e n. 39606 dei 28/06/2007 (pag. 4 del ricorso): orbene, è doveroso puntualizzare che, contrariamente all’assunto difensivo, si tratta di precedenti giurisprudenziali con i quali è stato invece affermato
il principio – che il Collegio ritiene assolutamente condivisibile, e del tutto in linea con la consolidata
giurisprudenza sul punto – secondo cui costituisce causa di sospensione del corso della prescrizione,
per l’intero periodo del differimento, il rinvio del dibattimento disposto in accoglimento di concorde
richiesta dell’imputato e della parte civile, motivata con l’esigenza di addivenire ad un accordo in ordine al risarcimento del danno. Detto rinvio non risulta rilevato dalla ordinanza di rimessione che si sofferma solo sui tre rinvii di cui ai punti 1), 2) e 3) dianzi elencati.
13. Ciò posto – dovendo riconoscersi natura di legittimo impedimento a comparire al concomitante
impegno professionale dell’avv. B., difensore dell’imputato, posto dai Tribunale a base del rinvio dal 23
dicembre 2009 al 18 marzo 2010 di cui sub 2) del precedente paragrafo – il Tribunale prima, e la Corte
di appello di Torino poi, erroneamente hanno calcolato la sospensione del decorso del termine prescrizionale per l’intero periodo del differimento, dovendo invece trovare applicazione il limite di 60 giorni
stabilito dall’art. 159 c.p., comma 1, n. 3, secondo periodo.
Ne deriva che, calcolando correttamente i periodi di sospensione del decorso della prescrizione in
relazione ai quattro rinvii sopra ricordati – 60 giorni per il rinvio sub 1), 60 giorni per il rinvio sub 2), 28
giorni (corrispondente all’effettivo periodo di differimento per adesione all’astensione dalle udienze)
per il rinvio sub 3), l’intero periodo di differimento per il rinvio sub 4) – il reato (relativamente ai fatti
contestati come commessi fino all’11 marzo 2006) risulta essersi prescritto in data successiva a quella (3
marzo 2014) della sentenza impugnata: come detto, la Sezione rimettente non ha preso in considerazione il rinvio dal 23 dicembre 2009 al 18 marzo 2010.
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14. Nonostante ci si trovi in presenza di prescrizione maturata dopo la sentenza oggetto del ricorso –
e non prima, come prospettato dal ricorrente – non possono riconoscersi profili di inammissibilità alla
proposta impugnazione, posto che: a) un segmento temporale dell’addebito mosso all’imputato risulta
oggetto di declaratoria di improcedibilità per mancanza di querela (cfr. paragrafo 11); b) la tesi del ricorrente, circa l’applicabilità del limite temporale di 60 giorni per la sospensione della prescrizione, stabilito dall’art. 159 c.p., comma 1, n. 3, secondo periodo, – nel caso di ritenuta fondatezza da parte del
giudice dell’istanza di rinvio sul presupposto di coevo impegno professionale – è giuridicamente corretta, pur non valendo ad anticipare il tempo della prescrizione, nel caso in esame, ad epoca antecedente alla sentenza impugnata (il ricorrente ha errato nel non tener conto della sospensione dell’intero periodo di differimento per il rinvio nel giudizio di primo grado dal 7 ottobre 2009 al 23 dicembre 2009).
Deve essere pertanto dichiarata l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, con riferimento ai
fatti contestati al T. come commessi fino all’11 marzo 2006.
15. Essendo stata confermata nei confronti dell’imputato, con la sentenza oggetto del ricorso, la condanna risarcitoria pronunciata dal primo giudice, devono essere valutati gli effetti civili (art. 578 c.p.p.)
in relazione alle motivazioni della sentenza impugnata ed alle censure dedotte con il ricorso. Orbene,
sotto il primo aspetto, la sentenza della Corte di appello risulta immune da vizi motivazionali avendo i
giudici di seconda istanza ancorato il proprio convincimento a specifiche e concrete acquisizioni probatorie puntualmente indicate: con la conseguenza che, pur all’esito della valutazione del compendio
probatorio – doverosa per la presenza della parte civile nonostante l’intervenuta prescrizione del reato
(secondo il consolidato indirizzo interpretativo affermatosi nella giurisprudenza di legittimità) – non vi
è spazio per una più favorevole pronuncia di proscioglimento nel merito rispetto alla declaratoria di
prescrizione (cfr. Sez. U, n.35490 del 28/05/2009, Tettamanti). Sotto il secondo profilo, deve rilevarsi
che con il ricorso non sono state dedotte doglianze in punto di responsabilità.
16. Sul versante civilistico, il ricorrente ha censurato esclusivamente la statuizione concernente il riconoscimento della provvisionale, prospettando, in particolare, l’asserita eccessività degli importi liquidati a tale titolo. La doglianza è manifestamente infondata alla luce del consolidato indirizzo interpretativo, che anche in questa sede si intende ribadire, secondo cui “il provvedimento con il quale il
giudice di merito nel pronunciare condanna generica al risarcimento del danno assegna alla parte civile
una somma da imputarsi nella liquidazione definitiva non è impugnabile per cassazione, in quanto per
sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinato ad essere travolto dall’effettiva liquidazione
dell’integrale risarcimento” (in termini, Sez. U, n. 2246 del 19/12/1990, Capelli, Rv. 186722; conf., ex
plurimis: Sez. 4, n. 42134 dei 01/10/2008, Federico, Rv. 242185; Sez. 2, n. 36536 del 20/06/2003, Lucarelli, Rv. 226454; Sez.6, n. 11984 del 24/10/1997, Todini, Rv. 209501).
17. Alla soccombenza nei confronti delle parti civili, segue la condanna del T. a rimborsare a queste
ultime le spese sostenute per questo giudizio che si ritiene equo liquidare in complessivi Euro 3.500,00,
oltre accessori come per legge.
[Omissis]
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TERESA BENE
Professore associato di Procedura penale – Seconda Università degli Studi di Napoli
A proposito del regime di sospensione del corso della
prescrizione: il concomitante impegno del difensore
e l’effettività della difesa tecnica
About regime of the prescription. The concomitant professional
appointment of the layer and the value of defense
Le Sezioni unite tornano a ricondurre il contemporaneo impegno professionale del difensore alla sfera normativa
del legittimo impedimento. Al contempo individuano, quale condizione di obiettività per la valutazione della efficacia impeditiva, criteri che vincolano anche il controllo giurisdizionale.
The Supreme Court bring again the contemporary professional appointment of the layer to the legal impediment.
At the same time, it identify, as condition of objectivity, some criteria.
PREMESSA
In un momento in cui hanno ripreso attualità le modifiche sul regime della prescrizione, mette conto
segnalare una recente pronuncia delle Sezioni unite secondo cui la Corte di Cassazione, sia pure sulla
base di una motivazione che, negli ultimi passaggi, sembra nascondere una lettura aperta ad un controllo giurisdizionale discrezionale, è tornata ad affrontare la possibilità di qualificare come legittimo
impedimento il contemporaneo impegno professionale del difensore in un altro procedimento 1, pervenendo ad una soluzione meritevole di interesse e di apprezzamento.
Più precisamente, dopo aver ripercorso gli orientamenti contrastanti, la Corte Suprema ha affermato
che il concomitante impegno professionale del difensore si configura quale legittimo impedimento 2, in
presenza di rigorose condizioni, con conseguente congelamento del termine di prescrizione fino ad un
massimo di sessanta giorni dalla cessazione dell’impedimento stesso. Una soluzione al contrasto interpretativo sorto 3 che appare tanto più interessante, trattandosi della interpretazione dell’art. 159 c.p.,
come modificato dall’art. 6, comma 3, l. 5 dicembre 2005, n. 251 (nota come ex Cirielli) 4, che ha nettamente differenziato il regime di sospensione del corso della prescrizione derivante da “sospensione del
1
Cass., sez. un., 27 marzo 1992, n. 4708, in CED Cass., n. 190829; Cass., sez. un., 25 giugno 2009, n. 29529, in CED Cass., n.
244109.
2
In particolare sulla configurabilità del legittimo impedimento in presenza di situazioni gravi sotto il profilo umano e morale, v. A.M. Siagura, Il contenuto del legittimo impedimento difensivo, in Giust. pen., 2013, III, p. 39; N. Spagnoli, Legittimo impedimento
a comparire del difensore e diritto alla difesa tecnica, nel segno del «giusto processo», in Arch. pen., 2012, 3, p. 1 e ss.; M. Antinucci, Un
discutibile self restraint in tema di legittimo impedimento del difensore nel procedimento di esecuzione, in Giur. it., 2007, p. 2563.
3
Cass., sez. fer., 21 agosto 2014, n. 42800, inedita.
4
Sulla “improvvisa ambiguità” del testo normativo, v. V. Grevi, Sui rapporti tra sospensione del corso della prescrizione e sospensione dei termini di custodia cautelare nel caso di “sciopero” dei difensori: una interpretazione non ragionevole del combinato disposto degli
artt. 159 c.p. e 304 c.p.p., in Cass. pen., 2000, p. 2935 ss.
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procedimento o del processo penale”, a seconda che quest’ultima sospensione sia “imposta da una particolare disposizione di legge”, ovvero sia causata da specifiche “ragioni di impedimento delle parti e
dei difensori”, ovvero, sia disposta “su richiesta dell’imputato o del suo difensore”.
Alla luce di questa disciplina, e delle conseguenze che ne discendono, per effetto dell’art. 159, comma 1, n. 3 c.p., circa la durata massima del periodo di sospensione dei termini di prescrizione nel caso
di sospensione del processo per “impedimento delle parti o dei difensori”, appare evidentemente essenziale porsi il quesito se la sospensione del processo, provocata dal concomitante impegno professionale del difensore, sia o non sia riconducibile all’ambito delle ipotesi di “impedimento” del difensore
dell’imputato. Solo nell’eventualità di una risposta affermativa, infatti, la corrispondente sospensione
del corso della prescrizione dovrebbe avere una durata tale da non superare comunque il “termine
dell’impedimento aumentato di sessanta giorni”, mentre nell’eventualità contraria dovrebbe applicarsi
la regola generale per cui i termini di prescrizione riprendono a decorrere ex art. 159, comma 3, c.p. «dal
giorno in cui è cessata la causa della sospensione»: cioè, dal giorno corrispondente della scadenza del
periodo di sospensione del processo disposta con provvedimento del giudice.
IL CONTRASTO
La Sezione Feriale, assegnataria del ricorso, ha riscontrato un contrasto giurisprudenziale sulla interpretazione dell’art. 159, comma 1, n. 3 c.p. 5.
Secondo un primo e più risalente orientamento di legittimità, l’impedimento del difensore per il
contemporaneo impegno professionale non costituirebbe un’ipotesi di impossibilità assoluta a partecipare all’attività difensiva e, pur dando luogo ad un legittimo rinvio dell’udienza, non farebbe scattare i
limiti di durata della sospensione della prescrizione di cui all’art. 159, comma 1, n. 3, c.p. In tale ipotesi,
pertanto, non sarebbe configurabile un impedimento in senso tecnico del difensore ma una deliberata
scelta, ancorché legittima, fatta valere attraverso la richiesta di rinvio 6. In linea con tale orientamento,
altre pronunce individuano il fondamento delle argomentazioni nella giurisprudenza di legittimità sulla natura del rinvio disposto per adesione del difensore all’astensione proclamata dalle associazioni di
categoria, sebbene sia consolidato il principio secondo cui «l’astensione dalle udienze non può essere
ricondotta nell’alveo del legittimo impedimento con la conseguenza che la sospensione del corso della
prescrizione deve abbracciare l’intero periodo di rinvio non soffrendo la limitazione dei 60 giorni» 7.
Secondo un diverso orientamento 8, che richiama la pronuncia delle Sezioni Unite 9 sul testo dell’art.
486, comma 5 c.p.p. 10, il concomitante impegno professionale del difensore in altro procedimento, se
comunicato e documentato in riferimento all’essenzialità e alla non sostituibilità della presenza del difensore in altro procedimento, costituisce legittimo impedimento a comparire, con conseguente applicazione della limitazione della sospensione della prescrizione ex art. 159, comma 1, n. 3, c.p. In questa
ipotesi, il giudice del processo deve effettuare un bilanciamento tra i diversi interessi in gioco. In particolare, la giurisprudenza 11, riconoscendo la natura di legittimo impedimento al rinvio per concomitan-
5
Cass., sez. fer., 21 agosto 2014, n. 42800, cit.. Per un commento v. L. Matarrese, Alle Sezioni unite la questione della sospensione
della prescrizione in caso di richiesta del difensore di rinvio dell’udienza per concomitante impegno professionale, in Dir. pen. contemp., 12
novembre 2014, p. 1 e ss.
6
Cass., sez. I, 14 ottobre 2008, n. 44609, in CED Cass., n. 242042; Cass., sez. II, 29 marzo 2011, n. 17344, in CED Cass., n.
250076; Cass., sez. IV, 18 dicembre 2013, n. 10926, in CED Cass., n. 258618.
7
Cass., sez. I, 17 giugno 2008, n. 25714, in CED Cass., n. 240460.
8
Cass., sez. III, 03 marzo 2009, n. 17218, in Cass. pen., 2011, p. 653.
9
Cass., sez. un., 27 marzo 1992, n. 4708, cit., secondo cui «perché l’impegno professionale del difensore in altro procedimento possa
essere assunto quale legittimo impedimento che dà luogo ad assoluta impossibilità a comparire ai sensi dell’art. 486, comma 5, c.p.p. (oggi
art. 420-ter, comma 5, c.p.p.) è necessario che il difensore prospetti l’impedimento e chieda il rinvio non appena conosciuta la contemporaneità dei diversi impegni e che non si limiti a comunicare e documentare l’esistenza di un contemporaneo impegno professionale in altro processo, ma esponga le ragioni che rendono essenziale l’espletamento della sua funzione in esso per la particolare natura dell’attività a cui deve
presenziare, l’assenza in detto procedimento di altro codifensore che possa validamente difendere l’imputato, l’impossibilità di avvalersi di un
sostituto ai sensi dell’art. 102 c.p.p. sia nel processo cui intende partecipare sia in quello di cui chiede il rinvio».
10
L’articolo è stato abrogato dall’art. 392, l. 16 dicembre 1999, n. 479. Si veda ora l’art. 420-ter c.p.p.
11
Cass., sez. IV, 18 dicembre 2013, n. 10926, cit.
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te impegno professionale, ha criticato gli orientamenti di segno contrario 12, evidenziando due diversi
profili.
Il primo attiene al significato della effettività della difesa tecnica. La presenza non formale di un tecnico del diritto è condizione per la validità dello stesso rapporto processuale, anche se l’esercizio di tale
diritto deve essere definito e delimitato da rigorosi presupposti individuati. In questo senso, gli orientamenti contrari “scontano” il vizio genetico del mancato confronto con la ricognizione della natura del
diritto al differimento della trattazione su istanza del difensore impegnato in altro procedimento. Infatti, questo ultimo caso è «ben diverso dall’istanza di rinvio per svariate altre ragioni, pur connesse alla
necessità di meglio esercitare il diritto di difesa (acquisizione di documenti, studio degli atti, reperimento di precedenti giurisprudenziali, esigenza di attendere definizioni giudiziarie, adesione ad astensioni dall’attività proclamate da organi rappresentativi della categoria)» 13.
Il secondo profilo riguarda la riconducibilità ad una categoria ontologica del legittimo impedimento
del difensore diversa da quella presa in esame per l’imputato. Invero, l’impedimento assoluto viene
qualificato legittimo e non strumentale, a condizione che venga prontamente comunicato. Ciò si ricava
dall’interpretazione esegetico-lessicale poiché l’art. 159 c.p. «si limita ad assimilare all’impedimento
dell’imputato quello del difensore» 14. L’art. 420 ter c.p.p. circoscrive la assoluta impossibilità a comparire dell’imputato alle ipotesi del caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento ma dispone
che il giudice provvede a norma del comma 1 anche in caso di assenza del difensore, quando risulta che
la stessa è dovuta ad assoluta impossibilità a comparire per legittimo impedimento purché tempestivamente comunicato.
LE LINEE GUIDA DELLE SEZIONI UNITE
Sul contrasto, nuovamente sorto, si pronunciano le Sezioni Unite che, accogliendo il secondo orientamento, ritornano sulla distinzione tra l’ipotesi di partecipazione del difensore all’astensione di categoria e l’ipotesi di concomitante impegno professionale 15. Nel primo caso, il termine di prescrizione rimane sospeso per l’intero periodo, trattandosi di un diritto al rinvio e non di un semplice legittimo impedimento partecipativo 16, poiché l’adesione del difensore è frutto «di una libera scelta dell’interessato».
Nell’ipotesi del concorrente impegno del difensore in due diversi procedimenti, da un punto di vista
fattuale, emerge la “estraneità” della sua volontà rispetto al presupposto da cui deriva la contemporaneità dell’impegno professionale, dunque egli ha, ad avviso della Suprema Corte, una “posizione assolutamente neutra”.
Restano sullo sfondo i dubbi sulla discrezionalità del controllo giurisdizionale, sebbene le Sezioni
unite nel sottolineare il carattere di “obiettività” dell’impedimento perché acquisti efficacia impeditiva,
descrivano un percorso di valutazione del giudice ben delineato da paletti rigidi che limitano l’attività
di controllo giurisdizionale, ancorandola ad una inevitabile discrezionalità guidata.
Dunque, non è la mera concomitanza di impegni professionali ad integrare un legittimo impedimento, questa sì affidata alla valutazione esclusiva del difensore, quanto piuttosto la condizione obiettiva,
scrutinata dal giudice, di impossibilità assoluta di prestare la propria opera in una sede processuale,
perché «compromessa da un concomitante e (in quel momento) ‘prevalente’ impegno difensivo» 17. Per
12
Le Sezioni Unite (27 marzo 1992, n. 4708, cit.) si erano già espresse sui contrasti sorti in sede di legittimità, affermando che
«il nuovo codice di rito ha equiparato l’impedimento del difensore a quello dell’imputato, innovando sul punto la precedente
disciplina; che ciò è strettamente correlato alla filosofia del nuovo codice, tutta radicata sulla previsione della partecipazione
dell’accusa e della difesa, su un piano di parità, in ogni stato e grado del processo proprio perché si è voluto realizzare un processo di parti». Se, dunque, l’intervento del difensore costituisce un’attività di partecipazione e non di mera “assistenza”,
l’effettività della difesa è condizione per la validità dello stesso rapporto processuale.
13
Cass., sez. IV, 18 dicembre 2013, n. 10926, cit.
14
Cass., sez. IV, 18 dicembre 2013, n. 10926, cit.
15
Cfr. L. Matarrese, Le Sezioni unite: il concomitante impegno professionale del difensore può costituire legittimo impedimento che dà
luogo ad assoluta impossibilità a comparire, in Dir. pen. contemp., 12 febbraio 2015, p. 1 e ss.
16
Cass., sez. un., 30 maggio 2013, n. 26711, in Cass. pen., 2014, p. 32
17
«Il difensore, pertanto, è onerato di prospettare al giudice, al quale chiede il rinvio, con assoluta tempestività, il proprio
impedimento, ciò al fine di consentire allo stesso giudice di individuare la data della nuova udienza anche in relazione alle esi AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | A PROPOSITO DEL REGIME DI SOSPENSIONE DEL CORSO DELLA PRESCRIZIONE
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le Sezioni Unite l’impegno professionale del difensore in altro procedimento costituisce legittimo impedimento che dà luogo ad assoluta impossibilità a comparire ai sensi dell’art. 420-ter, comma 5, c.p.p.,
a condizione che il difensore prospetti l’impedimento appena conosciuta la contemporaneità dei diversi
impegni, indichi specificamente le ragioni che rendono essenziale l’espletamento della sua funzione nel
diverso processo e rappresenti l’assenza in detto procedimento di altro codifensore che possa validamente difendere l’imputato, nonché l’impossibilità di avvalersi di un sostituto ai sensi dell’art. 102
c.p.p., sia nel processo cui intende partecipare sia in quello di cui chiede il rinvio; con conseguente congelamento del termine di prescrizione fino ad un massimo di 60 giorni dalla cessazione dell’impedimento stesso. Ne consegue che in caso di istanza di rinvio priva della documentazione necessaria,
non può ritenersi sussistente il legittimo impedimento e quindi neppure il diritto al rinvio; tuttavia il
giudice può, contemperando le esigenze della difesa con quelle della giurisdizione, concedere il rinvio
secondo il suo prudente apprezzamento, così qualificando la richiesta di differimento come una “mera
richiesta di rinvio” per assicurare all’imputato di essere assistito dal difensore che meglio conosce la
sua vicenda processuale, con conseguente sospensione del decorso della prescrizione per tutto il periodo del differimento.
LA DURATA DELLA SOSPENSIONE E L’EFFETTIVITÀ DELLA DIFESA
La conclusione deve essere condivisa, non ritenendo sostenibile 18 che la fattispecie relativa al rinvio per
concomitante impegno professionale del difensore possa essere trattata conformemente a quella del
rinvio per astensione collettiva dalle udienze 19.
È vero, infatti, come ha riconosciuto da tempo la Corte costituzionale, che una tale scelta di astensione dalle udienze si configura quale esercizio di un diritto soggettivo riconducibile all’area della “libertà
di associazione”, oggetto di salvaguardia costituzionale 20, ma si tratta pur sempre di una scelta di natura volontaria, rimessa alle valutazioni soggettive del difensore e fondata su criteri di opportunità, riferibili in particolare alle concrete situazioni dei singoli processi. Mette conto sottolineare che la suddetta
scelta in alcuni casi finirà per dipendere anche dalla relazione tra il medesimo difensore ed il proprio
assistito, al quale in definitiva spetterà la valutazione finale, beninteso, nell’ambito del rapporto fiduciario. È lontana, dunque, l’ipotesi dalla situazione di “assoluta impossibilità” di comparire o, comunque, di partecipare all’udienza che, a norma degli artt. 420-ter, comma 5, definisce la figura del “legittimo impedimento” del difensore quale causa di rinvio dell’udienza e di conseguente sospensione del
processo 21.
La conclusione è in linea con la scelta legislativa diretta a distinguere, per quel che qui interessa, i
casi in cui il difensore si trova assolutamente impossibilitato a comparire in udienza per “legittimo impedimento” dai casi in cui il difensore medesimo risulta assente per altri motivi, senza cioè che ricorra
alcuna ipotesi di oggettivo impedimento 22, rendendo così privo di assistenza difensiva l’imputato.
genze organizzative del proprio ufficio, e far sì che «il rinvio avvenga in tempo utile per evitare disagi alle altre parti o disfunzioni giudiziarie»; così Cass., sez. un., 2 febbraio 2015, n. 4909, in Dir. pen. proc., 2015, p. 273.
18
Cass., sez. I, 14 ottobre 2008, n. 44609, cit.; Cass., sez. II, 29 marzo 2011, n.17344, cit.
19
La giurisprudenza costituzionale ha riconosciuto al difensore un diritto costituzionalmente tutelato il cui esercizio non è
tuttavia configurabile quale impedimento legittimo, ed assoluta impossibilità a comparire in udienza, con la conseguenza che in
tal caso non opera il limite temporale dei 60 giorni di sospensione della prescrizione previsto dall’art. 159, comma 1, n. 3 c.p.; si
veda C. cost., sent. 27 maggio 1996, n. 171, in Cass. pen., 1996, p. 2872. Sulla particolare discrasia interpretativa nella stessa giurisprudenza di legittimità, anche dopo la pronuncia costituzionale, con particolare riferimento alle procedure in camera di consiglio a contraddittorio differito, cfr. T. Rafaraci, Una “presa d’atto” molto attesa: l’adesione del difensore all’astensione collettiva dalle
udienze impone il rinvio anche nei riti camerali a partecipazione facoltativa, in Cass. pen., 2014, p. 2080 e ss.
20
Corte cost., 27 maggio 1996, n. 171, cit. Per i commenti tra gli altri, cfr. G. Di Chiara, Nota a Corte cost., 27 maggio 1996, n.
171, in Foro it., 1997, I, c. 1028; G. Frigo, I limiti di legittimità dell’astensione collettiva degli avvocati dalle attività giudiziarie indicati
dalla Corte costituzionale, in Gazz giur., 1996, 5, p. 25.
21
Su questi profili cfr. D. Pulitanò, Lo sciopero degli avvocati: se, come, quando, in Dir. pen. proc., 1999, 1, p. 6 e ss.; A. Gaito, Legittima l’adesione del difensore a manifestazioni di categoria con astensione dalle udienze camerali, in Giur.it., 2014, p. 412 e ss.
22
Cfr. R. Magi, L’astensione degli avvocati penalisti tra istanze repressive e rivendicazioni dell’effettività della difesa, in Cass. pen.,
1995, p. 1722. Sono equiparate alle ipotesi di assenza fisica del difensore quelle corrispondenti al «rituale di difensori fisicamente presenti in udienza che, una volta verificata la regolare costituzione delle parti, dichiarano di aderire all’astensione». È evi-
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | A PROPOSITO DEL REGIME DI SOSPENSIONE DEL CORSO DELLA PRESCRIZIONE
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62
Mentre nelle ipotesi del primo tipo, infatti, il codice pone l’accento sull’interesse del difensore e sul
corrispondente interesse dell’imputato, che potrebbe peraltro rinunciare ex art. 420-ter, comma 5, c.p.p.,
a svolgere personalmente l’attività difensiva, una volta superata la situazione di assoluta impossibilità
che oggettivamente gli impedisce di comparire in udienza, al contrario nelle ipotesi del secondo tipo,
poiché non sussistono ragioni per tutelare l’interesse all’esercizio del mandato da parte di un difensore
non comparso, ancorché non impedito a comparire, acquista risalto esclusivamente l’esigenza di fronteggiare, mediante un provvedimento di sospensione del processo, l’impossibilità di procedere oltre
provocata dall’essere rimasto l’imputato sprovvisto di difensore, sempreché naturalmente, non sia possibile provvedere a norma dell’art. 97, comma 4, c.p.p., per l’assenza di quest’ultimo dovuta ad un “legittimo impedimento” 23.
Tutto ciò mostra chiaramente anche perché, nell’ipotesi in cui venga accertato un legittimo impedimento del difensore, la sospensione del processo, in virtù dell’art. 159, comma 1, n. 3 c.p., non possa dar
luogo ad un differimento dell’udienza «oltre il sessantesimo giorno successivo alla prevedibile cessazione dell’impedimento» 24, poiché si è evidentemente ritenuto incongruo far gravare oltre misura a carico del difensore, e quindi del suo assistito, una causa di sospensione del processo a lui sì riferibile, ma
non addebitabile alla sua volontà 25.
E poiché nel caso di astensione dall’udienza del difensore, il quale abbia aderito ad una protesta sindacale, non si realizza una ipotesi di impedimento del difensore stesso, le ricadute sulla disciplina della
sospensione del processo non possono lasciare alcun margine di dubbio all’interprete, di fronte all’art.
159, comma 1, prima parte, c.p.
Dunque, una preoccupazione di tutela della posizione del difensore non ha motivo di essere nelle
ipotesi in cui l’assenza del medesimo non dipenda da quella “assoluta impossibilità di comparire”, che
rappresenta il presupposto normativo del “legittimo impedimento”. In situazioni del genere, realizzata
l’esigenza di ridurre al minimo il lasso temporale di differimento dell’udienza, in omaggio al principio
di “ragionevole durata del processo”, non è prevista alcuna limitazione rispetto alla ordinaria corrispondenza tra il tempo di sospensione del corso della prescrizione ed il tempo di sospensione del processo, quale risulta ex art. 159, comma 3, c.p.
dente in questo caso l’esistenza più che di un oggettivo impedimento a comparire, di un soggettivo “impedimento ad esercitare
l’attività difensiva” legato alla “libera scelta” di partecipare ad una agitazione di categoria.
23
Cfr. S. Beltrani, Adesione del difensore all’astensione dalle udienze e sospensione della prescrizione, in Cass. pen., 2008, 5, p. 1777 e ss.
24
In ogni caso la correlativa sospensione del corso della prescrizione deve comunque commisurarsi «al tempo
dell’impedimento aumentato di sessanta giorni». Cfr. R. Bricchetti, L’impedimento del difensore rinvia la causa, in Giuda dir., 2000,
1, p. LII; A. Diddi, Ipotesi sospensive della prescrizione tra diritto e processo, in A. Scalfati (a cura di), Nuove norme su prescrizione del
reato e recidiva, Padova, 2006, p. 42.
25
In questa ipotesi «la vera garanzia è rappresentata dalla specifica previsione che l’effetto sospensivo del corso della prescrizione non possa comunque essere superiore al tempo dell’impedimento aumentato di sessanta giorni», così V. Grevi, L’adesione allo “sciopero” dei difensori non costituisce “legittimo impedimento” (A proposito del regime della sospensione del corso della prescrizione), in Cass. pen., 2006, p. 2063.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | A PROPOSITO DEL REGIME DI SOSPENSIONE DEL CORSO DELLA PRESCRIZIONE
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Termini per eccepire la nullità dell’alcooltest
se è omesso l’avviso della facoltà di assistenza difensiva
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE, SENTENZA 5 FEBBRAIO 2015, N. 5396 – PRES. SANTACROCE; EST.
CONTI
La nullità conseguente al mancato avvertimento al conducente di un veicolo, da sottoporre all’esame alcoolimetrico, della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, in violazione dell’art. 114 disp. att. c.p.p., può essere
tempestivamente dedotta, a norma del combinato disposto dell’art. 180 e art. 182, comma 2, secondo periodo,
c.p.p., fino al momento della deliberazione della sentenza di primo grado.
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
1. Nelle prime ore del giorno 1 febbraio 2011, la polizia giudiziaria (Nucleo Operativo-Aliquota Radiomobile dei Carabinieri di Conegliano), in località San Fior, sottoponeva Omissis, conducente di
un'autovettura, ad alcooltest, ripetuto a distanza di alcuni minuti, il cui esito indicava un tasso alcolemico pari a 1,97 e poi a 1,90 g/l.
Essendo emersi estremi del reato di cui al D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 186, comma 2, (C.d.S.), gli
atti venivano trasmessi alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Treviso, che procedeva a
iscrizione nel registro delle notizie di reato in data 8 novembre 2011.
Con memoria depositata il 30 novembre 2011 presso la Procura della Repubblica, l'avv. Omissis, difensore di fiducia nominato dal Omissis in data 9 novembre 2011, eccepiva la nullità, ex art. 178 c.p.p.,
comma 1, lett. c), derivante dall'omesso avviso all'indagato da parte della polizia giudiziaria procedente
della facoltà di farsi assistere da un difensore in relazione allo svolgimento di un atto urgente e indifferibile quale la sottoposizione all'esame alcoolimetrico.
In data 14 dicembre 2011, il Procuratore della Repubblica depositava richiesta di emissione di decreto penale di condanna in ordine alla contravvenzione di cui all'art. 186 C.d.S., comma 2, lett. c) e comma
2-sexies, contestata al Omissis per avere circolato alla guida di un'autovettura in stato di ebbrezza, con i
tassi sopra indicati, in conseguenza dell'uso di bevande alcooliche.
Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Treviso, in data 21 dicembre 2011, emetteva
decreto di condanna alla pena di 23.500 euro di ammenda, di cui 22.500 in sostituzione di 90 giorni di
arresto, notificato al difensore il 10 febbraio 2012.
L'avv. Omissis depositava in data 28 dicembre 2012 ulteriore memoria difensiva, con la quale, tra l'altro, ribadiva l'eccezione di nullità a suo tempo dedotta.
A seguito di opposizione al predetto decreto, proposta tempestivamente il 23 febbraio 2012 dal predetto difensore del Omissis, il medesimo G.i.p. disponeva procedersi a giudizio immediato.
In dibattimento, alla udienza dell'11 novembre 2013, il difensore dell'imputato reiterava l'eccezione
di nullità dell'esame alcoolimetrico.
Ritiratosi in camera di consiglio, il Tribunale emetteva ordinanza con la quale, rilevato che dagli atti
non risultava essere stato effettuato al Omissis da parte della p.g., al momento della sottoposizione dello
stesso all'esame alcoolimetrico, da ritenere atto indifferibile e urgente, l'avviso ex art. 114 disp. att. cod.
proc. pen.; che da ciò derivava una nullità a regime intermedio;
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che tale nullità era stata tempestivamente dedotta nella memoria difensiva del 30 novembre 2011;
tutto ciò rilevato e premesso, dichiarava la nullità dell'accertamento effettuato mediante il suddetto test
alcoolimetrico.
2. All'esito del dibattimento, chiusosi alla stessa udienza dell'11 novembre 2013, il Tribunale di Treviso pronunciava sentenza con la quale, su conforme richiesta delle parti, assolveva l'imputato con la
formula “perché il fatto non sussiste”.
Osservava il Tribunale che l'accoglimento della eccezione di nullità dell'esame alcoolimetrico, dedotta nella memoria depositata il giorno 30 novembre 2011, da considerare “quale primo atto difensivo
concretamente esperibile contestuale all'atto di nomina a difensore fiduciario”, comportava la inutilizzabilità di tale accertamento, con la conseguenza che, in mancanza di esso, poteva considerarsi provata,
su base sintomatica, e in ossequio al favor rei, come specificamente affermato in materia dalla giurisprudenza di legittimità, solo la meno grave ipotesi di guida in stato di ebbrezza di cui all'art. 186 C.d.S.,
comma 2, lett. a) integrante una violazione amministrativa.
3. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Venezia, che, nel chiederne l'annullamento, ha dedotto, con un unico
motivo, l'erronea applicazione della legge penale, essendo l'eccezione di nullità proposta dalla difesa da
considerare tardiva, non avendola l'imputato dedotta prima del compimento dell'atto o immediatamente dopo, come prescritto dall'art. 182 c.p.p., comma 2.
A sostegno di tale assunto, l'Ufficio ricorrente riporta un ampio stralcio della sentenza della Corte di
cassazione Sez. 4, n. 36009 del 04/06/2003 (recte, 2013), cui esprime adesione.
4. La Quarta Sezione penale, assegnataria del ricorso, con ordinanza in data 26 settembre 2014, depositata il 21 ottobre successivo, ne ha disposto la rimessione alle Sezioni Unite, sulla base di un ravvisato contrasto giurisprudenziale.
Premesso che il cd. alcooltest costituisce la prova “regina” a fondamento della responsabilità del
conducente di veicoli che presenti un livello alcoolico superiore alle soglie considerate dall'art. 186
C.d.S., comma 2 - la prima delle quali, di cui alla lett. a), costituente illecito amministrativo e le altre
due, di cui alle lett. b) e c), costituenti una contravvenzione penale - nell'ordinanza si osserva che l'avvertimento della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia da dare all'interessato nel caso in cui
si intenda procedere a un simile test si ricava dall'art. 114 disp. att. cod. proc. pen. (rubricato appunto
“Avvertimento del diritto all'assistenza del difensore”), dato che l'esame in questione rientra nella previsione dell'art. 354 cod. proc. pen. (“Accertamenti urgenti sui luoghi, sulle cose e sulle persone”) e che
ad esso il difensore dell'indagato ha facoltà di assistere, a norma dell'art. 356 dello stesso codice (“Assistenza del difensore”), cui si riferisce, appunto, il citato art. 114.
Ciò posto, si rileva che, in base all'orientamento giurisprudenziale consolidato, il mancato avvertimento di cui all'art. 114 disp. att. cod. proc. pen. dà luogo a una nullità a regime intermedio, che, ai sensi dell'art. 182 c.p.p., comma 2, deve essere eccepita dalla parte, a pena di decadenza, prima del compimento dell'atto oppure, se ciò non è possibile, immediatamente dopo.
Quanto, però, alla esatta individuazione del limite temporale entro il quale è proponibile l'eccezione,
sarebbe ravvisabile una diversità di orientamenti.
Secondo una prima linea interpretativa, posto che l'eccezione ha da essere sollevata, a pena di decadenza, prima del compimento dell'atto ovvero immediatamente dopo, essa può e deve essere formalizzata dallo stesso interessato (sottoposto ad alcooltest), non essendovi ragione per subordinare l'eccezione all'intervento del difensore, dato che essa non implica particolari cognizioni di ordine tecnico rientranti nelle specifiche competenze professionali del difensore.
Altro orientamento affida invece la proponibilità dell'eccezione esclusivamente al difensore, considerando che il sottoposto all'esame alcoolimetrico, proprio perché non a conoscenza di tale garanzia di
assistenza, non potrebbe sollevare l'eccezione né prima del compimento dell'atto né immediatamente
dopo. Il difensore, tuttavia, avrebbe l'onere di proporla subito dopo la sua nomina, ovvero entro il termine di cinque giorni che l'art. 366 cod. proc. pen. concede al difensore per l'esame degli atti, senza che
gli sia consentito attendere il primo successivo atto del procedimento.
In base ad altra esegesi, che pure parte dalla non esigibilità della proponibilità dell'eccezione da parte del diretto interessato all'accertamento urgente, deve invece considerarsi tempestiva l'eccezione di
nullità sollevata con il primo atto successivo del procedimento, ad esempio, in sede di richiesta di riesame, o, per stare al caso di specie, con l'atto di opposizione a decreto penale di condanna.
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La Quarta Sezione, richiamando anche indirizzi espressi dalla Corte costituzionale (sentenze nn. 120
del 2002 e 162 del 1975) mostra di propendere per la linea che affida al solo difensore l'onere di proporre l'eccezione, ma, in presenza di orientamenti contrastanti sui vari aspetti evidenziati, ha ritenuto l'opportunità di investire le Sezioni Unite della tematica implicata dal ricorso.
5. Con decreto in data 29 ottobre 2014, il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite
penali, fissando per la trattazione l'odierna udienza pubblica.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione della quale sono investite le Sezioni Unite, tenuto conto della fattispecie delineata
dall'ordinanza di rimessione, è enunciabile nei seguenti termini: “Se la nullità conseguente al mancato
avvertimento al conducente di un veicolo, da sottoporre all'esame alcoolimetrico, della facoltà di farsi
assistere da un difensore di fiducia, in violazione dell'art. 114 disp. att. cod. proc. pen., possa ritenersi
non più deducibile, a norma dell'art. 182 c.p.p., comma 2, se non eccepita dal diretto interessato prima
del compimento dell'atto; ovvero, se di tale eccezione debba considerarsi onerato il solo difensore, quale sia in tale ipotesi il momento oltre il quale si verifica la conseguenza della non deducibilità della nullità”.
2. Il quadro normativo di riferimento è costituito dall'art. 114 disp. att. cod. proc. pen. e artt. 356 e
354 cod. proc. pen.
L'art. 114 disp. att cod. proc. pen. (“Avvertimento del diritto all'assistenza del difensore”) così recita:
“Nel procedere al compimento degli atti indicati dall'art. 356 codice, la polizia giudiziaria avverte la
persona sottoposta alle indagini, se presente, che ha facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia”.
L'art. 356 cod. proc. pen. (“Assistenza del difensore”) prevede che “il difensore della persona nei cui
confronti vengono svolte le indagini ha facoltà di assistere, senza diritto di essere preventivamente avvisato, agli atti previsti dagli artt. 352 e 354 ...”.
L'art. 354 cod. proc. pen. (“Accertamenti urgenti sui luoghi, sulle cose e sulle persone. Sequestro”),
detta disposizioni per la eventualità di un pericolo di ritardo per tali accertamenti, demandati, a specifiche condizioni, alla iniziativa della polizia giudiziaria.
3. Tanto posto, va in primo luogo precisato che l'avvertimento del diritto all'assistenza difensiva, di
cui all'art. 114 disp. att. cod. proc. pen. - che, per il tramite dell'art. 356 cod. proc. pen., richiama gli “accertamenti urgenti sui luoghi, sulle cose e sulle persone”, di cui all'art. 354 cod. proc. pen. - è riferibile,
come affermato da costante giurisprudenza, anche agli accertamenti eseguiti dalla polizia giudiziaria
sul tasso alcolemico del conducente di un veicolo ai fini della verifica dei parametri considerati dal
D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 186, comma 2, e successive modifiche (C.d.S.).
Si tratta infatti di “accertamenti e rilievi sulle persone diversi dalle ispezioni personali” che, ricorrendo il pericolo che le “tracce ... pertinenti al reato” “si alterino o si disperdano o comunque si modifichino” e non potendo il pubblico ministero “intervenire tempestivamente” ovvero non avendo “ancora
assunto la direzione delle indagini”, possono essere compiuti direttamente dagli ufficiali di polizia giudiziaria (v. per queste coordinate disposizioni l'art. 354 cod. proc. pen., commi 1, 2 e 3; nonché in giurisprudenza, tra le altre, Sez. U, n. 1299 del 27/09/1995, Cirigliano, n.m. sul punto).
Tali accertamenti, come previsto dall'art. 186 C.d.S., commi 3 e 4, vanno effettuati dagli organi della
polizia stradale (individuati dall'art. 12, commi 1 e 2, medesimo codice) sull'analisi dell'aria espirata con
l'impiego di un apposito apparecchio (etilometro) secondo le metodologie previste dall'art. 379 del Regolamento di esecuzione e di attuazione del codice della strada (D.P.R. 16 dicembre 1992, n. 495).
Occorre tuttavia rimarcare che, prima che si proceda ad accertamento mediante etilometro, e proprio
al fine di verificare i presupposti per darvi luogo, gli organi di polizia - come chiarito anche dalla Circolare del Ministro dell'Interno del 29 dicembre 2005, n. 300/A/42175/109/42 - hanno facoltà di sottoporre il conducente “ad accertamenti qualitativi non invasivi o a prove, anche attraverso apparecchi portatili”. Questi accertamenti, di natura discrezionale e affatto preliminari all'acquisizione di elementi indiziari riferibili alle fattispecie di guida in stato di ebbrezza contemplate dall'art. 186 C.d.S., comma 2, non
rientrano, evidentemente, in quelli presi in considerazione dall'art. 354 cod. proc. pen.; sicché per essi
non è luogo a procedere all'avvertimento ex art. 114 disp. att. cod. proc. pen.
In questo senso va intesa, e può comunque ricevere condivisione, la linea giurisprudenziale secondo
cui l'avvertimento ex art. 114 cit. va dato solo quando l'organo di polizia ritenga di desumere dalle cir AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | TERMINI PER ECCEPIRE LA NULLITÀ DELL’ALCOOLTEST
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costanze del fatto un possibile stato di alterazione del conducente sintomatico dello stato di ebbrezza e
non quando esso sia svolto in via meramente “esplorativa” (Sez. 4, n. 10850 del 12/02/2008, Rizzi, Rv.
239404; nella stessa linea, Sez. 4, n. 16553 del 26/01/2011, Pasolini, Rv. 250310).
I poteri e le garanzie previste dalla legge per simili accertamenti, come sopra delineati, appaiono del
resto coerenti con il disposto dell'art. 220 disp. coord. cod. proc. pen., secondo cui, quando “nel corso di
attività ispettive o di vigilanza ... emergono indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di
prova ... sono compiuti con l'osservanza delle disposizioni del codice”.
Ciò precisato, va osservato che nel caso in esame, pur in un contesto di marcata sinteticità e, anzi, di
una qualche approssimazione, che caratterizza il verbale redatto dagli organi di p.g. in data 1 febbraio
2011, risulta che il conducente Omissis venne sottoposto alle specifiche metodiche relative all'impiego di
un apparecchio etilometro previste dalle norme regolamentari, sicché deve ritenersi che, nel momento
in cui queste vennero effettuate, fossero già emersi a carico del predetto indizi di reità per una della fattispecie di guida in stato di ebbrezza contemplate dall'art. 186 C.d.S., comma 2; tanto che, prima di procedere a tale accertamento - indubitabilmente indifferibile e urgente - al medesimo avrebbe dovuto essere dato avvertimento della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, come previsto dall'art.
114 disp. att. cod. proc. pen.
Dagli atti non emerge che un simile avvertimento sia stato dato in quel frangente, né l'Ufficio ricorrente pone in dubbio che tale mancanza si sia effettivamente verificata.
4. La violazione dell'art. 114 disp. att. cod. proc. pen. è pertanto nella specie non oggetto di discussione, ed essa integra, secondo una linea giurisprudenziale affatto pacifica, una nullità di ordine generale, non assoluta ma a regime cd. intermedio, in base alla previsione dell'art. 178 c.p.p., comma 1, lett.
c), (nella parte relativa alla inosservanza delle disposizioni concernenti “l'assistenza ... dell'imputato”),
non rientrando in alcuno dei casi considerati dall'art. 179 cod. proc. pen.
Tralasciando altre ipotesi di limiti alla deducibilità non pertinenti al caso di specie, le nullità a regime intermedio verificatesi prima del giudizio non possono essere più dedotte “dopo la Deliberazione
della sentenza di primo grado”, alla stregua di quanto previsto dall'art. 180 cod. proc. pen., richiamato
dall'art. 182 c.p.p., comma 2, secondo periodo).
Resta fermo che entro il medesimo termine spetta in primo luogo al giudice, in quanto garante della
regolarità del processo, dichiarare le nullità incorse nel procedimento che egli sia stato in grado di rilevare.
5. Non può invece qui evocarsi come caso di non (ulteriore) deducibilità quello di cui all'art. 182 cod.
proc. pen., primo periodo comma 2 che si riferisce alla ipotesi in cui la “parte assiste all'atto nullo”
(“Quando la parte vi assiste, la nullità di un atto deve essere eccepita prima del suo compimento ovvero, se ciò non è possibile, immediatamente dopo”).
5.1. Infatti, va in primo luogo considerato che nel caso di specie non potrebbe dirsi che la parte “assisteva” all'atto inficiato dalla nullità derivante dal mancato avvertimento, essendo da escludere che vi
“assistesse” un soggetto (l'indagato o indagabile) che era in procinto di essere sottoposto a un accertamento indifferibile sulla propria persona, proprio perché al medesimo doveva essere data ex art. 114
disp. att. cod. proc. pen. una formale comunicazione circa la “facoltà di farsi assistere dal difensore di
fiducia”, che di per sè presuppone la (possibile) non conoscenza di tale facoltà.
A ben vedere, la nullità, nella ipotesi qui considerata, non discende direttamente dal mancato avvertimento di cui all'art. 114 disp. att. cod. proc. pen. ma dalla presunta non conoscenza da parte dell'indagato della facoltà di farsi assistere da un difensore, alla quale l'avvertimento è preordinato. Sicché se
per avventura l'indagato comunicasse ai pubblici ufficiali operanti la sua intenzione di avvisare il difensore dell'atto urgente che si sta per compiere nessuna nullità deriverebbe da un mancato previo avviso di tale facoltà da parte della polizia giudiziaria.
In altri termini, per potere eccepire una nullità occorre evidentemente avere contezza del vizio; e
quando la legge prescrive che si dia avviso di una qualche facoltà prevede ciò proprio perché si presume che il soggetto destinatario di esso possa ignorarla.
Quindi, conclusivamente, stando a un profilo strettamente logico, nella fattispecie qui considerata
l'indagato non “assisteva” all'atto nullo. Non vi assisteva perché, secondo una valutazione legale, non
era a conoscenza della facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia, essendo irrilevanti conoscenze
accidentali di ciò che la legge consentiva (v. per analoghe considerazioni, tra le altre, Sez. 3, n. 33517 del
12/07/2005, Rubino, n.m. sul punto).
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Egli non poteva dunque eccepire la nullità ex art. 114 disp. att. cod. proc. pen. né prima del compimento delle operazioni di alcooltest né, per le stesse ragioni, immediatamente dopo.
5.2. In genere, poi, per “parte” sulla quale grava l'onere di eccepire una qualsiasi nullità deve intendersi solo il difensore (o il pubblico ministero), e non l'indagato di persona (nè altra parte privata), che è
soggetto che non ha, o potrebbe solo accidentalmente avere, conoscenze tecnico-processuali idonee ad
apprezzare una violazione della legge processuale, come messo bene in luce anche dalla giurisprudenza costituzionale (v. in particolare sentenze nn. 120 del 2002 e 162 del 1975, relative proprio a censurati
casi di non deducibilità di nullità conseguente alla mancata attivazione dell'imputato di persona). Nella
stessa linea appare indirizzarsi la sentenza Sez. Un., n. 39060 del 16/07/2009, Aprea, da cui è dato desumere che una componente essenziale del concetto di “parte” ha da essere individuata nel difensore.
Dunque, la previsione dell'art. 182 c.p.p., comma 2, primo periodo, secondo cui, quando la parte vi
assiste, la nullità di un atto deve essere eccepita prima del suo compimento ovvero, se ciò non è possibile, immediatamente dopo, non può, in alcuna ipotesi, essere riferita all'indagato o imputato, per postulato non a conoscenza delle regole del diritto, e in particolare dei casi in cui la legge collega a un determinato atto o al suo mancato compimento una qualche nullità.
L'ordinamento processuale si fonda infatti sulla necessaria assistenza di un difensore nel corso del
procedimento, e privilegia la difesa tecnica rispetto all'autodifesa, la quale non è mai consentita in via
esclusiva, ma solo in forme che si affiancano all'imprescindibile apporto di un esperto di diritto abilitato alla professione legale (v. in questi termini, sia pure con riferimento ad altro caso di nullità a “regime
intermedio”, Sez. 6, n. 3927 del 13/12/2001, Eddif, Rv. 220996).
E' appena il caso di rilevare che la disposizione dell'art. 182 c.p.p., comma 2, è calco di quella espressa, con minime varianti formali, dall'art. 471 cod. proc. pen. 1930, concernente la c.d. sanatoria delle
nullità verificatesi nel dibattimento e, quindi, con la necessaria presenza del difensore. Essa è stata dal
legislatore del 1988 trasferita nell'attuale sede soltanto per estendere all'intero arco del procedimento
tale “sanatoria” (più propriamente riqualificata come causa di non deducibilità), e non certo per onerare direttamente l'indagato di improprie iniziative processuali di carattere tecnico (v. Relazione al Progetto preliminare, p. 58).
Un esplicito riferimento al solo difensore (oltre che al pubblico ministero) quale soggetto onerato
dell'eccezione di una nullità era del resto contenuto nell'analoga previsione dell'art. 138 codice 1913.
Quanto esposto non implica, evidentemente, che l'indagato o imputato non sia personalmente abilitato a rappresentare fatti dai quali possa emergere un qualche profilo di irregolarità del processo, ma
solo che egli non sia destinatario di un onere di “eccezione di nullità” dal mancato assolvimento del
quale possano derivare preclusioni o decadenze.
5.3. Non sono quindi condivisibili le affermazioni giurisprudenziali secondo cui la nullità conseguente all'omesso avviso ex art. 114 disp. att. cod. proc. pen. sarebbe “sanata” (rectius, non più deducibile) se non dedotta dall'interessato all'accertamento prima ovvero immediatamente dopo il compimento dell'atto “non ricorrendo facoltà processuali comportanti cognizioni tecniche professionali proprie
del difensore” (così Sez. 4, n. 36009 del 04/06/2013, Martelli nominativo non indicato in CED, Rv.
255989; e nello stesso senso, Sez. 4, n. 1399 del 11/03/2014, Pittiani, non specificamente massimata sul
punto); le quali, da un lato, fanno dipendere la esigibilità dell'assolvimento di un onere dell'indagato di
sollevare di persona eccezioni di natura processuale da un impalpabile criterio discretivo circa la complessità-semplicità delle cognizioni tecniche implicate, e, dall'altro, non danno alcuna contezza di come
una tale deduzione potrebbe essere mai esercitata da un soggetto che non abbia “assistito” all'atto nullo, proprio in ragione di un mancato avviso che la legge impone che al medesimo sia dato sul presupposto, appunto, che l'interessato può ignorare la facoltà implicata.
6. Conclusivamente, deve escludersi che una qualsiasi nullità debba essere personalmente eccepita, a
pena di decadenza, dal soggetto indagato o imputato, non solo nell'immediatezza dell'atto nullo ma anche successivamente, poiché tale soggetto non ha, o si presume per postulato legale che non abbia, le
conoscenze tecniche indispensabili per apprezzare che l'atto o il mancato atto sia non rispettoso delle
regole processuali, e per di più che egli debba attivarsi per eccepire ciò, entro certi termini, a pena di
decadenza.
7. E' il caso peraltro di chiarire, in presenza del quadro giurisprudenziale variegato di cui ha dato
conto l'ordinanza di rimessione, che nella fattispecie in esame - o in qualunque altra ad essa assimilabile
che dipenda dalla mancata osservanza dell'art. 114 disp. att. cod. proc. pen. (come in materia di perqui AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | TERMINI PER ECCEPIRE LA NULLITÀ DELL’ALCOOLTEST
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sizioni o sequestri urgenti) - una volta escluso che possa trovare applicazione il limite della deducibilità
della nullità di cui all'art. 182 c.p.p., comma 2, primo periodo, non vi è base normativa per ancorare il
limite di tempestività della deduzione di nullità al momento immediatamente successivo alla nomina
del difensore, attraverso memorie (come ritenuto nel caso di specie dal Tribunale; v. inoltre, in questo
senso, da ultimo, Sez. 4, 04/07/2013, Rotani, Rv. 256213; Sez. 4, n. 44840 del 11/10/2012, Tedeschi, Rv.
254959; oltre alle già citate sentenze Sez. 4 n. 36009, Martelli, e n. 13999, Pittiani), o a quello della scadenza del termine di cinque giorni dal deposito dell'atto di indagine ex art. 366 cod. proc. pen. (tra le altre, Sez. 3, n. 14873 del 28/03/2012, Rispo, Rv. 252397; Sez. 2, n. 19100 del 12/04/2011, Syll, Rv. 250191;
Sez. 2, n. 13392 del 23/03/2011, Mbaye, Rv. 250046), o anche a quello del compimento del primo atto
successivo del procedimento (v. Sez. 4, n. 45622 del 04/11/2209, Maci, Rv. 245797; Sez. 4, n. 45621 del
04/11/2009, Moretti, Rv. 245462).
Infatti, trovando applicazione il disposto dell'art. 182 c.p.p., comma 2, secondo periodo, l'eccezione
di nullità può essere tempestivamente proposta entro il limite temporale della deliberazione della sentenza di primo grado, a norma dell'art. 180 cod. proc. pen.
8. Va pertanto enunciato il seguente principio di diritto:
“La nullità conseguente al mancato avvertimento al conducente di un veicolo, da sottoporre all'esame alcoolimetrico, della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, in violazione dell'art. 114
disp. att. cod. proc. pen., può essere tempestivamente dedotta, a norma del combinato disposto dell'art.
180 c.p.p. e art. 182 c.p.p., comma 2, secondo periodo, fino al momento della Deliberazione della sentenza di primo grado”.
9. Nel caso di specie il difensore, che non ha ricevuto alcun avviso di deposito dell'atto con il quale
erano state seguite le operazioni di alcooltest, ha eccepito la nullità già con la memoria depositata poco
dopo la nomina e con altra successiva, e comunque con l'atto di opposizione al decreto penale, atto
quest'ultimo che equivale alla sentenza di primo grado, cui si riferisce come termine ultimo l'art. 180
cod. proc. pen., richiamato, come detto, dall'art. 182 c.p.p., comma 2, secondo periodo.
Ne discende che l'eccezione è stata tempestivamente dedotta.
10. Il ricorso proposto dal Pubblico ministero va pertanto rigettato.
[Omissis]
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | TERMINI PER ECCEPIRE LA NULLITÀ DELL’ALCOOLTEST
Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
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EVA MARIUCCI
Dottore di ricerca in Diritto Pubblico (indirizzo penalistico) – Università di Roma “Tor Vergata”
Valorizzato il ruolo della difesa tecnica in tema di alcooltest
Enhanced the role of lawyer in alcohol test
Le Sezioni Unite, oltre a dirimere l’annoso contrasto sul termine per rilevare la nullità a regime intermedio in caso
di omesso avviso al conducente (da sottoporre ad alcooltest) della facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia,
compiono un’esegesi dell’art. 182, comma 2, c.p.p., chiarendo chi sia la “parte” legittimata a rilevare il vizio, laddove il soggetto presente al compimento dell’atto indifferibile non possieda le conoscenze tecnico-giuridiche necessarie. Ad un’attenta analisi, la soluzione appare di portata generale, al punto da poter essere estesa anche agli
altri atti urgenti di p.g. compiuti alla presenza dell’indagato.
Italian Supreme Court of Cassation, in order to solve a long-standing conflict of interpretation, made a careful exegesis of art. 182, subsection 2, of the Criminal Procedure Code, establishing the term for the detection of alcohol
test nullity when the driver hasn’t been advised that the lawyer could participate.
The Court asserted also that the “part” entitled to detect the defect is the lawyer, when the driver hasn’t got
necessary technical knowledge.
FATTO E QUESTIONI CONTROVERSE
Le Sezioni Unite si pronunciano sul termine di deducibilità della nullità discendente dal mancato avvertimento al conducente di un veicolo, in procinto di essere sottoposto ad esame alcoolimetrico, della
facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia. L’alcooltest rientra tra gli accertamenti urgenti compiuti dalla polizia giudiziaria a norma dell’art. 354 c.p.p., in quanto diretto ad acquisire elementi di prova
soggetti a «naturale alterabilità, modificabilità e tendenza alla dispersione» 1. L’art. 114 disp. att. c.p.p.
impone l’avvertimento del diritto all’assistenza difensiva 2, sebbene non si tratti di un atto garantito
(art. 356 c.p.p.); si vuole in tal modo consentire all’indagato di avvalersi di un ausilio tecnico competente ad esercitare una verifica sulla legittimità formale dell’atto investigativo 3. Va tuttavia precisato che la
necessità di informare l’interessato ricorre solo quando gli organi accertatori abbiano desunto dalle circostanze fattuali un probabile stato di alterazione psicofisica del conducente, dovuto all’assunzione di
sostanze alcooliche, e non quando la verifica abbia carattere meramente esplorativo ovvero manchino
indizi di reato 4.
L’omissione dell’avviso determina una nullità a regime intermedio, per violazione delle regole in
1
Cass., sez. IV, 17 dicembre 2003, n. 18610, in Cass. pen., 2005, 2, p. 583.
2
Sul momento in cui la p.g. è tenuta a dare l’avviso della facoltà di nominare il difensore di fiducia al soggetto sottoposto ad
alcooltest, si v. Cass., sez. IV, 27 aprile 2011, in Cass. pen., 12, p. 1818. Secondo la Corte, il “dies a quo” va individuato nell’istante
in cui si procede all’atto, e non quando siano precedentemente svolte le attività ad esso propedeutiche.
3
A. Del Sole – F. Fontana, sub art. 114 disp. att. c.p.p., in P. Corso (a cura di), Commento al codice di procedura penale, Piacenza,
2008, p. 3238.
4
Cfr. Cass., sez. IV, 26 gennaio 2011, n. 16553, in CED Cass. n. 250310; Cass., sez. IV, 12 febbraio 2008, n. 10850, in CED Cass.
n. 239404. In argomento, A. Scalfati, sub art. 114 disp. att. c.p.p., in A. Giarda-G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale
commentato, Milano, 2010, p. 8562.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | VALORIZZATO IL RUOLO DELLA DIFESA TECNICA IN TEMA DI ALCOOLTEST
Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
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materia di intervento, assistenza, rappresentanza dell’imputato (art. 178, comma 1, lett. c) c.p.p.); sul
punto, si registra una sostanziale uniformità di vedute 5. Controverso, invece, è il nodo circa l’indi-viduazione del termine entro cui la parte che intende far valere il vizio può eccepirlo; dal combinato disposto degli artt. 180 e 182, comma 2, c.p.p., emerge un quadro composito. In particolare, il primo periodo dell’art. 182, comma 2, c.p.p., fissa la regola generale per cui, se la parte assiste all’atto, deve eccepirne la nullità prima del compimento o, se non è possibile, immediatamente dopo. Negli altri casi, invece, si applica la disciplina residuale, contenuta nell’art. 180 c.p.p., secondo cui il termine ultimo per
rilevare (ad istanza di parte) o per dedurre (ex officio) il vizio è la deliberazione della sentenza di primo
grado.
Nella fattispecie in esame, il difensore eccepiva la nullità per omesso avviso con una prima memoria
difensiva, depositata pochi giorni dopo la nomina, nonché con una seconda, proposta a seguito dell’emissione del decreto penale di condanna. Infine, a fronte dell’opposizione al decreto, poiché il procedimento proseguiva nelle forme del giudizio immediato, il legale reiterava l’eccezione di nullità
dell’esame alcoolimetrico in dibattimento. Secondo l’accusa, siffatta censura doveva in ogni caso ritenersi tardiva, atteso che l’invalidità avrebbe dovuto essere rilevata dall’indagato prima o immediatamente dopo il compimento dell’accertamento, a norma dell’art. 182, comma 2, primo periodo c.p.p.
La pronuncia delle Sezioni Unite, oltre a dirimere il contrasto ermeneutico, maturato negli anni, sul
termine per rilevare tali nullità, merita attenzione per l’esegesi compiuta sull’art. 182, comma 2, c.p.p.;
viene chiarito, infatti, chi sia la “parte” legittimata a rilevare il vizio, laddove il soggetto presente al
compimento dell’atto non possieda le conoscenze specialistiche sufficienti.
UN’ANNOSA DISPUTA
Il radicato contrasto sull’individuazione degli esatti contorni temporali per la deducibilità della nullità
intermedia, conseguente al mancato avvertimento di cui all’art. 114 disp. att. c.p.p., è stato mitigato dalla pronuncia in commento; di conseguenza, prima di esaminare il dictum delle Sezioni Unite, è necessario ricostruire le pregresse e diversificate soluzioni accolte dal collegio di legittimità.
Ad avviso di una consistente parte della giurisprudenza, l’eccezione doveva intendersi tempestiva
solo se formulata subito dopo la nomina del difensore ed, in particolare, «entro il termine di cinque
giorni, che l’art. 366 c.p.p. concede a quest’ultimo per l’esame degli atti» 6. L’indirizzo interpretativo,
per lungo tempo prevalente, era assestato sulla considerazione che, essendo il legale il soggetto tecnicamente competente a rilevare il vizio, fosse necessario individuare un termine per l’immediata deducibilità, pena la sanatoria prevista dall’art. 182, comma 2, primo periodo c.p.p. La Corte, poi, non aveva
mancato di osservare come non fosse necessario attendere il compimento di atti successivi del procedimento, «ben potendo la formulazione dell’eccezione aver luogo anche al di fuori dell’espletamento di
specifici atti, mediante lo strumento delle “memorie o richieste”» 7. Colmare la lacuna attraverso il richiamo all’art. 366 c.p.p. 8, imponendo alla difesa di proporre l’eccezione nel termine perentorio di cinque giorni, rischia però di tradursi in un’interpretazione praeter legem, oltre che in malam partem, operandosi un’indebita «commistione tra il regime di cui all’art. 182 c.p.p. e quello per il deposito e l’esame
degli atti» 9. In verità, il termine di cinque giorni è previsto solo per consentire al legale di prendere co-
5
Ex pluribus, Cass., sez. IV, 11 marzo 2014, n. 13999, in CED Cass., 250310; Cass., sez. III, 28 marzo 2012, n. 14873, in Cass.
pen., 2013, 9, p. 3179; Cass., sez. IV, 18 settembre 2006, n. 2584, in Cass. pen., 2008, 2, p. 718.
6
Cass., sez. V, 6 giugno 2014, n. 48746, in CED Cass.; Cass., sez. IV, 11 ottobre 2012, n. 44840, in CED Cass. n. 254959; Cass.,
sez. III, 18 aprile 2012, n. 14873, in Cass. pen., 2013, 3179; Cass., sez. II, 12 aprile 2011, n. 19100, in Cass. pen., 2012, 3013; Cass., sez.
II, 23 marzo 2011, n. 13392, in CED Cass. n. 250046; Cass., sez. I, 4 febbraio 2010, n. 8107, in Cass. pen., 2011, 317; Cass., sez. IV, 14
marzo 2008, n. 15739, in Dir. pen. proc., 2009, 495.
7
Cass., sez. IV, 4 luglio 2013, n. 31358, in Arch. circ. e sin., 2014, I, p. 28, secondo cui il termine di rilevazione «non è posto
dalla norma in relazione alla necessaria effettuazione di un successivo atto in cui intervenga la stessa parte o il difensore».
8
Sull’esistenza dell’obbligo di deposito del verbale di alcooltest, peraltro, va segnalata la presenza di orientamenti contrastanti, ben delineati da M. Bordieri, Sull’omesso avviso al difensore del deposito del verbale dell’alcool-test compiuto dalla polizia giudiziaria su un conducente di autoveicolo, in Cass. pen., 2006, 3, p. 1007 ss.
9
P. Di Geronimo, Il controverso regime della preclusione a dedurre la nullità dell’atto compiuto alla presenza dell’indagato, in Cass.
pen., 2014, 3, p. 961.
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gnizione degli atti investigativi cui avrebbe avuto diritto di assistere 10. Imporgli nel medesimo arco
temporale l’ulteriore onere di censurare il vizio, varrebbe, di fatto, a svuotare «la garanzia post factum» 11
offerta dall’art. 366 c.p.p., che mira esclusivamente a permettere la visione degli atti, in vista del successivo esplicarsi dell’attività difensiva.
In altre numerose pronunzie, il limite è stato spostato in avanti, con conseguente ammissibilità della
rilevazione compiuta in occasione dell’istanza di riesame 12, o con l’opposizione al decreto penale di
condanna. Talune isolate decisioni, invece, lo anticipavano ulteriormente, facendolo coincidere con il
compimento del primo atto processuale della parte successivo a quello viziato 13.
Nonostante tali (variegati) arresti, di recente il Collegio aveva addirittura ulteriormente circoscritto il
limite temporale di deducibilità, onerandone lo stesso interessato. La sua idoneità a compiere la rilevazione discenderebbe dalla circostanza che l’esame alcoolimetrico è prassi diffusa e conosciuta dai consociati, per la quale «non servono particolari competenze», a differenza di altri atti urgenti compiuti
dalla p.g., quali, ad esempio, le perquisizioni 14. La presenza dell’interessato al momento del compimento dell’atto indifferibile gli imporrebbe di rilevare il vizio tempestivamente, prima dell’accertamento o
subito dopo, senza dover attendere ulteriori atti del procedimento. Si tratta di un’impostazione rigidamente ancorata al dato testuale dell’art. 182 c.p.p., il quale si riferisce genericamente alla “parte”, senza
alcuna distinzione tra indagato e difensore. L’interpretazione è fondata sul convincimento che, costituendo l’instaurazione del rapporto difensivo un’eventualità, l’eccezione può essere «avanzata direttamente dall’interessato, in quanto non ricorrono facoltà processuali che comportino la cognizione di
elementi tecnici rientranti nelle specifiche competenze professionali del difensore» 15. In dottrina, la soluzione è stata segnalata per il pregio di garantire l’economia processuale e la conservazione dell’atto,
perché evita la dilazione dei tempi e confina la possibilità di proporre l’eccezione al medesimo contesto
in cui l’atto viziato è stato compiuto 16.
La lettura, tuttavia, rischia di generare un vulnus di garanzia. Se è vero che gli accertamenti sul tasso
alcolico sono ricorrenti nella prassi, non è invece condivisibile affermare che la rilevazione del vizio
prescinda da un patrimonio di conoscenze specialistiche. Gravare il privato dell’onere, significa presupporre superficialmente una sua consapevolezza delle regole processuali, in una materia, quella delle
nullità, caratterizzata invece da rigoroso tecnicismo.
La presenza di soluzioni critiche e divergenti ha reso ineludibile un intervento nomofilattico delle
Sezioni Unite, volto a chiarire se, in tema di alcooltest, debba davvero essere l’interessato il soggetto
deputato a presentare l’eccezione di nullità per il mancato avviso di cui all’art. 114 disp. att. c.p.p., o se,
viceversa, possa attendersi l’intervento del difensore; e se, in quest’ultimo caso, valga la regola della rilevazione entro la sentenza di primo grado (ex art. 180 c.p.p., richiamato dall’art. 182, comma 2, secondo
periodo c.p.p.) 17, o il precedente termine di preclusione indicato dall’art. 182, comma 2, primo periodo
c.p.p.
10
Cfr. R. Tartaglia, sub art. 366 c.p.p., in G. Canzio-G. Tranchina (a cura di), Codice di procedura penale, Milano, 2012, p. 3302.
11
F. Cordero, sub art. 366 c.p.p., in Codice di procedura penale commentato, Milano, 1992, p. 436.
12
Cass., sez. III, 26 giugno 2012, n. 26588, in CED Cass. n. 244370; Cass., sez. V, 9 febbraio 2012, n. 7654, in Cass. pen., 2013, 4,
1539; Cass., sez. V, 9 ottobre 2008, n. 44538, in CED Cass. n. 241904; Cass., sez. III, 25 ottobre 2005, n. 9630, in Cass. pen., 2007,
1202.
13
Cass., sez. VI, 4 marzo 1994, n. 2705, in CED Cass. n. 198240, che, relativamente ad una perquisizione, ha ritenuto sanata la
nullità ex art. 114 disp. att. c.p.p., per non essere stata sollevata la relativa eccezione in occasione dell’udienza di convalida
dell’arresto.
14
Così Cass., sez. IV, 11 marzo 2014, n. 13999, in Guida dir., 2014, 18, p. 75. Concordemente, Cass., sez. IV, 4 giugno 2013, n.
36009, in Cass. pen. 2014, 3, 956; Cass., sez. I, 4 febbraio 2010, n. 8107, in Cass. pen., 2011, I, 317.
15
Cass., sez. IV, 11 marzo 2014, n. 13999, cit.
16
Il rilievo è di P. Di Geronimo, Il controverso regime della preclusione a dedurre la nullità dell’atto compiuto alla presenza
dell’indagato, cit., p. 961; nondimeno, l’Autore non esita a constatare che «l’attribuzione alla parte personalmente del poteredovere di sollevare l’eccezione di nullità determina una inevitabile tensione con il principio dell’effettività della difesa tecnica».
17
Come, in tema di sequestri, hanno affermato, tra le tante, Cass., sez. V, 7 maggio 2003, n. 20271, in Cass. pen., 2005, 3, 920 e,
in precedenza, Cass., sez. V, 7 luglio 1999, n. 10478, in CED Cass. n. 214466.
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IL DICTUM: IL SOGGETTO GRAVATO DALL’ONERE DI IMMEDIATA RILEVAZIONE
Il Supremo Consesso propone una lettura chiarificatrice dell’art. 182, comma 2, c.p.p., soffermandosi
con dovizia sul sostantivo “parte”, presente nell’esordio della disposizione. Prima ancora di indagare il
regime temporale di rilevabilità della nullità, analizza dunque il dato preliminare, nell’intento di circoscrivere “l’ambito soggettivo” di operatività della norma.
Il Collegio offre un’esegesi di notevole portata generale, affermando che «per “parte” sulla quale
grava l’onere di eccepire una qualsiasi nullità deve intendersi solo il difensore (o il pubblico ministero),
e non l’indagato (né altra parte privata)»; quest’ultimo, infatti, è un soggetto che non possiede «le conoscenze tecnico-processuali idonee ad apprezzare la violazione di legge». Non a caso, egli è privo della
titolarità ad agire d’iniziativa nei frangenti procedimentali ove le «performances [sono] ad alto rilievo
tecnico» 18.
La precisazione 19, tuttavia, non esaurisce l’iter argomentativo di legittimità, fondato su una dissertazione accurata delle ragioni sostanziali sottese alla scelta. In primo luogo, è chiarito che la ratio delle disposizioni che prescrivono l’obbligo di fornire l’avviso di una qualche facoltà è quella di rendere edotto
un soggetto che, si presume, potrebbe non averne altrimenti contezza. Viene così affermato che, ogniqualvolta l’atto è funzionale a mettere l’interessato nelle condizioni di conoscere quali sono le sue prerogative (ad es. diritto all’assistenza difensiva), questi non può essere gravato dell’improbo compito di
rilevare un vizio di cui ignora in nuce l’esistenza: l’inerzia è incolpevole, perché dovuta all’assenza della
preventiva enunciazione della facoltà, cui l’atto omesso era invece preordinato.
Su altro versante, poi, gli ermellini ribadiscono che nel nostro ordinamento è la stessa impostazione
costituzionale a consacrare il primato della difesa tecnica rispetto all’autodifesa (art. 24 Cost.). Quest’ultima non è mai esclusiva, esplicandosi «solo in forme che si affiancano all’imprescindibile presenza di
un esperto di diritto abilitato alla professione legale» 20.
(SEGUE): IL TERMINE FINALE DI RILEVAZIONE DELLA PATOLOGIA
Una volta definiti i “contorni soggettivi”, il Collegio affronta la problematica connessa al limite temporale di rilevazione del vizio.
Escluso che sia il privato a dover censurare la violazione di legge, viene affermato che competente a
denunziarla è il legale, fermo restando che, se quest’ultimo non è presente al momento della genesi del
vizio, non potrà applicarsi l’art. 182, comma 2, primo periodo c.p.p., bensì la regola contenuta nell’art.
180 c.p.p. Difatti, solo se la parte assiste, vale il ridotto limite indicato dalla prima disposizione (prima o
immediatamente dopo il compimento dell’atto); negli altri casi, invece, vige quello stabilito dall’art. 180
c.p.p.
Superando il pregresso e composito quadro giurisprudenziale, le Sezioni Unite si assestano sulla posizione per cui, «nella fattispecie in esame o in qualunque altra ad essa assimilabile che dipenda dalla
mancata osservanza dell’art. 114 disp. att. c.p.p. (come in materia di perquisizioni e sequestri urgenti)»,
il termine finale di deducibilità della patologia è quello della deliberazione della sentenza di primo
grado. Né vi è spazio per ricostruzioni alternative, pure consolidatesi negli anni passati, tese ad anticipare, per il difensore, il limite di tempestività dell’eccezione al momento immediatamente successivo
alla sua nomina attraverso memorie 21, o alla scadenza del termine di cinque giorni dal deposito
dell’atto di indagine 22, o al compimento del primo atto successivo del procedimento 23.
18
In tema di autodifesa, F. Cordero, Procedura penale, Milano, 2012, p. 287.
19
Il massimo Consesso, peraltro, àncora tale opzione ermeneutica a pregresse pronunzie a Sezioni Unite ed, in particolare, a
Cass., sez. un., 16 luglio 2009, n. 39060, in Cass. pen., 2010, 119, in cui si era già evidenziato che una «componente essenziale del
concetto di “parte” deve essere individuata nel difensore».
20
Così Cass., sez VI, 13 dicembre 2001, n. 3927, in Arch. n. proc. pen., 2002, 298. In dottrina, sul dualismo difesa materialedifesa tecnica, v. D. Curtotti Nappi, voce Diritto di difesa, in Dig. disc. pen., Torino, 2005, p. 378.
21
V. nota 7.
22
V. nota 6.
23
V. note 12-13.
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Il merito della pronuncia in commento è l’aver superato la confusa impostazione accolta dalla pregressa giurisprudenza, che, pur concludendo che fosse il legale il soggetto tenuto alla rilevazione del
vizio, operava una sorta di fictio iuris, arrivando a sostenere l’operatività dell’art. 182, comma 2, primo
periodo, anche nell’ipotesi in cui il difensore non avesse assistito all’atto.
“UN EPILOGO” COSTITUZIONALMENTE ORIENTATO
Sebbene il dictum affronti temi processuali circoscritti allo svolgimento dell’esame alcoolimetrico, ha il
pregio di chiarire la portata di taluni valori fondamentali dell’ordinamento. Anzitutto, viene celebrato il
ruolo della difesa tecnica nel processo penale, ponendosi in luce il compito di garante della legalità del
patrocinatore e del suo patrimonio tecnico-giuridico, a presidio del corretto dispiegarsi dell’iter procedimentale 24. Risalta il valore dell’art. 24 Cost., per cui, in forza del principio iura novit curia, reus nescit,
l’imputato che non abbia contezza delle regole giuridiche ha bisogno di essere assistito da qualcuno che
le conosca, poiché la natura dialettica del processo vuole un duello ad armi eguali 25: «l’efficacia del contraddittorio implica parità di potenza nel contraddittorio» 26.
Si amplifica, di conseguenza, il carattere indisponibile della libertà personale (art. 13 Cost.), poiché la
gestione processuale non è lasciata nelle mani di uno sprovveduto, ma affidata alle cure del professionista. Del resto, è la stessa trama costituzionale che consacra, tra i compiti fondamentali della Repubblica, la preservazione dei diritti inviolabili dell’uomo, della libertà e della dignità, nella consapevolezza
che la loro realizzazione non può essere lasciata al governo dell’imputato 27.
Diversamente argomentando, la conclusione sarebbe irragionevole: ritenere sanato il vizio per la sua
mancata rilevazione da parte dell’indagato, anche nei casi di sua incolpevole inerzia, verrebbe a configurare un’eccessiva sanzione processuale. L’esito sarebbe abnorme, se si pensa che nell’area penale, secondo l’attuale concezione normativa della colpevolezza, la “rimproverabilità” della condotta è esclusa
nei casi di inevitabile ignoranza del precetto antigiuridico (art. 5 c.p., come integrato dalla sentenza costituzionale n. 364/1988 28).
Prima dell’intervento delle Sezioni Unite, invece, in talune pronunzie era stato predicato un “rimprovero processuale oggettivo” nei confronti del privato che, pur privo delle conoscenze tecniche idonee a rilevare l’error in procedendo, veniva lo stesso gravato dall’onere di denunziare la patologia 29.
L’opzione ermeneutica, fondandosi sulla presunzione di conoscenza della legge da parte dell’interessato, finiva col pretendere un’ingiustificata esigibilità dell’assolvimento dell’onere, con inevitabili ricadute sul diritto costituzionale di uguaglianza 30, in favore di chi, anche in via del tutto accidentale, avesse
cognizione della regola iuris. La pronuncia in commento, invece, ribadendo l’assoluta primazia della
difesa tecnica sull’autodifesa, si pone in una prospettiva costituzionalmente orientata, scongiurando
impalpabili criteri discretivi.
Né la soluzione prospettata appare limitata al solo alcooltest. Il criterio interpretativo offerto dalle
Sezioni Unite sembra collocarsi in una prospettiva di ampio respiro, al punto che ogni omissione del24
Si cfr. sul punto anche Cass., sez. II, 2 ottobre 2013, n. 40715, in Guida dir., 2013, 45, p. 71, che ha ribadito come nel nostro
sistema processuale non vi è spazio per l’autodifesa, nemmeno dopo la riforma concernente la “nuova disciplina
dell’ordinamento della professione forense” (L. 31 dicembre 2012, n. 247). In dottrina, si cfr. L. Carli, Le indagini preliminari nel
sistema processuale penale, Milano, 2005, p. 121-130: l’Autore evidenzia l’imprescindibile valore della difesa tecnica anche nella
fase investigativa, data la sua innegabile connotazione di giurisdizionalità.
25
G. Bellavista, voce Difesa giudiziaria penale, in Enc. dir., XII, Milano, 1964, p. 458.
26
F. Carnelutti, Principi del processo penale, Napoli, 1960, p. 46.
27
M. Scaparone, sub art. 24 Cost., in G. Branca (a cura di), Commentario della costituzione, Bologna, 1981, p. 91.
28
C. cost., 24 marzo 1988 n. 364, in Foro it., 1990, I, p. 415. Si cfr.no, sul punto, i rilievi critici di V. Di Masi, Diritto
dell’imputato all’assistenza del difensore, in Dir. pen. proc., 2009, p. 495.
29
Ad esempio, la recente Cass., sez. IV, 11 marzo 2014, n. 13999, cit.; v. anche Cass., sez. II, 15 novembre 1999, n. 5461, in
Cass. pen., 2001, p. 225, in cui veniva affermato l’onere dell’indagato di eccepire – prima dell’interrogatorio di garanzia – la carenza dell’avviso al legale, generandosi, in mancanza, la sanatoria ex art. 182 c.p.p. In ordine a tale ultima pronuncia, riserve critiche sono state evidenziate da R. Angeletti, Le invalidità in generale nelle prove e nei mezzi di prova, Torino, 2005, p. 81-83.
30
M. Paglia, Nota in materia di accertamenti tecnici non ripetibili, in Giur. it., 1997, p. 11, la quale, rilevando che «una presunzione di conoscenza delle situazioni processuali penali non esiste», palesa la possibilità di una declaratoria di incostituzionalità
dell’art. 182 c.p.p. per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., ove interpretato nel senso descritto.
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l’avviso del diritto all’assistenza difensiva in occasione di un atto urgente, ex artt. 354 c.p.p. e 114 disp.
att. c.p.p., dovrebbe essere rilevata dal difensore, l’unico a poter vantare il titolo di “parte” ai sensi
dell’art. 182 c.p.p.
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Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
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Sequestro conservativo anche in assenza di pericolo
di dispersione patrimoniale del debitore
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE, SENTENZA 11 DICEMBRE 2014, N. 51660 – PRES. REL. DE ROBERTO
Per l’adozione del sequestro conservativo è sufficiente che vi sia il fondato motivo per ritenere che manchino le
garanzie del credito, ossia che il patrimonio del debitore sia attualmente insufficiente per l’adempimento delle obbligazioni di cui all’art. 316, commi 1 e 2, c.p.p., non occorrendo invece che sia simultaneamente configurabile un
futuro depauperamento del debitore.
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza del 31 maggio 2014, il Tribunale di Genova, adito in sede di riesame, confermava
l’ordinanza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Chiavari che aveva disposto, su
istanza di Domenico Franzese e Rosalba Anoia, persone offese costituitesi parti civili nei confronti di
Giuseppe Zambito, il sequestro conservativo fino all’importo di euro 100.000 dei beni mobili ed immobili e dei crediti dell’imputato, cui erano stati contestati reati concernenti armi ed esplosivi nonché il
reato di danneggiamento aggravato, per aver commissionato al coindagato Berardi di procurarsi un ingente quantitativo di esplosivo allo scopo di far esplodere l’autovettura del Franzese, ufficiale di polizia
giudiziaria e cognato dello Zambito, arrecando gravissimi danni morali e materiali allo stesso Franzese
ed alla sua famiglia.
Rilevava il giudice del riesame, quanto al periculum in mora, contestato dallo Zambito, che esso può
derivare sia da una situazione che faccia apparire fondato un futuro depauperamento del patrimonio
del debitore sia da una situazione oggettiva e cioè dalla inadeguata consistenza del patrimonio del debitore in relazione all’entità del debito. E ciò perché l’art. 316 cod. proc. pen., diversamente dalla previsione dell’art. 671 cod. proc. civ., richiama la mancanza delle garanzie delle obbligazioni, oltre che la
possibilità di una dispersione delle garanzie stesse; così postulando, quale condizione per accedere alla
richiesta di tale misura cautelare l’inadeguatezza delle garanzie patrimoniali rispetto all’obbligazione,
in modo che debba venir ad esserne evitata la diminuzione.
Osservava ancora il Tribunale che l’imputato, pensionato, aveva una modesta capacità reddituale e
l’immobile sequestrato costituiva l’unico cespite di sua proprietà in grado di rappresentare la garanzia
per l’adempimento delle obbligazioni, tenuto anche conto della gravità dei fatti addebitati e della pluralità delle persone offese.
2. Ricorre per cassazione Giuseppe Zambito con atto sottoscritto dal suo difensore, avv. Fabio Maggiorelli, deducendo violazione dell’art. 316 cod. proc. pen. nonché mancanza e manifesta illogicità della
motivazione con riferimento al ritenuto periculum in mora.
Il ricorrente segnala, più in particolare, come la giurisprudenza più recente (di cui espone una
breve silloge) sia orientata verso la linea interpretativa in base alla quale per assentire il sequestro
conservativo non è sufficiente, come ritenuto dal giudice a quo, la mera incapienza patrimoniale, occorrendo, in ogni caso, il pericolo di dispersione della garanzia, il rischio, cioè, che la disponibilità del
bene possa venir meno per effetto di condotte di impoverimento, la cui incidenza può essere amplificata dalla modestia della consistenza patrimoniale del debitore.
Il ricorrente addebita inoltre all’ordinanza impugnata di essere silente sul punto relativo alla entità
del credito, comprensivo di interessi e spese, senza specificare le modalità di determinazione di detto
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importo, nonostante le critiche prospettate negli atti difensivi e, per di più, attestandosi su affermazioni
non argomentate quanto al danno non patrimoniale.
3. Il ricorso, assegnato alla Prima Sezione penale, è stato rimesso, ai sensi dell’art. 618 cod. proc.
pen., alle Sezioni Unite per la risoluzione del contrasto giurisprudenziale circa la nozione di periculum
in mora quale presupposto per disporre il sequestro conservativo, fermo restando il principio che le finalità perseguite dall’art. 316 cod. proc. pen. si incentrano nell’immobilizzazione del patrimonio dell’obbligato allo scopo di attuare così la piena e concreta tutela del danneggiato dal reato per il soddisfacimento del suo credito risarcitorio.
Dopo aver premesso che la contestazione da parte del ricorrente dell’entità della somma il cui pagamento la misura cautelare è destinata a garantire è formulata in termini assolutamente generici, che
ne impediscono la delibazione in sede di legittimità, l’ordinanza di rimessione osserva che, mentre, secondo una prima linea di tendenza il periculum in mora va valutato oltre che con riguardo all’entità del
credito anche con riferimento ad una situazione, almeno potenziale, desunta da elementi certi ed univoci, di depauperamento del patrimonio del debitore, da porsi in ulteriore relazione con la composizione del patrimonio stesso, con la capacità reddituale e con l’atteggiamento in concreto assunto dal
debitore medesimo, una seconda linea di tendenza, facendo leva sulla ratio dell’istituto e sulla formulazione letterale della norma, sostiene che il periculum in mora, quale presupposto per disporre il sequestro conservativo, può essere ravvisato, oltre che in presenza di una situazione che faccia ritenere
fondato un futuro depauperamento del debitore, anche quando sussista una condizione oggettiva di
inadeguata consistenza del suo patrimonio in rapporto all’entità del credito e indipendentemente da
un depauperamento allo stesso ascrivibile; non mancandosi in talune decisioni di segnalare come il rischio che la disponibilità del bene in capo al debitore possa annullarsi per effetto di condotte di impoverimento, può risultare amplificato dalla modestia della consistenza patrimoniale del debitore.
4. Il Primo Presidente, con decreto in data 23 maggio 2014, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite,
fissandone la trattazione per l’odierna udienza in camera di consiglio.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il quesito rimesso al vaglio delle Sezioni Unite concerne la nozione di periculum in mora ai fini della concessione del sequestro conservativo. E, più in particolare, se per assentire la misura cautelare reale
di cui all’art. 316 e segg. cod. proc. pen., sia richiesta una situazione che faccia ritenere la futura dispersione del patrimonio del debitore ovvero sia sufficiente una oggettiva inadeguatezza della garanzia patrimoniale in rapporto all’entità del credito.
2. Appare utile ricordare che il sequestro conservativo (esclusivamente su beni mobili), considerato
(al pari dell’ipoteca legale) dagli artt. 189, 190 e 192 cod. pen. (espressamente abrogati dall’art. 218 d.lgs.
28 luglio 1989, n. 271) e dall’art. 622 cod. proc. pen. 1930, un mezzo di garanzia patrimoniale per l’esecuzione, è divenuto nel sistema del codice del 1988 una misura cautelare reale che – è di rilievo precisarlo – si profila, con le necessarie differenziazioni derivanti dalla tipologia procedimentale entro cui la
pretesa viene fatta valere, come modulo pressoché analogo al sequestro conservativo civile, sia per la
funzione ad esso assegnata dalla legge, e cioè impedire la disponibilità anche giuridica della cosa rendendone inefficace l’eventuale alienazione sia per l’identità dello strumento di esecuzione, vale a dire, il
pignoramento.
L’art. 316 cod. proc. pen., dedicato ai «Presupposti ed effetti del provvedimento», definisce tali presupposti, tanto che essi si riferiscano all’iniziativa del pubblico ministero (legittimato a chiedere il sequestro conservativo al fine di garanzia per il pagamento della pena pecuniaria, delle spese del procedimento e di ogni altra somma dovuta all’erario dello Stato) tanto che essi si riferiscano all’iniziativa
della parte civile (legittimata a chiedere il sequestro conservativo al fine di garanzia per le obbligazioni
civili derivanti da reato), nel solo c.d. periculum in mora, vale a dire nel «fondato motivo di ritenere che
manchino o si disperdano le predette garanzie», che diviene così elemento necessitato della fattispecie
costitutiva del potere di disporre il sequestro conservativo penale.
La richiesta ora rammentata può proporsi in ogni stato e grado del processo di merito e, dunque (a
differenza di quanto si verifica in tema di sequestro conservativo richiesto nel procedimento civile),
prescinde dal fumus de/icti (che è insito nella fase in cui il provvedimento può essere richiesto). Per effetto del sequestro assentito (e qui è da ravvisare un effetto esclusivo del sequestro conservativo penale) i
crediti sopra indicati si considerano privilegiati rispetto ad ogni altro credito non privilegiato di data
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anteriore ai crediti sorti posteriormente, salvi, in ogni caso, i privilegi stabiliti a garanzia del pagamento
dei tributi.
3. Nonostante la (almeno apparente) chiarezza della disposizione di apertura dell’art. 316 cod. proc.
pen. («Quando si ha fondato motivo di ritenere che manchino o si disperdano le garanzie del credito»,
condizione, l’una riferentesi a una situazione “statica”, l’altra ad una situazione “dinamica”), l’ordinanza di rimessione ha segnalato l’esistenza, nella giurisprudenza di legittimità, di un contrasto interpretativo in ordine alla ricorrenza del presupposto, il cui apprezzamento – va precisato – non deve essere determinato come prognosi funzionale all’esecuzione forzata, ma va individuato sulla base di un pregiudizio attuale, che è potenzialmente orientato verso il futuro, per il rischio che all’esito del processo la
garanzia del credito non possa trovare soddisfazione con il patrimonio del debitore.
Per una prima linea di tendenza, il periculum in mora va valutato, oltre che con riguardo all’entità del
credito, anche con riferimento ad una situazione, almeno potenziale, desunta da elementi certi ed univoci, di depauperamento del patrimonio del debitore, da porsi in ulteriore relazione con la composizione del patrimonio stesso, con la capacità reddituale e con l’atteggiamento in concreto assunto dal debitore medesimo; una diversa linea interpretativa ritiene, invece, che anche quando sussista una condizione oggettiva di inadeguata consistenza del patrimonio del debitore in rapporto all’entità del credito,
e indipendentemente da un depauperamento allo stesso ascrivibile, è ravvisabile il periculum in mora.
4. È necessario altresì precisare come le linee interpretative ora ricordate devono comunque essere
modulate considerando le diverse fattispecie, di volta in volta sottoposte all’esame della Corte di cassazione, che, per taluni versi, comprovano l’esistenza di un sincretismo interpretativo talora con scelte
ermeneutiche direttamente collegate alla specifica situazione di fatto; con in più il rilievo che di frequente i principi di diritto di volta in volta enunciati appaiono più che la soluzione necessitata del caso
sottoposto al vaglio di legittimità, la descrizione delle coordinate che, sullo schema delineato dall’art.
316 cod. proc. pen., delimitano i presupposti per I’ adozione del provvedimento richiesto.
Il rilievo appare indispensabile per pervenire ad un rigoroso risultato ermeneutico, che diviene tale
solo nel caso in cui sia possibile individuare le effettive linee di tendenza ricavabili dagli enunciati giurisprudenziali; le cui posizioni di contrasto – è opportuno subito riconoscerlo – paiono enfatizzate dalla
stessa ordinanza di rimessione, considerando che il principio di diritto nei singoli casi affermato dalle
decisioni indicate per comprovare il conflitto interpretativo è sempre riferibile ad una situazione di fatto scrutinata in base ai concreti presupposti posti a base del provvedimento che dispone la misura o che
ritiene insussistente il presupposto per la sua adozione tanto da pronunciare un provvedimento negativo. Del resto – come si vedrà fra poco – le condizioni perché venga in essere il presupposto sono in modo così chiaro indicate dal legislatore, nella "mancanza", intesa come insufficienza o inadeguatezza
del patrimonio del debitore, o nella "dispersione", per effetto di cause tanto di ordine oggettivo (ad
esempio, la deperibilità del bene, una situazione forse, con maggior rigore, accostabile alla prima)
quanto di ordine soggettivo, dipendenti cioè dal contegno del debitore il cui patrimonio corra il rischio di dissolversi, pure se non necessariamente al deliberato fine di sottrarlo alla garanzia per
l’obbligazione ex delicto.
5. La giurisprudenza che sembra condividere la tesi, per così dire, "restrittiva" solo di rado pare dare
una giustificazione alle sue prese di posizione che trascenda dalla situazione di fatto contrassegnata dal
sicuro rapporto di rispondenza del patrimonio rispetto al credito ex delicto, secondo il modello normativo ricavabile in via generale dall’art. 2740 cod. civ. (una norma – è utile ribadirlo – riferibile ad ogni
tipologia di obbligazione, da qualsivoglia fonte provenga). Talune decisioni si limitano ad affermare
che la valutazione del rischio potenziale di perdita delle garanzie del credito deve essere ancorata a
concreti e specifici elementi che riguardano l’entità del credito (un dato che, va detto per inciso, appare
pacifico pressoché in tutte le decisioni di legittimità e che diviene dirimente anche al fine di determinare l’altro termine del raffronto) ed il bene oggetto di sequestro, sùbito inserendo la situazione di possibile depauperamento del patrimonio del debitore, da porsi in relazione con la composizione del patrimonio stesso, con la capacità reddituale e con l’atteggiamento assunto dal debitore medesimo (Sez. 1, n.
2128 del 02/04/1996, Fedele, Rv. 209599). Tanto che la soluzione appare talmente scontata da non poter
essere messa neppure in discussione; e la decisione del giudice di merito viene annullata perché non fa
cenno alcuno alla situazione patrimoniale dell’imputato ed al suo comportamento in concreto assunto
(una proposizione, quella ora ricordata, che lascerebbe intendere che la situazione patrimoniale costituisca il presupposto di base per verificare il periculum). La stessa metodologia pare emergere da altra
decisione che – a parte le considerazioni circa la dispersione del patrimonio – sembra ritenere esponen AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SEQUESTRO CONSERVATIVO
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ziale la circostanza che il valore dell’immobile – al quale insistentemente il soggetto destinatario del sequestro fa riferimento – non sia ritenuto insufficiente; precisandosi, ma con l’utilizzo di un criterio sussidiario, che non erano stati addotti elementi concreti per indurre a ritenere atti di diposizione del patrimonio. Anche qui, pare che l’atto di dispersione risulti, in fondo, emarginato dalla mancata risposta
da parte del giudice di merito sulla effettiva consistenza del patrimonio del debitore (Sez. 4, n. 111 del
26/10/ 2005, Pampo, Rv. 232624). Non sfugge ad una simile linea di tendenza, un’altra decisione, la
quale, ribadito che, ai fini del periculum in mora, debba aversi riguardo all’entità del credito, alla natura del bene oggetto del sequestro e alla situazione del debitore, finisce per riconoscere, utilizzando
la medesima linea interpretativa, che con il periculum in mora nel caso di mancanza delle garanzie la
legge si riferisce sia a circostanze indipendenti dalla volontà del debitore e, quindi, dal suo comportamento (garanzie che "manchino") sia a vicende più strettamente addebitabili alla persona ed all’attività di quest’ultimo (garanzie che "si disperdano") (Sez. 4, n. 44809 del 22/10/ 2013, Gianferrini,
Rv. 256768).
In altre pronunce, pur affermandosi la necessità del pericolo di dispersione, si assegna natura esponenziale alla consistenza patrimoniale del debitore valutata in relazione all’entità del credito, in un caso in
cui il patrimonio del debitore risultava costituito unicamente da una somma in deposito vincolato su conto corrente, agevolmente soggetto al pericolo concreto di dispersione (Sez. 2, n. 12907 del 14/02/2007,
Borra, Rv. 236387). Ancora, con opportuno richiamo alla giurisprudenza civile, una decisione della
Quinta Sezione, dopo aver premesso che l’art. 316 cod. proc. pen. affida la legittimità dell’esercizio del
potere cautelare ad una prognosi di perdita della garanzia, rappresentata dal patrimonio dell’imputatodebitore, indicando elementi sintomatici del fondato timore di perdere la garanzia stessa (ad es., la consistenza patrimoniale anche sotto il profilo quantitativo in rapporto al valore del credito, nonché manifestazioni di scorrettezza e slealtà patrimoniali), ha affermato, però, perentoriamente, che anche quando
le garanzie per le obbligazioni civili appaiano ab initio del tutto insufficienti o addirittura mancanti, in
relazione alla consistenza ed alla situazione patrimoniale dell’imputato, pure a prescindere dal concreto
pericolo di dispersione, sussiste il periculum (Sez. 5, n. 14254 del 20/02/2008, Tonna, n.m.; Sez. 5, n. 7481
del 27/01/2012, A., Rv. 249607). Sulla stessa linea, premesso che l’art. 316 cod. proc. pen. richiede, ai fini del sequestro conservativo, un unico requisito che riecheggia quello richiesto dall’art. 671 cod. proc.
civ., si precisa che, nonostante l’apparente contrasto interpretativo, la giurisprudenza ha individuato il
periculum in mora in un negativo giudizio prognostico che faccia ritenere che le garanzie (presenti al
momento della decisione sul sequestro) possano in futuro venire a mancare o essere disperse, con ciò la
legge riferendosi sia ad eventi indipendenti dalla volontà e, quindi, dal comportamento del debitore
(nel caso in cui le garanzie manchino) sia a comportamenti ascrivibili al debitore (garanzie che si disperdano) profilandosi le due situazioni come profondamente diversificate (Sez. 2, n. 6973 del
26/01/2011, Grossi, Rv. 249663), tanto da considerarle – almeno dal contesto della decisione – come, di
norma, non sovrapponibili.
6. Dall’esame delle decisioni sopra ricordate, emerge allora che il contrasto giurisprudenziale – nonostante l’esistenza di talune decisioni che affermano l’imprescindibilità del pericolo di dispersione
quale presupposto necessario del sequestro conservativo penale (così, Sez. 4, n. 707 del 17/05/1994,
Corti, Rv. 198682) – sia più apparente che reale.
Così o si è in presenza di fattispecie in cui il principio di diritto resta ampiamente condizionato da
una concreta situazione di fatto che non esclude l’operatività del solo primo presupposto (Sez. 4, n.
2128 del 02/04/1996, Rv 204414), o è pure l’entità del credito a rendere illegittima la cautela (Sez. 5, n.
13284 del 02/02/2011, Rv. 250209, Frustaci), ovvero ci si trova di fronte ad una situazione nella quale la
cumulabilità tra i due presupposti non è affatto riconosciuta, venendo in considerazione, per giunta in
sede di rinvio, il solo pericolo di dispersione (Sez. 6, n. 20923 del 15/03/2012, Lombardi, Rv. 252685).
Tanto che pressoché tutte le pronunce della Corte risultando conformi alla linea interpretativa nel senso
che è presente il periculum in mora, non solo quando si disperdano ma anche quando manchino le garanzie delle obbligazioni nascenti da reato (Sez. 2, n. 12907 del 2007, Borra, cit.). Al principio secondo
cui il periculum in mora può essere ravvisato sia in elementi oggettivi concernenti la capacità patrimoniale del debitore in rapporto all’entità del credito sia in elementi soggettivi, rappresentati dal comportamento del debitore (Sez. 5, n. 14254 del 2008, Tonna, cit.; Sez. 5, n. 7481 del 2011, A., cit.; Sez. 2, n. 6973
del 2011, Grossi, cit.; Sez. 6, n. 248819 del 26/11/2010, Cesaroni, Rv 24819; Sez. 6, n. 26486 del
6/05/2010, Barbieri, Rv. 247999), risulta, dunque, essere attestata, in base ad un vaglio più approfondito rigorosamente riferito alle effettive situazioni di fatto, la giurisprudenza di legittimità. Tutto ciò, pe AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SEQUESTRO CONSERVATIVO
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raltro, secondo l’univoca lettera dell’art. 316 cod. proc. pen. e la finalità di garanzia del credito posta a
base dalla legge, che non può realizzarsi prescindendo anche da una situazione statica che renda impossibile, in base alla situazione di fatto esistente al momento della cautela, la realizzazione del credito
all’esito del giudizio.
Può dirsi, quindi, come rilevato da autorevole dottrina, che le garanzie mancano quando sussista la
certezza, allo stato, dell’attuale inettitudine del patrimonio del debitore a far fronte interamente all’obbligazione nel suo ammontare presumibilmente accertato; si disperdono, quando l’atteggiamento assunto dal debitore è tale da far desumere l’eventualità di un depauperamento di un patrimonio attualmente sufficiente ad assicurare la garanzia a causa di un comportamento del debitore idoneo a non
adempiere l’obbligazione. I due eventi, come chiaramente espresso dall’art. 316, con la formula disgiuntiva rilevano (o possono rilevare) autonomamente.
7. La linea interpretativa sopra ricordata appare del tutto conforme, del resto, a quella seguita dalla
giurisprudenza civile nell’interpretazione dell’art. 671 cod. proc. civ., in base al quale il giudice, su
istanza del creditore che ha fondato timore di perdere le garanzie del credito, può autorizzare il sequestro conservativo di beni mobili o immobili del debitore o delle cose a lui dovute, nei limiti in cui la legge ne consente il pignoramento. Le Sezioni civili di questa Corte hanno sempre ritenuto che l’espressione “perdere la garanzia” vada intesa nel senso che, nel convalidare il sequestro conservativo, il giudice
di merito può fare riferimento a criteri oggettivi, rappresentati dalla capacità patrimoniale in relazione
all’entità del credito, o a criteri soggettivi rappresentati dal comportamento del debitore, il quale lasci
fondatamente temere atti di depauperamento del patrimonio; con l’unico obbligo di motivare adeguatamente il suo convincimento. È sufficiente richiamare al proposito Sez. 3 civ., n. 2081 del 31/2/2002,
Rv. 552250, e, nello stesso senso, Sez. 3 civ., n. 2139 del 26/2/1998, Rv. 513090, la quale, premesso che,
nel confermare il provvedimento di sequestro conservativo il giudice del merito può fare riferimento
alternativamente o a criteri oggettivi (rappresentati dalla capacità patrimoniale del debitore in relazione
alla entità del credito), o a comportamenti del debitore (il quale il quale lasci fondatamente ritenere atti
di depauperamento del patrimonio), non essendo necessario che tali elementi siano simultaneamente
compresenti, conclude che correttamente la sentenza impugnata ha ritenuto sufficiente per la convalida
del sequestro la mancanza nel patrimonio del debitore di altri beni oltre l’immobile venduto (analogamente, ex plurimis, Sez. 3 civ., n. 3563 del 16/04/1996, Rv. 497062; Sez. 3 civ., n. 6460 del 17/07/1996,
Rv. 498604).
L’indirizzo interpretativo ora ricordato appare sotto certi aspetti davvero dirimente, solo considerando sia la lettera dell’art. 671 cod. proc. civ. sia la ratio che ne è alla base; in un assetto che può dirsi
quasi sovrapponibile sia sul piano strutturale (se si eccettui il fumus) sia sul piano funzionale alla disposizione dell’art. 316 cod. proc. pen., e che appare speculare rispetto alla intentio legis che ha trasformato
il regime di garanzia patrimoniale (anche per la parte civile) sistemandolo tra le misure cautelari reali.
8. Ai sensi dell’art. 618 cod. proc. pen., deve dunque, essere affermato il seguente principio di diritto:
“Al fine di disporre il sequestro conservativo, è necessario e sufficiente che vi sia il fondato motivo di
ritenere che manchino le garanzie del credito; vale a dire che il patrimonio del debitore sia attualmente
insufficiente per l’adempimento delle obbligazioni di cui all’art. 316, commi 1 e 2, cod. proc pen”.
9. Poste tale premesse, l’ordinanza impugnata appare immune da qualsiasi censura, avendo il giudice a quo, con giudizio di fatto ineccepibile in questa sede, ampiamente argomentato sia in ordine
all’entità del credito vantato dalle "numerose" parti civili in conseguenza delle gravi condotte realizzate
dallo Zambito sia con riferimento alla mancanza di ulteriore garanzia oltre l’immobile sequestrato costituente l’unico cespite di proprietà dell’imputato in grado di rappresentare la garanzia per l’adempimento delle sue obbligazioni.
10. Il ricorso deve, quindi, essere rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento
delle spese processuali.
[Omissis]
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SEQUESTRO CONSERVATIVO
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MARTINO ROSATI
Magistrato – Tribunale di Taranto
Il “periculum in mora” nel sequestro conservativo penale: finalmente intervengono le Sezioni Unite
The “periculum in mora” in the preventive attachment: finally the
joint session of the supreme court of cassation attends
Le Sezioni unite penali della Corte di cassazione chiariscono: per disporre il sequestro conservativo, può bastare
l’insufficienza attuale del patrimonio del debitore ai fini dell’adempimento delle obbligazioni previste dall’art. 316,
commi 1 e 2, c.p.p., ed in relazione all’entità delle medesime; mentre non è necessaria la sussistenza di situazioni
tali da far prevedere la futura dispersione di quella garanzia patrimoniale. A questo risultato interpretativo, la Corte
giunge attraverso un triplice percorso: valorizzando il dato testuale della norma; richiamandone gli antecedenti
normativi, ovvero le previsioni dei codici penale e di procedura penale del 1930; nonché ponendo in risalto la simmetria funzionale di tal specie di sequestro con l’omologo istituto previsto dal codice di procedura civile. E
l’approdo interpretativo della Corte appare convincente sotto il profilo giuridico, ma anche coerente con la tendenza al progressivo ampliamento della repressione penale di tipo patrimoniale, oltre che con l’esigenza, sempre più
avvertita, di una più efficace tutela della vittima del reato.
The criminal joint session of the Supreme Court of Cassation clarifies: actual inadequacy of debtor’s assets is
enough in order to enforce a preventive attachment, for the purpose of compliance with obligations provided from
section 1 and 2 of art. 316 of the Italian Code of Criminal Procedure, and in relation to the extent of the abovementioned; whereas the subsistence of situations which could lead to a future dispersion of the property collateral is not necessary. The Court comes to this interpretative outcome by means of a three-fold path: enhancing
the textual component of the norm; recalling from it the prescriptive antecedents, that is the provisions of the
criminal and criminal procedure codes of 1930; as well as highlighting the functional symmetry of this kind of attachment with the corresponding institution foreseen by the Code of Civil Procedure. The interpretative outcome
of the Court seems convincing from a legal point of view, but also consistent with the inclination towards a progressive expansion of prosecution regarding property, besides the increasingly perceived necessity of a more efficient legal protection for the crime victim.
PREMESSA
Nella camera di consiglio del 25 settembre 2014, le Sezioni Unite della Cassazione – con due distinte
sentenze, peraltro redatte dal medesimo estensore nonché presidente del collegio – hanno concentrato
la loro attenzione su quella che, se si ha riguardo alla frequenza del suo utilizzo, e quindi al mero dato
quantitativo, sembrerebbe essere la “Cenerentola” delle misure cautelari reali (soprattutto a seguito della sempre maggiore diffusione del sequestro preventivo, strumentale alle varie forme di confisca c.d.
“di valore”, progressivamente introdotte nella legislazione penale italiana): il riferimento, evidentemente, è al sequestro conservativo, di cui agli artt. 316 ss. c.p.p. 1.
1
Per un inquadramento dell’istituto, cfr. U. Dinacci, Il sequestro conservativo nel nuovo processo penale, Padova, 1990; N. Galantini, Sequestro conservativo penale, in Enc. dir., vol. XLII, Milano, 1990, p. 134 ss.; P. Gualtieri, Sequestro conservativo, in A. Scalfati (a
cura di), Prove e misure cautelari, II, t. 2, (Trattato di procedura penale diretto da G. Spangher), Torino, 2009, p. 343 ss.; M. Montagna, I
sequestri nel sistema delle cautele penali, Padova, 2005, p. 55 ss; Id., Sequestro conservativo penale, in Dig. pen., XIII, Torino, 1997, p.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IL “PERICULUM IN MORA” NEL SEQUESTRO CONSERVATIVO PENALE
Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
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Con la prima decisione, la Corte ha affrontato una questione tipicamente di rito: quella della legittimazione o meno della parte civile a ricorrere per cassazione avverso l’ordinanza del tribunale del riesame che abbia annullato o revocato il sequestro disposto in favore di essa 2; con la seconda pronuncia –
depositata lo scorso 11 dicembre e qui oggetto di approfondimento – ha, invece, tracciato il perimetro
del principale (anzi, per essa, addirittura unico) presupposto normativo di applicabilità della misura: il
“periculum in mora”.
LA VICENDA PROCESSUALE E L’ORDINANZA DI RIMESSIONE
La prima sezione penale della Corte era stata investita del ricorso di un imputato per reati in materia di
esplosivi e danneggiamento avverso un’ordinanza del tribunale del riesame di Genova, che aveva confermato il sequestro conservativo disposto in suo danno ed in favore della parte civile, ritenendo presupposto sufficiente, a tal fine, l’oggettiva inadeguatezza della consistenza del patrimonio del debitore
in rapporto all’entità del credito. Nella specie, si trattava di un imputato pensionato con una modesta
capacità reddituale e la misura aveva attinto un immobile, ritenuto unico bene che potesse fungere da
garanzia patrimoniale, tenuto conto della significativa entità del credito da reato, in ragione della gravità dei fatti contestati e della pluralità delle persone offese.
Il ricorrente, dal canto suo, aveva lamentato come il tribunale del riesame avesse del tutto pretermesso di valutare, oltre alla consistenza del patrimonio ed alla capacità reddituale dell’imputato, anche
il comportamento da questi assunto nelle more: dal quale – si assumeva – avrebbe potuto e dovuto inferire l’assenza di un pericolo di dispersione delle garanzie patrimoniali, da intendersi quale situazione,
almeno potenziale e desunta da elementi certi ed univoci, di depauperamento del patrimonio del debitore.
Nell’ordinanza di rimessione 3, il collegio aveva quindi rilevato che, se non v’era discussione in ordine alla finalità del sequestro conservativo, consistente nell’immobilizzazione del patrimonio
dell’obbligato, così da attuare la piena e concreta tutela del danneggiato dal reato per il soddisfacimento del suo credito risarcitorio, altrettanta omogeneità di vedute non si registrava, tra i giudici di legittimità, con riferimento al presupposto di applicabilità della misura.
Secondo numerose pronunce, infatti, il “periculum in mora” andava valutato, oltre che con riguardo
all’entità del credito del richiedente, anche – come sosteneva la difesa del ricorrente – con riferimento
ad una situazione, almeno potenziale, desunta da elementi certi ed univoci, di depauperamento del patrimonio del debitore, da porsi in ulteriore relazione con la composizione del patrimonio stesso, con la
capacità reddituale e con l’atteggiamento in concreto assunto dal debitore medesimo.
Per altre, invece, alle quali aveva ritenuto di conformarsi il tribunale del riesame, tale “periculum” sarebbe stato ravvisabile anche soltanto in presenza di una condizione oggettiva di inadeguata consistenza del patrimonio del debitore, in rapporto all’entità del credito.
Inoltre – evidenziava il giudice remittente – non erano mancate sentenze di segno intermedio, le
quali avevano evidenziato come il rischio di dissolvimento della garanzia patrimoniale, per effetto di
condotte di impoverimento tenute dal debitore, risultasse amplificato dalla modestia della consistenza
del suo patrimonio.
IL CONTRASTO DI GIURISPRUDENZA
Prima di dettare le coordinate per la risoluzione del dubbio interpretativo loro rimesso, le Sezioni Unite
hanno tenuto a significare che le posizioni di contrasto «paiono enfatizzate dalla stessa ordinanza di
rimessione», al punto che la denunciata divergenza di giurisprudenza finisce per essere «più apparente
che reale». Infatti – hanno spiegato – le diverse linee interpretative evidenziate «devono comunque essere modulate considerando le diverse fattispecie, di volta in volta sottoposte all’esame della Corte»,
216 ss.; C. Pansini, sub artt. 316-320 c.p.p., in Giarda-Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, II, Milano, 2010,
p. 3813 ss.
2
Cass., sez. un., 25 settembre 2014, n. 47999, in CED Cass. n. 260895.
3
Cfr. Cass., sez. I, 16 dicembre 2013, n. 20713.
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che, per taluni versi, «comprovano l’esistenza di un sincretismo interpretativo, talora con scelte ermeneutiche direttamente collegate alla specifica situazione di fatto». Insomma, quella disparità di statuizioni deriverebbe, più che da una diversa ed inconciliabile esegesi del dato normativo, dalla necessità
di adattare quest’ultimo alle peculiarità delle singole e specifiche vicende devolute allo scrutinio dei vari collegi.
Una simile affermazione, però, non può essere condivisa. Invero, a leggere le motivazioni delle numerose sentenze citate sia nell’ordinanza di rimessione che nella sentenza delle Sezioni Unite, quale
espressione dell’uno o dell’altro orientamento, il conflitto, almeno tra alcune di esse, si rivela tutt’altro
che specioso.
In un caso, ad esempio, annullando un sequestro disposto sulla base della rilevata insufficienza assoluta del patrimonio dell’imputato a garantire le proprie obbligazioni ex delicto maturate verso
l’Erario, la Corte aveva espressamente affermato che il “periculum in mora” «deve essere concreto e va,
pertanto, ritenuto in base a circostanze di fatto riferibili tanto alla consistenza patrimoniale dell’imputato, quanto alla sua condotta processuale o extraprocessuale, dalle quali sia possibile desumere, secondo la regola dell’”id quod plerumque accidit”, l’eventualità di un depauperamento del patrimonio
medesimo o l’intenzione del soggetto di sottrarsi all’adempimento del credito». E, muovendo da tale
premessa, aveva posto in rilievo come la misura applicata «si ponesse anche in contrasto con il riconosciuto “corretto comportamento processuale” dell’imputato» 4.
Analogamente, questa volta in relazione ad un sequestro conservativo disposto in favore di una parte civile, altra sentenza aveva censurato il giudice territoriale, per non aver addotto «elementi concreti
tali da indurre a ritenere fondatamente già “in itinere” (o di imminente attuazione) atti di dispersione
del patrimonio», e, dunque, per aver disposto il sequestro «senza il benché minimo accenno ad una
condotta, processuale o extraprocessuale», dell’imputato, «da cui poter desumere, secondo la regola
dell’id quod plerumque accidit, l’eventualità di una dispersione del suo patrimonio o la sua intenzione di
sottrarsi all’adempimento del credito» 5.
E la decisiva rilevanza del comportamento post delictum del debitore, ai fini della sussistenza o meno
del “periculum in mora” e, quindi, della legittimità del vincolo cautelare, emerge nitidamente anche nelle
affermazioni di altra pronuncia, con cui la Corte aveva censurato il giudice di merito, per aver «solo fatto riferimento a comportamenti fraudolenti del ricorrente che si dicono indicati nel decreto che dispone
il giudizio, senza ulteriore specificazione e valutazione critica e senza, per di più, tenere conto che gli
elementi per il rinvio a giudizio attengono in linea di principio alla fattispecie di reato in contestazione
e non, necessariamente, al comportamento che l’indagato-imputato possa avere tenuto dopo la consumazione del reato, relativamente al proprio patrimonio» 6.
Di segno del tutto diverso appaiono, allora, quelle sentenze per le quali, invece, «il “periculum in mora” può essere integrato anche dalla condizione di inadeguatezza del patrimonio dell’imputato rispetto
all’ammontare delle pretese creditorie, indipendentemente da un depauperamento allo stesso ascrivibile» 7. E la distanza di tale lettura, rispetto a quella proposta dalle pronunce precedentemente citate, si
coglie all’evidenza, allorché si leggano le motivazioni di tali decisioni.
«Il periculum – scrive la Cassazione – consiste dunque, tradizionalmente, nell’obiettivo e non apparente (“vi è fondata ragione”) timore di una insufficienza – iniziale ovvero sopravvenuta – del patrimonio dell’imputato (o del responsabile civile) rispetto alle obbligazioni nascenti dal reato (…). Due sono i
modi attraverso cui può manifestarsi il pericolo: a) la mancanza (anche relativa, assorbendo tale nozione quelle di inadeguatezza o insufficienza) dell’oggetto della garanzia patrimoniale; b) il rischio di sua
dispersione. In entrambi i casi l’accertamento deve vertere su un confronto tra l’entità del patrimonio
del debitore o del responsabile civile – iniziale ovvero a seguito della sua possibile erosione – e l’insieme delle ragioni creditorie gravanti sul medesimo. Coerentemente alle finalità della misura l’insorgenza dell’esigenza cautelare può di conseguenza (come avverte autorevole dottrina) essere ravvisata:
a) in relazione all’inadeguatezza del patrimonio dell’imputato rispetto all’ammontare dei crediti da rea-
4
Cass., sez. III, 30 aprile 2009, n. 26559, in CED Cass. n. 244371.
5
Cass., sez. IV, 26 ottobre 2005, n. 111, in CED Cass. n. 232624.
6
Cass., sez. V, 16 febbraio 2010, n. 11291, in CED Cass. n. 246367.
7
Così, tra le altre, Cass., sez. VI, 26 novembre 2010, n. 43660, in CED Cass. n. 248819; Cass., sez. VI, 6 maggio 2010, n. 26486,
in CED Cass. n. 247999; Cass., sez. V, 26 settembre 2008, n. 43246, in CED Cass. n. 241933.
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to e alla conseguente necessità di costituire un privilegio a favore dei creditori privati; a1) in relazione,
in alternativa, all’insufficienza di quel medesimo patrimonio nei riguardi di una più vasta massa di
creditori e alla necessità perciò di costituire un privilegio a favore dei crediti da reato; ovvero b) quando
sorga un rischio di diminuzione – dispersione delle garanzie patrimoniali, capace di determinare, in riferimento ai medesimi parametri indicati sub a e sub a1, l’esigenza di un vincolo reale idoneo ad assicurarne la conservazione» (nella fattispecie, quindi, la Corte aveva confermato un sequestro disposto in
favore di una curatela fallimentare costituita parte civile, evidenziando: l’imponenza del passivo fallimentare e, dunque, l’obiettiva insufficienza di quello stesso patrimonio a soddisfare tutti i creditori; la
scarsa consistenza del patrimonio di tutti i coimputati e coobbligati; e, solo in ultima battuta, la scarsa
affidabilità dell’imputato, già per la sola natura distrattiva degli illeciti a lui addebitati) 8.
Se questi, dunque, sono gli asserti, non sembra si possa negare che il contrasto di giurisprudenza
esistesse e che sia stato, anzi, tanto profondo quanto perdurante nel tempo.
Ad una prima fase, infatti, in cui è prevalsa la tesi che privilegiava l’aspetto c.d. dinamico del “pericolo
di dispersione” delle garanzie patrimoniali, è seguito il progressivo affermarsi di quella che valorizzava,
quale presupposto alternativo al primo nonché di per sé sufficiente ai fini dell’adozione del vincolo, il
dato statico della “mancanza” originaria di tali garanzie. La breccia, in tal direzione, è stata aperta dalla
V sezione, con la sentenza 18 giugno 2004 9, n. 30326, seguita da numerose pronunce successive, oltre a
quelle già dianzi citate. Tale indirizzo interpretativo non è però riuscito ad affermarsi, poiché altrettanto consistenti sono state, in tempi recenti, le decisioni ascrivibili a quello con esso in conflitto 10.
Si è trattato, dunque, di un contrasto che non solo ha visto coinvolte pressoché tutte le sezioni semplici del giudice di legittimità, ma che, in qualche caso, si è manifestato anche all’interno delle singole
sezioni e, addirittura, pure tra sentenze redatte dal medesimo magistrato 11. Un contrasto, dunque, talmente tenace, da essersi trascinato finanche nelle more tra la camera di consiglio delle Sezioni Unite ed
il deposito della relativa motivazione, ed addirittura pure dopo di questa (sebbene – sembrerebbe – più
per una mancata conoscenza della devoluzione della relativa questione al supremo collegio, che per
una ragionata presa di posizione critica verso la tesi avversa) 12.
Così tracciati i confini di tale contrasto di giurisprudenza, piuttosto che la dimensione apparente dello stesso, ritenuta dalla Sezioni Unite, balza agli occhi l’assenza, in quasi tutte le sentenze esaminate, di
una confutazione critica della tesi avversa, rinvenendosi, al più, l’indicazione delle ragioni a sostegno
dell’interpretazione fatta propria, se non, addirittura, il semplice richiamo recettizio ai precedenti conformi, presentati, di volta in volta, come espressione di giurisprudenza «prevalente» o persino «consolidata», quando invece – come s’è visto – così non era.
LA DECISIONE DELLE SEZIONI UNITE
Alle Sezioni Unite è stato chiesto, quindi, di stabilire «se, per assentire la misura cautelare reale di cui
all’art. 316 ss. c.p.p., sia richiesta una situazione che faccia ritenere la futura dispersione del patrimonio
del debitore ovvero sia sufficiente una oggettiva inadeguatezza della garanzia patrimoniale in rapporto
all’entità del credito».
8
In questi termini, in particolare, Cass., sez. V, 26 settembre 2008, n. 43246, cit., pedissequamente richiamata da Cass., sez.
VI, 26 novembre 2010, n. 43660, cit.
9
Cass., sez. V, 18 giugno 2004, n. 30326, in CED Cass. n. 229123.
10
Per la prima tesi, cfr. Cass., sez. II, 21 settembre 2012, n. 44148, in CED Cass. n. 254340; Cass., sez. VI, 15 marzo 2012, n.
20923, in CED Cass. n. 252865; Cass., sez. V, 16 febbraio 2010, n. 11291, cit.; Cass., sez. III, 30 aprile 2009, n. 26559, cit.; Cass., sez.
IV, 26 ottobre 2005, n. 111, cit.; Cass., sez. II, 13 novembre 1997, n. 6216, in CED Cass. n. 209599; Cass., sez. IV, 17 maggio 1994, n.
707, in CED Cass. n. 198682; Cass., sez. I, 2 aprile 1996, n. 2128, in CED Cass. n. 204414.
Per la tesi contrapposta, v., invece, Cass., sez. IV, 22 ottobre 2013, n. 44809, in CED Cass.,n. 256768; Cass., sez. V, 27 gennaio
2011, n. 7481, in CED Cass. n. 249607; Cass., sez. II, 14 febbraio 2007, n. 12907, in CED Cass. n. 236387.
11
Cfr. Cass., sez. VI, 15 marzo 2012, n. 20923, cit.; Cass., sez. VI, 6 maggio 2010, n. 26486, cit.
12
Cass., sez. II, 2.10.2014, n. 44196 e Cass., sez. VI, 7 gennaio 2015, n. 14065, depositate, rispettivamente il 23 ottobre 2014 ed
il 7 aprile 2015, sono rimaste ferme alla tesi disattesa dalla decisione in commento; in senso conforme a questa, invece, si è
espressa Cass., sez. V, 13 novembre 2014, n. 1259, depositata il 13 gennaio 2015; in nessuna delle tre, tuttavia, si rinviene un riferimento alla pronuncia delle Sezioni Unite (tali sentenze si possono leggere nella banca dati telematica “DeJure”, Giuffrè).
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E, all’esito di una motivazione asciutta ed essenziale, esse sono pervenute all’enunciazione del seguente principio di diritto: «al fine di disporre il sequestro conservativo, è necessario e sufficiente che vi
sia il fondato motivo di ritenere che manchino le garanzie del credito; vale a dire che il patrimonio del
debitore sia attualmente insufficiente per l’adempimento delle obbligazioni di cui all’art. 316, commi 1 e
2, c.p.p.».
Non è indispensabile, allora, secondo le Sezioni Unite, che ricorra – anche – un “pericolo di dispersione”, ossia di successivo depauperamento del patrimonio del debitore, conseguente alla tipologia dei cespiti che lo compongono od al comportamento, negligente, avventato o fraudolento che sia, da quegli
tenuto successivamente al reato. La misura, in altri termini, potrà essere disposta in presenza di un patrimonio non esposto a rischio di riduzione nelle more del processo, ma comunque già di per sé insufficiente od inadeguato a garantire il credito; mentre, qualora un siffatto rischio ricorra, essa potrà non di
meno essere applicata pur quando la consistenza patrimoniale del debitore risulti solida.
Lo scopo dell’istituto, infatti, è quello di prevenire «il rischio che, all’esito del processo, la garanzia
del credito non possa trovare soddisfazione con il patrimonio del debitore», come invece impone l’art.
2740 c.c., «norma – è utile ribadirlo – riferibile ad ogni tipologia di obbligazione, da qualsivoglia fonte
provenga». Pertanto – si legge nella sentenza – il presupposto applicativo dev’essere apprezzato non
già attraverso una «prognosi funzionale all’esecuzione forzata, ma va individuato sulla base di un pregiudizio attuale, che è potenzialmente orientato verso il futuro» 13.
È interessante rilevare come, ad un simile approdo ermeneutico, il collegio – del quale facevano parte anche gli estensori di alcune delle sentenze dianzi citate e tra loro in contrasto – sia pervenuto attraverso un triplice percorso: non soltanto valorizzando la lettera della legge, ma anche richiamando gli
antecedenti normativi dell’attuale istituto; nonché, infine, mettendo in risalto l’identità funzionale tra
quest’ultimo e l’omologo strumento cautelare previsto e disciplinato dal codice di rito civile.
Vale la pena, dunque, soffermarsi brevemente, ma partitamente, su ciascuno di tali aspetti.
IL DATO NORMATIVO TESTUALE
Le condizioni per l’adozione del sequestro – si legge al par. 4 della motivazione – «sono in modo così
chiaro indicate dal legislatore»; e, in un passo successivo, addirittura si parla di «univoca lettera dell’art.
316 c.p.p.». Sembra quasi di cogliere, nelle parole della Corte, un moto di stupore per i dubbi interpretativi rimessile, nonché, ad un tempo, un monito a tenere sempre presente il primo criterio interpretativo
enunciato dall’art. 12, comma 1, delle Preleggi, ossia quello per cui alla legge «non si può attribuire altro
senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse”.
Effettivamente, il testo dell’art. 316 c.p.p., per la parte che qui interessa, appare perspicuo. Quello
che nella prassi suole definirsi il “periculum in mora” è, infatti, ivi descritto come la «fondata ragione di ritenere che manchino o si disperdano le garanzie per il pagamento» delle obbligazioni nascenti dal reato.
Un primo profilo, dunque, si coglie all’evidenza: i due eventi – “mancanza” o “dispersione” della garanzia patrimoniale – «rilevano (o possono rilevare) autonomamente», per dirla con le parole testuali
della Corte, «come chiaramente espresso dalla formula disgiuntiva».
E «le garanzie mancano» – aggiungono le Sezioni unite, rammentando l’avallo di autorevole dottrina, pur ovviamente non potendola citare – «quando sussista la certezza, allo stato, dell’attuale inettitudine del patrimonio del debitore a far fronte interamente all’obbligazione nel suo ammontare presumibilmente accertato; si disperdono, quando l’atteggiamento assunto dal debitore è tale da far desumere
l’eventualità di un depauperamento di un patrimonio attualmente sufficiente ad assicurare la garanzia,
a causa di un comportamento del debitore idoneo a non adempiere l’obbligazione».
Anzi, in un altro passaggio della motivazione (par. 4, in fine), l’analisi semantica delle Sezioni Unite
si fa ancor più raffinata.
13
In dottrina, in termini pressoché sovrapponibili, N. Galantini, op. cit., p. 137, secondo cui l’accertamento dei presupposti
per l’adozione del sequestro consiste nel «comparare la consistenza patrimoniale con l’ammontare dei crediti da reato e valutare
non prognosticamente, ai fini del momento dell’esecuzione forzata, bensì in via attuale, la situazione contingente relativa
all’attitudine dei beni complessivi del sequestrando a coprire le obbligazioni ex delicto nella misura presuntivamente stabilita. In
ogni caso si valuta la sussistenza certa di un pregiudizio attuale, che ha la probabilità di fissarsi in un pregiudizio futuro qualora, concluso il procedimento, non possa effettivamente attuarsi la totale realizzazione dei crediti».
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Per un verso, infatti, la Corte, nell’ambito della nozione di “mancanza”, enuclea le due sottospecie
della “insufficienza” e della “inadeguatezza” delle garanzie patrimoniali, così distinguendo, all’interno
del genus, un profilo di tipo, rispettivamente, quantitativo e qualitativo.
Per l’altro, spiega come la “dispersione” di tali garanzie possa derivare non soltanto da cause di ordine soggettivo, qual è, tipicamente, il contegno del debitore, callido od anche semplicemente trascurato;
ma anche da ragioni di tipo oggettivo: si pensi, solo per esemplificare, alla deperibilità del bene mobile
od alla volatilità degli strumenti finanziari staggiti.
Si tratta di una distinzione non del tutto nuova nella giurisprudenza della Cassazione, poiché riecheggia quella già operata, in altre decisioni 14 rispetto alla quale, tuttavia, ha il pregio della maggior
sintesi. E, inoltre, come la Corte rivendica, essa trova pure il conforto della dottrina più accreditata, ormai da tempo, in verità, giunta a siffatte conclusioni 15.
LA COLLOCAZIONE SISTEMATICA DEL “SEQUESTRO CONSERVATIVO”
Le Sezioni Unite, per risolvere il conflitto loro devoluto, si sarebbero tranquillamente potute limitare
all’esegesi testuale del nitido dettato normativo. Ma, pur senza attardarsi, hanno deciso di andare oltre,
anzitutto valorizzando la collocazione sistematica dell’istituto.
Già in esordio del “considerato in diritto”, infatti, subito dopo aver fissato il quesito sottoposto al loro scrutinio, esse hanno ritenuto utile ricordare che il sequestro conservativo (esclusivamente su beni
mobili), considerato un mezzo di garanzia patrimoniale per l’esecuzione dagli artt. 189, 190 e 192 c.p.
(espressamente abrogati dall’art. 218, d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271) e dall’art. 622 c.p.p. 1930, «è divenuto
nel sistema del codice del 1988 una misura cautelare reale che – è di rilievo precisarlo – si profila, con le
necessarie differenziazioni derivanti dalla tipologia procedimentale entro cui la pretesa viene fatta valere, come modulo pressoché analogo al sequestro conservativo civile, sia per la funzione ad esso assegnata dalla legge, e cioè impedire la disponibilità anche giuridica della cosa rendendone inefficace
l’eventuale alienazione, sia per l’identità dello strumento di esecuzione, vale a dire, il pignoramento».
Rinviando ad un successivo momento la disamina delle analogie con il corrispondente istituto civilistico, occorre invece valutare le possibili inferenze della transizione di tal specie di sequestro dalla categoria
dogmatica delle «garanzie patrimoniali di esecuzione» (come recitava la rubrica del relativo capo del codice di rito del 1930, artt. 616 ss.) a quella delle «misure cautelari reali», avvenuta col “codice Vassalli”.
Va subito precisato, tuttavia, che l’istituto del sequestro funzionale alla conservazione della garanzia
patrimoniale per l’adempimento degli obblighi derivanti da reato non è nato con la codificazione del
1930, bensì con il c.p.p. 1913 (artt. 605 ss.): il quale, peraltro, aveva conferito rango normativo alla prassi, affermatasi già durante la vigenza del c.p.p. 1865, di applicare, a tutela di quei crediti, il corrispondente istituto previsto dalla legge processuale civile, estendendone il raggio d’azione.
Al fondo della scelta dei codificatori del 1913, vi erano i princìpi dell’allora dominante dottrina giuridica positivista, attenta, come mai prima, alla dimensione sociologica del diritto e dei suoi istituti. Di
qui, la maggiore attenzione per la vittima del reato e l’attribuzione al risarcimento del danno di una
funzione sociale, ma anche la posposizione dello Stato nel soddisfacimento dei propri crediti: quasi a
rimproverargli una responsabilità concorrente per non essere stato in grado di prevenire la commissione del delitto.
Con il “codice Rocco”, l’impianto era rimasto sostanzialmente analogo, se non per un aspetto qualificante, oltre che espressivo dell’ideologia statalista di quel legislatore: l’attribuzione in via esclusiva al
pubblico ministero dell’iniziativa per la richiesta del sequestro, peraltro non rimessa alla discrezionalità
di quell’autorità giudiziaria, bensì intesa come espressione di un potere-dovere ad essa conferito 16.
14
Per esempio da Cass., sez. V, 26 settembre 2008, n. 43246, cit., e Cass., sez. VI, 26 novembre 2010, n. 43660, cit.
15
Cfr. N. Galantini, op. cit., p. 137, e M. Montagna, Sequestro conservativo penale, cit., p. 220; ma già E. Amodio, Le cautele patrimoniali nel processo penale, Milano, 1971, p. 149, in relazione all’analogo istituto disciplinato dall’art. 189, comma 3, c.p., con
identica formula normativa, aveva sostenuto che il pericolo del mancato adempimento, da parte dell’imputato, delle obbligazioni civili nascenti da un’eventuale sentenza di condanna può derivare non solo dalla volontà di costui di disperdere i propri
beni, ma anche «dalla insufficienza del patrimonio rispetto all’ammontare delle ragioni creditorie da reato e dalla inadeguatezza
dello stesso a garantire l’integrale soddisfacimento della massa creditoria».
16
Si leggeva – nella Relazione definitiva – che l’identica facoltà della parte civile, prevista dal codice del 1913, era stata soppressa,
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Il codice del 1988 e la relativa normativa di coordinamento hanno, quindi, profondamente innovato
la materia.
Sotto il profilo formale, infatti, hanno concentrato nel codice di rito (artt. 316-320) una disciplina
prima ripartita tra i due codici (artt. 189-191 c.p. e 616-620 c.p.p.), contestualmente abrogando le disposizioni del codice penale che prevedevano l’ipoteca legale (art. 218, d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271): ond’è
che il “sequestro conservativo” oggi rappresenta l’unico strumento legale di garanzia per l’adempimento dei debiti da reato.
Quanto ai contenuti, poi, non soltanto l’iniziativa per l’azione cautelare, limitatamente alla garanzia
per le obbligazioni civili derivanti dal reato, è stata restituita alla parte civile (in aggiunta a quella, invece mantenuta in via esclusiva in capo al pubblico ministero, a tutela dei crediti dell’Erario), ma altresì
ne è stata estesa la sfera di operatività dai soli beni mobili (art. 189, comma 3, c.p.) anche agli immobili
(con la conseguente superfluità dell’ipoteca legale, per tal ragione abrogata) e, anzi, ad ogni altra somma o cosa dovuta all’imputato (ed anche al responsabile civile, nel caso di sequestro funzionale alla garanzia delle obbligazioni civili), con il solo limite della impignorabilità («nei limiti in cui la legge ne
consente il pignoramento» – recita infatti la norma).
Ma la più suggestiva innovazione apportata dal nuovo codice di rito, e probabilmente quella più rilevante ai fini del formarsi del contrasto di giurisprudenza rimesso alle Sezioni Unite, è stata quella sistematica: la collocazione, ossia, del «sequestro conservativo» nel Libro IV, dedicato alle “misure cautelari”.
In realtà, all’interno di tale genus, ma anche della species rappresentata da quelle reali, il sequestro
conservativo presenta dei tratti decisamente peculiari: perché peculiare è il rischio che esso mira a prevenire, nonché del tutto differente rispetto a quelli oggetto non soltanto delle misure personali, coercitive od interdittive che siano, ma anche dell’altra misura cautelare reale tipica, ovvero il “sequestro
preventivo” (artt. 321 ss. c.p.p.).
Basti solo pensare che il sequestro conservativo è l’unica misura cautelare che può essere richiesta
dalla parte civile, essendo, invece, riservata esclusivamente al pubblico ministero l’iniziativa per
l’applicazione di tutte le altre, siano esse personali o reali. Ma è anche l’unica, tra tutte queste, che può
essere chiesta e disposta «in ogni stato e grado del processo di merito»: ovvero soltanto dopo l’esercizio
dell’azione penale da parte del pubblico ministero e non anche prima, ossia nel corso delle indagini
preliminari, come invece può accadere per le altre. E solamente per il sequestro conservativo, inoltre,
tra tutte le misure cautelari, il codice non contempla ex professo la possibilità di revoca, qualora vengano
meno, ad esecuzione in corso, i requisiti normativi 17.
Su un aspetto, invece, i conditores dell’attuale codice hanno deciso di non discostarsi dalla normativa
precedente: giust’appunto quello dei presupposti per l’imposizione del vincolo. Replicando tal quale,
infatti, il disposto dell’abrogato art. 189, comma 3, c.p., essi hanno previsto che tale forma di sequestro
possa trovare applicazione «se vi è fondata ragione di ritenere che manchino o si disperdano le garanzie per il
pagamento» delle obbligazioni da reato.
E, poiché, vigente la normativa anteriore, né dottrina né giurisprudenza revocavano in dubbio la possibilità di concedere tale misura anche nel caso di insufficienza od inadeguatezza – per così dire – genetiche della garanzia patrimoniale offerta dall’imputato potenziale debitore, ed indipendentemente dal
comportamento più o meno affidabile da costui assunto dopo il reato, non si ravvisa plausibile ragione
per modificare una siffatta interpretazione.
perché «queste garanzie» – il riferimento era anche all’ipoteca legale –, «disposte ad iniziative del pubblico ministero o del pretore,
giovano anche ai privati interessati». In letteratura, invece, accanto a chi giustificava tale scelta sulla base della ritenuta difficoltà, per
il privato, di valutare le condizioni legittimanti il sequestro, v’erano altri che evidenziavano come le obbligazioni ex delicto possiedono
quel carattere pubblicistico che unicamente un organo pubblico può adeguatamente tutelare mediante idonei provvedimenti (per
una rassegna di tali contributi e, più in generale, per una ricostruzione diacronica dell’istituto, N. Galantini, op. cit., p. 134 ss.).
17
Il punto, in verità, registra prese di posizione differenti all’interno della stessa giurisprudenza di legittimità: nel senso della irrevocabilità, per il venir meno dei presupposti che ne hanno legittimato l’adozione, prima della sentenza definitiva di proscioglimento o di non luogo a procedere, fatta salva l’offerta di cauzione, si sono espresse, tra le più recenti, Cass., sez. IV, 15
maggio 2013, n. 39171; Cass., sez. V, 17 aprile 2012, n. 40407; contra, Cass., sez. V, 4 ottobre 2005, n. 45929; Cass., sez. VI, 25 febbraio 2003, n. 13624: le quali sottolineano la «coessenziale strumentalità» di ogni misura cautelare al soddisfacimento di attuali
esigenze cautelari e la dipendenza strutturale dalla sussistenza di idonei presupposti che ne legittimano la validità, per tal via
concludendo che la mancanza di un potere codificato di revoca a processo in corso non possa comunque impedire la caducazione del provvedimento, qualora il giudice ne accerti l’illegittimità per mancanza dei presupposti che lo giustificano.
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Certamente tale non potrebbe essere esclusivamente la mutata collocazione sistematica dell’istituto,
considerando, peraltro, che anche il sequestro tipizzato dall’art. 189 c.p., pur annoverato tra le «sanzioni civili» (artt. 185 ss. c.p.) e tra le «garanzie patrimoniali di esecuzione», poteva ovviamente essere concesso non solo all’esito della sentenza di condanna, ancorché non definitiva, ma anche durante
l’istruzione formale, e persino nel corso di quella sommaria (art. 617, comma 2, c.p.p. 1930).
In ragione, poi, delle già accennate peculiarità del sequestro conservativo, l’estensione ad esso di requisiti, normativi o frutto di elaborazione giurisprudenziale, riferibili ad altre misure cautelari si rivela, allora, un arbitrario paralogismo.
Tanto dicasi, in particolare, per la indispensabilità della valutazione del comportamento dell’imputato,
pur in presenza di un patrimonio di per sé insufficiente od inadeguato, sostenuta dalla tesi invece disattesa dalle Sezioni Unite con la sentenza in commento. La considerazione di tale aspetto soggettivo, infatti, può avere ragion d’essere laddove si tratti di stabilire la sussistenza o meno di un pericolo di recidiva, di fuga o di compromissione dei risultati probatori, com’è richiesto per le misure personali; e
fors’anche quando il giudice sia chiamato a prevedere se la disponibilità di una cosa pertinente al reato
possa aggravarne o protrarne le conseguenze ovvero agevolare la commissione di altri reati, come l’art.
321, comma 1, c.p.p. richiede per il sequestro preventivo. Ma, se quello che la misura è deputata a prevenire è – per ripetere le parole delle Sezioni Unite – «il rischio che, all’esito del processo, la garanzia
del credito non possa trovare soddisfazione con il patrimonio del debitore», così da svuotare il principio sancito dall’art. 2740 c.c., e se, quindi, la finalità di tale misura è quella di «inibire temporaneamente
la disponibilità del patrimonio all’imputato ed al responsabile civile, se citato, per garantire il ristoro
allo Stato ed alle persone danneggiate delle conseguenze patrimoniali di un reato» 18, l’assunto della necessaria valutazione del comportamento dell’imputato appare privo di qualsiasi sostegno normativo,
anche soltanto di tipo logico o sistematico.
L’ANALOGIA COL SEQUESTRO CONSERVATIVO CIVILE
L’ultimo pilastro su cui la Corte ha costruito la propria interpretazione, peraltro strettamente connesso
a quello della collocazione sistematica dell’istituto, è costituito dalla ritenuta analogia del sequestro
conservativo penale rispetto all’omologo – ed omonimo – strumento disciplinato dall’art. 671 c.p.c., «in
un assetto che può dirsi quasi sovrapponibile sia sul piano strutturale sia sul piano funzionale alla disposizione dell’art. 316 c.p.p., e che appare speculare rispetto alla intentio legis che ha trasformato il regime di garanzia patrimoniale (anche per la parte civile) sistemandolo tra le misure cautelari reali» (così, testualmente, in conclusione della parte motiva).
Invero, l’identità funzionale dei due istituti, entrambi volti ad eliminare il c.d. “pericolo da infruttuosità” di un’azione giudiziaria, mal ne potrebbe tollerare una disciplina diversa, se non negli aspetti specifici e legati alla peculiarità dei differenti riti. E la scelta del c.p.p. 1988 in tal senso è stata netta, oltre che
esplicitata nella Relazione al progetto definitivo, in cui si legge che l’ampliamento del catalogo delle cose
assoggettabili al sequestro è stato disposto «nella linea dell’art. 671 c.p. c.».
In verità, nella direzione dell’assimilazione del nuovo istituto penale al preesistente modello del codice di rito civile, sulla quale v’è concordia di opinioni anche in dottrina, depongono non solo l’identico
nomen iuris (prima d’allora, in effetti, il predicato “conservativo” compariva soltanto nella rubrica
dell’art. 617 c.p.p. 1930, ma non anche nell’art. 189 c.p.) e la già evidenziata nuova collocazione sistematica di esso tra le misure cautelari (il codice di procedura civile riserva al sequestro conservativo, infatti,
un’apposita sezione del capo III, dedicato, appunto, ai «procedimenti cautelari», all’interno del Libro IV,
che disciplina i procedimenti speciali). Tale chiara intenzione del legislatore, infatti, trova ulteriori ed
inequivoci indici rivelatori: primo fra tutti, l’ampliamento del relativo ambito di applicazione, per
l’innanzi – come detto – limitato ai soli beni mobili dell’imputato (art. 189, comma 3, c.p.) ed ora, invece, esteso anche agli immobili ed alle «somme o cose a lui dovute, nei limiti in cui la legge ne consente il
pignoramento», con formula testuale pressoché speculare a quella dell’art. 671 c.p.c.; ma anche
l’espresso richiamo, per l’esecuzione della misura, alle forme prescritte dal codice di procedura civile
(art. 317, comma 3, c.p.p.); e così, pure, la prevista conversione in pignoramento, all’esito della sentenza
18
Così, più compiutamente, in letteratura, U. Dinacci, op. cit., p. 39.
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definitiva di condanna, proprio come avviene per la corrispondente misura civile (artt. 320, comma 1,
c.p.p. e 686, comma 1, c.p.c.).
Se questo, dunque, è l’assetto normativo, le Sezioni Unite, per l’esigenza di non contraddittorietà interna dell’ordinamento, non avrebbero potuto obliterare la giurisprudenza formatasi anche sul sequestro conservativo civile. E, in effetti, non solo non l’hanno fatto, ma anzi hanno trovato in essa ulteriore
suffragio alla loro opzione ermeneutica.
Da tempo, infatti, le sezioni civili della Corte di cassazione sono pervenute alla conclusione che «in
tema di sequestro conservativo, il giudice di merito può, in sede di convalida, far riferimento, alternativamente, tanto a criteri oggettivi (rappresentati dalla capacità patrimoniale del debitore in relazione
all’entità del credito) quanto soggettivi (quali il comportamento del debitore che lasci fondatamente
temere atti di depauperamento del suo patrimonio), senza che, ai fini della validità del provvedimento
di convalida, le due categorie di presupposti debbano simultaneamente concorrere» 19.
Peraltro, non può non mettersi in risalto come la giurisprudenza civile sia pervenuta a tale approdo,
pur dovendo misurarsi, per la parte che qui interessa, con un testo normativo decisamente più generico, rispetto a quello dell’art. 316, c.p.p.
L’art. 671, c.p.c., infatti, definisce il “periculum in mora” come «il fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito». E, ad una lettura sinottica delle due disposizioni, non può non cogliersi
l’assenza, in quest’ultima, di qualsiasi riferimento alla “mancanza” di tali garanzie, invece espressamente contenuto nel testo del citato art. 316 c.p.p.
Ne deriva che, anche sotto questo profilo, si ottiene ulteriore conferma logica della sufficienza, per
l’adozione del sequestro conservativo penale, di quella che le Sezioni Unite hanno definito una situazione “statica”, ed oggettiva, di insufficienza od inadeguatezza originarie della garanzia patrimoniale,
in alternativa a quella “dinamica”, e soggettiva, consistente nel pericolo di depauperamento successivo
del patrimonio del debitore, per cause a questi comunque imputabili.
Del resto, la valorizzazione del profilo oggettivo del “periculum”, anche da parte dell’art. 671 c.p.c., si
può meglio cogliere laddove si ponga mente alla disciplina previgente, ossia quella del codice civile del
1865. Quest’ultimo, infatti, all’art. 924, palesemente privilegiando gli aspetti di tipo soggettivo, individuava il presupposto per la tutela cautelare del creditore nei «giusti motivi di sospettare della fuga del
suo debitore, di temere sottrazioni o – con previsione evidentemente residuale e di chiusura – se sia in
pericolo di perdere le garanzie del suo credito».
Appare, allora, innegabile che, se i compilatori del codice del 1940 hanno avvertito la necessità di
mutare in parte qua la formula normativa, omettendo qualsiasi riferimento espresso al contegno del debitore, la ragione di una simile scelta vada ricercata principalmente nella volontà di valorizzare, ai fini
della concessione della tutela cautelare del creditore, il dato obiettivo dell’incapienza od inadeguatezza
della garanzia patrimoniale offerta dal debitore.
OSSERVAZIONI CONCLUSIVE
La sentenza in commento, dunque, appare convincente e condivisibile.
La scelta legislativa di attrarre nell’ampio e variegato genus delle misure cautelari il sequestro conservativo, invero, non autorizza l’interprete a leggere la relativa disciplina con le medesime “lenti”
buone per le altre, perché – come già si accennava – profonde sono le differenze del primo rispetto a
queste ultime, a cominciare dall’esigenza cautelare che esso mira a preservare 20.
È di solare evidenza logica, infatti, che il comportamento dell’imputato abbia valenza decisiva, e
debba perciò essere inevitabilmente e prioritariamente tenuto in considerazione, laddove si tratti di limitarne la libertà personale o le facoltà ed i diritti riconosciutigli dall’ordinamento; e tale aspetto sog-
19
Così, Cass. civ., sez. II, 26 febbraio 1998, n. 2139, in CED Cass. n. 513090, e Cass. civ., sez. III, 16 aprile 1996, n. 3563, in CED
Cass. n. 497062; analogamente, Cass. civ., sez. III, 13 febbraio 2002, n. 2081, in CED Cass. n. 552250, e Cass. civ., 17 luglio 1996, n.
6460, in CED Cass. n. 498604: tutte citate dalle Sezioni Unite; ma, già prima di tali pronunce, negli stessi termini si era espressa,
ad esempio, Cass. civ., sez. I, 12 novembre 1984, n. 5691, in CED Cass. n. 437370.
20
Evidenzia la natura, complessa e singolare, del sequestro conservativo, quale misura, ad un tempo, cautelare e costitutiva
di privilegio, F. Lattanzi, sub art. 316 c.p.p., in G. Lattanzi-E. Lupo (diretto da), Rassegna di giurisprudenza e dottrina sul codice di
procedura penale, Milano, 2008, p. 1571 ss.
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gettivo può non essere indifferente anche quando si tratti di valutare se la libera disponibilità di una cosa, comunque pertinente al reato, possa rendere più incisiva l’offesa al bene giuridico con esso violato.
Non si riesce francamente a scorgere, invece, per quale ragione la valutazione devoluta al giudice
debba procedere lungo il medesimo percorso, allorché il vincolo sulla res trovi la sua ragione giustificativa non già nel collegamento di essa al reato, bensì esclusivamente nella connotazione patrimoniale
della stessa. E men che mai ciò appare plausibile in mancanza di un saldo aggancio normativo, ed anzi
in presenza di un dato testuale che, nella sua lettura più piana e lineare, spinge in tutt’altra direzione.
Ciò non di meno, non sono mancati, in passato, accenti di aspra critica all’interpretazione poi fatta
propria dalla Sezioni Unite, sui quali mette conto soffermarsi.
Si è sostenuto che, trascurando il comportamento dell’imputato, si spoglierebbe di elementi qualificanti e selettivi un istituto già povero di contenuti, dal momento che l’altro presupposto, ossia il c.d.
“fumus boni iuris”, nella prassi si risolve nel dato formale della mera pendenza di un processo penale.
Inoltre, poiché non è necessario che l’importo del credito da garantire col sequestro sia precisamente
individuato, essendo invece sufficiente che esso sia determinabile con qualche approssimazione 21,
l’imputato, di fronte a pretese risarcitorie particolarmente elevate, ancorché non dimostrate, si troverebbe nella pratica impossibilità di provare l’insussistenza di un periculum in mora: con la conseguenza
di un «pericoloso automatismo» tra domanda della parte civile e provvedimento del giudice, e con un correlato squilibrio di poteri tra parte civile ed imputato, lesivo del principio di parità delle parti, imposto
dall’art. 111, comma 2, Cost.
Senza dire – si è aggiunto – che, se davvero la condotta dell’imputato non dovesse acquisire alcuna
rilevanza in termini positivi, l’art. 316 c.p.p., soprattutto in presenza di crediti elevati vantati dalla parte
civile, rischierebbe di produrre, addirittura, effetti criminogeni, poiché incentiverebbe la dispersione dei
beni, anziché scoraggiare i comportamenti scorretti 22.
Si tratta di considerazioni critiche che non scalfiscono la solidità della tesi avversata, e non soltanto
perché non allegano alcuno specifico appiglio normativo a sostegno di quella invece sostenuta.
Quanto all’asserita povertà di contenuti del sequestro conservativo, invero, pare sfuggire a quei critici che tale misura possa essere disposta soltanto nel corso del «processo di merito», e che, dunque, essa presupponga, quanto meno, l’avvenuto esercizio dell’azione penale.
Se così è, allora, se non altro per l’ipotesi in cui sia stato emesso il provvedimento di vocatio in iudicium dell’imputato (decreto di citazione diretta, decreto che dispone il giudizio, decreto di giudizio
immediato), non è discutibile che il fumus richiesto per tal specie di sequestro, ossia il probabile fondamento dell’accusa, risulti finanche assai più denso di quello che è sufficiente a giustificare, per esempio,
l’adozione di un «sequestro preventivo» e che si risolve, in estrema sintesi, in una verifica di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale ipotizzata 23. Infatti, il rinvio a giudizio – soprattutto dopo
l’eliminazione del requisito della “evidenza” della non colpevolezza, quale presupposto per una sentenza di non luogo a procedere, originariamente previsto dall’art. 425 c.p.p. – impone una valutazione delle emergenze istruttorie che, se anche non deve spingersi sino a ravvisare l’elevata probabilità di colpevolezza richiesta per l’applicazione di una misura cautelare personale, non si esaurisce nella mera veri-
21
Così, in effetti, Cass., sez. un., 26 giugno 2002, n. 34623, in CED Cass. n. 222262; nonché, più di recente, Cass., sez. V, 25
giugno 2010, n. 35525, in CED Cass. n. 248494; Cass., sez. V, 8 maggio 2009, n. 28268, in CED Cass. n. 244201.
22
In tal senso, v. M. Parisi, Oscillazioni giurisprudenziali sul “periculum in mora” nell’ambito del sequestro conservativo a richiesta
della parte civile, in www.penalecontemporaneo.it, 22.6.2011.
23
V., più ampiamente, Cass., sez. un., 4 maggio 2000, n. 7, ric. Mariano, in Cass. pen., 2000, p. 2225. Analogamente, quantunque con riferimento specifico al sequestro probatorio, ma con una proposizione per intero estensibile anche a quello preventivo,
stante l’identità di presupposti tra i due istituti per questa parte, le Sezioni Unite si erano espresse già nella sentenza n. 23 del 29
gennaio 1997, ric. Bassi (in Cass. pen., 1997, p. 1673), laddove avevano statuito che: «al giudice spetta il dovere d’accertare la sussistenza del c.d. fumus commissi delicti, che, pur se ricondotto nel campo dell’astrattezza, va sempre riferito ad un’ipotesi, ascrivibile alla realtà effettuale e non a quella virtuale»; il giudice, dunque, «deve, nell’ambito degli elementi di fatto indicati
dall’accusa, verificare la loro congruità, ai fini della legittimità del provvedimento di sequestro; al giudice è soltanto inibito
l’espletamento di un’attività dimostrativa della fondatezza concreta della contestazione mossa all’indagato». Il che significa, in
altri termini, che il giudice non può certo limitarsi a prendere atto dell’ipotesi accusatoria, ma è tenuto a verificare la consistenza
degli elementi di fatto su cui il P.M. la fonda e la corrispondenza di tale fattispecie concreta rispetto a quella astratta tipica, tenuto conto delle eventuali contestazioni difensive: e qui deve fermarsi. Non può, cioè, vagliare pure l’efficacia probante degli elementi istruttori eventualmente addotti dalla difesa, poiché, ove tanto fosse tenuto a fare, la sua indagine non differirebbe in nulla da quella commessa al giudice della cognizione o, per lo meno, al giudice delle misure cautelari personali.
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fica di corrispondenza tra ipotesi accusatoria e fattispecie tipica, ma postula una prognosi di evoluzione
di quelle acquisizioni in prove di colpevolezza.
Anzi, si va affermando in sede di legittimità l’opinione per cui il giudice sia tenuto ad un analogo
scrutinio di fondatezza dell’ipotesi d’accusa anche qualora la misura gli venga richiesta nel corso
dell’udienza preliminare, o comunque nelle more tra l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero ed il rinvio a giudizio dell’imputato 24.
Del tutto infondato è, poi, il timore dell’ipotizzato “automatismo” tra domanda della parte civile ed
adozione della misura, soprattutto in presenza di istanze risarcitorie per importi molto consistenti.
Nonostante la sua posizione singolare nell’ambito delle misure cautelari, infatti, il sequestro conservativo non si sottrae ai princìpi immanenti alle stesse, ovvero quelli di proporzionalità e di adeguatezza 25.
È compito, dunque, del giudice – ha ribadito ancora in epoca molto recente la Suprema Corte – «valutare che il vincolo sia mantenuto nei limiti in cui la legge lo consente e verificare la ragionevole proporzionalità fra crediti da garantire ed ammontare del debito, fermo restando che spetta all’interessato che
denunci la sproporzione dare la prova del proprio assunto» 26.
Nessuno squilibrio di poteri a detrimento dell’imputato, allora, in tal modo si realizza, come pure
nessuna violazione del principio costituzionale di parità tra le parti: quest’ultimo, invero, absit iniuria,
evocato a sproposito, poiché non riferibile, e comunque non limitato, alla distribuzione dell’onere probatorio, che, evidentemente, non può non essere modulato differentemente, a seconda delle fasi del
procedimento e dei diversi istituti processuali.
Anzi, se così fosse, se, cioè, qualsiasi divergenza della specifica disciplina del sequestro conservativo
dai princìpi generalmente applicabili alle altre misure cautelari, quantunque giustificata dalla peculiare
funzione di esso, potesse reputarsi tale da determinare una violazione di quel principio costituzionale,
la prima a dolersi di un’ipotetica disparità di trattamento dovrebbe essere proprio la parte civile, già
per il sol fatto che tale misura – unica tra tutte – non possa esser chiesta ed ottenuta nel corso delle indagini preliminari.
Peraltro, c’è pure chi ha sostenuto che la ritenuta irrilevanza del comportamento dell’imputato, ai fini dell’adozione del sequestro conservativo, violerebbe la carta costituzionale sotto il diverso profilo
dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, ai sensi dell’art. 3, poiché introdurrebbe una discriminazione tra debitori, in ragione delle relative condizioni economiche. A stroncare, tuttavia, tale velleitaria lettura, ci ha pensato la Corte di cassazione, bollandola di «radicale improprietà» e ricordando che la
ratio della disciplina legislativa in questione risiede nella «assorbente e ragionevole esigenza di assicurare ogni più ampia garanzia alle istanze creditorie vantate da soggetti aggrediti da illeciti altrui, in ipotesi pregiudicati dall’eventuale ricorso di indici di rischio obiettivamente connessi alle concrete condizioni economiche dell’autore dell’illecito» 27.
In realtà, tutte le illustrate critiche alla tesi avallata dalle Sezioni Unite muovono da un errore di prospettiva, poiché paiono assegnare al sequestro conservativo una concorrente funzione di tipo – per così
dire – sanzionatorio, che può intravedersi in tutte le altre misure cautelari tipiche, sia personali che reali,
ma che, invece, ad esso è del tutto estranea. Il sequestro conservativo, infatti, a differenza delle altre misure cautelari, non mira ad impedire che colui nei cui confronti lo Stato eserciti la propria potestà punitiva, nel tempo necessario al compiuto esercizio di essa, faccia – ci si passi la terminologia poco curiale –
24
In questo senso, Cass., sez. V, 2 ottobre 2014, n. 51147, in CED Cass. n. 261906, che, dopo aver ribadito la non estensibilità
alle misure cautelari reali di quanto stabilito dalla sentenza n. 71 del 1996 della Corte Costituzionale (secondo cui, pur dopo
l’emissione del decreto che dispone il giudizio, il giudice chiamato a decidere di una misura cautelare personale è tenuto a valutare la sussistenza o meno dei gravi indizi di colpevolezza), ha affermato che, in materia di sequestro conservativo, «la proponibilità della questione relativa alla sussistenza del “fumus” del reato è preclusa se sia stato disposto il rinvio a giudizio del soggetto interessato, ma non anche quando vi sia la sola richiesta di rinvio a giudizio, poiché quest’ultima è atto della pubblica accusa, mentre la “ratio” della preclusione è collegata ad una valutazione del giudice sulla idoneità e sufficienza degli elementi
acquisiti per sostenere l’accusa in giudizio». Non mancano, tuttavia, precedenti di segno differente: nel senso, meno rigoroso,
della mera sufficienza della pendenza di un processo penale e della formulazione dell’imputazione, Cass., sez. III, 7 novembre
1990, n. 4670, in CED Cass., n. 186134; in quello, invece più rigido, della necessità di una valutazione delle accuse nel merito,
Cass., sez. IV, 17 maggio 1994, n. 707, in CED Cass., n. 198681.
25
In questo senso, già Cass., sez. I, 5 aprile 1996, ric. Baldassar, in Cass. pen, 1997, p. 1820.
26
Cass., sez. V, 19 gennaio 2015, n. 9851 (dep. 6 marzo 2015), con indicazione di altri precedenti in termini, pubblicata nella
banca dati telematica “DeJure”, Giuffrè.
27
Cass., sez. IV, 22 ottobre 2013, n. 44809, in CED Cass. n. 256768.
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altri danni: ossia frustri la relativa pretesa (inquinando le prove o rendendosi irreperibile) ovvero continui a violare la legge (commettendo altri reati oppure aggravando le conseguenze offensive di quello
già commesso, grazie alla disponibilità delle cose ad esso pertinenti). Esso, piuttosto, è tutto rivolto dalla parte del creditore, Stato o privato danneggiato che sia, e si preoccupa di apprestare quanto necessario per evitare che le relative, legittime aspettative economiche rimangano insoddisfatte: ciò che innegabilmente può avvenire anche quando il debitore non abbia alcuna intenzione di svuotare il suo patrimonio, ma questo sia, già di per sé, scarso o deperibile.
Più che perplessi, infine, lascia l’obiezione riguardante l’asserita natura “criminogena” dell’interpretazione normativa qui sostenuta.
È inaccettabile, innanzitutto per ragioni di principio, pretendere di far dire ad una norma quello che
non dice, dietro la minaccia, altrimenti, di violarla. In secondo luogo, è agevole replicare che il debitore
“mariuolo” cercherebbe comunque di svuotare il suo patrimonio, sia se il relativo ammontare fosse sufficiente a far fronte ai suoi obblighi ex delicto, sia qualora già non lo fosse in origine. Anzi, ed infine,
laddove tale patrimonio fosse capiente, e l’imputato onesto, non converrebbe a quest’ultimo dissiparlo
in pendenza di giudizio, poiché, in quel caso, il sequestro conservativo non potrebbe essere concesso,
non potendosi ravvisare né un pericolo di dispersione delle garanzie, né la “mancanza” di esse.
In verità, il completo dispiegamento delle potenzialità del sequestro conservativo, svincolato dalle
Sezioni Unite dalla necessità di tener comunque conto del comportamento inaffidabile dell’imputato,
non solo – come s’è visto – resiste alle critiche, ma rappresenta provvida manifestazione di quella maggiore attenzione per la vittima del reato, che, sempre più insistentemente, sta cercando di trovare spazio
all’interno di un sistema processuale per lo più tenacemente preoccupato di non lasciare possibili vuoti
di garanzia per l’imputato.
Infine, va segnalato come, soprattutto dopo la sentenza in commento, ed il conseguente, auspicabile
venir meno di qualsiasi oscillazione sul profilo da essa esaminato, il sequestro conservativo possa trovare significati spazi applicativi in relazione a quei fenomeni criminali caratterizzati da offensività diffusa, che rappresentano la nuova frontiera del diritto penale e che spesso sono riconducibili a strutture
plurisoggettive ed economicamente complesse, al cui cospetto la vittima è evidentemente più vulnerabile: si pensi, solo per fare qualche esempio, ai reati ambientali, a quelli in materia di tutela dei consumatori oppure alle malattie da lavoro.
Si tratta di ambiti criminali moderni, ai quali evidentemente mal si attaglia il diritto penale tradizionale, calibrato su un modello di reo inevitabilmente costituito da un individuo persona fisica. Ad essi,
com’è noto, peraltro sulla spinta di norme e sollecitazioni sovranazionali, il nostro ordinamento ha
provato a dare una prima risposta organica e di sistema con il d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, in materia di
responsabilità da reato degli enti collettivi.
Ma, venendo al tema che qui interessa, tale corpus normativo contempla sì il sequestro conservativo,
peraltro con formula sostanzialmente identica a quella dell’art. 316 c.p.p., nonché richiamandone integralmente la disciplina del codice di rito; tuttavia lo prevede soltanto a tutela dei crediti dell’Erario, e
non anche di quelli della parte civile 28.
Ragione per cui, di fronte a simili fenomeni criminali ed alla frammentazione delle responsabilità
individuali dei singoli, tipica di essi, il sequestro conservativo può rappresentare, per le parti civili, specialmente quando queste siano in gran numero, l’unico strumento per cercare di ottenere il ristoro dei
danni sofferti in conseguenza del reato. Tale misura, infatti, può attingere anche i beni del responsabile
civile, ed è ben possibile che l’ente economico, soggetto solitamente provvisto di un patrimonio assai
più consistente rispetto al singolo imputato che ha agito per esso, possa assumere tale veste, se non altro grazie all’ampia previsione dell’art. 2049 c.c.
Ma, anche in questo caso, a ben vedere, la parte civile non può dormire sonni tranquilli. È pacifico in
giurisprudenza, meno in dottrina, che la posizione di garanzia del responsabile civile sia concorrente
con quella dell’imputato e non sussidiaria rispetto ad essa: sicché il sequestro può attingere direttamente i beni del primo. A tal fine, però, è necessario non solamente che l’azione civile sia stata esercitata nel
processo penale, ma altresì che, di quest’ultimo, sia parte anche il responsabile civile, poiché in esso co-
28
Al punto che proprio questo è uno degli aspetti principalmente valorizzati dalla Corte di cassazione per escludere
l’ammissibilità della costituzione di parte civile nel processo contro gli enti per responsabilità da reato (in tal senso, da ultimo,
Cass., sez. IV, 17 ottobre 2014, n. 3786, in Guida dir., 2015, 16, p. 66).
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stituitosi a seguito di citazione o per intervento volontario 29.
Non può sfuggire, tuttavia, che – a norma dell’art. 86, comma 2, c.p.p. – al responsabile civile è consentito chiamarsi fuori dal processo penale (salvo ovviamente il caso in cui vi sia volontariamente intervenuto), qualora esso ritenga che gli elementi di prova raccolti prima della propria citazione in giudizio possano recare pregiudizio alla sua difesa, in considerazione ed in prospettiva dell’efficacia di
giudicato della sentenza penale nei conseguenti giudizi civili ed amministrativi, ai sensi degli artt. 651 e
654 c.p.p.
Ebbene, specialmente nei procedimenti per reati – come s’è detto prima – ad offensività diffusa, non
è affatto infrequente che elementi di prova idonei a pregiudicare la posizione del responsabile civile (se
non addirittura prove tout court: si pensi a quelle acquisite in sede d’incidente probatorio) siano raccolti
nel corso delle indagini preliminari (ad esempio, accertamenti tecnici irripetibili, ma anche, in ipotesi,
prove dichiarative non più replicabili). Dunque, durante una fase del procedimento, inevitabilmente
precedente alla citazione del responsabile civile, poiché, nel corso di essa, non può costituirsi in giudizio neppure la parte civile, che è tenuta a citarlo (v. artt. 79, comma 1, 83, comma 1, e 84, comma 1,
c.p.p.). In tutti questi casi, allora, è piuttosto elevata la probabilità che il responsabile civile ottenga di
essere escluso dal processo e, correlativamente, assai concreto sarà il rischio, per la parte civile, di vedere frustrate, nei fatti, le proprie aspettative risarcitorie, potendo essa ottenere il sequestro conservativo
esclusivamente verso i beni dell’imputato, pur rimanendo a sua disposizione, ovviamente, gli ordinari
strumenti di tutela giudiziaria in sede civile 30.
In conclusione, non può che essere accolta con favore la lettura normativa offerta dalle Sezioni Unite
con la sentenza in commento. Essa, infatti, oltre che maggiormente aderente al testo normativo, risulta
conforme alle più recenti istanze, sociali ma anche scientifiche, di un diritto penale più attento alle vittime dei reati. Ad un tempo, poi, si colloca nel solco, ormai decisamente tracciato dalla nostra legislazione penale, sebbene per lo più nella obbligata scia delle fonti comunitarie od internazionali pattizie,
della valorizzazione di una risposta repressiva penale in rem, vale a dire indirizzata verso il patrimonio
del reo e non solamente alla persona dello stesso, mediante più o meno incisive limitazioni della sua libertà personale.
29
Sulla natura concorrente della garanzia patrimoniale del responsabile civile e dell’imputato, v., tra le tante, Cass., sez. IV,
22 aprile 2010, n. 17669, in Cass. pen., 2011, p. 2313.
30
Analogo rischio la parte civile corre nel caso di fallimento del responsabile civile: da tempo ormai le Sezioni Unite hanno
precisato che la misura cautelare del sequestro conservativo penale, «in quanto strumentale e prodromica ad una esecuzione
individuale nei confronti del debitore ex delicto, deve farsi rientrare, in caso di fallimento dell’obbligato, nell’area di operatività
del divieto di cui all’art. 51 l. fall. (secondo cui “dal giorno della dichiarazione di fallimento nessuna azione individuale esecutiva può essere iniziata o proseguita sui beni compresi nel fallimento”), palesandosi una sostanziale identità funzionale con
l’omologo sequestro civile, che dottrina e giurisprudenza ritengono pacificamente non esperibile in costanza di fallimento (vedi
Cass. civ., 26 febbraio 1992, n. 2346; Cass. civ., 14 aprile 1988, n. 2960). Comune è, infatti, il presupposto del periculum in mora,
che viene considerato quale concetto unitario attinente alla garanzia patrimoniale preventiva, sia che il credito venga fatto valere in sede civile sia che venga azionato nel processo penale. Le conseguenze sul piano processuale sono: da un lato, l’inefficacia
del sequestro di cui all’art. 316 c.p.p., qualora sia disposto in pendenza di fallimento, anche se il reato è stato commesso prima
dell’apertura della procedura concorsuale; dall’altro, la caducazione della misura, qualora il fallimento intervenga successivamente. Non si giustifica, infatti, il mantenimento di un sequestro conservativo in presenza dell’acquisizione fallimentare dei beni, che garantisce in modo eguale tutti i creditori, senza compromettere l’interesse di eventuali rivendicanti, che potranno far
valere i loro diritti nei modi, nei tempi e nelle forme previste dal processo fallimentare (artt. 103 e 24 l. fall.)». Così, Cass., sez.
un., 24 maggio 2004, n. 29951, in Cass. pen., 2004, p. 3087).
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IL “PERICULUM IN MORA” NEL SEQUESTRO CONSERVATIVO PENALE
Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
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Emendabile in esecuzione l’illegalità
della pena accessoria
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE, SENTENZA 12 FEBBRAIO 2015, N. 6240 – PRES. SANTACROCE; REL.
AMORESANO
L’applicazione di una pena accessoria extra o contra legem da parte del giudice della cognizione può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell’esecuzione, purché essa sia determinata
per legge (o determinabile, senza alcuna discrezionalità) nella specie e nella durata, e non derivi da un errore valutativo del giudice della cognizione.
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza in data 17 settembre 2013, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di
Roma, in funzione di giudice dell’esecuzione, rigettava l’istanza proposta da B.A., diretta ad ottenere la
rideterminazione della pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici, applicatagli con
la sentenza del 21 febbraio 2007 del Giudice della udienza preliminare del Tribunale di Roma, irrevocabile il 26 ottobre 2011, in quella della interdizione temporanea.
Nel motivare il provvedimen4to ha rilevato il G.i.p. che:
– l’istante era stato condannato, all’esito di giudizio abbreviato, per i delitti di cui agli artt. 609-bis,
317 e 527 c.p., alla pena complessiva di anni tre di reclusione così determinata: pena-base per il reato
più grave, individuato nel delitto di cui all’art. 609-bis c.p., anni sei di reclusione, ridotti ad anni quattro
e mesi cinque per le concesse circostanze attenuanti generiche, aumentati ad anni quattro e mesi sei a
titolo di continuazione per i rimanenti reati, senza ripartizione della pena tra gli stessi, e ridotti, infine,
alla indicata pena finale per l’applicazione della diminuente per la scelta del rito, con la pena accessoria
della interdizione perpetua dai pubblici uffici;
– ai fini dell’applicazione della detta pena accessoria si doveva tener conto della pena principale irrogata in concreto, come risultante a seguito della diminuzione effettuata per la scelta del rito;
– la condanna per il reato di cui all’art. 317 c.p. comportava, ai sensi dell’art. 317-bis c.p., l’interdizione perpetua dai pubblici uffici; mentre conseguiva quella temporanea se per circostanze attenuanti veniva inflitta la reclusione per un tempo inferiore a tre anni;
– la durata della pena accessoria temporanea, non espressamente determinata dalla legge per il reato
di riferimento, aveva una durata uguale a quella della pena principale inflitta, alla stregua della previsione dell’art. 37 c.p.;
– nella specie, mentre per il reato di cui all’art. 609-bis c.p., individuato come reato più grave, la cui
pena, ridotta per la diminuente del rito, era inferiore a tre anni di reclusione, non era prevista
l’applicazione della pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici per cinque anni (artt. 28 e 29
c.p.), l’omessa determinazione, a opera del giudice della cognizione, della pena principale da irrogarsi
per il reato di cui all’art. 317 c.p. non consentiva di stabilire “in astratto” la durata perpetua o temporanea della pena accessoria, né di parametrare la seconda alla pena principale;
– l’intervento sulla pena accessoria in sede esecutiva, ammesso da parte della giurisprudenza di legittimità, richiedeva, anche ove condiviso, la predeterminazione per legge della stessa nella specie e
nella durata, dovendosi vagliare nel solo giudizio di cognizione l’applicazione o determinazione delle
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | EMENDABILE IN ESECUZIONE L’ILLEGALITÀ DELLA PENA ACCESSORIA
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pene accessorie implicanti una specifica statuizione;
– la richiesta, che sottendeva, quanto alla verifica della legittimità della pena accessoria applicata, un
giudizio di merito, del tutto omesso nella sentenza divenuta irrevocabile, quanto alla determinazione
della pena per il delitto di cui all’art. 317 c.p., non poteva, pertanto, trovare risposta in sede esecutiva.
2. Avverso l’ordinanza del G.i.p. ha proposto ricorso per cassazione B.A., per mezzo del suo difensore, denunciando, con un unico motivo, inosservanza o erronea applicazione della legge penale in riferimento agli artt. 1, 81, 317-bis, 37 e 28 c.p., e contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.
Secondo il ricorrente, il G.u.p. del Tribunale di Roma, con la sentenza irrevocabile di condanna, aveva,
senza alcuna motivazione, applicato la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici in
luogo di quella temporanea, associando in modo automatico le disposizioni di cui all’art. 317-bis c.p. alla pena complessiva inflitta (non inferiore a tre anni); tanto era confermato anche dal provvedimento
emesso in data 11 giugno 2013 dall’Ufficio esecuzione presso la Procura di Roma, con il quale – ai fini
dell’applicazione dell’indulto in sede esecutiva – a fronte dell’aumento di un mese per la continuazione
fissato con la sentenza, aveva determinato in quindici giorni di reclusione la pena per ciascun reatosatellite (concussione e atti osceni). La giurisprudenza della Corte di cassazione, che ha affermato
l’applicabilità anche in sede esecutiva del principio di legalità della pena, di cui all’art. 1 c.p., in presenza di una pena, anche accessoria, illegittima, e pur quando non sia predeterminata (stante la operatività
del principio di uniformità temporale fra pena accessoria e pena principale), rendeva infondata la tesi
sostenuta nell’ordinanza impugnata circa la sottrazione della sanzione accessoria prevista dall’art. 317bis c.p. al controllo in sede esecutiva. Secondo il ricorrente, la mancata esplicita indicazione della pena
irrogata per il delitto di concussione non precludeva, nella specie, la disapplicazione della pena accessoria illegittima, essendo incontestabile che, per la violazione più grave, ritenuta quella dalla violenza
sessuale, la pena era stata determinata in anni quattro e mesi cinque di reclusione, così ridotta ai sensi
dell’art. 62-bis c.p. la pena base di anni sei di reclusione, poi diminuita ulteriormente di un terzo per la
scelta del rito fino a una pena inferiore alla soglia di anni tre di reclusione, ritenuta ostativa all’applicazione della pena accessoria all’indicato reato; risultava evidente, quindi, che il delitto di concussione,
proprio perché ritenuto reato meno grave, era stato sanzionato con pena inferiore e tale da comportare
l’applicazione della sanzione accessoria comunque temporanea, da uniformarsi a quella principale,
senza alcuna attività discrezionale. Né, infine, era di ostacolo alla disapplicazione della pena accessoria
illegittima la impossibilità di determinare la durata della sanzione accessoria temporanea, trovando
applicazione gli artt. 28 e 29 c.p., secondo i quali il principio di uniformità della pena accessoria a quella
temporanea risulta attenuato in tema di interdizione temporanea dai pubblici uffici con la predeterminazione di un limite minimo e massimo della durata (nel caso di specie certamente inferiore ad anni
tre). Il Giudice dell’esecuzione, una volta determinata la quota di pena inflitta per il delitto di concussione (tale operazione è pacificamente riconosciuta in tema di applicazione dell’indulto), avrebbe dovuto uniformare, senza alcuna discrezionalità, la sanzione accessoria a quella principale.
3. La Prima Sezione penale, con ordinanza n. 1137 del 9 aprile 2014, depositata il 22 luglio 2014, ha
rimesso il ricorso alle Sezioni Unite. Rileva, in premessa, la Sezione rimettente che la questione di diritto in esame attiene alla deducibilità con il rimedio dell’incidente di esecuzione della erronea applicazione, da parte del giudice della cognizione, della pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici in relazione alla condanna inflitta al ricorrente B. alla pena di anni tre di reclusione per i reati
di cui agli artt. 609-bis, 317 e 527 c.p., al medesimo contestati rispettivamente ai capi A), B) e C) della
imputazione e unificati per continuazione, ai sensi dell’art. 81 c.p., ritenuto più grave il reato sub A).
Tale questione è ulteriormente delimitata, in relazione alle ragioni espresse dal Giudice dell’esecuzione
a fondamento della sua decisione, in correlazione con la richiesta presentata dal condannato e a fronte
della mancanza nella sentenza indicata di un discorso giustificativo della decisione sul punto dell’applicazione della indicata pena accessoria, alla rideterminabilità in sede esecutiva, da perpetua a temporanea, della detta pena – postane la inapplicabilità per il reato base di cui all’art. 609 bis c.p., per il quale è
stata irrogata una pena inferiore a tre anni di reclusione – in relazione alla condanna per il meno grave
reato di cui all’art. 317 c.p., alla luce della specifica previsione normativa dell’art. 317-bis c.p.. Prosegue
la Prima Sezione osservando che il Giudice dell’esecuzione, muovendo dal rilievo in diritto che la determinazione della pena accessoria, la cui durata non è espressamente determinata, è parametrata, ai
sensi dell’art. 37 c.p., alla durata della pena principale irrogata in concreto, già ridotta, ove occorra, per
la scelta del rito (Sez. U, n. 8411 del 27/05/1998, Ishaka, Rv. 210980), e inflitta, nel caso di concorso ete AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | EMENDABILE IN ESECUZIONE L’ILLEGALITÀ DELLA PENA ACCESSORIA
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rogeneo di reati, per il reato cui la stessa pena accessoria si riferisce (Sez. 5, n. 29780 del 30/06/2010,
Ramunno, Rv. 248258), avendo riguardo alla pena principale da infliggersi se non vi fosse concorso di
reati, ai sensi dell’art. 77 c.p.., ha ritenuto che l’omessa determinazione nel giudizio di cognizione della
pena principale per il reato di cui all’art. 317 c.p., cui rapportare la durata perpetua o temporanea della
pena accessoria (e in ipotesi di temporaneità della stessa, in quale misura tra i limiti, minimo e massimo, stabiliti dall’art. 28 c.p., comma 4), ha precluso l’assunzione della chiesta pronuncia in sede esecutiva.
3.1. La doglianza afferente la legittimità della pena accessoria applicata è, in tale ottica interpretativa,
espressa e condivisa nell’ordinanza impugnata, inammissibile in sede esecutiva, dovendo essere riservata al giudizio di merito (Sez. 1, n. 33086 del 10/05/2011, Antonuccì, Rv. 250672), poiché l’intervento
sulla pena accessoria in executivis, secondo la giurisprudenza che lo ammette (Sez. 1, n. 1800 del
30/11/2012, Zito, Rv. 254288) è limitato alla erronea applicazione della pena accessoria predeterminata
per legge nella specie e nella durata, senza estendersi alla verifica della legittimità dell’applicazione o
della determinazione della pena accessoria da ragguagliarsi alla determinanda entità della pena principale o da graduarsi secondo parametri di congruità (Sez. 6, n. 49236 del 12/12/2012, Parenzan, Rv.
253970). Secondo la tesi del ricorrente, che si richiama al principio di legalità della pena di cui all’art. 1
c.p., applicato anche in sede di esecuzione in presenza di pena illegittima (Sez. 5, n. 809 del 29/04/1985,
Lattanzio, Rv. 169333) e applicabile alla pena accessoria (Sez. 2, n. 595 del 22/01/1998, Gualano, Rv.
180210) anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza al fine della declaratoria della sua ineseguibilità (Sez. 2, n. 4492 del 13/11/1996, Kenzi, Rv. 206850), all’applicazione di pena accessoria, non
predeterminata nell’entità, può procedersi in executivis rapportandone la durata a quella della pena
principale entro i limiti dell’art. 28 c.p., comma 4, (Sez. 1, n. 16634 del 15/04/2010, Drago, Rv. 247242),
poiché sussiste l’obbligo giuridico in capo al giudice dell’esecuzione, affermato in tema di applicazione
dell’indulto quando sia stato applicato l’istituto della continuazione, di stabilire in concreto le parti della sanzione riferibili ai reati oggetto dell’indulto (Sez. 1, n. 1858 del 29/04/1993, Marsalone, Rv. 194238).
3.2. La Prima Sezione evidenzia, quindi, che la questione, oggetto del dibattito giudiziario, correlata
al tema della legalità della pena, principale e accessoria, e a quello concorrente dei limiti della indagine
affidata in sede d’incidente di esecuzione al giudice, in rapporto alla irrevocabilità del titolo su cui si
fonda l’esecuzione e alla tipicità dei mezzi d’impugnazione ordinaria e straordinaria, rispecchia la sussistenza di diverse soluzioni interpretative, sostenute da coesistenti e antitetici orientamenti della Corte
di legittimità, che hanno formato oggetto di segnalazione da parte dell’Ufficio del Massimario con le
relazioni n. 48 del 15 dicembre 2010 e n. 15 in data 8 aprile 2013. Invero, secondo un orientamento più
volte ribadito dalla Corte, è possibile correggere in sede esecutiva l’errore nell’irrogazione della pena
accessoria, quando essa sia predeterminata nell’an e nel quantum e non richieda l’esercizio di poteri discrezionali da parte del giudice. Il principio, già affermato nel vigore del precedente codice di rito penale con l’ammessa possibilità di integrare anche in sede esecutiva la sentenza che abbia omesso la condanna alla pena accessoria, non rimessa alla valutazione discrezionale del giudice né nell’applicabilità,
né nella specie, né nella durata, né nella determinazione delle modalità di esecuzione, ma predeterminata in ognuno di tali elementi dalla legge (tra le altre, Sez. 3, n. 3886 del 10/11/1965, Palloni, Rv.
100158; Sez. 6, n. 424 del 09/03/1968, Rv. 107482; Sez. 5, n. 210 del 24/01/1984, Fanella, Rv. 162533; Sez.
5, n. 573 del 21/02/1984, Ferraro, Rv. 163731; Sez. 5, n. 804 del 29/04/1985, Frediani, Rv. 169331), è stato riaffermato nel vigore dell’attuale codice, anche in considerazione della disposizione di cui all’art.
183 disp. att. c.p.p.. In linea con le precedenti decisioni si è, infatti, affermato che “l’assoluto automatismo nell’applicazione delle pene accessorie, predeterminate per legge sia nella specie che nella durata e
sottratte, perciò, alla valutazione discrezionale del giudice, comporta, da un lato, che l’erronea applicazione di una pena accessoria da parte del giudice di cognizione può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell’esecuzione, e dall’altro che, quando alla condanna
consegue di diritto una pena accessoria così dalla legge stabilita, il p.m. ne può chiedere l’applicazione
al giudice dell’esecuzione qualora si sia omesso di provvedere con la sentenza di condanna” (tra le altre, Sez. 2, n. 4492 del 13/11/1996. Kenzi, Rv. 206850; Sez. 1, n. 45381 del 10/11/2004, Tinnirello, Rv.
230129; Sez. 1, n. 16634 del 15/04/2010, Drago, Rv. 247242); si è rimarcato che “l’omessa applicazione di
una pena accessoria – quando non sia rimessa alla valutazione discrezionale del giudice in ordine alla
sua applicazione né in relazione alla durata né in relazione alla specie, ma consegua ex lege alla pronuncia di condanna (e sia predeterminata da essa) – può essere corretta attraverso la procedura di correzione dell’errore materiale, in quanto in tal caso l’omissione non è concettuale, ma soltanto materiale, e la
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sua eliminazione, mediante la citata procedura, non produce modificazioni della sentenza, ma ne completa il contenuto, in armonia con la statuizione fondamentale, già attuata. Ne discende che le pene accessorie possono essere applicate – qualora conseguano ex lege alla condanna e siano già predeterminate
nella specie e nella durata – anche in sede di esecuzione, onde la mancata applicazione di esse in sede
di cognizione non comporta la nullità della sentenza” (tra le altre, Sez. 1, n. 6848 del 12/03/1991, Bonetti, Rv. 187648; Sez. 1, n. 5881 del 26/11/1998, Ruggiu, Rv. 212100; Sez. 1, n. 23196 del 28/04/2004, Bagedda, Rv. 228250); si è osservato che “spetta al giudice dell’esecuzione, ove non vi abbia provveduto il
giudice con la sentenza di condanna per un reato cui segue necessariamente l’interdizione dai pubblici
uffici, l’applicazione di detta pena accessoria per una durata pari alla pena principale”, in relazione al
principio della uniformità temporale tra pena accessoria e pena principale stabilito dall’art. 37 c.p. (Sez.
1, n. 16634 del 15/04/2010, Drago, Rv.247242). L’ordinanza di rimessione rileva che gli illustrati principi risultano ripresi da successive pronunce e, segnatamente, da Sez. 1, n. 2258 del 13/10/2010, Di Marco, Rv. 248300, che ha, in particolare, puntualizzato che è legittimo il ricorso, in executivis, alla procedura di correzione dell’errore materiale per adeguare la durata della pena accessoria dell’interdizione dai
pubblici uffici a quella prevista, in termini non discrezionali, dalla legge, ma erroneamente determinata
dal giudice della cognizione (nel caso di specie, la pena principale era stata ridotta in appello a tre anni
di reclusione, ma quella accessoria, per errore, era stata confermata in perpetua), rappresentando nella
motivazione che il condiviso orientamento trova fondamento in plurime convincenti considerazioni. Ed
aggiunge che, in modo conforme, si sono espresse successive decisioni, tra le quali evidenzia: Sez. 6, n.
13768 del 20/01/2011, Fiorito, Rv. 249908; Sez. 1, n. 4385 del 17/10/2012, Alberghina, Rv. 253701; Sez.
4, n. 49236 del 12/12/2012, Parenzan, Rv. 253970. Prosegue la Sezione rimettente rilevando che una più
recente pronuncia (Sez. 1, n. 1800 del 03/11/2012, Zito, Rv. 254288, cui ha fatto seguito Sez. 1, n. 7346
del 30/01/2013, Catapano, non massimata sul punto), ha riaffermato che “l’erronea applicazione, da
parte del giudice di cognizione, di una pena accessoria predeterminata per legge nella specie e nella
durata può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice
dell’esecuzione ovvero, quando venga dedotta in sede di legittimità, anche dalla Suprema Corte”, tenendo conto “da un lato, della portata generale della previsione contenuta nell’art. 1 c.p. e, dall’altro,
dell’assoluto automatismo nell’applicazione delle pene accessorie predeterminate per legge sia nella
specie che nella durata e sottratte, perciò, alla valutazione discrezionale del giudice”, e rilevando, per
l’effetto, che “l’eventuale pronunzia del giudice dell’esecuzione non può essere considerata una modifica sostanziale della decisione adottata all’esito del giudizio di cognizione passata in giudicato”. Nella
specie, era stata respinta, in sede esecutiva, l’opposizione presentata da un condannato volta a ottenere
la corretta determinazione della pena accessoria, essendo stata irrogata nel giudizio di merito
l’interdizione perpetua dai pubblici uffici sul presupposto della pronunciata condanna a una pena superiore ad anni cinque di reclusione, senza tenere in debito conto che la pena base per il reato più grave, su cui avrebbe dovuto essere parametrata la sanzione accessoria medesima, era inferiore al quinquennio. Nell’ordinanza di rimessione è dato, altresì, atto del diverso orientamento interpretativo, alla
cui stregua “non è deducibile con il rimedio dell’incidente di esecuzione l’errore commesso dal giudice
di cognizione nell’applicare con la sentenza di condanna le pene accessorie, trattandosi di modifica sostanziale del dictum della sentenza, possibile solo nel giudizio di cognizione attraverso il rimedio dell’impugnazione”, secondo quanto affermato da Sez. 1, n. 14007 del 20/03/2007, Fragnito, Rv. 236213;
Sez. 1, n. 14827 del 19/02/2009, Blasi Nevone, Rv. 243740; e Sez. 1, n. 33086 del 10/05/2011, Antonucci,
Rv. 250672. La necessità di far valere la illegittimità della pena accessoria in sede di cognizione attraverso il sistema delle impugnazioni, e non inammissibilmente in sede esecutiva, è stata affermata anche
dalla terza delle indicate sentenze (n. 33086/2011), che ha ritenuto irrilevanti gli argomenti e le deduzioni afferenti ai rapporti tra gli artt. 29 e 37 c.p. in fattispecie di lamentata illegittima applicazione della
interdizione temporanea dai pubblici uffici.
3.3. La Prima Sezione considera, conclusivamente, che la questione oggetto del contrasto si interseca
con il tema della rilevabilità anche in sede di esecuzione della irrogazione, nel giudizio di cognizione, di
una pena illegittima. Tale rilevabilità, giustificata inizialmente con il ricorso alla categoria della inesistenza della pena illegittima (Sez. 1, n. 1436 del 25/06/1982, Carbone, Rv. 156173), è stata poi correlata
al principio di legalità della pena, enunciato dall’art. 1 c.p. e implicitamente dall’art. 25 Cost., osservandosi che tale principio che “informa di sé tutto il sistema penale e non può ritenersi operante solo in sede di cognizione (...) vieta che una pena che non trovi fondamento in una norma di legge, anche se inflitta con sentenza non più soggetta a impugnazione ordinaria, possa avere esecuzione, essendo avulsa
da una pretesa punitiva dello Stato”, e ritenendosi rilevabile l’applicazione di una pena illegittima non
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prevista dall’ordinamento giuridico o eccedente per specie o quantità il limite legale (Sez. 5, n. 809 del
29/04/1985, Lattanzio, Rv. 169333; e tra le successive, Sez. 1, n. 4869 del 06/07/2000, Colucci, Rv.
216746; Sez. 1, n. 12453 del 03/09/2009, Alfieri, Rv. 243742; Sez. 1, n. 38712 del 23/01/2013, Villirillo,
Rv. 256879). La categoria della giuridica inesistenza è stata utilizzata anche a fondamento della rilevabilità dell’erronea applicazione della pena accessoria da parte del giudice di cognizione (Sez. 2, n. 8079
del 25/05/1973, Bellocco, Rv. 125464), poi mutuandosi il principio di legalità della pena (tra le altre,
Sez. 2, n. 11230 del 04/07/1985, Gioffrè, Rv. 171202; Sez. 2, n. 595 del 22/01/1988, Gualano, Rv. 180210),
con l’affermazione che tale principio “e quello di applicazione, in caso di successione di leggi penali,
della legge più favorevole, operano anche con riguardo alle pene accessorie, per cui anche l’eventuale
applicazione illegale di tali pene, avvenuta in sede di cognizione, può essere rilevata, così come si verifica
per le altre, in sede di esecuzione, con adozione dei conseguenti provvedimenti”, senza restringersi “il
concetto di illegalità (...) al caso di applicazione di una pena in astratto non prevista dall’ordinamento –
per esempio la pena di morte – (perché) attiene a ogni caso di irrogazione di una pena non prevista, per
specie o entità, dalla norma ritenuta applicabile, e altresì al caso che quest’ultima sia in realtà inesistente o
inapplicabile in relazione al tempo del commesso reato” (Sez. 1, n. 9456 del 25/02/2005, Pozzi, Rv.
230928).
3.4. Osserva, quindi, la Sezione rimettente che, nel delineato contrasto interpretativo, le affermazioni
che sorreggono i diversi principi affermati con le sopra richiamate sentenze esprimono un più radicale
contrasto che attiene allo stesso contenuto del principio di legalità e ai limiti della sua operatività in malam e in bonam partem con riguardo alle pene accessorie in sede esecutiva. La soluzione di tale contrasto
incide sull’ammissibilità del ricorso all’incidente di esecuzione per correggere, eliminare o rideterminare le pene accessorie, erroneamente o illegittimamente applicate o non applicate nel definitivo giudizio
di cognizione.
4. Il Primo Presidente, con decreto in data 30 luglio 2014, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite,
fissando per la trattazione in camera di consiglio l’odierna udienza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione di diritto sottoposta all’esame delle Sezioni Unite è la seguente: “Se l’erronea o
omessa applicazione da parte del giudice della cognizione di una pena accessoria predeterminata per
legge nella specie e nella durata o l’applicazione da parte del medesimo giudice, previa delimitazione
del principio di legalità della pena in rapporto al giudicato e alla sua applicazione in sede esecutiva, di
una pena accessoria extra o contra legem, possano essere rilevate, anche dopo il passaggio in giudicato
della sentenza, dal giudice dell’esecuzione”.
2. La soluzione della questione presuppone l’indagine sul “significato” nell’ordinamento vigente del
principio di intangibilità del giudicato e sui poteri riconosciuti al giudice dell’esecuzione. L’ampliamento dei poteri di quest’ultimo non può che intaccare l’irrevocabilità della decisione del giudice della
cognizione. Tanto maggiore è, infatti, il riconoscimento di interventi in executivis, tanto minore diventa
il principio della non modificabilità della sentenza irrevocabile. Si tratta, quindi, di aspetti inversamente
proporzionali, determinando il potenziamento della fase esecutiva l’erosione dell’intangibilità del giudicato. La sacralità del giudicato, come affermata nel passato, comportava necessariamente una marginalizzazione della fase esecutiva, volta unicamente a dare attuazione alla sentenza e priva di ogni connotazione giurisdizionale. È solo con l’entrata in vigore della Carta Costituzionale che si da inizio alla
giurisdizionalizzazione della fase esecutiva con il riconoscimento del diritto al contraddittorio e della
ricorribilità in cassazione dei provvedimenti. Il grimaldello, per così dire, fu rappresentato dall’art. 27
Cost. e dal principio in esso affermato della finalità rieducativa della pena. Il processo di erosione
dell’intangibilità del giudicato fu, però, lento e di non facile attuazione.
2.1. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 204/1974, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale
del R.D. 28 maggio 1931, n. 602, art. 43 (Disposizioni di attuazione del codice di procedura penale), che
attribuiva la competenza a concedere la liberazione condizionale al Ministero della giustizia, riconosceva l’esistenza di un diritto del condannato a far accertare “se la quantità di pena espiata abbia o meno
assolto al suo fine rieducativo” e che l’istituto della liberazione condizionale andava ricondotto alla natura giurisdizionale. Sulla strada tracciata dalla Corte costituzionale intervenne il legislatore, che con la
L. 26 luglio 1975, n. 354, delineò il procedimento di sorveglianza ed introdusse una serie di misure alternative, che hanno inciso notevolmente sulla pena, irrogata con la sentenza passata in giudicato.
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2.2. Tale processo si sviluppò progressivamente fino a manifestarsi in tutta la sua forza con
l’approvazione del codice di rito del 1988. Il superamento del principio di intangibilità del giudicato,
elaborato dalla giurisprudenza e dalla dottrina, ha, infatti, trovato, sul piano normativo, significativo
riconoscimento attraverso l’ampliamento, nel nuovo codice di procedura penale, dei poteri del giudice
dell’esecuzione. Il codice abrogato si limitava a prevedere, una volta divenuta irrevocabile la sentenza,
la declaratoria di estinzione del reato e della pena (art. 578), la revoca della sospensione condizionale
della pena (art. 590), l’applicazione dell’amnistia e dell’indulto ai condannati (art. 593). Il codice di procedura penale del 1988 ha attribuito, invece, al giudice dell’esecuzione competenza in ordine a questioni sul titolo esecutivo (art. 670), in materia di applicazione della disciplina del concorso formale e del
reato continuato (art. 671), di applicazione dell’amnistia e dell’indulto (art. 672), di revoca della sentenza per abolizione del reato (art. 673), di revoca di altri provvedimenti (art. 674), di declaratoria di falsità
di documenti (art. 675), nonché altre competenze (art. 676) in ordine, tra l’altro, all’estinzione del reato
dopo la condanna, alle pene accessorie, alla confisca. Significativa, in particolare, è la competenza ad
applicare in sede esecutiva la disciplina del concorso formale e del reato continuato, attribuendosi al
giudice dell’esecuzione la possibilità di modificare la pena inflitta con le singole condanne riducendola
ad un unicum con il solo limite del non superamento della somma di quelle inflitte con ciascuna sentenza o ciascun decreto; con la possibilità, altresì, di concedere il beneficio della sospensione della pena
e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale. Nella Relazione al progetto preliminare e al testo definitivo del codice di procedura penale, si affermava in proposito: “ci si è resi
altresì conto dell’estrema importanza attribuita dal legislatore delegante alla fase dell’esecuzione, quale
strumento per l’attuazione del principio costituzionale dell’umanizzazione della pena da cui deriva poi
quello dell’adeguatezza della medesima con riferimento al fine della possibile rieducazione del condannato. Sotto tale profilo appare estremamente significativa la direttiva volta a consentire la valutazione in sede esecutiva del concorso formale dei reati e della continuazione. Essa costituisce un notevole passo avanti verso l’effettivo adeguamento della pena ai fatti commessi dal condannato prescindendo vicende che possono aver comunque contrassegnato i vari procedimenti penali riguardanti il condannato medesimo. Tale direttiva è venuta sicuramente incontro agli auspici formulati dalla dottrina e
dagli operatori del diritto che di frequente avevano constatato, da un lato, l’inaccettabilità delle preclusioni e degli sbarramenti previsti dal sistema per la valutazione in sede esecutiva della posizione globale del condannato e, dall’altro, la necessità di rimediare alle storture poste in atto dalla celebrazione
contemporanea in sedi diverse di vari procedimenti penali a carico degli stessi imputati per fatti simili e
commessi sotto la spinta di un’identità criminogena evidente”. Ad evitare “fughe in avanti”, nella stessa Relazione ci si preoccupava di sottolineare: “i limiti che il legislatore delegante ha inteso stabilire per
la fase dell’esecuzione penale”. Si osservava al riguardo: “Anche se invero notevoli e penetranti sono
gli strumenti che consentono una modificazione sostanziale della pena inflitta dal condannato, si può
ragionevolmente escludere che la delega consenta l’introduzione di un sistema bifasico puro, tale cioè
da far risultare riservata alla sola fase dell’esecuzione la determinazione della pena”. Indiscutibile era,
però, il vulnus definitivo, attraverso l’introduzione della disciplina di cui all’art. 671 c.p.p., al postulato
dell’intangibilità del giudicato. Si consentiva, infatti, al giudice dell’esecuzione, sia pure al fine di dare
attuazione al principio costituzionale della umanizzazione ed adeguatezza della pena, di operare penetranti interventi manipolatori sulle statuizioni irrevocabili del giudice della cognizione.
3. Il problema del superamento del giudicato è stato affrontato dalla giurisprudenza più recente della Corte di cassazione in relazione alla sopravvenienza di interventi normativi o di pronunce della Corte costituzionale incidenti sul trattamento sanzionatorio. Secondo l’orientamento tradizionale la cessazione degli effetti penali di una sentenza di condanna poteva verificarsi soltanto nelle ipotesi previste
dall’art. 673 c.p.p. e cioè in caso di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della
norma incriminatrice. Si è, invece, venuto affermando l’orientamento che riconosce la prevalenza del
valore della legalità della pena sulla intangibilità del giudicato e quindi la possibilità di rideterminare la
sanzione in sede esecutiva.
3.1. Occorre premettere che la sentenza delle Sezioni Unite n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, dopo
aver proceduto alla ricostruzione del processo storico di progressiva erosione dell’intangibilità del giudicato, ha evidenziato che l’intervento in executivis deve essere consentito tutte le volte in cui sia ancora
in atto l’esecuzione di una pena “illegittima”. E ciò perché “applicare una pena di misura diversa o con
criteri diversi da quella contemplata dalla legge non può essere ritenuto conforme al principio di legalità” (Corte cost., sent. n.115 del 1987).
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3.2. È opportuno anche richiamare quanto affermato dalla Corte cost. con la sent. n. 210/2013:
“nell’ambito del diritto penale sostanziale, è proprio l’ordinamento interno a reputare recessivo il valore del giudicato, in presenza di alcune sopravvenienze relative alla punibilità e al trattamento punitivo
del condannato”, in quanto “conosce ipotesi di flessione dell’intangibilità del giudicato, che la legge
prevede nei casi in cui sul valore costituzionale ad esso intrinseco si debbano ritenere prevalenti opposti valori, ugualmente di dignità costituzionale, ai quali il legislatore intende assicurare un primato.
3.3. Ma la tutela della libertà personale, garantita costituzionalmente, viene ad essere violata anche
nel caso in cui debba essere eseguita una pena ab origine illegale. Una diversa soluzione implicherebbe,
infatti, il riconoscimento della possibilità di restrizione illegittima della libertà personale in ossequio alla “sacralità del giudicato”. Il che sarebbe certamente in contrasto con i principi costituzionali, sottolineati, come si è visto, con la sentenza n. 210/2013 della Corte costituzionale.
4. La questione del superamento dell’intangibilità del giudicato è, poi, strettamente correlata al tema
della legalità della pena.
4.1. La Corte costituzionale si è ripetutamente occupata della portata del principio di legalità della
pena e, fin dalla sue prime sentenze in materia, ha ritenuto che l’art. 25 Cost., comma 2, “non soltanto
proclama il principio della irretroattività della norma penale, ma da fondamento legale alla potestà punitiva del giudice. E poiché questa potestà si esplica mediante l’applicazione di una pena adeguata al
fatto ritenuto antigiuridico, non si può contestare che pure la individuazione della sanzione da comminare risulta legata al comando della legge, senza che rilevi la soppressione della frase “e con le pene da
essa stabilite”, in sede di formulazione definitiva della norma costituzionale”. Tale soppressione, come
si desume dai lavori preparatori della Costituzione “fu proposta ed approvata per evitare che nel caso
di successione di norme penali, rimanesse pregiudicato il principio dell’applicazione della norma più
favorevole al reo” (Corte cost., n. 15/1962).
4.2. Ma se la garanzia della riserva di legge investe anche il trattamento sanzionatorio, in modo che il
potere discrezionale del giudice non si trasformi in arbitrio (tanto che, con la sent. n. 299/1992 veniva
sottolineata l’esigenza che l’ampiezza del divario tra il minimo ed il massimo non potesse eccedere il
margine di elasticità necessario a consentire l’individuazione della pena), a maggior ragione una pena
che sia stata determinata in contrasto con il dato normativo si pone in palese violazione del precetto costituzionale.
4.3. Il principio di legalità è sancito anche dall’art. 7 CEDU non solo con riferimento al precetto penale ma anche con riferimento espresso e specifico alla sanzione collegata alla sua violazione. Il tema della
legalità della pena – distinto rispetto a quello del precetto – è stato affrontato soprattutto nei casi di riforme legislative volte ad introdurre retroattivamente trattamenti sanzionatori più severi. Più di recente
la Corte EDU ha incentrato la propria attenzione anche sulla specifica prevedibilità del quantum di pena da espiare (decisione della Quarta Sezione del 22 gennaio 2013, Camilleri c. Malta), affermando che
se la normativa nazionale non consente al soggetto agente di conoscere, al momento della commissione
del reato, la reale ampiezza della cornice edittale all’interno della quale verrà determinata la pena, è
configurabile la violazione del principio di legalità della pena.
5. In attuazione del principio di legalità della pena, sancito dall’art. 1 c.p. e implicitamente dall’art.
25 Cost., comma 2, che informa tutto l’ordinamento giuridico penale, una pena inflitta extra o contra legem deve, quindi, essere rimossa non solo attraverso i rimedi previsti in sede di cognizione, ma anche,
dopo il passaggio in giudicato della sentenza, da parte del giudice dell’esecuzione.
Si tratta, allora, di stabilire, come si vedrà in seguito, soltanto i limiti dell’intervento in sede esecutiva. Inevitabilmente, invero, il giudice dell’esecuzione incide sul giudicato nel momento in cui va a rimuovere la pena (illegale) irrogata dal giudice della cognizione.
5.1. In relazione alla pena principale la giurisprudenza della Corte di cassazione concordemente riconosce la possibilità di intervento in executivis. Già con la sentenza della Sez. 1, n. 1436 del 25/06/1982,
Carbone, Rv. 156173, veniva ritenuta inesistente la pena illegittima, e pertanto consentita la rimozione
della stessa anche in sede di esecuzione. Nella specie era stato riscontrato un errore (definito “tanto radicale quanto non vincolante”) nel calcolo della pena pecuniaria, che era stata rapportata ai delitti sanzionabili solo con la pena detentiva. Anche con la sentenza della Sez. 3, del 24/06/1980, Sanseverino,
non massimata, richiamata dalla predetta decisione, era stata sostanzialmente riconosciuta l’ammissibilità, in sede esecutiva, dell’accertamento dell’illegittimità intrinseca e quindi dell’ineseguibilità, della
pena inflitta con la sentenza irrevocabile di condanna, allorché la pena stessa non sia prevista dalla legge o ecceda per specie e quantità il limite legale. Alle stesse conclusioni perveniva anche la Sez. 5, con la
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sentenza n. 809 del 29/04/1985, Lattanzio, Rv. 169333: nel caso in esame, al ricorrente era stata inflitta
una pena pecuniaria in aggiunta alla sanzione sostitutiva applicatagli ex L. 24 novembre 1981, n. 689,
art. 77, comma 1, e il giudice dell’esecuzione aveva dichiarato inammissibile l’incidente di esecuzione
dal medesimo proposto, al fine di ottenere l’eliminazione della suddetta pena, in quanto le dedotte censure avrebbero dovuto essere fatte valere in sede di impugnazione. La sentenza citata censurava la decisione impugnata, ritenendo che anche in sede di esecuzione fosse rilevabile l’applicazione di una pena illegittima non prevista dall’ordinamento giuridico o eccedente per specie o quantità il limite legale.
Anche la giurisprudenza successiva ha riconosciuto la possibilità di intervento del giudice dell’esecuzione. La Sez. 1, con la sentenza n. 4869 del 06/06/2000, Colucci, Rv. 216746, lo limita, però, alle ipotesi
di assoluta abnormità della sentenza, conseguentemente, escludendolo in caso di error in iudicando (con
la sentenza di condanna era stata erroneamente convertita la pena pecuniaria inflitta in libertà controllata, conversione possibile solo per la fase esecutiva a fronte dell’insolvibilità del condannato). Il principio di legalità della pena costituisce il canone ermeneutico anche per Sez. 1, n. 12453 del 03/03/
2009, Alfieri, Rv. 243742. Nel caso di specie il giudice dell’esecuzione, in accoglimento delle istanze
avanzate dal condannato, aveva rideterminato la pena inflitta con sentenza definitiva (così assumendo
di riportarla entro il limite di legge, in presenza della riconosciuta attenuante di cui alla L. n. 203 del
1991, ex art. 8). Nel l’accogliere il ricorso del P.g., la Corte chiariva i margini di intervento rimessi al
giudice dell’esecuzione, evidenziando che il principio della legalità della pena, che è valore di rango costituzionale che permea di sé l’intero sistema, e che per certi aspetti può dirsi la legittimazione culturale
– in senso laico – del processo, non sopporta di essere costretto in tali limiti, né di essere sacrificato
sull’altare del giudicato. Tale profonda valenza costituzionale, pertanto, in mancanza di una norma
specifica per il processo di esecuzione, presuppone pertanto – ed anzi impone – l’immediata operatività
della norma superiore, da attivare ex art. 670 c.p.p., (art. 25 Cost., comma 2, in particolare, ovvero art. 7
CEDU: “Non può essere inflitta alcuna pena superiore a quella che era applicabile al momento in cui il
reato è stato commesso”), come opzione interpretativa necessaria rispetto all’invocazione alla Corte costituzionale di un intervento additivo, in tal caso, per la fase esecutiva del processo penale. Infine, con
la sentenza della Sez. 4, n. 26117 del 16/05/2012, Toma, Rv. 253562, è stato annullato con rinvio il provvedimento del giudice dell’esecuzione, che aveva deliberato “non luogo a provvedere” sull’istanza di
correzione dell’errore materiale avanzata dal condannato, per aver il giudice della cognizione errato il
calcolo nella riduzione del terzo per il rito abbreviato, avendo egli inflitto la pena di nove anni di reclusione, calcolata sulla pena finale pari a dodici anni.
5.2. I principi elaborati in relazione alla pena principale non possono che valere anche con riguardo
alle pene accessorie, non essendo consentita dall’ordinamento l’esecuzione di una pena (sia essa principale o accessoria) non conforme, in tutto o in parte, ai parametri legali. Il principio di legalità della pena
si applica, invero, anche con riferimento alle pene accessorie, come costantemente affermato dalla Corte
di cassazione a partire dalle pronunce adottate in relazione al codice previgente (cfr. Sez. 5, n. 6280 del
21/03/1985, De Negri, Rv. 169897), anche in sede esecutiva (Sez. 1, n. 9456 del 25/02/2005, Pozzi, Rv.
230928). L’emendabilità in executivis di una pena accessoria illegale trova il suo fondamento non solo in
norme di rango superiore, costituzionale e convenzionale, come si è visto in precedenza, ma anche in
norme del codice di rito, quale l’art. 676 c.p.p. che, prevede espressamente la competenza del giudice
dell’esecuzione in tema di pene accessorie. Tale disposizione è di carattere generale e quindi legittima
qualsiasi tipo di intervento e, soprattutto, per rimediare ad applicazioni della sanzione in contrasto con
norme di rango superiore. Ulteriore conferma della possibilità per il giudice dell’esecuzione di intervenire, a modifica del giudicato irrevocabile, in tema di pene accessorie, si ricava dall’art. 183 disp. att.
c.p.p.. La norma, anche se riguarda l’omessa applicazione di una pena accessoria, e non quindi
l’applicazione della stessa in violazione di legge, costituisce comunque il riconoscimento, da parte del
legislatore, che, con determinati limiti (nella stessa norma esplicitati), sia consentito l’intervento del
giudice dell’esecuzione. Per altro verso la previsione espressa di (solo) tale tipo di intervento in attuazione del principio più generale espresso dall’art. 676 c.p.p. è giustificata dal fatto che si tratta di applicazione di pena accessoria in malam partem. Inoltre, se è consentito applicare in sede esecutiva una pena
accessoria (la cui omissione, da parte del giudice della cognizione, non sia stata oggetto di impugnazione), addirittura in danno dell’imputato condannato, a maggior ragione tale intervento deve essere riconosciuto per emendare in bonam partem una pena accessoria illegale. Sarebbe incoerente ed irragionevole, una soluzione diversa, risolvendosi essa, per di più, in danno del condannato.
5.3. La giurisprudenza della Corte di cassazione, come segnalato nell’ordinanza di rimessione, si è, nel
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suo indirizzo maggioritario, espressa nel senso di ritenere possibile l’emenda nella fase esecutiva dell’applicazione erronea di una pena accessoria; anche se non vi è uniformità dei percorsi argomentativi e, soprattutto, dei “limiti” di tale intervento. Per Sez. 2, n. 8079 del 25/05/1973, Bellocco, Rv. 125464, l’erronea applicazione di una pena accessoria da parte del giudice della cognizione non può essere eliminata con la procedura della correzione degli errori materiali, ma deve essere considerata “giuridicamente inesistente”; e tale
giuridica inesistenza potrà essere fatta valere in sede esecutiva. Anche dopo l’entrata in vigore dell’attuale
codice di rito, con la sentenza Sez. 2, n. 4492 del 13/11/1996, Kenzi, Rv.206850, viene ribadito l’assoluto automatismo dell’applicazione della pena accessoria, in quanto predeterminata per legge sia nella specie che
nella durata e sottratta, perciò, alla valutazione discrezionale del giudice, e quindi la possibilità di intervento
in executivis. La sentenza Sez. 4, n. 3881 del 28/06/2000, Aramini, Rv.217480, a sua volta, richiama espressamente il principio di legalità della pena, elevato a rango di norma fondamentale nell’art. 25 Cost., che riguarda anche il sistema sanzionatorio; sicché l’ordinamento non tollera non solo che si dia esecuzione ad
una pena, anche se inflitta con sentenza irrevocabile, che non aveva all’epoca in cui fu irrogata il suo fondamento nella legge, ma nemmeno che ne perdurino la esecuzione e gli effetti allorché il legislatore tale pena
ha espunto dall’ordinamento con legge successiva a quella del momento in cui è stata applicata, trovandola
non più rispondente ai canoni di giustizia, di ragionevolezza, di proporzionalità, di adeguatezza rispetto alla complessa funzione che alla pena è demandata. Per Sez. 1, n. 9456 del 25/02/2005, Pozzi, Rv. 230928, il
concetto di illegalità della pena non può restringersi al caso di applicazione di una pena in astratto non prevista dall’ordinamento – per esempio la pena di morte – ma attiene ad ogni caso di irrogazione di una pena
non prevista, per specie o entità, dalla norma ritenuta applicabile, ed altresì al caso che quest’ultima sia in
realtà inesistente o inapplicabile in relazione al tempo del commesso reato. Le argomentazioni della sentenza Sez. 1, n. 38245 del 13/10/2010, Di Marco, Rv. 248300, sono maggiormente articolate. Nel riconoscere la
possibilità della correzione in sede esecutiva dell’entità della pena accessoria per adeguarla alla misura legale, si evidenzia che a) in una interpretazione costituzionalmente orientata, la pena illegale per specie o misura va corretta anche in executivis, dovendo tendenzialmente cedere il giudicato a tale più alta valenza fondativa dello statuto della pena; b) il limite di cui all’art. 130 c.p.p., secondo cui la correzione non deve portare
ad una modificazione essenziale dell’atto, va inteso nel senso che non si deve trattare di un’indebita incursione nel potere valutativo– decisionale del giudice della cognizione, ma non opera quando si tratti di mera
applicazione di un effetto determinato ex lege; c) l’art. 183 disp. att. c.p.p. autorizza l’applicazione in executivis della pena accessoria predeterminata nella specie e nella durata, se a ciò non si è provveduto con la sentenza di condanna, e dunque in malam partem. Tali argomentazioni vengono riprese sostanzialmente anche
da Sez. 1, n. 1800 del 30/11/2012, Zito, Rv. 254288; da Sez. 1, n. 7346 del 30/01/2013, Catapano, Rv. 254151;
e da Sez. 1, n. 38712 del 23/01/2013, Villirillo, Rv. 256879.
5.4. Ritengono le Sezioni Unite che debba essere riconosciuta la possibilità di intervenire in executivis
per l’emenda di una pena accessoria illegale e che quindi debba essere condiviso l’indirizzo interpretativo, assolutamente maggioritario, espressosi in tal senso.
A ben vedere, a parte una isolata pronuncia, che nega radicalmente tale possibilità di intervento
senza peraltro argomentare in proposito, limitandosi ad affermare che “la denuncia di illegittimità della
pena accessoria è inammissibile in sede esecutiva, dovendo essa farsi valere in sede di cognizione, impugnando la sentenza” (Sez. 1, n. 33086 del 10/05/2011, Antonucci, Rv. 250672), il contrasto è più apparente che reale. Le altre due sentenze segnalate con l’ordinanza di rimessione, non negano, in modo
assoluto, l’emendabilità in sede esecutiva di pene accessorie illegali, ma soltanto la circoscrivono entro
ambiti molto rigorosi. La sentenza Sez. 1, n. 14007 del 20/03/2007, Fragnito, Rv. 236213 – dopo aver riconosciuto che il mito del giudicato ha subito notevoli fratture, come ad esempio attraverso l’applicazione della continuazione in sede esecutiva fino alla conversione della pena detentiva in quella corrispondente pecuniaria se vi è stata condanna ad una pena detentiva ed una legge posteriore prevede
esclusivamente quella pecuniaria – assume che gli interventi sul giudicato, in quanto eccezionali, siano
possibili soltanto se previsti espressamente da una norma, non essendo in tale materia consentita
l’analogia, finisce poi, richiamando precedenti giurisprudenziali, per riconoscere che possa farsi luogo
in executivis alla applicazione di una pena accessoria “che consegua ex lege alla condanna e sia predeterminata in ogni suo elemento, così da comportare alcuna (recte, nessuna) discrezionalità del giudice in
ordine alla sua applicazione ed alla sua misura, qualora il giudice della cognizione abbia omesso la
pronuncia per dimenticanza materiale, attraverso la procedura di correzione degli errori materiali”.
Nell’escludere quindi l’esistenza di un potere generale del giudice dell’esecuzione, “non previsto dalla
legge ed anzi escluso dai principi generali in materia di giudicato”, apre poi essa stessa degli “spiragli”
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sia pure limitati all’ipotesi di meri errori materiali.
Anche la sentenza Sez. 1, n. 14827 del 19/02/2009, Blasi Nevone, Rv. 24370, si muove sulla stessa linea ed anzi rende ancor più evidenti la contraddittorietà delle sue argomentazioni. Ribadisce che gli interventi manipolatori in sede esecutiva sono eccezionali e che non è possibile l’applicazione analogica
(in tema di pene accessorie, i poteri del giudice dell’esecuzione sono disciplinati dagli artt. 662 e 676
c.p.p., nonché dall’art. 183 disp. att. c.p.p.). Riconosce, però, che a tale principio si contrappone quello
della legalità della pena (valido anche per le pene accessorie) che può essere fatto valere pure in sede
esecutiva; anche se poi la deroga viene ammessa soltanto in relazione a pene accessorie “avulse da una
pretesa punitiva dello Stato”. E conclude affermando che l’applicazione del principio di legalità anche
in sede esecutiva non comporta automaticamente né il venir meno del giudicato, né la possibilità di
correggere in sede esecutiva gli eventuali errori di giudizio commessi dal giudice della cognizione
quando non possa parlarsi di pena illegale nel senso di pena avulsa dalla pretesa punitiva dello Stato. È
del tutto evidente quindi che, attraverso il richiamo del principio di legalità della pena, si riconosce la
possibilità di una emenda in sede esecutiva della pena accessoria illegale sia pure nella limitata ipotesi
di “pena avulsa dalla pretesa punitiva dello Stato”.
6. In base a quanto fin qui argomentato, può quindi affermarsi che, in forza di norme di rango superiore e della stessa disciplina codicistica, sia consentito in executivis emendare una pena accessoria illegale, come del resto sostanzialmente riconosciuto anche dall’indirizzo giurisprudenziale minoritario.
La questione vera, allora, è stabilire “limiti” e “ambito” dell’intervento sul giudicato da parte del giudice dell’esecuzione. E su tale punto, oggetto di pronunce, come si è visto, non sempre uniformi nello
stesso indirizzo interpretativo maggioritario, sono chiamate a pronunciarsi le Sezioni Unite. Ritiene il
Collegio che le linee-guida da seguire, per pervenire ad una soluzione che non sia frutto di estemporanee valutazioni, possano ricavarsi dal sistema. Da esso sono, infatti, enucleabili due principi che consentono di delimitare gli interventi sul giudicato del giudice dell’esecuzione.
6.1. Innanzitutto, va esclusa l’emendabilità in executivis quando il giudice della cognizione si sia già pronunciato in proposito e sia pervenuto, anche se in modo erroneo, a conclusioni che abbiano comportato
l’applicazione di una pena accessoria illegale. In tal caso, alla erroneità della valutazione non può che porsi
rimedio con gli ordinari mezzi di impugnazione. Tale principio ispira una pluralità di norme del codice di
rito e trova specifica enunciazione nell’art. 671 c.p.p. La norma, che pure ha ampliato notevolmente i poteri
del giudice dell’esecuzione, esclude espressamente l’applicazione della continuazione in sede esecutiva,
quando questa sia stata esclusa dal giudice della cognizione. La conferma, sia pure sotto altro profilo, che le
valutazioni del giudice della cognizione non possano essere rimesse in discussione, dopo il passaggio in
giudicato della sentenza, si ricava da quanto previsto in tema di revisione. L’art. 630 c.p.p., comma 1, lett. c),
stabilisce, invero, che la richiesta di revisione possa essere avanzata, tra l’altro, nell’ipotesi in cui “dopo la
condanna sono sopravvenute o si scoprono nuove prove che, sole o unite a quelle già valutate, dimostrano
che il condannato deve essere prosciolto a norma dell’art. 631 c.p.p.”. Deve trattarsi quindi di nuove prove,
per tali intendendosi, secondo un ormai consolidato indirizzo interpretativo, anche quelle pur presenti già
agli atti, ma non esaminate. Si richiede, perciò, che le prove in questione non siano state già oggetto di esame
e valutazione del giudice della cognizione.
Significativa sotto l’aspetto esaminato è anche la disposizione di cui all’art. 625-bis c.p.p., che consente il ricorso straordinario per la correzione di errori materiali o di fatto contenuti nei provvedimenti
pronunciati dalla Corte di cassazione. Tale norma, inserita dalla L. 26 marzo 2001, n. 128, art. 6, comma
6, fu introdotta, a seguito di ampio dibattito in ordine alla problematica inerente gli “errori” contenuti
in provvedimenti ormai irrevocabili. Da un lato, veniva sottolineato che “il principio della irrevocabilità
ed incensurabilità delle decisioni della Corte di cassazione, oltre ad essere rispondente al fine di evitare
la perpetuazione dei giudizi e di conseguire un accertamento definitivo – il che costituisce, del resto, lo
scopo stesso dell’attività giurisdizionale e realizza l’interesse fondamentale dell’ordinamento alla certezza delle situazioni giuridiche – è pienamente conforme alla funzione di giudice ultimo della legittimità affidata alla medesima Corte di cassazione dall’art. 111 Cost.” (Corte cost., sent. n. 294 del 1995).
Dall’altro, si avvertiva la necessità di porre rimedio ad errori di fatto di tipo percettivo, che non potevano essere tollerati pur in presenza di una decisione irrevocabile.
Dopo che la stessa Corte costituzionale aveva evitato, nonostante varie sollecitazioni, di far luogo ad
una pronuncia additiva che consentisse di aprire dei varchi nell’intangibilità del giudicato, assumendo
che si trattava di scelte discrezionali del legislatore (sent. n. 294/1995, cit.), si pervenne all’introduzione
dell’art. 625-bis. La norma, pur determinando, comunque, una deroga al principio dell’intangibilità del
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giudicato, ha, però, limitato la possibilità, da parte del condannato di richiedere la correzione, soltanto
all’ipotesi di errore materiale o di fatto. Come ripetutamente ribadito, deve quindi trattarsi di un errore
percettivo causato da una svista o da un equivoco. Non è consentito, invece, il rimedio straordinario
quando ci si trovi in presenza di un errore valutativo.
Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 37505 del 14/07/2011, Corsini, Rv. 250528, nel confermare il
giudizio formulato dalle stesse Sezioni Unite in precedenza (sent. n. 16103 del 27/03/2002, BASILE,
Rv.221280), hanno ulteriormente precisato che, qualora la causa dell’errore non sia identificabile esclusivamente in una fuorviata rappresentazione percettiva e la decisione abbia comunque contenuto valutativo, non è configurabile un errore di fatto, bensì di giudizio, come tale escluso dall’orizzonte del rimedio straordinario. In conclusione il principio ispiratore di tutte le norme sopraindicate consente di
affermare che, quando il giudice della cognizione abbia espresso le sue valutazioni (a meno di errori
macroscopici di calcolo o di applicazione di una pena avulsa dal sistema), non sia possibile rimettere in
discussione il giudicato. Applicando tale principio alla questione rimessa alle Sezioni Unite, deve affermarsi, quindi, che, quando la pena accessoria inflitta sia frutto di un errore valutativo del giudice
della cognizione, non sia possibile emendarla in sede esecutiva.
6.2. In secondo luogo, l’intervento del giudice dell’esecuzione è ammesso sempre che non implichi
valutazioni discrezionali in ordine alla specie ed alla durata della pena accessoria. Tanto è ricavabile
dallo stesso art. 183 disp. att. c.p.p., che consente al pubblico ministero di richiedere, quando non si sia
provveduto in sede di cognizione, l’applicazione di una pena accessoria, purché questa sia “predeterminata dalla legge nella specie e nella durata”. Anche in tema di disciplina del concorso formale e del
reato continuato a norma dell’art. 671 (nella quale, come si è visto, per espresso dettato normativo,
maggiori sono i poteri riconosciuti al giudice dell’esecuzione), l’art. 187 disp. att. c.p.p. prevede che si
considera violazione più grave quella per la quale è stata inflitta la pena più grave, anche quando per
alcuni reati si è proceduto con giudizio abbreviato. Tale specifica regola, diversa da quella operante nella fase di cognizione, è dettata dai limitati poteri dell’organo giurisdizionale in executivis, chiamato a
dare attuazione al dictum contenuto nella sentenza, interpretandolo od integrandolo, senza facoltà di
determinarlo. E tale diversità non è in contrasto con il parametro costituzionale dell’art. 24 Cost., poiché
i poteri del giudice dell’esecuzione sono ispirati al criterio della intangibilità del giudicato e consistono
nel rideterminare il trattamento sanzionatorio sulla base di un criterio oggettivo meno discrezionale di
quello spettante al giudice della cognizione (cfr. Sez. l, n. 6362 del 31/01/2006, Zungri, Rv. 233442).
L’applicazione della confisca, rientrante tra le altre competenze del giudice dell’esecuzione ex art. 676
c.p.p., riguarda solo la confisca obbligatoria. Quella facoltativa, infatti, può essere disposta soltanto dal
giudice che pronuncia la condanna e non, quindi, nella fase esecutiva (tra le altre Sez. 1, n. 27172 del
16/04/2013, Biosa, Rv.256614; Sez. 1, n. 17546 del 20/04/2012, Ebrahim, Rv. 252888). In applicazione
del dato di sistema, che esclude interventi che comportino valutazioni di carattere discrezionale del
giudice dell’esecuzione, si è ritenuto, tra l’altro, che il condannato con sentenza definitiva per il delitto
di cui all’art. 630 c.p. non possa, a seguito della sentenza Corte cost. n. 68 del 2012, richiedere in sede
esecutiva il riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 311 c.p. (Sez. 1, n. 28468 del 23/04/2013, Facchineri, Rv. 256118), ovvero che il mancato adempimento, entro il termine fissato, dell’obbligo di demolizione del manufatto abusivo, cui sia subordinata la concessione della sospensione della pena, determini la revoca di diritto del beneficio, non essendo attribuito al giudice dell’esecuzione alcun margine
di discrezionalità (Sez. 3, n. 32834 del 19/06/2013, Natalizi, Rv. 255874).
6.3. Tra le pene accessorie emendabili in sede esecutiva senza alcuna discrezionalità valutativa, può
farsi riferimento, a titolo esemplificativo, alle previsioni dell’art. 29 c.p., che ancorano, in modo tassativo, la pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici a condanne inflitte per una pena
principale non inferiore a cinque anni ovvero che contengano la dichiarazione di abitualità o di professionalità nel delitto, e quella della interdizione temporanea per la durata di anni cinque in relazione a
condanne per pene non inferiori a tre anni, ovvero a quelle di cui all’art. 609 nonies c.p., comma 1, n. 2,
(interdizione perpetua da qualsiasi ufficio attinente alla tutela, alla curatela e all’amministrazione di sostegno); o ancora a quelle dell’art. 317-bis c.p. (interdizione perpetua dai pubblici uffici in caso di condanna non inferiore a tre anni), dell’art. 512 c.p. (interdizione da ogni ufficio sindacale per la durata di
anni cinque) e del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 216 (inabilitazione, per la durata di anni dieci,
all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi
presso qualsiasi impresa). Non sono consentiti, invece, interventi manipolatori del giudicato che comportino, da parte del giudice dell’esecuzione, l’esercizio di poteri discrezionali, con il ricorso ai criteri di
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cui all’art. 133 c.p., per la determinazione della durata della pena accessoria.
6.4. Aspetti particolari presenta l’art. 37 c.p. che prevede, nel caso in cui ad una condanna debba
conseguire una pena accessoria temporanea non espressamente determinata, che essa abbia una durata
uguale a quella della pena principale (anche se in nessun caso può oltrepassare il limite minimo e quello massimo stabiliti per ciascuna specie di pena accessoria).
La norma è di facile applicazione nel caso in cui il legislatore si limiti ad indicare soltanto il tipo di
pena accessoria applicabile, come ad es. per alcune delle ipotesi previste dall’art. 609-nonies c.p., ovvero
dell’art. 317 bis c.p. che fa genericamente riferimento all’interdizione temporanea dai pubblici uffici,
oppure ancora dell’art. 31 c.p. che prevede l’interdizione temporanea dai pubblici uffici in relazione ad
ogni condanna per delitti commessi con abuso di un pubblico ufficio o di una professione o di un’arte.
In tutti tali casi non c’è dubbio che la durata della pena accessoria dovrà essere commisurata alla durata
della pena principale inflitta. Diverso è il caso in cui la pena accessoria sia indicata con un limite minimo o massimo di durata. In proposito si sono formati due indirizzi interpretativi. Secondo un primo
orientamento, il disposto dell’art. 37 c.p. non trova applicazione quando la pena accessoria sia indicata
con la previsione di un minimo o di un massimo, giacché anche in tal caso la pena accessoria deve considerarsi espressamente determinata dalla legge e spetta al giudice stabilirne, in concreto, la durata attraverso i parametri di cui all’art. 133 c.p. (in tal senso, tra le altre, Sez. F, n. 35729 del 01/08/2013,
Agrama, Rv. 256581; Sez. 3, n. 42889 del 15/10/2008, Di Vincenzo, Rv. 241538; Sez. 3, n. 25299 del
17/04/2008, Ravara, Rv. 240256; Sez. 3, n. 42889 del 15/10/2008, Di Vincenzo, Rv. 241538; Sez. 5, n. 759
del 21/09/1989, Denegri, Rv. 183110). Per un secondo orientamento, invece, può parlarsi di pena
“espressamente determinata” solo quando il legislatore fissi in concreto la durata, mentre in tutti gli altri casi (sia che venga indicato il minimo e il massimo, ovvero il solo minimo o il solo massimo), trova
applicazione l’art. 37 cod. pen. e quindi la pena accessoria va determinata con riferimento a quella principale inflitta (così Sez. 3, n. 20428 del 02/04/2014, S., Rv. 259650; Sez. 5, n. 29780 del 30/06/2010, Ramunno, Rv. 248258; Sez. 3, n. 41874 del 09/10/2008, Azzani, Rv. 41874; Sez. 1, n. 19807 del 22/04/2008,
Ponchia, Rv. 240006; Sez. 5, n. 9198 del 15/03/2000, Albini, Rv. 215987). Ritengono le Sezioni Unite che
sia condivisibile il secondo indirizzo interpretativo. Non risulta decisivo l’argomento adoperato da Sez.
F, n. 35729 del 2013, cit., secondo cui, in presenza di una forbice applicativa, tra un minimo ed un massimo, il legislatore abbia inteso dare applicazione ai principi costituzionali della individualizzazione e
funzione rieducativa della pena, demandando al giudice di merito una valutazione discrezionale sulla
base dei parametri di cui all’art. 133 c.p. Anche ancorando la pena accessoria a quella principale, risultano rispettati, infatti, gli indicati principi costituzionali, dal momento che di essi ha già tenuto conto il
giudice di merito nell’applicare la pena principale e, di riflesso, quella accessoria. Deve quindi farsi ricorso alla interpretazione letterale, tenendo conto anche della collocazione sistematica della norma. Pena “espressamente determinata” è solo quella che sia stata indicata nella specie e nella durata, come del
resto confermato dall’art. 183 disp. att. c.p.p. che consente di rimediare, come si è visto, in sede esecutiva, in malam partem, alla omissione dell’applicazione di una pena accessoria, purché essa sia “predeterminata nella specie e nella durata”. La determinazione o predeterminazione per legge presuppone,
quindi, che non vi sia margine di discrezionalità nell’applicazione della pena. E tanto certamente non si
verifica quando sia previsto un minimo ed un massimo entro il quale il giudice possa spaziare. Ma, a
ben vedere, nelle ipotesi alle quali fa riferimento l’indirizzo interpretativo sopra indicato, non può parlarsi neppure di uno “spettro”, di una “forbice” o di un “intervallo” edittale. Significativamente il legislatore non adopera le preposizioni “da” “a”, cui ordinariamente ricorre nell’indicare la pena edittale
per i reati, ma sempre le parole “non inferiore” e “non superiore” oppure “fino a”. Ulteriore argomento
letterale, che fa propendere per il secondo orientamento interpretativo, è rappresentato dall’inciso finale del medesimo art. 37 c.p., laddove si specifica che “in nessun caso può oltrepassarsi il limite minimo
e quello massimo stabiliti per ciascuna specie di pena accessoria”. Non vi sarebbe stata, invero, necessità di tale precisazione, se il principio della uniformità temporale tra pena principale e pena accessoria,
sancito dalla norma, non avesse trovato applicazione nelle ipotesi di indicazione di un minimo o di un
massimo della durata di ciascuna specie di pena accessoria. È quindi la norma stessa a stabilire implicitamente che il criterio in essa formulato trovi applicazione anche quando sia previsto un minimo o un
massimo. Infine, ragioni riconducigli alla collocazione sistematica della norma confermano gli argomenti di carattere letterale in precedenza evidenziati L’art. 37 c.p. è norma di carattere generale che è
collocata alla fine del Capo 3^ del Titolo 2^ del Libro 1^ c.p., riservato alle pene accessorie; è posto
quindi come norma di “chiusura” che trova applicazione in ogni ipotesi in cui il legislatore non abbia
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diversamente stabilito, attraverso una indicazione precisa della durata della pena accessoria da applicare. Ed infatti, quando il legislatore ha voluto indicare tale durata, lo ha espressamente stabilito, come si
ricava dal disposto dell’art. 29 c.p. in relazione all’interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici. Con le espressioni “non inferiore”, “non superiore”, “fino a” si è, quindi, voluto soltanto stabilire un
limite invalicabile, nel minimo o nel massimo, senza alcuna indicazione della durata della pena accessoria, e si è demandato al giudice di parametraria a quella della pena principale. Va ricordato, infine,
che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 134 del 2012, nel dichiarare inammissibili le questioni di
legittimità costituzionale del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 216, u.c., sollevate in riferimento agli artt. 3
e 4 Cost., e art. 27 Cost., comma 2, e art. 41 Cost., ribadiva (da ultimo ord. n. 293 del 2008), da un lato,
“l’opportunità che il legislatore ponga mano ad una riforma del sistema delle pene accessorie, che lo
renda pienamente compatibile con i principi della Costituzione ed in particolare con l’art. 27 Cost.,
comma 3”, e, dall’altro, riteneva che l’addizione normativa richiesta dai giudici rimettenti non costituiva una soluzione costituzionalmente obbligata. A tale ultimo proposito evidenziava che si chiedeva alla
Corte di aggiungere le parole “fino a” all’art. 216, u.c. al fine di rendere applicabile l’art. 37 c.p., ma che
tale soluzione era soltanto una di quelle “astrattamente ipotizzagli in caso di accoglimento della questione: infatti sarebbe anche possibile prevedere una pena accessoria predeterminata ma non in misura
fissa (ad esempio da cinque a dieci anni) o una diversa articolazione delle pene accessorie in rapporto
all’entità della pena detentiva”. Vi era, quindi, l’implicito riconoscimento che la soluzione indicata dai
giudici rimettenti (una delle possibili), è cioè con l’aggiunta alla disposizione normativa delle parole
“fino a”, avrebbe reso possibile l’applicazione dell’art. 37 c.p. Anche in tutte le ipotesi previste dall’art.
37 c.p. (secondo l’interpretazione in precedenza prospettata) deve, pertanto, ritenersi consentito
l’intervento in executivis: pur non essendo la durata della pena accessoria predeterminata per legge, è
possibile, infatti, determinarla con certezza ed automaticamente (senza alcuna valutazione discrezionale del giudice della esecuzione), sulla base della durata della pena principale inflitta dal giudice della
cognizione, tenendo conto dei limiti invalicabili previsti per ciascuna specie.
7. Va, quindi, affermato il seguente principio di diritto: “L’applicazione di una pena accessoria extra o contra legem da parte del giudice della cognizione può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della
sentenza, dal giudice dell’esecuzione, purché essa sia determinata per legge (o determinabile, senza alcuna
discrezionalità) nella specie e nella durata, e non derivi da un errore valutativo del giudice della cognizione”.
8. Alla stregua del principio di diritto in precedenza enunciato, il ricorso risulta infondato e va, pertanto, rigettato.
8.1. Il G.u.p., nell’individuare, peraltro erroneamente (cfr. Sez. U, n. 25939 del 28/02/2013, Ciabotti),
il reato più grave in quello di cui all’art. 609 bis c.p. (punito con la pena della reclusione da cinque a dieci anni, mentre l’art. 317 c.p., all’epoca dei fatti, era sanzionato con la pena della reclusione da quattro a
dodici anni, e quindi con una pena detentiva maggiore nel massimo), non ha comunque tenuto conto di
quanto disposto dall’art. 77 c.p. Tale articolo (rubricato “Determinazione delle pene accessorie”) prevede al comma 1: “Per determinare le pene accessorie e ogni altro effetto penale della condanna, si ha riguardo ai singoli reati per i quali è pronunciata la condanna, e alle pene principali che, se non vi fosse
concorso di reati, si dovrebbero infliggere per ciascuno di essi”.
Avrebbe dovuto, quindi, il G.u.p. indicare la pena che, se non vi fosse stato il concorso, sarebbe stata
inflitta in concreto per il reato di cui all’art. 317 c.p.
8.2. In mancanza di siffatta indicazione, la pena accessoria (non predeterminata nella durata) non è
neppure determinabile, non potendosi far riferimento, ai sensi dell’art. 37 c.p., alla durata della pena
principale. In relazione al reato di cui all’art. 317 c.p., per il quale il B. è stato condannato, la pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici è, infatti, ai sensi dell’art. 317-bis c.p., perpetua, nondimeno,
se per circostanze attenuanti viene inflitta la reclusione per un tempo inferiore a tre anni, la condanna
importa l’interdizione temporanea. Né, in contrasto con quanto espressamente previsto dall’art. 77 c.p.,
può farsi riferimento, come assume il ricorrente, all’aumento applicato ex art. 81 c.p.
8.3. Correttamente pertanto il G.i.p. ha rigettato la richiesta di rideterminazione della pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici in quella della interdizione temporanea, in quanto essa presupponeva un intervento, di carattere discrezionale (per la determinazione della durata), del
Giudice dell’esecuzione.
[Omissis]
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | EMENDABILE IN ESECUZIONE L’ILLEGALITÀ DELLA PENA ACCESSORIA
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TERESA ALESCI
Dottore di ricerca in Procedura penale – Seconda Università degli Studi di Napoli
I poteri del giudice dell’esecuzione sulla determinazione
della pena accessoria illegale: presupposti e limiti
Powers of execution’s judge and illegal addiction penalty:
suppositions and limits
Chiamate a pronunciarsi sui poteri del giudice dell’esecuzione, le Sezioni Unite circoscrivono le ipotesi in cui è
possibile emendare la sentenza che ha applicato una pena accessoria extra o contra legem. In particolare, la Suprema Corte ammette l’intervento in executivis sulla pena accessoria illegale, a condizione che essa sia determinata o determinabile, nella specie e nella durata. La sentenza in commento offre molteplici spunti di riflessione sul
valore attuale del giudicato, sul rispetto del principio di legalità e sulle inevitabili ripercussioni sui poteri del giudice
dell’esecuzione.
The Supreme Court circumscribe hypothesis in which is possible to amend a decision that applied an illegal addition penalty. Indeed, the Supreme Court admits the interference in executivis on illegal addition penalty, in case of
penalty that is fixed or determinable in the kind and in the time. The decision offers a lot of considerations on actual value of judgment, on the respect of legality principle and on the repercussions on the powers of execution’s
judge.
LA VICENDA
Il ricorrente veniva condannato nel giudizio abbreviato dal G.u.p. del Tribunale di Roma, alla pena di
anni tre di reclusione, con l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, per i delitti di cui agli artt. 609 bis,
317 e 527 c.p.
Con successiva ordinanza il G.i.p., in funzione di giudice dell’esecuzione, rigettava l’istanza del ricorrente volta alla correzione, eliminazione o rideterminazione della pena accessoria inflitta. Da un lato,
il condannato lamentava l’illegalità della pena accessoria inflitta, ovvero l’interdizione perpetua dai
pubblici uffici in luogo di quella temporanea, dall’altra il giudice adito asseriva che l’intervento sulla
pena accessoria nella fase esecutiva può esplicarsi solo in relazione ad una pena predeterminata per
legge nella specie e nella durata. Nel caso in esame l’omessa determinazione della pena principale da
irrogarsi per il reato di cui all’art. 317 c.p. non permetteva, invece, di stabilire in astratto la durata della
pena accessoria né di parametrarla alla pena principale 1. Secondo il giudice dell’esecuzione, la richiesta
sulla verifica della legittimità della pena accessoria avrebbe trasformato il giudizio esecutivo in quello
di merito.
La difesa del ricorrente proponeva, dunque, ricorso per Cassazione, ritenendo che la mancanza di
un’esplicita indicazione della pena irrogata per il delitto di concussione non precludesse la disapplica1
L’istante era stato condannato per i delitti di cui agli artt. 609-bis, 317 e 527 c.p., alla pena complessiva di anni tre di reclusione così determinata: pena base per il reato più grave, individuato nel delitto di cui all’art. 609 bis c.p., anni sei di reclusione,
ridotti ad anni 4 e mesi 5 per le concesse circostante attenuanti generiche, aumentati ad anni quattro e mesi sei a titolo di continuazione per i rimanenti reati, senza ripartizione della pena tra gli stessi, e ridotti, infine, alla indicata pena finale per
l’applicazione della diminuente per la scelta del rito, con la pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici. Il
giudice ha omesso di indicare la pena principale da irrogarsi per il reato di cui all’art. 317 c.p.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | I POTERI DEL GIUDICE DELL’ESECUZIONE SULLA DETERMINAZIONE DELLA PENA
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zione in sede esecutiva della pena accessoria illegittima. Una volta determinata la pena per il reato di
cui all’art. 317 c.p. – secondo la tesi difensiva– il giudice dell’esecuzione avrebbe dovuto uniformare,
senza alcuna discrezionalità, la sanzione accessoria a quella principale.
Investita della questione, la Corte di Cassazione rilevava, sul punto, la sussistenza di differenti soluzioni interpretative. Se per un primo orientamento maggioritario, la correzione in sede esecutiva
dell’errore nell’irrogazione della pena accessoria risultava ammissibile solo laddove quest’ultima fosse
predeterminata nell’an e nel quantum e non richiedesse l’esercizio di poteri discrezionali da parte del
giudice dell’esecuzione 2, un diverso indirizzo interpretativo, minoritario, precisava che «non è deducibile con il rimedio dell’incidente di esecuzione l’errore commesso dal giudice di cognizione nell’applicare con la sentenza di condanna le pene accessorie, trattandosi di modifica sostanziale del dictum della
sentenza, possibile solo nel giudizio di cognizione attraverso il rimedio dell’impugnazione» 3.
Alla luce del contrasto giurisprudenziale esistente sulla tematica in esame, espressione di un più
ampio dibattito avente ad oggetto il contenuto stesso del principio di legalità e i limiti della sua operatività in malam e in bonam partem con riguardo alle pene accessorie in sede esecutiva, la Prima Sezione
rimetteva la questione alle Sezioni unite.
Plurime sono le riflessioni che il percorso argomentativo alimenta e diverse sono le tematiche coinvolte: il bilanciamento tra firmitas del giudicato 4 e principio di legalità e il riconoscimento, sempre più
ampio, di poteri al giudice dell’esecuzione.
IL SUPERAMENTO DEL MITO DEL GIUDICATO
Preliminarmente, le Sezioni Unite affrontano il tema del “giudicato” nell’attuale sistema processuale. Se
in passato la ratio dell’intangibilità del giudicato, espressione di uno stato autoritario 5, si rinveniva nella necessità di assicurare certezza giuridica al caso concreto e dare prevalenza all’interesse collettivo rispetto a qualsivoglia interesse nazionale 6, con l’emanazione della Carta Costituzionale, il giudicato ha
assunto una funzione diversa. Parallelamente, se in passato la sacralizzazione del giudicato comportava
una marginalizzazione della fase esecutiva, con l’individuazione della finalità rieducativa della pena ex
art. 27 Cost., sono stati riconosciuti maggiori poteri in executivis, a danno dell’intangibilità del giudicato.
La cedevolezza del giudicato penale ha trovato nel codice vigente – sebbene sia stato adeguatamente
preceduto dalla riforma dell’ordinamento penitenziario 7 – riscontro univoco percepibile nella legittimazione attribuita al giudice dell’esecuzione di riconoscere la continuazione o il concorso formale tra
reati giudicati separatamente 8. Nel tempo, la prassi tendente alla rimozione degli effetti pregiudizievoli
connessi ad una statuizione di condanna non più attuale, si è arricchita, sia per effetto dell’interpretazione giurisprudenziale che per le molteplici novelle legislative, di ulteriori “ipotesi” emblematiche 9 di
2
Cass., sez. VI, 20 gennaio 2011, n. 13768, in CED Cass., n.249908; Cass., sez. I, 17 ottobre 2012, n. 4385, in CED Cass., n.
253701.
3
Cass., sez. I, 19 febbraio 2009, n. 14827, in CED Cass., n. 243740; Cass., sez. I, 10 maggio 2011, n. 33086, in CED Cass., n.
250672.
4
Si veda F. Callari, La firmitas del giudicato penale. Essenza e limiti, Milano, 2009.
5
Cfr. G. Riccardi, Giudicato penale e incostituzionalità della pena. Limiti e poteri della rideterminazione della pena in executivis in
materia di stupefacenti, in Dir. pen. contemp., 26 gennaio 2015, p. 2
6
Si veda G. Leone, Il mito del giudicato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1956, p. 167 e ss.; N. Coviello, Dè giudicati di stato, in Arch.
giur.,1891, p. 210.
7
L. 26 luglio 1975, n. 685. Secondo U. Lucarelli, L’istituto del giudicato, Torino, 2006, p. 14, tale legge, nell’introdurre meccanismi di adeguamento della pena inflitta alla personalità del condannato, ha finito con lo scalfire la tradizionale rigidità della pretesa punitiva dello Stato nel momento della sua attuazione.
8
Art. 671 c.p.p.; per un’analisi dettagliata si rinvia a G. Ciani, Esecuzione, in G. Lattanzi-E. Lupo (diretto da), Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, Milano, 2012, p. 96 e ss.
9
Si pensi all’introduzione di un ulteriore mezzo d’impugnazione straordinario, quale il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto, ex art. 625-bis c.p.p., introdotto dalla l. 26 agosto 2001, n. 128, e all’ampliato concetto di prove nuove in materia
di revisione, come delineato in sede giurisprudenziale (Cass., sez. un. 26 settembre 2001, Pisano, in Cass. pen., 2002, p. 1952). In
tema di ricorso straordinario per cassazione si veda A. Bargi, Ricorso straordinario per cassazione, in Dig. pen., Agg. II, Torino,
2004, p. 735.
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una concezione rinnovata del rapporto tra Stato – giurisdizione e prerogative individuali 10.
In primis, il problema del superamento del giudicato è stato affrontato dalla giurisprudenza più recente della Corte di Cassazione in relazione a interventi normativi e a pronunce della Corte costituzionale, incidenti sul trattamento sanzionatorio. A fronte di un orientamento tradizionale secondo cui la
cessazione degli effetti penali di una sentenza di condanna poteva verificarsi solo nelle ipotesi previste
dall’art. 673 c.p.p., ovvero in caso di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della
norma incriminatrice 11, si è nel tempo affermato l’orientamento che riconosce la prevalenza del valore
della legalità della pena sulla intangibilità del giudicato e quindi la possibilità di rideterminare la sanzione in sede esecutiva 12. Il percorso di affievolimento del giudicato, in favore del più ampio potere riconosciuto al giudice dell’esecuzione, trae origine dalla dichiarazione di incostituzionalità dell’aggravante della clandestinità 13, a seguito della quale la giurisprudenza ha affidato al giudice dell’esecuzione
il compito di individuare la porzione di pena relativa alla norma divenuta incostituzionale e di dichiararla non eseguibile 14. Più recentemente analoghe affermazioni di principio della potestà di rideterminazione della pena in executivis si rinvengono nei casi di declaratoria di incostituzionalità dell’art. 630
c.p. 15 e nei casi di omessa previsione della circostanza attenuante del fatto di lieve entità 16.
Epperò, il mito del giudicato è stato “neutralizzato” anche per effetto delle sentenze di legittimità,
volte ad adeguare l’ordinamento nazionale alla legislazione comunitaria e sovranazionale. Il pensiero
va immediatamente al caso Scoppola, relativo all’illegittima applicazione della pena dell’ergastolo in
luogo della pena di trent’anni di reclusione affermata dalla Corte di Strasburgo 17, e ai cd. fratelli minori
di Scoppola 18.
È proprio con riferimento alla c.d. “saga Scoppola”, scandita da numerose e rilevanti pronunce della
Corte e.d.u., della Corte Costituzionale e delle Sezioni Unite della Cassazione 19, che sono stati affermati
principi importanti a proposito dei rapporti tra legalità della pena inflitta e intangibilità del giudicato.
Nell’epilogo decisorio relativo ai “fratelli minori di Scoppola”, le Sezioni Unite Ercolano hanno sottolineato la dimensione intangibile del bene della libertà personale, che non può essere compromesso, in
virtù dell’intangibilità del giudicato, dall’esecuzione di una pena, anche parzialmente, illegittima. Secondo tale esegesi, quindi, l’istanza di legalità della pena deve ritenersi costantemente sub iudice anche
10
Cfr. G. Ranaldi, Un ulteriore passo verso il “giudicato aperto”: i dilatati poteri del giudice dell’esecuzione in tema di sospensione
condizionale della pena ad abolitio criminis”, in Giur. it., 2007, p. 732.
11
Cass., sez. I, 19 dicembre 2012, n. 27640, in Cass. Pen. 2013, p. 1866.
12
Per una risolutiva ricostruzione delle vicende legate alla “flessibilizzazione” del giudicato, si veda G. Ranaldi, Un ulteriore
passo verso il “ giudicato aperto”: i dilatati poteri del giudice dell’esecuzione in tema di sospensione condizionale della pena ad abolitio criminis”, cit., p. 733.
13
Art. 61, comma 1, n. 11-bis c.p., dichiarato incostituzionale con la sentenza della Corte costituzionale, n. 249 del 2010, n.
249,in Giur. cost., 2010, p. 3984. Per un commento si veda F. Viganò, Nuove prospettive per il controllo di costituzionalità in materia
penale?, in Giur. cost., 2010, p. 3017.
14
Cass., sez. I, 24 febbraio 2012, n. 19361, in Arch. nuova proc. pen., 2012, p. 526; si veda V. Marchese, Gli effetti della declaratoria
di incostituzionalità della circostanza aggravante di clandestinità sulle sentenze passate in giudicato, in Giust. pen., III, 2013, p. 12 e ss.
15
Corte cost., 23 marzo 2012, n. 68, in Foro it., 2012, 7-8, I, p. 1973.
16
Cass., sez. I, 23 aprile 2013, n. 28468, in CED Cass., n. 256118,che tuttavia ha in concreto escluso la rideterminazione, per la
necessità di un esame discrezionale della vicenda non consentito in sede di esecuzione. Per esigenze di completezza si precisa
che la potestà di rideterminazione della pena in executivis è stata riconosciuta anche in riferimento alla declaratoria di incostituzionalità dell’art. 69 comma 4 c.p., relativamente al divieto di dare prevalenza sula recidiva reiterata del fatto di lieve entità di
cui all’art. 73 comma 5 d.p.r. n. 309/90. Si veda Corte cost. n. 215 del 2012; si veda anche Corte cost. n. 105 del 2014 sul fatto di
particolare tenuità della ricettazione e Corte cost. n. 106 del 2014 sui casi di minore gravità nella violenza sessuale.
17
Corte e.d.u., Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia.
18
Per questa terminologia si veda G. Romeo, L’orizzonte dei giuristi e i figli di un dio minore. Ancora sui fratelli minori di Scoppola, aspettando le Sezioni Unite, in Dir. pen. contemp., 16 aprile 2012; F. Viganò, Una prima pronuncia delle Sezioni Unite sui “fratelli minori” di Scoppola: resta fermo l’ergastolo per chi abbia chiesto il rito abbreviato dopo il 24 novembre 2000, in Dir. pen. contemp., 10 settembre 2012; L. Cantarini, Lealtà dell’esecuzione e composizioni sulla pena: la sorte dei fratelli minori di Scoppola?, in Arch. pen. web, 2013. Il
riferimento, come noto, è ai condannati alla pena dell’ergastolo sulla base di una normativa processuale applicata retroattivamente, e ritenuta convenzionalmente illegale dalla Corte e.d.u. 2009 (caso Scoppola), che tuttavia non avevano tempestivamente
proposto il ricorso alla Corte di Strasburgo in seguito all’irrevocabilità della sentenza.
19
Cass., sez. un., 19aprile 2012, n. 34472, in CED Cass., n. 252933; Cass., sez. un., 24 ottobre 2013 n. 18821,in Cass. pen., 2015, p.
28.
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nella fase esecutiva e non trova ostacolo nel dato formale della cd. “situazione esaurita” 20; la linea ermeneutica seguita dal citato orientamento risulta coerente con quanto affermato dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 210 del 2013, secondo cui «nell’ambito del diritto penale sostanziale, è proprio
l’ordinamento interno a reputare recessivo il valore del giudicato, in presenza di alcune sopravvenienze relative
alla punibilità e al trattamento punitivo del condannato, in quanto conosce ipotesi di flessione dell’intangibilità
del giudicato, che la legge prevede nei casi in cui sul valore costituzionale ad esso intrinseco si debbano ritenere
prevalenti opposti valori, ugualmente di dignità costituzionale» 21.
La pronuncia in commento segue l’orientamento già sostenuto dalle Sezioni Unite Gatto 22, che hanno definitivamente consacrato l’erosione del mito dell’intangibilità del giudicato, in virtù del diffondersi dei valori costituzionali che hanno posto in primo piano il bisogno di tutelare in modo adeguato i diritti della persona. Nelle articolate motivazioni, la Suprema Corte asserisce che la necessità di sganciarsi
dalla anacronistica concezione del giudicato, privilegiando esigenze di giustizia rispetto a quelle formali dell’immodificabilità del giudicato, risulta coerente con l’art. 24, comma 4 della Costituzione, relativo
alla riparazione degli errori giudiziari 23. All’affievolimento del giudicato ha contribuito anche
l’accresciuta dimensione della giurisdizione esecutiva, con la maggiore ampiezza di poteri assegnati al
giudice dell’esecuzione 24. Infatti quest’ultimo non è solo tenuto alla verifica di efficacia del titolo esecutivo ma è legittimato ad incidere sul contenuto dello stesso, allorché imprescindibili esigenze di giustizia, dopo la condanna irrevocabile, lo esigano 25.
Alla luce di tali sviluppi, la certezza giuridica tradizionalmente offerta dal giudicato è chiamata a
cedere sempre più il passo alla massima valorizzazione dei diritti della persona, ovvero dei diritti materialmente costituzionali, qualunque sia la fonte di riconoscimento 26.
Nel percorso che ha portato alla cedevolezza del giudicato si inseriscono le Sezioni Unite in commento che, pur ammettendo che i recenti interventi costituzionali riconoscono la prevalenza del principio di legalità della pena sul giudicato, a fronte di sopravvenienze relative alla punibilità e al trattamento punitivo del condannato, consacrano tale prevalenza anche in caso di esecuzione di una pena ab initio illegale; secondo la Suprema Corte, una diversa linea ermeneutica, che riconosca la possibilità di restrizione illegittima della libertà personale in ossequio alla “sacralità del giudicato”, si porrebbe in contrasto con la sentenza della Corte Costituzionale n. 210 del 2013.
L’INTERVENTO IN EXECUTIVIS DEL GIUDICE SULLE PENE ILLEGALI
In totale armonia con la premessa iniziale, le Sezioni Unite ripercorrono il trend giurisprudenziale che
ha riconosciuto al giudice dell’esecuzione l’intervento post iudicatum, in attuazione del principio di legalità della pena, sancito dall’art. 1 c.p. ed implicitamente dall’art. 25 della Costituzione 27.
20
Cfr. G. Riccardi, Giudicato penale e incostituzionalità della pena. Limiti e poteri della rideterminazione della pena in executivis in
materia di stupefacenti, cit., p. 6.
21
Nelle argomentazioni si legge che «in base all’art. 30 comma 4 della legge n. 87 del 1953, il giudicato penale non impedisce al giudice di intervenire sul titolo esecutivo per modificare la pena, quando la misura di questa è prevista da una norma di cui è stata riconosciuta
l’illegittimità convenzionale, e quando tale riconoscimento sorregge un giudizio altamente probabile di illegittimità costituzionale della norma per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.».
22
Cass., sez. un., 14 ottobre 2014, n. 42858, in Cass. pen., 2015, p. 41, con nota di M. Gambardella, Norme incostituzionali e giudicato penale: quando la bilancia pende tutta da una parte. Si veda altresì G. Romeo, Le Sezioni Unite sui poteri del giudice di fronte
all’esecuzione di una pena “incostituzionale”, in Dir. pen. contemp., 17 ottobre 2014, e S. Ruggeri, Giudicato costituzionale, processo penale, diritti della persona. Una breve riflessione su norma, giudicato e ordinamento a margine di Cass. pen., sez.un., sent. 29 maggio 2014
(dep. 14 ottobre 2014), n. 42858, Pres. Santacroce, Est. Ippolito, ric. P.G. Napoli in proc. Gatto, ivi, 22 dicembre 2014.
23
In tal senso, E.M. Mancuso, Il giudicato nel processo penale, Milano, 2012.
24
Si veda F. Caprioli-D. Vicoli, Procedura penale dell’esecuzione, Torino, 2011, p. 261 e ss.
25
Sul punto si veda Corte cost., 27 marzo 1987, n, 115, secondo cui «applicare una pena di misura diversa e con criteri diversi da quelli contemplati dalla legge non può, infatti, essere ritenuto conforme al principio di legalità».
26
Cfr. S. Ruggeri, Giudicato costituzionale, processo penale, diritti della persona, cit., p. 9.
27
Le esigenze di legalità derivanti dall’art. 25 Cost. sono riferibili a tutti i tipi di pena e sono soddisfatte solo a condizione
che la legge, nella quale si realizza la garanzia della previa determinazione della fattispecie di reato e delle pene ad esso conseguenti, sia conforme ai principi costituzionali. Cfr. C. Pecorella, La rideterminazione della pena in sede di esecuzione: le Sezioni Unite
danno un altro colpo all’intangibilità del giudicato, in Dir. pen. proc., 2015, p. 181 e ss.
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In relazione alla pena principale illegale, la giurisprudenza concordemente riconosce la possibilità di intervento in executivis, sin dal periodo antecedente all’introduzione del codice di procedura penale del
1988 28. Come affermato già da risalente pronuncia della Corte costituzionale, infatti, la disposizione di cui
all’art. 25, comma 2, Cost., «non soltanto proclama il principio della irretroattività della norma penale, ma dà fondamento legale alla potestà punitiva del giudice. E poiché questa potestà si esplica mediante l’applicazione di una pena
adeguata al fatto ritenuto antigiuridico, non si può contestare che pure la individuazione della sanzione da comminare
risulta legata al comando della legge, senza che rilevi la soppressione della frase ‘e con le pene da essa stabilite’, in sede
di formulazione definitiva della norma costituzionale» 29. Anche in epoca più recente, il principio di legalità della
pena ha costituito il canone esegetico per il riconoscimento dell’emenda della pena illegale in sede esecutiva. Secondo tale orientamento 30, la profonda valenza costituzionale del principio di legalità, pur in mancanza di una espressa previsione nel processo di esecuzione, impone l’immediata operatività della norma
gerarchicamente superiore, quale l’art. 25 Cost. o l’art. 7 C.e.d.u. 31, da attivare ex art. 670 c.p.p.
Se l’emendabilità in executivis della pena principale trova il proprio fondamento in norme di rango
superiore, in riferimento alle pene accessorie, l’art. 676 c.p.p. attribuisce espressamente al giudice
dell’esecuzione la competenza a decidere. Peraltro, l’ulteriore dato normativo che riconosce al giudice
dell’esecuzione la possibilità di intervento, in caso di mancata applicazione della pena accessorie da
parte del giudice di merito, è dato dall’art. 183 norme att. c.p.p. Tale norma, riconoscendo l’intervento
in executivis in malam partem, a contrario attribuisce al giudice dell’esecuzione la cognizione ad emendare in bonam partem una pena accessoria illegale. È evidente che il concetto di legalità non può restringersi al caso di applicazione di una pena in astratto, non prevista dall’ordinamento, ma attiene ad ogni caso di irrogazione di una pena non prevista, per specie o entità, dalla norma ritenuta applicabile 32.
La specificità del caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte induce a svolgere qualche considerazione preliminare sul tema della pena accessoria.
Senza pretese di esaustività in questa sede, le pene accessorie, che accompagnano necessariamente
una pena principale, sono, ai sensi dell’art. 20 c.p., effetti penali della condanna. Il carattere dell’accessorietà 33 è ricollegabile alla previsione in astratto della sanzione da parte del legislatore, essendo rinvenibili ipotesi in cui, venuta meno l’applicabilità della pena principale, le pene accessorie comminate
trovano comunque applicazione 34.
In giurisprudenza si registra una diversità di opinioni in riferimento all’ipotesi di pena accessoria inflitta dal giudice, non derivante ex lege dalla condanna, o eccedente per specie e qualità il limite legale.
Un primo indirizzo ritiene esperibile l’incidente di esecuzione, perché l’assoluto automatismo
nell’applicazione delle pene accessorie predeterminate per legge sia nella specie che nella durata e,
quindi, sottratte alla valutazione discrezionale del giudice, se da un lato comporta che il p.m. possa
chiedere al giudice dell’esecuzione l’applicazione di una pena accessoria stabilita dalla legge ed omessa
dal giudice in sentenza, dall’altro implica che l’erronea applicazione di una pena accessoria da parte del
giudice di cognizione possa essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato, della sentenza dal
giudice dell’esecuzione 35.
28
Cass., sez. I, 25 giugno 1982, n. 1436, in CED Cass., n. 156173; Cass., sez. III, 24 giugno 1980, Sanseverino, inedita; Cass.,
sez. V, 29 aprile 1985, n. 809, in CED Cass., n. 169333.
29
Cfr. Corte cost., 7 marzo 1962, n. 15.
30
Si veda Cass., sez. I, 03 marzo 2009, n. 12453, in CED Cass., n. 243742; Cass., Sez. IV, 16 maggio 2012, n. 26117, in CED
Cass., n. 253562.
31
Non può essere inflitta alcuna pena superiore a quella che era applicabile al momento in cui il reato è stato commesso.
32
Cass., sez. I, 25 febbraio 2005, n. 9456, in CED Cass., n. 230928. Si veda I. Manca, Alle sezioni unite la questione relativa ai poteri del giudice dell’esecuzione in merito all’erronea od omessa applicazione della pena accessoria irrogata nel definito giudizio di cognizione, in
Dir.pen. contemp., 25 settembre 2014, p. 2.
33
Secondo A. Nappi, Guida al codice penale, Milano, 2008, p. 83, «la funzione delle pene accessorie è soprattutto di prevenzione speciale negativa, perché tendono alla neutralizzazione del reo che viene interdetto l’esercizio di taluni diritti o potestà o capacità, ma hanno anche un’attitudine stigmatizzante, scopo peraltro esclusivo della pubblicazione della sentenza di condanna.
Ma come per le pene pecuniarie, si riconosce che la loro afflittività possa essere funzionale ad un processo di rieducazione inteso come acquisizione da parte del condannato di determinati valori sociali a guida della propria azione».
34
Relazione al testo definitivo del codice penale, in G.U., 26 ottobre 1930, n. 251 (straord.), 4453 (sub n. 4).
35
Cass.,sez. I, 30 gennaio 2013, n. 7346, in CED Cass., n. 254151; Cass., sez. I, 30 novembre 2012, n. 1800, in CED Cass., n.
254288. Anche prima dell’entrata in vigore dell’attuale codice di rito, la giurisprudenza si era espressa in tali termini, si veda
Cass., sez. II, 25 maggio 1973, n. 8079, in CED Cass., n.125464, secondo la quale «l’erronea applicazione di una pena accessoria da
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Secondo un diverso orientamento il giudice dell’esecuzione non può correggere l’eventuale errore
contenuto nella sentenza di condanna, elidendo o rimodellando le pene accessorie previste astrattamene dalla legge, perché si opererebbe una modifica sostanziale del contenuto decisorio della sentenza,
possibile, in assenza di una previsione di legge in tal senso, solo nel giudizio di cognizione attraverso il
rimedio dell’impugnazione 36.
Tuttavia, condivisibilmente, le Sezioni Unite ritengono il contrasto solo apparente, in quanto esso rileva solo in riferimento ad un’unica pronuncia 37; di fatti, le altre due sentenze, che sono poste a fondamento dell’ordinanza di rimessione della Prima Sezione, non negano in toto l’attribuzione della cognizione al giudice dell’esecuzione, ma circoscrivono, con argomentazioni a tratti “contraddittorie”,
l’emendabilità delle pene accessorie illegali entro ambiti molto rigorosi 38. Difatti, se da un lato, in virtù
dell’eccezionalità degli interventi manipolatori in sede esecutiva, ne escludono l’applicazione analogica,
oltre i casi espressamente previsti, dall’altra riconoscendo la prevalenza del principio di legalità della
pena, ammettono l’intervento del giudice dell’esecuzione quando le pena applicate, anche accessorie,
siano avulse da una pretesa punitiva dello stato, ovvero nel caso di abolitio criminis 39.
Così risolto il denunciato contrasto giurisprudenziale, la Suprema Corte ritiene decisivo intervenire
al fine di stabilire i limiti e gli ambiti di intervento sul giudicato da parte del giudice dell’esecuzione in
materia di pene accessorie.
Per risolvere i dubbi che residuano, la Suprema Corte opta per una lettura sistemica dei principi
sanciti nel codice di rito, da cui discendono due corollari.
Le Sezioni Unite escludono l’emendabilità in executivis quando il giudice della cognizione si sia già
pronunciato in proposito e sia pervenuto, anche se in modo erroneo, a conclusioni che abbiano comportato l’applicazione di una pena accessoria illegale. In tal caso, infatti, si sovvertirebbero ruoli e funzioni
processuali che non consentono al giudice dell’esecuzione di poter assumere provvedimenti idonei a
contraddire le valutazioni già espresse dal giudice della cognizione, come risultanti dal testo della sentenza irrevocabile 40. Invero, il sistema individua lo strumento processuale attraverso il quale rimediare
all’errore negli ordinari mezzi di impugnazione. Ed infatti, è proprio il principio ispiratore di tutti i
mezzi d’impugnazione straordinaria, secondo la tesi della Suprema Corte, ad escludere l’emendabilità
in executivis della pena accessoria inflitta per errore valutativo del giudice della cognizione. A titolo
esemplificativo si pensi al significato attribuito al concetto di “prove nuove”, ex art. 630 comma 1 lett. c)
c.p.p., ai fini della revisione, che, secondo giurisprudenza maggioritaria, sono quelle che non siano state
oggetto di esame o di valutazione del giudice della cognizione 41.
Le Sezioni Unite ricordano in proposito che la Corte costituzionale 42 aveva sollecitato l’intervento
del Legislatore per colmare il vuoto normativo relativo all’emendabilità degli errori di «tipo percettivo», non tollerabili neppure in provvedimenti irrevocabili. Successivamente, il Legislatore ha introdotto
l’istituto del ricorso straordinario 43, ex art. 625-bisc.p.p., che ha sì determinato una deroga al principio
dell’intangibilità, ma ha limitato la possibilità per il condannato di richiedere la correzione alla sola ipotesi in cui il giudice sia palesemente incappato in una “svista”. L’errore di giudizio, quindi, resta fuori
parte del giudice della cognizione non può essere eliminata con la procedura della correzione degli errori materiali ma deve essere considerata“giuridicamente inesistente”; e tale giuridica inesistenza può essere fatta valere in sede esecutiva».
36
Cass., sez. I, 10 maggio 2011, n. 33086, in CED Cass., n. 250672; Cass., sez. I, 20 marzo 2007, n. 14007, in CED Cass., 236213;
Cass., sez. I, 19 febbraio 2009, n. 14827, in CED Cass., n. 24370.
37
Cass., sez. I, 10 maggio 2011, n. 33086, cit.
38
Cass., sez. I, 20 marzo 2007, n. 14007, cit.; Cass., sez. I, 19 febbraio 2009, n. 14827, cit.
39
Cass., sez. I, 19 febbraio 2009, n. 14827, in CED Cass., n. 24370; Cass.,sez. I, 30 marzo 2007, n. 14007, in CED Cass., n. 236213.
40
Cfr. G. Romeo, Le Sezioni Unite sui poteri del giudice di fronte all’esecuzione di una pena “incostituzionale”, cit., p. 4.
41
Da ultimo Cass., sez. III, 16 giugno 2013, n. 25476, inedita. Per un commento volendo T. Alesci, I confini della prova nuova ai
fini della revisione, in Arch. pen. web, 2015, 1. Per una ricostruzione analitica dell’istituto della revisione si veda Cfr. M.R. Marchetti, La revisione, V, in G. Spangher (a cura di), Impugnazioni, (Trattato di procedura penale diretto da G. Spangher), Torino, 2009, p. 927.
42
Corte cost., 5 luglio 1995, n. 294, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1995, p. 915; Corte cost. 4 febbraio 1982, n. 21 in Giur. it., 1982, I,
p. 582. In dottrina, di diverso avviso F.R. Dinacci, Ricorso straordinario per errore materiale o di fatto, in G. Spangher (a cura di), Impugnazioni, cit., p. 884, secondo il quale non si può individuare il contenuto normativo dell’art. 625 bis c.p.p., nelle sentenze della
Corte Costituzionale, per l’assenza di un esplicito collegamento nei lavori preparatori alle citate sentenze, nonché per motivi di
ordine temporale.
43
Introdotto con il pacchetto sicurezza, l. 26 marzo 2001, n. 128, Interventi legislativi in materia di tutela della sicurezza dei cittadini.
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dal raggio d’azione del rimedio straordinario 44; tale principio, secondo le Sezioni Unite, è applicabile
anche alla questione cui sono chiamate a pronunciarsi.
D’altro canto, l’intervento del giudice dell’esecuzione va escluso laddove implichi valutazioni discrezionali in ordine alla specie e alla durata della pena accessoria irrogata. Tale convincimento, argomenta la Corte, va desunto dalle disposizioni di cui agli artt. 183 e 187 disp. att. c.p.p. che, limitando il
potere del giudice dell’esecuzione all’attuazione del dictum della sentenza, ne consentono l’interpretazione o integrazione, ma non la determinazione 45. Come affermato da una precedente pronuncia in materia di continuazione nel reato, "la diversità di regole per le due fasi procedimentali non si pone poi in
contrasto con i parametri costituzionali poiché i poteri del giudice dell’esecuzione sono ispirati al criterio dell’intangibilità del giudicato e consistono nel rideterminare il trattamento sanzionatorio sulla base
di un criterio oggettivo meno discrezionale di quello spettante al giudice della cognizione” 46.
LA DURATA DELLE PENE ACCESSORIE TRA INCERTEZZE APPLICATIVE E LACUNE NORMATIVE
Dal percorso esegetico della sentenza emerge che i poteri del giudice dell’esecuzione risultano diversamente circoscritti a seconda della natura della pena accessoria. Le argomentazioni della Suprema Corte
non si esauriscono, quindi, nell’esegesi e nella ricostruzione sistematica della disciplina processuale, ma
involgono anche istituti di diritto sostanziale, che meritano di essere attentamente considerati.
Se da un lato l’attuale codice di rito prevede pene accessorie emendabili con certezza in sede esecutiva senza l’esercizio di alcuna discrezionalità valutativa da parte del giudice dell’esecuzione 47, in virtù
dell’automaticità statuita dall’art. 20 c.p., dall’altro, esiste una ristretta categoria di pene accessorie, definite dalla dottrina “discrezionali”, per le quali la regola dell’automatismo può subire eccezioni in termini di durata, di modalità d’esecuzione ed anche di possibilità di applicazione 48.
Perplessità solleva la disciplina di cui all’art. 37 c.p., relativa alle pene accessorie temporanee, che
adotta il criterio di equivalenza tra pena principiale e pena accessoria, sebbene in nessun caso si può oltrepassare il limite minimo e quello massimo stabilito per ciascuna specie di pena accessoria. Nessuna
incertezza sussiste allorché la durata delle pene accessorie sia espressamente determinata in misura fissa, non operando pacificamente la regola dettata dall’art. 37 c.p. 49. Residuano dubbi, tuttavia, nella particolare ipotesi in cui la legge si limiti a determinare il minimo e il massimo edittale della pena accessoria, ovvero solo il minimo o il massimo.
In dottrina, si ritiene, con orientamento largamente condiviso, che in tale ultima ipotesi, la durata
della pena accessoria non possa considerarsi espressamente determinata e che, quindi, trovi applicazione il principio di equivalenza temporale tra sanzione principale e sanzione accessoria 50. Tale inter-
44
Cass., sez. un., 14 luglio 2011, in CED Cass., n. 250528; precedentemente Cass., sez. un., 27 marzo 2002, n. 16103, in CED
Cass., n. 221280.
45
Sul punto Cass., sez. I, 16 aprile 2013, n. 27172, in CED Cass.,n. 256614; Cass., sez. I, 20 aprile 2012, n. 17546, in CED Cass.,
n. 252888. Secondo tali pronunce, l’applicazione della confisca, rientrante tra le altre competenze del giudice dell’esecuzione ex
art. 676 c.p.p. riguarda solo la confisca obbligatoria, mentre quella facoltativa può essere disposta solo dal giudice del merito, e
non anche nella fase esecutiva.
46
Cfr. Cass., sez. I, 31 gennaio 2006, n. 6362, in Cass. pen. 2007, p. 1664. Si veda I. Manca, Le Sezioni unite ammettono
l’intervento in executivis sulla pena accessoria extra o contra legem, purché determinata per legge nella specie e nella durata, in Dir. pen.
contemp., 8 marzo 2015.
47
Sul punto si può far riferimento a titolo esemplificativo alle previsioni dell’art. 29 c.p., che ancorano in modo tassativo, la
pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici a condanne inflitte per una pena principale non inferiore a cinque
anni, ovvero che contengano la dichiarazione di abitualità o di professionalità nel delitto; ancora si pensi alla interdizione temporanea per la durata di anni cinque in relazione a condanne per pene inferiori a tre anni, ovvero a quelle di cui agli artt. 609
nonies, comma 1, n. 2 c.p., 317 bis, 512 c.p.
48
Cfr. V. Magnani, Il giudicato penale dalla parte del condannato, Milano, 2012, p. 183.
49
È il caso ad esempio dell’art. 28 c.p., il quale dispone che la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni comporta l’interdizione dai pubblici uffici per la durata di cinque anni, nonché dell’art. 216 l. fall., che prevede la pena accessoria
dell’inabilitazione dall’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, in misura fissa di dieci anni. Cfr. L. Puccetti, sub art. 37 c.p., in M. Ronco-B. Romano (a cura di), Codice penale commentato, Torino, 2012, p. 248.
50
Cfr. Visoli, Durata delle pene accessorie speciali nella bancarotta semplice, in Riv. it. dir. proc. pen., 1961, p. 511; S. Larizza, Le pene
accessorie, Padova, 1986, p. 102; E. Bruti Liberati, Il ruolo del giudice nell’applicazione delle pene accessorie, in MT, 1968, p. 1163.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | I POTERI DEL GIUDICE DELL’ESECUZIONE SULLA DETERMINAZIONE DELLA PENA
Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
113
pretazione risulta coerente con l’indirizzo dichiarato nei lavori preparatori del codice, secondo cui «le
pene accessorie conseguono ope legis alla condanna» e «non occorre, perché esse siano operative, una
espressa pronuncia del giudice» 51. Di segno diametralmente opposto una diversa tesi, secondo cui non
si può negare che la pena accessoria prevista in un intervallo edittale sia «espressamente determinata
dalla legge». La eccezionalità della disciplina contenuta nell’art. 37 non consentirebbe l’applicazione oltre i limiti indicati 52. Secondo tale impostazione, in questi casi il giudice, per determinare in concreto la
durata della pena accessoria, deve fare ricorso all’esercizio del proprio potere discrezionale, secondo i
consueti parametri dettati dall’art. 133 c.p. 53.
Una diversità di orientamenti si rinviene anche in ambito giurisprudenziale. Un primo indirizzo interpretativo esclude, quando la durata della pena accessoria temporanea è determinata dalla legge nella
misura minima ed in quella massima, l’applicazione dell’art. 37 c.p., spettando al giudice della cognizione stabilirne in concreto la durata attraverso i parametri di cui all’art. 133 c.p. 54. In senso contrario se
ne ammette l’applicazione, dovendosi poi determinare la pena accessoria con riferimento a quella principale inflitta 55.
Le Sezioni Unite condividono il secondo indirizzo interpretativo, con conseguente applicazione del
principio di uniformità temporale tra pena principale e pena accessoria anche nell’ipotesi di indicazione
di un minimo o di un massimo di durata. Argomentando a contrario sulle perplessità mosse dall’orientamento opposto, la Suprema Corte ritiene che tale soluzione interpretativa sia coerente con i principi
costituzionali della individualizzazione e della funzione rieducativa della pena.
La soluzione del problema dipende, quindi, dal significato da attribuire all’anzidetta espressione e,
per quanto riguarda la fattispecie, consiste nello stabilire se nell’espressione di cui all’art. 37 c.p. siano
comprese anche le pene accessorie per le quali la legge contempli un minimo o un massimo 56.
In particolare, le Sezioni Unite, con metodo logico-sistematico, affermano che la «determinazione o
predeterminazione» per legge che esclude qualsiasi margine di discrezionalità, non sussiste nelle ipotesi in cui vi sia un massimo o un minimo entro il quale il giudice possa spaziare. Ad una attenta lettura
della disposizione, «scevra da sovrastrutture culturali», la dizione «non inferiore» e «non superiore»
oppure «fino a» non consente di ritenere sussistente uno spettro o una forbice edittale e, quindi, ambiti
di manovra discrezionali del giudice di merito.
La precisione di cui all’inciso finale della disposizione, inoltre, non avrebbe ragion d’essere se il
principio di uniformità temporale sopra richiamato non trovasse applicazione anche nell’ipotesi in
esame. La collocazione della norma al termine del capo dedicato alle pene accessorie, con conseguente
valenza di norma di «chiusura», conferma l’interpretazione secondo cui l’art. 37 c.p. trova applicazione
in ogni ipotesi in cui il legislatore non abbia diversamente stabilito, attraverso una indicazione precisa
della durata della pena accessoria da applicare. Secondo tale interpretazione, pertanto, deve ritenersi
ammissibile un intervento in executivis anche nelle ipotesi di cui all’art. 37 c.p., alla luce della possibilità
di determinare automaticamente la pena accessoria, senza alcuna valutazione discrezionale, sulla base
della durata della pena principale inflitta dal giudice della cognizione.
51
Progetto definitivo di un nuovo codice penale con la relazione del Guardasigilli on. A. Rocco, in Lavori preparatori del codice
penale e del codice di procedura penale, V, parte I, Roma, 1929, p. 73.
52
Secondo tale orientamento, la regola eccezionale di cui all’art. 37 c.p., non appare convincente neppure sotto il profilo
strettamente logico, poiché trasferendo alla pena accessoria la durata calcolata in funzione di una pena di specie diversa, omette
di valutare come la durata di una pena dipende sì dalla gravità del fatto e dalla capacità a delinquere del reo ma valutate in
funzione della specie di pena considerata, onde il trasferimento del risultato di questa valutazione ad una pena di specie diversa
costituisce un espediente più sbrigativo che razionale. Cfr. S. Vinciguerra, La riforma del sistema punitivo nella L. 24 novembre
1981,n. 689. Infrazione amministrativa e reato, Padova, 1983, p. 418. Tale interpretazione è seguita anche da P. Pisa, Le pene accessorie. problemi e prospettive, Milano, 1984, p. 60 e più recentemente in AA.VV., Codice penale commentato, Torino, 2012, p. 136.
53
Cfr. P. Pisa, Le pene accessorie. Problemi e prospettive, cit., p. 60.
54
Cfr. Cass., sez. fer., 1 agosto 2013, n. 35729, in CED Cass., n. 256581; Cass., sez. III, 15 ottobre 2008, n. 42889, in CED Cass., n.
241538; Cass., sez. III, 17 aprile 2008, n. 25299, in CED Cass., n. 241538; Cass. sez. V, 21 settembre 1989, n. 759, in CED Cass., n.
183110.
55
Cfr. Cass., sez. III, 2 aprile 2014, n. 20428, in CED Cass., n. 259650; Cass., sez. V. 30 giugno 2010, n. 29780, in CED Cass., n.
248258; Cass., sez. III, 9 ottobre 2008, n. 41874, in CED Cass., n. 41874.
56
Cfr. A.F. Morone, La durata delle pene accessorie: una controversa questione, in Giur. it., 2013, p. 1894.
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ALCUNE CONSIDERAZIONI
L’ambito e i limiti del potere di intervento sul giudicato penale da parte del giudice dell’esecuzione sono un tema applicativo cruciale, oggetto di costante dibattito dottrinale e giurisprudenziale 57.
È evidente, infatti, come la questione implichi necessariamente una scelta tra due esigenze, differenti
tra loro, ma egualmente fondamentali: da un lato la rimozione di situazioni caratterizzate da iniquità
giudiziaria e, dall’altro, la tutela del giudicato, baluardo ormai vacillante, di certezza e stabilità giuridica 58.
Tuttavia, nel caso concreto, la Suprema Corte ritiene il ricorso infondato e pertanto lo rigetta. Nonostante tale conclusione risulti coerente con le argomentazioni sostenute, la stessa evidenzia una “ingiustizia” di fondo. Le ripercussioni applicative non risultano di poco conto: il condannato si troverà a
“subire” una pena accessoria illegale e contraria al sistema penale, essendo sottoposto all’interdizione
perpetua in luogo di quella temporanea.
Lascia perplessi che la Suprema Corte riconosca ed ammetta gli errori cui è incorso il giudice dell’abbreviato 59, che non ha tenuto neppure conto di quanto disposto dall’art. 77 c.p. Ed infatti, l’omessa
determinazione della pena principale con riferimento al reato di concussione non ha consentito, dunque, l’accoglimento della richiesta di rideterminazione della pena accessoria irrogata, non essendo determinabile e quindi non potendo applicarsi il principio di equivalenza, di cui all’art. 37 c.p.
Se da un lato, il sistema consente al condannato di ottenere giustizia attraverso gli ordinari mezzi di
impugnazione, tale per cui in mancanza di doglianza, la preclusione del giudicato non incontra limiti,
dall’altra l’ingiustizia sostanziale del caso in esame, dovuta ad errori del giudice dell’abbreviato, induce
a riflettere sull’opportunità di un intervento legislativo, che elimini le incertezze applicative relative alle
pene accessorie. Anche la Corte costituzionale 60 ha ribadito l’opportunità che il legislatore ponga mano
ad una riforma del sistema delle pene accessorie, che lo renda pienamente compatibile con i principi
della Costituzione ed in particolare con l’art. 27, comma 3 Cost.
Peraltro, il condannato ad una pena illegale, che non abbia esperito i rimedi impugnatori interni ed
in virtù della ritenuta indisponibilità di ulteriori strumenti interni, non potrebbe neppure adire la Corte
di Strasburgo per violazione dell’art. 7 CEDU 61, per mancanza di legittimazione ad agire, non avendo,
volontariamente o perché erroneamente consigliato, esperito i rimedi interni.
E pertanto, in attesa dell’auspicato intervento del legislatore, l’unica strada percorribile per garantire
una “giustizia sostanziale” è l’interpretazione dell’art. 676 c.p.p. in conformità all’art. 7 della Cedu, soprattutto perché, con il tempo, la giurisdizione esecutiva assurge sempre più a controllore della perdurante legalità ed adeguatezza della decisione di merito. Pur scongiurando il pericolo di un processo
continuo che, attraverso la moltiplicazione dei fenomeni erosivi delle situazioni pregresse, attenui la
stabilità di quella che va considerata e difesa come una garanzia precauzionale, l’esecuzione garantisce
la definizione del procedimento e la correlata realizzazione di un interesse dell’ordinamento 62.
57
Cfr. G. Riccardi, Giudicato penale e incostituzionalità della pena. Limiti e poteri della rideterminazione della pena in executivis in
materia di stupefacenti, cit., p. 6; M. Gambardella, Declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma penale non incriminatrice e
intangibilità del giudicato, in Dir. pen. proc., 2014, Speciale CEDU e ordinamento interno, p. 63 e ss.
58
Cfr. G. Dean, Esecuzione penale, in Enciclopedia del Diritto, Annali, II, tomo I, Milano, 2007, p. 237.
59
In primis, la Suprema Corte riconosce che il g.u.p. ha individuato erroneamente il reato più grave in quello di cui all’art.
609-bis c.p. (mentre all’epoca dei fatti, il reato più grave era quello di cui all’art. 317 c.p., punito con pena detentiva maggiore nel
massimo), in contrasto con quanto sancito da Cass., sez. un., 28 febbraio 2013, n. 25939, in Cass. pen., 2014, p. 46.
60
Corte cost., 31 maggio 2012, n. 134, in Giur. cost., 2012, p. 1850; Corte cost.,18 luglio 2008, n. 293, in Giur. cost., 2008, p.
3242.
61
Si veda A. Di Martino, Intersezioni di legalità e “sanzioni” accessorie. Tra giurisprudenza nazionale, diritti umani, sistemi penali
stranieri, in Studi in onore di Mario Romano, Napoli, p. 261 e ss.
62
Cfr. A. Gaito, Impugnazioni e altri controlli: verso una decisione giusta, in A. Gaito (a cura di), Le impugnazioni penali, Torino,
1998, p. 24; N. La Rocca, Ulteriori progressi giurisprudenziali verso la riapertura del giudicato, in Giur. it., 2012, p. 2395.
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Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
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Legittimo impedimento dell’arrestato
e giudizio direttissimo contestuale alla convalida
CORTE DI
RIO
CASSAZIONE, SEZIONE VI, SENTENZA 30 DICEMBRE 2014, N. 53850 – PRES. AGRÒ; REL. CITTE-
Il legittimo impedimento che non permette la presenza fisica dell’arrestato all’udienza non è ostativo alla richiesta
di convalida dell’arresto e del contestuale giudizio direttissimo, presentata ai sensi dell’art. 558 cod. proc. pen.
[Omissis]
FATTO
CONSIDERATO IN FATTO
1. Con provvedimento del 17.12.2013 il Tribunale di Pistoia non ha convalidato l’arresto di F.S. (intervenuto in relazione a reati di furto e resistenza), perché la stessa non era stata presente all’udienza di
convalida e contestuale giudizio direttissimo, in quanto ricoverata presso il locale ospedale per essere
sottoposta ad intervento chirurgico.
Secondo il GIP, l’art. 391 c.p.p., comma 3, doveva considerarsi norma relativa alla sola convalida davanti al GIP; la “presentazione” (fisica) dell’arrestata in udienza costituiva invece presupposto indefettibile e costitutivo del rapporto processuale davanti al giudice del dibattimento che, altrimenti ed a quel
punto non essendo il “giudice che procede” indicato e richiesto dall’art. 279, neppure avrebbe potuto
provvedere su eventuale richiesta di applicazione di misura cautelare; da qui anche l’insussistenza di
alcuna compatibilità che rendesse operante il rinvio consentito dall’art. 449, comma 1. A sostegno della
propria deliberazione il Tribunale richiamava le sentenze della 4^ Sezione di questa Corte n.
19300/2005 e 26450/2009.
2. Ricorre il pubblico ministero, enunciando violazione dell’art. 391 c.p.p., comma 3, art. 449 c.p.p.,
comma 1, e art. 558 c.p.p., comma 4.
Osserva che l’orientamento giurisprudenziale richiamato dal Tribunale sarebbe risalente e superato
da quello più recente di Sez. 3 sent. 27128/2008, Sez. 5 sent. 24612/2009 e Sez. 6 sent. 3410/2011, deducendo che il richiamo operato dall’art. 449 c.p.p., comma 1, e art. 558 c.p.p., comma 4, si estenderebbe
anche all’art. 391, comma 3, con la conseguenza che l’assenza dell’arrestato non impedirebbe il rituale
espletamento della fase di convalida dell’arresto pure davanti al giudice del dibattimento.
3. Il procuratore generale in sede ha presentato conclusioni scritte per l’annullamento dell’ordinanza
con rinvio, riportandosi all’insegnamento di Sez. 6 sent. 3410/2011.
DIRITTO
RAGIONI DELLA DECISIONE
4. Il ricorso pone la questione di diritto se la previsione dell’art. 391 c.p.p., comma 3, (secondo cui “il
giudice procede quindi all’interrogatorio dell’arrestato o del fermato, salvo che questi non abbia potuto
o si sia rifiutato di comparire; sente in ogni caso il suo difensore”) rientri tra quelle, applicabili “in
quanto compatibili”, della procedura prevista per il caso della convalida dell’arresto e giudizio direttissimo (art. 558 c.p.p., comma 4, nella fattispecie).
Il Tribunale ha risposto negativamente, richiamando due sentenze di questa Corte e, in definitiva,
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | LEGITTIMO IMPEDIMENTO DELL’ARRESTATO E GIUDIZIO DIRETTISSIMO
Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
116
giudicando attivabile la procedura della presentazione diretta dell’arrestato al giudice del dibattimento
(in relazione alla già anticipata richiesta del procedere a giudizio direttissimo ove intervenga la convalida dell’arresto) solo quando sia possibile la concreta ed attuale presenza fisica dell’arrestato.
Il procuratore generale ha presentato conclusioni in senso contrario, richiamando altra giurisprudenza di questa stessa Corte.
La questione che pone il caso concreto è pertanto se il pubblico ministero possa o meno chiedere la
convalida dell’arresto e il contestuale giudizio direttissimo quando l’imputato, per situazioni contingenti, non sia nelle condizioni fisiche per essere condotto in udienza, sussistendo pertanto un suo obiettivo e legittimo impedimento a comparire.
5. Secondo l’ordinanza n. 19300/2005 della Quarta sezione di questa Corte, il legittimo impedimento
dell’imputato, impedendo la sua “presentazione” e il conseguente dibattimento sarebbe incompatibile
con l’incardinazione del procedimento davanti al giudice e, quindi, escluderebbe la possibilità della cognizione del giudice del rito direttissimo, tenuto conto della necessità della contestazione orale dell’imputazione. Con Sez. 4 sent. 26450/2009 tale indirizzo è stato confermato, osservandosi che l’ipotesi del
legittimo impedimento a comparire sarebbe diversa da quella della volontaria sottrazione dell’imputato, come nel caso della sua intervenuta evasione.
Hanno invece affermato che la mancata presenza dell’imputato per legittimo impedimento non costituisce evenienza preclusiva del giudizio di convalida dell’arresto e contestuale instaurazione del rito
direttissimo le sentenze Sez. 3, sent. 27128/2008, Sez. 5 n. 24612/2009 e Sez. 6 n. 3410/2011.
Il principio è stato appunto enunciato anche nel caso della assenza volontaria (in fattispecie di evasione) da Sez. 6 sent. 17193/2007 e Sez.5 sent. 11589/2006.
6. Osserva la Corte che quando la polizia giudiziaria procede ad un arresto in flagranza, il pubblico
ministero (che non abbia provveduto alla liberazione ex art. 121 disp. att. c.p.p., ritenendo sussistente
una delle situazioni considerate dall’art. 389 c.p.p.) può chiederne la convalida al GIP (ex art. 390 c.p.p.)
ovvero al giudice del dibattimento se contestualmente chiede di procedersi poi con rito direttissimo (ex
art. 558 c.p.p., o art. 449 c.p.p.).
L’indirizzo giurisprudenziale che nega l’applicabilità dell’art. 391 c.p.p., comma 3, al caso della richiesta di convalida e contestuale giudizio direttissimo pare fondarsi sostanzialmente su due ragioni:
l’impossibilità di procedere alla contestazione orale dell’imputazione e l’incompatibilità strutturale del
rito in assenza dell’imputato arrestato, perché legittimamente impedito.
Tali argomentazioni non possono essere condivise.
L’impossibilità di una contestazione orale dell’imputazione è peculiarità propria dell’impedimento a
comparire dell’arrestato e, per sé, non spiega perché tal genere di contestazione potrebbe mancare davanti al GIP (e non violando in modo determinante alcuna possibilità di difesa) ed invece essere essenziale (sempre sotto il profilo dell’efficacia della contestazione dell’imputazione) davanti al giudice del
dibattimento. In altri termini, il rapporto giudice – imputato arrestato (e non liberato ex art. 121 disp.
att. c.p.p.) è il medesimo, nei suoi contenuti e nelle sue implicazioni sull’espletamento del diritto di difesa in relazione alla prevalente necessità di verifica giurisdizionale sulla legittimità dell’arresto, tanto
davanti al GIP quanto davanti al tribunale. Ciò tenuto pure conto che per espressa previsione del medesimo art. 391 c.p.p., comma 3, nel caso di assenza dell’arrestato deve comunque essere sentito il suo
difensore.
Neppure può affermarsi sussistere alcuna incompatibilità strutturale tra convalida/rito direttissimo
e temporaneo impedimento dell’imputato arrestato. Il rito direttissimo, infatti, è per sé compatibile anche con l’assenza dell’imputato, essendo adottabile anche nei confronti di imputato in stato di libertà
(ex art. 450 c.p.p., comma 2, art. 452 c.p.p., comma 2, e art. 451 c.p.p., comma 1: Sez. 1^, sent.
5454/1998). Né la assoluta contestualità tra convalida e giudizio (inteso come celebrazione del processo
e decisione sull’imputazione) risulta essere elemento strutturale indispensabile: basti pensare alla fisiologica possibilità che l’arrestato, pur presente, chieda i termini a difesa e, in esito al loro decorso, eventuali riti alternativi. Del resto, deve rilevarsi l’intrinseca debolezza della tesi, per il vero solo accennata
ma significativamente indicata per negare il contrasto giurisprudenziale, esposta nella sentenza Sez. 4
n. 26450/2009, in ordine alla diversità delle fattispecie dell’impedimento legittimo e della volontà di
sottrazione (nel caso di evasione), posto che sul piano sistematico vi è in entrambi i casi la situazione di
una convalida di arresto con richiesta di rito direttissimo proposta in un contesto di urgenza – per la valutazione della legittimità dell’arresto – e tuttavia nella fisica assenza dell’imputato arrestato.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | LEGITTIMO IMPEDIMENTO DELL’ARRESTATO E GIUDIZIO DIRETTISSIMO
Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
117
In realtà, sul piano sistematico appare del tutto fisiologica una situazione di procedimento per la
quale, deliberata positivamente la convalida dell’arresto e preso atto della richiesta contestuale della
parte pubblica di procedere con il rito direttissimo, il giudice del dibattimento, competente funzionalmente in relazione alla duplice contestuale richiesta (convalida e rito direttissimo) ed a prescindere
dall’eventuale emissione di misura custodiale, prenda atto del legittimo impedimento dell’imputato e
rinvii il dibattimento a momento successivo quello di superamento dell’impedimento, procedendo poi
secondo le cadenze proprie del rito direttissimo (che, va ricordato, non è rito “accelerato” ma rito senza
indagini precedenti).
6.1 Del resto, venendo ad argomento che per il vero questa Sezione giudica determinante per la soluzione del quesito, ancorché ma non risulti essere stato oggetto in precedenza di specifica considerazione, la ragione che parrebbe sottesa all’indicazione della tendenziale differenza qualitativa tra le diversi situazioni dell’arrestato assente per legittimo impedimento e quello tale per scelta (l’evaso) non
solo finisce con l’evidenziare la debolezza dell’argomento del diritto insopprimibile ad una contestazione orale ma, e questo appare determinante, condurrebbe al ben contraddittorio esito di imporre la
carcerazione dell’assente per impedimento legittimo, a fronte della possibile trattazione in stato di libertà dell’evaso (si pensi poi al caso in cui lo stato di evasione cessi a seguito della concreta decisione
del giudizio direttissimo).
Ed invero, va evidenziata la principale diversa conseguenza pratica della scelta operata dal pubblico
ministero (GIP o giudice del dibattimento) sulle modalità di limitazione della libertà personale
dell’arrestato. L’art. 386 c.p.p., comma 4, prevede che quando alla convalida deve provvedere il GIP la
messa a disposizione dell’arrestato per il pubblico ministero avviene mediante la conduzione nella casa
circondariale del luogo dove l’arresto è stato eseguito (ovvero presso altra casa circondariale o nel luogo diverso, ma nell’ambito di quelli previsti dall’art. 284 c.p.p., se così espressamente disposto dal pubblico ministero); non vi è invece alcun transito per casa circondariale o luogo compatibile con arresti
domiciliari se il pubblico ministero provvede ai sensi dell’art. 558 c.p.p.. Nel caso di scelta per la richiesta di convalida dell’arresto e contestuale giudizio direttissimo la norma prevede infatti espressamente
che l’arrestato è presentato direttamente al giudice del dibattimento o, se questi non tiene udienza, entro le 48 ore successive (per l’udienza che il giudice deve fissare): anche in questo secondo caso, però,
l’arrestato non transita per la casa circondariale (come chiaramente e specificamente disposto dalla seconda parte dell’art. 558 c.p.p., comma 2).
Orbene, risulterebbe del tutto singolare, sul piano della ricostruzione sistematica, che a fronte del ritenuto eccezionale pregiudizio del non poter avere una tempestiva contestazione orale dell’imputazione (e nonostante il suo difensore debba essere ascoltato e possa svolgere ogni difesa) l’arrestato fosse, come conseguenza immediata della tutela apprestata per tale potenziale lesione, costretto a “passare” per la casa circondariale, appena cessata la situazione che ne ha determinato l’impedimento legittimo e dopo aver comunque “subito” un provvedimento di convalida in sua assenza (art. 391 c.p.p.,
comma 3) e l’adozione di misura cautelare custodiale (art. 391, commi 4 e 5).
6.2 Deve pertanto essere ribadito il principio di diritto secondo cui il legittimo impedimento che non
permette la presenza fisica dell’arrestato all’udienza non è ostativo alla richiesta di convalida
dell’arresto e contestuale giudizio direttissimo, ai sensi dell’art. 558 c.p.p.
Conseguentemente l’impugnata ordinanza deve essere annullata, con rinvio al Tribunale per nuova
deliberazione, che a tale principio si uniformerà ex art. 173 disp. att. c.p.p.
[Omissis]
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MARIA SIMONA CHELO
Dottore di Ricerca in Diritto processuale penale interno, internazionale e comparato – Università degli Studi di
Urbino
Il legittimo impedimento della persona arrestata a
comparire all’udienza non inficia la legittimità
della convalida dell’arresto e del contestuale
giudizio direttissimo
Lawful impediment of the arrested person to appear in the hearing
does not affect the legitimacy of the validation of arrest
and the contextual summary judgement
Chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità e sulla conseguente applicabilità all’udienza di convalida dell’arresto e del
contestuale giudizio direttissimo dell’inciso di cui all’art. 391, comma 3, c.p.p. – per il quale «il giudice procede quindi
all’interrogatorio dell’arrestato o del fermato, salvo che questi non abbia potuto o si sia rifiutato di comparire, sente in
ogni caso il suo difensore» – la Suprema Corte ha risposto affermativamente, ribadendo il principio di diritto secondo cui
il legittimo impedimento che non permette la presenza fisica dell’arrestato all’udienza non è ostativo alla richiesta di
convalida dell’arresto e alla celebrazione del contestuale giudizio direttissimo, ai sensi dell’art. 558 c.p.p.
Called to pronounce judgement, on the compatibility and the consequent applicability of the validation of arrest and
the contextual summary judgement hearing, of the phrase indicated in art. 391, paragraph 3, code of criminal procedure – by which «the judge proceeds with the interrogation of the arrested or stopped person, unless this person
was not able to or has refused to appear, in which case the judge hears the defender» – the Supreme Court has answered affirmatively, underlining the principal of right by which the lawful impediment that does not permit the physical presence of the arrested person at the hearing is not an obstacle to the request of validation of the arrest and the
celebration of the contextual summary judgement, as per art. 558, code of criminal procedure.
LA QUESTIONE RIMESSA ALLA SUPREMA CORTE
La sentenza in chiosa offre lo spunto per l’analisi di una questione di natura processuale estremamente
interessante e complessa, che è stata oggetto, soprattutto negli ultimi anni, di una vivace diatriba giurisprudenziale che ha portato il supremo Consesso ad approdare a soluzioni ermeneutiche di volta in
volta diametralmente opposte.
La questione di diritto portata all’attenzione della Cassazione attiene alla compatibilità del disposto
di cui all’art. 391, comma 3, c.p.p. – secondo cui «il giudice procede quindi all’interrogatorio dell’arrestato o del fermato, salvo che questi non abbia potuto o si sia rifiutato di comparire; sente in ogni caso il
suo difensore» – con la procedura prevista per l’ipotesi della convalida dell’arresto e del giudizio direttissimo (art. 558, comma 4, c.p.p. 1 nella fattispecie) ed alla conseguente applicabilità del medesimo nella
procedura testé richiamata.
1
Sulla massima semplificazione che caratterizza il giudizio direttissimo nell’ipotesi di convalida dell’arresto e del contestua-
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Con la decisione in commento i giudici di piazza Cavour sono stati chiamati a valutare la legittimità
dell’operato del tribunale di Pistoia, che ha negato la convalida dell’arresto (intervenuto in relazione ai
reati di furto e di resistenza a pubblico ufficiale), in quanto la persona raggiunta dal provvedimento
precautelare non aveva potuto presenziare all’udienza di convalida e del contestuale giudizio direttissimo, poiché si trovava ricoverata presso il locale nosocomio per essere sottoposta ad intervento chirurgico.
Se non sussiste alcun dubbio in ordine al fatto che detta circostanza costituisca senz’altro legittimo
impedimento a partecipare all’udienza, non è altrettanto pacifica la soluzione interpretativa offerta nel
tempo dalla Suprema Corte sulla rilevanza o meno, ai fini della convalida dell’arresto, del legittimo
impedimento che non permetta la presenza fisica dell’arrestato nel corso dell’udienza di convalida o –
cambiando l’angolo visuale della questione – sulla possibilità di attivare la procedura della presentazione diretta della persona arrestata al giudice del dibattimento nell’ipotesi in cui non sia possibile la
sua concreta ed attuale presenza fisica.
La problematica si innesta sul tessuto normativo, considerato che l’avvenuta convalida consente di
procedere immediatamente al giudizio e che l’art. 451, comma 4, c.p.p. prevede la necessità di contestare l’imputazione «all’imputato presente». Deve, quindi, stabilirsi se l’assenza dell’arrestato nel corso
dell’udienza di convalida costituisca uno sbarramento alla possibilità di radicare il rito e di procedere,
dunque, con la predetta contestazione dei reati ascritti, giacché l’interrogativo concerne proprio le modalità d’instaurazione del giudizio direttissimo.
Nel caso di specie, la Corte di cassazione, in totale accoglimento della richiesta formulata dal p.m.,
che aveva sollecitato l’annullamento dell’ordinanza del tribunale di Pistoia poiché pronunciata in violazione degli artt. 391, comma 3, 449, comma 1, e 558, comma 4, c.p.p., ha ritenuto il provvedimento
impugnato meritevole di censura e ha ribadito il principio di diritto secondo cui «il legittimo impedimento che non permette la presenza fisica dell’arrestato in udienza non è ostativo alla richiesta di convalida dell’arresto e contestuale giudizio direttissimo, ai sensi dell’art. 558 c.p.p.».
Il Tribunale avrebbe, dunque, dovuto sì dare atto dell’impedimento a comparire dell’arrestato e della conseguente impossibilità di assumerne l’interrogatorio, ma avrebbe comunque dovuto procedere
alla valutazione della legittimità dell’arresto 2; la presenza o meno dell’arrestato non può assumere, infatti, valore dirimente ai fini del giudizio sul legittimo e corretto operato della polizia giudiziaria.
LE RAGIONI POSTE A FONDAMENTO DELLA DECISIONE
Nella decisione in disamina la Suprema Corte prende le mosse dal differente indirizzo giurisprudenziale – che reputa necessaria, ai fini della corretta instaurazione del rapporto processuale, la presenza fisica
dell’arrestato di fronte al giudice del dibattimento 3 – per discostarsene recisamente, ritenendo del tutto
non condivisibili le ragioni poste a sostegno della inapplicabilità della disposizione di cui all’art. 391,
comma 3, c.p.p. all’udienza di convalida e al contestuale giudizio direttissimo 4. La Corte di legittimità
ritiene, infatti, non convincenti le motivazioni addotte a suffragio della predetta tesi, che si rinvengono
nell’«impossibilità di procedere alla contestazione orale dell’imputazione» e «nell’incompatibilità strutturale del rito in assenza dell’imputato arrestato, perché legittimamente impedito».
le giudizio si veda M.F. Cortesi, Procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, in G. Spangher (a cura di), Giudizio.
Procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, IV, t. 2, (Trattato di procedura penale diretto da G. Spangher), Torino,
2009, p. 747.
2
Ritengono che la mancata comparizione dell’arrestato sia contemplata dalle disposizioni del codice di rito in termini di
evenienza non preclusiva anche Cass., sez. V, 26 maggio 2009, n. 24612, in Dir. pen. proc., 2009, p. 1107 e Cass., sez. III, 28 maggio
2008, n. 27128, in CED Cass., n. 240250.
3
In questo senso si erano espresse, ex plurimis, Cass., sez. IV, 28 gennaio 2005, n. 19300, in Cass. pen., 2006, p. 3287 e Cass.,
sez. IV, 4 giugno 2009, n. 26450, in Cass. pen., 2010, p. 3170, che ritiene l’ipotesi del legittimo impedimento a comparire diversa
rispetto a quella della volontaria sottrazione dell’imputato, come nel caso della sua intervenuta evasione.
4
A. Jazzetti, Considerazioni in tema di rapporto tra giudizio direttissimo e status libertatis dell’imputato nel giudizio pretorile, in
Arch. n. proc. pen., 1991, p. 608, osserva come la convalida dell’arresto nel giudizio direttissimo abbia una natura diversa dalla
convalida tipo, disciplinata in generale dall’art. 391 c.p.p., in quanto in questa seconda ipotesi il controllo del giudice è limitato
alla verifica della legittimità dell’arresto e prescinde sia dalla contestuale adozione di misure cautelari, sia dalla scelta del rito.
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Secondo la sentenza in disamina, infatti, poiché il rito direttissimo è per sé compatibile anche con l’assenza
dell’imputato 5, essendo adottabile anche nei confronti del soggetto in stato di libertà, e poiché all’udienza di
convalida di fronte al g.i.p. la presenza fisica dell’arrestato non è considerata necessaria, nella convalida
dell’arresto di fronte al tribunale non rileva l’impossibilità di procedere alla contestazione orale dell’imputazione per la mancata presenza dell’arrestato, stante la sostanziale identità del rapporto giudice – imputato arrestato (e non liberato ex art. 121 disp. att. c.p.p.) 6 tanto davanti al g.i.p. quanto di fronte al tribunale 7.
A giudizio della Corte, infatti, non sono convincenti le argomentazioni di segno contrario che ravviserebbero nella convalida dell’arresto eseguita in assenza dell’interessato una violazione del diritto di
difesa, considerato che non vi sarebbe alcun vulnus in tal senso 8.
Anche nell’ipotesi di mancata presenza fisica dell’arrestato, invero, il diritto di difesa, annoverato tra
i diritti inviolabili sanciti dall’art. 24 Cost., è comunque fatto salvo per esplicita statuizione dell’art 391,
comma 3, c.p.p., il quale prevede expressis verbis che, qualora il giudice non possa procedere all’interrogatorio dell’arrestato o del fermato poiché questi non ha potuto 9 o si è rifiutato di comparire, debba comunque sentire il suo difensore. L’espressione indicata nell’ultimo inciso dell’art. 391, comma 3, c.p.p.
«sente in ogni caso il suo difensore» non lascia dubbi, infatti, circa la necessità che il giudice debba far
interloquire l’avvocato sia sulla legittimità o meno dell’intervenuta misura precautelare 10, sia sulle richieste formulate dal p.m. in ordine alla libertà personale 11 del proprio assistito.
5
Si vedano in proposito gli artt. 450, comma 2, e 452, comma 2, c.p.p.
6
L’art. 121 norme att. c.p.p. stabilisce, infatti, che, oltre che nei casi previsti dall’art. 389 c.p.p. – cioè nell’ipotesi in cui risulta evidente
che l’arresto o il fermo siano stati eseguiti per errore di persona o fuori dei casi previsti dalla legge o se la misura dell’arresto o del fermo
sia divenuta inefficace a norma degli artt. 386, comma 7, c.p.p. e 390, comma 3, c.p.p. – il p.m. deve disporre con decreto motivato che
l’arrestato o il fermato sia posto immediatamente in libertà quando ritiene di non dover richiedere l’applicazione di misure coercitive.
7
K. La Regina, L’udienza di convalida dell’arresto in flagranza o del fermo, Padova, 2011, p. 120, con precipuo riferimento
all’udienza di convalida di fronte al tribunale sottolinea anzi come «la necessità che nessun intervallo si frapponga all’eventuale
apertura della fase dibattimentale si traduce – sia pure indirettamente – in un rafforzamento della posizione dell’interessato, che
è operata attraverso l’indefettibile presenza del suo naturale contradditore», cioè del p.m., ed osserva che, nel silenzio della
norma di cui all’art. 449 c.p.p., «vi è un preciso indice che consente di ricavare la regola della partecipazione necessaria
dell’accusa all’udienza di convalida». Detto indice è rappresentato dall’art. 138 norme att. c.p.p., il quale espressamente prevede
che «quando l’imputato è presentato davanti al giudice del dibattimento per la convalida dell’arresto e il contestuale giudizio, il
fascicolo medesimo è formato subito dopo il giudizio di convalida dal pubblico ministero presente all’udienza». V. tuttavia
Cass., sez. IV, 29 maggio 2003, n. 38344, in CED Cass., n. 227427, secondo cui «nell’ambito del giudizio direttissimo l’udienza di
convalida dell’arresto è regolata, in virtù del rinvio compiuto nell’ultima parte del comma primo dell’art. 449 c.p.p., dalle disposizioni dell’art. 391 dello stesso codice, in quanto compatibili, di talché la presenza del p.m. deve ritenersi facoltativa, a nulla
rilevando l’eventualità che immediatamente consegua la celebrazione del giudizio di merito».
8
Pur in presenza dell’arrestato si ha, invece, senza dubbio una lesione del diritto di difesa «quando il giudice del dibattimento, investito della convalida dell’arresto e del contestuale giudizio direttissimo di un cittadino straniero che non comprende
la lingua italiana, si sia trovato nell’impossibilità di procedere, a causa della irreperibilità di un interprete». Nell’ipotesi in cui si
verifichi una situazione siffatta, il giudice deve restituire gli atti al p.m., perché proceda nelle forme ordinarie, anche relativamente alla richiesta di convalida. (In applicazione di tale principio, la Corte ha annullato senza rinvio l’ordinanza con la quale il
tribunale, dopo aver inutilmente tentato di reperire un interprete, non aveva convalidato l’arresto, ordinando la trasmissione
degli atti al p.m.). Così Cass., sez. V, 8 febbraio 2007, n. 10517, in Cass. pen., 2008, p. 235. In dottrina, sul punto, si veda G. Marando, Il diritto all’interprete nell’evoluzione giurisprudenziale, in Dir. pen. proc., 2007, p. 1502. In senso contrario, però, cfr. Cass.,
sez. IV, 15 dicembre 1998, n. 3633, in Cass. pen., 2000, p. 83, secondo cui «l’assoluta impossibilità di procedere all’interrogatorio
dell’arrestato, che non comprende la lingua italiana, per irreperibilità di un interprete non costituisce motivo ostativo
all’adozione del provvedimento di convalida. L’ordinamento richiede, infatti, che il giudice decida sulla legittimità dell’arresto
in via primaria anche nel caso in cui l’indagato sia stato posto in libertà (art. 121 norme att. c.p.p.) o non possa essere interrogato
per forza maggiore, quale può ritenersi costituire la detta irreperibilità».
9
Il principio generale applicabile ai procedimenti in camera di consiglio, ex art. 127, comma 4, c.p.p., che prevede il rinvio
dell’udienza se sussiste un legittimo impedimento dell’imputato/indagato «che ha chiesto di essere sentito personalmente e che
non sia detenuto o internato in luogo diverso da quello in cui ha sede il giudice» non trova dunque applicazione nel corso
dell’udienza di convalida dell’arresto, e cede il passo alla necessità che si rispettino i termini indicati dall’art. 13 Cost. per il controllo sulla legittimità della misura precautelare e per la relativa decisione.
10
Si pone del tutto in linea con la sentenza in chiosa anche Cass., sez. III, 28 maggio 2008, n. 27128, cit., la quale osserva come
sull’accertamento del giudice della convalida – finalizzato a verificare che l’arresto o il fermo siano stati legittimamente eseguiti
e siano stati osservati i termini previsti dall’art. 386 c.p.p., comma 3 e dall’art. 390, comma 1, c.p.p. – «non possono incidere apprezzamenti relativi a fatti successivi ed indipendenti dall’arresto e la presenza (o meno) dell’arrestato all’udienza di convalida
non rileva ai fini dell’eventuale giudizio sulla legittimità degli atti compiuti».
11
Cass., sez. I, 9 luglio 1991, Pagano, in Cass. pen., 1992, p. 1555, con riferimento al rito pretorile, ha stabilito che la violazione
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Pur condividendosi le ragioni addotte dalla decisione in disamina, non può tacersi però, a giudizio
di chi scrive, come il diritto di difesa potrà considerarsi effettivamente garantito solo se il difensore avrà
avuto l’oggettiva possibilità di incontrare il proprio assistito e di interloquire concretamente con il medesimo sui fatti che hanno portato al suo arresto; circostanza, quest’ultima, che può essere esclusa
nell’ipotesi in cui l’arrestato sia ricoverato in ospedale e le sue condizioni di salute non gli consentano
di interfacciarsi con il proprio legale prima dell’udienza di convalida dell’arresto e del contestuale giudizio direttissimo.
Nessun dubbio residua, inoltre, in ordine alla necessità di dare avviso al difensore di fiducia o
d’ufficio della fissazione dell’udienza di convalida, con modalità tali da consentire la partecipazione
“informata” dello stesso 12, pur non essendo previsto dalla legge alcun termine specifico minimo per la
notifica del predetto avviso. Il procedimento per la convalida postula, quindi, la presenza necessaria ed
effettiva di un difensore, ma quest’ultimo non deve essere necessariamente l’avvocato nominato
dall’arrestato; in caso di mancata reperibilità o di mancata comparizione del legale di fiducia o di quello
d’ufficio, infatti, si applica la regola generale di cui all’art. 97, comma 4, c.p.p. secondo cui il giudice deve designare un sostituto immediatamente reperibile.
Con la sentenza in chiosa, inoltre, la Cassazione ha anche specificato le ragioni per cui non ritiene
possa sussistere un’incompatibilità strutturale tra convalida/rito direttissimo e temporaneo impedimento dell’imputato arrestato, considerata la sopra menzionata possibilità di poter procedere alla celebrazione del rito direttissimo anche in assenza dell’imputato, ed atteso che spesso non vi è neppure assoluta contestualità tra il momento della convalida e quello del giudizio 13. Detto approdo ermeneutico
è certamente condivisibile, poiché si rivela del tutto aderente a quanto accade in realtà nelle aule di giustizia.
Nella prassi giudiziaria, infatti, è molto frequente che, intervenuta la convalida dell’arresto, la celebrazione del giudizio possa essere legittimamente e ragionevolmente differita: si pensi, per esempio,
all’usuale ipotesi in cui il difensore dell’imputato chieda i termini a difesa 14 ed il proprio assistito, alla
udienza successiva, formuli suo tramite la richiesta di essere giudicato con un rito alternativo 15.
dell’obbligo di sentire il difensore nel corso del procedimento di convalida, conseguente alla presentazione diretta da parte della
polizia giudiziaria, configura un’ipotesi di nullità di ordine generale non assoluta, attinente all’intervento del difensore, ai sensi
dell’art. 178, lett. c) c.p.p., eccepibile, a pena di decadenza, prima del compimento dell’atto ovvero, se ciò non è possibile, immediatamente dopo. Nella medesima pronuncia la Cassazione ha così osservato: «essenziale, nel procedimento di convalida, per la
dialettica processuale, è che, alle richieste del p.m. facciano da contraltare le osservazioni della difesa, per consentire al giudice
la conoscenza delle ragioni di entrambe le parti».
12
A mero titolo esemplificativo si segnala quanto statuito in merito da Cass., sez. IV, 3 dicembre 2014, n. 3820, in CED Cass.,
n. 261947, che ha ritenuto «affetto da nullità, per inidoneità dell’atto a conseguire il suo scopo, l’avviso di fissazione dell’udienza
per la convalida dell’arresto inviato al difensore via fax in orario tale o con anticipo talmente ridotto da far ragionevolmente
presumere una oggettiva impossibilità di una partecipazione informata al compimento dell’attività giudiziaria. (Fattispecie in
cui il fax era stato inviato allo studio del difensore alle ore 8.02 del mattino, in orario di chiusura dello studio legale, a due ore
dall’udienza)».
13
Sull’assenza di soluzioni di continuità tra la convalida ed il giudizio di merito e sull’incidenza in ordine alla regolamentazione della convalida v. C. Barbieri, Nota in ordine all’interpretazione degli artt. 449, 391 c.p.p. 1988 e 122 d. lg. N. 271/1989, in Arch.
n. proc. pen., 1990, p. 72, nota 2; A. De Caro, Il giudizio direttissimo, Napoli, 1996, p. 108; G. Fumu, sub art. 138 dis. att. c.p.p., in
Chiavario (coordinato da) Commento al nuovo codice di procedura penale, La normativa complementare, I, Torino, 1992, p. 527; P. Gaeta, Il giudizio direttissimo, in Enc. Dir., IV agg., Milano, 2000, p. 645; E. Zanetti, Il giudizio direttissimo, in M. Pisani (a cura di), I procedimenti speciali in materia penale, Milano, 2003, p. 304 e p. 368.
14
Cass., sez. V, 22 novembre 2002, n. 43713, in Riv. pen., 2004, p. 107 e Cass., sez. I, 21 giugno 2001, n. 29446, in CED Cass., n.
219475, escludono che possa derivare la nullità della sentenza dall’omesso avviso della facoltà di richiedere un periodo per preparare la difesa, quando l’imputato abbia optato per uno dei riti alternativi (applicazione della pena su richiesta delle parti o
giudizio abbreviato), considerato che «tale avviso ha carattere subordinato rispetto all’altro, previsto dal comma 5, riguardante
la possibilità, per l’imputato, di avvalersi dei riti speciali, e diventa essenziale solo quando, scartate tali possibilità, questi abbia
accettato di essere giudicato in via direttissima.
15
Proprio perché vi è la concreta possibilità per l’arrestato-imputato di scegliere un rito alternativo a procedura camerale,
parte della dottrina ritiene che l’udienza di convalida ex art. 558 c.p.p. debba essere celebrata in camera di consiglio, anche per
esigenze di tutela della riservatezza dell’interessato. Di questo avviso: L. Filippi, L’arresto in flagranza nell’evoluzione normativa,
Milano, 1990, pp. 333-334 e N. La Rocca, Giudizio direttissimo, in F. Giunchedi (coordinato da), La giustizia penale differenziata. I
procedimenti speciali, in A. Gaito-G. Spangher (diretto da), Il processo penale, I, Torino, 2010, pp. 752-753. Propendono, invece, per
la celebrazione dell’udienza in forma pubblica, in linea con quanto è previsto per il dibattimento dall’art. 471 c.p.p.: A. Marandola, sub art. 449 c.p.p., in Giarda-Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, Milano, 2010, p. 5983; P. Moscarini,
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Nulla poi esclude che il giudice, deliberata positivamente la convalida dell’arresto, a fronte della richiesta del p.m. di voler procedere con il rito direttissimo e preso atto del legittimo impedimento
dell’imputato, differisca il dibattimento ad un momento successivo al superamento dell’impedimento
medesimo.
Una parte della dottrina ha sottolineato, peraltro, sotto il profilo funzionale l’autonomia della fase di
convalida rispetto a quella finalizzata all’accertamento della responsabilità penale, «nonostante il riconoscimento della legittimità della misura precautelare rappresenti il presupposto per l’instaurazione
del rito» 16 e, sulla stessa linea, anche la giurisprudenza ha evidenziato come non sussista alcuna incompatibilità del giudice che abbia convalidato l’arresto nei confronti dell’imputato a partecipare al
giudizio direttissimo 17. La decisione sulla convalida dell’arresto è preordinata, infatti, al giudizio di
merito oppure incidentale rispetto ad esso; la convalida, quindi, deve essere considerata come un atto prodromico al giudizio direttissimo, «che non costituisce pertanto, proprio perché funzionale allo
svolgimento di quel rito speciale, pronuncia autonoma che possa determinare pregiudizio 18».
A conferma dell’irrilevanza della presenza fisica dell’arrestato all’udienza di convalida, non pare
superfluo precisare come l’orientamento giurisprudenziale sposato dalla decisione in epigrafe, con precipuo riferimento all’ipotesi di assenza dell’arrestato per legittimo impedimento del medesimo, è stato
avallato dalla Suprema Corte anche nella diversa ipotesi di evasione dell’imputato dagli arresti domiciliari; anche in questo caso, infatti, il tribunale deve provvedere sulla convalida, impregiudicata la trasformazione del rito a norma dell’art. 452 c.p.p. 19.
Si condividono pienamente anche le decisive osservazioni sul punto offerte dalla pronuncia in
commento che, sul piano sistematico, non ravvisa alcuna diversità tra la fattispecie di impedimento legittimo dell’imputato e la volontà di sottrazione palesata dallo stesso in caso di evasione; seppure le ragioni della mancata presenza dell’arrestato siano, infatti, diverse e, solo nel primo caso giustificabili, in
entrambe le circostanze si verte in ipotesi di «convalida di arresto con contestuale giudizio direttissimo
proposta in un contesto di urgenza – per la valutazione della legittimità dell’arresto – e tuttavia nella
fisica assenza dell’imputato arrestato».
Diversamente opinando si arriverebbe, secondo la Suprema Corte, «al ben contraddittorio esito di
imporre la carcerazione dell’assente per impedimento legittimo, a fronte della possibile trattazione in
stato di libertà dell’evaso», nell’ipotesi in cui «lo stato di evasione cessi a seguito della concreta decisione del giudizio direttissimo».
Detto assunto, squisitamente garantista, è perfettamente aderente al dettato codicistico, essendo diverse le modalità di limitazione personale della libertà dell’arrestato, a seconda che il p.m. richieda la
convalida al g.i.p. o al giudice del dibattimento.
Nel primo caso, infatti, trova applicazione il disposto di cui all’art. 386, comma 4, c.p.p., il quale stabilisce che, salvo quanto previsto dall’art. 558 c.p.p. in materia di convalida dell’arresto e giudizio direttissimo, gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria pongano l’arrestato a disposizione del p.m. mediante la conduzione nella casa circondariale del luogo dove l’arresto o il fermo è stato eseguito 20. Il
Giudizio direttissimo, in L. Filippi (a cura di), Procedimenti speciali, IV, t. 1, (Trattato di procedura penale diretto da G. Spangher), Torino, 2008, p. 364.
16
Di questo avviso K. La Regina, L’udienza di convalida dell’arresto in flagranza o del fermo, cit., p. 118 e P. Moscarini, Giudizio
direttissimo, cit. p. 363, il quale sottolinea l’autonomia strutturale, funzionale e cronologica dei giudizi di convalida e di merito.
17
Sul punto cfr., ex plurimis, C. cost., ord. 31 luglio 1996, n. 267, in Dir. pen. proc., 1996, p. 1064 e C. cost., sent. 31 maggio
1996, n. 177, in Cass. pen., 1996, p. 2884, con nota di P.P. Rivello, La Corte costituzionale ribadisce la tesi volta ad escludere
l’incompatibilità in caso di pluralità di decisioni emesse da un unico giudice nel corso della stessa fase, ivi, p. 2887.
18
In questi esatti termini, Cass., sez. II, 28 marzo 2007, n. 15110, in CED Cass., n. 236465.
19
Così Cass., sez. VI, 18 aprile 2007, n. 17193, in Riv. polizia, 2008, p. 486, la quale ha ritenuto illegittimo il provvedimento
con cui il tribunale in composizione monocratica ha omesso di pronunciarsi sulla convalida, disponendo la restituzione degli
atti al p.m., nel caso in cui l’arrestato si sia reso volontariamente irreperibile (nel caso di specie il p.m. in servizio di turno, informato dell’avvenuto arresto del soggetto colto in flagranza di reato, ordinava ex art. 386, comma 5, c.p.p., che lo stesso fosse
custodito in regime di arresti domiciliari presso la propria abitazione poiché l’ufficio dei vigili urbani che il giorno prima
dell’udienza di convalida avevano provveduto all’arresto, era sprovvisto di idonee camere di sicurezza). Dello stesso avviso
anche Cass., sez. V, 10 febbraio 2006, n. 11589, in CED Cass., n. 233901.
20
Ovvero, ex art. 386, comma 5, c.p.p. in uno dei luoghi indicati nell’art. 284, comma 1, c.p.p. o presso altra casa circondariale, se il pubblico ministero lo ha espressamente disposto.
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transito presso la casa circondariale o presso un luogo compatibile con gli arresti domiciliari è invece
del tutto escluso nel caso in cui il p.m. provveda ai sensi dell’art. 558 c.p.p.
Qualora nell’ipotesi di legittimo impedimento si restituissero gli atti al p.m. si costringerebbe irragionevolmente l’arrestato, una volta cessato il predetto impedimento, a dover “passare” per la casa circondariale e, «a fronte del ritenuto eccezionale pregiudizio del non poter avere una tempestiva contestazione orale dell’imputazione (e nonostante il suo difensore debba essere ascoltato e possa svolgere
ogni difesa)», lo si sottoporrebbe così ad un trattamento ingiustamente più afflittivo.
LE DIVERSE RAGIONI POSTE A FONDAMENTO DEI PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI DI SEGNO CONTRARIO
Considerato il contrasto interpretativo tra la sentenza che si annota e i precedenti giurisprudenziali in
subiecta materia, di segno radicalmente opposto, pare opportuno esaminare anche le motivazioni addotte dall’antitetico orientamento giurisprudenziale che esclude possa procedersi alla convalida
dell’arresto ed al contestuale giudizio direttissimo nell’ipotesi in cui l’arrestato non si presenti in udienza a causa di un legittimo impedimento. Detta corrente giurisprudenziale, sposata anche da una parte
della dottrina, muove dal presupposto che il giudizio direttissimo sia un rito a presenza necessaria
dell’imputato, in cui la “presentazione” fisica dell’arrestato in udienza rappresenta il presupposto indefettibile e costitutivo del rapporto processuale davanti al giudice del dibattimento, con la conseguenza
che quest’ultimo, nell’ipotesi di assenza dell’arrestato, non potendo essere considerato come «il giudice
che procede» di cui all’art. 279 c.p.p., non può neppure provvedere sull’eventuale richiesta di applicazione di misura cautelare.
La predetta convinzione deriva dalla connotazione genetica delle norme in materia di giudizio direttissimo, che effettivamente offrono delle indicazioni testuali che parrebbero far propendere per la necessaria presenza dell’arrestato 21. Ci si riferisce, in particolare, sia all’art. 449, comma 1, c.p.p. – secondo
cui, nell’ipotesi in cui una persona sia stata arrestata in flagranza di un reato, il p.m. «se ritiene di dover
procedere, può presentare direttamente l’imputato in stato di arresto davanti al giudice del dibattimento, per la convalida ed il contestuale giudizio, entro quarantottore dall’arresto» – sia al disposto di cui al
comma 4 del medesimo articolo – che, nella diversa ipotesi in cui l’arresto in flagranza sia già stato convalidato, prevede che l’imputato debba essere presentato all’udienza – nonché all’art. 450, comma 1,
c.p.p., il quale prevede che, per l’instaurazione del giudizio direttissimo, il p.m. faccia «condurre direttamente all’udienza l’imputato arrestato in flagranza o in stato di custodia cautelare».
Sotto un profilo sistematico, però, questa tesi non tiene conto del fatto che l’imputazione potrà essere
contestata all’imputato presente solo se con la convalida è applicata anche la custodia cautelare 22; qualora infatti alla verifica sulla legittimità della misura precautelare non seguisse l’applicazione di una
misura coercitiva di tipo custodiale l’imputato potrebbe anche allontanarsi dall’aula d’udienza sottraendosi, così, del tutto legittimamente, alla contestazione dell’imputazione.
Per superare questa criticità una parte della dottrina e della giurisprudenza ha sostenuto che la contestazione dei reati ascritti all’arrestato-imputato in realtà avviene nel momento stesso in cui il p.m.
espone le ragioni che hanno condotto all’adozione della misura precautelare ed illustra al giudice del
dibattimento le proprie richieste in tema di libertà personale, ritenendo così che il rito direttissimo sia
validamente incardinato al momento in cui l’imputato tratto in arresto viene presentato di fronte al tribunale 23. Questa ricostruzione ermeneutica, però, non appare persuasiva, poiché «l’obbiettivo di ovviare agli inconvenienti derivanti dalla sempre possibile mancata applicazione della misura custodiale e,
21
Per G. Lozzi, Lezioni di procedura penale, Torino, 2004, p. 495, il rito de quo postula «una disponibilità fisica» dell’arrestato da
parte dell’organo della pubblica accusa.
22
Di questo avviso G. Spangher, I procedimenti speciali, in AA.VV., Procedura penale, Torino, 2010, p. 511.
23
In dottrina sono di questo parere F. Coppi, In tema di custodia cautelare dell’imputato nel giudizio direttissimo, in Giur. it., 1990,
II, p. 266; N. La Rocca, Giudizio direttissimo, cit., p. 755. In giurisprudenza: Cass., sez. IV, 4 giugno 2009, n. 26450, cit.; Cass., sez.
IV, 28 gennaio 2005, n. 19300, cit. e Cass., sez. IV, 31 ottobre 2002, n. 31134, in Cass. pen., 2004, p. 2911, la quale ritiene che non sia
né abnorme, né illegittimo il provvedimento con il quale il giudice restituisca gli atti al p.m. perché chieda la convalida dell’arresto al g.i.p. «nell’ipotesi in cui il detenuto – tratto a giudizio direttissimo – non si presenti di fronte al giudice del dibattimento ai sensi dell’art. 558 c.p.p., per legittimo impedimento (essendo egli intrasportabile per ragioni di salute) e da parte dell’accusa non venga avanzata nessun’altra richiesta».
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dunque, da una restituzione dello status libertatis capace di porre in dubbio la praticabilità di una contestazione nei modi richiesti dall’art. 451, comma 4, c.p.p., si persegue postulando un esercizio dell’azione
penale ancor prima che sia integrato il presupposto espressamente richiesto dall’art. 449 c.p.p. per
l’instaurazione del rito 24».
Se è vero, infatti, che durante l’esposizione dei motivi che hanno condotto all’arresto il p.m. precisa
la condotta criminosa addebitata all’interessato attinto dalla predetta misura precautelare, è altrettanto
vero che, ai sensi dell’art. 449, comma 1, c.p.p., se l’arresto non è convalidato e se non è applicata una
misura cautelare, il giudice può procedere al giudizio direttissimo solo quando l’imputato ed il p.m. vi
consentono 25.
Nell’ipotesi testé menzionata ed in assenza di consenso da parte dell’imputato, non ci pare possibile,
dunque, che il rito debba dirsi regolarmente incardinato e l’azione penale correttamente esercitata.
Pur concordando sulla necessità, ai fini dell’instaurazione del giudizio direttissimo, della convalida
dell’arresto e sul fatto che quest’ultima – e non la flagranza – rappresenti il presupposto per la celebrazione del rito de quo, non è mancato, chi, in dottrina, ha ritenuto ultroneo lo status detentionis, interpretando il termine «presentazione» quale possibile modalità di “conduzione” della persona individuabile
nell’ordine di accompagnamento coattivo e nella citazione a comparire 26.
Altri Autori, invece, hanno attribuito all’ordinanza di convalida l’effetto di protrarre lo status custodiae sino all’emanazione del provvedimento coercitivo che può essere adottato alla conclusione del giudizio 27. Quest’ultimo orientamento, che è stato sposato in passato anche dal supremo Consesso nella
sua massima composizione 28, non solo non appare per nulla convincente 29, ma, a giudizio di chi scrive,
solleva addirittura dei dubbi di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 13 Cost. Si ritiene pienamente condivisibile, invero, l’argomentazione secondo cui la convalida ad opera del giudice è «funzionale solo al controllo della legittima esecuzione del provvedimento precautelare 30 e non alla prosecuzione dello stato restrittivo» 31 con l’inevitabile conseguenza che, in assenza di una disposizione codicistica che attribuisca all’ordinanza di convalida efficacia coercitiva hic et inde, qualora si mantenga in
vinculis l’imputato in assenza di un titolo legittimante la prosecuzione dello stato di detenzione, si violerebbe l’art. 13 Cost., che stabilisce una espressa riserva di legge non solo in relazione ai «casi», ma anche in ordine ai «modi» previsti dalla legge 32 in materia di restrizione della libertà personale.
24
In questi esatti termini K. La Regina, L’udienza di convalida dell’arresto in flagranza o del fermo, cit., p. 123.
25
Giungono a diversa conclusione, ritenendo compiuta la contestazione nell’ipotesi in cui il giudice convalidi l’arresto e applichi una misura cautelare A. Chiliberti-F. Roberti, Il giudizio direttissimo, in AA. VV., Manuale pratico dei procedimenti speciali,
Milano, 1994, p. 483; F. Coppi, In tema di custodia cautelare dell’imputato nel giudizio direttissimo, in Giur. it., 1990, II, p. 265; G. Fumu, sub artt. 449-458 c.p.p., in Chiavario (coordinato da) Commento al nuovo codice di procedura penale, IV, Torino, 1990, p. 823, nota 7.
26
Di questo avviso A. Chiliberti – F. Roberti, Il giudizio direttissimo, cit., p. 491 e A.A. Dalia, Giudizio direttissimo, in AA.VV, I
procedimenti speciali, Napoli, 1989, p. 169.
27
In dottrina propendono per questa tesi E. Aprile, La disciplina del nuovo giudizio direttissimo dopo la novella sul giudice unico di
primo grado, in Nuovo dir., 2002, p. 2 e P. Dubolino, Convalida dell’arresto e giudizio direttissimo, in Arch. n. proc. pen., 1990, 404.
28
Cass., sez. un., 1 ottobre 1991, Simioli, in Cass. pen., 1992, p. 288, ha ritenuto l’ordinanza di convalida «funzionalmente diretta alla celebrazione del giudizio direttissimo che legittima la procrastinazione dello status detentionis dell’imputato fino alla
emanazione del successivo provvedimento coercitivo che può essere emesso in ogni fase o grado del processo e anche durante
la pendenza del ricorso per cassazione. Detto principio è stato successivamente confermato da Cass., sez. un., 20 agosto 1992,
Quadagno, in Arch. n. proc. pen., 1993, p. 133.
29
Di questo avviso anche P. Moscarini, Giudizio direttissimo, cit. p. 366.
30
Il giudice deve infatti verificare e valutare se la polizia giudiziaria ha fatto un uso ragionevole dei poteri discrezionali in
concreto esercitati e, qualora ritenga che la predetta abbia ecceduto, deve fornire in proposito adeguata motivazione (in questo
senso Cass., sez. VI, 24 novembre 2010, n. 43460, inedita).
31
Di questo avviso, in dottrina K. La Regina, L’udienza di convalida dell’arresto in flagranza o del fermo, cit., p. 123. In giurisprudenza Cass., sez. II, 28.03.2007, n. 15110, cit., precisa che l’accertamento sull’esistenza dei gravi indizi ovvero sulla responsabilità
per il reato contestato è riservato o alla successiva fase di applicazione di misure cautelari ovvero, nel caso di giudizio direttissimo, all’espletamento di detto giudizio di merito, mentre «in tema di convalida dell’arresto il giudice deve limitarsi a controllare la sussistenza dei presupposti legittimanti l’eseguito arresto, ossia valutare la legittimità dell’operato della polizia in base ad
un controllo di ragionevolezza di questo; il giudice deve quindi limitarsi a stabilire se il soggetto sia stato privato della libertà in
presenza della flagranza di uno dei reati previsti dagli artt. 380 e 381 c.p.p. […]».
32
G. Amato, Individuo e autorità nella disciplina della libertà personale, Milano, 1967, p. 373, sul punto osserva che «[…] i “casi” e
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Lo status detentionis, dunque, potrà essere legittimamente protratto solo se il giudice avrà applicato
una misura cautelare nel pieno rispetto delle disposizioni contenute nel Titolo I del libro IV del codice
di rito 33; qualora non sussistano, invece, le condizioni richieste dalla legge per limitare la libertà del
soggetto, l’imputato dovrà necessariamente essere liberato.
BREVI RIFLESSIONI CONCLUSIVE
In conclusione la soluzione ermeneutica tracciata dalla Suprema Corte con la decisione in commento
pare maggiormente condivisibile rispetto al principio di diritto affermato dalle sentenze che escludono
l’inapplicabilità della disposizione di cui all’art. 391, comma 3, c.p.p. all’udienza di convalida e al contestuale giudizio direttissimo; ciò in considerazione del fatto che il percorso logico-giuridico seguito dalla
sentenza in chiosa appare, da un punto di vista sistematico, più aderente ai principi enucleati dal nostro
codice di rito, oltre che maggiormente garantista.
A fronte del contrasto interpretativo, non ancora superato, e della complessità della questione in esso sottesa, si ritiene certamente auspicabile l’intervento delle sezioni Unite, qualora successive pronunce facciano registrare un ulteriore revirement sul tema.
i “modi” dell’art. 13 sono ictu oculi ancora più incisivi dell’“in forza di legge” di cui all’art. 25 e comportano, perciò, una definizione ancor più rigorosa – se possibile – delle restrizioni ammissibili nello stesso processo, escludendo che le si possa operare in
via analogica e comunque quando non siano espressamente previste, e richiedendo altresì previsioni legislative tali da ancorare
a criteri obiettivamente riconoscibili le restrizioni ammesse».
33
Il giudice potrà applicare la misura secondo il procedimento di cui agli artt. 291 e 292 c.p.p. solo in presenza di domanda
cautelare e qualora ravvisasse la sussistenza delle condizioni di applicabilità delle misure coercitive, i gravi indizi di colpevolezza e le esigenze cautelari.
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Opposizione della persona offesa ed archiviazione de plano
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE V, SENTENZA 3 MARZO 2015, N. 9305 – PRES. PALLA; REL. SETTEMBRE
Ai fini dell’apprezzamento sull’ammissibilità dell’opposizione alla richiesta di archiviazione da parte della persona
offesa, il giudice deve tener conto della pertinenza – ossia dell’inerenza rispetto alla notizia di reato – e della rilevanza – cioè dell’incidenza concreta sulle risultanze dell’attività compiuta nel corso delle indagini preliminari – degli
elementi proposti, senza poter effettuare valutazioni anticipate di merito ovvero prognosi di fondatezza o meno
degli stessi. Eventuali ragioni di infondatezza dei temi indicati nell’atto di opposizione in questione, pertanto, non
costituiscono motivo legittimo di inammissibilità, neppure ove attengano ad una valutazione prognostica dell’esito
della investigazione suppletiva o delle relative fonti di prova indicate dalla persona offesa.
[Omissis]
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Il Giudice delle indagini preliminari preso il Tribunale di Brescia, con decreto del 18/4/2014,
emesso de plano, ha disposto, su richiesta del Pubblico Ministero, l’archiviazione del procedimento instaurato contro F.F. per infondatezza della notizia di reato. Il F. era stato querelato dal socio di minoranza B.Z.S. perché, nella qualità di presidente del Consiglio di amministrazione della Maestrale s.r.l.,
aveva concorso a vendere, ad un prezzo enormemente inferiore al reale e in una evidente situazione di
conflitto di interessi, un terreno di proprietà della Maestrale s.r.l. alla Fernova s.r.l., di cui era amministratore delegato e proprietario, al 56 per cento, del capitale sociale.
2. Ricorre B.Z.S., a mezzo del difensore, avverso il decreto suddetto per violazione di legge. Deduce
di essersi tempestivamente opposto, di fronte ad una prima richiesta di archiviazione del procedimento, insistendo per l’espletamento di una consulenza tecnica rivolta ad accertare il reale valore del terreno e che il Giudice delle indagini preliminari aveva accolto l’opposizione, disponendo l’effettuazione di
apposita consulenza. Il Pubblico Ministero, invece, si era limitato a richiede un accertamento di valore
presso il competente ufficio finanziario, disattendendo la disposizione del giudicante e richiedendo,
all’esito, nuovamente l’archiviazione. Contro la nuova richiesta aveva proposto opposizione, insistendo
per l’espletamento di una consulenza tecnica; richiesta disattesa dal giudicante con “valutazioni attinenti al possibile esito della vicenda processuale”, in palese violazione del diritto al contraddittorio.
MOTIVI DELLA DECISIONE
La doglianza è fondata.
L’art. 410 c.p.p., come è noto, configura un sistema di equilibrio tra il principio di obbligatorietà
dell’azione penale e quello di economia processuale, tendente sia ad impedire inerzie e lacune investigative del pubblico ministero, sia indagini meramente pretestuose o dilatorie, offrendosi al giudice, in
tale evenienza, lo strumento dell’archiviazione de plano (cfr. Corte cost., 11 aprile 1997, n. 95).
Per l’effetto, dalla disciplina positiva deriva che, qualora sia stata proposta opposizione alla richiesta
di archiviazione del pubblico ministero, il Gip, ai sensi dell’art. 410 c.p.p., può disporre l’archiviazione
con provvedimento de plano esclusivamente in presenza di due condizioni, delle quali deve dare atto
con adeguata motivazione, e cioè l’inammissibilità dell’opposizione, per l’omessa indicazione dell’oggetto dell’investigazione suppletiva, e l’infondatezza della notizia di reato. Al di fuori di tali ipotesi, in
presenza di opposizione della persona offesa, non può che ricorrersi al procedimento camerale, senza
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del quale il provvedimento di archiviazione deve considerarsi emesso con violazione della garanzia del
contraddittorio e perciò impugnabile con il ricorso per Cassazione. Ai fini della corretta applicazione
della richiamata disposizione, è stata ritenuto (v. Cass., Sez. un., 14 febbraio 1996, Testa), che ai fini
dell’apprezzamento sull’ammissibilità dell’opposizione il giudice deve tenere conto della pertinenza
(cioè la inerenza rispetto alla notizia di reato) e della rilevanza degli elementi di indagine proposti (cioè
l’incidenza concreta sulle risultanze dell’attività compiuta nel corso delle indagini preliminari) senza
però poter effettuare valutazioni anticipate di merito ovvero prognosi di fondatezza o meno di tali elementi di indagine. Cosicché eventuali ragioni di infondatezza dei temi indicati nell’atto di opposizione
non possono costituire motivo legittimo di inammissibilità, neppure ove attengano ad una valutazione
prognostica dell’esito della “investigazione suppletiva” e delle relative fonti di prova indicate dalla parte offesa. Sotto questo profilo, il provvedimento del GIP in esame va censurato avendo il giudice dichiarato inammissibile l’opposizione nonostante l’opponente, avesse chiesto l’espletamento di consulenza tecnica rivolta ad accertare il reale valore del terreno compravenduto nel mese di dicembre del
2010, sul presupposto che, essendo la Maestrale s.r.l. in una “difficile situazione finanziaria”, l’immediata dismissione del terreno avrebbe potuto comunque giovare alla società. Senonché, l’assenza di una
valutazione riferita all’epoca della dismissione (quella dell’ufficio finanziario si riferisce ad un’epoca di
poco antecedente all’emissione del decreto di archiviazione, che è del 18/4/2014) ha comportato che la
valutazione del giudicante non si è limitata all’aspetto della rilevanza e della pertinenza dell’integrazione probatoria richiesta, ma si è risolta in una vera e propria valutazione anticipata sulla “fondatezza”
del suddetto elemento di indagine, avendo dato per scontato – con prognosi inammissibile, per assenza
dei necessari elementi di confronto – che, quale che possa essere l’esito della consulenza, la re-iudicanda non ne rimarrà comunque influenzata.
Consegue a tanto che il provvedimento di archiviazione va annullato con trasmissione degli atti al
giudice a quo per l’ulteriore corso.
[Omissis]
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | OPPOSIZIONE DELLA PERSONA OFFESA ED ARCHIVIAZIONE DE PLANO
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ANNA CIGNACCO
Dottoranda di ricerca in Scienze penalistiche – Università degli Studi di Trieste
L’archiviazione de plano tra economia processuale e tutela della persona offesa
The decree ordering that the case be dropped between the purpose of economy of the proceeding and the defense of the victim
I giudici di legittimità, con la sentenza in commento, confermano il loro consolidato orientamento in materia di archiviazione pronunciata de plano, nonostante l’opposizione della persona offesa.
L’inammissibilità di quest’ultima, per legittimare l’adozione del provvedimento inaudita altera parte, deve fondarsi
sulla non pertinenza e sull’irrilevanza degli elementi d’indagine addotti. La relativa motivazione – ove sia inadeguata, oppure foriera di valutazioni prognostiche di merito – viola il principio del contraddittorio a scapito dell’offeso,
che, pertanto, può validamente ricorrere in cassazione, lamentando l’inosservanza di una norma processuale prevista a pena di nullità.
The Court of Cassation, with the annotated decision, confirms its well-established case law concerning the decree
ordering that the case be dropped, even though a victim’s opposition to the request to drop the case occurs.
The inadmissibility of this one, to legitimate a decision inaudita altera parte, should be grounded on the impertinence and on the irrelevance of the advanced elements of evidence. The related motivation – if inadequate or
containing early trial evaluations – breaks the principle of an adversarial process, at the expense of the victim, who
could, therefore, appeal in Cassation, denouncing the failure to comply with a procedural rule established under
penalty of nullity.
LA VICENDA PROCESSUALE
Con la sentenza in commento, la Cassazione ha avuto modo di affrontare nuovamente l’istituto dell’archiviazione de plano da parte del giudice per le indagini preliminari.
Il ricorso proposto dalla persona offesa muove dal provvedimento archiviativo, adottato inaudita altera parte, successivo a una sua seconda opposizione alla richiesta del pubblico ministero.
La vicenda de qua vede imputato il presidente del consiglio d’amministrazione di una società, il quale avrebbe concorso a vendere – ad un prezzo notevolmente inferiore al suo valore reale e in una evidente situazione di conflitto di interessi – un terreno di proprietà dell’azienda da lui presieduta ad
un’altra, di cui è amministratore delegato, nonché proprietario per una quota di maggioranza del capitale sociale.
Come accennato, il querelante si era già ritualmente opposto a una prima richiesta archiviativa
avanzata dalla pubblica accusa, indicando quale ulteriore elemento d’indagine una consulenza tecnica
di stima reale del terreno. In tale occasione, il giudice aveva ritenuto ammissibile l’opposizione e disposto l’effettuazione dell’atto suggerito. Il pubblico ministero, tuttavia, si era semplicemente rivolto al
competente ufficio finanziario e chiesto conferma del valore del bene; aveva, quindi, ribadito la sua intenzione di archiviare, reiterando la relativa istanza.
Tale scelta ha nuovamente portato l’odierno ricorrente in cassazione a opporvisi, insistendo per
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l’esperimento della non compiuta consulenza tecnica. Il giudice per le indagini preliminari ha, però, disposto de plano l’archiviazione del caso, ritenendo “infondato” l’elemento d’indagine proposto dalla
persona offesa. Ha, in altri termini, dato per scontato che – a prescindere dall’esito della consulenza
tecnica – il thema decidendum non ne sarebbe rimasto influenzato.
L’OPPOSIZIONE ALLA RICHIESTA ARCHIVIATIVA E L’ARCHIVIAZIONE DE PLANO
Dal momento che il codice di rito contempla la possibilità di opporvisi, l’archiviazione – oltre a essere
l’occasione (per il pubblico ministero) di “alleggerire” l’udienza preliminare, compiendo una cernita
sulle notizie di reato, nonché un mezzo di verifica (da parte del giudice) sul corretto esercizio dell’azione penale – rappresenta lo strumento a disposizione dell’offeso per esercitare il diritto di far controllare
da un organo giudicante, in udienza, le ragioni di un’eventuale inerzia del pubblico ministero 1.
L’art. 410, comma 1, c.p.p. richiede che l’atto oppositivo contenga – a pena di inammissibilità –
l’oggetto delle investigazioni suppletive e i relativi elementi di prova.
In presenza di un’opposizione ammissibile, il giudice per le indagini preliminari è tenuto a fissare
un’udienza camerale, ove avrà luogo il contraddittorio tra i soggetti interessati.
Al contrario, in difetto dei requisiti ex art. 410, comma 1, c.p.p. (o anche qualora la notizia di reato sia
manifestamente infondata), il giudice per le indagini preliminari – ove condivida le intenzioni della
pubblica accusa – può pronunciare de plano l’archiviazione, con un decreto adeguatamente motivato
(art. 410, comma 2, c.p.p.), insuscettibile di impugnazione.
Tuttavia, il vaglio di ammissibilità dell’atto di opposizione non è un’operazione da sottovalutare e
deve essere condotta scrupolosamente e in maniera ponderata, considerata l’importanza delle garanzie
– a tutela della persona offesa – coinvolte.
Infatti, l’inoppugnabilità ha suscitato parecchie perplessità non solo con riguardo alle ipotesi in cui
la procedura de plano sia stata adottata nonostante il mancato avviso alla persona offesa (che ne abbia
fatto tempestiva richiesta), ma anche quando l’opposizione legittimamente presentata sia stata arbitrariamente “obliterata” 2.
La Corte Suprema è unanime nel sostenere che, ai fini dell’apprezzamento sull’ammissibilità, il giudice deve tenere conto della pertinenza – cioè dell’inerenza rispetto alla notitia criminis – e della rilevanza (non superfluità) dell’integrazione probatoria richiesta – ossia, dell’incidenza concreta sulle risultanze dell’attività compiuta nel corso delle indagini preliminari –. È tenuto, inoltre, a fornire adeguata motivazione, laddove ritenga l’opposizione inammissibile in ordine a eventuali carenze di questi due profili. Non gli è concesso, invece, spingersi a esprimere valutazioni prognostiche di merito, dalle quali
non può dipendere l’ammissibilità dell’atto oppositivo, sulla res iudicanda nel suo complesso 3.
È, pertanto, evidente che un provvedimento di archiviazione, adottato de plano e genericamente giustificato da una superfluità o non pertinenza dell’opposizione avanzata, ovvero emanato sulla base di
arbitrarie valutazioni di merito sulla “infondatezza ai fini dell’epilogo processuale” dei temi ivi indicati,
sacrifica il diritto al contraddittorio della persona offesa, analogamente a quanto avviene nell’evenienza
del suo mancato avviso per l’udienza camerale 4. Il vizio che conseguentemente colpisce il decreto archiviativo è riconducibile alle ipotesi di impugnabilità contemplate dall’art. 409, comma 6, c.p.p. 5 e ai
casi di ricorso ex art. 606, lett. c), c.p.p. Peraltro, siffatta ricostruzione interpretativa, lungi dal voler essere il risultato di un’applicazione analogica della disposizione concernente l’ordinanza di archiviazio-
1
In tal senso, P. TONINI, Manuale di procedura penale, XV, Milano, 2014, p. 597. Sull’istituto dell’archiviazione, si veda anche F.
CAPRIOLI, Indagini preliminari e udienza preliminare, in G. Conso-V. Grevi-M. Bargis (a cura di), Compendio di procedura penale, VI,
Padova, 2012, p. 621 ss.
2
Si veda G. GIOSTRA, voce Archiviazione, in Enc. giur. Treccani, vol. I, Roma, 1988, p. 6.
3
Cfr., da ultimo, Cass., sez. II, 11 novembre 2014, n. 46426, in CED Cass., n. 260998; in epoca più risalente, Cass., sez. VI, 27
marzo 2003, n. 14360, ivi, n. 224839; nonché Cass., sez. un., 14 febbraio 1996, n. 2, in Dir. pen. proc., 1996, p. 440.
4
Si nega, infatti, il diritto di intervento nel procedimento penale delle parti private diverse dall’imputato (art. 178, lett. c),
c.p.p.). Cfr. Cass., sez. un., 14 febbraio 1996, n. 2, cit., p. 440.
5
Tale disposizione concerne le ipotesi di nullità del provvedimento di archiviazione – adottato con ordinanza, all’esito
dell’udienza camerale – derivanti dall’inosservanza della disciplina relativa ai procedimenti in camera di consiglio, di cui all’art.
127, commi 1, 3 e 4, c.p.p.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | L’ARCHIVIAZIONE DE PLANO
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ne – preclusa dal principio di tassatività sia delle nullità che delle impugnazioni –, si traduce in
un’operazione ermeneutica – forse, tacciabile di opinabile forzatura – volta a «scongiurare macroscopiche elusioni» 6.
Nel caso di specie, affermando che la ricostruzione della verità processuale non sarebbe stata influenzata dalla consulenza tecnica richiesta dalla persona offesa – a prescindere dal risultato effettivo
della stessa –, il giudice per le indagini preliminari ha ipotizzato il possibile esito dell’intera vicenda
processuale e ha, così, oltrepassato i limiti della sua competenza funzionale. Sicché la Cassazione – allineandosi al proprio consolidato orientamento – ha puntualmente statuito che il provvedimento sottoposto al suo vaglio di legittimità andava annullato, proprio in quanto contenente una «prognosi inammissibile, per assenza dei necessari elementi di confronto», sulle sorti finali del caso sub iudice.
CONCLUSIONI
La Corte di cassazione ha, dunque, confermato la sua posizione in relazione al necessario bilanciamento
tra l’esigenza di assicurare l’economia del procedimento – della quale l’art. 410, comma 2, c.p.p. è una
delle espressioni rinvenibili all’interno del codice di rito – e la necessità di garantire un genuino confronto tra i diversi soggetti coinvolti nelle singole “parentesi” processuali, realizzabile solo attraverso
l’instaurazione di un contraddittorio effettivo.
Ne consegue che la decisione del giudice per le indagini preliminari di “favorire” l’economia processuale e pronunciare l’archiviazione de plano, nonostante l’intervenuta opposizione della persona offesa,
deve essere prudente e oculata: il giudicante che ne fornisse una motivazione frettolosa, scarna e insoddisfacente, ovvero che audacemente valutasse (direttamente o indirettamente) il merito della ricostruzione processuale dei fatti, legittimerebbe la persona offesa – compromessa nelle sue prerogative essenziali – a ricorrere fruttuosamente in cassazione, ottenendo (come è avvenuto nel caso di specie) l’annullamento del decreto e la prosecuzione dell’iter procedimentale.
6
In questi termini, G. GIOSTRA, voce Archiviazione, cit., p. 7.
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Messa alla prova e giudizi pendenti in cassazione
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE IV, SENTENZA 13 GENNAIO 2015, N. 1281 – PRES. FOTI; REL. MARINELLI
La sospensione del procedimento con messa alla prova, di cui alla L. 28 aprile 2014, n. 67, artt. 3 e 4, non può essere richiesta dall’imputato nel giudizio di cassazione, né invocandone l’applicazione in detto giudizio, né sollecitando l’annullamento con rinvio al giudice di merito. Infatti il beneficio della estinzione del reato, connesso all’esito
positivo della prova, presuppone lo svolgimento di un iter procedurale, alternativo alla celebrazione del giudizio,
introdotto da nuove disposizioni normative, per le quali, in mancanza di una specifica disciplina transitoria, vige il
principio tempus regit actum. Né alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n.236 del 2011, è configurabile
alcuna lesione del principio di retroattività della lex mitior, che per sé imponga l’applicazione dell’istituto a prescindere dalla assenza di una disciplina transitoria.
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza in data 28 settembre 2012 il Tribunale di Torino – sezione distaccata di Moncalieri –
dichiarava B.A. responsabile in ordine al reato di cui al D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 189, commi 1 e
6, e lo condannava alla pena di mesi tre di reclusione oltre al pagamento delle spese processuali. Avverso tale sentenza il difensore dell’imputato proponeva appello.
La Corte di appello di Torino confermava la sentenza emessa dal giudice di prime cure e condannava l’imputato al pagamento delle spese del grado.
Avverso la predetta sentenza il B. personalmente proponeva ricorso per Cassazione e concludeva
chiedendone l’annullamento con ogni conseguente statuizione.
Il ricorrente censurava l’impugnata sentenza per i seguenti motivi:
l) Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e) – mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione – con riferimento alla ritenuta sussistenza dell’elemento oggettivo del reato e ciò sulla base
delle dichiarazioni della teste V., la quale aveva affermato di avere solamente sentito il rumore, ma di
non avere assistito all’urto, in difformità di quanto ritenuto dai giudici di primo e secondo grado.
2) Violazione di legge e difetto di motivazione in relazione all’art. 42 commi 1 e 2 c.p. in combinato
disposto con l’articolo 189 commi 1 e 6 C.d.S. con riferimento all’elemento soggettivo del reato.
Secondo la difesa, atteso che l’urto tra l’autovettura del B. e il motociclo della persona offesa era risultato molto lieve, tale circostanza faceva si che non vi fosse certezza circa la sussistenza della prova
del fatto che l’imputato si fosse reso conto di avere urtato contro il motociclo e che in seguito al predetto urto si poteva essere verificato un possibile danno alle persone e che vi potevano essere persone ferite.
3) Violazione di legge e difetto di motivazione in ordine alla mancata concessione delle circostanze
attenuanti generiche.
4) Violazione di legge con riferimento alla negazione del beneficio della sospensione condizionale
della pena, atteso che i giudici di appello non avevano indicato le ragioni per cui avevano ritenuto di
effettuare una prognosi sfavorevole in relazione alla commissione di ulteriori reati da parte dell’imputato che dal 2008 non aveva commesso più alcun tipo di reato.
La difesa di B.A. presentava altresì tempestiva memoria difensiva per l’odierna udienza in cui chiedeva l’applicazione nei confronti del ricorrente dell’istituto della c.d. messa alla prova per adulti, introdotta con L. 28 aprile 2014, n. 67.
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CONSIDERATA IN DIRITTO
I proposti motivi di ricorso non sono fondati. Si osserva infatti (cfr. Cass., Sez.4, Sent. n. 4842 del
2.12.2003, Rv. 229369) che, nel momento del controllo della motivazione, la Corte di Cassazione non
deve stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso
comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento; ciò in quanto l’art. 606 c.p.p.,
comma 1, lett. e), non consente a questa Corte una diversa lettura dei dati processuali o una diversa interpretazione delle prove, perché è estraneo al giudizio di legittimità il controllo sulla correttezza della
motivazione in rapporto ai dati processuali.
Tanto premesso la motivazione della sentenza impugnata appare logica e congrua e supera quindi il
vaglio di questa Corte nei limiti sopra indicati. I giudici della Corte di appello di Torino hanno infatti
chiaramente evidenziato gli elementi da cui hanno dedotto la sussistenza della responsabilità del B. in
ordine al reato ascrittogli sia per quanto attiene alla sussistenza dell’elemento oggettivo, sia per quanto
attiene alla sussistenza dell’elemento soggettivo. In particolare hanno evidenziato le dichiarazioni della
persona offesa confermate da quelle rese dalla teste V.C. che aveva riferito di essere certa di avere visto
l’autoveicolo, del quale aveva poi preso il numero di targa, urtare il motoscooter, fermo al passaggio a
livello, sul lato sinistro, e poi sorpassare il passaggio a livello, mentre il motociclo era caduto a terra. La
teste aveva poi precisato che la Fiat Strada aveva urtato il motociclo con la parte destra, senza peraltro
ricordare se l’urto fosse avvenuto davanti o dietro. I giudici di appello avevano pertanto ritenuto, sulla
base delle indicate emergenze istruttorie che fosse risultato provato altresì l’elemento psicologico del
reato, posto che il B. aveva urtato il motociclo con la parte anteriore della sua autovettura e si era quindi
pienamente reso conto di avere cagionato un incidente e, nonostante ciò, aveva deciso di darsi immediatamente alla fuga.
Nella sentenza impugnata sono state poi chiaramente indicate le ragioni per cui non sono stati concessi le attenuanti generiche e il beneficio della sospensione condizionale della pena. Quanto alle prime
i giudici di appello hanno ritenuto elementi ostativi la gravità del fatto e i precedenti penali dell’imputato. Quanto al secondo invece è stata ritenuta ostativa la circostanza che, avendo il B. già commesso tre
reati alla guida della sua autovettura, non era possibile presumere una sua astensione nel futuro dal
commetterne ancora.
Anche la richiesta applicazione dell’istituto della c.d. messa alla prova per adulti, introdotta con L.
28 aprile 2014, n. 67, deve essere rigettata.
Su tale punto questo Collegio condivide e fa proprie le dettagliate argomentazioni in merito indicate
nella sentenza n.19/2014 della sezione feriale di questa Corte del 31.07.2014 nel processo a carico di C.E.
Tanto premesso si osserva che il capo 2o della L. 28 aprile 2014, n. 67, ha introdotto l’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova anche per gli imputati maggiorenni.
L’articolo 4 modifica il codice di rito, disciplinando i tempi e i modi della richiesta nella fase del giudizio (art.464-bis) e in quella delle indagini preliminari (art. 464-ter c.p.p., e art. 141-bis disp. att. c.p.p.),
il contenuto del provvedimento del giudice e i suoi effetti (art. 464-quater), i contenuti, modalità e possibili vicende afferenti l’esecuzione della pena (artt. 464-quinquies, 464-sexies, 464-octies, 464-novies e 141
ter disp. att.), gli esiti della messa alla prova (art. 464-septies, in particolare con l’alternativa della sentenza che dichiara l’estinzione del reato e dell’ordinanza che dispone la ripresa del corso del processo).
Per quanto riguarda la fase del giudizio che qui rileva, la nuova disciplina costruisce l’istituto della
sospensione del procedimento con messa alla prova quale alternativa alla celebrazione di alcun giudizio, caratterizzato da peculiari e ripetuti apprezzamenti di merito.
L’istituto della messa alla prova previa sospensione del procedimento è stato quindi costruito dal legislatore come opportunità possibile esclusivamente in radicale alternativa alla celebrazione di ogni tipologia di giudizio di merito, già dal primo grado.
Siamo quindi in presenza di procedura e opportunità assolutamente incompatibile con alcun giudizio di impugnazione.
L’attuale disciplina positiva, pertanto, esclude la possibilità che la sospensione del procedimento con
messa alla prova possa trovare applicazione nel giudizio di legittimità.
Pertanto, quando il processo è stato definito in primo e in secondo grado, o in entrambi i gradi di
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giudizio, non vi è alcuno spazio per dare ingresso ad una procedura che è strutturalmente alternativa
ad ogni tipo di giudizio su di una determinata imputazione.
Soltanto una disciplina transitoria che prevedesse espressamente l’applicazione retroattiva potrebbe
nel procedimento di cui sopra permettere l’apertura di una fase incidentale che dia spazio alle peculiari
vicende che possono condurre all’esito positivo di una messa alla prova, fatto che costituisce il presupposto dell’effetto estintivo del reato.
Pertanto, così come si legge nella sentenza della sezione feriale di questa Corte di cui sopra, deve affermarsi il seguente principio di diritto: “La sospensione del procedimento con messa alla prova, di cui
alla L. 28 aprile 2014, n. 67, artt. 3 e 4, non può essere richiesta dall’imputato nel giudizio di cassazione,
né invocandone l’applicazione in detto giudizio, né sollecitando l’annullamento con rinvio al giudice di
merito. Infatti il beneficio della estinzione del reato, connesso all’esito positivo della prova, presuppone
lo svolgimento di un iter procedurale, alternativo alla celebrazione del giudizio, introdotto da nuove
disposizioni normative, per le quali, in mancanza di una specifica disciplina transitoria, vige il principio
“tempus regit actum”. Né alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 236 del 2011, è configurabile alcuna lesione del principio di retroattività della lex mitior, che per sé imponga l’applicazione
dell’istituto a prescindere dalla assenza di una disciplina transitoria”.
Il ricorso deve essere pertanto rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.
[Omissis]
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JACOPO DELLA TORRE
Dottorando di ricerca in Scienze Giuridiche – Università degli Studi di Udine
L’assenza di una disciplina intertemporale o transitoria
per la messa alla prova degli adulti:
uno spinoso problema tra lex mitior e tempus regit actum
The absence of intertemporal or transitory discipline
for adult’s probation: a complex issue between
lex mitior and tempus regit actum
La Suprema Corte nega, ancora una volta, la possibilità di accedere alla messa alla prova per adulti nei procedimenti che, all’entrata in vigore della l. 28 aprile 2014, n. 67, si trovino pendenti in cassazione. L’Autore, preso
spunto dalla pronuncia segnalata, ricostruisce il dibattito giurisprudenziale sull’applicabilità della nuova ipotesi di
probation processuale ai processi in corso, in cui i termini per accedere all’istituto siano scaduti prima dell’entrata
in vigore della novella.
The Supreme Court denies, once again, the possibility to access to probation for adults in the processes that were
pending before the Court of Cassation when the law 28 April 2014, n. 67 came into force. After the description of
the judgment, the author reconstructs the jurisprudential debate about the applicability of the new hypothesis of
probation in the pending processes, in which the terms for access to the institute have expired before the new
law came into force.
IL CASO
Con la decisione qui segnalata la Cassazione si pronuncia sulla possibilità di accedere all’istituto della
messa alla prova per adulti, recentemente introdotto nell’ordinamento con il capo II della l. 28 aprile
2014, n. 67 1, nei giudizi che, al momento dell’entrata in vigore della novella, si ritrovino pendenti di-
1
Per uno sguardo d’insieme sul nuovo istituto si vedano, tra i tanti, R. Bartoli, La sospensione del procedimento con messa alla
prova: una goccia deflattiva nel mare del sovraffollamento?, in Dir. pen. proc., 2014, p. 661 ss.; V. Bove, Messa alla prova per gli adulti:
una prima lettura della l. 67/2014, in Dir. pen. cont., 25 giugno 2014; M. Chiavario, Diritto processuale penale, VI, Torino, 2015, p. 626
ss.; C. Conti-A. Marandola-G. Varraso (a cura di), Le nuove norme sulla giustizia penale, Padova, 2014; G.L. Fanuli, L’istituto della
messa alla prova ex lege 28 aprile, n. 67. Inquadramento teorico e problematiche applicative, in Arch. n. proc. pen., 2014, p. 427 ss.; M.L.
Galati-L. Randazzo, La messa alla prova nel processo penale. Le applicazioni pratiche della legge n. 67/2014, Milano, 2015; F. Giunchedi,
Probation italian style: verso una giustizia riparativa, in www.archiviopenale.it; A. Leopizzi, La sospensione del procedimento con messa
alla prova. Considerazioni a caldo sul prevedibile impatto della riforma e qualche riflessione de iure condendo, in Giust. pen., III, c. 606
ss.; G. Mannozzi, Il legno storto del sistema sanzionatorio, in Dir. pen. proc., 2014, p. 781 ss.; A. Marandola, La messa alla prova
dell’imputato adulto: ombre e luci di un nuovo rito speciale per una diversa politica criminale, ivi, 2014, p. 674 ss.; C. Morselli, I paralipomeni della sospensione del procedimento e messa alla prova: analisi dell’esoscheletro dell’apparato applicativo della L. 67/14 che fa avanzare il
processo penale oltre il “giusto processo”, in Giust. pen., III, c. 641 ss.; R. Piccirillo, La nuove disposizioni in tema di sospensione del procedimento con messa alla prova, in R. Piccirillo-P.Silvestri, Prime riflessioni sulle nuove disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili -Rel. dell’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione n. III/07/2014, Novità
legislative: legge 28 aprile 2014, n. 67, in www.cortedicassazione.it; L. Pulito, Messa alla prova per adulti: anatomia di un nuovo modello
processuale, in Proc. pen. giust., 2015, n. 1, p. 97 ss.; A. Sanna, L’istituto della messa alla prova: alternativa al processo o processo senza
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nanzi alla Suprema Corte o, più in generale, in fase d’impugnazione.
Nel caso di specie, la difesa di un imputato, dopo aver proposto ricorso in cassazione per altri motivi, presentava una memoria difensiva, in cui chiedeva che l’assistito fosse ammesso ad accedere alla
sopravvenuta ipotesi di messa alla prova.
Dal canto suo, la quarta Sezione rigetta tale richiesta, motivando la decisione sul punto tramite il solo richiamo testuale alle argomentazioni già sostenute in una pronuncia della Sezione Feriale di fine luglio 2014.
Già questo aspetto permette di intuire come la sentenza qui segnalata faccia parte di un quadro giurisprudenziale in realtà assai articolato, che si coglie, quindi, l’occasione di analizzare nella sua compiutezza.
LA PROBLEMATICA DI FONDO: UN ISTITUTO “IBRIDO” PRIVO DI NORME INTERTEMPORALI O TRANSITORIE
È trascorso oramai un anno da quando il legislatore ha introdotto nel sistema della giustizia penale ordinaria la sospensione del procedimento con messa alla prova, già in precedenza previsto per la giustizia penale minorile 2.
In questo breve arco temporale, la questione che ha provocato maggiori discussioni in dottrina e
giurisprudenza concerne proprio la problematica affrontata dalla decisione qui pubblicata, ovvero la
possibilità di applicare il nuovo istituto ai giudizi pendenti che, all’entrata in vigore della novella (17
maggio 2014), avessero già superato i termini, previsti dal nuovo art. 464-bis, comma 2, c.p.p. 3 per presentare la richiesta di messa alla prova 4.
Com’è noto, tale problematica si è posta in quanto il legislatore, nell’introdurre questa nuova forma
di “probation processuale”, pur creando un istituto di natura “ibrida” 5 – in parte disciplinato all’interno
del codice penale, come nuova causa di estinzione del reato e in parte nel codice di procedura penale,
come nuovo procedimento speciale –, non ha dettato 6 alcuna disposizione di diritto intertemporale o
transitorio 7, diretta a regolare chiaramente l’applicazione della messa alla prova ai giudizi in corso.
garanzie?, in Cass. pen., 2015, p. 1262 ss.; G. Tabasco, La sospensione del procedimento con messa alla prova degli imputati adulti, in
www.archiviopenale.it; N. Triggiani (a cura di), La deflazione giudiziaria. Messa alla prova degli adulti e proscioglimento per tenuità del
fatto, Torino, 2014. Si ricordino anche i vari commenti di F. Fiorentin contenuti in Guida dir., 2014, 21, p. 63-86.
2
Un’esaustiva rassegna bibliografica sulla messa alla prova minorile si ritrova in N. Triggiani, Dal probation minorile alla
messa alla prova degli imputati adulti, in Id. (a cura di), La deflazione giudiziaria, cit., p. 18 s.
3
Tale articolo dispone che «la richiesta può essere proposta […] fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli
articoli 421 e 422 o fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado nel giudizio direttissimo e nel procedimento di citazione diretta a giudizio. Se è stato notificato il decreto di giudizio immediato, la richiesta è formulata entro il termine e con le forme stabiliti dall’articolo 458, comma1. Nel procedimento per decreto, la richiesta è presentata con l’atto di opposizione».
4
Sull’argomento cfr., tra i tanti, R. Bartoli, La sospensione del procedimento, cit. p. 672; V. Bove, Messa alla prova per gli adulti,
cit., p. 25 ss.; A. Diddi, La fase di ammissione alla prova, in N. Triggiani (a cura di), Messa alla prova degli adulti, cit., p. 137 ss.; G.L.
Fanuli, L’istituto della messa alla prova, cit., p. 440 ss.; M.L. Galati-L. Randazzo, La messa alla prova nel procedimento penale, cit., p. 76
ss.; F. Giunchedi, In nome della nomofilachia. La Cassazione cerca di prevenire i fenomeni di overruling, in www.archiviopenale.it; F.
Martella, Messa alla prova “per adulti”: la questione della (assenza di) disciplina intertemporale, in www.penalecontemporaneo.it; M. Miedico, Sospensione del processo e messa alla prova per imputati maggiorenni: un primo provvedimento del Tribunale di Torino, ivi, 25 giugno 2014; N. Pascucci, Sospensione del procedimento con messa alla prova e assenza di una disciplina transitoria: alle omissioni del legislatore si aggiunge la scure dei giudici di legittimità, in Cass. pen., 2015, p. 1143 ss.; C. Pecorella, Il Tribunale di Genova ammette la richiesta
di sospensione del procedimento con messa alla prova presentata nella prima udienza utile dopo l’entrata in vigore della legge 28 aprile 2014,
n. 67, in Dir. pen. cont., 29 ottobre 2014; G. Pecorella, La messa alla prova…alla prova delle sezioni unite, in Cass. pen., 2014, p. 3264
ss.; S. Perelli, L’impatto della messa alla prova e del processo in absentia sui processi in corso e, in particolare, sul giudizio di appello, in
www.questionegiustizia.it; F. Picciché, Alle Sezioni Unite la questione dell’applicabilità del nuovo istituto della messa alla prova ai processi
in corso, in www.penalecontemporaneo.it; R. Piccirillo, Le nuove disposizioni in tema di sospensione del procedimento, cit., p. 30 ss.; L.
Pulito, Messa alla prova per gli adulti, cit., p. 102 s.
5
N. Triggiani, Dal probation minorile alla messa alla prova degli imputati adulti, cit., p. 50.
6
Secondo V. Bove, Messa alla prova per gli adulti, cit., p. 27, l’art. 464 bis svolgerebbe anche la funzione di norma transitoria
(rectius intertemporale) «nonostante non ne abbia il nomen iuris».
7
Sulla distinzione si vedano, per tutti, M. Gambardella, Lex mitior e giustizia penale, Torino, 2013, p. 30 ss.; O. Mazza, La
norma processuale penale nel tempo, Milano, 1999, p. 91 ss.
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Tale scelta si differenzia rispetto a quanto a suo tempo previsto al momento dell’introduzione della
messa alla prova a carico degli imputati minorenni. In quell’occasione, infatti, l’art. 30, comma 2 del
d.lgs., 28 luglio 1989, n. 272 aveva configurato una specifica disciplina intertemporale, secondo cui le
nuove disposizioni dovevano applicarsi ai procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del
nuovo rito penale a carico dei minorenni. E tale previsione era stata interpretata nel senso dell’applicabilità dell’istituto «alla generalità dei procedimenti in corso, quale che fosse lo stato o il grado in cui
essi si trovavano» 8.
La mancanza di una specifica indicazione legislativa volta a regolare la presentazione della richiesta
di messa alla prova per i procedimenti pendenti impone, quindi, di fare applicazione dei criteri generali
di diritto intertemporale previsti dall’ordinamento.
Peraltro, per individuare l’esatto criterio da utilizzare, risulta essenziale chiarire se il nuovo istituto –
indipendentemente dalla sua collocazione formale – abbia natura prevalentemente sostanziale o processuale 9, in quanto, a seconda della diversa risposta data a tale quesito, andranno applicate norme intertemporali differenti.
Difatti, ove si ritenesse che la messa alla prova abbia natura essenzialmente processuale 10, bisognerebbe fare riferimento all’art. 11, comma 1, disp. prel. c.c., la cui «portata precettiva viene sintetizzata in
ambito processuale mediante la locuzione tempus regit actum» 11. In tale caso, quindi, dovendo le nuove
norme essere applicate solo per l’avvenire, «gli effetti preclusivi derivanti dal superamento di quegli
stati del processo che […] costituiscono il limite per la presentazione di una efficace domanda di messa
alla prova, [dovrebbero mantenere] pienamente i loro effetti» 12, con la conseguenza che non potrebbe
accedersi all’istituto in tutti i giudizi che avessero già superato i termini di cui all’art. 464 bis c.p.p. 13.
Al contrario, ove si considerasse che le nuove norme abbiano introdotto un istituto sostanziale di favore 14, si potrebbe richiamare il principio di retroattività della lex mitior 15, il quale, com’è noto, trova
fondamento sia nel codice penale 16, sia nella Carta costituzionale 17, sia in numerose fonti internazionali 18. In tal caso, quindi, si potrebbe fare riferimento anzitutto all’art. 2, comma 4, c.p. 19, con la conse-
8
Cfr. R. Piccirillo, La nuove disposizioni in tema di sospensione del procedimento, p. 30, che richiama anche Cass., sez. I, 23 marzo
1990, n. 5399, in CED Cass. n. 184031; Cass., sez. IV, 9 gennaio 1990, n. 1510, ivi, n. 183209.
9
La dottrina è divisa anche per quanto riguarda la natura sostanziale o processuale della messa alla prova minorile. Sul
punto si veda, per tutti, C. Cesari, sub art. 28, in G. Giostra (a cura di), Il processo penale minorile, commento al D.p.r. 448/1988, III
ed., Milano, 2009, p. 344 s.
10
Cfr. ad esempio, G. Fanuli, L’istituto della messa alla prova, cit., p. 440 ss.; C. Pecorella, Il Tribunale di Genova ammette la richiesta di sospensione, cit.
11
A. Diddi, La fase di ammissione alla prova, cit., p. 137.
12
A. Diddi, La fase di ammissione alla prova, cit., p. 138.
13
Nessun problema si pone invece nei procedimenti pendenti in cui i termini dell’art. 464 bis non siano ancora spirati, in
quanto, per tali fattispecie, il nuovo istituto sarà applicabile -in base al principio del tempus regit actum -anche se si ritenga che lo
stesso abbia natura processuale.
14
Così, tra i tanti, R. Bartoli, La sospensione del procedimento, cit. p. 672 s.; A. Marandola, La messa alla prova dell’imputato adulto,
p. 684. In giurisprudenza Cass., sez. IV, 8 aprile 2015, n. 15231, inedita, che considera il nuovo istituto una lex mitior in quanto la
buona riuscita della messa alla prova determina l’estinzione del reato.
15
Cfr. R. Bartoli, La sospensione del procedimento, cit. p. 673. Per i dovuti riferimenti bibliografici sul tema della retroattività in
mitius cfr. M. Gambardella, Lex mitior e giustizia penale, cit., passim; C. Pecorella, L’efficacia nel tempo della legge penale favorevole,
Milano, 2008; F. Viganò, Retroattività della legge penale più favorevole, in www.penalecontemporaneo.it; Id., Sullo statuto costituzionale
della retroattività della legge più favorevole, ivi, 6 settembre 2011.
16
Il riferimento è, ovviamente, all’art. 2 commi 2, 3 e 4 c.p.
17
La Consulta ha riconosciuto il fondamento costituzionale della retroattività in mitius nell’art. 3 Cost., cfr. tra le tante, C.
cost., sent. 12 marzo 2008, n. 72, in www.cortecostituzionale.it; C. cost., sent. 8 novembre 2006, n. 394, in www.cortecostituzionale.it;
C. cost., sent. 23 ottobre 2006, n. 393, in www.cortecostituzionale.it. Con la nota pronuncia C. cost., sent. 22 luglio 2011, n. 236, in
www.cortecostituzionale.it il Giudice delle leggi ha affermato che, dopo la sentenza Corte e.d.u., 17 settembre 2009, Scoppola c.
Italia (n.2), tale canone riceve copertura ex art. 117 Cost., grazie al parametro interposto dell’art. 7 Cedu, come interpretato dalla
Corte di Strasburgo. Per un’analisi della giurisprudenza costituzionale in tema di retroattività della norma penale più favorevole cfr. V. Manes, Il giudice nel labirinto. Profili delle intersezioni tra diritto penale e fonti sovranazionali, Roma, 2012, p. 155 ss.; F. Viganò, Retroattività della legge penale più favorevole, cit., passim; Id., Sullo statuto costituzionale della retroattività della legge penale più favorevole, cit., passim.
18
In particolare il canone è riconosciuto dall’art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e dall’art. 49, par.1 della
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guenza che potrebbe ritenersi proponibile la richiesta di messa alla prova in tutti i «procedimenti in
corso, senza limiti di tempo, se non il passaggio in giudicato della sentenza» 20. Del resto, come ha chiarito la Corte costituzionale, l’ambito di operatività del canone di retroattività della lex mitior «non deve
essere limitato alle sole disposizioni concernenti la misura della pena, ma va esteso a tutte le norme sostanziali che, pur riguardando profili diversi dalla sanzione in senso stretto, incidono sul complessivo
trattamento riservato al reo» 21. E la stessa Consulta ha precisato che l’art. 2, comma 4, c.p. va interpretato nel senso «che la locuzione “disposizioni più favorevoli al reo” si riferisce a tutte quelle norme che
apportino modifiche in melius alla disciplina di una fattispecie criminosa, ivi comprese quelle che incidono sulla prescrizione» 22.
Peraltro, stabilire la natura prevalente dell’istituto è particolarmente difficile non solo per ragioni
topografiche, posto che, come accennato, esso è collocato in parte nel codice di rito e in parte nel codice
penale, ma soprattutto tenuto conto che la messa alla prova presenta sia caratteristiche propriamente
sostanziali – quali il suo inquadramento tra le cause di estinzione del reato 23, oppure la natura fortemente sanzionatoria 24 a essa attribuibile –, sia aspetti tipicamente processuali – quali l’inserimento
all’interno dei riti speciali e l’effetto deflativo che la contraddistingue.
Ciò premesso, non stupirà, quindi, che la pronuncia qui segnalata faccia parte di un quadro giurisprudenziale articolato, in cui vanno analizzate distintamente le posizioni assunte dalla giurisprudenza
di merito e di legittimità. Né stupirà che siano state presto presentate anche le prime questioni di legittimità costituzionale, aventi a oggetto la ritenuta impossibilità di applicare retroattivamente il nuovo
istituto ai processi in cui i termini per presentare la richiesta siano spirati prima del 17 maggio 2014.
LE SOLUZIONI (INSODDISFACENTI) OFFERTE DALLA PRIMA GIURISPRUDENZA DI MERITO
Un’esegesi favorevole all’applicazione della messa alla prova anche ai giudizi in cui i termini di cui
all’art. 464 bis siano spirati, ma si trovino pendenti in primo grado, è sostenuta da alcune pronunce della giurisprudenza di merito 25.
In proposito, va ricordata un’ordinanza del Tribunale di Torino, nella quale si dà particolare risalto
alla natura sostanziale dell’istituto, ritenendo che lo stesso concerna il «trattamento sanzionatorio» 26.
Da tale premessa preliminare ne consegue – secondo il Tribunale – la necessità di fare applicazione del
principio di retroattività in mitius e la conseguente opportunità di concedere la misura anche ai procedimenti pendenti, in attuazione dell’art. 2, comma 4, c.p. Peraltro, affermano i giudici torinesi, essendo
stato superato il termine per presentare la domanda, la posizione delle richiedenti «non può che essere
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. A partire dalla sentenza Corte e.d.u., 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia (n.
2) la Corte di Strasburgo ha fatto rientrare la retroattività della legge più favorevole nell’alveo dell’art. 7 Cedu. Si ricordino anche, tra le tante, Corte e.d.u., 18 marzo 2014, Öcalan c. Turchia (n.2); Corte e.d.u., 21 ottobre 2013, Del Río Prada c. Spagna; Corte
e.d.u., 12 febbraio 2013, Previti c. Italia; Corte e.d.u., 24 gennaio 2012, Mihai Toma c. Romania; Corte e.d.u., 27 aprile 2010, Morabito c. Italia. La letteratura sull’argomento è sconfinata, in questa sede non può che rinviarsi, per i dovuti richiami dottrinali e
giurisprudenziali, a C. Conti, La preclusione nel processo penale, Milano, 2014, p. 263 ss.; M. Gambardella, Lex mitior e giustizia penale, cit., p. 59 ss.; E. Lamarque-F. Viganò, Sulle ricadute interne della sentenza Scoppola, in Dir. pen. cont., 31 marzo 2014. Per
un’analisi della giurisprudenza della Corte e.d.u. si veda V. Manes, sub art. 7 Cedu, in S. Bartole-P. De Sena-V. Zagrebelsky, (diretto da), Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Padova, 2012, p. 283 s. V. anche G. Borgna, Retroattività
in mitius e norme sulla prescrizione: profili critici della giurisprudenza CEDU sul regime transitorio della legge ex-Cirielli, in Dir. pen.
proc., 2014, p. 1001 ss.
19
Così, R. Bartoli, La sospensione del procedimento, cit., p. 672.
20
Così G. Pecorella, La messa alla prova, cit., p. 3268.
21
V. A. Diddi, La fase di ammissione della prova, cit., p. 138, che richiama così le già citate sentenze Corte cost., sent. 22 luglio
2011, n. 236, in www.cortecostituzionale.it; Corte cost., sent. 23 ottobre 2006, n. 393, in www.cortecostituzionale.it.
22
Così, C. cost., sent. 23 ottobre 2006, n. 393, in www.cortecostituzionale.it.
23
Cfr. Cass., sez. IV, 8 aprile 2015, n. 15231, cit.
24
Cfr. F. Caprioli, Due iniziative di riforma nel segno della deflazione: la sospensione del procedimento con messa alla prova
dell’imputato maggiorenne e l’archiviazione per particolare tenuità del fatto, in Cass. pen., 2012, p. 9 la definisce “cripto-condanna”. Cfr.
anche le considerazioni di R. Bartoli, La sospensione del procedimento, cit., p. 665.
25
Trib. Genova, sez. I, ord. 7 ottobre 2014, in www.penalecontemporaneo.it; Trib. Torino, ord. 21 maggio 2014, ivi.
26
Trib. Torino, ord. 21 maggio 2014, cit.
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garantita mediante l’istituto processuale della restituzione nel termine, ex art. 175 c.p.p., posto che il rispetto del termine non è stato possibile per causa di forza maggiore (il c.d. factum principis)».
Tale soluzione, pur nella comprensibile intenzione di voler garantire l’accesso a uno strumento (ritenuto di favore) prima non disponibile, non pare veramente convincente. Infatti, anche ove si condividesse la tesi secondo cui la mancata entrata in vigore della legge possa costituire una causa di forza
maggiore 27, sarebbe allora necessario fare totale applicazione della disposizione di cui all’art. 175 c.p.p.
e quindi anche del preciso limite temporale da esso previsto per richiedere la restituzione in termini,
ovvero dieci giorni dal momento del venire meno della causa di forza maggiore, identificabile in questo
caso nell’entrata in vigore della legge. Com’è evidente questa soluzione non può essere ritenuta idonea
a risolvere il problema, posto che tutti gli imputati, per usufruire della lex mitior, si sarebbero dovuti attivare in un lasso temporale estremamente stringato, a conferma che, in questo caso, «l’istituto della restituzione nel termine ex art. 175 c.p.p. sembra piegato a risolvere situazioni diverse da quelle che gli
sono proprie» 28.
Pochi mesi dopo, anche il Tribunale di Genova ha ritenuto ammissibile un’istanza di messa alla prova avanzata in un procedimento in cui, al momento dell’entrata in vigore della l. 67/2014, il dibattimento di primo grado era già aperto, fondando tale soluzione sulla premessa per cui l’istituto sarebbe fondamentalmente sostanziale, in quanto lo stesso, «in caso di esito positivo della prova, prevede
l’estinzione del reato» 29.
Il decidente ritiene quindi necessario valutare la possibilità di applicare nel caso di specie l’art. 2
c.p. 30 e richiama il fondamento costituzionale e convenzionale della retroattività in mitius, affermando
che tali canoni impongano «una applicazione retroattiva dell’istituto disciplinato dagli artt. 464 bis e ss.
c.p.p.».
Ciò premesso, il giudice prospetta comunque la necessità di effettuare un’operazione di bilanciamento e ricorda che il principio di retroattività della norma penale più favorevole non risulta senza eccezioni: limitazioni al principio di retroattività della norma di favore sono consentite dalla necessità di
preservare «interessi [contrapposti] di analogo rilievo» 31.
Per quanto riguarda la fattispecie concreta, il Tribunale considera che l’accesso alla messa alla prova
non possa essere negato nel giudizio di primo grado solo perché al momento dell’entrata in vigore della novella i termini siano oramai decorsi. D’altra parte, però, continua il Tribunale, al fine di garantire il
canone della ragionevole durata, «non si può consentire che nel regime transitorio l’imputato abbia in
qualsiasi momento la facoltà di optare per la richiesta di messa alla prova». Di conseguenza, viene proposta un’interpretazione secondo cui «la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova può essere formulata solo nel primo momento processualmente utile immediatamente successivo
alla data di entrata in vigore dell’istituto di favore», identificato nella prima udienza successiva a tale
data.
Anche la soluzione offerta da tale pronuncia non pare soddisfacente. Difatti, posto che la mancanza
di una disciplina intertemporale specifica per la messa alla prova, secondo la dominante giurisprudenza di legittimità, è il frutto di una precisa volontà politica 32, l’esegesi proposta dal Tribunale di Genova
pare eccessivamente creativa, perché, in assenza di alcun appiglio legislativo, ha l’effetto di aggirare la
chiara lettera del 464-bis, stabilendo in via interpretativa un nuovo termine per accedere all’istituto.
Inoltre, la strada dell’applicazione della messa alla prova in via meramente esegetica – mediante il
solo richiamo all’art. 2, comma 4, c.p. – ai giudizi in cui il termine per accedere all’istituto sia scaduto
27
Predilige tale tesi N. Pascucci, Sospensione del procedimento, cit., p. 1149. Contra, G. Fanuli, L’istituto della messa alla prova, cit.,
p. 441; C. Pecorella, Il Tribunale di Genova ammette la richiesta di sospensione, cit.
28
C. Pecorella, Il Tribunale di Genova ammette la richiesta di sospensione, cit.
29
Trib. Genova, sez. I, ord. 7 ottobre 2014, cit. La stessa tesi è sostenuta da Cass., sez. IV, 8 aprile 2015, n. 15231 cit.
30
In dottrina, ammette la possibilità di applicare l’art. 2, comma 4, c.p. al nuovo istituto R. Bartoli, La sospensione del procedimento, cit., p. 672 s. Cfr. anche G. Tabasco, La sospensione del procedimento con messa alla prova, cit., p. 39.
31
Cfr., sul punto, C. cost., sent. 12 marzo 2008, n. 72, in www.cortecostituzionale.it; C. cost., sent. 23 ottobre 2006, n. 393, in
www.cortecostituzionale.it.
32
Cfr. ad esempio, tra le tante, Cass., sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 47587, in CED Cass., n. 261255, la quale trova conferma del
fatto che il legislatore non abbia avuto alcun ripensamento sull’individuazione del termine finale per la presentazione
dell’istanza di cui all’art. 464 bis c.p.p., comma 2, nel fatto che lo stesso abbia introdotto con la l. 11 agosto 2014, n. 118 una disciplina intertemporale espressa solo per la sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili.
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pare difficilmente percorribile soprattutto perché, per usufruire concretamente della nuova probation, è
indispensabile individuare uno strumento processuale che permetta di (ri)mettere il richiedente nelle
condizioni di accedere al rito 33. Difatti, anche ove si consideri l’istituto fondamentalmente sostanziale,
esso non può essere totalmente scollegato dalle norme processuali che ne consentono la concreta utilizzazione 34, non operando lo stesso mediante meri calcoli quantitativi e automatismi 35.
LA RIMESSIONE DELLA QUESTIONE ALLE SEZIONI UNITE E LA MANCATA DECISIONE DA PARTE DELLE STESSE
La questione dell’applicabilità della messa alla prova ai giudizi che abbiano superato le fasi entro le
quali può essere presentata richiesta di accesso all’istituto non ha tardato a essere proposta alla Suprema Corte.
Peraltro, vista la possibilità di soluzioni interpretative opposte, non stupirà che, in una prima occasione, la quarta Sezione 36 abbia deciso di rimettere la problematica alle Sezioni unite, in modo simile
rispetto a quanto recentemente accaduto per la rescissione del giudicato 37.
In verità, con provvedimento di poco successivo, il Primo Presidente della Cassazione ha cancellato
la questione dal ruolo del massimo Collegio, poiché il termine di prescrizione del reato sarebbe spirato
poco dopo 38.
Nonostante, quindi, l’ordinanza abbia perso di rilevanza pratica, essa costituisce comunque un primo arresto della Suprema Corte, in cui la Cassazione non scarta neppure l’ipotesi di un annullamento
con rinvio della pronuncia impugnata, per individuare il giudice competente a effettuare gli accertamenti di merito richiesti dalla messa alla prova.
In tale pronuncia, infatti, il Collegio si sofferma sugli effetti di carattere sostanziale dell’istituto, che
«potrebbero deporre per una interpretazione estensiva della norma anche […] ai procedimenti pendenti, sia per l’applicazione dell’art. 2, comma 4, c.p., sia per coerenza con la significativa evoluzione della
giurisprudenza sul principio di retroattività della lex mitior, alla luce delle fonti internazionali e comunitarie e dei principi affermati dalla Corte di Strasburgo».
D’altra parte, però, ricordano i giudici, la Consulta ha già affermato che la Corte di Strasburgo nella
sentenza Scoppola, pur stabilendo il principio secondo cui l’art. 7 Cedu sancisce il canone della retroattività in mitius, «non ha escluso la possibilità che, in presenza di particolari situazioni, […] la lex mitior
possa subire deroghe o limitazioni» 39.
Del resto, lo stesso Giudice delle leggi ha anche ricordato che il principio di retroattività della legge
penale più favorevole, per la Corte di Strasburgo, «riguardi esclusivamente la fattispecie incriminatrice
e la pena» 40 e non invece le norme che modificano la prescrizione, che in ottica convenzionale risultano
estranee dall’ambito di applicazione dell’art. 7 Cedu 41.
In tale modo, quindi, i giudici rimettenti sembrano perlomeno dubitare che la messa alla prova rien-
33
Sembra essere di tale opinione R. Piccirillo, Le nuove disposizioni in tema di sospensione del procedimento, cit., 33. Cfr. anche A.
Diddi, La fase di ammissione alla prova, cit., p. 139; A. Sanna, L’istituto della messa alla prova, cit., p. 1277 s. Contra N. Pascucci, Sospensione del procedimento, cit., p. 1150.
34
A. Diddi, La fase di ammissione alla prova, cit., p. 139; A. Sanna, L’istituto della messa alla prova, cit., p. 1278.
35
Cfr. R. Piccirillo, Le nuove disposizioni in tema di sospensione del procedimento, cit., p. 33.
36
Cass., sez. IV, ord. 9 luglio 2014, n. 30559, in www.penalecontemporaneo.it.
37
Il riferimento è a Cass., sez. un., 17 luglio 2014, n. 36848, in Dir. pen. proc., 2015, p. 291 ss. con nota di F. Alonzi, Le Sezioni
Unite sulla rescissione del giudicato.
38
F. Giunchedi, In nome della nomofilachia, cit., p. 2.
39
Il riferimento è a C. cost., sent. 22 luglio 2011, n. 236, in www.cortecostituzionale.it, sulla quale si veda l’ampio commento di
F. Viganò, Sullo statuto costituzionale della retroattività, cit., passim. Tale pronuncia ha subito numerose critiche in dottrina, si veda,
ad esempio, V. Manes, Il giudice nel labirinto, cit., p. 165 s.
40
Corte e.d.u., 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia (n.2), §110. Sui diversi livelli di tutela che presidiano il principio della lex
mitior, a seconda che si rientri all’interno dell’ambito di applicazione dell’art. 49 CDFUE, 7 Cedu o puramente nazionale, v. F.
Viganò, Retroattività della legge penale più favorevole, cit., p. 9 ss.
41
Corte e.d.u., 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia (n.2), §110. Cfr. anche Corte e.d.u., 12 febbraio 2013, Previti c. Italia; Corte e.d.u., 22 giugno 2000, Coeme e altri c. Belgio. Sul punto v. G. Borgna, Retroattività in mitius e norme sulla prescrizione, cit., p.
1001 ss.
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tri nel più ristretto ambito di applicazione dell’art. 7 Cedu, come interpretato dalla Corte di Strasburgo.
Inoltre, la Corte afferma che è possibile prospettare pure «una soluzione interpretativa diversa, potendosi legittimamente sostenere la tesi che il novum normativo, riguardando anche l’ambito processuale […], non determini di per sé l’applicazione dell’istituto della messa alla prova ai fatti pregressi e per i
procedimenti pendenti, pregiudicando tale interpretazione il canone tempus regit actum».
Peraltro, continua la Corte, tale ultima soluzione sarebbe contrastante con l’art. 2 c.p. che disciplina il
principio di retroattività in mitius nella sua accezione interna all’ordinamento italiano, il quale, a sua
volta, ha un fondamento costituzionale nel canone di eguaglianza-ragionevolezza e ha una portata più
ampia rispetto a quella dell’art. 7 Cedu, non dovendo «essere limitato alle sole disposizioni concernenti
la misura della pena, ma […] esteso a tutte le norme sostanziali che, pur riguardando profili diversi dalla sanzione in senso stretto, incidono sul complessivo trattamento riservato al reo» 42.
La soluzione che il Collegio ritiene più garantista – e che sembra implicitamente preferire – è quella
dell’immediata applicabilità della messa alla prova ai giudizi pendenti giunti anche in Cassazione, venendosi, però, in tal modo a creare il problema dell’individuazione del giudice competente a vagliare la
richiesta.
In ogni caso, posta l’assoluta delicatezza della materia, come anticipato, i giudici si limitano a rimettere la questione alle Sezioni Unite senza scegliere tra le due soluzioni.
IL FILONE GIURISPRUDENZIALE DELLA SENTENZA IN ESAME: LA RICHIESTA NON PUÒ ESSERE PRESENTATA
IN CASSAZIONE
Non si è dovuto attendere molto affinché la questione dell’applicabilità della messa alla prova ai giudizi pendenti in cassazione venisse riproposta alla Suprema Corte.
In tale seconda occasione la Sezione Feriale, con una motivazione articolata, ha statuito che «la sospensione del procedimento con messa alla prova [...] non può essere richiesta dall’imputato nel giudizio in cassazione, né invocandone l’applicazione in detto giudizio, né sollecitando l’annullamento con
rinvio al giudice di merito» 43.
Il Collegio è giunto a tale conclusione seguendo un ragionamento duplice: per un verso, soffermandosi sull’importanza delle norme processuali che regolano la messa alla prova nella struttura dell’istituto e sull’inscindibilità del beneficio estintivo rispetto alla procedura delineata dal legislatore; per un
altro, verificando se l’eventuale applicazione del canone della lex mitior dovesse comportare necessariamente l’ammissione della messa alla prova anche nel giudizio di legittimità.
In particolare, la Corte rileva che il nuovo istituto «è stato costruito dal legislatore come opportunità
possibile esclusivamente in radicale alternativa alla celebrazione di ogni tipologia di giudizio di merito,
già dal primo grado», in quanto esso richiede ripetuti apprezzamenti fattuali che solo il giudice di prime cure è in grado di compiere.
Dalla necessaria presenza di penetranti accertamenti di merito, alternativi rispetto al giudizio ordinario, la Corte fa desumere che la messa alla prova costituisca un rito «assolutamente incompatibile con
ogni giudizio di impugnazione».
Oltretutto, sostengono ancora i giudici, il fatto che il beneficio estintivo della messa alla prova non
consiste in automatismi di cui il giudice possa fare applicazione in qualunque fase – ostando a ciò la natura anche deflativa dell’istituto –, ma è collegato in modo inscindibile alla disciplina dettata dalle norme processuali, «comporta che l’attuale assenza di una positiva e specifica disciplina transitoria […]
imponga, per sé, l’applicazione del generale principio […] tempus regit actum (secondo la previsione generale dell’art. 11 disp. gen.), con la conseguente inammissibilità di ogni richiesta che intervenga in sede di giudizio di legittimità».
Né, afferma il Collegio, la natura di causa estintiva del reato della messa alla prova rende per forza
applicabile la nuova disciplina ai processi che si trovino dinnanzi al giudice di legittimità.
Infatti, rileva la Corte, «appare in proposito assorbente la condivisa analisi che ha condotto la Corte
costituzionale a dichiarare non fondata la questione relativa all’inapplicabilità dei più favorevoli termi-
42
C. cost., sent. 23 ottobre 2006, n. 393, in www.cortecostituzionale.it.
43
Cass., sez. fer., 31 luglio 2014, n. 35717, in CED Cass., n. 259935.
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ni di prescrizione, introdotti dalla l. n. 251/2005, ai processi già pendenti in grado di appello o avanti la
Corte di cassazione» 44.
Il pensiero del Supremo Collegio è chiaro: i limiti espressi dalla Consulta, con la più volte richiamata
sentenza 236 del 2011, al principio di retroattività della legge più favorevole, vanno ritenuti pienamente
trasponibili nel caso di specie.
Difatti, come già rilevato, in tale occasione il Giudice delle leggi ha sostenuto che – anche dopo la
sentenza Scoppola – il principio di retroattività della lex mitior non è assoluto, ma può essere derogato
in caso di valide giustificazioni. Del resto, secondo la Consulta, l’applicazione della retroattività in mitius «presuppone un’omogeneità tra i contesti fattuali o normativi in cui operano le disposizioni che si
succedono nel tempo, posto che […] il principio di eguaglianza, così come ne costituisce un fondamento, può rappresentare anche il limite dell’applicabilità retroattività della legge penale più favorevole» 45.
Proprio queste considerazioni fungono da base per il ragionamento della Suprema Corte, secondo
cui «i “contesti processuali” del processo che non sia giunto a sentenza in primo grado e di quelli che si
trovano in fase di impugnazione [sono] assolutamente […] del tutto differenti e non permett[o]no pertanto, di dare applicazione retroattiva alla nuova disciplina».
In sostanza, la profonda diversità tra il contesto per il quale il legislatore ha ideato l’istituto (la prima
fase del procedimento di primo grado) e quello in cui si richiede l’applicazione dello stesso (la fase
d’impugnazione) sembra costituire per i giudici la ragione giustificatrice della deroga all’operare del
principio di retroattività della lex mitior 46.
A una soluzione diversa, afferma la Corte, si sarebbe potuti giungere solo mediante un’esplicita disciplina intertemporale o transitoria stabilita dal legislatore.
Come accennato, questa pronuncia della Sezione Feriale è stata accolta con assoluto favore dalla giurisprudenza di legittimità, tanto che, non solo le motivazioni in essa contenute non sono più state poste
in dubbio, ma essa è diventata la sentenza capostipite di un filone di decisioni, sviluppatosi in tutto il
2014 47 e anche nei primi mesi del 2015 48, che ha ripreso testualmente le stesse argomentazioni, ritenute
definitivamente risolutive della questione per i giudizi pendenti in fase di impugnazione.
In questo preciso contesto si inserisce la decisione qui pubblicata, che, come accennato, riprende letteralmente sia le argomentazioni della pronuncia del 31 luglio 2014, sia il principio di diritto dalla stessa enucleata.
Anche in questa sentenza, quindi, la messa alla prova viene considerata come un istituto radicalmente alternativo alla celebrazione di ogni giudizio di merito e incompatibile con ogni tipologia di impugnazione, senza che, per le ragioni già esaminate, venga configurata una concreta lesione del canone
della lex mitior.
LE QUESTIONI DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE
Visto il diritto vivente teso a negare la possibilità di adire la messa alla prova nei giudizi d’impugnazione, non stupirà che, dopo breve tempo, si sia tentato di percorrere la strada dell’incidente di costituzionalità.
Dal canto suo, la Sezione VI della Cassazione, con una pronuncia di fine ottobre del 2014, ha ritenuto
infondata tale questione, chiarendo numerosi punti cruciali 49.
Innanzitutto, i giudici, rilevano che nella fattispecie della mancata applicazione retroattiva della
44
La Cassazione richiama, quindi, C. cost., sent. 22 luglio 2011, n. 236, in www.cortecostituzionale.it; C. cost., sent. 12 marzo
2008, n. 72, in www.cortecostituzionale.it; C. cost., sent. 23 ottobre 2006, n. 393, in www.cortecostituzionale.it.
45
C. cost., sent. 22 luglio 2011, n. 236, in www.cortecostituzionale.it.
46
Condivide tale tesi L. Pulito, Messa alla prova per adulti, cit., p. 103.
47
Cass., sez. IV, 19 dicembre 2014, n. 3470, inedita; Cass., sez. V, 17 dicembre 2014, n. 17101, inedita; Cass., sez. IV, 15 dicembre 2014, n. 5986, inedita; Cass., sez. II, 4 novembre 2014, n. 48025, inedita; Cass., sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 47587, cit.; Cass., sez.
fer., 9 settembre 2014, n. 42318, in CED Cass. n. 261096.
48
Cass., sez. VI, 18 marzo 2015, n. 14526, inedita; Cass., sez. IV, 10 marzo 2015, n. 16683, inedita; Cass., sez. VII, 17 febbraio
2015, n. 11904, inedita; Cass., sez. VI, 13 febbraio 2015, n. 8344, inedita; Cass., sez. IV, 10 febbraio 2015, n. 7968, inedita; Cass., sez.
IV, 6 febbraio 2015, n. 9170, inedita.
49
Cass., sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 47587, cit.
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messa alla prova non viene in rilievo l’art. 7 Cedu, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, in quanto quest’ultimo concerne le sole disposizioni che definiscono i reati e le pene che li reprimono, tra cui
non si ritiene rientri l’istituto in esame.
In seguito, il Collegio precisa ancora che la norma convenzionale non ha lo stesso ambito applicativo
dell’art. 2, comma 4, c.p., che, come già osservato, riguarda ogni norma penale che modifichi in modo
favorevole una fattispecie criminosa incidendo sul complessivo trattamento sanzionatorio.
Chiarita così l’ampiezza del parametro di riferimento, il Collegio ritiene comunque la questione infondata, «atteso che il tema dell’individuazione del termine finale di proponibilità della richiesta di
ammissione al nuovo istituto involge all’evidenza scelte rimesse alla discrezionalità del legislatore».
Difatti, continuano i giudici, proprio il carattere di rito alternativo del procedimento di messa alla
prova rispetto all’«accertamento giudiziale», non rende irragionevole la fissazione del termine finale di
presentazione della richiesta.
Non è tutto, nella parte conclusiva della pronuncia, la Cassazione sostiene ancora che «la possibilità
di presentare la richiesta alla prima udienza successiva all’entrata in vigore della l. n. 67/2014 – tesi che
il sollevamento della questione di costituzionalità dovrebbe […] implicare – significherebbe […] collegare l’esercizio della facoltà ad un termine in realtà mobile», posto che tale udienza potrebbe avere luogo sia all’inizio dell’istruzione dibattimentale, sia quanto la stessa sia conclusa, venendosi a verificare
così una grave compromissione del canone di economia processuale e di ragionevole durata.
Con tali argomentazioni, quindi, la Suprema Corte sembra prendere posizione anche sulla possibilità di presentare una questione di legittimità costituzionale anche nei giudizi pendenti in primo grado,
ritenendo pure in tale caso giustificata la scelta legislativa, in ottemperanza al canone di economia processuale e di ragionevole durata.
Nonostante queste affermazioni, la frizione tra retroattività della norma più favorevole (intesa nella
sua accezione interna) e la mancanza di una disciplina processuale che permetta di accedere all’istituto,
pare più forte nei procedimenti in cui, all’entrata in vigore della novella, si sia sì superato il termine di
cui all’art. 464-bis, ma non si sia ancora giunti a una pronuncia di primo grado.
In tali fattispecie, infatti, non si potrebbe più ritenere così differente il contesto per cui il legislatore
ha ideato la messa alla prova, rispetto a quello in cui si richiede l’accesso al rito, tale che si possa pensare di avere individuato una ragionevole giustificazione a una deroga alla retroattività della lex mitior.
Né, in realtà, si correrebbe sempre il rischio di vanificare una grande quantità di attività processuali già
svolte (si pensi a un soggetto semplicemente rinviato giudizio), tale da poter richiamare il canone di
economicità processuale e di ragionevole durata come parametri di bilanciamento.
Di conseguenza, potrebbero avere un altro spessore le ordinanze di rimessione alla Consulta presentate dai Tribunali di Torino 50 e di Brindisi 51, per l’impossibilità di accedere alla messa alla prova nei
giudizi pendenti in primo grado.
Dal canto loro, i giudici torinesi, partendo dall’opinione per cui il legislatore abbia volontariamente
omesso una disciplina intertemporale per la messa alla prova, hanno ritenuto inapplicabile in via interpretativa l’art. 2, comma 4, c.p., posto che «in tal modo […] il giudice di merito fini[rebbe] con il sostituirsi al Giudice delle leggi, introducendo in via giurisprudenziale “un regime transitorio” non voluto
dal legislatore».
Nell’impossibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata, il Tribunale, ponendo in rilievo la natura anche sostanziale della messa alla prova, propone questione di legittimità costituzionale,
per violazione degli artt. 3, 24, 111 e 117 Cost., dell’art. 464-bis c.p.p. «nella parte in cui, in assenza di
una disciplina transitoria […] preclude l’ammissione all’istituto della sospensione del procedimento
con messa alla prova degli imputati di processi pendenti in primo grado, nei quali la dichiarazione di
apertura del dibattimento sia stata effettuata prima dell’entrata in vigore della l. n. 67 del 2014».
In particolare, il rimettente, poiché considera che il legislatore abbia stabilito, «in modo chiaro ed
espresso», un limite alla possibilità di accedere alla messa alla prova, ritiene che spetti alla Consulta
operare una verifica di ragionevolezza, ai sensi dell’art. 3 Cost., «del differente trattamento di soggetti
che – versando nelle medesime condizioni sostanziali – si trovino al momento dell’entrata in vigore della nuova legge in diverse fasi del processo di primo grado».
50
Trib. Torino, sez. V, ord. 28 ottobre 2014, in Gazz.Uff., 4 febbraio 2015, n. 5.
51
Trib. Brindisi, ord. 17 dicembre 2014, in www.archiviopenale.it.
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Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
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Dal canto suo, il Tribunale ritiene la questione non manifestamente infondata in quanto il legislatore, individuando un termine unico valido sia per i nuovi processi sia per quelli già in corso, avrebbe disciplinato in modo uguale situazioni nettamente difformi, consentendo di accedere all’istituto più favorevole solo agli imputati dei procedimenti in cui non siano state superate le soglie del 464-bis.
Il limite così fissato contrasterebbe, secondo i rimettenti, anche con il parametro interposto dell’art. 7
Cedu, per violazione del canone di retroattività della legge penale più favorevole, posto che non vengono individuati, quantomeno per i processi pendenti in primo grado, «interessi di rilevanza almeno
pari a quelli sottesi dalla regola della retroattività della lex mitior» tali da fungere da ragione giustificatrice della deroga a tale canone.
Poco tempo dopo, anche il Tribunale di Brindisi ha proposto una questione di legittimità costituzionale dell’art. 464 bis, con riferimento al solo parametro degli artt. 117 Cost. e 7 Cedu, nella parte in cui
esso «prevede che la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova “può essere proposta fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento nel giudizio direttissimo”».
Il Tribunale giustifica la necessità di un intervento della Consulta anzitutto ricostruendo il cammino
giurisprudenziale svolto dalla Corte costituzionale e dai giudici di Strasburgo in materia di retroattività
della lex mitior, soffermandosi anche sulla facoltà della Corte e.d.u. di rivalutare autonomamente, al di
là di indici formali, se una norma abbia natura sostanziale o processuale 52.
Fornito un quadro della problematica, il Tribunale sostiene, a differenza di quanto opinato dalla
Cassazione, che, nel caso di specie, la messa alla prova rientri all’interno dell’ambito di protezione
dell’art. 7 Cedu, le cui norme, com’è noto, fanno parte di quelle non derogabili dagli ordinamenti interni neppure nelle situazioni di emergenza (art. 15 Cedu).
Ciò chiarito, il Tribunale richiama la più volte citata sentenza 236/2011 della Consulta, nella quale,
come già rilevato, la Corte ha riconosciuto che dopo la sentenza Scoppola il principio di retroattività in
mitius ha assunto una propria autonomia, poiché esso «ha ora, attraverso l’art. 117, primo comma,
Cost., acquistato un nuovo fondamento con l’interposizione dell’art. 7 Cedu, come interpretato dalla
Corte di Strasburgo» 53.
Di conseguenza, proprio dal nuovo rango convenzionale e costituzionale assunto da tale canone il
Tribunale fa discendere la conseguenza che «eventuali deroghe a detto principio po[ssano] giustificarsi
solo in ragione della tutela di “controinteressi di rango omogeneo al diritto fondamentale che si intende
eccettuare”» 54.
In sostanza, secondo il rimettente, che richiama anche la giurisprudenza della Consulta secondo cui
«il confronto tra tutela convenzionale e tutela costituzionale dei diritti fondamentali deve essere effettuato mirando alla massima espansione delle garanzie» 55, il principio della retroattività in mitius, alla
luce del nuovo fondamento convenzionale e costituzionale, godrebbe oggi di «una copertura “più intensa” e, quindi, potrà sopportare deroghe ed eccezioni solo in funzione della tutela di antagonisti “diritti fondamentali” della persona riconosciuti a livello convenzionale». Il giudice, quindi, afferma «che
istanze quali “l’efficienza del processo”, “la tutela dei destinatari della giurisdizione”, “la dispersione
delle attività processuali già compiute”, la “ragionevole durata del processo”, non possano considerarsi
sovraordinate – semmai del tutto recessive – rispetto al fondamentale diritto dell’imputato di accedere,
in ogni momento, ad un sopravvenuto istituto idoneo a determinare l’estinzione del reato a lui ascritto».
52
Cfr. sul punto Corte e.d.u., 21 ottobre 2013, Del Río Prada c. Spagna; Corte e.d.u., 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia
(n.2). Si ricordi anche la corrente giurisprudenziale sviluppatasi a seguito della sentenza Corte E.d.u., 8 giugno 1976, Engel c.
Paesi Bassi. Cfr. in merito a tale pronuncia F. Viganò, Doppio binario sanzionatorio e ne bis in idem: verso una diretta applicazione
del’art. 50 della Carta?, in www.penalecontemporaneo.it.
53
C. cost., sent. 22 luglio 2011, n. 236, in www.cortecostituzionale.it.
54
Il Tribunale cita così testualmente le affermazioni di V. Manes, Il giudice nel labirinto, cit., p. 165.
55
Cfr., innanzitutto, C. cost., sent. 30 novembre 2009, n. 317, in www.giurcost.org. V. anche, tra le molte, C. cost., sent. 23
giugno 2014, n. 191, in www.cortecostituzionale.it; C, cost., sent. 3 luglio 2013, n. 202, in www.cortecostituzionale.it; C. cost., sent. 1
luglio 2013, n. 170, in www.cortecostituzionale.it; C. cost., sent. 19 novembre 2012, n. 264, in www.cortecostituzionale.it. Sul punto
cfr., per tutti, V. Manes, Il giudice nel labirinto, cit., p. 165; F. Viganò, Sullo statuto costituzionale della retroattività, cit., p. 9.
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CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Con la l. 28 aprile 2014, n. 67 il legislatore è riuscito a portare a termine un percorso di riforme sul quale
si discuteva, oramai, da numerosi anni. Non si può dire, quindi, che sia mancato il tempo per riflettere
sull’introduzione dei nuovi istituti. Ciò nonostante, in prima battuta, si è deciso di non prevedere alcuna norma intertemporale o transitoria volta a regolare il passaggio verso le nuove discipline. Alla luce
del complesso dibattito giurisprudenziale che si è venuto a creare in tema di “messa alla prova” tale
scelta si è dimostrata certamente azzardata. Difatti, come si è visto, i generali canoni intertemporali del
tempus regit actum e dell’art. 2 c.p. si dimostrano particolarmente difficili da utilizzare quando ci si trova
di fronte a istituti “ibridi” quali la messa alla prova, in assenza, oltretutto, di alcuna precisa indicazione
legislativa riguardante la natura prevalente da attribuire alle nuove disposizioni.
In sostanza, il legislatore così facendo ha abdicato al suo fondamentale compito di individuare il
punto di equilibrio tra caratteristiche sostanziali e processuali della messa alla prova e ha caricato così
l’interprete di un’operazione di bilanciamento tra interessi contrapposti particolarmente impegnativa.
In ogni caso, per i procedimenti pendenti in grado d’impugnazione, anche ove si ritenga che la messa alla prova abbia natura sostanziale e che l’ordinamento non preveda uno strumento processuale per
accedere al rito, la soluzione offerta dalla giurisprudenza di legittimità pare effettivamente in linea con
gli insegnamenti della Consulta operati con le sentenze 393/2006, 72/2008 e 236/2011 e quindi non
sembrano esserci spazi per proporre incidente di costituzionalità. Difatti, ove il procedimento si trovi in
appello o in cassazione, pare difficile che, nell’ammettere l’accesso alla messa alla prova, non sia individuato il rischio di una lesione di quegli «interessi di analogo rilievo» 56 – quali «l’efficienza processuale» o il pericolo di «dispersione delle attività processuali già compiute» –, individuati direttamente dalla
Consulta come idonei a resistere al vaglio positivo di ragionevolezza necessario per derogare al principio della lex mitior, inteso nella sua più lata accezione interna (art. 3 Cost).
Certo, la situazione sarebbe più delicata ove si ritenesse che effettivamente la messa alla prova possa
essere considerata una norma “materiale” più favorevole rientrante nell’alveo di copertura dell’art. 7
Cedu, posto che, come accennato, tale disposizione è ricompresa nel nucleo duro di quelle per cui non è
ammissibile alcuna limitazione o deroga, nemmeno in situazioni di guerra (art. 15 Cedu), con la conseguenza che la stessa potrebbe essere considerata almeno «prima facie chius[a] a possibili bilanciamenti» 57.
Difatti, se è pur vero che, anche in tale caso, la Corte costituzionale potrebbe ribadire il percorso esegetico operato con la sentenza 236 del 2011, sarebbero comunque riproponibili le critiche sollevate da autorevole dottrina a tale decisione, secondo cui la Consulta, nell’individuare deroghe al canone della lex
mitior, dovrebbe fare riferimento a «controinteressi di rango omogeneo al diritto fondamentale cui si intendeva eccettuare» 58, difficilmente riscontrabili nella semplice «efficienza processuale» o nella «dispersione delle attività processuali già compiute» 59.
Peraltro, far rientrare la messa alla prova all’interno della ristretta accezione di norma “materiale”
secondo l’art. 7 Cedu non pare un’operazione esegetica semplice e costituisce, forse, il maggiore punto
debole delle ordinanze di rimessione 60.
Del resto, come ha ricordato anche la Consulta, la Corte e.d.u. nella pronuncia Scoppola ha chiarito
«la nozione di pena cui fa riferimento la citata norma convenzionale, specificando che si tratta della misura che viene “imposta a seguito di una condanna per un reato”, e non di qualsiasi elemento incidente
sul trattamento penale» 61. Com’è evidente, nel caso di specie, non si è di fronte a una misura imposta in
seguito a una “condanna”, posto che, al contrario, la nuova probation si pone all’interno del procedimento penale ed è volta a estinguere il reato.
Né si può dimenticare, come già osservato, che Corte costituzionale 236 del 2011 ha precisato che
sono estranei dall’ambito di operatività del principio della lex mitior, inteso nella più ristretta accezione
56
Cfr. C. cost., sent. 23 ottobre 2006, n. 393, in www.cortecostituzionale.it da cui sono riprese le citazioni immediatamente successive.
57
F. Viganò, Sullo statuto costituzionale della retroattività, cit., p. 7.
58
V. Manes, Il giudice nel labirinto, cit., p. 165.
59
Così, V. Manes, Il giudice nel labirinto, cit., p. 166.
60
Tenendo conto, oltretutto, dei nuovi «steccati contro il diritto di Strasburgo» (F. Viganò, La Consulta e la tela di Penelope, in
www.penalecontemporaneo.it) posti con la recente pronuncia C.cost., sent. 26 marzo 2015, n. 49, in www.cortecostituzionale.it.
61
C. cost., sent. 22 luglio 2011, n. 236, in www.cortecostituzionale.it.
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145
propria della Corte di Strasburgo, «le ipotesi in cui non si verifica un mutamento favorevole al reo, nella valutazione sociale del fatto, che porti a ritenerlo penalmente lecito o comunque di minore gravità» 62.
Con la conseguenza che non sembra rientrare in tale ristretta definizione l’istituto in esame, che non incide in alcun modo sulla valutazione sociale del fatto criminoso.
In ogni caso, una soluzione parzialmente diversa si potrebbe forse raggiungere valorizzando gli
aspetti sanzionatori di “cripto-condanna” 63, nonché le finalità rieducative 64 e specialpreventive, che
certamente caratterizzano la messa alla prova. In sostanza, mediante l’enfatizzazione di tali caratteristiche, la misura della messa alla prova potrebbe essere letta come vera e propria “pena” – con caratteri
fortemente risocializzanti – a cui sarebbero assoggettati, a richiesta, gli imputati dei reati indicati
dall’art. 168 bis c.p., risultando in tal modo maggiormente prospettabile il suo inquadramento
all’interno della “materia penale” ex art. 7 Cedu. Del resto, si è già osservato che proprio nella sentenza
Scoppola la Corte di Strasburgo ha precisato che «per rendere efficace la tutela offerta dall’articolo 7, la
Corte deve rimanere libera di andare oltre le apparenze e di valutare essa stessa se una particolare misura si traduca nel merito in una “pena”» 65. Questa operazione, però, aumenterebbe le frizioni – già rilevate da autorevole dottrina 66 – tra messa alla prova e presunzione d’innocenza, posto che, tra l’altro,
si eseguirebbe una “pena” nei confronti di un imputato prima di avere un provvedimento definitivo
idoneo a limitarne i diritti fondamentali.
La situazione appare oggettivamente diversa per i procedimenti pendenti in primo grado. Infatti, per
tali fattispecie, per giungere a dubitare della presenza di una ragionevole giustificazione alla deroga del
canone della lex mitior non è necessario richiamare l’art. 7 Cedu, ma è sufficiente fare riferimento alla più
lata accezione di legge sostanziale propria dell’ordinamento interno, nella quale viene pacificamente ricompresa anche la prescrizione, ovvero una causa di estinzione del reato come la messa alla prova. Del
resto, questa tesi trova oggi conferma nella citata decisione della Suprema Corte che, pur avendo a oggetto una fattispecie in cui non si poneva la problematica specifica dell’applicazione della nuova probation nel
giudizio di legittimità, dopo aver richiamato la giurisprudenza costituzionale secondo cui la retroattività
in mitius ha nell’ordinamento interno un ambito di operatività più ampio rispetto all’art. 7 Cedu, ha affermato testualmente che «l’istituto della messa alla prova […], si configura come lex mitior […] considerato che l’esito positivo della messa alla prova determina l’estinzione del reato» 67.
Per i giudizi di primo grado, inoltre, potrebbe richiamarsi il favorevole precedente della sentenza
393 del 2006 della Consulta, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3 della
legge “ex Cirielli” «nella parte in cui derogava alla retroattività dei nuovi e più favorevoli termini di
prescrizione rispetto ai processi in corso di svolgimento in primo grado per i quali fosse già stato aperto
il dibattimento» 68. Come anticipato, infatti, in questa decisione la Corte ha ritenuto che ogni deroga al
principio di retroattività in mitius debba superare un «vaglio positivo di ragionevolezza», non essendo sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole. Tutto il problema, quindi, si
riassumerebbe nel verificare se per i procedimenti pendenti in primo grado sussistano «interessi di analogo rilievo» idonei a giustificare una limitazione della lex mitior. Per tali fattispecie, peraltro, come ha
rilevato il Tribunale di Brindisi, pare difficile poter richiamare fondatamente controinteressi quali
l’efficienza del processo o il rischio di dispersione delle attività processuali.
A un rigetto delle questioni sollevate, però, potrebbe giungersi per altre vie.
Innanzitutto la Consulta potrebbe risolvere alla radice il problema ritenendo che l’istituto abbia natura prevalentemente processuale, posto che l’effetto estintivo della messa alla prova, a differenza della
prescrizione, non opera automaticamente, ma perviene solo all’esito del percorso regolato dalle norme
processuali. Di conseguenza, sarebbe obbligato, anche in primo grado il riferimento al generale canone
del tempus regit actum 69.
62
C. cost., sent. 22 luglio 2011, n. 236, in www.cortecostituzionale.it
63
Cfr. F. Caprioli, Due iniziative di riforma nel segno della deflazione, cit., p. 9.
64
In giurisprudenza v. Cass., sez. II, 12 marzo 2015, n. 14112, inedita.
65
Corte e.d.u., 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia (n.2), §. 96.
66
F. Viganò, Sulla proposta legislativa in tema di sospensione del procedimento con messa alla prova, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, p. 1302.
67
Cass., sez. IV, 8 aprile 2015, n. 15231, cit.
68
F. Viganò, Sullo statuto costituzionale della retroattività, cit., p. 5.
69
Cfr. Cass., sez. fer., 31 luglio 2014, n. 35717, cit.
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Un ulteriore argomento a favore dell’infondatezza, inoltre, potrebbero trarsi dal fatto che, a ben vedere, nella sentenza 393 del 2006 la Consulta ha ritenuto irragionevole il discrimine temporale dell’apertura del dibattimento per l’applicazione dei nuovi termini di prescrizione, in quanto ha considerato che tale fase processuale non sia «in alcun modo idonea a correlarsi significativamente ad un istituto
di carattere generale come la prescrizione, e al complesso delle ragioni che ne costituiscono il fondamento» 70.
Nel caso di specie, invece, i termini attualmente previsti dall’art. 464 bis sono esattamente tarati sui
riti alternativi, dei quali fa parte anche la messa alla prova. Di conseguenza, la Corte potrebbe considerare non irragionevole il fatto che il legislatore abbia limitato l’accesso alla nuova probation riferendosi
agli stessi termini generalmente previsti per accedere ai riti speciali. In tal modo, sarebbe valorizzata
proprio la natura ibrida e processuale della messa alla prova, che diverrebbe così il vero limite idoneo a
circoscrivere l’operare della stessa quale istituto sostanziale.
70
C. cost., sent. 23 ottobre 2006, n. 393, in www.cortecostituzionale.it.
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Letture per sopravvenuta impossibilità di ripetizione
e regole di valutazione
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE II, SENTENZA 9 GENNAIO 2015, N. 509 – PRES. PETTI; REL. GALLO
Alla luce delle ultime evoluzioni della giurisprudenza della Corte e.d.u. (e, in particolare della sentenza della Grande
Chambre del 15 dicembre 2011 nel caso Tahery-Al Khawaja c. Gran Bretagna), la condanna dell’imputato può basarsi anche su dichiarazioni non ripetute in dibattimento, qualora sussistano contestuali garanzie procedurali in
grado di assicurare l’equità del procedimento nel suo insieme. A loro volta, tali garanzie consistono nella necessaria valutazione di tutti gli elementi ulteriori desumibili dal quadro probatorio.
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza in data 23/1/2014, la Corte di appello di [omissis], in parziale riforma della sentenza
del Tribunale di [omissis], in data 28/1/2013, dichiarati prescritti alcuni reati, riduceva la pena inflitta a
G.D., rideterminandola in anni cinque, mesi due di reclusione ed € 2.400,00 di multa per i residui reati
di estorsione (in danno di G.A.), nonché di usura (ai danni di M.C.M. – capo 5 – e di B.M. – capo 12);
confermava la condanna ad anni 1 e mesi 4 di reclusione inflitta a C.G. per il reato di corruzione di
pubblico ufficiale per atti contrari ai doveri d’ufficio.
3. Avverso tale sentenza propone ricorso C.G. personalmente e G.D. per mezzo del suo difensore di
fiducia.
4. C.G. solleva due motivi di ricorso con i quali deduce contraddittorietà e manifesta illogicità della
motivazione ed eccepisce l’intervenuta prescrizione del reato. Quanto al primo motivo deduce che nella
fattispecie non sussistono gli estremi del reato in quanto gli stessi giudici del merito hanno riconosciuto
che non vi è prova di protesti effettuati in ritardo in quanto la C. ha sempre pagato la cambiali che le
venivano presentate.
Quanto al secondo motivo eccepisce che la decorrenza della prescrizione deve essere collocata al
31/1/2006, data della perquisizione effettuata nell’ufficio UNEP del Tribunale di Lecco, in quanto a
partire da tale data il D.N. veniva dispensato dalla gestione delle levate di protesto dei titoli cambiari e
dai pignoramenti mobiliari ed immobiliari.
5. G.D. solleva sei motivi di ricorso con i quali deduce:
5.2 Inutilizzabilità delle dichiarazioni predibattimentali della persona offesa, G.A., ex art. 512 cod.
proc. pen., non potendosi considerare imprevedibile il decesso dello stesso, trattandosi di persona anziana.
[Omissis]
CONSIDERATA IN DIRITTO
5. È manifestamente infondato anche il secondo motivo in punto di inutilizzabilità delle dichiarazioni predibattimentali della persona offesa in sede di denuncia/querela. Nel caso di specie il Tribunale di
[omissis] ha acquisito (ed utilizzato) la denuncia/querela ai sensi dell’art. 512 cod. proc. pen. essendo
deceduto, il G. nelle more del giudizio. Orbene, non v’è dubbio che per definizione la morte di qualunque persona sia un evento certus an ma incertus quando. La Corte territoriale ha respinto l’analoga ecce AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | LETTURE PER SOPRAVVENUTA IMPOSSIBILITÀ DI RIPETIZIONE
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zione sollevata con i motivi d’appello, osservando che, sebbene il soggetto fosse in età avanzata, al
momento della presentazione della denuncia non segnalava alcuna condizione così gravemente patologica e degenerativa, da far presagire e considerare imminente un simile evento.
Tali considerazioni in fatto, che non possono essere oggetto di diverso apprezzamento in sede di legittimità, giustificano il giudizio di non prevedibilità dell’evento che costituisce condizione imprescindibile per consentire la lettura di quegli atti di cui è divenuta impossibile la ripetizione, a norma dell’art. 512 cod. proc. pen.
6. Una volta ritenuta legittima l’acquisizione della denuncia/querela della persona offesa deceduta
nelle more del giudizio, resta il problema di valutarne la consistenza probatoria alla luce della giurisprudenza CEDU, come recepita dalle Sezioni Unite di questa Corte. In punto di diritto, infatti, le Sezioni Unite di questa Corte hanno statuito che le dichiarazioni predibattimentali rese in assenza di contraddittorio, ancorché legittimamente acquisite, non possono – conformemente ai principi affermati dalla giurisprudenza europea, in applicazione dell’art. 6 della CEDU – fondare in modo esclusivo o significativo l’affermazione della responsabilità penale (Cass. Sez. U, Sentenza n. 27918 del 25/11/2010 Ud.
(dep. 14/07/2011) Rv. 250199).
7. In motivazione la Corte ha rilevato che: «Il principio affermato dalla giurisprudenza europea è
dunque che «i diritti della difesa sono limitati in modo incompatibile con le garanzie dell’art. 6 quando
una condanna si basa, unicamente o in misura determinante, su deposizioni rese da una persona che
l’imputato non ha potuto interrogare o fare interrogare né nella fase istruttoria né durante il dibattimento» (sent. 14 dicembre 1999, A.M. c. Italia; sent. 13 ottobre 2005, Bracci, cit.; sent. 9 febbraio 2006,
Cipriani c. Italia; sent. 19 ottobre 2006, Majadallah, cit.; sent. 18 maggio 2010, Ogaristi c.Italia), e ciò anche quando il confronto è divenuto impossibile per morte del dichiarante o per le sue gravi condizioni
di salute (sent. 7 agosto 1996, Ferrantelli e Santan gelo c. Italia; sent. 5 dicembre 2002, Craxi c. Italia),
ovvero quando l’irreperibilità del dichiarante sia giuridicamente giustificata da un diritto di costui al
silenzio, come nel caso di coimputati (sent. 20 aprile 2006, Carta c. Italia) o di imputati di reato connesso
(sent. 27 febbraio 2001, Lucà c. Italia). In sostanza, dall’art. 6 della CEDU, per come costantemente e
vincolativamente interpretato dalla Corte di Strasburgo, discende una norma specifica e dettagliata,
una vera e propria regola di diritto – recepita nel nostro ordinamento tramite l’ordine di esecuzione
contenuto nell’art. 2 della legge 4 agosto 1955, n. 848 – che prescrive un criterio di valutazione della
prova nel processo penale, nel senso che una sentenza di condanna non può fondarsi, unicamente o in
misura determinante, su deposizioni rese da una persona che l’imputato non ha potuto interrogare o
fare interrogare né nella fase istruttoria né durante il dibattimento».
8. Tuttavia, dato il valore vincolante dell’interpretazione dell’art. 6 della CEDU come fornito dalla
Corte di Strasburgo, non si può non tener conto delle successive evoluzioni della giurisprudenza della
Corte EDU. A questo riguardo, occorre considerare che, con la pronuncia della Grande Chambre, Tahery Al Khawaja c. Regno Unito del 15/12/2001, la Corte di Strasburgo ha operato una rimodulazione
delle linee interpretative fino ad allora proposte, ritenendo compatibile con le garanzie della Convenzione la condanna fondata su dichiarazioni decisive assunte in via unilaterale, ogni volta che il sacrificio del diritto di difesa (ovvero l’impossibilità di interrogare direttamente il teste fondamentale) risulti
bilanciato da “adeguate garanzie procedurali”. Con tale pronuncia la Corte EDU attenua la rigidità del
suo precedente indirizzo interpretativo, temperandone la portata con l’ulteriore regola secondo cui un
provvedimento di condanna che si basi unicamente o in misura determinante su una testimonianza non
sottoposta a controinterrogatorio, né nella fase dell’istruzione né in quella del dibattimento, integra una
violazione dell’art. 6, pp. 1 e 3, lett. d) Conv., solo se il pregiudizio così arrecato alla difesa non sia stato
controbilanciato da elementi sufficienti, ovvero da solide garanzie procedurali in grado di assicurare
l’equità della procedura nel suo insieme.
9. Le garanzie procedurali – a ben vedere – altro non sono che i “dati di contesto” compatibili con la
testimonianza “critica”. Esse consistono nella contestuale valutazione di tutti quei contrappesi che possono bilanciare, sotto il profilo della complessiva equità del procedimento, l’oggettiva restrizione subita
dalla difesa a causa dell’utilizzazione di una prova determinante sottratta alla garanzia del contraddittorio. Nel caso di specie il dato della decisività della testimonianza della persona offesa non sottoposta
a contraddittorio è bilanciato dalle dichiarazioni parzialmente confessorie del G. che, in sede di esame
dibattimentale «riconoscendo le dazioni di denaro al G. e la previsione dei relativi interessi, ammetteva
di aver profferito la frase, per cui, se (il G.) non l’avesse pagato, gli avrebbe “sterminato la famiglia”».
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | LETTURE PER SOPRAVVENUTA IMPOSSIBILITÀ DI RIPETIZIONE
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10. Pertanto legittimamente i giudici del merito hanno ritenuto raggiunta la prova della responsabilità del ricorrente in ordine al reato di estorsione ai danni di G.A., a lui ascritto al capo 2 dell’imputazione.
[Omissis]
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ATTILIO MARI
Magistrato – Tribunale di Roma
Acquisizione mediante lettura e regole sovranazionali
di valutazione delle dichiarazioni ormai irripetibili
Acquisition by reading and rules of proof imposed
by the case law of the Echr
Una pronuncia della seconda sezione della Corte suprema ritorna sulla tematica delle regole di valutazione della
prova assunta in assenza di contraddittorio, alla luce dell’evoluzione della giurisprudenza europea e in particolare
riferimento al (dedotto) overruling contenuto nella pronuncia della Grande Camera nel caso Tahany-Al Khawaja c.
Gran Bretagna. Nel commentare la sentenza, l’Autore ripercorre le tappe più significative dell’evoluzione dottrinale
e giurisprudenziale in materia. Conclude infine con l’affermazione, opportunamente argomentata, che la pronuncia
della Grande Camera abbia apportato un mutamento più apparente che reale nell’ormai consolidato assetto interpretativo.
A ruling in the second section of supreme Court returns to the theme of evaluation rules of evidence taken in the
absence of an adversarial process, in the light of the evolution of European law and in particular reference to the
(inferred) overruling in the Grand Chambre (c.Tahany-Al-Khawaja c. Uk). Commenting on the judgment, the author
traces the most significant stages of the evolution of doctrine and jurisprudence on the subject. Concludes with
the statement, properly argued, that the Court’s Grand Chamber has made a change more apparent than real in
the now consolidated structure interpretation.
LETTURE DIBATTIMENTALI E CONTRADDITTORIO PER LA PROVA
La sentenza in commento offre l’occasione per una rinnovata riflessione sui nodi interpretativi derivanti dalla formulazione dell’art. 512 c.p.p.: tra questi, il tema – specificamente preso in esame dalla pronuncia – circa gli spazi di compatibilità delle disposizioni processuali con i principi del giusto processo
convenzionale, con particolare riguardo all’acquisizione dibattimentale mediante lettura (su richiesta di
parte) di dichiarazioni raccolte in fase di indagine, nel caso in cui, “per fatti o circostanze imprevedibili”, ne sia divenuta impossibile la ripetizione 1.
Lo strumento acquisitivo della lettura si pone in deroga al principio di separazione delle fasi processuali e, conseguentemente, al postulato relativo all’inutilizzabilità “fisiologica” degli atti assunti nel
corso delle indagini preliminari, consentendo l’ingresso nel materiale probatorio valutabile in sede di
decisione anche di atti formatosi al di fuori del contraddittorio delle parti.
Volendo operare una sintesi del risalente dibattito dottrinale, va giusto ricordato che – già in sede di
originaria formulazione – il testo normativo non era andato esente da critiche, in particolare per il riferimento, nella delimitazione dei presupposti di applicazione, a clausole flessibili e suscettibili di ampliare eccessivamente la potenziale area di operatività di una disposizione che, per la sua natura ecce1
Il testo originario della disposizione prevedeva tale possibilità solo riguardo agli atti assunti dal pubblico ministero e dal
giudice, nel corso dell’udienza preliminare; successivamente, per effetto dell’art. 8 del d.l. 8 giugno 1992, n. 306 (convertito nella
l. 7 agosto 1992, n. 356), questa è stata estesa agli atti assunti dalla polizia giudiziaria e, per effetto dell’art. 18 della l. 7 dicembre
2000, n. 397, anche agli atti assunti dai difensori delle parti private.
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zionale, non è, in astratto, suscettibile di applicazioni analogiche 2.
Peraltro, i profili sistematici erano stati chiariti da alcune rilevanti decisioni della Corte costituzionale, ed in particolare della sentenza n. 255/1992 3 che, nel fare riferimento alle varie disposizioni che consentivano l’acquisizione al fascicolo del dibattimento di atti non assunti in contraddittorio, tra cui l’art.
512 c.p.p., aveva espressamente rilevato che quello dell’oralità non assurge al rango di principio inderogabile, ma di solo “criterio-guida”, cui è consentito derogare in tutti i casi in cui possa attribuirsi valenza prevalente all’esigenza di “non dispersione” dei mezzi di prova.
L’orientamento della Consulta aveva anticipato la novella del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, che estese la
possibilità di acquisire atti connotati dalla non ripetibilità anche a quelli assunti dalla polizia giudiziaria
con una modifica che – se era stata ritenuta da alcuni commentatori come necessaria al fine di evitare
una dichiarazione di incostituzionalità della norma, proprio alla luce della giurisprudenza citata 4 – era
stata oggetto di vivaci critiche da parte di altri autori, in quanto ritenuta manifestamente incoerente rispetto all’impostazione originaria del codice del 1988 5.
Peraltro, il riequilibrio tra il principio del contraddittorio e l’esigenza di non dispersione delle fonti
di prova si è evidentemente imposto alla luce della riforma costituzionale intervenuta con la l. cost. 23
novembre 1999, n. 2, che, nel riscrivere l’art. 111 della Carta fondamentale, al comma 5 ha espressamente sancito il carattere derogatorio delle disposizioni che prevedono la formazione della prova al di fuori
del contraddittorio tra le parti, consentendola, tra gli altri casi, solo in presenza di una “impossibilità di
natura oggettiva”. Tale ultima locuzione è stata allora interpretata come attributiva di una valenza costituzionale – speculare a quella del contraddittorio – al principio di non dispersione, necessariamente
residuale, 6.
Ne consegue comunque che, pur non avendo la l. 1 marzo 2001, n. 63, attuativa della riforma costituzionale, apportato alcuna modifica testuale all’art. 512 c.p.p., l’aspetto dell’ambito di estensione della
deroga al principio del contraddittorio non può che essere valutato alla luce del nuovo testo dell’art.
111 della Carta fondamentale; ciò comporta che la nozione di “impossibilità” deve essere parametrata
su elementi di carattere oggettivo, considerazione in base alla quale – già in radice – deve ritenersi
esclusa l’applicazione della disposizione ai casi in cui l’impossibilità di ripetizione sia invece ancorata a
un’opzione soggettiva del dichiarante, anche se sostenuta dall’esercizio di uno specifico diritto riconosciuto dall’ordinamento 7.
Ulteriormente, le regole di acquisizione imposte dal comma 5 del nuovo art. 111 Cost. vanno lette in
diretta correlazione con la regola di valutazione imposta dal comma 4, in base al quale la colpevolezza
dell’imputato non può essere “provata” sulla base di dichiarazioni di soggetto che si sia volontariamente sottratto all’esame da parte dell’imputato stesso o del suo difensore, disposizione riportata – in modo
pressoché pedissequo – nel comma 1-bis dell’art. 526 c.p.p., introdotto dalla l. n. 63/2001.
2
Tra i critici dell’originaria formulazione, M. Nobili, sub art. 512 c.p.p., in M. Chiavario (coordinato da), Commento al nuovo
codice di procedura penale, V, Torino, 1992, p. 435; P. Ferrua, Studi sul processo penale, Torino, 1990, p. 95.
3
Corte cost., sent. 3 giugno 1992, n. 255, in Giur. it., 1993, I, 1, p. 1858, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’originario testo dei commi 3 e 4 dell’art. 500 c.p.p., nella parte in cui non prevedevano l’acquisizione al fascicolo del dibattimento
delle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria e utilizzate per le contestazioni; ma si veda anche Corte cost., sent. 31 gennaio
1992, n. 24, in Cass. pen., 1992, p. 2022, relativa all’illegittimità dell’art. 195, comma 4, c.p.p., già contenente il divieto di testimonianza indiretta da parte degli appartenenti alla polizia giudiziaria (e che già aveva enunciato il criterio della “non dispersione”
dei mezzi di prova); d’altra parte, la sentenza n. 255 del 1992 è stata depositata lo stesso giorno di Corte cost., sent. 3 giugno
1992, n.254, in Giur. it., 1993, I, p. 533, che aveva dichiarato illegittimo il vigente testo dell’art. 513, comma 2, c.p.p., nella parte in
cui non prevedeva la lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dagli imputati in procedimento connesso che si fossero avvalsi
della facoltà di non rispondere.
4
Tra gli altri, F. Peroni, La testimonianza indiretta della polizia giudiziaria al vaglio della Corte costituzionale, in Riv. it. dir. proc.
pen., 1992, p. 696.
5
Ad esempio, G. Frigo, La formazione della prova nel dibattimento dal modello originario al modello riformato, in Giur. it., 1993, IV,
p. 328.
6
In questo senso, specificamente, M. Daniele, Principi costituzionali italiani e ingerenze europee in tema di prova dichiarativa, in
Riv. it. dir. proc. pen., 2011, p. 1010; in via generale, sulla valenza della riforma costituzionale nell’interpretazione dell’art. 512
c.p.p., M. Chiavario, L. 1 marzo 2001, n. 63 – Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale in materia di formazione e valutazione della prova in attuazione della legge costituzionale di riforma dell’articolo 111 della Costituzione, in Legislazione pen., 2002, p. 144;
G. Garuti, Il giudizio ordinario, in AA. VV., Procedura penale, Torino, 2012, p. 605.
7
Cass., sez. VI, 8 gennaio 2003, n. 8384, in CED Cass., n. 223731; Cass., sez. I, 23 ottobre 2014, n. 46010, ivi, n. 261265.
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GLI ATTI SUSCETTIBILI DI LETTURA PER SOPRAVVENUTA IMPOSSIBILITÀ DI RIPETIZIONE
Su queste premesse occorre individuare la tipologia di atti suscettibili di lettura in fase dibattimentale,
rilevando che l’articolo 512 c.p.p., a differenza del successivo, espressamente applicabile alle sole dichiarazioni, fa generico riferimento agli “atti assunti” dalla polizia giudiziaria e dalle parti processuali.
Sul punto, di particolare rilevanza è una pronuncia della Corte costituzionale 8 che, nel rilevare la
manifesta infondatezza della questione di legittimità del combinato degli artt. 500, 503 e 512 c.p.p., ha
ritenuto che l’art. 512 c.p.p. debba trovare applicazione anche per gli atti semplicemente “ricevuti” dalla
polizia giudiziaria e, in particolare, per la denuncia-querela 9.
Va altresì rilevato che proprio l’inclusione della polizia giudiziaria tra i soggetti destinatari degli atti
suscettibili di lettura ha determinato un evidente ampliamento dell’area potenziale di applicazione della norma, pure nella necessità (come detto, resa più stringente dall’approvazione della riforma costituzionale) di valutare con particolare rigore i presupposti della non ripetibilità.
Tra gli arresti giurisprudenziali più interessanti in questo senso possono citarsi quelli relativi
all’acquisibilità della relazione di servizio, qualora per circostanze sopravvenute e imprevedibili sia divenuta impossibile l’escussione del verbalizzante 10 e dell’informativa contenente la notizia di reato
qualora sia divenuta impossibile l’escussione del soggetto che abbia reso dichiarazioni accusatorie ivi
verbalizzate 11.
Pur nella carenza di univoci elementi testuali, deve ritenersi che un presupposto per la lettura della
dichiarazione sia la sua formalizzazione in un verbale, anche in considerazione del disposto dell’art.
515 c.p.p., che consente l’allegazione al fascicolo del dibattimento dei soli “verbali” di cui si sia data lettura 12.
LA SOPRAVVENUTA IMPOSSIBILITÀ DI RIPETIZIONE
Dal dato letterale dell’art. 512 c.p.p. si desume quindi che i presupposti specifici necessari per consentire la lettura sono due e sono costituiti dalla sopravvenuta impossibilità di ripetizione 13 e dall’imprevedibilità dell’evento che ne sta all’origine.
In ordine al primo, l’impossibilità, oltre che sopravvenuta, deve essere assoluta e non meramente relativa, con conseguente illegittimità di un’interpretazione tale da consentire la lettura anche nei casi di
mera difficoltà di ripetizione.
Tale soluzione si era già prospettata a seguito dell’entrata in vigore del nuovo codice di rito, avendo
la giurisprudenza di legittimità sottolineato che l’applicazione della disposizione ai casi di sola “difficoltà” nella ripetizione dell’atto si sarebbe risolta in una, non tollerabile, applicazione analogica di una
norma di carattere derogatorio 14.
La validità dell’assunto è stata rafforzata dalla riforma dell’art. 111 Cost. che, nel chiaro riferimento
8
Corte cost., sent. 12 aprile 1996, n. 114, in Giur. cost., 1996, p. 991.
9
Del tutto conforme è la successiva giurisprudenza di legittimità, tra cui Cass., sez. VI, 14 aprile 2003, n. 23807, in CED Cass.,
n. 226084; Cass., sez. II, 4 dicembre 2013, n. 51416, ivi, n. 258064; meno uniforme è la lettura dottrinale sul punto, in particolare
in base al tenore letterale della previsione dell’art. 511, comma 4, c.p.p., che – secondo alcune interpretazioni – limiterebbe comunque l’utilizzazione dell’atto di querela ai soli fini della valutazione di sussistenza della condizione di procedibilità (G. Garuti, Utilizzabilità delle dichiarazioni orali di querela, in Riv. it. dir. proc. pen., 1996, p. 864).
10
Cass., sez. VI, 11 maggio 2004, n. 32505, in CED Cass., n. 229155.
11
Cass., sez. VI, 6 novembre 2008, n. 44970, in CED Cass., n. 241905.
12
In tale senso, M. Chiavario, La riforma del processo penale, Torino, 1990, p. 21; C. Cesari, sub art. 512 c.p.p,., in G. Conso-G. Illuminati (diretto da), Commentario breve al codice di procedura penale, Padova, 2015, p. 2321; non mancano peraltro opinioni di segno contrario, basate sul dato testuale e anche sulla mancata prevedibilità della necessaria verbalizzazione di tali atti (M. Nobili,
sub art. 512 c.p.p., cit., p. 435; A. Nappi, Documentazione degli atti processuali, in Dig. pen, IV, p. 169).
13
Da cui, ulteriormente, deve essere distinta quella determinata dalla congenita natura irripetibile dell’atto, che ne legittima
l’inserimento nel fascicolo dibattimentale, ai sensi dell’art. 431, comma 1, lett. b) e c), c.p.p.
14
In questo senso già Cass., sez. VI, 20 settembre 1993, n. 10955, in CED Cass., n. 196591; Cass., sez. I, 14 ottobre 1999, n.
13765, ivi, n. 215173; solo apparentemente difforme è Cass., sez. II, 15 maggio 1996, n. 5494, ivi, n. 205279, dalla cui massima deve invece unicamente evincersi che il carattere dell’assolutezza deve comunque costituire oggetto della necessaria valutazione
da parte del giudice.
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alla natura “oggettiva” dell’impossibilità, esclude che la lettura dell’atto possa essere legittimata sulla
base di una scelta volontaria del dichiarante 15 o, comunque, di una situazione di fatto non riscontrabile
sulla base di univoci elementi esterni.
In questa prospettiva, uno dei punti di maggiore complessità attiene alla nozione di volontarietà della sottrazione all’esame, in relazione a cui la giurisprudenza di legittimità ha elaborato uno specifico
corpus di principi: deve così escludersi la volontarietà in tutti i casi in cui vi siano precisi elementi esterni tali da desumere una coartazione della libera scelta del dichiarante 16 o, comunque, la sussistenza di
elementi tali da provare una situazione di violenza fisica o psichica esercitata sulla fonte testimoniale 17.
Ulteriore corollario della valenza assoluta dell’impossibilità della ripetizione è che la lettura dell’atto
è consentita solo dopo che il giudice abbia verificato, senza esito positivo, la possibilità di applicare altri
istituti processuali finalizzati comunque a garantire il previo contraddittorio nell’acquisizione della
prova, quali l’esame a domicilio o la rogatoria internazionale 18.
L’IMPREVEDIBILITÀ DELLE SOPRAVVENIENZE
Quanto al secondo presupposto, ossia l’imprevedibilità di ciò che determina l’impossibilità di ripetizione, l’apprezzamento in concreto è affidato ad una prognosi postuma, da compiersi sulla base delle circostanze di fatto sussistenti al momento dell’assunzione originaria dell’atto, e a un giudizio probabilistico ancorato a plausibili ragioni logiche 19, da espletare in modo analitico proprio in considerazione
della deroga apportata al principio di oralità del dibattimento 20.
Da qui si trae che l’impossibilità ragionevolmente pronosticabile al momento dell’assunzione
dell’atto e tale da legittimare la proposizione della richiesta di incidente probatorio non consente il successivo ricorso alla lettura.
La giurisprudenza ha altresì chiarito che l’onere di provare, oltre che l’impossibilità della ripetizione, anche il carattere imprevedibile dell’evento che l’ha determinata spetta alla parte richiedente 21; ed
ha stabilito che la valutazione postuma deve essere condotta sulla base di criteri particolarmente rigorosi – pur se riferiti al preesistente stato di fatto – proprio in modo da evitare che la deroga al principio
dell’oralità si ripercuota in senso favorevole su parti che avrebbero potenzialmente potuto provvedere
(in particolare, attraverso la richiesta di incidente probatorio) ad evitare la dispersione della prova.
Tanto premesso, la nozione di evento “imprevedibile” ha generato una nutrita casistica che ha riguardato anche il caso della morte del dichiarante, ritenuta idonea a consentire la lettura delle dichiarazioni 22 ma solo qualora non sia stata prognosticamente prevedibile sulla base dei suddetti criteri, ele-
15
Di particolare rilievo, sotto questo profilo, è la tematica relativa alla possibilità di dare lettura di dichiarazione rese da parte di prossimi congiunti dell’imputato che, in sede di dibattimento, si siano avvalsi della facoltà di non deporre; sul punto, la
Corte costituzionale (Corte cost., sent.16 maggio 1994, n. 179, in Giur. cost., 1994, p. 1589) aveva ritenuto non fondata la questione di legittimità degli artt. 500, comma 2-bis e 512 nella parte in cui non consentivano la contestazione o la lettura di tali dichiarazioni, ritenendo che l’astensione costituisse un’ipotesi di impossibilità sopravvenuta; dopo l’approvazione della riforma
dell’art. 111 Cost., è stato però ritenuto che tale lettura non sia più compatibile con il quadro costituzionale (Corte cost., sent. 25
ottobre 2000, n. 440, in Cass. pen., 2001, p. 788); conforme a tale ultimo orientamento, Cass., sez. II, 19 gennaio 2004, n. 9588, in
CED Cass., n. 228385, mentre con quest’ultima tematica si intreccia quella relativa all’eventuale possibilità di dare lettura delle
dichiarazioni rese in sede di indagini e riguardanti imputati diversi dal prossimo congiunto (risolta positivamente, tra le altre,
da Cass., sez. VI, 27 maggio 2008, n. 27060, ivi, n. 240977).
16
Cass., sez. un., 25 novembre 2010, n. 27918, in Cass. pen., 2012, p. 858
17
Cass., sez. III, 8 luglio 2004, n. 38682, in Cass. pen., 2005, p. 3815; Cass., sez. II, 6 novembre 2012, n. 46286, in CED Cass., n.
25234.
18
Cass., sez. un., 25 novembre 2010, n. 27918, cit.
19
Tra le molte, Cass., sez. II, 11 novembre 1998, n. 12705, in Giust. pen., 1999, III, p. 342; Cass., sez. IV, 12 novembre, n.
16859/04, in CED. Cass., n. 227900.
20
Cass., sez. II, 10 ottobre 2014, n. 44570, in CED Cass., n. 260862; corollario ai predetti principi è quello per cui la valutazione
del giudice di merito, qualora adeguatamente e logicamente motivata, è insindacabile in sede di legittimità, Cass., sez. IV, 8 novembre 2007, n. 842, ivi, n. 238664.
21
Cass., sez. III, 8 luglio 2004, n. 38682, in CED Cass., n. 230045; Cass., sez. II, 16 giugno 2009, n. 29949, ivi, n. 244669.
22
Cass., sez. III, 27 settembre 2007, n. 40194, in CED Cass., n. 238146; rientra nel potenziale ambito di applicazione della
norma anche il decesso dovuto a suicidio (in relazione al quale è stato rilevato come questo non possa essere valutato alla stre AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | ACQUISIZIONE MEDIANTE LETTURA E REGOLE SOVRANAZIONALI DI VALUTAZIONE
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mento – in particolare – da valutare con particolare rigore qualora il dichiarante, al momento dell’assunzione dell’atto, fosse stato affetto da postumi di lesioni personali 23.
Rilevante è anche la casistica per sopravvenute patologie alla sfera psichica del dichiarante; in particolare, sono stati ritenuti idonei a legittimare la lettura eventi quali la sopravvenuta infermità ascrivibile a tale categoria 24, o comunque un ulteriore peggioramento della medesima qualora questo assuma
carattere non prevedibile 25, così come eventi incidenti sulla sfera mnemonica (quali la perdita della
memoria 26 o un blocco di tipo psicologico-emotivo 27).
Peraltro, il tema che ha dato origine alla giurisprudenza più ampia (e, in alcuni casi, contraddittoria)
è stato quello della rilevanza da attribuire allo stato di sopravvenuta irreperibilità del teste non comparso in dibattimento e che abbia già reso dichiarazioni in sede di indagini.
Sul punto, in base alla sentenza dalle Sezioni unite del 28 maggio 2003, n. 36747, Torcasio 28, la sopravvenuta irreperibilità del dichiarante non costituisce, di per sé, elemento rivelatore di una volontà di
sottrarsi all’esame e non determina, ipso facto, l’applicazione della regola di esclusione contenuta nell’art. 526, comma 1-bis, c.p.p.
Ne deriva che è rimessa al giudice di merito, sulla base dei criteri prima riassunti, la valutazione in
ordine alla configurabilità di una oggettiva impossibilità di ripetizione dell’atto e che sono necessari –
fermo restando che non può considerarsi sufficiente, al fine di procedere alla lettura, la mera impossibilità di notificare la citazione testimoniale – tutti gli accertamenti connessi alla peculiare situazione del
soggetto intimato, eventualmente indotti dagli esiti dell’istruzione dibattimentale, con il conseguente
obbligo di dare adeguatamente conto delle valutazioni compiute sulla ragionevole impossibilità di
svolgere ulteriori ed efficaci ricerche del dichiarante 29.
Ed è parimenti necessario che lo stato di irreperibilità del testimone non sia stato ragionevolmente
pronosticabile al momento della sua assunzione in sede di indagini (escludendo quindi, in tale momento, la necessità di procedere a incidente probatorio) 30.
Pur in presenza di principi adeguatamente consolidati, la prassi evidenzia alcune difficoltà applicative, in particolare nei casi in cui i testimoni non appaiano, già in base a elementi di fatto presenti al
momento dell’originaria assunzione, stabilmente presenti in quel territorio.
Sono indicativi, a tale proposito, i non pochi arresti della giurisprudenza di legittimità circa la lettura
di dichiarazioni rese da soggetti di nazionalità extracomunitaria, quando gli stessi risultino privi di
permesso di soggiorno.
In particolare, sul presupposto per cui lo stato di soggetto privo di tale permesso non concretizza, di per
sé, un’ipotesi di impossibilità sopravvenuta di ripetizione 31, la Suprema Corte ha rilevato che tale condizione può legittimare l’applicazione dell’art. 512 c.p.p. solo in presenza di adeguati e univoci elementi di fatto.
Pertanto, si è esclusa la possibilità di dare corso alla lettura in presenza di situazioni tali da denotare
una oggettiva e originaria precarietà del domicilio dichiarato in sede di indagini 32, mentre l’applica-
gua della volontaria sottrazione all’esame di cui all’art. 526, comma 1-bis, c.p.p., Cass., sez. I, 22 novembre 2002, n. 2596, ivi, n.
223252).
23
Cass., sez. I, 23 gennaio 1995, n. 122, in CED Cass., n. 201423.
24
Cass., sez. I, 15 gennaio 2010, n. 19511, in CED Cass., n. 247195.
25
Cass., sez. I, 25 febbraio 2004, n. 24249, in CED Cass., n. 228549.
26
Cass., sez. II, 26 novembre 2010, n. 3315, in CED Cass., n. 248940 (nella specie, si trattava di amnesia di origine traumatica);
sul punto, di particolare rilievo è l’ordinanza della Corte costituzionale (Corte cost., ord. 19 gennaio 1995, n. 20), che ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità del combinato degli artt. 512 e 514 c.p.p., nella parte in cui non prevedevano l’amnesia del teste quale causa di irripetibilità dell’atto, proprio sulla base dell’erroneità del presupposto interpretativo
alla base dell’ordinanza di rimessione).
27
Cass., sez. III, 10 ottobre 2007, n. 40195, in CED Cass., n. 237956.
28
In Cass. pen., 2004, p. 21; in senso conforme al relativo principio di diritto, Cass., sez. II, 18 ottobre 2007, n.43331, in CED
Cass., n. 238198; Cass., sez. II, 20 gennaio 2009, n. 6139, ivi, n. 243285.
29
Cass., sez. II, 27 maggio 2010, n. 22358, in CED Cass., n. 247434; Cass., sez. VI, 6 febbraio 2014, n. 16445, ivi, n. 260155.
30
Cass., sez. VI, 8 gennaio 2003, n. 8384, in CED Cass., n. 223731 (in tale caso, la Corte ha rilevato come l’elemento della volontaria sottrazione del testimone all’esame può essere desunto dal suo comportamento concreto; nel caso di specie, il teste medesimo era stato regolarmente citato e si era successivamente reso irreperibile).
31
Cass., sez. I, 9 ottobre 2002, n. 37119, in CED Cass., n. 222913.
32
Cass., sez. VI, 30 gennaio 2004, n. 14550, in Cass. pen., 2005, p. 2624, relativa al caso di una cittadina extracomunitaria dedi-
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zione dell’art. 512 c.p.p. è stata invece ritenuta ammissibile quando le circostanze di fatto denotino (pur
in assenza del permesso di soggiorno) una adeguata stabilità da parte del dichiarante e non siano tali
da legittimare la previsione in ordine a un successivo mutamento di dimora 33.
I PRINCIPI DEL GIUSTO PROCESSO CONVENZIONALE, ANCHE ALLA LUCE DELLA SENTENZA TAHERYALKHAWAJA DEL 15 DICEMBRE 2011
Delineati i presupposti di applicabilità dell’art. 512 c.p.p. si pone – in via logicamente successiva – la
questione direttamente esaminata dalla sentenza in commento, quella della compatibilità tra le disposizioni ivi contenute e l’art. 6, comma 3, lett. d) della Cedu, nella parte in cui, nell’ambito delle situazioni
soggettive derivanti dal diritto a un processo equo, stabilisce il diritto dell’imputato a “interrogare o a
far interrogare” i testimoni a carico.
In via logica deve premettersi che la problematica relativa alla compatibilità della disposizione codicistica con quella convenzionale non si pone in termini di utilizzabilità della prova non assunta in contraddittorio, ma nella fase (logicamente successiva) dei suoi criteri di valutazione e della sua idoneità a
fondare un giudizio di colpevolezza.
Difatti, l’acquisizione al materiale probatorio astrattamente valutabile di un atto assunto in fase di
indagine e di cui risulti, sulla base dei parametri prima riassunti, il carattere irripetibile per sopravvenute e imprevedibili circostanze, è compatibile con il quadro costituzionale ed, in particolare, con il disposto dell’art. 111, comma 5, nella parte in cui demanda alla legge di stabilire i casi di deroga al principio del contraddittorio a seguito di “accertata impossibilità di natura oggettiva” di assunzione della
prova.
In relazione, invece, alle regole di valutazione, dal complesso delle disposizioni costituzionali non si trae
alcun esplicito principio 34 – la regola del quarto comma dell’art. 111 è applicabile soltanto ai casi in cui il dichiarante si sia “volontariamente” sottratto all’esame –, e pertanto i principi convenzionali – come delineati
dalla Corte di Strasburgo – assumono il rango di parametri interposti di legittimità delle norme interne, sulla base dei principi dettati dalla Corte costituzionale nelle sentenze nn. 348 e 349 del 2007 35.
Sul punto, la Corte europea è spesso intervenuta proprio in specifico riferimento alla disciplina nazionale relativa alle dichiarazioni rese in sede di indagini e utilizzate ai fini di una condanna senza
l’esame in contraddittorio del loro autore, e ha dettato – in modo adeguatamente costante – rigidi principi in punto di valutazione.
Ha anzitutto premesso che il principio del contraddittorio, pure garantito dall’art. 6 della Cedu, non
ha carattere assoluto e può quindi subire delle eccezioni, con la conseguenza che non può ritenersi contraria alle disposizioni convenzionali l’acquisizione di dichiarazioni rese nella fase delle indagini anche
nel caso in cui le stesse non siano ripetute di fronte al giudice 36 e purché all’imputato sia comunque
concessa la facoltà “adeguata e sufficiente” di procedere all’esame in contraddittorio ovvero di contestare il contenuto della deposizione 37.
ta alla prostituzione e che aveva fornito, in sede di indagini, recapiti intrinsecamente “precari”. Peraltro, proprio relativamente a
cittadine extracomunitarie nella medesima situazione di fatto, la Corte è anche giunta a conclusioni diverse, almeno quando le
circostanze fossero tali da denotare adeguatamente un “radicamento” nel territorio (Cass., sez. III, 17 novembre 2009, n. 6636, in
CED Cass., n. 246181; in particolare, Cass., sez. III, 22 aprile 2004, n. 23282, ivi, n. 229424, ha cassato la valutazione del giudice di
merito, che aveva desunto l’imprevedibilità dell’irreperibilità di dichiaranti che erano poi state ospitate da una struttura protetta dalla P.G.).
33
Nella varia casistica giunta all’esame della Suprema Corte, possono citarsi, Cass., sez. I, 23 marzo 2006, n. 16210, in CED Cass., n.
234215 (relativa a soggetti che, pur privi di permesso di soggiorno, lavoravano alle dipendenze dello stesso imputato – in assenza di
regolarizzazione – ed erano stati identificati tramite passaporto); Cass., sez. II, 4 marzo 2009, n. 14850, ivi, n. 244055 (relativa a soggetto
dedito da anni al commercio ambulante e in grado di comprendere la lingua italiana); Cass., sez. I, 19 maggio 2009, n. 32616, ivi, n.
244294 (relativa a soggetto che abbia precedentemente denunciato il reato cercando di contattare la P.G.).
34
M. Daniele, Principi costituzionali e ingerenze europee in tema di prova dichiarativa, in Riv. it. dir. proc. pen., 2011, p. 1008, secondo cui il tema della valutazione della prova dichiarativa è “indifferente” alla Costituzione.
35
Corte cost., sent. 24 ottobre 2007, n. 348, in Cass. pen., 2008, p. 2253; Corte cost., sent. 24 ottobre 2007, n. 349, ivi, p. 2279.
36
Corte e.d.u., 19 febbraio 1991, Isgrò c. Italia; Corte e.d.u., 15 giugno 1992, Ludi c. Svizzera; Corte e.d.u., 18 giugno 2010,
Ogaristi c. Italia, in Cass. pen., 2010, p. 3300.
37
Corte e.d.u., 27 febbraio 2001, Lucà c. Italia; Corte e.d.u. 13 ottobre 2005, Bracci c. Italia, in Cass. pen., 2006, p. 2897.
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Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
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Ha però poi rilevato che, al fine di garantire il rispetto del diritto a un processo equo, è necessario
che la dichiarazione resa dal soggetto “assente”, pur se legittimamente acquisita agli atti sulla base della legge nazionale, non costituisca la ragione “unica” o “determinante” della pronuncia di condanna,
dovendo la stessa necessariamente essere corroborata da ulteriori elementi di prova assunti nel contraddittorio delle parti 38 e ciò anche quando l’esame del testimone sia divenuto impossibile per irreperibilità, morte o infermità del dichiarante 39.
In questo quadro adeguatamente univoco (e specificamente riferito alla legislazione processuale italiana) si è peraltro inserita, come dato atto dalla sentenza in commento, la decisione della Grande Camera del 15 dicembre 2011 40, pronunciata in riferimento a una sentenza emessa dalla Corte (il 19 gennaio 2009) nei confronti della Gran Bretagna, con cui era stata accertata la violazione dell’art. 6, commi 1
e 3, lett. d) della Cedu, a seguito di condanna emessa nei confronti dei due ricorrenti per effetto soltanto
di dichiarazioni rese da soggetti assenti al dibattimento.
In questa pronuncia la Grande Camera ha affermato che la regola dell’inidoneità della dichiarazione
non ripetuta in contraddittorio a costituire la prova “unica o determinante” della colpevolezza dell’imputato non ha carattere assoluto, e che può essere derogata a seguito dell’esistenza di “solide garanzie
procedurali”; apparentemente, quindi, il percorso motivazionale della Corte sembra portare a una conclusione, di segno difforme rispetto alla giurisprudenza consolidata, in base alla quale la dichiarazione
non ripetuta in contraddittorio potrebbe costituire anche la prova unica o determinante della colpevolezza, qualora il complessivo quadro delle facoltà processuali spettanti all’imputato sia comunque idoneo ad assicurare il diritto di difesa.
Tuttavia, al di là di tale, generica, enunciazione contenuta nelle premesse della motivazione, una lettura più attenta induce a ritenere che l’overruling consacrato della pronuncia – e oggetto di incisive critiche da parte di alcuni commentatori 41 – sia stato più apparente che reale.
In particolare, esaminando la parte della pronuncia in cui sono stati presi in esame i casi concreti (relativi, a propria volta, a sentenze di condanna basate, in un caso, su dichiarazione di teste deceduto e,
nel secondo, di teste “intimorito” 42), si rileva che tali “garanzie procedurali” ad altro non attengono se
non alle regole di valutazione della prova dichiarativa e che, di conseguenza, le stesse impongono che
le prove non ripetibili siano assistite da elementi ulteriori di carattere strettamente probatorio.
Non v’è passaggio della motivazione da cui si evinca che tali garanzie possano risolversi unicamente
nella valutazione complessiva delle facoltà processuali assicurate dal sistema nazionale.
Non sembrano, quindi, condivisibili le conclusioni dei citati commentatori nella parte in cui hanno
ritenuto che l’impianto argomentativo della pronuncia della Grande Camera sia tale da determinare un
significativo arretramento dei diritti di difesa garantiti dall’art. 6 della Cedu.
GLI ORIENTAMENTI DELLA
VINCOLI SOVRANAZIONALI
CORTE DI CASSAZIONE SU SOPRAVVENUTA IMPOSSIBILITÀ DI RIPETIZIONE E
La giurisprudenza di legittimità si è progressivamente adeguata agli arresti della Corte di Strasburgo,
in riferimento alla necessità che le dichiarazioni irripetibili debbano essere avvalorate da idonei e ulteriori elementi probatori 43 e ciò anche quando il testimone “assente” si identifichi nella persona offesa 44.
38
Corte e.d.u., 5 dicembre 2002, Craxi c. Italia, in Cass. pen., 2003, p. 1080; Corte e.d.u. 13 ottobre 2005, Bracci c. Italia, cit.;
Corte e.d.u., 19 ottobre 2006, Majadallah c. Italia; Corte e.d.u, 18 maggio 2010, Ogaristi c. Italia, cit.; va precisato che, Corte
e.d.u., 26 marzo 1996, Doorson c. Italia, ha rilevato che tale iniquità sussiste anche nel caso in cui l’assenza del testimone sia giustificata.
39
Corte e.d.u., 7 agosto 1996, Ferrantelli/Santangelo c. Italia; Corte e.d.u., 5 dicembre 2002, Craxi c. Italia, cit.
40
Corte e.d.u., Grande Camera, 15 dicembre 2011, Tahery e Al-Khawaja c. Regno Unito.
41
Si vedano, tra gli altri, F. Zacché, Rimodulazione della giurisprudenza europea sui testimoni assenti, in Dir. pen. contemp., 17
gennaio 2012.
42
Rilevando che, in tale secondo caso (posto alla base di una pronuncia di condanna emessa dalla Grande Camera), il teste
aveva reso una precedente testimonianza “protetta” di fronte al giudice, rifiutandosi però di comparire in udienza pubblica di
fronte alla giuria.
43
Orientamento fatto proprio, con espresso riferimento alle disposizioni convenzionali, da Cass., sez. II, 18 ottobre 2007,
n. 43331, in Dir. pen. proc., 2008, p. 878, nonché da Cass., sez. I, 23 settembre 2009, n. 44158, in CED Cass., n. 245556, che giun AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | ACQUISIZIONE MEDIANTE LETTURA E REGOLE SOVRANAZIONALI DI VALUTAZIONE
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Va però osservato che vi erano state pronunce giunte a conclusioni contrarie a proposito dell’idoneità di tali dichiarazioni a fungere da prova “unica” o “determinante”, ritenendo che le disposizioni
convenzionali non siano tali da poter consentire la disapplicazione di disposizioni processuali interne,
quali l’art. 512 c.p.p., assunte come direttamente attuative del disposto dell’art. 111, comma 5, Cost.,
nella parte in cui consente la deroga al principio del contraddittorio 45; in realtà, facendo riferimento a
quanto sopra argomentato, tali ultime pronunce sovrapponevano il piano della legittimità delle regole
di utilizzabilità delle dichiarazioni assunte in assenza di contraddittorio con quello della successiva valutazione (in cui, come si è visto, una volta accertata l’impossibilità “oggettiva” di ripetizione, l’art. 111
non detta alcuna regola esplicita, con conseguente idoneità della Cedu a fungere da parametro interposto).
Il contrasto ha trovato una composizione nella già citata pronuncia delle Sezioni unite n. 27918/11
del 2010 46, pure riferita al disposto dell’art. 512-bis c.p.p., che regola la lettura delle dichiarazioni rese
da persona residente all’estero e che però contiene principi applicabili anche alle ipotesi disciplinate
dall’art. 512 c.p.p.
In tale pronuncia, la Corte ha operato una ricostruzione finalizzata ad armonizzare la normativa interna con quella di fonte convenzionale, sulla base della premessa secondo cui v’è una diversità di ambiti operativi tra l’art. 111, comma 5, Cost., che detta principi in tema di acquisizione, e la regola di valutazione imposta dalla disposizione convenzionale.
Sula base di tali premesse, la Corte ha quindi ritenuto che le disposizioni nazionali e quelle convenzionali siano espressive, sul punto, di una comune ratio, in base alla quale le dichiarazioni rese da soggetto del quale non sia stato possibile l’esame in contraddittorio vanno sottoposte a un rigoroso criterio
di valutazione, a propria volta implicante la necessità di concreti elementi di riscontro 47.
D’altra parte, anche le successive pronunce della Corte che hanno fatto espresso riferimento al (dedotto) overruling espresso dalla sentenza Tahery-Al Khawaja 48, non hanno dettato principi derogatori
rispetto a quelli fatti propri dalle Sezioni unite, ritenendo che le “garanzie procedurali” di cui ha fatto
menzione la Grande Camera non possano che risolversi nella valutazione della sussistenza di ulteriori
elementi di carattere probatorio rispetto alle dichiarazioni rese dal teste non esaminato in dibattimento.
La sentenza in commento si pone, quindi, in diretta linea di continuità con la prevalente giurisprudenza di legittimità, ritenendo che le garanzie di “equità” si risolvano – nel caso di specie – in una valutazione complessiva del quadro probatorio, che tenga necessariamente conto di elementi di rango ulteriore rispetto a quelli forniti da una prova non assistita dalle garanzie del contraddittorio.
ge ad analoga conclusione sulla base di una lettura combinata delle disposizioni della Cedu con gli artt. 512 e 526, comma 1-bis,
c.p.p.
44
Cass., sez. V, 26 marzo 2010, n. 21877, in CED Cass., n. 247446; Cass., sez. III, 15 giugno 2010, n. 275802, ivi, n. 248053; Cass.,
sez. I, 4 aprile 2012, n. 18407, ivi, n. 252269.
45
Cass., sez. V, 16 marzo 2010, n. 162169, in CED Cass., n. 247258; Cass., sez. VI, 25 febbraio 2011, n. 9665, ivi, n. 249594.
46
Cass., sez. un., 25 novembre 2010, n. 27918, cit.
47
Per una lettura critica della sentenza delle Sezioni unite, C. Conti, Le dichiarazioni rese da persone irreperibili, ne Il libro
dell’anno del diritto/2012, Roma, p. 756, in cui si rileva che il riferimento testuale ai “riscontri” (e, di conseguenza, ai criteri dettati
dall’art. 192 c.p.p.) non esclude, di per sé, che la dichiarazione non ripetuta costituisca la prova “determinante” della condanna.
48
Cass., sez. VI, 13 novembre 2013, n. 2296, in CED Cass., n. 257771.
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Dibattiti tra norme e prassi
Debates: Law and Praxis
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | DEFLAZIONE E RAZIONALIZZAZIONE DEL SISTEMA
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SERENA QUATTROCOLO
Professore associato di Procedura penale – Università di Torino
Deflazione e razionalizzazione del sistema:
la ricetta della particolare tenuità dell’offesa
Judicial deflation and rationalization of the criminal system:
the recipe of the new reform on diversion for minor offences
Lo scritto propone una riflessione “a caldo” sui principali punti salienti della riforma entrata in vigore il 2 aprile
2015. Partendo da alcuni brevi cenni alla legge di delegazione, l’esame del testo si concentra, in prima battuta, sui
parametri prescelti dal legislatore delegato per dare sostanza alle indicazioni ricevute dal Parlamento. Successivamente, l’attenzione si sposta sulle soluzioni processuali attraverso le quali la nuova causa di non punibilità trova
applicazione – anche in via transitoria – nel procedimento.
The paper aims to give a first glance on the main issues of the new statutory reform, entered into force on April
2nd 2015. Firstly, the attention is drawn to the content of the delegation given by the Parliament to the Government. Secondly, the analysis focuses on the criteria applied by the Government to determine which offences can
be considered ‘minor’ and when the proceeding can be dismissed. Then, the following paragraphs deal with the
procedural devices set forth for the application of the new tool, even in pending proceedings and trials.
UN BREVE SGUARDO ALLA LEGGE DELEGA
Da alcune settimane è entrata in vigore la novella introdotta dal d.lgs 16 marzo 2015, n. 28, recante significative modifiche al codice penale, a quello processuale penale, nonché al testo unico in materia di
casellario giudiziale. Il provvedimento è stato emanato nell’esercizio del potere di delegazione, ricevuto
dal Governo attraverso l’art. 1, lett. m), l. 28 aprile 2014, n. 67 1. In quella sede, il Parlamento aveva
espresso un’indicazione piuttosto ampia, che puntava all’esclusione della punibilità per fattispecie di
gravità edittale non particolarmente elevata, senza tuttavia vincolare il Governo a specifiche soluzioni
normative. Per destreggiarsi tra le futuribili opzioni, era stata costituita una Commissione di studio ministeriale, il cui lavoro – non sempre ascoltato – ha cercato di indirizzare le scelte governative nella stesura dello schema dal quale il procedimento di trasposizione ha preso inizio.
Senza indugiare sul testo della delega ormai esercitata, si possono preliminarmente segnalare i principali nodi che si sono presentati al Governo nell’esercizio del potere stabilito dall’art. 76 Cost. Successivamente saranno analizzate le soluzioni pratiche considerate nell’iter di approvazione e poi definitivamente adottate nel decreto delegato. Non pare necessario, invece, soffermarsi sul catologo delle iniziative normative, de iure condito e, soprattutto, de iure condendo, che negli ultimi decenni hanno progressivamente reso familiare agli operatori della giustizia il concetto di tenuità del fatto. L’istituto “è noto” 2
e non richiede presentazioni: «la linea ispiratrice è quella del diritto penale come extrema ratio [...] e il
1
«Escludere la punibilità di condotte sanzionate con la sola pena pecuniaria o con pene detentive non superiori nel massimo
a cinque anni, quando risulti la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento, senza pregiudizio per
l’esercizio dell’azione civile per il risarcimento del danno e adeguando la relativa normativa processuale penale».
2
F. Palazzo, Il dedalo delle riforme recenti e prossime venture, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, p. 1706
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filo conduttore è naturalmente quello del principio di offensività» 3.
All’interno di questa cornice, i punti fissi stabiliti dal legislatore delegante con maggior fermezza
erano principalmente tre. Dato il generale obiettivo di mandare esenti da sanzione i comportamenti individuabili attraverso il test di tenuità, i capisaldi dell’azione normativa erano fissati: a) nei parametri di
particolare tenuità dell’offesa e di non abitualità del comportamento; b) nell’individuazione di un ambito di fatti puniti con pena pecuniaria o con pena detentiva non superiore a cinque anni; c) nella salvaguardia degli interessi risarcitori.
Quanto alla cornice stessa, essa risponde pienamente all’idea – inesorabilmente fattasi strada in un
contesto di tendenziale ineffettività di qualsiasi riforma volta al significativo alleggerimento del carico penale – di “impedire che l’energia del diritto e del processo penale si sprigioni laddove non ce ne sia bisogno” 4: l’obiettivo principale dell’intervento normativo si sostanzia, quindi, nell’ambizioso ma imprescindibile intento di consegnare all’interprete uno strumento di misurazione della meritevolezza della pena 5...
Uno strumento in grado di superare – radicando nel caso concreto l’alternativa tra punibilità e non punibilità – il limite intrinseco della generalizzazione che sottende la tipizzazione di ogni fattispecie 6: la formale sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’incriminazione dovrà rapportarsi con una valutazione, caso per caso, di necessità della sanzione. Il riferimento alla non punibilità, contenuto nell’art. 1, lett.
m, l. n. 67 del 2014, sembrava invitare il legislatore delegato a tradurre la clausola di tenuità in uno strumento sostanziale, lasciandolo del tutto libero di prevederne, poi, una specifica collocazione processuale 7,
senza indugiare nei meandri della mai sopita discussione in merito alla natura “giuridica” dell’istituto 8.
I PARAMETRI DI TENUITÀ INDIVIDUATI DAL PARLAMENTO
Quali gli indici che, secondo il Parlamento, escludono la necessità di pena? La formula della legge di
delegazione era fortemente orientata all’oggettivizzazione 9: tenuità dell’offesa – e non più del “fatto”,
cui si riferiscono, invece, sia l’art. 27 d.p.p.m, sia l’art. 34, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 – e non abitualità
del comportamento. A discapito dell’eleganza delle forme 10, l’obiettivo di comprimere quanto più possibile lo spazio riservato ai profili soggettivi dell’autore è evidente 11. Sostituendo l’offesa al fatto, il legislatore delegante imponeva un insuperabile vincolo sui margini di manovra del Governo: il primo
elemento di valutazione di meritevolezza di pena devono essere le conseguenze del fatto, non il fatto in
sè. Lo schema tracciato dal Parlamento era orientato ad alleggerire quanto più possibile il giudice da
valutazioni di tipo soggettivo – rivolte sia all’agente, sia alla vittima 12 – che giocano, invece, un ruolo
decisamente rilevante davanti al giudice di pace e al tribunale per i minorenni. Si vedrà poco oltre come
il legislatore delegato abbia poi innestato in questo contesto elementi valutativi di carattere certamente
3
D. Brunelli, Diritto penale domiciliare e tenuità dell’offesa nella delega 2014, in Leg. pen., 2014, p. 449.
4
D. Brunelli, Diritto penale domiciliare, cit., p. 450.
5
Pur in riferimento a diversa disposizione, G. De Francesco, sub art. 34 d.lgs. 274/2000, in Legislazione pen., 2001, p. 201 s.
6
Osserva F. Palazzo, Il dedalo delle riforme, cit., p. 1706 s., in qualità di Presidente della Commissione ministeriale incaricata
di elaborare proposte in tema di revisione del sistema sanzionatorio e per dare attuazione alla legge delega contenuta nella l.
28.4.2014 n. 67, che «è risaputo che neppure la più sofisticata tecnica di tipizzazione dei reati (che, comunque, non è dei tempi
nostri) riuscirà ad escludere dalla fattispecie “formale” fatti del tutto bagatellari».
7
Sulle possibili opzioni che si presentavano al legislatore delegato sul piano processuale v. C. Scaccianoce, La legge-delega
sulla tenuità del fatto nel procedimento ordinario, in N. Triggiani (a cura di), La deflazione giudiziaria. Messa alla prova degli adulti e proscioglimento per tenuità del fatto, Torino, 2014, p. 253 ss.
8
Cfr., in generale, C. Cesari, Le clausole di irrilevanza del fatto nel sistema processuale penale, Torino, 2005, p. 149 ss.; F. Caprioli,
Due iniziative di riforma nel segno della deflazione: la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato maggiorenne e
l’archiviazione per particolare tenuità del fatto, in Cass. pen., 2012, p. 14; con riguardo alla delega della l. n. 67 del 2014, D. Brunelli,
Diritto penale domiciliare, cit., p. 452.
9
In questo senso si veda il riferimento, incidenter tantum, effettuato dalla Corte costituzionale nella recente sentenza n.
25/2015, con la quale ha dichiarato inammissibile un questione di legittimità costituzionale dell’art. 529 c.p.p., nella parte in cui
non prevedeva un’ipotesi proscioglitiva analoga a quella dell’art. 34, d.lgs. n. 274/2000.
10
D. Brunelli, Diritto penale domiciliare, cit., p. 452.
11
V. F. Palazzo, Il dedalo delle riforme, cit., 1709; D. Brunelli, Diritto penale domiciliare, cit., p. 452.
12
D. Brunelli, Diritto penale domiciliare, cit., p. 452.
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | DEFLAZIONE E RAZIONALIZZAZIONE DEL SISTEMA
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161
soggettivo. Il termine “offesa” si adegua tanto alle fattispecie di danno quanto a quelle di pericolo, inteso come nocumento potenziale del bene giuridico protetto 13, traslando l’attenzione del giudice dai soggetti – autore e vittima – verso ciò che rappresenta “la concretizzazione, l’essenza, del principio di offensività” 14. La locuzione, così come intesa nella delega, non va, pertanto, letta in una prospettiva strettamente processuale, nella quale, la contrapposizione tra il concetto di danno e quello di offesa rende
più complesso scindere quest’ultima, appunto, dalla considerazione soggettiva per il titolare del bene
giuridico leso dal reato, soprattutto se persona fisica 15. Del resto, il riferimento al danno – che pur implica, anche in relazione alla componente morale, collegata con l’art. 185 c.p. 16, l’applicazione di criteri
meramente economici, non soggettivizzati – avrebbe rischiato di estromettere dal margine applicativo
dell’istituto tutti i reati di pericolo.
Il successivo criterio di giudizio indicato dal Parlamento è la non abitualità del comportamento. La
locuzione esprime, innanzitutto, un superamento e un allargamento rispetto all’indice di occasionalità
impiegato sia in ambito minorile sia nel procedimento “di pace” 17. È ben noto quanto il ricorso a tale
locuzione avesse messo alla prova gli interpreti, all’indomani del varo della nuova disciplina del
procedimento a carico di imputati minorenni… 18. Se, certamente, “non abituale” non significa né
“unico” né “occasionale” 19, la delega era scarna di ulteriori riferimenti, soprattutto in relazione al rapporto con il concetto di abitualita’ stabilito – ma in forma soggettiva e non oggettiva – dagli artt. 102 e
103 c.p. 20. Invero, un aggancio alla sola declaratoria di abitualita’ nel reato sembrava decisamente poco
funzionale alle ambizioni dell’introducenda norma, mentre forse un utile parametro avrebbe potuto
essere individuato nella recidiva specifica, magari infraquinquennale. Tuttavia, la ratio sottesa alla
formula della legge delega sembrava voler evitare di imbrigliare la valutazione di necessità di pena entro riferimenti di natura formale, come sono appunto, la dichiarazione di abitualità e quella di recidiva
specifica. In questo senso, il legislatore delegato si è certamente sforzato di rielaborare l’input dell’art. 1,
lett. m), l. n. 67 del 2014, attraverso un’articolata serie di puntualizzazioni.
Il secondo segmento del confine tracciato dal legislatore delegante è rappresentato dall’individuazione del limite di gravità edittale entro il quale circoscrivere l’operatività del nuovo istituto. I riferimenti erano chiaramente rivolti ai reati puniti con la pena pecuniaria, senza limiti, o con la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni. Invero, la delega non prevedeva l’ipotesi congiunta,
lasciando apparentemente fuori dall’ambito operativo del nuovo istituto le fattispecie sanzionate in
astratto con pena pecuniaria e con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni. La formula
non sembrava esprimere vincoli troppo stringenti per il Governo che, intervenendo su questo punto, si
è effettivamente sentito libero di introdurre precisazioni che incindono in maniera sensibile sull’ampliamento della sfera applicativa della particolare tenuità.
Terzo ed ultimo caposaldo della delega era rappresentato dalla clausola di salvaguardia per l’esercizio dell’azione risarcitoria, previo eventuale necessario adeguamento della normativa processuale penale inerente. Su tale aspetto, affrontato dal legislatore delegante con laconicità estrema, il Governo ha
avuto modo di esercitarsi in una gradazione di forme non sempre condivisibili: la generica locuzione
impiegata dal Parlamento sembrava esprimere, semplicemente, la preoccupazione che l’introduzione
del meccanismo di particolare tenuità incidesse negativamente sugli esiti del procedimento civile per le
restituzioni e il risarcimento del danno derivante da reato. Come si vedrà meglio in seguito, il Governo
ha certamente intercettato le aspettative del Parlamento, con un’ambizioso intervento che, tuttavia, non
risulta di facile integrazione nel quadro complessivo del processo penale.
13
F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, VIII ed., Padova, 2013, pp. 208 ss.
14
F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 208.
15
Cfr. G. Pisapia, Relazione introduttiva, in AA.VV., Azione civile e processo penale. Atti del VI Convegno di studi E. De Nicola, Milano, 1971, p. 14 s.; v. ampiamente B. Lavarini, Azione civile nel processo penale e principi costituzionali, Torino, 2009, p. 19 ss.
16
Cfr. M.A. Zumpano, Rapporti tra processo civile e processo penale, Torino, 2000, p. 200 ss.
17
D. Brunelli, Diritto penale domiciliare, cit., p. 452 s.
18
Volendo, S. Quattrocolo, Esiguita’ del fatto e regole di esercizio dell’azione penale, Napoli, 2004, p. 269 ss.
19
D. Brunelli, Diritto penale domiciliare, cit., p. 452 s.
20
Cfr. C. Scaccianoce, La legge-delega sulla tenuita’, cit., p. 249.
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | DEFLAZIONE E RAZIONALIZZAZIONE DEL SISTEMA
Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
162
AMBITO APPLICATIVO DEL NUOVO ISTITUTO
Nell’esercizio della delega, il Governo ha in primo luogo introdotto, con l’art. 131-bis c.p., una nuova
causa di non punibilità, con un’operazione che ha modificato intanto la denominazione del Titolo V del
codice – che adesso fa riferimento, oltre che alla modificazione, applicazione ed esecuzione della pena,
anche alla non punibilita’ per particolare tenuita’ del fatto – e del Capo I del Titolo stesso, dedicato,
appunto, alla novella. Seppur senza esplicita previsione, quello dedicato alla “Modificazione e applicazione della pena” è quindi diventato il Capo II e quello riferito all’“Esecuzione della pena”, il terzo.
Il nuovo art. 131-bis c.p. riprende, ampliandola, la formulazione dell’art. 1 lett. m, l. n. 67/2014. Ciò
vale con riguardo sia al punto a), sia al punto b) della delega, come individuati nel paragrafo precedente.
I LIMITI EDITTALI
Partendo dal profilo della individuazione delle fattispecie alle quali potrebbe essere applicata la nuova
causa di non punibilità, occorre sottolineare che il decreto legisltivo corregge la segnalata mancanza,
nella delega, della previsione delle ipotesi sanzionatorie congiunte. La norma è applicabile ai reati
puniti con la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, o con pena pecuniaria, sola o
congiunta a quella detentiva. Per stabilire l’effettiva ampiezza del bacino di reati potenzialmente interessati dalla nuova causa di non punibilità occorre leggere il comma 1 dell’art. 131-bis c.p. in relazione
con i successivi commi 4 e 5. Ivi si stabilisce, infatti, che ai fini del primo comma, non si tiene conto
delle circostanze, ad eccezione di quelle che determinano l’applicazione di una pena di specie diversa o
ad effetto speciale. È noto, infatti, che le circostanze autonome e ad affetto speciale rivestono una
rilevanza tale da essere spesso percepite, a livello legislativo, quasi come fattispecie autonome 21. Ove
queste ultime ricorrano 22, però, non si applica inspiegabilmente il meccanismo di bilanciamento di cui
all’art. 69 c.p. In forza dell’art. 131-bis, comma 5, c.p., poi, laddove i parametri di esiguità del danno o
del pericolo, indicati nel primo comma, vengano in rilievo – per previsione generale o speciale – sul
piano della mitigazione, prevarrà comprensibilmente la causa di non punibilità. L’insieme di queste
coordinate vale a tracciare un confine di operatività dell’istituto piuttosto ampio. In primis, la fissazione
del tetto edittale nella pena massima non superiore a cinque anni sottende un’opzione decisamente più
ambiziosa di quella che aveva contraddistinto numerose precedenti ipotesi normative de iure condendo,
oltrepassando anche la soglia generale delle attribuzioni dell’art. 550 c.p.p. Inoltre, l’inserimento delle
fattispecie a sanzione congiunta – pecuniaria e detentiva-, l’esclusione del rilievo di buona parte delle
circostanze e la prevalenza dell’esiguità dell’offesa sul piano della non punibilità, anziché su quello
della mitigazione, contribuiscono ad estendere maggiormente il raggio d’azione dell’art. 131-bis c.p.
Ovviamente si tratta di un perimetro mobile (aspetto talvolta sfuggito ai quotidiani di informazione 23,
all’interno del quale è la sussistenza dei parametri che contraddistinguono la particolare tenuità a
determinare o meno l’esito della non punibilità.
I CRITERI DI VALUTAZIONE
Ciò che, infatti, riempie il suddetto perimetro e, quindi, di significato la previsione normativa, sono i
21
F. Palazzo, Le riforme, cit., p. 1706.
22
Non senza il rischio che cio’ renda inapplicabile l’istituto a situazioni che sono, invece, comunemente additate proprio
come esempi di non meritevolezza di pena. Il riferimento è, in particolare, alle circostanze aggravanti dell’art. 625 c.p.: cfr. C.
Santoriello, Commento al d.lgs. 16 marzo 2015 n. 28, in www.archivio penale.it. In senso contrario, tuttavia, R. Bartoli, L’esclusione per
la particolare tenuità del fatto , in Dir. pen. proc., 2015, p. 665, il quale ascrive tale esempio al novero delle circostanze indipendenti,
di cui, per previsione normativa, non si deve tenere conto. Al di là di tale profilo, difficilmente comprensibile risulta la ratio di
escludere il bilanciamento laddove concorrano, effettivamente, più circostanze eterogenee ad effetto speciale o che determinano
l’applicazione di una pena di specie diversa: v. F. Caprioli, Prime considerazioni sul proscioglimento per particolare tenuità del fatto,
in corso di pubblicazione in wwww.penalecontemporaneo.it.
23
V. M. Menduni, Reati lievi, oggi parte l’archiviazione, in www.lastampa.it, ove si riporta un’apodittica quanto poco utile –ai fini
della comune comprensione del significato dell’istituto – lista di fattispecie astrattamente toccate dall’art. 131-bis c.p.
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criteri prescelti per il giudizio di particolare tenuità. Come già accennato, la delega aveva fissato due
punti di riferimento che il Governo ha cercato di arricchire di elementi valutativi. Particolare tenuità
dell’offesa e non abitualità della condotta rimangono il risultato dell’operazione aritmetica. Ciò che
precede il segno “uguale” è, invece, la somma di due fattori: le modalità della condotta e l’esiguità del
danno o del pericolo insorti. Quest’ultima è una formula derivata dall’art. 34, d.lgs. n. 274/2000, ove
non risulta, invece, un riferimento esplicito alle modalità della condotta. I due fattori debbono essere
apprezzati, afferma la disposizione, ai sensi dell’art. 133 comma 1, c.p. Il richiamo, tout court, agli indici
di gravità del reato non risulta molto chiaro. Formalmente, il primo esito dell’operazione è certamente
ridondante, perché l’art. 133 c.p., a sua volta, fa riferimento, nella lett. a), alle modalità dell’azione e,
nella lett. b), alla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa. Tra le due disposizioni
sembra stabilirsi, più che altro, una sovrapposizione, apparentemente di poco aiuto all’interprete, se
non sotto il profilo della ricca giurisprudenza che accompagna l’art. 133, comma 1, c.p. In tal senso, l’interprete potrà (e comunque avrebbe potuto, anche in assenza di specifica precisazione), far riferimento
al compendio giurisprudenziale disponibile. Rimane però il dubbio circa il peso che possa assumere in
tale rapporto la lett. c) dell’art. 133 c.p., ossia l’intesità del dolo o il grado della colpa. Bisogna riconoscere che la formulazione normativa obbliga l’interprete a un’operazione “circolare”, la quale pone in relazione le “modalita’ dell’azione” con l’elemento soggettivo. Queste ultime, infatti, esprimono il riflesso
dell’atteggiamento psicologico dell’agente, messo in luce e dal grado della colpa – una volta che si sia
accertata, sul piano della tipicita’, l’inosservanza di una norma – e dall’intensita’ del dolo, che si
proietta nella scelta da parte dell’autore di modalita’ attraverso le quali raggiungere l’oggetto della
volizione. Pur avendo rafforzato (con un formula certamente ridondante) l’opportuno recupero di uno
spazio di valutazione soggettiva 24, il richiamo indistinto alle componenti dell’art. 133, comma 1, c.p.
non sembra comunque sbilanciare l’istituto verso un’eccessiva soggettivizzazione.
LE RAGIONI DI ESPLICITA ESCLUSIONE DELLA PARTICOLARE TENUITÀ
L’equilibrio, pur non perfetto, costruito nel primo comma, lascia il posto, nel capoverso dell’art. 131-bis
c.p. a una certa ingiusitificata e parzialmente inutile confusione, in cui si leggono i segni di un
intervento più politico che tecnico. Il Governo ha infatti voluto elencare alcune ipotesi che non potranno mai essere qualificate come particolarmente tenui 25. Tale soluzione sembra per lo più superflua rispetto al riferimento alle modalità dell’azione già doppiamente chiamato in causa, nel primo comma
dell’art. 131-bis e attraverso l’aggancio all’art. 133 c.p. Infatti, le soglie di esclusione sono per lo più collegate a modalità di manifestazione della condotta e sono individuate nell’aver agito con crudeltà, anche verso gli animali, adoperando sevizie o approfittando della minorata difesa della vittima, anche in
ragione della sua età, oppure per essere l’autore stato mosso – e qui, certamente, l’attenzione per le modalità dell’agire lascia spazio, piuttosto, alle ragioni dell’agire, in un crescendo di considerazione per
quei profili soggettivi che la delega era sembrata voler pretermettere – per motivi futili o abietti. Non si
può negare che tali riferimenti, pur risultando per buona parte superflui, non possano tuttavia ritornare
utili per evidenziare offese apparentemente tenui che tuttavia nascondono un elevato livello di rimproverabilità 26: in alcuni particolari casi concreti, il comma secondo dell’art. 131-bis c.p. potrà rappresentare il discrimine tra l’applicabilità o meno della nuova causa di non punibilità.
Un crescente disagio si avverte, però, considerando la seconda parte del capoverso dell’art. 131-bis
c.p. 27, ove si esclude espressamente la particolare tenuità per i casi in cui la condotta abbia cagionato,
24
Così come del resto suggerito dalla Commissione ministeriale. V. il § 3 della Relazione di accompagnamento. Negli stessi
termini si esprimeva altresì la valutazione di impatto della regolamentazione, fornita dal Ministero e allegata allo schema di decreto legge, trasmesso dal Min. Boschi al Presidente del Senato in data 23 dicembre 2014, reperibile in www.senato.it.
25
La proposta in tal senso era emersa durante la discussione consultiva al Senato (v. intervento Sen. Lumia, PD, resconto n.
177 del 4.2.2015).
26
Con riferimento alla concenzione normativa della colpevolezza, in termini rimproverabilità per l’atteggiamento antidoveroso della volontà. V. per tutti F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 289 ss.
27
Il testo recita: «quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona». Sulla superfluità della previsione, cfr., tra gli altri, C.F. Grosso, La non punibilità per particolare tenuità del fatto, in Dir. pen. proc. 2015, 520.
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come conseguenza non voluta, la morte di una persona o le lesioni gravissime. Oltre ad essere poco apprezzabile sul piano linguistico 28, la formulazione sembra deliberatamente innescare un superfluo
equivoco, che, ancora una volta, toccherà all’interprete risolvere. Posto che non potrebbe ritenersi particolarmente tenue l’offesa (e qui, nuovamente, si apprezza il valore fondamentale dell’approccio oggettivo imposto dalla legge di delega), consistita nella morte di una persona o nelle lesioni personali gravissime, volontariamente cagionate, la scelta di fare riferimento a tali eventi “come conseguenze non volute”
della condotta secondo la formulazione testuale dell’art. 586 c.p. fa sorgere una serie di dubbi circa
l’indagine sull’elemento soggettivo. Se è chiara la volontà del Governo di includere nell’eccezione la preterintenzione e i delitti aggravati dall’evento, meno chiaro risulta l’atteggiamento rispetto alla colpa. Peraltro nessun riferimento si fa a eventi diversi dalla morte o dalle lesioni gravissime, in relazione ai quali
l’accertamento di tenuità sarà libero da “divieti tassativi”. Più che altro, il legislatore sembra essersi predisposto – forse con uno strumento non troppo preciso – ad affrontare situazioni simili a quella del pur isolato episodio verificatosi nel quadro del rito a carico di imputati minorenni, che aveva visto la corte
d’appello, sezione per i minorenni, di Perugia 29 emettere una sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto in un procedimento per omicidio colposo derivante da circolazione stradale dei veicoli.
LA NON ABITUALITÀ
Sul piano della non abitualità, la preclusione della pronuncia liberatoria deriva, intanto, dalla dichiarazione di cui agli artt. 102, 103 e 104 c.p. – ma anche da quella di professionalità nel reato o di tendenza a
delinquere – nonché dalla reiterazione di condotte della medesima indole, seppure ciascuna di per sé
particolarmente tenue, nonché dalla commissione di “reati che abbiano ad oggetto condotte plurime,
abituali e reiterate”. Ancora una volta, pur intuendosi l’obiettivo del legislatore delegato, l’interpretazione della disposizione non è semplice e l’individuazione di tali ipotesi non risulta agevole a prima lettura. Per salvaguardare il senso della previsione normativa e, al contempo, individuare una categoria
rilevante, si potrebbe forse fare riferimento ai c.d. “reati a struttura complessa”, la cui elaborazione è finalizzata al trattamento unificato di una fattispecie pur composta da più fatti, ciascun per sé costituente
reato. 30 In questo senso, la distinzione avrebbe una ratio ben specifica: l’“abitualità del comportamento”
che preclude l’applicazione della non punibilità per particolare tenuità deriverebbe, in primo luogo,
dalla formale dichiarazione di abitualità, professionalità nel reato o di tendenza a delinquere, ma anche
dalla reiterazione di condotte della stessa indole, nonché dall’aver posto in essere un reato dotato di
struttura complessa 31. Questo, infatti, esprime giuridicamente un’unicità normativa, ma è integrato da
fatti che, singolarmente, costituiscono dei reati e, quindi, si oppongono all’applicazione di un beneficio
incardinato, appunto, sulla non reiterazione nel tempo di un certo atteggiamento penalmente rilevante.
In tal modo si previene l’applicazione della non punibilità in un ampio raggio di situazioni che rivelano
la ripetitività di un comportamento – sia essa espressa da una pluralità di reati della medesima indole o
da una fattispecie, unica, ma a struttura complessa – la quale si contrappone logicamente al concetto di
non abitualità, lasciando invece aperta la porta alla declaratoria ex art. 131-bis c.p. in tutti i casi in cui il
soggetto possa nuovamente incorrere nella commissione di un reato che non ha, tuttavia, alcun rapporto con il precedente. L’impressione che emerge dall’assetto normativo è che, opportunamente, l’”abitualità ostativa” sia concentrata non sul “precedente”, ma sul reato oggetto del giudizio 32.
28
Suona ridondante anche la formulazione lessicale della norma, laddove recita: «quando la condotta ha cagionato o da essa
sono derivate», risultando piuttosto difficile distinguere, sul piano giuridico, le due alternative contemplate...
29
App. Perugia, sez. min., 15.12.1999, ined., su cui v. G. Giostra, Il processo penale minorile, Milano, 2009, p. 543. L’applicazione della sentenza di non luogo a procedere ex art. 27 d.p.p.m. in un procedimento a carico di imputata minorenne che aveva
colposamente cagionato la morte dell’amica trasportata sul motorino, aveva suscitato molte perplessità.
30
In questo senso, F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 489 ss., con particolare attenzione al concetto di “unità normativa”,
contrapposta, invece, alla pluralità di reati disciplinati dal concorso: se l’unità esiste, «essa produce le conseguenze che sono
proprie del reato unico».
31
Tale impressione pare confermata dalla lettura dell’Analisi di Impatto della Regolamentazione fornita dal Ministero della
Giustizia, ad accompagnamento dello schema di decreto delegato, nonché del parere consultivo, non ostativo ma condizionato,
poi reso dal Senato (v. allegato al resconto n. 177, cit.).
32
D. Brunelli, Diritto penale domiciliare, cit., p. 453.
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LE SOLUZIONI PROCESSUALI: IL NUOVO MOTIVO DI ARCHIVIAZIONE E LA RELATIVA PROCEDURA
Più complesso, anche perché meno guidato dalla delega, si presenta l’intervento processuale. Com’era
stato preventivato 33 rispetto al testo dell’art. 1, lett. m), l. n. 67/2014, l’impatto della novella si sarebbe
ampiamente giocato sul piano processuale. Qui, però, il Governo ha esercitato un parziale self restraint
dai risvolti non sempre lineari.
In primo luogo, la causa di non punibilità inserita nel codice sostanziale è stata tradotta in un
nuovo motivo di archiviazione 34, collocato nell’art. 411, comma 1, c.p.p. Contestualmente, il legislatore delegato ha voluto creare, con l’art. 411, comma 1-bis, c.p.p., anche una sorta di procedimento “parallelo”, incentrato sulla specialità della nuova ipotesi. In prima battuta, si prevede che la richiesta di
archiviazione per particolare tenuità sia comunicata dal pubblico ministero tanto alla persona offesa,
quanto all’indagato, i quali possono egualmente presentare opposizione entro l’abituale termine di
dieci giorni, indicando le ragioni del dissenso. Ad eccezione delle ipotesi di inammissibilità, il giudice fissa udienza in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 409, comma 2, c.p.p. La previsione dell’opposizione della persona sottoposta alle indagini certamente colpisce, a prima lettura. Una possibile ratio
si ricollega con quanto disposto dall’art. 4 d.lgs., n. 28/2015, ove si stabilisce, tra l’altro, l’interpolazione dell’art. 3 comma 1 lett. f), d.p.r. 14 novembre 2002 n. 313 in materia di iscrizioni nel casellario
giudiziale 35. Con una formula ancora una volta inutilmente ambigua, è stata integrata la previsione
di legge, che esordisce disponendo l’iscrizione dei provvedimenti definitivi che hanno prosciolto o dichiarato il non luogo a procedere per difetto di imputabilità o disposto una misura di sicurezza con l’aggiunta della locuzione «nonchè quelli che hanno dichiarato la non punibilità ai sensi dell’articolo 131-bis del codice penale». Da autorevoli spunti espressi con riferimento alla legge-delega 36 si potrebbe ipotizzare
che tra i provvedimenti che devono essere iscritti nel casellario siano inclusi i decreti di archiviazione
fondati sull’art. 131-bis c.p. Tuttavia, la lettura più restrittiva sembra maggiormente rispettosa del
senso delle parole impiegate dal legislatore e, anzi, sembrerebbe garantire una maggior omogeneità
alla novellata disposizione. Del resto, anche in assenza di iscrizione nel casellario, il magistrato è
sempre in grado di verificare tramite il RE.GE. la previa sussistenza di archiviazioni ex art. 131-bis
c.p., presso la propria o altra sede giudiziaria. Se l’intento era quello di disporre l’inedita iscrizione
nel casellario anche dei decreti archiviatori, il legislatore delegato avrebbe dovuto essere più chiaro.
A prescindere da come la clausola del nuovo art. 3 lett. f), d.p.r. n. 313/2002 verrà interpretata – e la
questione non è certo di poco conto – l’eccezionalità dell’opposizione della persona sottoposta alle indagini si può giustificare con l’effetto lato sensu pregiudizievole che il decreto di archiviazione per
particolare tenuità dell’offesa può comunque arrecare, stante quantomeno, la possibile ostatività a
successive applicazioni dell’istituto.
Sempre nell’ottica della specialità del procedimento di archiviazione per particolare tenuità, il
nuovo art. 411, comma 1-bis, c.p.p. stabilisce che se il g.i.p. non accoglie la richiesta in tal senso del
p.m. può restituire gli atti, eventualmente provvedendo ai sensi dell’art. 409, commi 4 e 5, c.p.p. A
prima lettura sembrerebbe essere stata ritenuta superflua la fissazione dell’udienza in camera di consiglio, per i casi in cui il dissenso del g.i.p. sia basato sul giudizio di particolare tenuità. Se l’iniziativa
archiviatoria non supera il test da parte del g.i.p., la strada pare necessariamente quella del supplemento di indagine o, più verosimilmente quella della formulazione dell’imputazione. La soluzione a
prima lettura, non senza un certo pregio pratico, tenderebbe a comprimere i tempi del procedimento,
evitando la fissazione e la celebrazione di un’udienza in camera di consiglio 37. Tuttavia, ad una riflessione più sistematica, può apparire imprescindibile, per l’adozione di un’ordinanza recante tale
33
D. Brunelli, Diritto penale domiciliare, cit., p. 456.
34
Nel senso auspicato, a commento della delega, da C. Scaccianoce, La legge-delega sulla tenutià, cit., p. 240.
35
L’art. 4 prevede poi l’interpolazione anche degli artt. 5, comma 2 (con l’inserimento di una lettera d bis), 24, comma 1, e
dell’art. 25, comma 1 (con l’inserimento, in entrambi, di una lettera f bis) del d.p.r. 14.11.2002 n. 313, provvedendo così
all’eliminazione delle iscrizioni relative alla particolare tenuità, nonché alla loro riportabilità nei certificati del casellario.
36
F. Palazzo, Il dedalo delle riforme, cit., p. 1708
37
Cfr. E. Marzaduri, L’ennesimo compito arduo (...ma non impossibile) per l’interpete delle norme processualpenalistiche: alla ricerca
di una soluzione ragionevole del rapporto tra accertamenti giudiziali e declaratoria di non punibilità ai sensi dell’art. 131-bis c.p., in Arch.
pen., 2015, p. 11
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | DEFLAZIONE E RAZIONALIZZAZIONE DEL SISTEMA
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contenuto, la celebrazione dell’udienza in camera di consiglio38.
Rimane, però un dubbio di fondo circa l’effettiva opportunità di creare un procedimento archiviatorio ad hoc, più garantito sotto un certo aspetto, meno garantito sotto altro. Indubbiamente, se si ritiene
che il decreto di archiviazione debba essere iscritto, pare inevitabile garantire all’indagato la possibilità
di opporsi quantomeno all’applicazione dell’art. 131-bis c.p. in sede di indagine, consentendogli di aspirare ad un provvedimento liberatorio più “pieno”. Ciò, peraltro, non esclude che l’opposizione sia, invece, finalizzata a “non consumare” la chance della particolare tenuità del fatto, facendo affidamento,
però, non già su un’assoluzione, bensì su una facile prescrizione. Peraltro, la previsione del potere di
opposizione alla richiesta di archivazione per particolare tenuità non è accompagnata, come già accennato, da una generale clausola di rinunciabilità della causa di non punibilità: se la ratio è quella di consentire all’interessato di valutare se accedere al “beneficio”, analoga soluzione dovrebbe essere prevista
anche successivamente. Peraltro, nulla impedisce che nel processo instaurato dopo l’opposizione dell’indagato alla richiesta archiviatoria del p.m., sia poi il giudice di una fase successiva ad applicare l’art.
131-bis c.p. Lo speciale procedimento archiviatorio rischia, poi, di essere meno garantito laddove si ritenga che, in caso di dissenso del g.i.p. sulla richiesta di archiviazione per particolare tenuità del fatto,
manchi l’occasione dell’udienza in camera di consiglio: proprio nell’ottica della massima efficacia del
nuovo motivo di archiviazione e a sostegno della seconda lettura proposta non si può negare che proprio nell’udienza ad hoc la difesa debba poter tentare di offrire utili elementi per avvalorare la sussistenza degli indici dell’art. 131-bis c.p.
LE FORME DI DECLARATORIA PROCESSUALE DI NON PUNIBILITÀ PER PARTICOLARE TENUITA’
Contrariamente a quanto era stato ipotizzato nello schema di decreto delegato sottoposto dal Governo
alle Camere per parere consultivo, in data 23 dicembre 2014, il testo entrato in vigore non ha emendato
l’art. 129 c.p.p., ma ha semplicemente integrato l’art. 469 c.p.p. Varcata la soglia del processo, il canone
di esiguità non opera nelle forme della declaratoria immediata di non punibilità, paralizzando lo svolgimento del processo. Il revirement “in corsa” sembra costituire l’esito di un’opportuna ponderazione
della compatibilità dell’accertamento di tenuità con le forme dell’art. 129 c.p.p. Il profilo dell’immediata
– seppur non fulminea – declaratoria ex art. 129 c.p.p. mal si concilia con la natura del provvedimento
di cui all’art. 131-bis c.p. Infatti, come anticipato e come implicitamente emerge dalla struttura della
norma, il concetto di tenuità si innesta su un quadro in cui, compatibilmente con lo sviluppo del procedimento, il fatto risulta sussistente, illecito, non estinto, altrimenti punibile e non scriminato. Ne consegue che l’emergere degli indici richiamati dall’art. 131-bis c.p. non può avere l’effetto di bloccare lo sviluppo del procedimento 39, la cui prosecuzione, invece, potrebbe portare all’accertamento di una delle
altre cause di proscioglimento immediato, soprattutto l’insussistenza del fatto, la non commissione da
parte dell’imputato, la sussistenza di una causa di giustificazione o l’assenza dell’elemento soggettivo,
la “depenalizzazione” del fatto. Anche sul piano più formale, la mancanza o il venir meno di una condizione di procedibilità, così come l’estinzione del reato, dovrebbero necessariamente precedere la declaratoria di particolare tenuità 40. Nel complesso, quindi, l’operazione di interpolazione dell’art. 129
c.p.p. deve essere parsa inadeguata, quanto meno nella formulazione assunta nel predetto schema. Del
resto, il codice di procedura già prevede forme diversificate, in base alla fase del procedimento, per dichiarare la non punibilità, sia essa fondata su una causa tradizionale o di nuova introduzione. L’art. 425
c.p.p., in udienza preliminare, e l’art. 530, comma 1, c.p.p. in dibattimento sono gli strumenti attraverso
i quali il giudice dà atto della sussistenza di una causa di non punibilità. Il non luogo a procedere e
l’assoluzione dibattimentale sono, allora, le due pronunce attraverso le quali l’art. 131-bis c.p. troverà il
suo sbocco processuale. In questo quadro, suona piuttosto stonata l’interpolazione dell’art. 469 c.p.p. È
ben noto come lo schema, che porta alla pronuncia della sentenza inoppugnabile ex 469 c.p.p., poggi
38
In questo senso F. Caprioli, Prime considerazioni, cit.
39
Sul punto, cfr. L. Scomparin, Il proscioglimento immediato nel sistema processuale penale, Torino, 2008, spec. pp. 85 s.
40
E. Marzaduri, L’ennesimo compito arduo, cit., p. 8. Non manca chi, nel riferimento ai commi 4 e 5 dell’art. 409 c.p.p. abbia letto la necessità di fissare comunque l’udienza in camera di consiglio (v. Linee guida della procura della Repubblica presso il Tribunale
di Trento, in www.camerapenaletrento.it).
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proprio sulla natura “tecnica” del proscioglimento, senza necessità di ulteriori accertamenti probatori
sui presupposti. Pare invero ben dubbio che tale schema possa agevolmente estendersi anche alle ipotesi di particolare tenuità dell’offesa, le quali sottendono, come visto poco sopra, un’articolata serie di verifiche. Se è vero che il proscioglimento predibattimentale testo in ipotesi di superfluità di ogni attività
probatoria volta a dimostrare la sussistenza dei fattori “impeditivi” 41, pare inverosimile che immediatamente dopo l’udienza preliminare, evidentemente conclusasi con il decreto di rinvio a giudizio, o dopo la citazione diretta, possano essere reperiti elementi che dimostrino pacificamente la particolare tenuità dell’offesa. Sul piano pratico, la norma può puntare a intercettare i casi in cui il giudice del dibattimento abbia un’opinione diametralmente opposta a quella del g.u.p., oppure le ipotesi in cui le indagini integrative mettano in luce la tenuità dell’offesa, precedentemente sfuggita, offrendo comunque un
certo contributo deflativo 42.
In secondo luogo, come appena osservato e come già sopra sottolineato, l’emergere di una causa di
non punibilità dopo l’udienza preliminare confluisce, di regola, in una sentenza di assoluzione, mentre
lo specifico caso della particolare tenuità – pur con tutte le ricordate implicazioni, anche di carattere
soggettivo – finirà per essere pronunciata, ma solo nello spazio predibattimentale, con un non doversi
procedere: a dibattimento, non essendo intervenuta alcuna specifica interpolazione (pur ipotizzata in
una precedente proposta di legge 43, dovrà comunque pronunciarsi assoluzione ex art. 530, comma 1,
c.p.p. 44. La questione sembra non esaurire la sua portata sul piano meramente definitorio, stante il massiccio intervento operato dal Governo sotto il profilo dell’efficacia extrapenale del giudicato di particolare tenuità, senza peraltro prevedere una esplicita possibilità di rinuncia alla declaratoria di non punibilità, in ragione delle gravi conseguenze risarcitorie, cui è dedicato il paragrafo successivo.
Come già in precedenza emerso, il profilo della rinunciabilità della pronuncia liberatoria per particolare tenuità dell’offesa è ricco di profili problematici, legati, soprattutto, all’ondivago atteggiamento del
legislatore. Si è visto, infatti, che solo in relazione al proscioglimento pre-dibattimentale è stata prevista
un’ipotesi di rinuncia vera e propria: nella fase delle indagini preliminari è stata contemplata una facoltà di opposizione alla richiesta di archiviazione, che sembra più che altro orientata a garantire, correttamente, l’interesse dell’indagato a un motivo di archiviazione più favorevole 45, mentre nessuno spazio,
nemmeno di interlocuzione, è stato previsto in udienza preliminare e in dibattimento. A fronte di tale
disparità di trattamento, si può essere spinti a pensare che una generale clausola di rinunciabilità alla
causa di non punibilità avrebbe potuto essere la soluzione più adeguata, anche in ragione dell’indicazione offerta dalla Corte costituzionale nelle storiche pronunce 175/1971 e 275/1990 – quest’ultima poi
ripresa dal legislatore in sede di modifica dell’art. 157 c.p. – in tema di applicazione ex officio di alcune
cause estintive del reato. Tuttavia, com’è stato correttamente segnalato, l’interesse dell’imputato sotteso
alla possibilità di rinunciare alla declaratoria di amnistia e prescrizione è quello di ottenere una valutazione nel merito, che è invece intrinsecamente presente nella declaratoria di non punibilità ex art. 131bis c.p. È certamente vero che quest’ultima implica delle conseguenze afflittive per l’imputato, soprattutto quando pronunciata a dibattimento, ove assume il crisma dell’efficacia extrapenale (le cui significative implicazioni sono qui di seguito illustrate), ma la mancata previsione di una clausola di rinunciabilità non sembra comunque incidere sui medesimi interessi presi in considerazione dalla Corte costituzionale nelle due pronunce aventi ad oggetto le cause estintive del reato 46. Appare quindi dubbia
l’utilità di stimolare un intervento in tal senso del giudice delle leggi … Ciò che è invece indubbio è
l’incoerente assetto derivante dall’attuale disciplina, che in dibattimento e in udienza preliminare non
41
Cfr. P. Tonini, Manuale di procedura penale, Milano, 2015, p. 672.
42
E. Marzaduri, L’ennesimo compito arduo, cit., p. 9.
43
Il riferimento è alla p.d.l. presentata nella XVI legislatura, C. 2094, avente come primo firmatario l’on. Tenaglia.
44
Si veda, tuttavia, la diversa soluzione additata nelle linee guida emanate da due diversi uffici del pubblico ministero,
presso il Tribunale di Trento (che indica la pronuncia ex art. 530 c.p.p. come natuale esito dibattimantale) e presso il Tribunale di
Lanciano (che indica, invece, il non doversi procedere dell’art. 529 c.p.p., in www.penalecontemporaneo.it).
45
Del resto, la valenza accertativa del provvedimento archiviatorio per particolare tenuità deve ritenersi meramente
prognostica: cfr. F. Caprioli, Prime considerazioni, cit.; R. Aprati, Le regole processuali per la dichiarazione di “particolare tenuità del
fatto”, in Cass. pen., 2015, p. 1323.
46
Cfr. P. Spagnolo, La tenuità del fatto tra diritto e processo, in S. Quattrocolo (a cura di), I nuovi epiloghi del procedimento penale
per particolare tenuità del fatto, in corso di pubblicazione presso Giappichelli.
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | DEFLAZIONE E RAZIONALIZZAZIONE DEL SISTEMA
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prevede espressamente nessuno spazio per l’interlocuzione di imputato e persona offesa, tanto da far
dubitare taluno che la non punibilità per particolare tenuità possa pronunciarsi in udienza preliminare 47.
LA TRAVOLGENTE EFFICACIA EXTRAPENALE DEL GIUDICATO DI PARTICOLARE TENUITÀ
Il decreto legislativo in esame ha introdotto nel codice di procedura penale un articolo 651-bis, recante
la disciplina dell’efficacia della sentenza di proscioglimento ex art. 131-bis c.p. nel giudizio civile o amministrativo di danno. Come ricordato, la delega esprimeva laconicamente la preoccupazione per gli
esiti dell’azione risarcitoria a seguito del proscioglimento per tenuità. Nessuna ulteriore indicazione
specifica poteva derivarsi dalla legge n. 67/2014 e, quindi, una prima plausibile opzione avrebbe potuto
portare alla modificazione dell’art. 538 c.p.p. nel senso già caldeggiato dall’art. 510 del progetto preliminare del 1978, ove si contemplava l’obbligo del giudice di pronunciarsi sulla richiesta di risarcimento
anche in ipotesi di proscioglimento (per estinzione del reato), quando il fatto e la sua commissione da
parte dell’imputato risultassero provati. Com’è noto, il codice di procedura penale aveva effettuato una
scelta in aperta controtendenza con tale ipotesi 48 – accettando soltanto il compromesso espresso dall’art. 578 c.p.p., in ragione del prevalere di esigenze di deflazione 49 – e forse proprio per questo il Governo sembra non aver mai preso in considerazione tale strada 50. L’attenzione del legislatore delegato
si era invece originariamente concentrata sulla possibile interpolazione dell’art. 652 c.p.p., come effettivamente previsto nello schema di decreto delegato sottoposto per il parere consultivo alle Camere nel
dicembre dello scorso anno.
La previsione avrebbe esteso l’ambito di efficacia extrapenale del giudicato assolutorio, cristallizzando nel giudizio civile e amministrativo per il danno derivante da reato l’accertamento «che il fatto
commesso dall’imputato è di particolare tenuità ai sensi dell’articolo 131-bis del codice penale». Risultava evidente la difficoltà di garantire alla disposizione sia una propria coerenza interna, sia un sufficiente grado di chiarezza, assolutamente necessario in ragione della severità degli effetti che ne sarebbero derivati.
Si è pertanto giunti alla soluzione sopra ricordata, ossia all’introduzione dell’art. 651-bis c.p.p., il
quale prevede che la sentenza irrevocabile di proscioglimento dibattimentale, o a seguito di giudizio
abbreviato, per particolare tenuità del fatto abbia efficacia quanto alla sussistenza del fatto, della sua illiceità e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso nel giudizio civile o amministrativo di danno,
instaurato nei confronti del prosciolto o del responsabile civile. A conferma della grande confusione che
ha accompagnato la genesi della norma in esame, si ricorda che il testo pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 18 marzo 2015 recava, nel nuovo art. 651-bis c.p.p., un riferimento al «condannato» per particolare tenuità del fatto, imponendo una tempestiva rettifica, operata nella Gazzetta ufficiale del 23 marzo
2015, per sostituire il termine con «prosciolto» 51.
Quanto ai contenuti, un primo profilo dubbio riguarda il richiamo alle sole sentenze definitive pronunciate a seguito di dibattimento o di giudizio abbreviato. Pare lecito domandarsi se la particolare tenuità, pronunciata ex art. 469, comma 1-bis, c.p.p. possa produrre lo stesso vincolo, posto peraltro che,
47
V. ancora, P. Spagnolo, op. cit. In senso opposto, cfr. R. Aprati, Le regole processuali, cit., 1326.
48
Per una critica al legislatore del 1987, E. Fassone, Giudizio, in E. Fortuna-S. Dragone-E. Fassone-R. Giustozzi-A. Pignatelli,
Manuale pratico del nuovo processo penale, Padova, 1993, p. 863.
49
In questo senso, cfr. D. Manzione, sub art. 538, in M. Chiavario (a cura di), Commentario al nuovo codice di procedura penale,
vol. V, Torino, 1991, p. 560; A. Diddi, sub art. 538, in A. Giarda-G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, Milano, 2010, p. 6747
50
Pur prospettata dalla p.d.l. 2094/AC, presentata alla Camera dei deputati nel 2009, primo firmatario on. Tenaglia.
51
Deve pertanto intendersi che, dopo la rettifica, l’art. 651-bis c.p.p. così reciti: «651-bis. Efficacia della sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto nel giudizio civile o amministrativo di danno. – 1. La sentenza penale irrevocabile di
proscioglimento pronunciata per particolare tenuità del fatto in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del prosciolto e del responsabile
civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale. 2. La stessa efficacia ha la sentenza irrevocabile di proscioglimento pronunciata per particolare tenuità del fatto a norma dell’articolo 442, salvo che vi si opponga la parte civile che non
abbia accettato il rito abbreviato.».
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“tradizionalmente”, le sentenze di proscioglimento predibattimentale non sono accertative del fatto.
Un secondo aspetto discutibile riguarda, nel merito, la scelta normativa. Senza pensare a un intervento complessivo, che avrebbe potuto (e dovuto), toccare per un verso – come accennato – l’art. 538
c.p.p., consentendo al giudice del dibattimento di prosciogliere per particolare tenuità ma di pronunciarsi anche sull’azione civile, stante il pieno accertamento del fatto, e, per altro verso, l’art. 578 c.p.p.,
inserendo il riferimento, oltre che alla condanna, anche al proscioglimento per particolare tenuità, il legislatore delegato è “saltato direttamente alle conclusioni”, prevedendo una cristallizzazione dell’accertamento di responsabilità che pare decisamente apodittica, soprattutto per le situazioni che in concreto
verranno a crearsi 52. Infatti, da un lato, il “proscioglimento” ai sensi dell’art. 131-bis c.p. rivestirà l’efficacia accertativa cui consegue l’effetto extrapenale nel giudizio civile e amministrativo per il danno derivante da reato; dall’altro lato, alla luce della limpida giurisprudenza della Suprema Corte 53 rimarrà
invariata (e, si ritiene, ingiustificatamente differenziata), la situazione in cui il giudice dovrà pronunciare l’estinzione per prescrizione del reato al termine di fasi processuali in cui si sia svolta una piena attività istruttoria comprovante la responsabilità dell’imputato. Due almeno le ricadute di sistema negative
derivanti dall’insorta sperequazione: nell’ipotesi di proscioglimento per prescrizione “in fase avanzata”, il danneggiato risulterà sprovvisto della copertura garantita, invece, nei casi di assoluzione per particolare tenuità dell’offesa; l’imputato, come segnalato, sarà invogliato a rinunciare alla nuova causa di
non punibilità per “puntare” alla più conveniente prescrizione.
Tornando alla preoccupazione espressa dal Parlamento nella legge di delegazione, deve osservarsi
che, sul piano pratico, il danneggiato costituitosi parte civile nel giudizio concluso ex art. 131-bis c.p. potrà certamente valersi dell’efficacia accertativa della pronuncia dibattimentale innanzi al giudice civile.
Peraltro, sotto questo profilo è purtroppo mancato un intervento sull’art. 75, comma 3, c.p.p., per consentire al danneggiato di non dover attendere l’irrevocabilità della decisione penale di particolare tenuità, legittimandolo ad “anticipare” l’azione davanti al giudice civile. Tuttavia, dal medesimo accertamento che impedirà al giudice civile di revocare in dubbio la responsabilità del convenuto per i fatti
oggetto di causa, scaturirà comunque un riflesso, seppur non formale, sulla quantificazione risarcitoria:
in ragione dell’accertamento di particolare tenuità che, come visto, addirittura “duplica” i richiami al
danno, difficilmente il giudice civile – pur senza vincoli, questo è certo – potrà offrire grande soddisfazione alle pretese risarcitorie del danneggiato. Quest’ultimo invero, pur godendo del favore dell’art.
651-bis c.p.p., a fronte di un’assoluzione dell’imputato per particolare tenuità dell’offesa – e non del fatto ... – potrebbe rinunciare a sobbarcarsi l’anticipazione di spese e il rischio di agire in giudizio per ottenere un risarcimento certo, ma prevedibilmente assai contenuto.
I PROFILI TRANSITORI E DI COORDINAMENTO CON ALTRE DISPOSIZIONI VIGENTI
Ancora una volta il legislatore si è dimenticato di pensare al profilo intertemporale, lasciando all’interprete la soluzione della questione. La veste imposta all’istituto ha alleviato il compito, peraltro prontamente assolto dalla Corte di cassazione. Infatti, con sentenza depositata in cancelleria il giorno 15
aprile 2015 54, il Supremo Collegio ha avuto modo di sottolineare che proprio la natura eminentemente
sostanziale della clausola dell’art. 131-bis c.p. spinge a ritenerla applicabile anche a fatti commessi prima della sua entrata vigore, come espressione dell’ormai consolidato principio della lex mitior. La Corte
In questo senso, cfr. B. Lavarini, Gli effetti extra-penali del giudicato di particolare tenuità, in S. Quattrocolo (a cura di), I nuovi
epiloghi del procedimento penale per particolare tenuità del fatto, in corso di pubblicazione presso Giappichelli.
52
53
Cass., sez. un., 29 maggio 2008, n. 40049, in Giur. it., 2009, p. 2525: «in particolare, si ritiene che il concetto di dubbio
sull’esistenza di una causa di giustificazione, sussistendo il quale il giudice deve pronunziare sentenza di assoluzione, va[da]
ricondotto a quello di “insufficienza” o “contraddittorietà” della prova, di cui all’art. 529 c.p.p., comma 2, e art. 530 c.p.p., comma 2, sicché, quando la configurabilità di cause di giustificazione sia stata allegata dall’imputato, è necessario procedere ad
un’indagine sulla probabilità della sussistenza di tali esimenti: la presenza di un principio di prova o di una prova incompleta
porterà all’assoluzione, mentre l’assoluta mancanza di prove al riguardo, o la esistenza della prova contraria, comporterà la
condanna. Allorquando, nonostante tale indagine, non si sia trovata alcuna prova che consenta di escludere la esistenza di una
causa di giustificazione, il giudizio sarà parimenti di condanna, qualora non siano stati individuati elementi che facciano ritenere come probabile la esistenza di essa o inducano comunque il giudice a dubitare seriamente della configurabilità o meno di una
scriminante».
54
Cass., sez. III, 15 aprile 2015, n. 15449, in www.processopenaleegiustizia.it.
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | DEFLAZIONE E RAZIONALIZZAZIONE DEL SISTEMA
Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
170
non si è dilungata oltre nell’analisi di tale profilo, rigettando la richiesta di applicazione della causa
estintiva, formulata in udienza dalla difesa, per mancanza dei presupposti su cui la valutazione di particolare tenuità si fonda. È probabile che non mancheranno dubbi sull’effettivo “maggior favore” della
nuova causa di non punibilità, stante l’inedito, massiccio, effetto extrapenale della sentenza proscioglitiva (assolutoria, a dibattimento), per particolare tenuità del fatto. Tuttavia, dati proprio i presupposti
accertativi che stanno alla base della nuova declaratoria e, quindi, la ricordata prevalenza di ciascuna
delle cause enunciate dall’art. 129 c.p.p. sulla non punibilità per particolare tenuità, pare astrattamente
condivisibile la valutazione di lex mitior effettuata dal Supremo Collegio: la nuova fattispecie intercetta
situazioni in cui, esclusa ogni possibile altra decisione liberatoria, si dovrebbe necessariamente pronunciare una sentenza di condanna. Ne consegue, come sottolineato dalla segnalata pronuncia, la possibilità di richiedere l’applicazione dell’art. 131-bis c.p. anche nei giudizi di impugnazione attualmente pendenti: la corte d’appello o la corte di cassazione si faranno carico di procedere alle necessarie valutazioni 55. Fuori dal vincolo cognitivo e decisorio che l’art. 129 c.p.p. impone al giudice, pare più prudente
per la difesa dell’imputato, interessato alla nuova causa di non punibilità, formulare esplicita richiesta
nell’atto di impugnazione o in udienza, nel procedimento già pendente innanzi alla Corte d’appello o
di cassazione 56. Peraltro, la richiesta da parte dell’interessato supererebbe il paradosso che scaturisce
dalla ‘opponibilità’, contemplata in sede di indagini, nell’ipotesi di richiesta di archiviazione ex art. 411,
comma 1, ultima parte, c.p.p., ma non prevista dopo l’esercizio dell’azione penale.
Quanto, poi, ai rapporti tra la nuova nuova formula di particolare tenuità e le preesistenti soluzioni
processuali che vi fanno riferimento, ossia l’art. 27 d.p.p.m. e l’art. 34 d.lgs., n. 274/2000, il quadro pare
piuttosto chiaro. Il ricorso alla causa generale di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p.p. sembra sovrapporsi alle due soluzioni “di settore” già da tempo in vigore 57. Sembra lecito ritenere che data, appunto, l’interpolazione operata nel cuore della parte generale del codice penale, il riscontro da parte del
p.m. dei canoni di particolare tenuità come da ultimo specificati, debba comportare la formulazione
della richiesta di archiviazione ex art. 411 comma 1, ultima parte, c.p.p. Nel procedimento minorile, solo
nell’ipotesi, forse non molto frequente, in cui si debbano escludere i presupposti della nuova causa di
non punibilità, ma si possano ritenere, invece, sussistenti quelli dell’art. 27 d.p.p.m., il pubblico ministero presso il Tribunale per i minorenni dovrà esercitare l’azione penale per chiedere espressamente la
sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto. E ciò non già per una questione di maggior
favore rappresentata dal nuovo istituto rispetto a quello più risalente, quanto in ragione del rapporto di
generalità/specialità che sembra legare le due disposizioni. Nell’ambito del procedimento “di pace”, la
questione si pone nei termini di un necessario coordinamento tra la disposizione dell’art. 34, d.lgs. n.
274/2000, ove la tenuità è configurata come condizione di procedibilità, e l’art. 131-bis c.p.: sul piano
formale, occorrerebbe provvedere, innanzitutto, alla verifica dell’impedimento alla procedibilità, che
andrebbe dichiarato attraverso il decreto di archiviazione. In caso di insussistenza di tutti i parametri
ivi contemplati, la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità potrebbero poi essere riconsiderate
in giudizio alla luce della nuova causa di non punibilità che, inserita nel codice penale e non in quello
processuale, non incorrerebbe nelle limitazioni applicative dell’art. 2 d.lgs. n. 274/2000. Ciò avrebbe il
pregio di superare il “potere di veto” che l’art. 34 assegna all’imputato ma, soprattutto, alla persona offesa, i quali possono inibire la definizione alternativa del procedimento.
CENNI CONCLUSIVI
Queste brevi riflessioni a prima lettura su un istituto che dovrà essere attentamente studiato nella sua
operatività quotidiana non possono che essere spunti per un ragionamento più approfondito. Non è
55
Nel caso di specie, la Corte ha preso le mosse dalla valutazione effettuata in sede di quantificazione della pena dal giudice
di merito, il quale aveva scelto di distaccarsi dal minimo edittale e di negare sia il riconoscimento delle attenuanti generiche, sia
la reiterazione dei benefici di legge.
56
Come precisato da Cass., sez. III, 15 aprile 2015, cit., nei procedimenti al momento pendenti innanzi al Supremo Collegio,
la richiesta di applicazione della nuova causa di non punibilità va considerata ai sensi dell’art. 609, comma 2, c.p.p. questione
che non sarebbe stato possibile dedurre precedentemente.
57
D. Brunelli, Diritto penale domiciliare, cit., p. 455, il quale denuncia l’ingiustificata disparità di condizioni applicative, tra la
nuova e le previgenti clausole di tenuità.
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | DEFLAZIONE E RAZIONALIZZAZIONE DEL SISTEMA
Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
171
dunque tempo di bilanci, ma solo di previsioni e di auspici. Questi ultimi avrebbero certamente potuto
essere più rosei, se il legislatore delegato non fosse caduto nella tentazione di “far da sé”, abbandonando nella fase decisiva dell’iter di approvazione la guida sicura che si era garantito attraverso la nomina
di una Commissione ministeriale di elevatissima competenza. Anche in questo caso, come in molti altri
prima, la buona volontà di tutti gli operatori della giustizia penale contribuirà a trovare una soluzione
logica e assennata là dove il legislatore è caduto in confusione, ha pasticciato, ha dimenticato, ha sovrapposto ... Tuttavia, la speranza che una riforma così a lungo attesa e così strettamente legata ai cardini essenziali del nostro sistema processuale penale fosse confezionata con più cura era assai legittima.
Ha davvero, questo decreto delegato, scalfito il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, come
qualche quotidiano non ha esitato ad affermare 58? Non è facile rispondere e probabilmente non è nemmeno necessario: forse, in questi ultimi decenni, la nostra giustizia penale ha soltanto percorso il paradigma che qualcuno, autorevolmente, aveva da tempo descritto e analizzato 59, giungendo, condannata
da un’inedia senza precedenti del Parlamento, a ripiegarsi su se stessa. La non curanza verso lo stato
della giustizia penale ci ha riportati al punto in cui l’urgenza non è più nel ragionare sui valori autentici
dell’obbligatorietà dell’azione penale; l’urgenza, improrogabile, è di ripristinare, nel nostro sistema, il
principio di legalità, ripartendo proprio da una legalità dell’azione penale. Il Governo ci ha consegnato
uno strumento adeguato? Le premesse, come accennato, non sono le più desiderabili. C’è tuttavia un
senso immanente, in tutti gli operatori della giustizia, di necessità di far ripartire la macchina e si può
essere certi che tutte le componenti professionali che guardano quotidianamente al processo penale sapranno offrire il loro miglior contributo.
58
V. ancora M. Menduni, Reati lievi, cit.
59
Cfr. M. Chiavario, Ancora sull’azione penale obbligatoria: il principio e la realtà, in L’azione penale tra diritto e politica, Padova,
1995, p. 98 s., p.118 s.; per una rilettura a posteriori, Id., Diritto processuale penale, Torino, 2015, p. 130.
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | DEFLAZIONE E RAZIONALIZZAZIONE DEL SISTEMA
Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
172
ALESSIO SCARCELLA
Magistrato – Corte di Cassazione
Modifiche alla disciplina della responsabilità civile
dei magistrati o new deal nei rapporti
tra politica e magistratura?*
The new law no. 18/2015: modifications of the discipline
of civil liability of judges or new deal in the relationship
between politics and the judiciary?
La nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati è stata presentata all’opinione pubblica come necessaria (e
necessitata) dalle condanne riportate dal nostro Paese in sede UE, in particolare per dare seguito alla sentenza del
24 novembre 2011 con la quale la C. giust. UE ha condannato l’Italia per violazione degli obblighi di adeguamento
dell’ordinamento interno al principio generale di responsabilità degli Stati membri dell’Unione europea, in caso di
violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado. Le statuizioni del
giudice dell’Unione erano univoche nel chiarire che: a) viola il diritto dell’Unione una norma, come quella contenuta
nella l. n. 117/1988, che limita la responsabilità per attività degli organi giurisdizionali ai soli casi di dolo e colpa
grave; b) la responsabilità civile per violazione del diritto dell’Unione da parte dei giudici è responsabilità che fa capo solo allo Stato, unitariamente inteso, e non ai singoli magistrati; c) la disciplina dell’eventuale rivalsa dello Stato
nei confronti del giudice che concretamente ha violato il diritto dell’Unione è competenza degli Stati membri, in
quanto al momento non sussiste alcuna base giuridica per interventi dell’Unione a tal fine. Si tratta(va) di principi
già precisati in precedenza per altri organi pubblici responsabili delle violazioni del diritto europeo, dunque ribaditi
senza esitazioni anche in riferimento all’attività giurisdizionale. Ne consegue che un’attuazione non strumentale
della sentenza 24 novembre 2011 (e dei principi precedentemente posti dalla Corte) avrebbe dovuto riguardare
solo l’estensione in modo espresso della responsabilità dello Stato alla violazione grave e manifesta del diritto
dell’Unione europea. L’attuale modifica sostanziale della disciplina della responsabilità civile dei giudici, con un
evidente ampliamento della loro responsabilità, non ha dunque alcuna legittimazione comunitaria e non era “per
l’Europa” assolutamente necessaria, ma costituisce frutto di un’esigenza avvertita dal legislatore italiano, ma che
avrebbe dovuto essere valutata rispetto alla Costituzione ed al ruolo che la stessa assegna all’Ordine giudiziario.
The new law on civil liability of judges was presented to the public as required (and necessitated) the sentences
passed by our country in the EU, in particular to follow the judgment of 24 November 2011 in which the ECJ ruled
against the ‘Italy for breach of the obligations of adapting internal to the general principle of liability of the Member
States the EU, in case of infringement of EU law by one of its national courts of last instance. The principles established by the ECJ were unambiguous to clarify that: a) violates EU law a provision, such as that in the law n.
117/1988, which limits the liability for the activities of the courts solely to cases of willful misconduct and gross
negligence; b) civil liability for infringement of EU law by the courts is the liability which is headed only to the
State, considered as a whole, and not to individual judges; c) the treatment of the possible redress by the State
against the judge who concretely has infringed EU law is responsibility of the Member States, as at the moment
there is no legal basis for EU action for that purpose. Those principles were already clarified previously to other
public authorities liable for that infringement of EU law, therefore reaffirmed unhesitatingly even in reference to
the activities the courts. Not follow that implementation of the non-instrumental judgment of 24 November 2011
(and the principles of previously stated by the Court) would have to concern only the extension by expressly of
the State liability to the sufficiently clear breach of EU law. The existing material changes the rules of the civil liability of judges, with an evident expansion of their liability, has thus no EU legitimization and it was not "for EU"
* Il testo della l. 27 febbraio 2015 n. 18 è pubblicata su www.processopenaleegiustizia.it nella sezione “novità legislative interne”
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | MODIFICHE ALLA DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI
Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
173
absolutely necessary, but it is the fruit of a need felt by the Italian legislator but that should have being assessed,
compared to the Italian Constitution, and to the role that it assigns to the judiciary Order.
PREMESSA
La riforma della responsabilità civile dei magistrati, introdotta con la legge n. 18 del 2015, rappresenta il
frutto di un difficile compromesso faticosamente raggiunto nelle aule parlamentari, costituendo il testo
finale la sintesi di ben cinque diverse proposte di legge presentate sostanzialmente da tutti gli schieramenti politici dell’attuale arco costituzionale 1. Le proposte hanno inteso farsi carico delle criticità che
sono derivate dall’applicazione della legge “Vassalli” in materia e, al tempo stesso, sono dirette a recepire le indicazioni provenienti dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (C. giust. UE). Con l’intervento si è inteso, in particolare, dare seguito alla sentenza del 24 novembre 2011 2 con la quale la C.
giust. UE ha condannato l’Italia per violazione degli obblighi di adeguamento dell’ordinamento interno
al principio generale di responsabilità degli Stati membri dell’Unione europea, in caso di violazione del
diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado.
Tale decisione, insieme alla precedente del 2006 della stessa C. giust. UE 3 ha portato a due procedure di contenzioso con la Commissione europea. Nonostante le due decisioni della C. giust. UE confermassero la bontà dell’impostazione della disciplina italiana (sia in relazione all’esclusione della responsabilità diretta del magistrato che al fatto che la responsabilità da imputare allo Stato si concretizza solo
a seguito di una violazione “imputabile a un organo giudiziario di ultimo grado”) due profili dell’art. 2,
l. n. 117/1988 4 – secondo la Corte – contrastavano con il diritto dell’Unione Europea: il primo è che il
danno risarcibile provocato da un giudice non possa derivare anche da interpretazioni di norme di diritto o da valutazioni di fatti e prove; il secondo che, in casi diversi dall’interpretazione di norme di diritto o dalla valutazione di fatti e di prove, possano essere imposti, per la concretizzazione della responsabilità dei giudici, “requisiti più rigorosi di quelli derivanti dalla condizione di una manifesta violazione del diritto vigente”.
Nell’ordinamento nazionale, la responsabilità diretta dei funzionari e dei dipendenti dello Stato e
degli enti pubblici, secondo le leggi penali, civili e amministrative, per gli atti compiuti in violazione di
diritti, è sancita dall’art. 28 Cost. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici.
La Corte costituzionale, già con la sentenza n. 2/1968, aveva rilevato che “la singolarità della funzione giurisdizionale, la natura del provvedimenti giudiziali, la stessa posizione, super partes del magistrato possono suggerire, come hanno suggerito ante litteram, condizioni e limiti alla sua responsabilità;
ma non sono tali da legittimarne, per ipotesi, una negazione totale, che violerebbe apertamente quel
principio o peccherebbe di irragionevolezza sia di per sé (art. 28) sia nel confronto con l’imputabilità dei
"pubblici impiegati" (d.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3, e art. 3 Cost.) 5.
La Corte, successivamente, con la sentenza n. 18/1989, nel valutare la legittimità costituzionale della
1
Le cinque proposte di legge – C. 2738, approvata dal Senato e le proposte C. 990 (Gozi ed altri), C. 1735 (Leva), C. 1850
(Brunetta) e C. 2140 (Cirielli) – modificano la l. n. 117/1988 (c.d. legge Vassalli) che disciplina l’azione per fare valere la responsabilità civile dello Stato per i danni causati dalla condotta illecita di un magistrato. La legge Vassalli venne approvata a seguito
dell’esito favorevole del referendum abrogativo della previgente normativa dell’8 novembre 1987. La Commissione Giustizia
della Camera aveva già avviato, in questa legislatura (il 14 novembre 2013), l’esame in sede referente della proposta di legge C.
1735 (Leva), cui è stata abbinata nel corso dell’iter la proposta C. 1850 (Brunetta). Dopo che nella seduta della Commissione del
18 dicembre 2013 era stato proposto un ciclo di audizioni, l’iter alla Camera si è interrotto. L’esame di alcuni disegni di legge in
materia di responsabilità civile dei magistrati – nel frattempo, avviato anche al Senato (il 3 dicembre 2013) – è proseguito presso
l’altro ramo del Parlamento e si è concluso con l’approvazione, il 20 novembre 2014, della citata proposta di legge C. 2738.
2
C. giust. UE, sentenza 24 novembre 2011, C-379/10, Commissione/Repubblica italiana.
3
C. giust. UE, Grande Sezione, sentenza 13 giugno 2006, causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo.
4
L. 13 aprile 1988, n. 117, recante “Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei
magistrati”, pubblicata nella Gazz. Uff. 15 aprile 1988, n. 88.
5
Sempre secondo la Corte, quanto alle altre violazioni di diritti soggettivi, cioè ai danni cagionati dal giudice per colpa grave o lieve o senza colpa, il diritto al risarcimento nei riguardi dello Stato non trova garanzia nel precetto costituzionale; ma niente impedisce alla giurisprudenza di trarlo eventualmente da norme o principi contenuti in leggi ordinarie (se esistono).
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | MODIFICHE ALLA DISCIPLINA DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI
Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
174
legge Vassalli, ha riconosciuto che l’art. 28 Cost. è stato interpretato nel senso che la responsabilità dello
Stato può esser fatta valere anteriormente o contestualmente con quella dei funzionari e dei dipendenti,
non avendo carattere sussidiario 6.
La Corte ha poi sottolineato che la garanzia costituzionale della indipendenza dei magistrati è diretta “a tutelare, in primis, l’autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l’imparziale interpretazione
delle norme di diritto. Tale attività non può dar luogo a responsabilità del giudice (art. 2, n. 2, l. n. 117
cit.) ed il legislatore ha ampliato la sfera d’irresponsabilità, fino al punto in cui l’esercizio della giurisdizione, in difformità da doveri fondamentali, non si traduca in violazione inescusabile della legge o in
ignoranza inescusabile dei fatti di causa, la cui esistenza non è controversa”. Ancora, la Corte ha osservato che “la previsione del giudizio di ammissibilità della domanda (art. 5, l. cit.) garantisce adeguatamente il giudice dalla proposizione di azioni manifestamente infondate, che possano turbarne la serenità, impedendo, al tempo stesso, di creare con malizia i presupposti per l’astensione e la ricusazione”. La Corte, nella stessa sentenza, ha ricordato poi che “è principio consolidato in giurisprudenza che la responsabilità dello Stato sussiste solo nei limiti in cui si è in presenza di una responsabilità del giudice”.
Con la sentenza n. 385/1996, la Corte ha poi valutato la disciplina del giudizio della Corte dei conti
per danno erariale, concludendo che la sua estensione anche all’attività giurisdizionale è rimessa al legislatore ordinario e non è determinata direttamente dalla Costituzione 7.
LE NOVITÀ DELLA RIFORMA
Nella legislatura in corso, durante l’esame della legge europea 2013-bis, la Camera aveva approvato
(l’11 giugno 2014) un emendamento proposto dalla Lega Nord che prevedeva un’ipotesi di responsabilità diretta del magistrato 8. Dopo che al Senato, nel corso del successivo esame del disegno di legge
presso la Commissione politiche UE, la modifica era stata soppressa, anche l’Assemblea, nella seduta
del 17 settembre 2014, aveva respinto – con voto di fiducia – un analogo emendamento di altro esponente della Lega Nord, che reintroduceva la responsabilità civile diretta dei magistrati.
Si è quindi giunti al testo definitivamente approvato, che presenta numerose novità, ovviamente tutte peggiorative, per la Magistratura.
Gli elementi principali della riforma sono: a) il mantenimento dell’attuale principio della responsabilità indiretta del magistrato (l’azione risarcitoria rimane azionabile nei confronti dello Stato); b) la limitazione della clausola di salvaguardia che esclude la responsabilità del magistrato; c) la ridefinizione
delle fattispecie di colpa grave; d) l’eliminazione del filtro endoprocessuale di ammissibilità della domanda; e) una più stringente disciplina della rivalsa dello Stato verso il magistrato.
L’equivoco scopo della riforma emerge già nella lettura dell’art. 1 del testo che indica l’oggetto e le
finalità dell’intera legge: rendere effettiva la disciplina della responsabilità civile dello Stato “e dei magistrati”, 9 anche alla luce dell’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea.
6
C. cost., sent. 8 giugno 1963, n. 88, in www.cortecostituzionale.it
7
La Corte ha rilevato che l’applicazione del giudizio della Corte dei conti è suscettibile di espansione in via interpretativa,
quando sussistano i presupposti soggettivi e oggettivi della responsabilità per danno erariale, ma ciò solo "in carenza di regolamentazione specifica da parte del legislatore che potrebbe anche prevedere la giurisdizione ed attribuirla ad un giudice diverso" (sentenza n. 641/1987). "La concreta attribuzione della giurisdizione, in relazione alle diverse fattispecie di responsabilità
amministrativa, è infatti rimessa alla discrezionalità del legislatore ordinario e non opera automaticamente in base all’art. 103
Cost., richiedendo l’interpositio legislatoris ... Ne deriva la conciliabilità in linea di principio dell’indipendenza della funzione
giudiziaria con la responsabilità nel suo esercizio, non solo con quella civile, oltre che penale, ma anche amministrativa, nelle
sue diverse forme”. Peraltro la Costituzione lascia aperto un campo all’esplicazione della discrezionalità del legislatore.
8
La disposizione stabiliva che «chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario” compiuto dal magistrato, “in violazione manifesta del diritto o con dolo o colpa grave» può agire per il
risarcimento contro lo Stato e contro il magistrato ritenuto colpevole.
9
La necessità di rendere effettiva la responsabilità civile “dei magistrati” è un’esigenza, costituzionalmente dubbia, avvertita dal legislatore italiano. Per l’attività giurisdizionale, la responsabilità "comunitaria" non è personale dei giudici, ma dello Stato; e, nei casi configurabili (solo quelli, si badi bene, di violazione in maniera manifesta del diritto europeo, casi espressamente
considerati come "eccezionali"), la Corte ritiene che la possibilità di configurare, a talune speciali condizioni, la responsabilità
dello Stato per decisioni giurisdizionali incompatibili con il diritto comunitario non possa comportare rischi particolari per
l’indipendenza degli organi giurisdizionali. Così è stato considerato per la posizione degli organi giurisdizionali di ultimo grado, di cui si trattava nella sentenza Koebler del 2003 (30 settembre 2003, causa C-224/01).
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Ma andiamo con ordine.
Il primo vulnus all’Ordine giudiziario è costituito dall’estensione della risarcibilità del danno non patrimoniale. L’articolo 2 interviene in più punti sull’art. 2, l. n. 117/1988, relativo alla responsabilità del
giudice per dolo o colpa grave. Anzitutto, al comma 1 dell’art. 2 viene estesa la risarcibilità del danno
non patrimoniale anche al di fuori dei casi delle ipotesi di privazione della libertà personale per un atto
compiuto dal magistrato. In base al comma 1 così modificato il danno, patrimoniale e non patrimoniale,
deve rappresentare – come attualmente previsto dalla legge – l’effetto di un comportamento, atto o
provvedimento giudiziario posto in essere da un magistrato con "dolo" o "colpa grave" nell’esercizio
delle sue funzioni ovvero conseguente a “diniego di giustizia” 10.
Il secondo, altrettanto profondo, colpo inferto all’indipendenza ed autonomia della Magistratura sta
nella (ri)delimitazione dell’applicazione della c.d. clausola di salvaguardia, la quale prevede che “non
può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione
del fatto e delle prove”. Sono a tal fine fatti salvi i commi 3 e 3-bis del medesimo articolo 2. Pertanto,
pur confermando in via generale che il magistrato non è chiamato a rispondere per l’attività di interpretazione della legge e di valutazione del fatto e delle prove, il nuovo comma 2 esclude da tale ambito di
irresponsabilità i casi di dolo, di colpa grave (come individuati dal nuovo comma 3) e di violazione
manifesta della legge e del diritto della UE (come definita dal nuovo comma 3-bis). Nelle citate ipotesi,
quindi, anche l’attività interpretativa di diritto e valutativa del fatto e delle prove può dare luogo a responsabilità del magistrato.
Terza novità di grande rilievo consiste nella ridefinizione delle fattispecie di colpa grave individuate
dall’art. 2, comma 3, della legge Vassalli 11. Ai sensi del nuovo comma 3, i comportamenti dei magistrati che
costituiscono colpa grave sono tali ope legis, essendo stato soppresso il riferimento (di natura soggettiva) alla
"negligenza inescusabile", previsto per la grave violazione di legge, per l’affermazione di un fatto inesistente
e per la negazione di un fatto esistente. Costituisce, in particolare, nuova fattispecie di colpa grave il "travisamento del fatto o delle prove". La nuova fattispecie si aggiunge alla negazione di un atto esistente e
all’affermazione di un fatto inesistente 12. Il nuovo comma 3-bis dello stesso articolo 2 precisa i presupposti di
cui tenere conto per la determinazione dei casi in cui sussiste la violazione manifesta della legge e del diritto
dell’Unione europea che, ai sensi del nuovo comma 3, costituiscono ipotesi di colpa grave del magistrato.
Si tratta di una casistica non esaustiva. La disposizione infatti precisa che si tiene conto "in particolare" dei seguenti elementi: a) del grado di chiarezza e precisione delle norme violate; b) dell’inescusabilità e gravità della inosservanza. Il riferimento alla inescusabilità, rimosso dal comma 3, è reintrodotto quindi tra gli elementi sintomatici della violazione manifesta della legge e del diritto UE. Inoltre,
per il caso della sola violazione manifesta del diritto dell’Unione europea, si dovrà tenere conto anche:
a) dell’inosservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea; b)
del contrasto interpretativo, cioè del contrasto dell’atto o del provvedimento emesso dal giudice con
l’interpretazione adottata dalla stessa C. giust. UE. Resta fermo, ai sensi del comma 3-bis, l’eventuale
giudizio di responsabilità del magistrato per danno erariale davanti alla Corte dei conti 13: la clausola
relativa alla responsabilità erariale riguarda, si noti, le sole fattispecie di violazione manifesta della legge e del diritto dell’Unione europea.
10
Rimane inalterata la definizione del diniego di giustizia di cui all’art. 3 della l. 117/1988.
11
Per il previgente comma 3 dell’art. 2, costituivano colpa grave: a) la grave violazione di legge determinata da negligenza
inescusabile; b) l’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontestabilmente esclusa
dagli atti del procedimento; c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontestabilmente dagli atti del procedimento; d) l’emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione.
12
Il nuovo comma 3 stabilisce, infatti, che costituisce colpa grave del magistrato: a) la "violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea" (tale formulazione sostituisce la "grave violazione di legge" e riprende le indicazioni della
sentenza della C. giust. UE Traghetti del mediterraneo); b) il travisamento del fatto o delle prove; c) l’affermazione di un fatto la
cui esistenza è incontestabilmente esclusa dagli atti del procedimento; d) la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontestabilmente dagli atti del procedimento; e) l’emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dei casi previsti
dalla legge oppure senza motivazione.
13
Ai sensi del d.l. 23 ottobre 1996, n. 543, convertito, con modificazioni, dalla l. 20 dicembre 1996, n. 639. Va notato, peraltro,
che la giurisprudenza costituzionale e quella di legittimità hanno escluso che – a fronte della disciplina prevista dalla l.
117/1988 con l’azione di rivalsa, davanti al giudice ordinario, dello Stato nei confronti del magistrato autore di danno erariale –
sia proponibile una concorrente azione davanti alla Corte dei conti.
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Quarto e più preoccupante vulnus all’indipendenza ed autonomia della Magistratura è costituito,
non tanto e non solo dall’aumento da due a tre anni dei termini previsti dai commi 2 e 4 dell’art. 4 della
l. n. 117/1988 per la proposizione della domanda di risarcimento contro lo Stato, da esercitare nei confronti del Presidente del Consiglio (comma 1), ma, soprattutto, dall’abrogazione dell’art. 5 della stessa l.
117/1988 relativo al filtro di ammissibilità della domanda di risarcimento davanti al tribunale del distretto di corte d’appello 14. Discutibile la giustificazione fornita per “abbattere” tale filtro: dai dati consegnati dal Ministero della giustizia alla Commissione giustizia del Senato (coincidenti con quelli della
relazione tecnica allegata al d.d.l. del Governo S. 1626) emergeva che dall’entrata in vigore della legge
117 del 1988 ad oggi – su oltre 400 ricorsi per risarcimento proposti – solamente 7 si sono conclusi con
un provvedimento che ha riconosciuto il risarcimento per dolo o colpa grave da parte di magistrati.
Quinto intervento sull’esistente, altrettanto peggiorativo, è costituito dalle modifiche introdotte
all’azione di rivalsa dello Stato verso il magistrato, spettante al Presidente del Consiglio dei ministri, introducendo le seguenti novità: a) l’azione deve essere esercitata entro 2 anni (prima un anno) dal risarcimento avvenuto sulla base del titolo giudiziale o stragiudiziale nei riguardi dello Stato; b) la rivalsa
verso il magistrato è resa obbligatoria (si tratta dell’esplicito rafforzamento di un obbligo, tuttavia, già
esistente); c) per coordinamento con l’abrogazione dell’art. 5 è eliminato il riferimento alla domanda di
ammissibilità dell’azione; d) sono stati ancorati i presupposti della rivalsa al diniego di giustizia, alla
violazione manifesta della legge e del diritto della UE o al travisamento del fatto o delle prove, di cui
all’art. 2, commi 2, 3 e 3-bis, stabilendosi, tuttavia, che l’elemento soggettivo della condotta dannosa del
magistrato debba essere esclusivamente il dolo o la negligenza inescusabile. La formulazione del nuovo
comma 1 dell’art. 7 della legge 117/1988 non ricomprende, dunque, tra i presupposti della rivalsa obbligatoria tutte le ipotesi di colpa grave del magistrato elencate nel nuovo articolo 2 della legge. La legge conferma poi il previgente comma 2 dell’art. 7, l. n. 117/1988, sull’inopponibilità della transazione al
magistrato nel giudizio di rivalsa e disciplinare 15. Inoltre, l’articolo 5 della legge interviene sull’art. 8
della legge 117/1988, ridefinendo i limiti quantitativi della rivalsa. Essa non può eccedere una somma
pari alla metà di un’annualità di stipendio (la normativa vigente prevedeva un terzo), al netto delle
trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui è proposta l’azione risarcitoria. Questo limite
non si applica al fatto commesso con dolo, nel qual caso ovviamente l’azione risarcitoria è totale.
L’esecuzione della rivalsa, invece, se effettuata mediante trattenuta sullo stipendio non può comportare
complessivamente il pagamento per rate mensili in misura superiore al terzo dello stipendio netto
(prima non poteva superare un quinto).
Last but non least, l’aggravio della responsabilità disciplinare e contabile.
L’articolo 6 della legge modifica infatti l’art. 9 della legge Vassalli, coordinando la disciplina dell’azione disciplinare a carico del magistrato (conseguente all’azione di risarcimento intrapresa) con la soppressione del filtro di ammissibilità della domanda disposto dall’art. 3, comma 2. È, in tal senso, espunto dal comma 1 dell’art. 9 della l. 117/1988 il riferimento al termine di due mesi dalla comunicazione
del tribunale distrettuale (che dichiara ammissibile la domanda di risarcimento) entro il quale il PG della cassazione deve proporre l’azione disciplinare 16.
14
L’art. 5, l. n. 117 prevedeva che vi fosse una delibazione preliminare di ammissibilità della domanda di risarcimento verso
lo Stato (controllo presupposti, rispetto termini e valutazione manifesta infondatezza) da parte del tribunale distrettuale. A tale
fine era previsto che il giudice istruttore, alla prima udienza, rimettesse le parti dinanzi al collegio che era tenuto a provvedere
entro 40 gg. dal provvedimento di rimessione del giudice istruttore. L’inammissibilità era dichiarata con decreto motivato, impugnabile davanti alla corte d’appello che pronunciava anch’essa in camera di consiglio con decreto motivato entro 40 gg. dalla
proposizione del reclamo. Contro il decreto di inammissibilità della corte d’appello era proponibile ricorso per cassazione. Se la
domanda veniva dichiarata ammissibile, il tribunale disponeva la prosecuzione del processo ed ordinava la trasmissione di copia degli atti ai titolari dell’azione disciplinare.
15
Viene poi modificato il successivo comma 3: a) è espunto il riferimento alla soppressa figura del conciliatore; b) viene confermata la sola responsabilità dolosa dei giudici popolari (delle corti d’assise); c) si prevede che gli estranei alla magistratura
membri di organi giudiziari collegiali (ad es.. gli esperti dei tribunali dei minorenni) rispondono, oltre che per dolo, per negligenza inescusabile per travisamento del fatto o delle prove (prima tale responsabilità era stabilita per dolo e colpa grave, e
quest’ultima solo se derivante dall’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontestabilmente esclusa dagli atti del procedimento nonché dalla negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la
cui esistenza risulta incontestabilmente dagli atti del procedimento).
16
L’art. 13, l. n. 117/1988, prevede, in tale ipotesi, l’azione diretta nei confronti del magistrato e dello Stato, quale responsabile civile, in caso di reati commessi dal magistrato medesimo nell’esercizio delle proprie funzioni. All’azione di regresso dello
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L’articolo 7, infine, integra con un comma aggiuntivo 2-bis il contenuto dell’art. 13 della l. n.
117/1988 (Responsabilità civile per fatto costituente reato) prevedendo la responsabilità contabile per il
mancato esercizio dell’azione di regresso dello Stato verso il magistrato. Ai fini dell’accertamento di tale responsabilità, il comma 2-bis stabilisce, in capo al Presidente del consiglio e al Ministro della giustizia, oneri informativi annuali nei confronti della Corte dei conti in relazione alle condanne emesse
nell’anno precedente per risarcimento del danno derivante da reato ed alle conseguenti azioni di regresso verso il magistrato.
PROFILI CRITICI DELLA DISCIPLINA
La nuova disciplina della responsabilità civile dei magistrati ha già registrato, ad appena un mese dalla
sua entrata in vigore, alcune significative prese di posizione dottrinali fortemente critiche 17. Prima del
suo varo, peraltro, non erano mancate, per converso, forti reprimende all’assetto legislativo dettato con
la l. n. 117/1988 18. Tra le cause del malfunzionamento della legge Vassalli, in particolare, si individuava, anzitutto, il filtro del preventivo giudizio sull’ammissibilità dell’azione, volto a scongiurare il pericolo di liti temerarie, capaci unicamente di ledere il prestigio e l’autorevolezza dell’intera categoria, rivelatosi secondo la dottrina “una barriera invalicabile, che ha finito per ridurre drasticamente le ipotesi
di istruzione della causa nella successiva fase del processo”. 19 Altro “limite” al funzionamento della
previgente legge del 1988, era individuato nella c.d. clausola di salvaguardia che impediva di riconoscere a carico dei giudici forme di responsabilità per l’attività interpretativa delle norme di diritto e di
valutazione delle prove e dei fatti 20.
Sicuramente più rilevanti i profili di criticità della riforma evidenziati dai primi commentatori. Come già sostenuto in un primo scritto 21, la risposta più opportuna che si sarebbe dovuta dare a seguito
della sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (sentenza 24 novembre 2011, causa C379/10), che aveva reputato incompatibile l’art. 2, l. n. 117 con il principio di responsabilità degli Stati
membri per violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado, era “quella di una legge sulla responsabilità dello Stato per violazione del diritto eurounitario, che regolasse anche i profili legati alla responsabilità dello Stato-legislatore”. Purtroppo, osserva tale autorevole voce dottrinale 22, nella sua discrezionalità il Parlamento ha fatto una diversa scelta di opportunità politica con la l. 27 febbraio 2015, n. 18, perdendo l’occasione di una legge organica
sulla materia della responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell’Unione europea.
Ma quali sono i più rilevanti profili di criticità della nuova disciplina ?
Stato che sia tenuto al risarcimento nei confronti del danneggiato si procede altresì secondo le norme ordinarie relative alla responsabilità dei pubblici dipendenti.
17
V., per un commento fortemente critico “a prima lettura” della nuova disciplina, La nuova disciplina della responsabilità civile
dei magistrati – L’analisi di una scelta sbagliata (Commento alla legge 27 febbraio 2015, n. 18, fra profili di illegittimità costituzionale, contesto europeo, e azione disciplinare), in A. Aceto-S. Amore-M. Fiore-G. Marra-P. Mastroberardino (a cura di), Autonomia
& Indipendenza – Linea Giustizia, 2015. Per un interessante approfondimento, v. E. Scoditti, Quale responsabilità civile del magistrato
dopo la legge n. 18 del 2015, in giustizia civile.com, editoriale del 16 marzo 2015. Pur se fortemente critica con la previgente disciplina, di “scelta inopportuna e deleteria”, riferendosi alla nuova l. n. 18/2015, parla anche I. Ferranti, Prime riflessioni sulla riforma
della legge 13 aprile 1988, n. 117, in giustizia civile.com, editoriale del 9 aprile 2015.
18
Di “fallimento del sistema introdotto dalla legge dell’88" parla infatti C. Cosentino, La responsabilità civile del magistrato tra
inefficienze interne, moniti della Corte di Giustizia e modelli alternativi, in Danno e Resp., 2010, 3, p. 230.
19
Così C. Cosentino, op. cit., la quale aggiunge inoltre che “anche nelle limitate occasioni in cui l’azione sia riuscita a superare le forche caudine della preventiva ammissibilità, il giudizio di merito si è raramente concluso con un provvedimento di condanna di tipo risarcitorio”.
20
Sempre C. Cosentino, op. cit., osserva ancora che “le ragioni di una scarsa applicazione della legge sono da ricercarsi nella
sua stessa formulazione che ha determinato un sistema eccessivamente garantistico a favore dei propri destinatari. Tuttavia, anche una stringente applicazione da parte della giurisprudenza ha contribuito ad assegnare alla disciplina sulla responsabilità
civile un ruolo marginale e di estrema ratio, tradendo, probabilmente, lo spirito della riforma”.
21
E. Scoditti, Violazione del diritto dell’Unione europea imputabile all’organo giurisdizionale di ultimo grado: una proposta al legislatore, in Foro it., 2012, IV, p. 22.
22
E. Scoditti, Quale responsabilità civile del magistrato dopo la legge n. 18 del 2015, op. cit.
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I principali sono stati colti in uno dei primi commenti “a caldo” della disciplina normativa 23. Anzitutto, l’eliminazione completa del filtro di ammissibilità della domanda (con l’abrogazione dell’art. 5
della legge Vassalli), per cui tutte le azioni di risarcimento intentate in prima battuta contro lo Stato, anche quelle manifestamente inammissibili (ad esempio perché promosse fuori dai termini indicati dalla
legge) daranno vita ad un processo che non potrà essere definito in una sola udienza. Ne consegue, secondo gli Autori, che l’instaurazione e la pendenza di una ordinaria causa civile legittimerà il ricorrente
a chiedere nel procedimento in cui vi sarebbe stato l’atto giudiziario o la condotta lesiva in suo danno,
la ricusazione del magistrato contro cui egli ha agito in giudizio per il risarcimento. Al contempo, il
magistrato interessato potrebbe chiedere a sua volta di astenersi, ricorrendo in tutta evidenza gravi ragioni di convenienza. Queste circostanze si verificheranno certamente tutte le volte in cui il magistrato
decidesse di costituirsi da subito in giudizio (quindi già nella fase del processo intentato contro lo Stato), dato che in quei casi egli diventerà formalmente parte in causa; in ogni caso la dichiarazione di ricusazione del giudice, comporterà l’instaurazione del sub procedimento ad essa conseguente, con l’inevitabile rallentamento dell’attività processuale 24.
Altro profilo di criticità viene individuato dagli Autori nel novellato art. 2, comma 3, che individua i
casi di colpa grave, accanto alle ipotesi già preesistenti dell’affermazione di un fatto la cui esistenza è
incontrastabilmente esclusa dagli atti del processo o della negazione di un fatto la cui esistenza risulta
incontrastabilmente dagli atti del processo, introduce la nuova ipotesi del “travisamento del fatto o delle
prove”, di cui è oscura l’effettiva portata se si accede alla tesi, quella che appare più lineare dal punto di
vista interpretativo, che tale ultima ipotesi è distinta ed autonoma rispetto a quelle già presenti. Il legislatore ha poi sostituito all’ipotesi della colpa grave connessa alla «... grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile», quella della “violazione manifesta della legge nonché del diritto
dell’Unione europea”, in cui, vi è un richiamo espresso, definito dai commentatori “superfluo”, alla
normativa europea, che ben poteva rientrare nel concetto generale della violazione della legge.
Si evidenzia, in particolare, che nei presupposti dell’azione nei confronti dello Stato, con riguardo alle condotte che costituiscono colpa grave 25 è stato eliminato il riferimento alla negligenza inescusabile
del magistrato, invece previsto espressamente dal testo precedente dell’art. 2, comma 3, che quindi limitava l’ipotesi di responsabilità ai casi più macroscopici, quelli appunto in cui la negligenza inescusabile connotava la colpa grave del magistrato 26. La negligenza inescusabile o il dolo rimangono tuttavia
23
V. La nuova disciplina della responsabilità civile dei magistrati – L’analisi di una scelta sbagliata, op. cit.
24
Va evidenziato, secondo gli Autori, che il rischio di azioni strumentali volte a far sostituire nel giudizio in corso il magistrato
che se ne sta occupando, con il meccanismo della ricusazione/astensione di cui sopra, non è per nulla scongiurato dai limiti temporali contenuti nell’art. 4, commi 2, 3 e 4. Infatti, si osserva, il principio generale stabilito dal comma 2, in cui è previsto che l’azione
contro lo Stato può essere esercita solo quando “... siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti
avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento, ovvero se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell’ambito del quale si è verificato il fatto
che ha cagionato il danno”, trova una possibile deroga nel successivo comma 4, in cui è previsto espressamente che: “L’azione può
essere esercitata decorsi tre anni dalla data del fatto che ha cagionato il danno, se in tale termine non si è concluso il grado del procedimento nell’ambito del quale il fatto stesso si è verificato”. Ad esempio se il presunto danno deriva da un provvedimento cautelare o reale, che di regola può essere modificato o revocato in ogni stato e grado del processo, ciò nonostante si potrà agire contro il
magistrato che lo ha emesso, se alla scadenza dei tre anni dall’emissione del provvedimento cautelare (oppure del rigetto della richiesta di revoca dello stesso) non si è però concluso il grado del procedimento nell’ambito del quale il fatto stesso si è verificato.
Tale ipotesi non appare per nulla improbabile, osservano i commentatori, tenuto conto dei tempi necessari a celebrare processi
complessi con tanti parti o tanti imputati. In questi casi la mancanza del filtro di ammissibilità rende più concreto il rischio di interferenze con lo svolgimento dell’attività giudiziaria, senza tener conto del pregiudizio per la serenità del magistrato che sa di essere
stato citato in giudizio nel corso di un procedimento ancora in corso.
25
Le nuove ipotesi tipizzate di colpa grave sono indubbiamente, secondo E. Scoditti (op. ult. cit.) uno degli aspetti della modifica legislativa che richiedono il maggior sforzo interpretativo. L’inclusione nella disciplina della responsabilità civile dei magistrati della violazione del diritto euro-unitario ha sottoposto quest’ultima fattispecie, strutturalmente caratterizzantesi come
illecito dello Stato, allo stesso trattamento dell’illecito giudiziario. La contraddizione viene risolta mediante la subordinazione
dell’azione di rivalsa alla presenza di dolo o negligenza inescusabile, che consente di ricondurre ad illecito giudiziario l’illecito
dello Stato. Allo stesso tempo, tuttavia, aggiunge l’A., si è avuto un effetto di propagazione delle caratteristiche dell’illecito euro-unitario. L’art. 2, comma 3-bis, richiama, ai fini della valutazione di violazione manifesta della legge, nonché del diritto
dell’Unione europea, i parametri forniti dalla giurisprudenza euro-unitaria, e cioè il grado di chiarezza e precisione delle norme
violate e l’inescusabilità e gravità dell’inosservanza (per la violazione manifesta del diritto dell’Unione si deve tener conto anche
della mancata osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale e del contrasto con la giurisprudenza euro-unitaria).
26
La conseguenza di quella che viene definita da Scoditti (op. ult. cit.) come una “operazione ortopedica” è stata la scissione
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presupposti, in astratto necessari, per esercitare l’azione di rivalsa da parte dello Stato, ma tale circostanza potrà evidentemente essere accertata solo entrando nel merito della domanda di rivalsa, quindi
svolgendo un processo nel quale il magistrato sarà certamente convenuto da parte dello Stato e avrà
l’onere di difendersi 27.
Con riguardo poi all’ipotesi di emissione di un provvedimento cautelare emesso fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione, la nuova legge estende l’ambito di applicazione anche ai
provvedimenti cautelari reali in aggiunta a quelli personali 28.
L’ampliamento della portata applicativa della nuova disciplina si riscontra anche con riguardo alla
limitazione della clausola di salvaguardia. La nuova disciplina esclude che detta clausola si applichi ai
casi di dolo o di colpa grave indicati dai commi 3 e 3 bis dell’art. 2, ossia a quasi tutti i casi di colpa grave, compreso quello del travisamento del fatto o delle prove. Si tratta di una previsione che, secondo gli
Autori, in moltissimi casi, di fatto aprirà le porte ad un sindacato di merito sull’attività giudiziaria, senza che ne venga neppure esclusa l’attività di interpretazione delle norme e la valutazione delle prove,
che costituiscono il nucleo centrale del libero convincimento del giudice ed in generale dell’attività giudiziaria.
Infine, sempre secondo gli Autori, altro profilo di criticità riguarda l’innalzamento della soglia economica di rivalsa del danno fino alla metà stipendio del magistrato che, a differenza di quanto previsto
per ogni altro dipendente dello Stato, lede “in modo plateale” un altro principio fondamentale della
nostra Costituzione: quello di uguaglianza di fronte alla legge sancito dall’art. 3. Ciò in quanto, a fronte
dell’identica responsabilità dello Stato per i danni cagionati dai propri dipendenti, differenzia in modo
peggiorativo la soglia economica di rivalsa nei confronti della sola magistratura, senza che a conforto di
ciò possa essere addotta una ragionevole giustificazione (stante l’irrilevanza economica di questo innalzamento per le casse dello Stato) “se non quella del fine politico di rendere evidente la forza della Politica nei confronti della Magistratura”.
IN PARTICOLARE, LE NUOVE IPOTESI TIPIZZATE DI COLPA GRAVE
Come correttamente evidenziato da uno dei primi commentatori della riforma 29 al riconoscimento della
rivalsa solo in presenza del dolo o della negligenza inescusabile si è accompagnata una limitazione delle ipotesi di colpa grave suscettibili di rivalsa. Il magistrato risponde quindi in sede di rivalsa, ai sensi
dell’art. 7, a parte il caso di diniego di giustizia, soltanto nei casi di violazione manifesta della legge,
nonché del diritto dell’Unione europea, e di travisamento del fatto e delle prove (l’art. 7, comma 1, richiama anche l’art. 2, comma 2, ma si tratta dell’esenzione da responsabilità per l’attività di interpretazione di norme di diritto e per quella di valutazione del fatto e delle prove, c.d. clausola di salvaguardia). Le nuove ipotesi tipizzate di colpa grave sono indubbiamente uno degli aspetti della modifica legislativa che richiedono il maggior sforzo interpretativo. L’inclusione nella disciplina della responsabidi colpa grave e negligenza inescusabile e l’allargamento delle fattispecie di responsabilità per violazione (prima grave, ora manifesta) di legge, nonché per affermazione, o negazione, del fatto contrastata dagli atti del procedimento, non più limitate dalla
negligenza inescusabile. Quest’ultima condiziona solo l’azione di rivalsa, mentre lo Stato risponde sulla base delle ipotesi tipizzate di colpa grave senza alcun riferimento alla negligenza inescusabile. Anche la scissione di colpa grave e negligenza inescusabile è coerente alla giurisprudenza nazionale secondo la quale la negligenza inescusabile implica la necessità della configurazione di un quid pluris rispetto alla colpa grave delineata dall’art. 2236 c.c., nel senso che si esige che la colpa stessa si presenti
come "non spiegabile", e cioè priva di agganci con le particolarità della vicenda, che potrebbero rendere comprensibile, anche se
non giustificato, l’errore del magistrato (fra le tante, Cass. civ., sez. III, 5 luglio 2007, n. 15227, in CED Cass., n. 59830; Cass. civ.,
sez. I, 6 novembre 1999, n. 12357, in Giust. civ., 2000, p. 2054 con nota di F. Morozzo della Rocca, In tema di inapplicabilità dell’art.
2236 cod. civ. alla responsabilità dei magistrati). È così affermata per tale A. la diversità della responsabilità civile del magistrato, in
sede di rivalsa, rispetto alle forme di responsabilità professionale.
27
È facile prevedere, quindi, per gli Autori, che la Presidenza del Consiglio eserciterà sempre l’azione di rivalsa, salvo poi
verificare nel processo se la colpa grave del magistrato era connotata anche da negligenza inescusabile (es. applicazione di una
norma non più in vigore da molto tempo).
28
Nei presupposti dell’azione di rivalsa tale ipotesi di colpa grave non è espressamente richiamata, per cui – secondo gli Autori – rimane il dubbio se si deve escludere per lo Stato la possibilità di agire in rivalsa in questi casi, oppure se essa rientra
nell’ipotesi più generale della violazione manifesta del diritto.
29
E. Scoditti, Quale responsabilità civile del magistrato dopo la legge n. 18 del 2015, cit., cui si devono anche le riflessioni del presente paragrafo.
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lità civile dei magistrati della violazione del diritto euro-unitario ha sottoposto quest’ultima fattispecie,
strutturalmente caratterizzantesi come illecito dello Stato, allo stesso trattamento dell’illecito giudiziario. La contraddizione – come bene evidenzia la voce dottrinale – viene risolta mediante la subordinazione dell’azione di rivalsa alla presenza di dolo o negligenza inescusabile, che consente di ricondurre
ad illecito giudiziario l’illecito dello Stato. Allo stesso tempo, tuttavia, si è avuto un effetto di propagazione delle caratteristiche dell’illecito euro-unitario. L’art. 2, comma 3-bis, richiama, ai fini della valutazione di violazione manifesta della legge, nonché del diritto dell’Unione europea, i parametri forniti
dalla giurisprudenza euro-unitaria, e cioè il grado di chiarezza e precisione delle norme violate e
l’inescusabilità e gravità dell’inosservanza (per la violazione manifesta del diritto dell’Unione si deve
tener conto anche della mancata osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale e del contrasto con la
giurisprudenza euro-unitaria).
Ciò che è certo, però, come condivisibilmente sostenuto da tale Autore, è che i criteri euro-unitari,
concepiti in relazione all’illecito dello Stato, non possono non risentire, una volta spostati sul piano della responsabilità civile per violazione manifesta del diritto interno, delle caratteristiche dell’illecito giudiziario, e cioè essenzialmente l’inconfigurabilità della responsabilità per l’attività di interpretazione di
norme di diritto, sancita dal secondo comma dell’art. 2. Si tratta, come è stato giustamente sottolineato
da tale dottrina, di salvaguardare quel bilanciamento fra il principio costituzionale di indipendenza
della magistratura (artt. 101, 104 e 108 Cost.) e quello di responsabilità (art. 28), che il vecchio art. 2 assicurava, soprattutto ora che è venuto meno il filtro caratterizzato dalla disciplina dell’ammissibilità della
domanda (art. 5). Finora “grave violazione di legge” era sempre stato inteso in relazione a “negligenza
inescusabile”, e dunque come violazione non spiegabile, senza agganci con le particolarità della vicenda atti a rendere comprensibile (anche se non giustificato) l’errore del giudice 30. Una volta che si sia
espunto il limite della negligenza inescusabile, resta cioè da chiarire come possa la “violazione manifesta della legge” essere tenuta separata dal campo dell’interpretazione. I criteri euro-unitari danno contenuto alla nozione di colpa grave, permettono di valutare se la violazione sia “manifesta”, ma non definiscono il concetto di violazione del diritto nazionale. Orbene, l’Autore, con un’acuta osservazione,
sostiene che “violazione manifesta della legge” riguarda la disposizione, non la norma, e corrisponde
all’inosservanza del significato linguistico della disposizione. Non è attività interpretativa in senso proprio, ma percezione della portata semantica della disposizione. Si potrebbe parlare, si osserva, di travisamento linguistico. Per valutare se l’elusione dell’enunciato linguistico sia manifesta, risponda cioè a
colpa grave, deve valutarsi il grado di chiarezza e precisione della disposizione e l’inescusabilità e gravità dell’inosservanza. Mentre il senso linguistico della disposizione è il riferimento della violazione
manifesta della legge, per quanto riguarda la violazione manifesta del diritto dell’Unione europea bisogna rifarsi ai modi in cui la giurisprudenza euro-unitaria ha configurato l’illecito dello Stato, e dunque
a un parametro che eccede la mera portata linguistica della disposizione, e ascende ad un piano più
schiettamente normativo, e quindi interpretativo. L’art. 2 della disciplina della responsabilità civile dei
magistrati deve infatti essere interpretato in modo conforme alla sentenza della Corte di giustizia che
ha sancito l’inadempienza dell’Italia agli obblighi euro-unitari. Lucidamente, l’autorevole voce dottrinale sottolinea che potrebbe dirsi che, mentre “violazione manifesta della legge” va interpretato in modo conforme alla Costituzione, “violazione manifesta del diritto dell’Unione europea” va interpretato in
modo conforme al dictum sovranazionale.
IN PARTICOLARE, IL TRAVISAMENTO DEL FATTO E DELLE PROVE
La distinzione fra “valutazione” e “travisamento” delle prove è più agevole. Il nuovo codice di procedura penale, a differenza del passato 31, vieta la deducibilità davanti alla Corte di Cassazione del vizio
30
Cass. Civ., sez. III, 18 marzo 2008, n. 7272, in CED Cass., n. 602216; Cass. Civ., sez. III, 26 maggio 2011, n. 11593, in CED
Cass., n. 617306.
31
Com’è noto, infatti, in base al combinato disposto degli artt. 474, comma 1, n. 4 e 475 comma 3, c.p.p. 1930, si riteneva che
il vizio del travisamento del fatto, per essere deducibile in Cassazione, doveva consistere in una deviazione assoluta, percepibile
ictu oculi, tra le emergenze del processo e la ricostruzione del fatto operata dal giudice, nel senso che il fatto, preso in considerazione e ritenuto, non dovesse trovare un corrispondente riferimento negli atti del processo e dovesse apparire come una ricostruzione diversa da quella effettiva, oppure carente di elementi decisivi per la definizione giuridica del fatto stesso, laddove,
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di travisamento del fatto giacché è preclusa la possibilità per il giudice di legittimità di sovrapporre la
propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito. Mentre è consentito, (art. 606 lett. e) c.p.p.), dedurre il "travisamento della prova", che ricorre nei casi in cui
si sostiene che il giudice di merito abbia fondato il suo convincimento su una prova che non esiste o su
un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale. In quest’ultimo caso, infatti, non si
tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione, ma di
verificare se questi elementi esistano 32.
La giurisprudenza sull’art. 606, lett. e), c.p.p. ha ben chiarito che il travisamento della prova non tocca il livello della valutazione, ma si arresta alla fase antecedente dell’errata percezione di quanto riportato dall’atto istruttorio 33. È errore sul significante, che si traduce nell’utilizzo di un risultato di prova
inesistente (o incontestabilmente diverso da quella reale), e non sul significato della prova. In coerenza
a quanto rilevato a proposito della violazione manifesta di legge, la dottrina 34 efficacemente afferma
che si può affermare che, manifestandosi anche le prove in enunciati linguistici, il travisamento concerna il misconoscimento dei dati linguistici, e dunque il livello percettivo che precede la valutazione.
Quest’ultima interviene in una fase successiva, quando, delimitato il campo semantico, si aprono le diverse opzioni valutative. Quando poi il misconoscimento dei dati linguistici è determinato da negligenza inescusabile (a parte il caso del dolo) si aprono le porte per l’azione di rivalsa.
Assai più complesso, per l’Autore, è il profilo del travisamento del fatto. Il punto critico risiede nella
dissociazione della nozione di travisamento del fatto da quella di affermazione, o negazione, del fatto
contrastata dagli atti del procedimento, con cui tradizionalmente veniva identificata, e nella necessità
quindi di identificare per il travisamento uno spazio fra la valutazione del fatto e l’affermazione, o negazione, del fatto contrastata dagli atti. Il riferimento nell’art. 7 in materia di rivalsa al solo travisamento del fatto (e delle prove), e non anche all’affermazione, o negazione, del fatto contrastata dagli atti del
procedimento, tradisce la difficoltà di rinvenire una differenza fra le due ipotesi. Che le nozioni convergano trova conferma nell’art. 2, d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, sugli illeciti disciplinari nell’esercizio
delle funzioni giudiziarie, che contiene il riferimento solo al “travisamento dei fatti determinato da negligenza inescusabile”.
In sede responsabilità civile, prosegue l’Autore, si è distinto fra travisamento e affermazione, o negazione, contrastata dagli atti del procedimento, e si è spezzato il collegamento con la negligenza inescusabile, ma in tal modo la ricaduta nell’attività di valutazione del fatto è inevitabile (peraltro il “sistema” della l. n. 18/2015, che contempla il requisito soggettivo della negligenza inescusabile solo in
sede di azione di rivalsa, cadrebbe in contraddizione se consentisse di vincolare in sede di responsabilità civile alla negligenza inescusabile solo l’ipotesi del travisamento del fatto e non anche le altre ipotesi
di responsabilità). L’area della percezione risulta così tutta occupata dall’affermazione, o negazione, del
fatto contrastata dagli atti, e non resta che la zona (successiva alla percezione) della valutazione.
Non può dubitarsi – ed in questo si conviene del tutto con le considerazioni espresse dall’autorevole
voce dottrinale – che lo sdoppiamento che l’art. 2, comma 3, ha stabilito fra travisamento del fatto e affermazione, o negazione, del fatto contrastata dagli atti del procedimento, incrina in modo serio il bilanciamento fra il principio costituzionale di indipendenza della magistratura e quello di responsabilità
perché invade il campo della valutazione del fatto, istituzionalmente affidato al libero convincimento
quando il preteso travisamento era fondato sulla valutazione che il giudice di merito aveva fatto delle prove, esso si risolveva in
un difetto di motivazione (v., tra le tante: Cass., sez. I, 18 febbraio 1977, Mercuri, in CED Cass., n. 135365).
32
V. tra le tante: Cass., sez. IV, 6 febbraio 2007, n. 4675, in Cass. pen., 2009, p. 2837, con nota di E. Di Salvo, Esposizione a sostanze nocive, leggi scientifiche e rapporto causale nella pronuncia della Cassazione sul caso "Porto Marghera”.
33
A conclusioni analoghe è pervenuta la giurisprudenza civilistica. Il codice di procedura civile conosce l’errore di fatto, che
legittima la revocazione della sentenza “quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente
esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita” sempre che il fatto “non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare” (art. 395, n. 4, c.p.c.). È indubbio, però, che, anche alla giurisprudenza civilistica, è estraneo al vizio di “travisamento del fatto” il momento valutativo della prova, che appartiene al sovrano apprezzamento dei giudici del merito, e che non può essere sindacato quando esso sia adeguatamente motivato e scevro da vizi logici e da
errori di diritto (tra le tante: Cass. civ., sez. I, 7 maggio 1963, n. 1129, in CED Cass., n. 261648), così come non integra “travisamento del fatto” l’errore di giudizio (Cass. civ., sez. VI-III, ord. 20 febbraio 2014, n. 4118, in CED Cass., n. 630326) o di valutazione e interpretazione degli atti processuali (Cass. civ., sez. un., ord. 28 maggio 2013, n. 13181, in CED Cass., n. 626608).
34
E. Scoditti, Quale responsabilità civile del magistrato dopo la legge n. 18 del 2015, op. cit., cui si devono anche le riflessioni del
presente paragrafo.
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del giudice. Se la norma avesse parlato solo di travisamento del fatto, e non anche della prova, si sarebbe potuto, in chiave di interpretazione adeguatrice, intendere il fatto così come si presenta nel processo,
e cioè nei limiti della prova, e intendere travisamento del fatto come misconoscimento del dato linguistico mediante cui la prova si manifesta. La presenza anche del travisamento della prova impedisce una
simile interpretazione. Ed allora illuminante è la riflessione conclusiva dell’Autore che, con la consueta
lucidità espositiva, conclude affermando che “quando il senso linguistico della disposizione non consente altre vie, e tale ci sembra il caso del travisamento del fatto, vuol dire che è l’ora del sindacato di
legittimità costituzionale”.
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Sinora la responsabilità civile dei giudici era stata disciplinata dalla l. n. 117/1988, oggetto di ogni e più
feroce contestazione per la sua scarsa incisività di tutela degli interessati e per asimmetria negativa con
gli obbiettivi del referendum abrogativo del 1987 sugli artt. 55, 56 e 74 c.p.c.
In verità, dal punto di vista giuridico-costituzionale, la l. n. 117/88 era stata considerata pienamente
legittima dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 18/1989 (nel solco maestro aperto dalla sentenza
n. 2/1968); pure la recentissima sentenza n. 117/2012 non porta nulla di nuovo al riguardo, anche se
l’ordinanza di rimessione ne aveva dato alla Corte costituzionale l’occasione 35.
La sentenza n. 18/1989, oltre a ribadire il principio che l’indipendenza dei magistrati è volta a garantire l’imparzialità del giudice, precisò che la garanzia di indipendenza dei giudici mira anche a tutelare
l’autonomia di interpretazione delle norme di diritto e l’autonomia di valutazione dei fatti e delle prove. Correttamente, dunque, concluse la Corte, il legislatore del 1988 ha escluso a tale riguardo ogni responsabilità.
Le affermazioni della sentenza n. 18/1989 – nonostante le modifiche apportate dalla l. n. 18/2015,
rimangono tuttora attuali, cogliendo i caratteri essenziali dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, a presidio non tanto dell’ordine giudiziario, quanto della tutela dei diritti fondamentali delle
persone.
Certo si poneva il problema di coordinare le conclusioni della Consulta con gli arresti del Giudice
comunitario. È evidente la differenza delle conclusioni della Corte di giustizia rispetto a quelle raggiunte dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n. 18/1989. Sorgeva dunque un serio problema di
possibili “controlimiti” al primato del diritto europeo per la tutela di principi fondamentali dell’ordinamento nazionale 36.
Ma il legislatore del 2015 non pare essersi occupato di tale questione, che avrebbe richiesto ben altra
attenzione. Ha, invece, preferito la via della riforma della responsabilità civile “dei giudici”, così esorbitando da quanto era richiesto dallo stesso giudice euro-unitario che, anzi, con riferimento all’attività
giurisdizionale, aveva tenuto a precisare non solo che la responsabilità "comunitaria" non è personale
dei giudici, ma dello Stato, ma anche, e soprattutto, che nei casi configurabili (solo quelli, si badi bene,
di violazione in maniera manifesta del diritto europeo, casi espressamente considerati come "eccezionali"), la possibilità di configurare, a talune speciali condizioni, la responsabilità dello Stato per decisioni
giurisdizionali incompatibili con il diritto comunitario non possa comportare rischi particolari per
l’indipendenza degli organi giurisdizionali 37.
35
Il caso riguardava la competenza funzionale della Corte di appello per i procedimenti di riparazione per violazione del
termine ragionevole del processo, estesa dalla giurisprudenza della Cassazione anche ai ritardi irragionevoli dei giudici amministrativi e contabili. Il giudice rimettente aveva richiamato anche la possibile violazione dell’art. 24 Cost., in quanto il principio
di imparzialità e terzietà del giudice sarebbe garantito dall’appartenenza dei giudici controllori e controllati ad ordini giurisdizionali diversi. Ma la Corte costituzionale ha risolto il problema in altro modo, affermando che la disciplina contestata rappresenta una mera razionalizzazione del riparto, con un giudizio semplificato in cui non emerge alcuna compressione della tutela
giurisdizionale costituzionalmente garantita.
36
Appena un paio di anni or sono, del resto, un’autorevole voce dottrinale aveva evidenziato che “si è di fronte ad un vero
contrasto di posizioni su temi cruciali; così che per una volta si pone davvero il problema dei "controlimiti", tante volte invocati
a sproposito” (M.P. Chiti, La responsabilità civile dei giudici quale "cavallo di troia" per modificare il riparto della giurisdizione?, in
Giornale dir. amm., 2012, 10, p. 1008).
37
Così è stato considerato per la posizione degli organi giurisdizionali di ultimo grado, di cui si trattava nella sentenza Koebler del 2003 (30 settembre 2003, causa C-224/01).
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A parte questi rilievi critici, le statuizioni giurisprudenziali e le motivazioni addotte nelle recenti
sentenze del giudice dell’Unione sono univoche nel chiarire che: a) viola il diritto dell’Unione una norma, come quella contenuta nella l. n. 117/1988, che limita la responsabilità per attività degli organi giurisdizionali ai soli casi di dolo e colpa grave; b) la responsabilità civile per violazione del diritto
dell’Unione da parte dei giudici è responsabilità che fa capo solo allo Stato, unitariamente inteso, e non
ai singoli magistrati; c) la disciplina dell’eventuale rivalsa dello Stato nei confronti del giudice che concretamente ha violato il diritto dell’Unione è competenza degli Stati membri, in quanto al momento non
sussiste alcuna base giuridica per interventi dell’Unione a tal fine.
Ed allora, può convenirsi con le lucide osservazioni di chi 38 correttamente osservava, in periodo non
sospetto, che “un’attuazione non strumentale della sentenza 24 novembre 2011 (e dei principi precedentemente posti dalla Corte) avrebbe dovuto riguardare solo l’estensione in modo espresso della responsabilità dello Stato alla violazione grave e manifesta del diritto dell’Unione europea”, laddove era
da rifuggire la proposta per una modifica sostanziale della disciplina della responsabilità civile dei giudici (in talune formulazioni, addirittura, con una loro diretta responsabilità), in quanto del tutto priva
di legittimazione comunitaria, rimanendo pura questione interna, che avrebbe richiesto una seria valutazione di compatibilità costituzionale.
Purtroppo, però, dobbiamo registrare che ciò non è avvenuto, con il risultato che la l. n. 18/2015 infligge un vero e proprio vulnus all’autonomia e all’indipendenza della magistratura, purtroppo vista
come “un privilegio di casta” e non – come invece avrebbe dovuto esserlo –imprescindibile garanzia
posta a presidio non tanto e non solo dell’Ordine giudiziario, quanto, piuttosto e soprattutto, della tutela dei diritti fondamentali delle persone.
38
M.P. Chiti, La responsabilità civile dei giudici quale "cavallo di troia" per modificare il riparto della giurisdizione?, cit.
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Analisi e prospettive
Analysis and Prospects
ANALISI E PROSPETTIVE | NE BIS IN IDEM E MARKET ABUSE: QUALI PROSPETTIVE
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STEFANIA RICCIO
Magistrato – Tribunale Napoli
Ne bis in idem e market abuse:
quali prospettive (aspettando la Consulta)
Ne bis in idem and market abuse:
the prospects (waiting for the decision of the Consulta)
Il focus sul tema del ne bis in idem in rapporto alla disciplina positiva degli abusi del mercato finanziario. La Suprema Corte, rimettendo gli atti alla Consulta, prefigura due alternative soluzioni dei profili di contrasto tra la normativa interna e quella sovranazionale, da valere quale parametro costituzionale interposto rispetto all’art. 117
Cost.. Valorizzato nella sentenza Grande Stevens nella sua dimensione di garanzia eminentemente processuale, il
divieto del ne bis impone altresì l’adozione di adeguati meccanismi di raccordo tra pene e sanzioni amministrative
nei casi di c.d. “doppio binario” sanzionatorio. La prospettiva assiologica da ultimo assunta dalla Corte di cassazione, alla ricerca di un ragionevole punto di equilibrio tra diritti individuali e tutela del risparmio, fattore decisivo di
impulso dell’economia, indica un percorso possibile.
In controluce i nodi irrisolti del rapporto tra diritto interno e fonti sovranazionali.
The focus on the issue of ne bis in idem related to discipline of market abuse. The Supreme Court, putting the
case to the Consulta, prefigures two alternative solutions of contrast between the inner and supranational law, to
assert that constitutional principle interposed than art. 117 Cost.. You will see how, in the judgment Grande Stevens valued in its dimension of warranty eminently case, the prohibition of ne bis in idem requires appropriate
mechanisms for reconciliation between penalties and administrative sanctions in cases of c.d. "Dual track" of
sanctions. The prospect of value recently taken by the Supreme Court, seeking a reasonable balance between individual rights and the protection of savings, decisive impulse of economy, indicates a possible path.
PREMESSA
Con una recente ordinanza 1 la Corte di cassazione ha investito la Consulta del tema del ne bis in idem
con specifico riferimento alla disciplina sanzionatoria del market abuse, così come delineata nel d.lgs. 24
febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria).
Un’istanza diffusa quella di cui si è fatta carico la Corte Suprema, dopo l’onda d’urto prodotta dalla
sentenza Grande Stevens c. Italia 2 su un tema decisamente “sensibile”, perché afferente alla tutela delle
garanzie che spettano all’individuo nel processo penale.
Ritenuto un presidio di ordine pubblico funzionale alla certezza delle situazioni giuridiche accertate
da una decisione irrevocabile, il principio del ne bis in idem ha visto via via dilatarsi il proprio spazio
applicativo. Nell’orbita dell’art. 649 c.p.p., che ne costituisce il punto di emersione più significativo nel
diritto interno, sono state così attratte le ipotesi di litispendenza e continenza di procedimenti pendenti
innanzi ad uffici della stessa sede giudiziaria 3, le quali appartengono anch’esse alla “patologia” del
1
Cass., sez. V, 10 novembre 2014, n. 1782, in Dir. pen. proc., 2015, 3, p. 284.
2
Cfr. Corte e.d.u., II sez., 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia.
3
Cfr. Cass., sez. un., 28 giugno 2005, n. 34655, in Arch. n. proc. pen., 2005, p. 669, a tenore della quale «In applicazione della pre-
ANALISI E PROSPETTIVE | NE BIS IN IDEM E MARKET ABUSE: QUALI PROSPETTIVE
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processo ma prescindono dal giudicato, e ciò in sintonia con le esigenze di razionalità connaturate al
sistema, alle quali sono parimenti ispirate la disciplina regolativa dei conflitti di competenza di cui
all’art. 28 c.p.p. e la norma inerente il concorso di più titoli giudiziali di cui all’art. 669 c.p.p..
Ma è soprattutto quale «espressione di un diritto civile e politico dell’individuo, sancito a tutela
dell’interesse della persona, già prosciolta o condannata, a non essere nuovamente perseguita» 4 che il
divieto di un secondo giudizio ha assunto connotazioni sempre più inedite e catalizza l’attenzione della
dottrina e della giurisprudenza per le sue rilevanti implicazioni. Le quali, come vedremo, si apprezzano
in primis sul piano del diritto interno, stante l’ineludibile necessità, sancita dalla Corte di Strasburgo in
Grande Stevens, di evitare la duplicazione di procedimenti sulla medesima regiudicanda, ma anche di
prevedere adeguati meccanismi di raccordo tra sanzioni penali ed amministrative nei casi di c.d. “doppio binario” sanzionatorio, ossia di convergenza di sanzioni in relazione al medesimo fatto; ed investono altresì il rapporto tra fonti sovranazionali – che evolvono progressivamente in diritto giurisprudenziale, in cui sono le Corti Superiori a specificare i contenuti degli scarni enunciati linguistici degli atti
normativi sovranazionali 5 – e diritto interno.
Un rapporto, va detto, reso oggi più complesso dalla recentissima pronuncia della Corte costituzionale
in tema di confisca urbanistica 6, la quale, nel confermare la struttura piramidale della gerarchia delle fonti, così come dalla stessa enunciate nelle sentenze “gemelle” n. 348 e n. 349 del 2007, e pur senza rinnegare
il canone “aureo” della maggiore espansione delle tutele, che deve orientare l’interazione tra gli ordinamenti, ha introdotto, tuttavia, qualche elemento di incertezza rispetto ai pregressi equilibri.
IL CASO GRANDE STEVENS
La questione oggi rimessa alla Consulta ha dunque la sua scaturigine nell’orientamento espresso dalla
Corte e.d.u. a partire dalla sentenza Grande Stevens c. Italia.
Come si ricorderà, nella vicenda era stata ritenuta integrativa di un duplice illecito, amministrativo e
penale, la condotta consistita nella diffusione da parte delle società Exor s.p.a. e Giovanni Agnelli s.p.a.,
detentrici di quote di controllo di FIAT s.p.a., di un comunicato stampa informativo nel quale, dovendo
i vertici aziendali riferire, su richiesta della Consob, in ordine a fatti che fossero suscettibili di incidere
sulle fluttuazioni del marcato borsistico, era stato omesso ogni riferimento alle iniziative assunte al fine
di rinegoziare un contratto di prestito bancario convertibile, le cui pattuizioni avrebbero consentito alle
banche creditrici di acquisire, alla scadenza – ormai imminente – del rapporto, una quota di maggioranza del capitale FIAT s.p.a.. Ciò, sebbene alla data di pubblicazione del comunicato fosse già stato definito da Exor s.p.a. un piano di rinegoziazione di un contratto derivato di equity swap con la banca inglese Merril Lynch International Ltd., che non solo le avrebbe consentito – come poi era stato – di mantenere inalterata la propria quota di partecipazione pur a seguito del disposto aumento di capitale, ma
altresì di eludere l’obbligo di lanciare un’offerta pubblica di acquisto al fine di riacquisire il controllo
della società.
clusione fondata sul principio generale del ne bis in idem, le situazioni di litispendenza non riconducibili nell’ambito dei conflitti di competenza di cui all’art. 28 c.p.p., ossia le situazioni di contestuale pendenza di due processi che abbiano ad oggetto il medesimo fatto attribuito
alla stessa persona, instaurati ad iniziativa dello stesso Ufficio del Pubblico Ministero e devoluti, anche se in fasi o gradi diversi, alla cognizione della stessa autorità giudiziaria, devono essere risolte dichiarando nel secondo processo, pur in mancanza di una decisione irrevocabile,
l’impromovibilità dell’azione penale». La categoria della preclusione – consumazione, dunque, che è la matrice del divieto del ne bis
in idem, offre la chiave per risolvere la questione relativa alla applicabilità del divieto alle situazioni di litispendenza, in fasi o in
gradi diversi, di procedimenti dinanzi ad uffici della stessa sede giudiziaria, sicché l’ufficio del Pubblico Ministero che ha esercitato l’azione penale in relazione ad una determinata imputazione ha definitivamente consunto il potere di azione di cui è titolare, e l’azione penale non sarà reiterabile, se non nei casi previsti dalla legge, ad opera del medesimo ufficio della pubblica accusa.
4
Sulla ratio composita del principio si veda ancora Cass., sez. un., 28 giugno 2005, n. 34655, cit..
5
In termini M. Bignami, Le gemelle crescono in salute; la confisca urbanistica tra Costituzione, CEDU e diritto vivente, in Dir. pen.
contemp., 30 marzo 2015.
6
V. C. cost., sent. 26 marzo 2015, n. 49, in www.dirittoegiustizia.it, 2 aprile 2015, che ha dichiarato l’inammissibilità della questione posta al suo vaglio dalla Corte di cassazione, inerente la confisca conseguente a lottizzazione abusiva di cui all’art. 44,
comma 2, del d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380, così come interpretata alla luce della sentenza della Corte e.d.u, 29 ottobre 2013, Varvara c. Italia.
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Specificamente, la violazione del principio del ne bis in idem, riconosciuto dall’art. 4 del protocollo n.
7 della Convenzione 7 venne ritenuta dalla Corte europea in relazione alla condanna pronunciata nei
confronti dei responsabili della diffusione di quel comunicato informativo per il reato di manipolazione
del mercato di cui all’art. 185,d.lgs. n. 58/1998, intervenuta dopo che la Consob aveva irrogato, ed erano divenute definitive per essere stati infruttuosamente esauriti i previsti gravami, le severe sanzioni
pecuniarie ed interdittive comminate dall’art. 187 ter del medesimo T.U.F.
I CONTENUTI DI RILIEVO TRAIBILI DALLA PRONUNCIA DELLA CORTE E.D.U.
I contenuti rilevanti della suddetta pronuncia in rapporto al tema di interesse sono riassumibili come di
seguito.
a) Anzitutto, la Corte europea ha sancito che presupposto logico-giuridico dell’operatività del ne bis
in idem convenzionale sia l’identità del fatto oggetto degli addebiti, nozione che, in linea con un proprio
orientamento consolidato 8, ha individuato nella identità della condotta, apprezzata nella sua dimensione storico-naturalistica, ribadendo come ai detti fini debba invece prescindersi dall’astratta comparazione tra le fattispecie normative che prevedono gli illeciti e dalla coincidenza dei relativi requisiti di
struttura 9. Nello specifico sussisteva tale identità quanto al fatto – consistito, in entrambi gli addebiti,
nella diffusione del comunicato stampa ideologicamente falso – malgrado i contorni normativi del reato
di manipolazione del mercato, previsto dall’art. 185 d.lgs. n. 58/1998 (come modificato dalla l. 18 aprile
2005, n. 62) e dell’omologo illecito amministrativo di cui all’art. 187-ter d.lgs. cit. non fossero affatto sovrapponibili, differenziandosi il primo, sotto il profilo strutturale, per il carattere truffaldino o artificioso della condotta, nonché per la sua idoneità a concretizzare una sensibile alterazione del prezzo di
strumenti finanziari, e per l’elemento soggettivo doloso.
La nozione di “stesso fatto” che promana dalla Corte e.d.u. appare, dunque, tutta incentrata sul profilo materiale della condotta, da verificarsi in concreto, e questo costituisce un primo profilo di diversione rispetto alla nozione – più restrittiva – accolta dalla giurisprudenza nazionale, secondo la quale, ai
fini della preclusione connessa al divieto di un secondo giudizio, prevista dall’art. 649 c.p.p., l’identità
sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del fatto di reato riguardato in tutti i suoi elementi costitutivi, comprensivi di condotta (nelle coordinate di tempo, di luogo e di persona in cui si è dispiegata), ma anche di evento e nesso causale 10.
b) Nel valutare la ricevibilità del ricorso in rapporto all’ulteriore violazione dedotta dai ricorrenti, relativa al diritto ad un processo equo ai sensi dell’art. 6 par. 1 Cedu 11 – garanzia che presuppone
l’esistenza di «un’accusa in materia penale» – la Corte ha ravvisato la natura sostanzialmente penale
della sanzione che era stata applicata dalla Consob, e ciò alla stregua dei parametri come dalla stessa
Corte declinati a partire dalla risalente sentenza Engel 12, e segnatamente: a) la qualificazione giuridica
7
La disposizione in commento recita: «1. Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato
per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di
tale Stato. 2. Le disposizioni del paragrafo precedente non impediscono la riapertura del processo, conformemente alla legge e alla procedura penale dello Stato interessato, se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni o un vizio fondamentale nella procedura antecedente sono in grado di inficiare
la sentenza intervenuta. 3. Non è autorizzata alcuna deroga al presente articolo ai sensi dell’articolo 15 della Convenzione.».
8
Corte e.d.u., 10 febbraio 2009, Serguei Zolotoukhine c. Russia.
9
In tal senso, Cass., sez. IV, 3 maggio 2006, n. 15199, in Giur. it., 2007, 8-9, p. 2042.
10
Cass., sez. un., 28 giugno 2005, n. 34665, cit.; Cass., sez. II, 27 maggio 2010, n. 26251, in Cass. pen., 2011, 5, p. 1845; Cass.,
sez. II, 4 dicembre 2013, n. 292, in CED Cass. n. 257993.
11
Violazione anch’essa ritenuta sussistente, ma in relazione alla mancata celebrazione di un’udienza pubblica che permettesse un adeguato confronto dialettico tra le parti, id est un contraddittorio non meramente cartolare, e non anche per la natura
non imparziale in senso oggettivo del soggetto che aveva irrogato la sanzione, e ciò perché, pur apparendo fondati i rilievi in
ordine alla alterità solo formale, in seno alla Consob, tra gli uffici ispettivi che avevano condotto l’istruttoria (l’Ufficio insider
trading e l’Ufficio sanzioni amministrative) e la commissione che aveva applicato la misura, siccome costituenti articolazioni dello stesso organo amministrativo indipendente, agente sotto l’autorità e la supervisione di un unico presidente, il successivo ricorso in opposizione avverso la sanzione stessa era stato deciso da un organo giurisdizionale, dotato dei necessari requisiti di
imparzialità ed indipendenza.
12
Cfr. Corte e.d.u., 8 giugno 1976, Engel c. Paesi Bassi; Corte e.d.u., 8 luglio 1999, Hüls c. Commissione; Corte e.d.u., 21 febbraio 1984, Öztürk c. Germania; nonché Corte e.d.u., 25 agosto 1987, Lutz c. Germania.
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della misura; b) la natura di essa; c) il grado di severità della sanzione astrattamente prevista. Sul presupposto che si tratti di criteri tra loro alternativi e non cumulativi, doveva dunque prescindersi nella
specie dall’“etichetta” formale, che orientava per la qualificazione della misura in termini di sanzione
amministrativa, e valorizzarsi il suo contenuto intensamente afflittivo, in ragione del quale essa poteva
dirsi sanzione “intrinsecamente” penale.
Rispetto alle premesse argomentative della decisione, in cui sembrava essere in discussione l’assetto
positivo del “doppio binario” sanzionatorio, là dove permette una doppia “punizione” per lo stesso fatto, un profilo di distonia sembra emergere dalla successiva puntualizzazione che l’art. 4, Prot. n. 7, opererebbe – secondo la Corte – su un piano squisitamente processuale, entrando in gioco «quando si avvia
un nuovo procedimento e la precedente decisione, di condanna o di assoluzione, sia già passata in giudicato, giacché la norma convenzionale enuncia una garanzia contro nuovi procedimenti, non il divieto di
una seconda condanna o di una seconda assoluzione».
In altri termini, la garanzia che la Corte e.d.u. assume sia stata lesa viene configurata come diritto a
non essere perseguiti e sottoposti ad un nuovo giudizio, e sembra attenere ai procedimenti applicativi
delle sanzioni, più che ai relativi esiti; sicché parrebbe legittimo chiedersi se questa impostazione non
denoti una sorta di “deriva processualistica”, dove il focus è sul processo e sulla capacità di "resistenza"
del modello italiano alle censure delle Corti sovranazionali, che è poi la pre-condizione per la costruzione di uno spazio giuridico europeo, postulando la cooperazione internazionale nel settore penale
una più decisa armonizzazione delle garanzie tra gli Stati membri.
Tuttavia, si vedrà di qui a poco come ai fini dell’adeguamento del diritto interno ai principi enunciati da Grande Stevens, i piani del diritto processuale e del diritto penale finiscano col sovrapporsi ed interferire, a riprova della ratio composita dell’istituto del ne bis in idem.
Sarà la Corte di cassazione a porre in evidenza che il tema va impostato in una prospettiva assiologica, e che ogni soluzione al riguardo deve essere imperniata sul bilanciamento dei valori “antagonisti”.
L’ORDINANZA DI RIMESSIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE
In questa cornice si inserisce l’ordinanza, dall’ampio tessuto motivazionale e ricca di spunti interpretativi, indicata in premessa, con cui la Corte di cassazione ha prospettato, in ordine logico, una duplice
questione di legittimità Costituzionale: l’una relativa all’incipit dell’art. 187-bis, comma 1, del d.lgs. n.
58/1998, nella parte in cui fa «Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato» anziché prevedere una clausola di sussidiarietà del tenore «Salvo che il fatto costituisca reato»; l’altra, formulata in
linea rigorosamente subordinata, intesa a provocare una pronuncia additiva dei contenuti dell’art. 649
c.p.p., norma indiziata di illegittimità nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del
divieto di un secondo giudizio al caso in cui «l’imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto nell’ambito di un procedimento amministrativo per l’applicazione di una
sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della Convenzione per la salvaguardia dei
Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali e dei relativi protocolli».
In entrambe le questioni, quel che si assume violato è il parametro costituzionale di cui all’art. 117 –
secondo cui la potestà legislativa si esercita nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali – in rapporto al parametro interposto di cui all’art. 4 del Protocollo
n. 7 Cedu.
La premessa logica da cui la Corte muove è, anche nello specifico caso, l’univoca identità del fatto in
addebito innanzi a sé, riconducibile al paradigma normativo dell’art. 184, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 58
del 1998, rispetto a quello oramai definitivamente accertato nei confronti dello stesso ricorrente all’esito
del procedimento amministrativo, con l’inflizione di una sanzione ai sensi dell’art. 187 bis, d.lgs. cit. 13.
Per meglio intendere gli aspetti focali della questione, va detto che anche in tal caso in entrambi i
giudizi era stata contestata la medesima condotta di abuso di informazioni privilegiate posta in essere
dal ricorrente, analista finanziario presso Citigroup Global Markets Ltd., mediante la comunicazione
degli esiti di una ricerca finanziaria disposta da Citigroup (contenente una raccomandazione “buy” e un
13
Consistita nella sanzione pecuniaria di € 350.000,00, e nella sanzione accessoria ex art. 187 quater, comma 1, TUF per la durata di dodici mesi.
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“target price” delle azioni Italease, quotate su MTA di Milano, sensibilmente superiore a quello di mercato) ad altri operatori borsistici, al di fuori dell’esercizio dell’attività professionale ed in violazione delle regole di riservatezza.
LE IMPLICAZIONI CHE DERIVANO DALL’ACCOGLIMENTO DELL’UNA O DELL’ALTRA SOLUZIONE
Così ricostruiti i termini fattuali della questione, mette conto osservare come la normativa del Testo
unico di intermediazione finanziaria, con specifico riguardo agli abusi del mercato, sia imperniata sul
cumulo punitivo – come si evince dall’inciso iniziale dell’art. 187-bis, innanzi richiamato – ma anche
sulla previsione, come ipotesi fisiologica, del concorso di procedimenti accertativi, che devono procedere parallelamente benché in autonomia, vietando al riguardo l’art. 187-duodecies che si sospenda
l’accertamento amministrativo, nonché il successivo giudizio di opposizione di cui all’art. 187-septies,
per il fatto che sia pendente un procedimento penale vertente sui medesimi fatti o su fatti che, rispetto a
quelli in contestazione, rivestano carattere di pregiudizialità.
La normativa contiene, poi, una disposizione limitativa degli effetti del cumulo (art. 187-terdecies,) la
quale impone, qualora la sanzione amministrativa pecuniaria sia già stata applicata, che l’esazione della
pena pecuniaria avvenga per l’importo differenziale, e sia cioè limitata alla parte eccedente quella riscossa dall’Autorità amministrativa, in forza di un meccanismo compensativo che ha natura biunivoca,
potendo trovare applicazione – secondo un’opzione alla quale la Corte di cassazione mostra di aderire –
anche nell’ipotesi in cui la sequenza applicativa delle sanzioni risulti invertita.
Dunque, un nucleo di disposizioni che non solo promuovono la duplicità di procedimenti paralleli,
ma non risolvono in maniera appagante la questione del “cumulo di sanzioni”, sicché ben si comprende
perché la soluzione preferita dalla Corte rimettente sia una pronuncia che incida sulla disciplina regolativa del market abuse, armonizzandola alla garanzia convenzionale del ne bis in idem, inteso nella sua più
ampia accezione di divieto del doppio binario sanzionatorio 14.
Quanto all’intervento additivo sulla norma processuale di cui all’art. 649 c.p.p., esso viene prospettato dalla Corte di legittimità come meramente residuale.
Si tratterebbe, invero, di una soluzione per nulla convincente, anzitutto per ragioni di ordine sistemico.
Ed invero, premesso che, a legislazione invariata, non appare possibile una interpretazione adeguatrice della detta disposizione, tale da renderla convenzionalmente conforme, in quanto sia il secondo
comma dell’art. in discorso, che le correlate disposizioni di cui agli artt. 28, 54-bis e 669 c.p.p., postulano
la riferibilità dei più procedimenti, o delle plurime pronunce, alla sola autorità giudiziaria penale, la
modifica dell’art. 649 c.p.p., nei termini prospettati “ in subordine” dalla Corte di legittimità, potrebbe
avere ricadute aberranti sul piano applicativo.
Ed invero, fino a quando le “etichette” – per quanto “truffaldine” esse siano – non vengano modificate, non è dato ritenere che sanzioni penali e sanzioni amministrative siano tra loro “fungibili”, perché
tanto finirebbe con l’introdurre nel sistema un elemento di dirompente incertezza, in violazione del
principio di legalità di cui all’art. 25 Cost. (e della correlata funzione rieducativa della pena, sancita
dall’art. 27 Cost., la quale presuppone che l’agente possa rappresentarsi ex ante le conseguenze dei propri comportamenti e orienti gli stessi in funzione di quelle) e, non da ultimo, sul principio di eguaglianza sostanziale espresso dall’art. 3 Cost.
Da una data condotta potrebbe, difatti, alternativamente scaturire l’applicazione di una pena o di
una sanzione amministrativa, in ragione di un mero criterio di anteriorità cronologica, correlato ai tempi – non prevedibili ex ante – di definizione dei procedimenti accertativi, con il rischio di possibili disparità di trattamento tra soggetti concorrenti nella medesima condotta; il che non può essere consentito
perché pena e sanzione amministrativa sono e restano nell’ordinamento nazionale entità ontologicamente distinte, tanto nei presupposti quanto – e soprattutto – negli effetti.
Inutile dire, poi, che la pendenza in parallelo di due distinti procedimenti, fino alla definizione di
uno di essi – da cui conseguirebbe l’effetto preclusivo alla prosecuzione dell’altro – si risolverebbe in
una diseconomia di sistema, in contrasto con le istanze deflattive e di razionalizzazione che si impon-
14
In termini generali v. F. Mazzacuva, La materia penale e il doppio binario della Corte Europea; le garanzie al di là delle apparenze,
in Riv. dir. processuale pen., 2013, p. 1899.
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gono nella gestione delle risorse, oramai in tutti i settori ordinamentali.
Sotto altro aspetto si osserva che il divieto del “doppio binario” è stato affermato dalla Corte e.d.u.
in alcune pronunce recenti in tema di reati tributari, nelle quali si è riconosciuta la natura “intrinsecamente” penale delle sovrattasse, anche a prescindere dal loro importo e, dunque, dalla loro afflittività 15,
mentre è attestata su posizioni antitetiche la Corte di cassazione, la quale, in linea con precedenti arresti
delle Sezioni Unite, continua ad escludere che si configurino i presupposti applicativi del ne bis in idem
in ipotesi di concorso tra sanzioni amministrative e penali per la condotta di omesso versamento di ritenute fiscali, sul rilievo che il rapporto tra le fattispecie astrattamente considerate (l’art. 10-bis, d.lgs. 10
marzo 2000, n. 74 e l’art. 13, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471) prevedenti, rispettivamente, il reato e
l’illecito amministrativo, sia da ricostruire non in termini di specialità, bensì di progressione criminosa 16.
Ciò ulteriormente conferma che il tema del ne bis in idem ha assunto di recente, nelle decisioni di
Strasburgo, una più pregnante connotazione sostanziale e che occorre rivalutare il rapporto tra le sanzioni, nei casi di doppio binario sanzionatorio, onde contenere gli effetti del cumulo.
Secondo il percorso indicato dalla Suprema Corte, a tal fine non può non tenersi conto del contenuto
delle direttive adottate dall’Unione, le quali spingono per la positivizzazione di misure sanzionatorie
che, a prescindere dalla denominazione formale, rispondano a precisi canoni, e siano, specificamente,
effettive, proporzionali e dissuasive.
In questa prospettiva va considerato che la normativa in tema di intermediazione finanziaria è intesa
a preservare l’integrità dei mercati finanziari e la fiducia del pubblico nella sicurezza delle transazioni,
ossia, in definitiva, il risparmio, quale fattore primario di impulso dell’economia; sicché è proprio la
qualità delle esigenze pubblicistiche che vi sono sottese all’origine dell’incisiva e variegata protezione
che è stata apprestata dapprima nella direttiva n. 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio
del 28 gennaio 2003 17, espressamente emanata allo scopo di istituire dispositivi efficaci di repressione/prevenzione degli abusi di informazioni privilegiate e delle condotte manipolative del mercato 18.
Pur non avendo imposto un regime a “doppio binario”, detta direttiva lo ha almeno consentito, ed ha
previsto, quale paradigma di illecito, l’illecito amministrativo. In seguito, il Regolamento dell’Unione n.
596/2014 del Parlamento Europeo e del Consiglio, adottato il 16 aprile 2014, nel disporre l’abrogazione
della direttiva pregressa con effetto dal 3 luglio 2016, ha previsto a sua volta un criterio di tendenziale
sussidiarietà tra illeciti amministrativi e reati, i quali andranno introdotti dal legislatore degli Stati
membri, se non già previsti, per una serie di fattispecie. Mentre la direttiva ultima, la 2014/57/UE, correlata alla disciplina regolamentare, ha capovolto il rapporto tra reato ed illecito amministrativo, restituendo centralità al primo, laddove ha sancito che le condotte di insider trading, nei casi più gravi e connotati da dolo, devono in ogni caso essere perseguite penalmente.
In questo mutato quadro normativo, la modifica dell’art. 187-bis TUF ipotizzata dalla Corte, pur offrendo una soluzione al tema del ne bis in idem che è circoscritta alla specifica materia – mentre sarebbe
auspicabile che la tutela dei diritti fondamentali fosse sistemica e non frazionata in una serie di norme
15
La Corte e.d.u. ha ravvisato la violazione del divieto di bis in idem nella sentenza del 20 maggio 2014, Nykänen c. Finlandia, in un caso di omessa dichiarazione di dividendi in cui era stata applicata al ricorrente, a titolo di sanzione amministrativa,
la sovrattassa di € 1700,00, pur avendo lo stesso riportato condanna per il reato tributario di frode fiscale; e, da ultimo, nella sentenza del 27 gennaio 2015, Rinas c. Finlandia, sempre in relazione all’imposizione di sovrattasse ed alla condanna penale subite
dal ricorrente, il quale aveva omesso d’indicare i propri introiti all’interno di una dichiarazione dei redditi: condotte per le quali
erano stati instaurati autonomi procedimenti, divenuti definitivi indipendentemente l’uno dall’altro.
16
Cfr. al riguardo Cass., sez. III, 8 aprile 2014, n. 20266, in Riv. dir. tributario, 2014, 5, II, p. 66; ciò in adesione all’indirizzo
espresso da Cass., sez. un., 28 marzo 2013, n. 37425, in Cass. pen., 2014, 1, p. 38, e Cass., sez. un., 28 marzo 2013, n. 37424, in Riv.
dir. tributario, 2013, 11, III, p. 207.
17
Pubblicata nella Gazz. Uff. n. L 096 del 12 aprile 2003, pp. 16–25.
18
In tal senso si è espressa Corte giust. UE, 23 dicembre 2009, Spector Photo Group, evidenziando come l’articolo 14 della direttiva 2003/6 non imponga agli Stati membri di prevedere sanzioni penali a carico degli autori di condotte di abuso di informazioni privilegiate, ma si limiti ad enunciare che tali Stati sono tenuti a vigilare affinché siano applicate sanzioni amministrative nei confronti delle persone responsabili di una violazione delle disposizioni adottate in applicazione di tale direttiva. Essa ha
anche messo in guardia gli Stati sul fatto che tali sanzioni amministrative potevano, ai fini dell’applicazione della Convenzione,
essere qualificate come sanzioni penali. Inoltre, nella sentenza Åklagaren c. Hans Åkerberg Fransson, in materia di imposta sul valore aggiunto, la Corte giust. UE ha precisato che, in virtù del principio del ne bis in idem, uno Stato può imporre una doppia
sanzione (fiscale e penale) per gli stessi fatti solo a condizione che la prima sanzione non sia di natura penale.
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in potenziale conflitto 19 – appare essere l’opzione che meglio coniuga le esigenze di armonizzazione
della normativa di settore alla Carta e.d.u. e, nel contempo, ai contenuti della direttiva stessa.
Dunque, il merito della Corte di cassazione sta nell’aver riportato il tema in un’ottica valoriale, di
necessario bilanciamento degli interessi contrapposti che sottendono le garanzie processuali, da un lato,
e, dall’altro, le istanze di prevenzione e stigmatizzazione riferibili all’interesse collettivo della tutela del
risparmio, interesse che, per essere munito di copertura costituzionale, può qui operare quale “controlimite”.
Si impone, al riguardo, qualche ulteriore riflessione.
Alla programmata ridefinizione dell’assetto sanzionatorio, nella materia in discorso, occorrerà por
mano alla luce dei principi espressi nella sentenza Grande Stevens al fine di scongiurare il cd. doppio binario sanzionatorio; ma senza rinunciare alla maggior incisività di un’azione di contrasto all’illegalità
integrata o multilivello, che contemperi sanzioni anche tipologicamente distinte, e che ne moduli
l’impiego in rapporto alla dimensione lesiva delle condotte.
Se, difatti, il procedimento penale consente più ampie potenzialità rispetto a quello amministrativo,
sia sul piano investigativo (essendo consentito disporre attività intercettiva per l’accertamento dei reati
di abuso di informazioni privilegiate e di manipolazione di mercato, ai sensi dell’art. 266 c.p.p., così
come modificato dall’art. 9, l. 18 aprile 2005, n. 62), sia per la possibilità di adottare misure cautelari
personali e reali, anche finalizzate a garantire l’effetto utile di provvedimenti ablativi, sia, infine, per la
comminatoria di una pena che presenta, in quanto tale, un superiore effetto stigmatizzante, d’altro canto il pan–penalismo ha in sé il rischio di un deficit di effettività e, dunque, di dissuasività, perché la risposta sanzionatoria che consegue all’accertamento giurisdizionale del reato, troppo spesso intempestiva, rischia di essere vanificata del tutto dal meccanismo estintivo della prescrizione.
In un sistema processuale malato di ipertrofia, rispetto al quale trasversalmente si auspica che la
sanzione penale possa realmente rappresentare l’extrema ratio, un incremento delle ipotesi di reato non
sarebbe dunque una soluzione coerente, soprattutto se fosse disgiunto da una riforma strutturale del
processo penale, la quale dovrebbe prevedere, quantomeno, una modifica dell’attuale regime prescrizionale.
GLI SCENARI POSSIBILI
Da ultimo, giova evidenziare che, con la recente decisione n. 49 del 2015 20 in premessa evocata, la Corte
costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità sollevata in relazione alla confisca
urbanistica, riletta alla luce della sentenza Varvara c. Italia.
Assumendo che il parametro interposto fosse stato erroneamente individuato dalla Corte rimettente
nella norma di cui all’art. 44, d.p.r.. n. 380/2011, come interpretata dal diritto vivente della Corte e.d.u.
(piuttosto che nella legge di esecuzione e ratifica della Convenzione, che quella interpretazione permette), la Consulta ha tuttavia ribadito i principi già affermati a partire dalla sentenze “gemelle” del 2007,
secondo cui la Carta e.d.u., in quanto fonte di livello subcostituzionale, ancorché sovraordinata alla legge ordinaria, debba essere oggetto di interpretazione conforme ai valori costituzionali anzitutto; ma ha
anche puntualizzato che, fermo il predominio assiologico e culturale della Costituzione, il vincolo del
giudice domestico al diritto convenzionale vivente sussiste se ed in quanto si sia in presenza di un consolidato indirizzo interpretativo della Corte europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali,
espresso, ad esempio, in una sentenza c.d. “pilota”.
Ora, in difetto di più puntuali specificazioni, non è dato sapere che cosa debba intendersi per principio consolidato, nell’accezione sopra intesa, e vi è il dubbio sul se gli enunciati della sentenza Grande
Stevens, che è stata pronunciata da una sezione comune della Corte europea, ne siano realmente
l’espressione.
La decisione della Consulta, accolta da alcuni come espressione di «nazionalismo costituzionale» 21 e
19
Cfr. C. cost., sent. 28 novembre 2012, n. 264, in Riv. dir. internaz., 2013, 2, p. 616.
20
C. cost., sent. 26 marzo 2015, n. 49, cit.
21
Cfr. A. Ruggieri Fissati nuovi paletti dalla Consulta a riguardo del rilievo della CEDU in ambito interno, in Dir. pen. contemp., 2
aprile 2015, p. 3.
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di «un indirizzo teorico–ricostruttivo … nel senso … della ordinazione gerarchica delle Carte … e, in
buona sostanza, dell’esistenza di una gerarchia … tra le Corti» 22; da altri come «un diffuso monito contro un uso distorsivo dei precedenti e degli stessi principi della Corte Europea da parte dei giudici comuni» 23, lascia prefigurare che analoga pronuncia di inammissibilità verrà assunta a proposito della
questione sottoposta in materia di market abuse, e ciò in quanto, anche in tal caso, il parametro interposto è stato individuato in una norma diversa dalla legge di ratifica.
A fronte di una prevedibile situazione di impasse, l’auspicio è che la dialettica tra le Corti Superiori
continui e che si arrivi a sintesi sullo specifico tema.
Il che non sarà certo propiziato dall’assunzione di posizioni aprioristicamente rivendicative su chi
sarà in grado di garantire la migliore tutela possibile.
Al riguardo non può non osservarsi che i pronunciamenti della Corte e.d.u. in punto di affermazione dei diritti fondamentali non sono sempre immuni da formalismi – si pensi, proprio in relazione al
caso Grande Stevens, alla riconosciuta lesione del diritto alla pubblicità dell’udienza, assunto a presupposto della iniquità del giudizio celebrato dinanzi al giudice italiano, in una vicenda che sembra, al contrario, aver garantito una compiuta estrinsecazione del contraddittorio – ma, d’altra parte, la necessità
di un adeguamento sul piano delle garanzie, in un sistema che aspira ad una più incisiva cooperazione
giudiziaria in ambito internazionale, è un problema reale.
Sicché vanno perseguiti approcci condivisi, ed integrati, perché si pervenga ad un assetto più stabile
almeno quando sono in gioco i diritti fondamentali.
22
In termini A. Ruggieri op.cit., p. 3.
23
In tal senso V. Manes, La “confisca senza condanna” al crocevia tra Roma e Strasburgo; il nodo della presunzione di innocenza, in
Dir. pen. contemp., 13 aprile 2015, p. 13.
ANALISI E PROSPETTIVE | NE BIS IN IDEM E MARKET ABUSE: QUALI PROSPETTIVE
Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
193 Indici | Index
AUTORI / AUTHORS
Teresa Alesci
I poteri del giudice dell’esecuzione sulla determinazione della pena accessoria illegale: presupposti e limiti/Powers of execution’e judge and illegal addiction penalty: suppositions and limits
104
Teresa Bene
A proposito del regime di sospensione del corso della prescrizione: il concomitante impegno
del difensore e l’effettività della difesa tecnica/About regime of the prescription. The concomitant
professional appointment of the layer and the value of defense
57
Amalia Cavallo
Corti europee/European Courts
26
Maria Simona Chelo
Il legittimo impedimento della persona arrestata a comparire all’udienza non inficia la legittimità
della convalida dell’arresto e del contestuale giudizio direttissimo / Lawful impediment of the arrested person to appear in the hearing does not affect the legitimacy of the validation of arrest and the contextual summary judgement
116
Anna Cignacco
L’archiviazione de plano tra economia processuale e tutela della persona offesa / The decree ordering that the case be dropped between the purpose of economy of the proceeding and the defense of the
victim
127
Paola Corvi
Decisioni in contrasto
Jacopo Della Torre
L’assenza di una disciplina intertemporale o transitoria per la messa alla prova degli adulti:
uno spinoso problema tra lex mitior e tempus regit actum / The absence of intertemporal or transitory discipline for adult’s probation: a complex issue between lex mitior and tempus regit actum
Ada Famiglietti
Novità legislative interne / National legislative news
43
133
10
Attilio Mari
Acquisizione mediante lettura e regole sovranazionali di valutazione delle dichiarazioni ormai
irripetibili / Acquisition by reading and rules of proof imposed by the case law of the Echr
149
Eva Mariucci
Valorizzato il ruolo della difesa tecnica in tema di alcooltest / Enhanced the role of lawyer in alcohol test
68
Serena Quattrocolo
Deflazione e razionalizzazione del sistema: la ricetta della particolare tenuità dell’offesa / Judicial deflation and rationalization of the criminal system: the recipe of the new reform on diversion for
minor offences97
Alessia Ester Ricci
Corte costituzionale
INDICI
33
Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
194
Stefania Riccio
Ne bis in idem e market abuse: quali prospettive (aspettando la Consulta)/Ne bis in idem and
market abuse: the prospects (waiting for the decision of the Consulta)
184
Martino Rosati
Il “periculum in mora” nel sequestro conservativo penale: finalmente intervengono le Sezioni
Unite / The “periculum in mora” in the preventive attachment: finally the joint session of the supreme court of cassation attends
78
Alessio Scarcella
Modifiche alla disciplina della responsabilità civile dei magistrati o new deal nei rapporti tra
politica e magistratura? / The new law no. 18/2015: modifications of the discipline of civil liability of
judges or new deal in the relationship between politics and the judiciary?
171
Nicola Triggiani
De jure condendo
22
Marina Troglia
Novità sovranazionali / Supranational news
18
Daniela Vigoni
Giudicato ed esecuzione penale: confini normativi e frontiere giurisprudenziali/Res iudicata
and enforcement of criminal judgments: legislative actio and cutting edge case law
1
PROVVEDIMENTI / MEASURES
Corte costituzionale
C. cost., sent. 26 marzo 2015, n. 49
C. cost., sent. 28 maggio 2015, n. 95
33
35
Corte di Cassazione – Sezioni Unite penali
sentenza 11 dicembre 2014, n. 51660
sentenza 2 febbraio 2015, n. 4909
sentenza 5 febbraio 2015, n. 5396
sentenza 12 febbraio 2015, n. 6240
sentenza, 14 aprile 2015, n. 15232
sentenza 24 aprile 2015, n. 17325
74
45
62
91
39
38
Corte di Cassazione – Sezioni semplici
Sezione VI, sentenza 30 dicembre 2014, n. 53850
Sezione II, sentenza 9 febbraio 2015, n. 509
Sezione IV, sentenza 13 gennaio 2015, n. 1281
Sezione V, sentenza 3 marzo 2015, n. 9305
Sezione II, 29 aprile 2015, n. 17853
Sezione V, 14 maggio 2015, n. 20068
113
146
130
124
43
44
Corte europea dei diritti dell’uomo
21 aprile 2015, Kubiak c. Polonia
21 aprile 2015, Pisari c. Repubblica di Moldavia e Russia
23 aprile 2015, Morice c. Francia
30 aprile, Kapetanios e altri c. Grecia
INDICI
26
30
27
31
Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
195
Atti sovranazionali
Ratifica del Trattato di assistenza giudiziaria in materia penale fra Italia e Cina
18
Norme interne
Decreto ministeriale 11 marzo 2015, n. 36 «Regolamento concernente la struttura e la composizione
dell’ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute, istituito in attuazione dell’art. 7 d.l.
d.l. n. 146 del 2013»
Legge 16 aprile 2015, n. 47 «Modifiche al Codice di procedura penale in materia di misure cautelari personali. Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di visite a persone affette da handicap in situazione di gravità»
Legge 17 aprile 2015, n. 43 «Contrasto al terrorismo, anche internazionale, proroga delle missioni
internazionali delle forze armate e di polizia, e iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai
processi di ricostruzione»
Legge 22 maggio 2015, n. 68 «Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente»
Legge 27 maggio 2015, n. 69 «Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio»
14
10
14
15
16
De jure condendo
Disegno di legge «Delega al Governo per la riforma del libro XI del codice di procedura penale.
Modifiche alle disposizioni in materia di estradizione per l’estero: termine per la consegna e durata
massima delle misure coercitive»
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MATERIE / TOPICS
Applicazione della pena su richiesta delle parti
 Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente («Legge 22 maggio 2015, n. 68»)
 Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazione di tipo mafioso e di falso in bilancio («Legge 27 maggio 2015, n. 69»)
 Legittimità costituzionale dei limiti al patteggiamento per i reati tributari (C. cost., 28 maggio
2015, n. 95)
 Operatività ipso iure o ope iudicis del reato oggetto di una sentenza di patteggiamento (Cass.,
sez. V, 14 maggio 2015, n. 20068)
 Opposizione della persona offesa ed archiviazione de plano (Cass., sez. V, 3 marzo 2015, n.
9305), con nota di Anna Cignacco
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Competenza
reati informatici
 Il locus commissi delicti dell’accesso abusivo a un sistema informatico è quello in cui il soggetto effettua l’introduzione nel sistema (Cass., sez. un., 24 aprile 2015, n. 17325)
Confisca
 Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente («Legge 22 maggio 2015, n. 68»)
 La confisca «in assenza di condanna» tra principio di legalità e tutela dei diritti fondamentali (C. cost., 26 marzo 2015, n. 49)
Cooperazione giudiziaria internazionale
 La ratifica del trattato di assistenza giudiziaria in materia penale fra Italia e Cina («Legge 29
aprile 2015, n. 64»)
 La riforma della disciplina dei rapporti giurisdizionali con autorità straniere («Delega al Governo per la riforma del libro XI del codice di procedura penale. Modifiche alle disposizioni in materia di estradizione per l’estero: termine per la consegna e durata massima delle misure coercitive»)
INDICI
38
15
33
18
22
Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
196
letture
 Letture per sopravvenuta impossibilità di ripetizione e regole di valutazione (Cass., sez. II, 9
gennaio 2015, n. 509), con nota di Attilio Mari
149
Dibattimento
Difesa e difensori
 Il difensore astenuto dell’imputato ha diritto al rinvio dell’udienza camerale a partecipazione facoltativa (Cass., sez. un., 14 aprile 2014, n. 15232)
 L’impegno professionale del difensore in altro procedimento costituisce legittimo impedimento in presenza di condizioni obiettive (Cass., sez. un., 2 febbraio 2015, n. 4909), con nota
di Teresa Bene
 Termini per eccepire la nullità dell’alcooltest se è omesso l’avviso della facoltà di assistenza
difensive (Cass., sez. un., 5 febbraio 2015, n. 5396), con nota di Eva Mariucci
Diritti fondamentali (tutela dei)
 Diritto alla vita: profili sostanziali e procedurali (Corte e.d.u., 21 aprile 2015, Pisari c. Repubblica di Moldavia e Russia)
 La confisca «in assenza di condanna» tra principio di legalità e tutela dei diritti fondamentali (C. cost., 26 marzo 2015, n. 49)
 Libertà di espressione e funzionamento della giustizia. Quali limiti per gli avvocati? (Corte
e.d.u., 23 aprile 2015, Morice c. Francia)
 Limitazioni del diritto alla vita privata e familiare (Corte e.d.u., 21 aprile 2015, KubiaK c. Polonia)
 Ne bis in idem: giurisdizione penale e amministrativa. Presunzione d’innocenza
Esecuzione penale
 Emendabile in esecuzione l’illegalità della pena accessoria (Cass., sez. un., 12 febbraio 2015, n.
6240), con nota di Teresa Alesci
 Giudicato ed esecuzione penale: confini normativi e frontiere giurisprudenziali/Res iudicata
and enforcement of criminal judgments: legislative actio and cutting edge case law, di Daniela Vigoni
Giudicato
 Giudicato ed esecuzione penale: confini normativi e frontiere giurisprudenziali/Res iudicata
and enforcement of criminal judgments: legislative actio and cutting edge case law, di Daniela Vigoni
 Ne bis in idem e market abuse: quali prospettive (aspettando la Consulta)/Ne bis in idem
and market abuse: the prospects (waiting for the decision of the Consulta), di Stefania Riccio
 Ne bis in idem: giurisdizione penale e amministrativa. Presunzione d’innocenza (Corte e.d.u.,
30 aprile 2015, Kaetanios e altri c. Grecia)
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1
1
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31
Messa alla prova
 Messa alla prova e giudizi pendenti in Cassazione (Cass., sez. IV, 13 gennaio 2015, n. 1281),
con nota di Jacopo Della Torre
130
Misure cautelari personali
 Legge 16 aprile 2015, n. 47 «Modifiche al Codice di procedura penale in materia di misure cautelari personali. Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di visite a persone affette da handicap in situazione di gravità»
10
INDICI
Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
197
– impugnazioni
 Per il rispetto del termine entro il quale deve intervenire la decisione sulla richiesta di riesame avverso il provvedimento di sequestro è sufficiente una pronuncia interlocutoria?
(Cass., sez. II, 29 aprile 2015, n. 17853)
43
– sequestro conservativo
 Sequestro conservativo anche in assenza di pericolo di dispersione patrimoniale del debitore (Cass., sez. un., 11 dicembre 2014, n. 51660), con nota di Martino Rosati
74
Ordinamento giudiziario
 Modifiche alla disciplina della responsabilità civile dei magistrati o new deal nei rapporti
tra politica e magistratura?/ The new law no. 18/2015: modifications of the discipline of civil liability of judges or new deal in the relationship between politics and the judiciary? di Alessio
Scarcella
171
Misure cautelari reali
Ordinamento penitenziario
 Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale (D.m.
11 marzo 2015, n. 36)
 Legge 16 aprile 2015, n. 47 «Modifiche al Codice di procedura penale in materia di misure cautelari personali. Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di visite a persone affette da handicap in situazione di gravità»
Particolare tenuità del fatto
 Deflazione e razionalizzazione del sistema: la ricetta della particolare tenuità dell’offesa/
Judicial deflation and rationalization of the criminal system: the recipe of the new reform on diversion for minor offences, di Serena Quattrocolo
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10
97
Pubblico ministero
– informazioni sull’azione penale
 Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo
mafioso e di falso in bilancio (Legge 27 maggio 2015, n. 69)
16
Rito direttissimo
 Legittimo impedimento dell’arrestato e giudizio direttissimo contestuale alla convalida
(Cass., sez. VI, 30 dicembre 2014, n. 53850), con nota di Maria Simona Chelo
113
Sicurezza pubblica
 Contrasto al terrorismo, anche internazionale, proroga delle missioni internazionali delle
forze armate di polizia, e iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di
ricostruzione («Legge 17 aprile 2015, n. 43»)
14
INDICI
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