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La Sardegna italiana - storia e preistoria di sardegna

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La Sardegna italiana - storia e preistoria di sardegna
Sommario
- Nasce il regno d’Italia
- La situazione della Sardegna
- Roma capitale
-
Il banditismo sardo nella storia
- La lotta alla criminalità del nuovo stato
- Il sequestro di persona e l’inchiesta del Pais-Serra
-
La “Zona delinquente” di Alfredo Niceforo
- Il fenomeno delinquenziale dilaga
- Bardane e rastrellamenti
-
Calo momentaneo della delinquenza
- Lotta del fascismo al banditismo
-
La piaga delle faide
-
Il salto di qualità del banditismo
-
I delinquenti diventano famosi
-
Le imprese criminali
- Il modello sardo dei sequestri viene esportato
- Il re Umberto I a Cagliari nel 1899
-
I tragici fatti di Buggerru nel 1904
-
1906, sciopero a Cagliari contro il rincaro dei prezzi
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La Sardegna italiana
Nasce il Regno d’Italia
Con l’armistizio di Villafranca stipulato nel mese di luglio del 1859, si concluse la II
guerra d’indipendenza e il Regno di Sardegna guadagnò la Lombardia già austriaca in
cambio di Nizza e della Savoia e l’annessione del Granducato di Toscana, dei ducati di
Modena e Parma e dell’Emilia ex pontificia che aderirono ufficialmente con il plebiscito
popolare del 1860.
Garibaldi con l’impresa dei Mille, sempre nel 1860, consegnò ai Savoia anche il Regno
delle Due Sicilie e i territori pontifici delle Marche e dell’Umbria: per completare l’unità
d’Italia mancavano ancora Roma, Venezia e il Veneto. Il 18 febbraio 1861 si riunirono a
Torino i rappresentanti degli stati che erano confluiti nel Regno di Sardegna e il 17
marzo 1861 fu emanata la legge che così recitava:
“Il Senato e la Camera dei deputati hanno approvato, noi abbiamo sanzionato e
promulghiamo quanto segue: Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi
successori il titolo di re d’Italia”.
Nasceva così il Regno d’Italia che adottava la costituzione Albertina dell’ex Regno di
Sardegna che cedeva il suo re senza cambiare ordinale.
Una tradizionale casa sarda dell’interno
La situazione della Sardegna
Al momento della creazione del regno d’Italia l’isola contava 588 mila abitanti ed era
divisa nelle province di Cagliari e Sassari amministrate da un prefetto, che
comprendevano i 371 comuni esistenti.
Le province erano divise in Circondari Cagliari, Iglesias, Lanusei e Oristano inseriti in
quella di Cagliari; Alghero, Sassari, Tempio, Ozieri e Nuoro in quella di Sassari.
Nel 1927 sarà istituita la provincia di Nuoro e aboliti i Circondari, nel 1974 sarà creata
la provincia di Oristano. L’euforia per la raggiunta Unità mise in secondo piano i gravi
mali che affliggevano l’Italia; specialmente quelli delle regioni meridionali che , uscite
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di botto dal Medioevo, erano colpite da un sottosviluppo endemico che i vecchi padroni
avevano trascurato.
La Sardegna era in condizioni disastrose: analfabetismo imperante, povertà diffusa,
brigantaggio inarrestabile, economia e forze produttive inesistenti, malaria ed
epidemie sempre presenti.
In questa situazione i governi Italiani, davanti a problemi giganteschi, non seppero da
dove iniziare e abbandonarono l’isola a sè stessa.
Gli 11 deputati Sardi che sedevano in parlamento, che nel 1865 si era trasferito a
Firenze che diventava capitale, presentarono una richiesta al Governo per ottenere
investimenti pubblici nell’isola.
Intanto con la terza guerra d’indipendenza nel 1866 anche il Veneto entrò al neonato
stato italiano.
Nel 1867, il seme del malcontento portò alla rivolta a Nuoro con i moti de “Su
Connotu”, (tornare a ciò che si conosceva) in opposizione alle vendite di terreni
demaniali sottraendoli alla pastorizia.
Nel 1869 giunse nell’isola una commissione, guidata dal De Pretis, per indagare sullo
stato economico della Sardegna, non ci furono risultati ma solo rapporti: per risolvere i
problemi ci volevano fatti e non bastavano le parole. Altre commissioni furono istituite
nel 1877, 1894 e 1896 per esaminare gli enormi problemi dell’isola ma non
approdarono a nessun risultato concreto.
Roma capitale
Il 20 settembre del 1870, Roma fu liberata con un semplice colpo di mano e i problemi
Italiani furono messi da parte per dedicarsi alla edificazione di una capitale che dava ai
Savoia un trono finalmente in una degna cornice, sulle spalle di tutti gli Italiani che
avevano fatto la nazione.
Cinque ore di cannoneggiamento, poche decine di morti, questa fu la campagna che
“liberò” Roma. Il 2 Ottobre il plebiscito sancì l’adesione all’Italia con 46.790 voti a
favore e 46 contrari, nel 1871 Roma fu proclamata capitale d’Italia.
Quella piccola città del 1870, decadente che serbava un immenso patrimonio fornitogli
dal mondo o commissionato dai pontefici, fu pian piano distrutta dagli interventi di
costruzione e ammodernamento dei palazzi signorili che oggi conosciamo come Chigi,
Madama, Quirinale, Barberini, etc.
I pochi Romani residenti in breve tempo diventarono minoranza data l’immigrazione
di funzionari, ambasciatori, militari, commercianti, muratori dal resto dell’Italia.
Tutte le risorse finanziarie furono dirottate verso la nuova capitale che come
un’idrovora assorbì il sudore del giovane Stato italiano. Mentre i capitali affluivano
nell’urbe, la Sardegna raccoglieva solo briciole, con completamento di strade e reti
ferroviarie già vecchie al momento della nascita: fu inaugurato anche il collegamento
settimanale via mare con Genova, ben poca cosa rispetto al necessario.
Le miniere del Sulcis erano le uniche industrie presenti che non trasformavano la
materia prima e non fornivano quindi valore aggiunto remunerativo. Solo i piccoli
commerci consentivano di sbarcare il lunario nelle città, mentre l’agricoltura antiquata
e la pastorizia nomade e arcaica fornivano solo il necessario per sopravvivere.
Alla fine del 800 una febbre di rinnovamento contagiò anche le città sarde, furono
distrutti bastioni e opere architettoniche di valore storico come le mura di Cagliari e
Sassari: per dare spazio a civili abitazioni fu eliminato così un patrimonio storico che
oggi sarebbe stato motivo di turismo culturale e quindi di benessere.
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Il banditismo sardo nella storia
La piaga del banditismo nell’isola si perde nella notte dei tempi, in un primo momento
i banditi sono coloro che si oppongono alla conquista dell’isola da parte dei Cartaginesi
e poi dei Romani che definiscono “barbari” tutti quelli che non comprendono la loro
lingua e cercano di contrastare le loro legioni e “Barbaria” la terra da loro abitata.
Una resistenza all’invasore che pone quelle genti dell’interno come ribelli che, pur
battendosi per una causa giusta, sono considerati delinquenti. La sfiducia verso i vari
conquistatori dell’isola e verso le istituzioni, lo stato di vita precario, la prepotenza dei
feudatari hanno forgiato, nel corso dei secoli, migliaia di popolani che, per un motivo o
per un altro, si danno alla macchia costituendo bande armate temibili quanto
inafferrabili.
Quella massa di diseredati che tutti chiamavano banditi, costituiva una forza che molti
nobili usavano per terrorizzare e seminare il panico tra gli abitanti dei loro feudi e
tenerli così in soggezione.
Quel fenomeno diventa pian piano inarrestabile e, quando la Sardegna passa ai
Piemontesi nel 1720, la situazione nell’isola è giunta a uno stadio irreversibile.
Le bande infestano l’interno della Sardegna, le strade sono insicure e la forza pubblica
nulla può fare contro quella moltitudine priva di scrupoli che conosce il territorio e che
colpisce dileguandosi senza lasciare alcuna traccia.
Il fenomeno è talmente organizzato che i Piemontesi hanno il sospetto che le bande
siano sponsorizzate dagli Spagnoli con l’intento di preparare il terreno per un loro
eventuale ritorno.
Nel 1738, un nutrito contingente di soldati al comando del viceré marchese di Rivarolo,
setaccia tutti i territori dell’interno facendo un gran numero di prigionieri tra i latitanti:
ma è tutto inutile perché le bande si moltiplicano in quanto tanti sono i soprusi e le
ingiustizie che si abbattono sulla povera gente alla quale non rimane altra via che
scappare e unirsi ai latitanti.
Inizia anche la rivalità tra le bande che cercano di occupare un zona e non permettono
ad altri di violarla.
Una proprietà terriera non ufficiale nella quale si compiono tutti i generi di reato con la
connivenza delle popolazioni che per la paura, non solo non denunciano i reati subiti,
ma scagionano gli imputati per timore di rappresaglie: l’omertà entra prepotentemente
nelle abitudini dei Sardi. Alla fine del ‘700 il banditismo è ormai radicato nell’isola e a
nulla valgono le grandi forze messe in campo dal governo piemontese e la moltitudine
di leggi per tentare di arginare il fenomeno come il divieto di portare la barba, segno
distintivo dei fuorilegge.
Anche lo sforzo per controllare le strade o scortare le carrozze adibite ai collegamenti,
si rivela inutile così come le severe pene comminate a quei pochi che cadono nelle mani
dei militari.
Sul finire del XVIII secolo, centinaia sono i banditi già giudicati ancora alla macchia ai
quali si devono aggiungere altrettanti non ancora processati.
Rapine, omicidi, furti di bestiame sono i delitti più comuni che colpiscono un po’ tutti
tanto che le autorità, per porre un freno all’attività criminosa, decidono di condonare la
pena a coloro che faranno arrestare un bandito già condannato a pena uguale o
superiore.
Si scatena una lotta intestina tra gli stessi malviventi che coinvolge anche le loro
famiglie e, nel tentativo di ottenere l’impunità sulle spalle dei loro colleghi, si scatenano
delle faide destinate a durare per decine d’anni fino allo sterminio di interi nuclei
familiari.
I risultati che si ottengono sono però modesti e pericolosi delinquenti, grazie alla legge
sulle catture, possono circolare liberi nei paesi d’origine creando ulteriori paure e
insicurezza agli onesti cittadini. Per poter riconoscere i latitanti, viene distribuito alle
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forze dell’ordine un completo dossier con il ritratto e le condanne di ciascun bandito
per facilitare la loro identificazione durante i sempre più frequenti rastrellamenti.
Vengono controllati tutti i vagabondi e coloro che non hanno una occupazione, con
l’intento di togliere la manodopera necessaria ai rifornimenti e ai collegamenti
indispensabili per sopravvivere alla macchia. Nonostante lo sforzo delle autorità,
all’inizio dell’ottocento, i banditi spadroneggiano ancora indisturbati nelle zone
interne e nessuno può azzardarsi di intraprendere un viaggio da solo, ma neanche con
le carrozze pubbliche che, se non scortate dalla cavalleria, sono preda certe delle bande.
Nel 1820, con “l’Editto delle Chiudende”, la situazione si aggrava ulteriormente perché
molti contadini e piccoli allevatori sono costretti ad abbandonare il proprio lavoro per
le prepotenze dei colleghi più facoltosi che recintano grandi quantità di terre e li
costringono a pagare esose gabelle per attingere acqua o per il semplice passaggio.
Le bande si ingrossano e questa volta il loro principale obiettivo sono i proprietari
terrieri che iniziano a subire la violenza delinquenziale sulle loro persone e sui loro
averi. I latitanti a metà ‘800 sono più di mille seguiti da altrettanti accoliti che
impongono la loro terribile legge e imperversano nel nuorese terrorizzando interi paesi.
Le bande sono ormai organizzate come veri battaglioni d’assalto e si permettono di
isolare interi paesi e saccheggiarli: le famigerate “bardane” irrompono così
improvvisamente nella storia della delinquenza isolana.
Il bastione di Saint Remy a Cagliari costruito dopo l’unificazione
La lotta alla criminalità del nuovo Stato
Dopo l’unità d’Italia il governo cerca di arginare con energia la criminalità organizzata
del sud concentrata nella Campania, Puglia, Basilicata e Calabria, patrocinata da
numerosi nobili e da sovrani in esilio, che vede come un tentativo di restaurazione e
pertanto da combattere strenuamente, ma tralascia il fenomeno sardo che classifica
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come comune e che quindi può aspettare perché non è un pericolo per lo stato: errore
fondamentale anche questo che produrrà conseguenze devastanti.
La situazione diventa così talmente grave che il governo nomina, nel 1869, una
commissione d’inchiesta che però non approda a nulla se non alla constatazione della
gravissima situazione sarda.
Oltre il fenomeno delinquenziale, le popolazioni subiscono continuamente soprusi e
violenze anche da parte delle classi più agiate e i ricchi accumulano sempre più denaro
mentre i poveri sono alla disperazione e, non potendo contare su un lavoro che gli
consenta di procurare almeno un pasto al giorno per la famiglia, si vedono costretti a
unirsi alla malavita alla macchia diventando delinquenti essi stessi.
Il sequestro di persona e l’inchiesta di Pais Serra
Nel tentativo di dare un impulso all’economia isolana, vengono aperti numerosi
sportelli bancari con il compito di favorire il credito di cui però usufruiranno solo i più
agiati: gli unici a poter fornire garanzie reali. Ancora una volta la massa dei diseredati
è esclusa da una possibile boccata d’ossigeno ed è sempre più alla mercé dei soliti
benestanti.
La circolazione di denaro cartaceo suggerisce però ai delinquenti un nuovo tipo di
reato, il sequestro di persona, che in teoria può rendere molto ai malviventi che
possono colpire facilmente i più ricchi e farsi pagare in moneta spendibile senza rischi.
Quel reato che ancora oggi è difficile sconfiggere, prende piede dalla seconda metà del
‘800 e tra i primi a cadere nelle mani dei sequestratori sono l’avv. Corbu e l’avv. Siotto
che sperimentano il nuovo e aberrante delitto: sono i capofila di un lunghissimo elenco
che riempirà per tanto tempo le prime pagine dei giornali e darà una etichetta alla
Sardegna che la laboriosità e l’onestà della maggioranza dei cittadini subirà e non
riuscirà a cancellare dalle menti dei “continentali”.
Nel 1894 con decreto ministeriale viene nominato il deputato sardo, Francesco Pais
Serra, a capo di una commissione che deve indagare sulle condizioni economiche e
delinquenziali della Sardegna le cui conclusioni, pubblicate nel 1896, destano non
poche impressioni e danno una ottima visione della triste realtà isolana.
Pais Serra invoca una serie di provvedimenti speciali per la Sardegna perché
particolare è la sua conformazione geologica e geografica e la sua millenaria cultura
che esce dai canoni classici Italiani perché è legata a tradizioni consolidate che sono
come delle leggi scritte che tutti riconoscono e applicano.
La commissione sostiene che, se non si agirà subito, il problema Sardegna diventerà
endemico e lo stato spenderà tante risorse economiche che risparmierebbe se decidesse
di investire oggi delle somme che produrranno effetti salutari per l’economia ed
eviteranno ulteriori finanziamenti per portare la regione sarda al livello delle altre.
Il problema del banditismo è quindi legato alla precaria economia e alla disperazione in
cui versano i Sardi, le istituzioni lo sanno bene ed è palese che il primo fenomeno
delinquenziale si basasse su una probabile resistenza ai Piemontesi e alle loro
istituzioni mentre, alla fine dell’800 invece è un elemento di reazione alla triste
situazione delle popolazioni che non trovano altro metodo per sopravvivere che quello
di darsi alla macchia e procurarsi il necessario con le rapine e i furti e, più tardi, con i
famigerati sequestri di persona: in sintesi in quel momento il comportamento
criminale è lo specchio del malessere sociale dell’isola.
La “Zona delinquente” di Alfredo Niceforo
La Sardegna e la sua delinquenza sono oggetto di pubblicazioni da parte di studiosi che
pretendono di dare il loro contributo per risolvere il complesso problema, uno di questi
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è il siciliano Alfredo Niceforo docente di criminologia nelle università di Losanna e
Bruxelles, di sociologia alla Sorbona di Parigi e di statistica a Napoli e a Roma.
Un bel biglietto da visita e un curriculum di tutto rispetto per lo studioso se non fosse
che egli ricerchi le cause del banditismo studiando gli uomini in quanto tali e arrivando
a conclusioni che rasentano il puro razzismo. Infatti nel suo libro “La delinquenza in
Sardegna” del 1897, è convinto che ogni territorio abbia una sua forma di criminalità e
tenta di fornirne i motivi in questo modo: “Ogni territorio della Sardegna ha una forma
sua particolare di criminalità; forma che si differenzia dalle altre e che dà una speciale
caratteristica al territorio in cui essa si manifesta.
Esiste in Sardegna una specie di plaga moralmente ammalata che ha per carattere suo
speciale la rapina, il furto e il danneggiamento.
Da questa zona, che chiameremo “Zona delinquente” e che comprende il territorio di
Nuoro, quello dell’Ogliastra e quello di Villacidro, partono numerosi batteri patogeni a
portare nelle altre regioni sarde il sangue e la strage ...
... La Sardegna, più d’ogni altra provincia, ha avuto invasioni di popoli e successioni di
genti straniere che passarono attraverso le sue montagne e le sue pianure lasciandovi
eredità di sentimenti e di costumi; tutti i popoli più avventurieri della terra passarono
al disopra dell’lcnusa come una vertiginosa apparizione dell’Hoffman; così la
popolazione sarda risulta dalla sovrapposizione e dall’incrocio di un numero grande di
razze.”
Non fa certo piacere a noi Sardi leggere certe considerazioni e prese di posizione che si
avvicinano alla sciagurata dottrina nazista, ma è la constatazione di come il problema
sardo non sia esaminato e risolto considerando la sua vera causa scatenante: la
povertà, la mancanza di lavoro e di istruzione pubblica, l’assenza della più elementare
protezione sociale.
Il porto di Cagliari oggi
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Il fenomeno delinquenziale dilaga
Nonostante tutti i tentativi teorici di affrontare il problema i latitanti aumentano e la
voce popolare attribuisce ai banditi l’alone di “uomini cavalieri”, in pratica dei
gentiluomini alla maniera di Robin Hood. Ma nella realtà essi si comportano come
delinquenti della peggiore specie che non esitano, per portare a termine i loro reati o
per un banale sgarbo, non solo a uccidere ma a sventrare, decapitare, violentare: pura
malvagità degna di criminali che non hanno nessun valore morale e non rispettano la
società né i propri simili.
Una masnada imprendibile imperversa alla fine del secolo soprattutto in Barbagia che
per la sua natura accidentata, ricca di boschi impenetrabili, di gole inaccessibili diventa
“uno stato nello stato” dove spadroneggiano le bande: non c’è strada sicura, corriera
che non venga assaltata, possidente che non sia nel mirino delle bande.
Chi può, abbandona la Barbagia e si rifugia a Sassari o a Cagliari, terreni immensi
vengono svenduti.
L’omertà aumenta così come il numero dei carabinieri che tra mille problemi cercano
di arginare il fenomeno. In quegli anni la zona perde probabilmente la sua classe
imprenditoriale e chi tentava di razionalizzare agricoltura e allevamento, scompare
quindi il ceto mercantile e artigianale l’unico in grado di contribuire alla ripresa
economica che in futuro farà sentire la sua mancanza: il banditismo porta anche
questo.
Bardane e rastrellamenti
Gli assalti a molti paesi (bardanare) da parte di gruppi organizzati e numerosi di
delinquenti diventano una normalità così come accade a Tortolì nel 1894 e a Meana nel
1897, che rimangono in mano ai banditi per diverse ore con le conseguenze
immaginabili sulla popolazione e sui loro averi.
Lo stato tenta di arginare quella che sta diventando una vera guerra e con numerosi
rastrellamenti ottiene incoraggianti risultati tra il 1892 e il 1899 quando vengono
catturati decine di latitanti e loro fiancheggiatori oltre molti parenti accusati di
favoreggiamento: una strategia nuova che tende a isolare i malviventi e che inizia a
dare i suoi frutti.
Nella Barbagia di Seulo, nel 1899, ben 150 carabinieri e 60 militari snidano una banda
temibile uccidendo 4 latitanti, i fratelli Giacomo ed Elia Serra Sanna, Salvatore Pau e
Tomaso Virdis, mentre il pericoloso delinquente Giuseppe Lovicu riesce a fuggire
rimandando la sua fine al 1901 quando cadrà sotto il fuoco dei carabinieri.
Queste campagne costano alle forze dell’ordine 20 morti e decine di feriti ma ottengono
un risultato mai prima raggiunto: le bande private dei loro capi e ridotte nel numero,
si disperdono momentaneamente in quanto braccate e senza rifornimenti.
Calo momentaneo della delinquenza
Nel primo decennio del ‘900 il banditismo sembra ridimensionarsi, le campagne e i
paesi dell’interno godono di una inusuale pace, i reati sono rari e solo il furto del
bestiame continua con un ritmo sostenuto, ma la solita crisi economica legata al crollo
dei prezzi di alcuni prodotti che vengono esportati come il latte e la carne, favorisce
una ripresa del fenomeno che però non raggiunge l’intensità dell’ultimo ‘800.
La prima guerra mondiale, a causa dell’arruolamento in massa dei giovani,
contribuisce all’isolamento dei latitanti che non possono contare su nuove leve o sul
malcontento giovanile che ha altri problemi dietro le trincee, il fenomeno subisce così
un arresto contingente destinato e ridestarsi alla fine del conflitto per le difficoltà della
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moltitudine di ex combattenti che è alle prese con una forte crisi economica e con la
assoluta mancanza di lavoro.
Lotta del fascismo al banditismo
Il fascismo, appena si consolida al potere, cerca di risolvere la piaga della delinquenza
sarda, che si trascina oramai nei secoli e decide, nel 1926, di istituire la nuova provincia
di Nuoro, con il chiaro intento di esercitare un controllo nel territorio.
Centinaia di militari presidiano e rastrellano tutta la zona calda e i conflitti diventano
ordinaria amministrazione a Mamoiada, Ottana e Benetutti avvengono le sparatorie
più significative dove cadono decine di latitanti e decine vengono catturati mentre altri
si arrendono, cade tra gli altri il noto criminale Samuele Stocchino.
Un’opera capillare di prevenzione porta alla cattura di centinaia di sospetti che si
ritengono fiancheggiatori dei latitanti, mentre i processi sono ora più rapidi e numerosi
banditi vengono fucilati inducendo molti colleghi ad arrendersi prima di fare la stessa
fine: per la prima volta i latitanti optano per un giusto processo con la loro presenza
che ritengono più vantaggioso rispetto al giudizio in contumacia.
Gli indubbi successi delle forze dell’ordine non eliminano il fenomeno ma lo riducono
sensibilmente, negli anni ’30 gli omicidi nel nuorese hanno una media di 10 all’anno,
nulla in confronto dei centinaia del ‘800, ma un crimine efferato come il sequestro di
persona riemerge nel 1933 quando viene sequestrata la figlia in tenera età del podestà
di Bono che sarà ritrovata uccisa.
Qualcuno parlava di briganti signori e di “balentia” che impediva, per un codice non
scritto ma rispettato, di toccare donne, bambini e stranieri: solo favole perché la
delinquenza sarda, nonostante le cause sociali che l’hanno determinata, si è mostrata
sempre efferata e criminale non rispettando niente e nessuno pur di raggiungere i
propri luridi scopi.
La darsena
di Cagliari
negli anni
‘30
La piaga delle faide
Il governo non sottovalutò quel pericoloso segnale di recrudescenza e aumentò
notevolmente le taglie sui latitanti inviando nuovi contingenti di militari per
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controllare quotidianamente i territori a rischio, sono i furti di bestiame che
diventarono la piaga del momento, pericolosi perché colpirono i poveracci e li
costringono a improvvisarsi investigatori arrivando a farsi giustizia da sé, rubando a
loro volta i capi del presunto colpevole.
Nascono nuove rivalità tra famiglie di uno stesso paese (faide) che si trascineranno nel
tempo e costeranno decine di morti in una catena inarrestabile che ancora oggi mostra
le conseguenze.
Ancora una volta lo scoppio della
guerra (seconda conflitto mondiale) porta il
banditismo a una pausa forzata, ma alla sua conclusione la situazione diventa un’altra
volta allarmante.
Complice come sempre la crisi economica e lo stato di malessere delle popolazioni
isolane che hanno perso tutto e non hanno nessuna prospettiva per alleviare il loro
triste stato, la delinquenza riassume proporzioni gigantesche, il sequestro di persona
diventa il reato più comune, alcune volte in mano ai banditi sono anche quattro
sequestrati, e le forze dell’ordine devono battersi contro un vero esercito che possiede
armi più potenti e moderne delle loro.
I bastioni della
Zecca e dello
Sperone a Cagliari
abbattuti per far
posto al Bastione di
Saint Remy nel
1901
Il salto di qualità del banditismo
Alla fine degli anni ’50 otto carabinieri sono uccisi in conflitto, lo stato si mostra
impotente e disorganizzato di fronte alla delinquenza e alla omertà, nel 1952 dieci
malviventi bloccano la strada per Ozieri e rapinano indisturbati per ore le auto private
e le corriere in transito, poi si dileguano con calma dopo aver spogliato tanti poveri
sventurati.
Anche nella strada che da Orosei porta a Dorgali i soliti criminali bloccano decine di
persone e le fanno salire su due furgoni, dopo molti chilometri liberano tutti, ma
trattengono Davide Capra che non farà più ritorno da vivo.
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Un fenomeno che oramai ha assunto caratteristiche di delinquenza organizzata, non
nel senso siciliano, ma come macchina programmata da delle menti che studiano un
piano che viene poi portato a termine dal braccio esecutivo.
La delinquenza spicciola che improvvisava si sta pericolosamente trasformando in una
organizzazione scientifica della quale fanno parte anche personaggi non provenienti dal
mondo agro-pastorale che tengono le redini nell’ombra: sta nascendo l’anonima
sequestri, come vera associazione a delinquere che ha come unico fine l’arricchimento e
nulla ha in comune con la povera delinquenza di un tempo che, per quanto efferata,
aveva altre origini e altri obiettivi.
I delinquenti diventano famosi
Il banditismo a partire dagli anni ’50, è caratterizzato da momenti di pausa e da grandi
riprese, i delinquenti tradizionali sono sostituiti da personaggi che entrano nella
cronaca nera prepotentemente.
Dopo la scomparsa di crudeli latitanti, caduti nelle maglie della giustizia, come
Bachisio Falconi, G. Battista Liandru, fa il suo ingresso nella scena Graziano Mesina,
Orgolese proiettato nel mondo malavitoso dalla faida in corso nel suo paese. Alla fine
degli anni ’60, riesplode il fenomeno delinquenziale che ora guarda ai sequestri di
persona con particolare accanimento, con la novità che le bande, grazie ai basisti, ora
colpiscono in tutto il territorio anche se gli ostaggi vengono tenuti prigionieri in grotte
o anfratti nei territori tradizionali barbaricini.
Le bande ora dispongono di armi e attrezzature moderne e si servono di auto per il
trasferimento, mettono in piedi una vera impresa criminale con dei ruoli ben distinti e
specializzati che comprendono i basisti, gli autori materiali del crimine, i custodi, gli
addetti ai rifornimenti e coloro che hanno il compito di contattare i parenti dei
sequestrati per chiedere e ottenere il riscatto.
Le forze dell’ordine si trovano quindi davanti a un fenomeno che investe tutto il
territorio isolano e che è difficile da controllarsi perché le bande si servono di molte
persone incensurate che hanno una doppia vita e che vivono regolarmente nei propri
paesi.
Naturalmente continuano anche gli omicidi e le rapine che giornalmente rimbalzano
in quel mezzo di diffusione popolare che è la televisione e il banditismo sardo viene
conosciuto nei suoi dettagli da una platea enorme che vede la Sardegna come covo di
delinquenti.
Le imprese criminali
Si perfeziona il nuovo organigramma delle bande che ora hanno una organizzazione
piramidale con all’apice l’ideatore del sequestro che appartiene a classi culturalmente
preparate che si avvalgono di segnalatori che non di rado sono impiegati o uscieri, i
latitanti o giovani in cerca di “fortuna” custodiscono invece il malcapitato.
Una vera impresa che grazie alla omertà è difficile da smascherare ma che subisce un
duro colpo quando viene arrestato Graziano Mesina, in quello stesso anno, il 1972,
vengono pubblicati gli atti della ennesima commissione d’inchiesta istituita con decreto
nel 1969, presieduta dal senatore Giuseppe Medici.
L’indagine attribuisce le cause del banditismo alla stato di arretratezza economica e
sociale dell’isola e non fa certo delle grandi scoperte perché tutti conoscono da decenni
le cause del fenomeno, nessuno però pensa a porvi un rimedio con l’unica medicina
efficace: il lavoro. A metà degli anni ’70 la Costa Smeralda diventa il centro delle
attenzioni dei criminali e i sequestrati sono donne, bambini, stranieri, imprenditori alla
faccia dei codici comportamentali e della fama dei banditi gentiluomini di un tempo:
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ora siamo davanti a criminali che, a prescindere dai risultati delle commissioni
d’inchiesta, non sono più figli del disagio economico e sociale, ma il prodotto del
consumismo che infonde sui giovani e non, il bisogno di condurre una vita agiata con
auto, casa di lusso e tutto ciò che è considerato voluttuario ma che fa parte del sistema
di vita moderno: aspirazioni legittime se si cerca di ottenerle con il sacrificio e il lavoro,
non quando si ottengono con le rapine e i sequestri.
La basilica di Bonaria a Cagliari come si presentava all’inizio del secolo scorso
Il modello sardo dei sequestri viene esportato
A metà degli anni ’70, Il sequestro di persona viene esportato anche nelle regioni
italiane continentali e gli attori non sono più solo Sardi, nell’isola invece si ha un
cambio repentino di reati perché la droga diventa un affare lucroso, tanto più che il
blocco dei patrimoni dei rapiti crea notevoli difficoltà alle bande così come il controllo
sui patrimoni sospetti.
La delinquenza si adegua e cambia velocemente faccia, i sequestri si diradano per
lasciar posto a rapine organizzate, importazione e spaccio massiccio di stupefacenti,
truffe miliardarie consumate da associazioni a delinquere d’alto bordo, qualche
sequestro di persona si verifica ancora ma gli artefici sono evidentemente improvvisati
e forse, ancora una volta, appartenenti al mondo agro-pastorale e a isolati nuclei,
talvolta appartenenti alla stessa famiglia.
Continuano invece le faide che mietono vittime non solo nei tradizionali paesi
barbaricini: è un segno che la vecchia criminalità ha lasciato delle profonde ferite che le
generazioni non riescono a rimarginare.
La cosiddetta “Balentia” oggi è diventata stupidità, quando l’invidia, l’astio e l’obbligo
di vendicare un torto subito, degni di popoli senza storia e senza tradizione, saranno
cancellati dalle menti dei Sardi, allora vivremo sereni e uniti e forse riusciremo a
risolvere i nostri problemi.
Se il fenomeno della delinquenza organizzata sarà isolato e l’omertà sconfitta, la
Sardegna potrà entrare di diritto nel XXI secolo e sarà il giusto compenso per i Sardi
onesti: è una speranza che solo noi potremmo concretizzare.
217
ll re Umberto I a Cagliari nel 1899
Il 4 dicembre 1996, il Consiglio comunale di Cagliari delibera la costruzione del nuovo
palazzo civico da ubicare nell’angolo tra l’attuale largo Carlo Felice e la via Roma.
La nuova sede è stata fortemente voluta dal sindaco Ottone Bacaredda che guida la
Giunta cittadina il quale con lungimiranza capisce che per dare un impulso decisivo
all’espansione di Cagliari sia necessario uscire dal mondo ristretto di Castello: lo
spostamento del palazzo comunale è quindi una mossa urbanistica che rientra nel
disegno più ampio che prevede l’espansione del centro urbano verso la pianura alle sue
spalle.
Cagliari: sulla sinistra il recinto del costruendo palazzo civico i cui lavori furono inaugurati da
Umberto I e dalla regina Margherita nel 1899
Il sindaco, forse da quel primo momento, si adopera affinché quel palazzo abbia dei
padrini d’eccezione e, dopo l’approvazione del progetto e l’aggiudicazione dello stesso,
quando tutto è pronto per l’inizio dei lavori il grande annuncio: la prima pietra del
nuovo edificio comunale sarà posta dal re Umberto I e da sua moglie la regina
Margherita.
Un clima di euforia pervade subito i cagliaritani e gli amministratosi pubblici che si
danno da fare per dare alla città un aspetto degno delle auguste persone che nel mese
di aprile del 1899 giungeranno in gradita visita. Cagliari, come tutta la Sardegna è
economicamente in ginocchio, flagellata dalla malaria con le strutture agricole ed
artigianali in crisi a causa delle inondazioni autunnali, della siccità estiva e degli
incendi che mettono sul lastrico ogni anno decine di famiglie.
I collegamenti marittimi con il resto dell’Italia sono costosi ed approssimativi così
come i trasporti interni limitati da strade in abbandono ed infestate da briganti senza
scrupoli: già molti cittadini si preparano ad emigrare per cercare all’estero il lavoro che
è negato in patria.
218
Con questa situazione, è logico che i Cagliaritani e non solo, vedano nell’arrivo dei
sovrani un’occasione per ottenere qualche futuro beneficio e per far constatare al re la
critica situazione sociale ed economica che il Governo del neonato regno d’Italia non
era riuscito ancora ad affrontare se non con le inutili indagini ministeriali che non
hanno portato mai beneficio pratico.
L’amministrazione cittadina e la popolazione tutta si mettono quindi in moto per
abbellire la città.
Le stanze del palazzo regio, che ospiterà la coppia reale, vengono ristrutturate ed
arredate a nuovo, riempite di quadri, tappeti e preziose suppellettili, l’illuminazione
pubblica viene rivista e sostituiti i vetusti lampioni, lastricate a nuovo le strade
principali, rimosse macerie, arbusti selvatici ed erbacce mentre, con uno sforzo
particolare, si restaurano i giardini ed il verde pubblico mettendo a dimora centinaia di
nuove piante.
Due grandi pennoni dai quali sventolerà la bandiera italiana, vengono sistemati sulla
sommità della torre dell’Elefante ed in quella di San Pancrazio. Anche i privati danno il
loro contributo volontario per abbellire la città dipingendo facciate e poggioli, porte e
finestre.
I principali edifici del centro e quelli storici, con uno sforzo gigantesco per le tecniche
di allora, vengono illuminati con decine di potenti fari, rari e costosi, per completare il
tutto una pulizia straordinaria di tutte le strade e la manutenzione dei giardini
compresa la potatura di centinaia di alberi.
A ridosso del porto si costruisce un grande palco per dare il benvenuto agli illustri
ospiti che saranno ricevuti dalle massime autorità isolane e dal sindaco Bacaredda
simbolo della città di Cagliari.
L’arrivo, previsto per l’undici aprile, viene rimandato al giorno seguente perché il
mare agitato aveva sconsigliato la partenza da Civitavecchia del panfilo reale “Savoia”,
al suo ingresso nella rada antistante il porto cagliaritano, l’imbarcazione con i suoi
preziosi ospiti sarà ricevuta da una possente squadra navale francese con sei corazzate,
sette incrociatori e sei torpediniere d’altura oltre a diverse unità minori; anche una
squadra italiana sarà in attesa dei sovrani per rendere gli onori.
Finalmente la mattina del 12 aprile, il panfilo reale che è stato scortato durante la
navigazione da 4 torpediniere italiane, entra nel porto di Cagliari e Umberto e
Margherita di Savoia accompagnati dal capo del Governo Pelloux, sono ricevuti dalle
autorità locali e dai deputati sardi Caboni Boi, Cocco Ortu e Merello mentre gli onori di
casa vengono fatti dal sindaco Bacaredda e dalla consorte.
E’ una Cagliari diversa dal solito, raggiante e rimessa a nuovo quella che si presenta ai
reali, l’aspetto esteriore è mutato radicalmente nel giro di qualche mese, niente
immondizie per le strade, bandiere e drappi dappertutto e quando gli augusti ospiti
mettono piede a terra le salve di cannone delle unità militari e la marcia reale suonata
dalla banda cittadina fanno rabbrividire le migliaia di persone che assistono all’evento.
“Quando vidi Cagliari, mi sentii tutto commuovere e di quel panorama, tra i più belli
ch’io abbia mai visto, conserverò perenne ricordo.”
Con queste parole Umberto I risponde al saluto del sindaco e tutti i presenti scoprono
in un attimo la grande carica umana e la bontà d’animo del sovrano che vuole essere un
semplice pellegrino che viene a visitare con umiltà la terra che ha dato una corona alla
sua casata.
Dopo quelle parole, le persone che ripongono nella visita reale molte speranze per
vedere almeno affrontati con energia gli spaventosi problemi di sottosviluppo della
Sardegna, sono ottimiste e confidano nella influenza del re e del suo interessamento
presso il Governo.
Questa è un’occasione unica perché a Cagliari sono giunti ministri, alti funzionari dello
stato, prefetti e gli inviati della stampa italiana ed estera ed è ormai opinione comune
219
che il re si farà interprete del disagio dei Sardi con la sua autorità e influenza
costringendo l’esecutivo a tenerne debito conto.
Un interminabile corteo di lussuose carrozze sfila tra una folla applaudente lungo il
largo Carlo Felice, via Manno, l’attuale viale Regina Elena e, attraverso la piazza San
Pancrazio, giunge in castello nel palazzo reale, sede della provincia, sistemato a dovere
per ospitare dei sovrani. La folla staziona in piazza Palazzo e una serenata con
mandolino viene improvvisata: i sovrani si affacciano più volte per ringraziare la folla,
colpiti da una accoglienza spontanea e così calorosa.
Il re riceve tutte le autorità cittadine il prefetto, l’arcivescovo, i magistrati, i
rappresentanti dell’università, si fa un’idea precisa degli enormi problemi visita anche
Quartu, Iglesias e altri paesi, che completano il quadro della situazione e chiariscono le
idee sia al sovrano che al Capo del Governo.
La grande serata mondana al teatro Margherita, dove viene messa in scena la Carmen
di Bizet, è un’occasione per incontrare la “crema” di Cagliari e per sentire altre
opinioni. Anche in quella occasione la folla intervenuta non smette di applaudire i
sovrani che constatano l’attaccamento dei Cagliaritani ai Savoia e all’Italia.
A molti non sfugge che la presenza delle unità transalpine potrebbe nascondere la
volontà di dimostrare al re e al Governo Italiano la forza marittima francese.
Dal 1881, dopo che la Francia si era impadronita della Tunisia, i rapporti con l’Italia si
erano deteriorati provocando una guerra di protezione doganale e di boicottaggio dei
reciproci prodotti, solo di recente la diatriba era rientrata e, tutto sommato, la
presenza di quella flotta poteva essere veramente un segno
dell’avvenuta
riconciliazione e per rinsaldare l’amicizia tra i due paesi che avevano notevoli interessi
nel Mediterraneo: forse una tacita intesa e un lasciapassare all’Italia per la conquista
della Libia che avvenne anni dopo.
Anche per questo la visita del re Umberto assume una dimensione internazionale e
travalica il fatto interno e viene collocata tra quegli avvenimenti il quale significato
sfugge ai più ma che rivestono fondamentale importanza per la politica di espansione
futura dei due stati.
Il comandante della flotta francese rende visita ai sovrani consegnando una missiva
personale del presidente francese che il sovrano ricambia visitando l’ammiraglia
francese, la corazzata Brennus, dove è offerta una colazione in suo onore. Potrebbe
trattarsi di fini approcci diplomatici, nascosti tra il significato mondano della visita.
Umberto e Margherita assolvono poi il compito ufficiale per cui sono venuti e con una
solenne cerimonia pongono la prima pietra del nuovo palazzo civico che presto
sostituirà la vecchia sede di piazza Palazzo.
E’ un fatto importante per la futura Cagliari, quel nuovo palazzo rappresenta la volontà
degli amministratori di uscire dal quartiere Castello e dare un impulso alla crescita
urbanistica della città che potrà contare su nuovi spazi ed estendersi verso la pianure
che la circondano.
La permanenza dei sovrani, tra l’entusiasmo dei cittadini continua Bonaria, San
Bartolomeo, ospedali, istituti di beneficenza sono visitati dagli illustri coniugi che
assistono alla rappresentazione della Manon in un teatro civico palesato a festa e a una
solenne funzione religiosa nella Cattedrale.
Inaugurano poi la gara provinciale di tiro a segno, partecipano a banchetti,
passeggiano per le strade del centro, fanno acquisti come normali cittadini e la regina
non esita a vestirsi in costume sardo che mostra di apprezzare: i cagliaritani scoprono
ancora una volta la semplicità e la simpatia dei sovrani e li sente più vicini e li stima
sempre più.
Come tutte le cose piacevoli che non durano per troppo tempo, anche la permanenza
di Umberto e Margherita di Savoia giunge al termine e il giorno 18 salgono sul treno
diretti a Sassari, la folla è ormai oceanica, tutto il centro cittadino è bloccato, la gente
220
non smette di applaudire, lo sbuffare del treno non si sente, tanto sono forti le ovazioni
e le grida di giubilo: ma proprio in quel momento accade l’imprevedibile.
Una ringhiera della stazione cede facendo precipitare, dall’altezza di 9 metri, numerose
persone che rimangono ferite mentre uno sfortunato facchino perde la vita. I sovrani
scendono dal treno e si precipitano verso il luogo della disgrazia per portare il loro
conforto.
Nonostante il triste episodio la folla ricomincia ad applaudire. Una disgrazia che non
sminuisce l’importanza della visita e l’impressione di bontà e umiltà che i sovrani
hanno lasciato nei Cagliaritani, un avvenimento che sarà ricordato per molto tempo e
sarà motivo di un più profondo dolore, quando il re buono sarà tragicamente
assassinato per mano di un anarchico solo l’anno seguente.
221
I tragici fatti di Buggerru del 1904
All’inizio del ‘900, l’unica attività industriale in Sardegna è quella estrattiva,
concentrata nel Sulcis-Iglesiente.
Molte miniere sono di proprietà di società straniere che mettono in campo ridotti
capitali ma possono contare su un notevole profitto in quanto dispongono di
manodopera a basso costo senza alcun diritto codificato.
Gli operai che provengono dall’ambiente contadino che lasciano per avere la certezza di
una pagnotta, sono senza protezione e costretti a lavorare con turni massacranti che
raggiungono nella norma le tredici ore giornaliere.
Manca qualunque controllo sanitario, anche molti adolescenti vengono impegnati
senza scrupoli, gli incidenti si ripetono quotidianamente e chi ha la fortuna di resistere
in quella bolgia viene minato nel fisico da malattie di ogni genere come la silicosi e la
tubercolosi, che portano quei poveretti alla morte precoce.
La “ Socièté anonime de mines de Malfidano”, è la titolare dei diritti di sfruttamento
delle
miniere di Buggerru e, grazie all’aiuto di potentati pubblici, riesce a
impossessarsi di tutti i terreni intorno al paese ed è anche proprietaria degli alloggi e
degli spacci, riuscendo a imporre i propri prezzi e a tenere in mano le leve
dell’economia locale in regime di assoluto monopolio.
I minatori dipendono quindi, anche nei momenti di pausa dal lavoro, dalla società la
quale si rimpossessa con gli interessi del magro salario versato ai dipendenti: un giro
vizioso che arricchisce l’azienda mineraria e impoverisce i minatori che hanno solo
l’impressione di avere un introito fisso, ma in realtà sono indebitati regolarmente
proprio con il loro datore di lavoro che diventa arbitro della loro esistenza.
Lo sfruttamento, nonostante arrivi ad altissimi livelli, non soddisfa ancora la proprietà
che per poter produrre più utili pensa di diminuire di un’ora la pausa pranzo,
costringendo i dipendenti a interrompere il lavoro alle 12 e riprenderlo alle 14 anziché
alle 15.
E’ palese che in questo modo aumentino le ore lavorative: gli operai sono costretti a
cavare le pietre dall’alba al tramonto come nel famigerato periodo medievale.
L’ideatore di questo provvedimento è il direttore della miniera ing. Giorgiades che non
prevede però la reazione degli operai che, nonostante nessuna protezione sindacale o
delle istituzioni, decidono di scendere in sciopero per protestare contro la inumana
decisione della società Malfidano.
All’iniziativa dei lavoratori non rimane estraneo il neofita del sindacalismo sardo
Giuseppe Cavallera, di origine piemontese e socialista della prima ora, giunto nell’isola
nel 1897 per sfuggire alle persecuzioni di uno stato che non tollerava ancora le
posizioni politiche di sinistra.
Quasi tremila lavoratori di Buggerru incrociano le braccia è il 4 settembre del 1904, la
direzione della miniera presa alla sprovvista, decide di chiamare la forza pubblica per
costringere gli operai a riprendere il lavoro. Una commissione di scioperanti, guidata
forse dal Cavallera, intavola delle trattative con il direttore Giorgiades alla presenza del
sottoprefetto, mentre due compagnie di fanteria arrivano in paese provenienti da
Iglesias e prendono alloggio in un edificio della miniera adibito a falegnameria dove
alcuni uomini, ingaggiati provvisoriamente, stanno provvedendo a sistemare il
laboratorio per permettere alle truppe di sistemarsi.
Gli scioperanti che sostano davanti alla palazzina della direzione in attesa dei colleghi
che stanno discutendo con la proprietà odono dei rumori provenienti dalla
falegnameria e, intuendo che qualcuno stia lavorando nonostante lo sciopero, iniziano
a gridare: “Crumiri, crumiri. Venduti, venduti”.
222
Numerosi sassi vengono lanciati verso la falegnameria colpendo qualche militare che,
forse preso dal panico, apre il fuoco contro la folla caricata poi con le baionette.
Decine di feriti rimangono a terra e tra loro tre morti. Un eccidio gratuito che non ha
nessuna giustificazione e che serve a far capire quale è il clima che i poveri lavoratori
devono affrontare giornalmente, soli contro tutti, con le autorità istruite dai politici a
proteggere la classe imprenditoriale dalla quale ottengono dei vantaggi e dei
finanziamenti per le loro campagne elettorali. Uno Stato quindi fondato sulla
prepotenza che nulla ha di liberale e che concede il voto solo a chi ha un censo e una
istruzione, dimenticando e abbandonando la maggioranza dei cittadini che vive in una
condizione di terribile emarginazione.
È la Sardegna dei padroni, dello strapotere di questi nuovi “Feudatari” che con
l’imprimatur delle istituzioni ora hanno uomini da gestire, da sfruttare, da impoverire,
da minacciare, da distruggere nel fisico e nel morale: questo causa in quegli anni
l’abbandono dell’isola da parte di migliaia di disperati che cercano oltreoceano almeno
la speranza per una vita migliore.
Il quadro esposto ha una conferma nell’atteggiamento del sindaco di Buggerru,
Raffaele Muroni, che tenta di attribuire la responsabilità dell’eccidio agli stessi
scioperanti, scrive una lettera all’Unione Sarda nella quale sostiene le gravi colpe dei
sindacalisti socialisti che hanno fomentato i disordini per i loro scopi politici.
L’Unione Sarda, in mano a Cocco Ortu e alla classe imprenditoriale, non ha interesse a
schierarsi con i poveri minatori e relega la notizia dei gravi fatti in seconda pagina con
un articolo di 20 righe, la prima pagina è occupata solo dalla notizia della nascita
dell’erede al trono Umberto II, destinato a regnare solo un mese.
Poiché la responsabilità dei fatti “deve” essere attribuita necessariamente ai minatori,
la reazione delle autorità è energica e decine di scioperanti vengono accusati di
sedizione e arrestati, incatenati alla stregua dei più pericolosi delinquenti, sono fatti
sfilare per le vie di Iglesias tra due ali di carabinieri a piedi e a cavallo: un palese
monito per coloro che hanno intenzioni ostili e pensano ad altri scioperi.
Nonostante la evidente connivenza tra le istituzioni e la classe imprenditoriale e lo
sforzo per mettere le cose a tacere, la notizia dell’eccidio valica il Tirreno e giunge in
quei luoghi dove esiste una
classe operaia compatta e dove si lotta già da tempo
per conquistare i più elementari diritti sindacali.
Il 16 settembre 1904 viene proclamato uno sciopero generale che paralizza ogni attività
in tutto il territorio nazionale: è il riconoscimento operaio al sacrificio dei Sardi.
Quei morti in quel piccolo e sconosciuto paese della Sardegna riescono quindi a
mettere in primo piano e a far conoscere le condizioni inumane dei lavoratori e le
prepotenze dei padroni.
Convincono il governo Giolitti che la classe operaia è diventata una realtà della nazione
dalla quale non si può prescindere, anzi si deve arrivare a patti per sperare in una
moderna industrializzazione dell’Italia.
Purtroppo, solo per il settentrione della nazione, ci saranno dei miglioramenti, lì la
forza dei lavoratori è temibile e quindi è opportuno accontentarli, nell’isola invece
l’economia agro-pastorale fa della classe operaia una ristretta minoranza circoscritta al
solo Sulcis-Iglesiente, che è lontano dalle leve del potere e non esiste, in quel periodo,
nessuna forza politica che sposi la causa di quei poveracci che in maggioranza non
hanno diritto di voto e che non possono interessare chi tiene solamente al potere e alla
sua poltrona in parlamento.
223
1906: sciopero a Cagliari contro il rincaro dei prezzi
Agli inizi del ‘900 Cagliari subisce una notevole immigrazione di persone provenienti
dall’interno che, venduti tutti gli averi, cercano una onesta sistemazione e un lavoro
anche modesto in città. In quel periodo il capoluogo sardo subisce quindi un forte
aumento demografico che crea una classe di nullatenenti che vive di espedienti e di
lavori precari.
Chi ha la fortuna di lavorare come operaio è sfruttato oltre ogni limite e il suo salario
non ha potere per il costo della vita che sale costantemente insieme ai prezzi dei generi
alimentari di largo consumo.
Nel 1905 nasce a Cagliari un nuovo giornale con impronta radicale “Il Paese” che inizia
una campagna di stampa contro il sindaco Ottone Bacaredda e alimenta il malcontento
tra i cittadini. In città si muore continuamente per la fame e la tbc, nel 1906 la
situazione diventa insostenibili e molti cagliaritani non sono in grado di acquistare non
solo la carne ma neanche il pane ed il vino. Domenica 13 maggio, una folla esasperata si
riunisce nel bastione di San Remy per protestare.
Numerosi oratori inveiscono contro gli sfruttatori ed i commercianti che si
arricchiscono col rincaro dei prezzi dei viveri e si crea un corteo che si dirige verso il
palazzo civico con l’intenzione di conferire col sindaco Ottone Bacaredda. Il primo
cittadino riceve i dimostranti, promette l’apertura di due forni e di una macelleria che
avrebbero venduto il pane e la carne a prezzo di costo.
La folla, rassicurata dalle parole del sindaco, lascia il palazzo civico ed in corteo
percorre via Lamarmora, giunge in piazza Martiri dove è dispersa dalle forze
dell’ordine.
Lunedì 14, tutto sembra calmo e l’esattore comunale si appresta alla riscossione della
tassa sull’occupazione del suolo pubblico, dovuta dai rivenditori del mercato del Largo
Carlo Felice, ma i negozianti iniziano a inveire e minacciare il funzionario con
l’intenzione di non pagare.
Giungono guardie civiche con il comandante Fonsa e numerosi agenti di pubblica
sicurezza, mentre la folla si fa sempre più ardita e circonda il botteghino dell’esattore
protetto dalle forze dell’ordine: i venditori afferrano le loro ceste e, percorrendo le vie
della città, vendono i prodotti a prezzi irrisori. Una folla imponente intanto ha
affiancato i dimostranti ed il corteo, mentre percorre la via Roma, danneggia i tavolini
del caffè Roma e, compie atti vandalici di ogni specie, giunto davanti alla manifattura
dei tabacchi di viale Regina Margherita tenta di far uscire gli operai. Davanti alla
manifattura ci sono già schierati numerosi carabinieri, guardie di pubblica sicurezza, di
finanza e civiche mentre un altro contingente è schierato nel viale Regina Elena.
I dimostranti inveiscono e tentano di forzare lo schieramento dei tutori dell’ordine,
numerosi sassi vengono lanciati mentre volano pugni e calci da ambedue le parti. Per
evitare lo scontro fisico, le autorità fanno uscire i lavoranti della manifattura mentre un
tenente colonnello dei carabinieri invita alla calma. La folla diventata imponente, grida
slogan a favore dello sciopero generale e si dirige verso la sede del Partito Socialista
dalla quale prende la bandiera rossa dalla finestra e la fissa su un’asta sulla cui punta
viene infilzata una mezza pagnotta che simboleggia lo scopo della manifestazione: la
fame.
Il corteo, con in testa la bandiera socialista, si presenta davanti a fabbriche e magazzini
facendone uscire gli operai e giunge alla stazione delle ferrovie secondarie dove tenta di
entrare, distruggendo vetri ed infissi. Numerose sigaraie si uniscono ai dimostranti e la
lunga colonna si sposta dirigendosi verso la sede dell’Unione Sarda.
224
Il corteo viene intercettato da un contingente di carabinieri ma sfonda i cordoni e riesce
a passare, giungendo alla sede del quotidiano dalla quale sono fatti uscire i tipografi
mentre la moltitudine scaglia sassi contro i carabinieri che si ritirano per evitare
pericolose conseguenze.
La massa si muove e arriva in via Manno, nel suo cammino fa uscire lavoratori da ogni
fabbrica o bottega mentre i vetri delle finestre vengono infranti sistematicamente, la
bandiera repubblicana con una mezza pagnotta sull’asta si unisce a quella socialista:
nonostante le diverse concezioni politiche la fame riesce ad unire tutti.
La lunga colonna, seguita da un nutrito contingente di carabinieri, passa per via Azuni,
per il Corso ed arriva in via San Pietro (viale Trieste), tra gli applausi della gente alle
finestre che sventola drappi di ogni tipo: un vecchietto sale su un cavallo e, con un
giunco in mano, si improvvisa generale, mentre un gruppo di monelli saccheggia un
vicino campo di fave.
Tutti gli operai delle fabbriche lungo il tragitto sono fatti uscire ed il corteo, oramai
gigantesco, si dirige verso la stazione delle Ferrovie Reali dove irrompe invano
contrastato da carabinieri e soldati, continua la sua marcia ed arriva alla Playa presso la
casetta della Quarta Regia chiamata s’Arrendu (luogo ove i pescatori sono obbligati a
lasciare una quarta parte del pescato all’appaltatore del dazio che poi lo vende al
mercato a prezzo concorrenziale), tutto viene distrutto compresi registri e bollette, si
tenta poi di dar fuoco a mobili, porte e finestre.
La folla, diventata incontenibile, alle 15 e un quarto ritorna alla stazione dove è attesa
da un formidabile cordone di agenti, soldati e carabinieri che intimano, con tre squilli
di tromba, al corteo di sciogliersi e con le pistole in pugno tentano di far indietreggiare
la massa che viene spinta verso il palazzo Vivanet.
Sugli agenti piovono sassi e ogni sorta di oggetti, la grande vetrata della stazione è
ridotta in briciole, un carabiniere e un soldato cadono colpiti da pietre insieme a tanti
commilitoni, la moltitudine preme e minaccia da vicino i tutori dell’ordine, quando,
all’improvviso partono dei colpi di pistola e la folla si apre, scappa, molti rimangono sul
terreno impregnato ovunque di sangue.
La via Roma diventa un campo di battaglia, vengono rovesciate vetture tranviarie, un
drappello di soldati in difficoltà spara ancora ferendo altri dimostranti, i cordoni
vengono rinforzati mentre arrivano autorità e altri militari, continuano le scaramucce e
i corpo a corpo.
La folla esasperata si dirige allora verso il Bastione, danneggiando tutto ciò che trova
nel tragitto, si raduna davanti alla scalinata dove parlano alcuni oratori che protestano
per l’eccidio e chiedono una inchiesta per scoprire i soldati responsabili.
Il corteo poi si scioglie e si disperde. Il giorno dopo, martedì 15 maggio, una
moltitudine di gente si riunisce ancora al Bastione di buon mattino e l’avvocato Orano e
Umberto Cao, ricordano le vittime e invocano lo scioglimento del Consiglio comunale,
alla bandiera rossa viene legato un drappo nero in segno di lutto: tra la folla sono
presenti anche numerose persone giunte dai paesi dell’interno.
Un lungo corteo si dirige verso il palazzo civico, presidiato da un nutrito contingente di
carabinieri e soldati, alcuni rappresentanti vengono ricevuti dall’assessore Valle al
quale è richiesto di intercedere per liberare i dimostranti arrestati.
La richiesta è accolta dalla magistratura ed i fermati vengono liberati tra gli applausi
della folla. Il corteo si mette in movimento mentre si alzano cori che ripetono “Viva la
libertà, viva il socialismo”, riprendono gli atti di vandalismo, si brucia e si distrugge
ogni cosa: viene incendiato il casello daziario di via S. Benedetto, de Is Stelladas, di La
Vega, si ribaltano tre vagoni ferroviari nella stazione di S. Mauro al canto
dell’Internazionale socialista.
Alle 16, ennesimo comizio al Bastione, dove si apprende che il sindaco e la Giunta
hanno presentato le dimissioni, la folla è in delirio e riprende a muoversi, sono
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presenti 15 mila persone che in colonna giungono al casello daziario di S. Avendrace
che viene distrutto completamente, così come quello di S. Gilla poi la folla converge in
piazza Yenne e canta l’Internazionale, alla fine tutti ritornano a casa. Intanto arrivano
in città forti contingenti di truppe in treno o a bordo di navi militari, la città è
saldamente presidiata ma disordini sono segnalati in vari punti.
Mercoledì 16 maggio, la folla si riunisce ancora al Bastione e si forma il solito corteo
che attraversa le vie cittadine, questa volta la massa è affamata, da giorni i negozi sono
chiusi, quando intercetta un carro carico di pane che scende in via Ospedale, nulla
l’arresta dal saccheggio nonostante i tre agenti di scorta. Intanto al Bastione,
riprendono i comizi e l’avvocato Orano e lo studente Michele Spano convincono la folla
a interrompere lo sciopero e riprendere il lavoro.
Ma un folto gruppo di commercianti, che nei giorni di sciopero ha avuto danni
materiali e finanziari, si riunisce in piazza Martiri, invocando il pugno duro delle
autorità contro la teppaglia scioperante, forma anch’esso un corteo di migliaia di
persone che avanza per le vie principali di Cagliari gridando, tra gli applausi dei
cittadini “Abbasso la teppa, viva l’esercito”. I nuovi dimostranti giunti in via Manno
incontrano un corteo di scioperanti che tentano l’aggressione ma, poiché in numero
inferiore, desistono e si ritirano tra le grida dei commercianti che inveiscono.
La contro-dimostrazione prosegue, al suo passaggio piovono applausi, i carabinieri e i
soldati vengono osannati, a molte bandiere esposte, viene tolto il drappo nero che
segna il lutto.
Per la città girano ancora cortei di scioperanti e capannelli di persone che
commentano, la tensione risale la sera al mercato, quando i dimostranti pretendono di
pagare le interiora venti centesimi anziché trenta, questa volta i soldati intervengono in
forze e la folla è caricata e dispersa. Lo sciopero si conclude con il seguente bilancio:
due scioperanti morti, Giovanni Casula e Adolfo Cardia, decine di feriti tra i
dimostranti e almeno quaranta tra le forze dell’ordine. Lo sciopero generale di quattro
giorni a Cagliari, preoccupa le autorità che, prevedendo una replica, nominano un
nuovo prefetto, Onorato Germonio, e inviano in città, a bordo di navi di linea, centinaia
di soldati.
Navi da guerra cariche di truppe entrano in porto, precedendo addirittura la squadra
navale del Mediterraneo. I fatti di Cagliari hanno ripercussioni in Parlamento e
Sonnino, presidente del Consiglio, deve rispondere a numerose interrogazioni dei
deputati: intanto l’esempio del capoluogo è seguito anche in molti paesi dell’interno
dove scoppiano tumulti e proteste per il caro vita.
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