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TRAUMA E DISTURBI DI APPRENDIMENTO
Elena Simonetta TRAUMA E DISTURBI DI APPRENDIMENTO La disgnosia quale adattamento al trauma ARMANDO EDITORE Sommario Capitolo primo: Disgnosia come adattamento al trauma 1.1. 1.2. 1.3. 1.4. 1.5. Dal disagio alla disgnosia Il concetto di disgnosia La disgnosia come adattamento agli esiti traumatici Disturbi di apprendimento e inibizione psicomotoria La disgrafia come disgnosia motoria Capitolo secondo: Attaccamento insicuro e disgnosia 2.1. Correlazione tra aspetti psichici e aspetti psicomotori nei disturbi di attaccamento 2.2. Modalità di attaccamento, tipologie psicomotorie e disturbi di apprendimento 2.3. Disturbi psicomotori e disturbi di attaccamento 2.4. La disgnosia quale strategia controllante cognitiva Capitolo terzo: I disturbi dell’attaccamento origine dei disturbi dell’apprendimento 3.1. I disturbi di attaccamento e gli stati mentali 3.2. L’oscillazione tra posizione schizoparanoide e posizione depressiva rappresenta la salute dell’apparato per pensare 3.3. La teoria dell’attaccamento 3.4. Il trauma cumulativo e lo sviluppo cognitivo 3.5. Vulnerabilità e resilienza e adattamento al trauma 9 9 20 22 26 29 31 31 36 39 45 47 47 49 51 53 58 Capitolo quarto: Disgnosia e disturbi funzionali di apprendimento 4.1. Gli automatismi: una potenzialità fondamentale 4.2. Il potenziale cognitivo: efficienza corporea e disponibilità mentale 4.3. La zona dello sviluppo prossimale o potenziale 4.4. Dislessia come disprassia sequenziale Capitolo quinto: Prerequisiti per apprendere e disgnosia 5.1. La strutturazione percettiva 5.2. Fattori psicomotori e sviluppo linguistico 5.3. Elementi fondamentali nell’apprendimento della matematica, in relazione all’esperienza naturale e spontanea del bambino 5.4. Articolazione tra le funzioni cognitive linguistiche e le funzioni psicomotorie 5.5. Sviluppo del linguaggio e delle funzioni cognitive simboliche 5.6. La disgnosia, vero disturbo di apprendimento Capitolo sesto: La disgnosia e il gioco: la mancanza di creatività 6.1. Evoluzione funzionale 6.2. Gli effetti del trauma sul gioco 6.3. Angoscia di castrazione e manifestazioni nell’organizzazione psicomotoria 6.4. Il gioco disordinato Capitolo settimo: Disgnosia e EMDR 7.1. Elaborazione adattiva dell’informazione e EMDR 7.2. La metodologia EMDR 7.3. Un effetto degli eventi traumatici: lo strutturarsi delle convinzioni irrazionali 7.4. Schemi disfunzionali e disgnosia 63 63 69 70 71 75 75 80 86 90 93 99 103 103 105 107 112 119 119 120 122 125 Capitolo ottavo: Dislessia o trauma dell’identità? 8.1. L’identità come fenomeno psicosomatico 8.2. La prevalenza tonico-motoria quale manifestazione dell’identità 8.3. Il sistema vestibolare e l’origine della dislessia 8.4. La mancata individuazione-separazione e i disturbi di apprendimento 8.5. Elementi traumatici della dislessia 8.6. Disgnosia e dislessia: modalità diverse del disturbo di apprendimento Capitolo nono: TEP-RED 9.1. I fattori psicomotori e gli aspetti multifattoriali dell’apprendimento 9.2. La stimolazione vestibolare 9.3. La prevenzione dei disturbi di apprendimento attraverso la somministrazione di prove psicomotorie funzionali Bibliografia 131 131 135 136 141 145 150 153 153 158 173 181 Capitolo primo Disgnosia come adattamento al trauma 1.1. Dal disagio alla disgnosia Il quotidiano rapporto con bambini che presentano un disturbo specifico di apprendimento (DSA) e che sono in situazione di disagio relazionale mi ha indotto a pensare che non tutte le difficoltà scolastiche giovanili siano imputabili alla sola dislessia, ma a ritenere che vadano collegate anche e soprattutto alla disgnosia, quale manifestazione, in ambito cognitivo, di una sofferenza affettiva e di un disagio che colpiscono nel profondo il soggetto e la sua organizzazione gnosica. La persona umana è un’unità: questa unità di comportamento e di manifestazione è molto più evidente nel bambino che nell’adulto, e per questo non è possibile affrontare il problema posto dal disagio scolastico senza collocarlo all’interno di un disagio più generale di tutta la persona. A questo proposito vorrei citare le parole di Daniel J. Siegel (2001) che scrive: «… le emozioni costituiscono i processi fondamentali attraverso i quali la mente conferisce valori e significati a eventi interni e esterni, e indirizza i nostri meccanismi attenzionali nell’ulteriore elaborazione di queste rappresentazioni. Le emozioni riflettono quindi le modalità con cui la mente dirige i suoi flussi di energia e informazioni, e la modulazione delle emozioni è il modo con cui regola energia e processing delle informazioni. In base a questa prospettiva, la regolazione delle emozioni diventa un processo centrale nell’autorganizzazione della mente». Più avanti Siegel aggiunge: «I processi 9 d’integrazione [del sé] permettono lo stabilirsi di un senso di congruenza e stabilità all’interno di pattern flessibili nei flussi di energia e informazioni: questa è coerenza della mente. In altri, conflitti fra bisogni, modelli mentali e stati del sé differenti, possono portare a difficoltà interne o esterne che generano quadri incoerenti o disfunzionali». Anche da queste citazioni appare che il disfunzionamento apprenditivo, collegato alla disgnosia, si genera da un disfunzionamento più ampio collegato alla non elaborazione di emozioni o alla abreazione da eccessive emozioni negative. Emozioni e percezioni si strutturano reciprocamente, e insieme organizzano lo stato d’integrazione del sé nell’io e di coesione della mente. La non coesione del sé comporta una specie di disassociazione della mente, collegata a un blocco delle capacità integrative cognitive, e ciò porta di conseguenza all’incapacità di dirigere i processi gnosici generali. Lo stesso Siegel scrive a questo proposito: «Mentre la mente emerge all’interno del flusso degli stati del sé, crea coerenza fra questi diversi stati attraverso un processo che abbiamo definito come integrazione. L’integrazione permette alla mente di regolare i flussi di energia e i processi di elaborazione delle informazioni, e di collegare e coordinare le sue attività in maniera adattiva; flussi di energia e informazioni scarsamente flessibili e maladattive generano incoerenza». I processi di sintonizzazione affettiva e l’organizzazione delle funzioni corporee hanno quindi una pesante influenza sullo sviluppo della mente e delle sue funzioni integrative e da questa influenza dipende l’organizzazione delle funzioni gnosiche integrate e stabili: la mancanza di questa coerenza gnosica è appunto ciò che si intende con disgnosia. L’ipotesi che presento in queste pagine riguarda la possibilità che i disturbi di apprendimento specifico non siano in realtà disturbi dell’apprendere, bensì problematiche collegate alla incompleta o carente integrazione psiche-soma. Tra gli aspetti che concorrono a determinare questa integrazione difficoltosa desidero prendere in considerazione quelli collegati a esperienze traumatiche infantili, specie nel periodo preverbale, quando il bambino non ha ancora la possibilità di esprimere con le parole le esperienze di particolare gravità che 10 compromettono il suo senso di stabilità e continuità psichica. Ricky Greenwald (2000) scrive: «Le intrusioni possono continuare a scatenare l’eccessiva reattività e a invadere il bambino, non solo con una paura generica, ma anche con specifici pensieri e sentimenti che affiorano dal ricordo traumatico non elaborato. Per esempio il bambino potrebbe giungere ad avvertire un più generale senso di vulnerabilità e inefficacia e a diventare per questo apatico. In questo modo la risposta al trauma diventa un principio organizzativo primario, intorno al quale si costituisce la personalità, l’umore e il comportamento». L’aspetto che disturba significativamente le possibilità di apprendere, sia in un soggetto dislessico sia in un soggetto non dislessico, è dunque la disgnosia (Simonetta 2004), cioè la difficoltà a conoscere e a realizzare confronti e analogie operando con la mente, pur in presenza di un quoziente intellettivo nella norma. Questa difficoltà, che si può presentare senza dislessia, condiziona spesso anche le capacità di calcolo mentale, oltre che il ragionamento ipotetico-deduttivo. Si tratta quindi di un vero disturbo di apprendimento, che quando si manifesta associato alla dislessia, alla disortografia o alla disgrafia, o alla discalcolia, rallenta o impedisce le possibilità di apprendimento del soggetto, in particolare quelle fondate sul codice simbolico grafico. La memorizzazione viene impedita da un inadeguato processo percettivo e la rappresentazione dei concetti è quindi a sua volta inadeguata. Ci sono difficoltà a comprendere e integrare le nuove conoscenze anche in presenza di un quoziente intellettivo nella norma, molto basso ma nella norma. Spesso i soggetti “disgnosici” hanno un quoziente intellettivo complessivo tra i 70 e gli 85 punti, oppure, considerati i due aspetti Verbale e Performance, possono presentare un punteggio normale o alto in uno dei due e molto basso, ma pur sempre nella norma nell’altro (per esempio Verbale 72, Performance 100). Si tratta di un sistema di adattamento agli esiti dai cosiddetti traumi a t piccolo e può essere correlato a un ritardo di linguaggio, un ritardo senso-motorio o percettivo-motorio, a un ritardo nell’organizzazione della rappresentazione mentale, a difficoltà attenzionali, a mancata modalità di elaborazione adattiva dell’informazione a seguito di disfunzionamento emotivo. 11 A tale proposito, Francine Shapiro (1998) sostiene che i traumi e i loro esiti rendono disfunzionale il sistema adattivo dell’elaborazione dell’informazione. In effetti i traumi a t piccolo comportano nel soggetto disgnosico un’elaborazione disadattiva delle informazioni. L’informazione “disadattiva” è tale in quanto non diventa percezione, o peggio rappresentazione. Sono carenti le funzioni cognitive psicomotorie e/o psicolinguistiche, gli schemi cognitivi e le modalità visuo-spaziali sono poveri, le rappresentazioni cognitive e le immagini mentali dei concetti sono molto scarse. Inoltre nella disgnosia entrano pesantemente in gioco la incompleta evoluzione della funzione energetico-affettiva (Le Boulch 1999), collegata all’emotività, per cui risultano molto scarse la vigilanza, nella sua forma di attenzione, e l’intenzionalità, mentre l’iniziativa è pressoché inesistente. Tutto ciò determina scarsa o nulla autonomia. I soggetti disgnosici sono carenti anche nella risposta motoria, quale funzione di aggiustamento all’ambiente (Le Boulch 2000), in quanto tendono a rispondere sempre con lo stesso schema d’azione e hanno difficoltà nel realizzare risposte motorie più adattate. Dal punto di vista psicolinguistico il lessico è molto povero, la grammatica e la sintassi sono poco integrate nell’organizzazione del linguaggio. In particolare i soggetti disgnosici non riconoscono il valore funzionale di avverbi, preposizioni e congiunzioni; queste parti funzionali del linguaggio non riescono a tradursi in rappresentazioni. L’organizzazione di una frase in base alle sue caratteristiche espressive ha una modulazione ritmica diversa a seconda della sua tipologia: i soggetti disgnosici faticano a cogliere questa organizzazione ritmica. La sintassi s’impara inizialmente da 0 a 3 anni, sentendo parlare i genitori, successivamente, quando si comincia a utilizzare la consecutio temporum, si trasferisce nel linguaggio verbale l’esperienza vissuta e la sequenza delle azioni. Il ritardo nell’utilizzazione del linguaggio è quindi indicativo della mancata o incompleta organizzazione linguistica funzionale, dove l’aspetto cronologicamente primario è quello fonetico/fonologico. L’ipotonia o l’ipertonicità motorie si ripercuotono anche sui muscoli della bocca e delle mascelle, responsabili dell’articolazione dei suoni. La difficoltà nel calcolo a mente e alcuni aspetti 12 della difficoltà di apprendimento della matematica sono legati a una carente capacità di rappresentazione mentale delle quantità e dei fatti numerici. L’importanza di un’adeguata comprensione del linguaggio è fondamentale anche per gli apprendimenti logico-matematici. Senza adeguati prerequisiti psicolinguistici e psicomotori, l’apprendimento degli aspetti noetici della matematica è molto difficoltoso. I tempi di attenzione sono molto brevi, sia riguardo all’aspetto selettivo, sia alla concentrazione globale sul compito. La disgnosia appare quindi come la difficoltà nel realizzare la funzione gnosica a causa di prerequisiti carenti in ambito psicomotorio e psicolinguistico e logico-linguistico. Questi prerequisiti sono tali al momento dell’ingresso nella scuola primaria. Questo disturbo compare molto spesso in quei bambini che si trovano in uno stato di disagio relazionale o ambientale e che sono stati affettivamente privati o deprivati (Winnicott 1986), ovvero che “stanno male dentro” (corsivo mio). Le gravi sofferenze affettive e l’inadeguato sviluppo psichico rendono le capacità cognitive di questi bambini molto compromesse: è a questa compromissione che attribuisco il nome di disgnosia. I disturbi di apprendimento possono quindi essere collegati a un disagio infantile e a loro volta determinare il disagio a livello scolastico (Simonetta 2004). Di seguito cercherò di fare un collegamento tra la disgnosia e gli esiti della traumatizzazione, col proposito di dimostrare come la disgnosia sia un reale disturbo di apprendimento, che origina da cause diverse dai disturbi specifici funzionali di apprendimento quali dislessia, disortografia, discalcolia, disgrafia. Questi disturbi sono stati anche definiti come disprassia sequenziale da Piero Crispiani e Maria Letizia Capparucci dell’Università di Macerata. Esiste un collegamento tra gli esiti sfavorevoli dei traumi infantili (Felitti et al. 2001) e la disgnosia come disturbo di apprendimento. I traumi possono essere diversi e dare esiti differenti: alcuni possono agire solo sul versante più funzionale come dislessia, disgrafia, disortografia e discalcolia; altri sul versante cognitivo, dando origine alla disgnosia. La mia analisi è basata sull’esperienza clinica: nei soggetti con disturbo specifico di apprendimento si sono potuti indi13 viduare anche aspetti dissociativi, che sono gli esiti più riconosciuti dei traumi. Bessel Van der Kolk (Van der Kolk et al. 2004) definisce gli stressors traumatici come «quegli eventi che eludono i meccanismi attraverso cui normalmente interpretiamo le nostre reazioni, ordiniamo le nostre percezioni del comportamento altrui e ci creiamo schemi di interazione con la realtà». Secondo lo stesso autore essi «si possono distinguere in tre differenti categorie: la prima comprende eventi con durata limitata nel tempo, come per esempio un incidente aereo o uno stupro, caratterizzati dall’imprevisto e dall’intensità dell’evento; la seconda si riferisce a stressors sequenziali con possibile effetto cumulativo; infine, vi sono gli eventi traumatici caratterizzati da un’esposizione prolungata, che possono provocare incertezza e sentimenti di impotenza, pregiudicando i legami di attaccamento e un fondamentale senso di insicurezza». La Shapiro (1998) distingue i traumi in due grandi categorie: quelli con la T maiuscola che includono eventi percepiti come una minaccia alla propria vita (tra cui guerre, aggressioni, ecc.), e traumi con la t minuscola, che si associano, invece, a esperienze della vita di tutti i giorni e innocue, se paragonate alle precedenti, ma comunque moleste per il modo in cui l’individuo le elabora e percepisce. Anche McCullogh (2002), psicoterapeuta della Harvard University, parla di traumi con la t minuscola (small t), riprendendo in tal modo il concetto precedentemente esposto dalla Shapiro. Egli considera questi ultimi un pattern di esperienze dolorose precoci che avvengono ripetutamente per molti anni, e li pone alla base delle patologie dell’asse II (disturbi di personalità). Rifacendomi al pensiero di Donald W. Winnicott e di John Bowlby in particolare, ho interpretato gli esiti di alcune esperienze infantili nei loro aspetti traumatici, dissociativi, come origine di una carente integrazione psiche-soma. La psiche è infatti l’elaborazione immaginativa delle parti somatiche, dei sentimenti, delle funzioni corporee. Winnicott parla di elaborazione immaginativa dell’individuo umano che non nasce con un dentro e un fuori, e il sé, che rappresenta il dentro e il fuori, si costituisce e si struttura con la psiche che s’insedia nel corpo. 14 Sempre secondo Winnicott, sono solamente il sé e l’esistenza del sé che possono dare il senso di vivere a ogni individuo in ogni stadio della sua esistenza e della sua crescita. Sono proprio i processi di crescita che consentono la realizzazione di un’identità personale, dove la crescita, in quanto processo maturativo, è una forza motrice e motivante. La psiche dunque si salda nel corpo attraverso tre processi: integrazione, personalizzazione e riconoscimento del tempo e dello spazio. 1.1.1. Aspetti dissociativi e disturbi di apprendimento In presenza del trauma, per difendersi dall’angoscia o dalla sofferenza il soggetto può reagire dissociando alcuni ricordi, con la conseguente alterazione del senso di continuità del sé, che a sua volta comporta confusione o alterazione d’identità. Gli effetti del trauma sembrano proprio agire sulla modificazione dell’identità, o di alcuni suoi aspetti, procurando al sé una mutilazione profonda. Scrive Frank W. Putnam (2005): «Una possibile conseguenza della compartimentalizzazione dissociativa sembra essere la struttura relativamente “non elaborata” del materiale traumatico. Le esperienze dolorose, allontanate dissociativamente dalla coscienza, sembrano, a differenza di altri ricordi, non aver subito alcuna trasformazione psicologica nel corso del tempo; esse presentano una qualità “grezza” emotivamente attuale». Una modificazione di origine traumatica del sé può essere in relazione con l’identificazione fusa e confusiva con il sé materno o paterno, che si presenta come una modalità con cui il sé, per difendersi da una probabile frammentazione irreversibile, accetta di sacrificarsi alle proiezioni genitoriali che spingono perché ciò avvenga. Questo comportamento ha degli effetti traumatici ai quali il soggetto reagisce organizzando la propria identità sulla base di tanti piccoli traumi relazionali che interferiscono con lo sviluppo psichico. In effetti, proprio a livello identificativo, l’effetto dei traumi interferisce con il processo d’identificazione e con l’installarsi della psiche nel soma. Il dover accogliere parti di proiezioni scisse genitoriali (Ogden 1994) comporta un danno identificativo che determina, o può determinare, una non 15 adeguata, o non completa, o difettosa integrazione psicosomatica del sé nell’io. Questi fenomeni determinano una difficoltà nell’organizzazione funzionale della mente, che Siegel (2001) chiama “gli stati della mente”, in particolare nelle sue potenzialità cognitive, tali da indurre nel soggetto una reale incapacità gnosica di confronto con l’ambiente esterno. Scrive Siegel in La mente relazionale: «Gli stati della mente permettono al cervello di raggiungere una coesione funzionale. Uno stato della mente può essere definito come l’insieme di pattern di attivazione all’interno del cervello in un determinato momento». I disturbi specifici dell’apprendimento possono essere una buona rappresentazione di stati della mente alterati o inadeguati nello svolgere due compiti fondamentali, ovvero, secondo lo stesso Siegel, «coordinare le attività del momento, e creare pattern di attivazione cerebrale che possono in seguito diventare più probabili». In questa definizione di Siegel si riconosce la descrizione degli automatismi cognitivi o motòri che si devono strutturare nella mente per consentire al soggetto un adeguato background emozionale e funzionale. Siegel continua: «In altre parole uno stato della mente può diventare una configurazione, un profilo di attività cerebrale che viene “ricordato”». Dislessia e disortografia, come la disgnosia, possono essere esiti di una forma di dissociazione che presenta un’amnesia fonografemica o grafofonemica, dove il segno e il suono non mantengono la loro costanza fonetica o grafica. Scrive Putnam (2005): «Le fluttuazioni nel livello delle capacità fondamentali, nelle abitudini e nel ricordo di eventi noti sono forme classiche di disfunzione della memoria nei pazienti con tendenze dissociative. Tali pazienti, quando sono invitati a fare qualche cosa con cui hanno grande familiarità, descrivono tipicamente un senso improvviso di totale incapacità. Paradossalmente è come se intermittenti amnesie colpissero in modo particolare informazioni e capacità più che consolidate». La possibilità di formulare questa concezione del disturbo di apprendimento si fonda, oltre che sull’ipotesi di una dissociazione di alcuni stati della mente, anche sull’analisi delle funzioni psicomotorie profonde (Simonetta 2004), considerate come uniche potenzialità 16 neuropsicologiche che consentono e facilitano l’integrazione e il collocamento adeguato della psiche nel soma. Personalmente, ricollego alcune forme di disagio infantile, sul piano dell’evoluzione relazionale e dello sviluppo del sé, con la mancata o carente strutturazione delle funzioni psicomotorie: la funzione di veglia, di aggiustamento, di percezione. Le medesime vengono anche individuate come importanti segnali di una corretta evoluzione affettivo-relazionale e, pertanto, un loro eventuale disturbo come manifestazione di un disagio di tale origine. Infatti la corretta e completa evoluzione delle funzioni psicomotorie favorisce la consapevolezza di sé che, grazie all’interazione delle funzioni energetiche con quelle operativo-cognitive, permette di associare le immagini del corpo operatorio a quella del corpo libidico. 1.1.2. Prerequisiti all’apprendimento legati all’affermazione del sé La funzione energetico-affettiva e la funzione operativo-cognitiva esercitano una integrazione psicosomatica evolutiva. La prima manifestazione della funzione energetico-affettiva è l’emergere della veglia, che consente al soggetto gli scambi con l’ambiente circostante e da qui comincia l’integrazione psiche-soma. I disturbi specifici di apprendimento non sono quindi disturbi delle capacità di apprendere, bensì disturbi dell’integrazione psiche-soma che influisce sulla organizzazione dei prerequisiti all’apprendimento e sull’affermazione del sé, a seguito degli esiti di traumi a T grande e a t piccolo. Nei primi sei anni di vita i prerequisiti psicomotori all’apprendimento, quali le funzioni energetiche e di vigilanza, quelle prassiche ed espressive e quelle senso-percettive, se non evolvono nella cronologia e secondo la modalità corretta, non consentono di accedere agli apprendimenti in modo adeguato. Inoltre, c’è un secondo grande ambito di prerequisiti che evolve parallelamente a determinate funzioni psicomotorie e che risente della incompleta integrazione psiche-soma, quello delle funzioni linguistiche e fonetico-linguistiche. Sia l’adeguata evoluzione psicomotoria 17 che lo sviluppo linguistico-simbolico, insieme all’affermazione del sé e alla positiva organizzazione dei prerequisiti, sono strettamente dipendenti dalla tipologia dell’attaccamento relazionale che va ad agire sull’integrazione psicosomatica. Nei bambini che presentano un attaccamento insicuro e una carente o incompleta integrazione psiche-soma, al momento dell’alfabetizzazione subentrano i disturbi specifici di apprendimento, quali manifestazioni di un inadeguato funzionamento cognitivo. I disturbi specifici compaiono al momento della scolarizzazione, ma prima di questa tappa vi sono altri segnali che coinvolgono i prerequisiti psicomotori e psicolinguistici carenti, individuabili sin dalla prima infanzia, che porteranno necessariamente al concretizzarsi di un disturbo specifico nella fase della scolarizzazione. Il sé è l’io vissuto come oggetto dall’io soggetto. La nozione di sé è sia un dato del nostro vissuto concreto, sia una delle funzioni dell’io. Secondo Tommaso Senise (1981) costituiscono il sé: «lo stato e le caratteristiche, le potenzialità e le capacità, i pregi e i difetti dell’io fisico e psichico; cioè, da un lato, del suo aspetto, della sua autonomia e fisiologia, della sua motricità; dall’altro, dei suoi sentimenti e pensieri, consci e preconsci, dei suoi desideri, impulsi e atteggiamenti, delle sue attività mentali». Il vissuto dell’immagine globale e unitaria del sé costituisce l’identità personale. La incompleta o carente integrazione psiche-soma può comportare come adattamento una “intellettualizzazione”, in cui la mente prende in carico tutto, dando origine a gravi problemi perché il corpo viene negato (è ad esempio ciò che spesso si osserva nei disturbi del comportamento alimentare). D’altra parte, quando viene negata la mente, ci troviamo di fronte a una patologia dove tutta la metafora passa dal corpo: i disturbi di apprendimento specifico. Il disturbo di apprendimento specifico nasce proprio come manifestazione di un disagio della creatività a seguito di una incompleta o inadeguata integrazione degli aspetti psicosomatici, e in particolare di una difficoltosa evoluzione del sé corporeo rappresentato dalle funzioni psicomotorie individuali. Scrive Winnicott (1983): «È nel giocare e soltanto mentre gioca che l’individuo, bambino o adulto, è 18 in grado di essere creativo e di fare uso dell’intera personalità, ed è solo nell’essere creativo che l’individuo scopre il sé». In questa evoluzione dissociata tra il sé corporeo e la propria psiche, si determina una non-attivazione della mente individuale di un soggetto, il cui intelletto è sostituito da quello di un’altra persona, che si fa carico di gestire il suo pensiero e di organizzarne gli aspetti relativi alla totale autonomia personale. Quindi, quando la metafora passa dal solo corpo, significa che le funzioni cognitive non si sviluppano, perché è presente una evoluzione corporea fondata sulla incorporazione e la depersonalizzazione, che non consentono agli altri aspetti evolutivi di comparire. Scrive Putnam (2005): “La depersonalizzazione è il senso di irrealtà del sé o di parti del sé”, e si accompagna frequentemente alla derealizzazione che, sempre secondo Putnam, “è il senso di una perdita di realtà dell’ambiente immediato”. Il fenomeno dell’incorporazione, caratteristico della fase orale, è la traduzione corporea del processo d’introiezione che costituisce l’opposto del processo di proiezione. Tramite l’introiezione il soggetto fa passare, in modo fantasmatico, dal “di fuori” al “di dentro” di sé oggetti e loro qualità; in questo modo l’introiezione appare proprio come sinonimo d’identificazione e in particolare con le figure parentali. In realtà questa forma d’introiezione non corrisponde alla possibilità d’identificarsi, proprio a causa dell’azione traumatica delle proiezioni genitoriali. Il soggetto non evolve dalla semplice incorporazione alla identificazione, ma resta come riempito di tanti aspetti genitoriali scissi, da lui introiettati. Winnicott in Esplorazioni psicoanalitiche (1995) definisce la depersonalizzazione come «la perdita di contatto del bambino o del paziente con il proprio corpo e il funzionamento corporeo, il che implica l’esistenza di qualche altro aspetto della personalità». Inoltre, l’integrità corporea e la funzionalità somatica del soggetto, in base alla introiezione delle qualità parentali, sostengono la rappresentazione del figlio idealizzato nella mente dei genitori. Viene a mancare il collocamento psicosomatico della mente, e per questo fatto il corpo resta solo e quindi necessita della guida di una mente esterna. Nello stesso testo, Winnicott usa il termine di personalizzazione per attirare l’attenzione sul fatto che «l’inserirsi di quest’altra parte della personalità nel corpo 19 e lo stabile legame con qualunque cosa si possa chiamare “psiche” rappresenta, in termini di sviluppo, una conquista sana»; e più avanti aggiunge: «Le due cose quindi vanno insieme nello sviluppo sano: il senso di fiducia in una relazione offre l’opportunità di una serena inversione dei processi integrativi, mentre nello stesso tempo facilita la tendenza generale innata che il bambino ha verso l’integrazione e, come non mi stanco di sottolineare in questo scritto, verso l’insediamento della psiche nel corpo e nel funzionamento corporeo». 1.2. Il concetto di disgnosia La disgnosia è il vero esito di un trauma a t piccolo. I traumi come la mancata affermazione della prevalenza naturale portano verso disturbi più funzionali come la dislessia; invece traumi più profondi riguardanti l’identità, ma soprattutto l’attaccamento, portano verso la disgnosia. La disgnosia è sempre esito di un trauma o di tanti traumi a t piccolo. La disgnosia è il disturbo delle capacità di conoscere o di apprendere per incompleta integrazione psiche-soma collegata a ritardo psicomotorio, ritardo nelle funzioni psicolinguistiche e nella evoluzione della rappresentazione mentale, elemento che collega il linguaggio allo sviluppo psicomotorio. 1.2.1. Gli aspetti energetici della disgnosia Gli aspetti energetici della disgnosia sono collegabili agli elementi dell’attaccamento, quali la perdita e la simbiosi. Tali elementi sono quelli che determinano gli aspetti traumatici della disgnosia. Il primo aspetto fondamentale collegato alla disgnosia è il concetto di perdita d’identità che troviamo nell’attaccamento insicuro, in relazione a sua volta con perdita di sicurezza e fiducia negli altri e in se stessi. Questa perdita crea una mancanza che è collegata a una frustrazione: la frustrazione primaria. La mancanza di questa esperienza di frustrazione primaria, collegata al processo di separazione20 individuazione, non consente al soggetto di affrontare con adeguata tolleranza le future esperienze ambientali frustranti, che vengono invece vissute come eccessivamente frustranti e quindi intollerabili per un io non separato. Winnicott (1983) definisce la frustrazione primaria come la capacità di sentirsi soli in presenza di un altro, e la descrive come una tappa evolutiva relazionale di significativa importanza. Senza l’esperienza di questa frustrazione primaria il soggetto non può restare solo, in quanto avverte questa solitudine come “la mancanza”. Questo tipo di mancanza è intollerabile e, se non si è vissuta l’esperienza di separazione dalla madre che si trova alla base di questa frustrazione, da quel momento in avanti tutte le altre frustrazioni non saranno tollerabili o lo saranno relativamente poco. E quando arrivano le frustrazioni scolastiche, ecco che si scatena il finimondo! Questa mancanza è relativa alla non utilizzazione della propria mente a seguito dell’esperienza che viene chiamata simbiosi focale, dove due sono le persone ma una sola è la mente che funziona: quella materna. In conseguenza di questo, il soggetto non individuato e non separato non raggiunge un’autonomia mentale. Ciò, a seguito della perdita, crea una forte rabbia ogniqualvolta la madre allontana il soggetto, o ogniqualvolta il soggetto deve affrontare una frustrazione. Gli aspetti che vengono meno sono quindi l’identificazione e l’individuazione del sé. Questo tipo di rabbia così totale induce demotivazione perché nel confronto con la realtà, man mano che il soggetto cresce, le frustrazioni diventano sempre maggiori e quindi più intollerabili. A livello relazionale, tuttavia, il soggetto si trova ancora nella situazione di chi non ha sperimentato la frustrazione primaria e quindi la sua rabbia induce pigrizia. Questa pigrizia non è primaria, né caratteriale, ma è incapacità di fare fatica, con prevalenza di apatia e conseguente dipendenza dalla procrastinazione. L’effetto più significativo di questa apatia mentale si gioca a livello cognitivo, dove si originano lacune e disfunzioni cognitive e attenzionali. Queste lacune e questo disfunzionamento cognitivo corrispondono al concetto stesso della disgnosia. Il soggetto usa la pigrizia come 21 dipendenza dalla procrastinazione (Knipe 2006). Lo studio degli effetti traumatici dei traumi complessi ci spiega come il rimandare continuo e compulsivo è tipico del soggetto che ha organizzato una dipendenza da procrastinazione. La pigrizia è dunque l’esito di un trauma complesso o di un disturbo postraumatico da trauma complesso quale quello della mancata separazione. La disgnosia si origina nel confronto tra il soggetto e gli apprendimenti reali, per effetto della mancata elaborazione della rabbia che si manifesta ogni volta che si vivono frustrazioni ritenute intollerabili. La quasi totalità dei soggetti disgnosici presenta una forte rabbia latente, e non riesce ad apprendere fino a quando non sblocca queste modalità psichiche più comunemente chiamate “blocchi”. I disgnosici non hanno mai potuto conoscere la realtà in modo autonomo, e solo intervenendo su ciò che impedisce l’utilizzo della loro autonomia sarà possibile aiutarli a conoscere e quindi apprendere. Mancanza e perdita si presentano anche nelle situazioni di abbandono, in cui non è stato possibile elaborare la “separazione-individuazione”. In questi casi la disgnosia si manifesta come effetto della disconferma, esito e adattamento all’ambivalenza genitoriale, a volte ancor peggio dell’ambiguità materna, in particolare nei primi anni di vita. L’ambivalenza genitoriale nasce quale esito di processi dissociativi pregressi di origine traumatica e s’insinua nella relazione tra genitore e figlio e opera impedendo al figlio di selezionare l’informazione corretta da trattenere e quella da scartare. Lo sblocco emotivo-affettivo, relativo ai traumi che hanno costituito la base del disfunzionamento cognitivo, consente al sistema nervoso di percepire le informazioni sensoriali che non avevano potuto oltrepassare la soglia della consapevolezza, rendendo possibile la memorizzazione adeguata dei concetti elaborati. 1.3. La disgnosia come adattamento agli esiti traumatici La disgnosia si evidenzia in quelle situazioni in cui il soggetto dice di annoiarsi di fronte all’apprendimento. Ogniqualvolta al soggetto che non ha superato la frustrazione primaria della separazione22 individuazione si richiede l’utilizzo della propria mente e del proprio io, questi va incontro a prestazioni inadeguate o a insuccessi, per cui emerge una forte rabbia reattiva, che resta latente e che agisce come catalizzatore del disturbo specifico di apprendimento. Frustrazione, rabbia, noia, pigrizia sono sempre presenti nella disgnosia. Quando il processo di separazione-individuazione non evolve in modo adeguato, per un legame di tipo simbiotico o in presenza di un vuoto relazionale per un attaccamento insicuro, evitante o disorganizzato, non si sperimenta la frustrazione primaria e quindi ogni altra frustrazione viene vissuta come paralizzante e insopportabile. Lo psicoanalista Ferruccio Marcoli (1997) scrive a questo proposito: “Il pensiero nasce dall’oscillazione tra vuoto e pieno e si sviluppa in oscillazioni sempre più ampie”. Alla base della sua teoria sulla nascita del pensiero, Marcoli pone l’alternanza dialettica di stati di frustrazione e di appagamento che modulano l’esperienza umana: la genesi del pensare può avvenire solo quando è sollecitata da situazioni di bisogno che provocano il dinamismo di tutto l’organismo verso l’appagamento. Questa esperienza di attivazione psichica che segna l’origine del pensare è caratterizzata dall’oscillazione tra uno stato di bisogno e uno di benessere, secondo la disposizione psichica a cercare piacere e a fuggire il dolore. Come Jean Piaget e Wilfred Bion, anche Marcoli vede nell’oscillazione il dinamismo necessario alla nascita della vita psichica. Secondo la teoria di Marcoli, che riprende e rielabora un concetto di Bion, dalla capacità di tollerare la frustrazione, cioè la situazione di vuoto, dipende l’ampiezza dell’oscillazione che può compiere il cursore del pensare: se la tolleranza alla frustrazione maturata è bassa, il cursore oscillerà su contenuti primitivi; man mano che cresce la tolleranza, anche l’oscillazione si farà più ampia, arrivando a toccare contenuti più evoluti. Quindi il livello di sviluppo del pensiero dipende dalla tolleranza alla frustrazione maturata. È a questo livello che si pone il concetto di holding proposto da Winnicott o quello di rêverie di Bion: la qualità delle cure materne, cioè le esperienze di un “seno sufficientemente buono”, consentono al bambino di sviluppare una fiducia di base tale da poter poi tollerare meglio e più a lungo la frustrazione, ponendo le basi per una capacità di pensare, o gnosica, 23 evoluta. Inoltre la capacità materna di assumere le proiezioni-bisogni del neonato, elaborandole e attribuendo loro un significato, renderà il bambino capace di elaborare a sua volta il vuoto, senza isolarsi autisticamente dalla realtà, consentendogli di sviluppare una solida capacità di rappresentazione e pensiero. Proprio facendo riferimento a questi concetti espressi da Marcoli ho sviluppato la mia teoria sulla disgnosia, collegandola alla mancata elaborazione della frustrazione da parte del bambino, che gli procura un senso di vuoto e quindi di noia, collegata a una grande rabbia latente. Il bambino disgnosico non può accedere a un pensiero evoluto in termini cognitivi. Il pensiero, infatti, si realizza solo dove si rende necessaria la “trasformazione” del bisogno inappagato in desiderio rispetto alla realizzazione ricercata e attualmente indisponibile. Il generatore di pensieri è il fattore che rende possibile il passaggio da pensiero vuoto a pensiero saturo e che si fonda sulla capacità simbolica interiorizzata, che consente al pensiero di non vagare nel vuoto di un “terrore senza nome”, ma di oscillare su elementi di rappresentazione adeguati al bisogno e al desiderio corrispondente. La salute mentale dipende quindi da una condizione fondamentale: la fissità è patologica e l’oscillazione è sana. 1.3.1. Disgnosia come difesa dall’ambivalenza Ogni tentativo di separazione mal superato, tale quindi da causare una eccessiva frustrazione e conseguentemente la rabbia, che resta latente, individua la possibilità, di fronte alla richiesta di sviluppare il proprio pensiero autonomo, di difendersi attraverso una esplosione emotiva o una implosione. La rabbia è la grande emozione collegata alla mancata separazione e quindi al reiterarsi della frustrazione primaria. Quando il soggetto vive questa esperienza, le difese trasformano la rabbia latente in noia. Ogni attività che richiede un coinvolgimento personale viene definita noiosa. La noia è l’elemento caratterizzante del pensiero del disgnosico. Essa subentra quale difesa di fronte a una fatica che il soggetto avverte come non realizzabile. 24 La disgnosia si manifesta quindi come un meccanismo di adattamento agli esiti traumatici della mancata individualizzazione e a una fatica irrealizzabile a seguito della mancanza di autonomia. La difesa dalla rabbia tramite la noia comporta una non attivazione del sé, che si esprime come un sé apatico, emotivamente povero: questo elemento può apparire come pigrizia temperamentale. In realtà ciò che appare come pigrizia è la mancata attivazione individuale delle funzioni cognitive, è l’esito di una incompleta o mancata integrazione psiche-soma, accompagnata dalla incapacità di fare fatica. Infatti nessuno, nemmeno la madre, chiede mai a questi soggetti di fare una minima fatica, e ciò è gravido di effetti negativi sull’apprendimento. Quei genitori che iperproteggono il bambino da ogni fatica ottengono come conseguenza di renderlo sempre più pigro, anche se in realtà questa pigrizia è sintomo di una mancata attivazione del processo di separazione-individuazione. In particolare ciò è tanto più vero quanto più la separazione dalla madre viene vissuta con una forte angoscia, come quella che Freud ha chiamato angoscia di castrazione, che è un’angoscia di separazione. A volte le difficoltà emotivo-relazionali risiedono nell’ambivalenza tra le richieste scolastiche, di autonomia, competenza, prestazione, e le attese genitoriali, che, a causa della paura del distacco e della separazione, esasperano il mantenimento di atteggiamenti infantili e tendono a non far mai affrontare i problemi ai figli, temendo che essi si sentano feriti e si facciano male. Andreas Giannakoulas (1990) scrive: «In questo senso la reciprocità implica separatezza, che, a mio avviso, significa non solo mantenere la minima distanza necessaria dall’altro, ma anche poter gestire da solo il proprio tempo e sperimentare una certa autonomia che permette di stare con l’altro e essere se stessi». L’ambivalenza nella relazione genitoriale diventa generatrice, nel figlio, della difficoltà a selezionare l’informazione corretta tra le due che gli vengono contemporaneamente presentate, e ciò comporta che il figlio non riesca a comprendere quale tenere e quale no: la disgnosia nasce proprio dalla impossibilità di selezionare le informazioni. Queste situazioni sono spesso presenti nei casi di “madri vulnerabi25 li”, dove la rimozione dell’aggressività porta il figlio a non potersi separare dalla madre e a non riconoscere la propria identità (Marcone 2009). L’angoscia di castrazione che emerge in queste situazioni relazionali è un punto di condensazione di angosce precedenti, un elemento strutturale di angosce future e condizione determinante l’uso autonomo del pensiero. Nel rapporto tra l’angoscia di castrazione e il complesso di castrazione con i suoi precursori si evidenzia una doppia genealogia: da una parte quella di una rappresentazione e dall’altra quella di un affetto. L’affetto si chiama ansia o angoscia impensabile. L’affetto della rappresentazione è un’angoscia impensabile, che è così grande che è impossibile rappresentarla e quindi viene agita nel corpo con una motricità afinalistica e disorganizzata. La genealogia della rappresentazione nell’ansia di castrazione è costituita dalla vicissitudine di un fantasma teorizzante: il fantasma della separazione. Le ansie di separazione possono essere anali, orali, falliche. La castrazione non riguarda solo il pene, ma ci sono angosce più profonde: perdere il capezzolo, staccarsi dalle feci, ecc. L’angoscia di castrazione, nella significatività qui presentata, riguarda anche la realtà femminile. Sulla base della teoria di Melanie Klein relativa alle posizioni “schizoparanoide” e “depressiva” nello sviluppo psicologico del bambino, Bion e Marcoli fanno dell’oscillazione tra queste due posizioni il movimento costante che genera pensieri, passando da stati di confusione e di scomposizione a ritorni di ordine e di organizzazione mentale. 1.4. Disturbi di apprendimento e inibizione psicomotoria Nel mio libro Dislessia (2004) sostengo che l’affermazione dell’identità individuale è un processo psichico e biologico collegato con quello di separazione-individuazione dal corpo materno e con l’acquisizione sul piano psichico e corporeo del proprio sé. Anche le manifestazioni più corporee della persona appartengono al concetto di psiche-soma come manifestazione dell’umanizzazione del soggetto. 26 Quando questo processo è danneggiato, a causa dell’accudimento da parte di un ambiente non sufficientemente buono (Winnicott 1991), si possono presentare dei disturbi nell’individuazione dell’identità che assumono una particolare visibilità sul piano degli aspetti corporei e di conseguenza psicomotori funzionali. Si può operare un collegamento in termini di manifestazioni psichico-corporee dei principali disturbi infantili riguardanti la non affermazione, la perdita, o la modificazione dell’identità individuale. L’elemento che accomuna questa descrizione è la concezione di un’identità quale fenomeno prima di tutto corporeo, appartenente allo psiche-soma individuale, al quale concorrono l’affermazione del sé e a cui si collega quella di un io corporeo che consente l’organizzazione della sua rappresentazione in quanto schema corporeo. I disturbi che possono essere collegati al problema dell’identità sono: le psicosi simbiotiche, il disturbo confusivo, il disturbo da falso sé, il disturbo d’ansia di separazione, i disturbi di attaccamento e, tra i disturbi psicomotori, in particolare quello di non affermazione della prevalenza tonico-motoria naturale, quello di dislateralità e l’inibizione psicomotoria. Quest’ultima può manifestarsi in tre modi diversi: con rigidità e ipercontrollo, con passività e apatia, con ipotonia e difetto di coordinazione. Il soggetto dimostra una generalizzata mancanza di iniziativa rispetto all’ambiente, realizzando un processo di aggiustamento carente. L’area più colpita dall’inibizione è quella cognitiva sia a livello mentale che motorio. Spesso questi bambini arrivano alla consultazione con lo psicologo per problemi di apprendimento scolastico, che preoccupano molto la famiglia. Le funzioni psicomotorie più disturbate sono quella di aggiustamento e quella di percezione. Nel DSM-IV l’inibizione viene presentata come difficoltà di evitamento nel disturbo di attaccamento deficitario ed è suddivisa in due sottotipi: inibito e disinibito. Sovente l’inibizione non interessa solamente il versante comportamentale motorio, ma coinvolge anche il funzionamento intellettivo oltre che l’organizzazione dello schema corporeo. Freud (2002) sostiene che «l’inibizione sia una limitazione delle funzioni dell’io, che avvengono o per motivi prudenziali o in seguito a impoverimenti di energia […] l’inibizione non è un sintomo 27 […] perché il sintomo non può essere descritto come un processo che si compie nell’io o che agisce sull’io». L’inibizione è intimamente legata alle funzioni sia a livello globale dell’io sia a livello psicomotorio e può riguardare una modalità difensiva collegata proprio alla riduzione delle funzioni psicomotorie. Possiamo immaginarla come un abbassamento di livello energetico che agisce sulla manifestazione funzionale collegata a una riduzione globale del senso di sé, come se il bambino non si sentisse ancora pienamente se stesso. Gli indici psicomotori più significativi sono le alterazioni della regolazione tonica, del controllo tonico ed emotivo, dell’aggiustamento spontaneo e della coordinazione dinamica generale. Il bambino inibito appare, inoltre, come senza corpo, e quando il corpo si manifesta è in realtà una caricatura o assume comportamenti stereotipati e ripetitivi. Nell’aggiustamento spontaneo, il bambino inibito non prende iniziative, o se le prende svolge un’attività ripetitiva. Nell’aggiustamento indotto, cioè richiesto in modo manifesto dal terapeuta, il bambino inibito ha bisogno di essere invitato con insistenza a utilizzare gli oggetti. Il bambino inibito esita o aspetta a iniziare la realizzazione di una consegna che solleciti l’uso degli oggetti in funzione dello scopo desiderato, senza definirne le modalità esecutive; quando agisce presenta ipotonicità o ipertonicità, non riesce a raggiungere lo scopo desiderato e spesso non insiste nei tentativi. Il bambino con disturbo di separazione-individuazione, in genere inibito, che non trova interessante nessun oggetto reale adatto alla sua età, ha assimilato il mondo oggettuale dell’adulto dal quale non è separato e questo fatto gli impedisce la sua reale affermazione. Non riesce a elaborare oggetti interni e quindi in genere non riesce a disegnare se stesso e, a volte, nemmeno i suoi genitori. La mancanza di oggetti interni provoca una sensazione di vuoto abbandonico che può depersonalizzare o frammentare l’io. Quando la mente del figlio è totalmente fusa con quella della madre, a causa di modalità d’identificazione proiettiva, egli non riesce ad avere uno sviluppo cognitivo adeguato sul piano delle capacità logico-linguistiche. Scrivono Giannakoulas e Fizzarotti Selvaggi in Il counselling psicodinamico (2003), a proposito dell’identificazione proiettiva 28 e dei suoi effetti sul bambino: «Un motivo primario se non cruciale dell’investigazione intorno all’identificazione proiettiva è il bisogno di liberarsi di aspetti intollerabili del sé». E più avanti continuano: «In particolare [Bion] pensava che la proiezione e la frammentazione dell’apparato proiettivo di qualcuno portassero non solo alla percezione distorta dell’oggetto, ma anche alla mutilazione dell’apparato percettivo del soggetto. H. Segal sostiene che in tali situazioni ciò che viene proiettato è la capacità cognitiva stessa e la capacità di giudizio, così che gli oggetti vengono sperimentati come onniscienti e giudicanti, gli oggetti cattivi creati hanno spesso la qualità di un potente superego». L’inibizione intellettiva e quella della condotta rappresentano le psicopatologie più frequentemente riscontrate in riferimento alle difficoltà di apprendimento o all’insuccesso scolastico. Si tratta il più delle volte di bambini apatici ma compiacenti, che non hanno reazioni apparenti alla separazione, non hanno opposizioni manifeste, ma utilizzano comportamenti di inibizione psicomotoria. L’inibizione può essere anche il sintomo di una nevrosi monosintomatica o di una depressione, in cui il disinvestimento della libido colpisce selettivamente le competenze cognitive. Altri comportamenti, che si evidenziano a livello di manifestazioni funzionali alterate implicano necessariamente tutta una serie di adeguamenti neurologici “inconsapevoli” alla persona, così complessi e sofisticati da rendere il soggetto incapace di sviluppare attitudini corrette a livello nervoso per realizzare le attività quotidiane. 1.5. La disgrafia come disgnosia motoria Il ruolo dell’attività motoria nella costruzione della mente e quello delle modalità d’apprendimento nella costruzione dell’attività motoria sono mattoni costitutivi del comportamento umano, anche per quanto riguarda il linguaggio. Inoltre il linguaggio cinestesico, che è l’elemento costitutivo della motricità grafica, collegato al linguaggio sonoro, rappresenta l’elemento fondamentale per la realizzazione della grafia. La sensazione precede sempre l’azione e per questo è la 29 sensazione che consente di correggere l’azione quando questa non è adattata allo scopo. Centri nervosi quali cervelletto e gangli della base intervengono nella regolazione sia della motricità sia del linguaggio, e quindi l’aspetto motorio della scrittura interviene nell’apprendimento del grafismo, non solo per la componente grafica stessa, ma anche per quella gnosica relativa al riconoscimento delle singole lettere e alla loro memorizzazione consequenziale. Spesso il soggetto che presenta una dislessia manifesta anche una certa disgrafia, anche senza disortografia: sono proprio le carenze sul piano delle informazioni cinestesiche dell’esecuzione motoria delle lettere e delle parole che non gli consentono di attivare il riconoscimento grafico degli aspetti allografi nei suoni omofoni. Risulta quindi evidente che solo la realizzazione di apprendimenti motori, secondo una metodologia che consenta l’acquisizione di automatismi plastici e fondati sulla disponibilità corporea, può consentire di ridurre i problemi posti dalla disgrafia e dalla disprassia in generale. 30