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Trauma Care
Capitolo
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Trauma cranico
Arturo Chieregato, Stefano Signoretti
ASPETTI PATOLOGICI
ED ELEMENTI DI CLASSIFICAZIONE
Il trauma cranico (TBI; Traumatic Brain Injury) è un insieme
complesso di eventi biomeccanici e fisiopatologici in grado di
dare origine a quadri clinici di entità estremamente variabile.
Misurare la gravità di un TBI ha sempre presentato enormi
difficoltà e molti dei sistemi usati in passato non sono riproducibili per il loro carattere soggettivo. La Glasgow Coma Scale
(GCS) [1], scala di valutazione usata universalmente pur con
limitazioni di applicabilità nel paziente con edema facciale,
intubato o sedato, rappresenta oggi il più utile strumento per
la classificazione dei TBI su base clinica soprattutto nelle fasi
iniziali, individuando tre principali categorie: trauma lieve
(GCS 15-14), moderato (GCS 13-9) e grave (GCS 8-3) [2-4].
Il rapporto tra TBI gravi, moderati e lievi è stimabile in
1:1,5:22. I TBI gravi rappresentano a livello mondiale la
più frequente causa di morte e di invalidità permanente
nei bambini e negli under-45 e la causa più frequente di
decesso a seguito di qualunque evento traumatico [5]. Fino
a circa dieci anni fa, il 50% delle morti conseguenti a TBI
grave avveniva nelle prime 48 ore e di queste il 60% circa
entro le prime 24 ore [6].
Il miglioramento delle tecniche di primo soccorso e una
straordinaria campagna di prevenzione degli incidenti
stradali hanno contribuito a ridurre significativamente il
numero degli incidenti e delle vittime. Tuttavia, il grande
numero di pazienti che oggi sopravvive al TBI grave rappresenta la sfida scientifica e sociale più difficile, rivolta a
limitare l’estensione del danno neuronale e a implementare
al massimo le possibilità di recupero funzionale delle cellule nervose traumatizzate.
Le alterazioni anatomiche e funzionali dell’encefalo conseguenti a ogni TBI hanno un’evoluzione complessa che
può essere distinta schematicamente in tre fasi successive e
ben definite dal punto di vista anatomopatologico: il danno
primario, le complicanze primarie e il danno secondario.
Il danno primario è direttamente legato all’impatto del
cranio, con applicazione di “forze” che possono essere essenzialmente ridotte a fenomeni di contatto (caratterizzati
dalla deformazione della teca cranica nel punto d’impatto, con minimo coinvolgimento della massa encefalica)
e fenomeni inerziali (legati all’accelerazione che segue ai
bruschi movimenti del capo dopo un trauma) che producono uno spostamento significativo della massa encefalica,
tale da avere come conseguenza danni molto maggiori
(Fig. 5.1). Per esempio, una forza meccanica applicata per più
di 200 msec rappresenta essenzialmente una forza statica,
in grado di provocare una compressione “lenta” del cranio.
Per quanto grande possa risultare questo tipo di forza, il
paziente riporterà solo lesioni focali e, almeno inizialmente,
non presenterà in genere alterazioni dello stato di coscienza.
Più di frequente, purtroppo, nei traumi cranici entrano in
gioco forze dinamiche di durata ben inferiore a 200 msec,
in grado di produrre uno spostamento reale della massa
encefalica secondo due modalità: traslazione (accelerazione
lineare) e rotazione (accelerazione angolare) [7]. Su queste
elementari considerazioni biomeccaniche si basa una più
avanzata classificazione anatomopatologica del TBI, fondata
sulla fondamentale distinzione tra trauma “focale” (quando
è presente una lesione intracranica di dimensioni tali da
poter essere facilmente identificata) e trauma “diffuso” (in
genere non associato a lesioni macroscopicamente evidenti
e danno neurologico privo di aspetti clinici di focalità, ma
caratterizzato da diffusa e generalizzata alterazione delle
funzioni neurologiche). Il meccanismo di traslazione è
prevalentemente responsabile degli effetti focali del trauma,
mentre la rotazione lo è dei danni diffusi. Tale distinzione
è tuttavia prevalentemente teorica in quanto le due componenti del movimento sono quasi sempre associate e i
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Trattamento sistematico delle lesioni
Figura 5.1 Elementi di biomeccanica del trauma cranico. (Modificata da: Vagnozzi R. I traumi cranio-encefalici. Trattato
di medicina legale e scienze affini. CEDAM editore 1999, vol III, cap 106)
movimenti incontrollati del corpo danno luogo a numerosi
e imprevedibili vettori di accelerazione. L’entità del danno
primario dipende infine dalla progressiva distribuzione
delle forze lesive sopra descritte: questa segue un principio
fisico ben preciso per il quale gli effetti delle forze capaci di
produrre la deformazione di una massa viscoelastica (come
può essere considerata quella cerebrale) sono massimi in
superficie e vanno progressivamente diminuendo verso il
centro. Il grado di gravità del quadro clinico iniziale è legato
dunque all’estensione del danno che si verifica in senso centripeto, cioè alla progressiva compromissione delle strutture
corticali, sottocorticali, diencefaliche, mesencefaliche, pontine e bulbari. Da un punto di vista anatomopatologico, il
danno primario comprende il danno assonale diffuso (DAI;
Diffuse Axonal Injury), le contusioni cerebrali e l’emorragia
subaracnoidea post-traumatica.
Strettamente legate al danno primario sono le cosiddette
“complicanze primarie”, che comprendono i danni cerebrali
prodotti dalle conseguenze del processo patologico iniziato
al momento del trauma, fra i quali gli ematomi intracranici
(epidurale, subdurale, intracerebrale) e il rigonfiamento
cerebrale (swelling). L’ematoma epidurale acuto è in genere
il risultato di una lesione da urto (impatto di una forza
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statica), mentre l’ematoma intracerebrale post-traumatico e i focolai lacerocontusivi rappresentano l’evoluzione
delle contusioni cerebrali iniziali; ematoma sottodurale
acuto e swelling sono invece il risultato di un danno molto
complesso esercitato su vasi e tessuto cerebrale dall’azione
combinata di forze dinamiche traslazionali e rotazionali.
Il danno secondario, remoto rispetto all’impatto traumatico, è legato a fenomeni intracranici quali l’aumento della ICP
(Intracranial Pressure) oppure a fattori sistemici quali ipossia
e ipotensione. Più del 50% dei pazienti con TBI grave sono
infatti politraumatizzati, ipotési e in stato di shock [8]. Il
TBI di per sé è in grado di produrre una situazione di ipossia e ipotensione anche in assenza di lesioni sistemiche, in
particolar modo quando l’azione delle forze inerziali causa
fenomeni di sofferenza anche temporanea del tronco cerebrale, potendo generare lunghi periodi di apnea e/o una sorta di
“atassia” dei normali pattern respiratori (irregolarità del ritmo
respiratorio, riduzione del tidal volume, perdita momentanea
dei riflessi di protezione faringo-tracheali con inalazione), o
più semplicemente per ostruzione delle vie aeree (Fig. 5.2).
La HICP (Intracranial Hypertension), la riduzione della CPP
Cerebral Perfusion Pressure e del flusso ematico cerebrale che si
accompagnano alle complicanze primarie possono condurre
Trauma cranico
Figura 5.2 Esempio di paziente politraumatizzato, con
trauma cranio-facciale e ingorgo delle vie aeree, intubato
sul luogo dell’incidente prima del trasporto.
a gravissime alterazioni del metabolismo cellulare, innescando una cascata di eventi che conduce alla cosiddetta “via
finale comune” del danno cerebrale post-traumatico: uno
stato di ischemia grave e irreversibile in grado di interessare
qualunque area cerebrale.
Trattare le complicanze primarie e prevenire o limitare
l’instaurarsi del danno secondario è lo scopo principale del
trattamento medico e chirurgico del traumatizzato cranico
grave.
DIAGNOSI E TRATTAMENTO
IN URGENZA
Le priorità diagnostiche devono focalizzarsi sul rilievo di
ematomi cerebrali esercitanti effetto massa e secondariamente, ma contemporaneamente, sull’individuazione e
minimizzazione delle condizioni di aumento del volume
ematico encefalico e di ridotta disponibilità di ossigeno
cerebrale.
Nel contesto del trauma maggiore, la prima diagnosi di TBI
è abbozzata in ambito preospedaliero attraverso la valutazione del livello di coscienza (GCS) e una semplice valutazione
clinica. La presenza di una emiparesi può essere indice di una
massa in evoluzione; l’agitazione psicomotoria a volte si associa a lesioni evolutive frontali in assenza di evidenti sintomi
motori, anche nel caso in cui sia conservata la capacità di
esecuzione degli ordini semplici. Utile l’osservazione delle
pupille: altamente allarmante è l’anisocoria che, in rari casi,
può essere presente anche con elevati GCS, se associata a
lesioni nella fossa temporale che producano coning prima del
disturbo della coscienza; la midriasi areattiva può far sospettare quadri di swelling diffuso, ematomi sottodurali con shift, ma
anche esiti di ipotensione e ipossia gravi. Anche la presenza di
lesioni del cuoio capelluto o la percezione di fratture craniche
avvallate possono rafforzare la diagnosi di TBI.
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L’accuratezza della valutazione preospedaliera è rilevante
in quanto a essa segue l’impostazione del management.
In funzione delle capacità dell’operatore, il paziente con
GCS ≤8 dovrebbe essere sottoposto a protezione delle
vie aeree e a ventilazione artificiale. La ventilazione postintubazione dovrebbe essere meccanica, con ventilatore
dotato di PEEP (Positive End-Expiratory Pressure) che eroghi
un volume certo sotto attento monitoraggio della ETCO2
(End Tidal CO2) [9,10]. Un caso particolare è determinato
dalla presenza di anisocoria o midriasi non reagente, dove
è suggerita l’iperventilazione aumentando dapprima la
frequenza ventilatoria e solo successivamente, se necessario, il volume corrente. La manovra è da condursi fino a
eventuale reversione del quadro pupillare, ma va sospesa
in presenza di ipotensione subentrante. Alternativamente
o contemporaneamente, è consigliata la somministrazione
di mannitolo ad alte dosi (1-2 g/kg) e alta velocità (qualche
minuto). Anche l’ipertonica salina può essere usata con
lo stesso obiettivo, in particolare nei pazienti con shock
emorragico [11].
In presenza di TBI è consigliato il mantenimento di una
PAS >110 mmHg, tuttavia in un anziano probabilmente
dovrebbe essere superiore a 130 mmHg mentre valori inferiori a 110 mmHg potrebbero essere accettabili in adolescenza e nelle donne in età fertile. Nel bambino valori di
PAS fra 70 mmHg e 90 mmHg possono essere accettati.
L’accuratezza della diagnosi di TBI è rilevante per la scelta
della destinazione ospedaliera e il soccorritore è chiamato
a selezionare per la centralizzazione diretta il paziente con
sospetto TBI grave o con un GCS in declino.
Nella prima fase ospedaliera, per i pazienti con TBI moderato o grave la TC cerebrale è sempre indicata, tuttavia il
timing di tale esame è sempre da collocare nell’ambito di un
percorso basato soprattutto sullo stato emodinamico. Va
ricordato, in particolare, che nel paziente con TBI grave emodinamicamente instabile può essere necessaria un’immediata
laparotomia rinviando l’effettuazione della TC. Un’eccezione
a questa regola può essere rappresentata dal paziente instabile e con segni di lato o deterioramento neurologico,
purché sussistano situazioni ottimali dal punto di vista logistico (sala TC vicino a shock room) e organizzativo (capacità
del trauma team di eseguire, in rapida successione o ancora
meglio in contemporanea con l’intervento di stabilizzazione
emodinamica, un intervento di craniotomia). In tali casi,
l’accesso alla sala operatoria viene differito dei minuti necessari a ottenere una TC della testa senza mdc. Posticipare la TC
a intervento di stabilizzazione concluso potrebbe peggiorare
l’outcome se fosse presente un sanguinamento cerebrale o uno
swelling, per il prolungarsi di una condizione di HICP. Nel
contesto degli ematomi questi aumentano in funzione della
normalizzazione pressoria e per eventuale coagulopatia. In
una logica integrata, sebbene esistano difficoltà operative
e cliniche (coagulopatia), alcuni Centri [12] suggeriscono,
almeno nel caso di pazienti con anisocoria ed emodinamicamente instabili, di posizionare una ICP durante la procedura
di stabilizzazione emodinamica. La misurazione della ICP
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Trattamento sistematico delle lesioni
potrebbe permettere una terapia medica e/o una rimodulazione dell’iter diagnostico e terapeutico, fino alla possibilità
di una craniotomia.
EMATOMI INTRACRANICI
POST-TRAUMATICI
Il TBI grave presenta spesso un quadro clinico rapidamente
evolutivo soprattutto per le possibili complicanze primarie,
quali la formazione di masse endocraniche tendenti ad
aumentare progressivamente di volume fino a produrre
compressione e/o dislocazione del parenchima cerebrale.
Le “lesioni occupanti spazio” post-traumatiche sono rappresentate principalmente dalla formazione di ematomi
endocranici, essenzialmente suddivisi in:
s ematomi extracerebrali, che interessano sedi anato-
s
miche ben definite dai piani meningei e sono conseguenti alla lesione di strutture vascolari del tutto
diverse tra loro. Gli ematomi epidurali sono compresi
tra la teca cranica interna e la superficie esterna della
dura madre; gli ematomi sottodurali si estendono tra
il piano durale interno e l’aracnoide, mentre le emorragie subaracnoidee sono comprese fra l’aracnoide e
la pia madre;
ematomi intracerebrali, che sono per la maggior parte
il risultato di lacerazioni del parenchima cerebrale in
seguito a traumi che provocano la brusca accelerazione/decelerazione dell’encefalo contro le strutture
ossee e fibrose presenti all’interno del cranio.
Tali lesioni possono essere presenti contemporaneamente. Un ematoma si comporta come un qualsiasi processo
occupante spazio a rapida evoluzione: comprime l’encefalo. L’interessamento della corteccia motoria sottostante
l’ematoma provoca rapidamente deficit neuromotori
(emiparesi/emiplegie) controlaterali alla lesione, causa
HICP acuta ed ernie cerebrali interne (sindrome da incu-
neamento, il cui primo segno è dato dal deficit dei nervi
endocranici compressi durante il processo di dislocazione
encefalica).
Diversamente, le ESA (Emorragia Sub-Aracnoidea) non
si presentano con deficit neuromotori in quanto lo spandimento emorragico non tende a organizzarsi in raccolte ma,
dato il carattere molto lasso delle strutture di questo piano
meningeo, si dispone a “verniciare” gli emisferi.
Ematoma epidurale acuto
In una percentuale compresa tra l’1 e il 3% di tutti i traumi
cranici si sviluppa un ematoma epidurale acuto (EEA) come
conseguenza dell’azione di forze statiche da traumi diretti
della testa. È più frequente nel sesso maschile, con un picco
di incidenza tra i 15 e i 40 anni [13].
Il sangue che forma la raccolta proviene in genere da un
vaso arterioso interrotto in corrispondenza di una linea di
frattura; talora sono lacerate vene durali satelliti di un’arteria
meningea o un seno venoso durale, in altri casi l’emorragia
riguarda vene diploiche in sede di frattura o minuscoli vasi
(sanguinamento a nappo) che connettono la dura madre
all’osso. La raccolta può dunque variare da una piccola falda
di pochi cc a un vasto ematoma di oltre 50-60 cc di volume
[14] (Fig. 5.3). Nella maggioranza dei casi la raccolta è
localizzata in sede temporo-parietale dove decorre l’arteria
meningea media, la quale, subito al di sopra dello pterion,
si divide nei suoi due rami anteriore (frontale) e posteriore
(parietale). La patogenesi dell’EEA in questa sede è inoltre
favorita dal ridotto spessore della squama temporale, frequente sede di frattura, e dalla scarsa aderenza a essa della
dura madre (zona scollabile di Marchant) che permette al
sangue stravasato di raccogliersi. L’EEA è dunque di solito
localizzato nella regione endocranica sottostante alla zona
dell’impatto traumatico, sovente denunciata da lesioni dei
tessuti molli. Sono possibili ematomi senza fratture, soprattutto in età pediatrica, provocati dallo scollamento della
meninge, da immediata introflessione dell’osso durante
l’impatto e dal successivo strappamento di vasi superficiali
Figura 5.3 Quadro TC di ematoma extradurale acuto temporo-parietale destro. Effetto massa con compressione del ventricolo
laterale destro e deviazione verso sinistra della linea mediana.
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Trauma cranico
epidurali senza lacerazione di grosse arterie o vene meningee. È invece un’affezione rara negli anziani, dove la dura
madre è tenacemente adesa all’osso.
L’EEA può presentarsi con una classica sequenza di segni
clinici. La concussione conseguente al trauma può determinare un periodo iniziale di incoscienza cui segue un intervallo lucido, durante il quale le funzioni neurofisiologiche
sono relativamente normali; quando la lesione si espande
la coscienza si deteriora rapidamente: tale situazione è
descritta in letteratura come “paziente che parla e muore”.
Studi su larga scala hanno tuttavia dimostrato la presenza
dell’intervallo lucido solo in una piccola percentuale di
pazienti con grave TBI (12-25% dei casi) [15,16].
Una raccolta in sede temporale determina compressione
del lobo temporale causando erniazione dell’uncus e della
circonvoluzione dell’ippocampo attraverso l’incisura del
tentorio del cervelletto. Farà seguito una diminuzione dello
stato di coscienza per sofferenza del tronco dell’encefalo e
una precoce midriasi omolaterale per sofferenza delle fibre
parasimpatiche del III nervo cranico, stirate e compresse.
L’anisocoria dunque è un sintomo tardivo, espressione di
incuneamento.
L’EEA è una patologia che, se correttamente diagnosticata, può avere una prognosi eccellente. Una mancata
o errata diagnosi è l’unica ragione di un outcome sfavorevole: la natura apparentemente banale di un trauma che
inizialmente non produce segni o sintomi neurologici
può dare un falso senso di sicurezza; sintomi come cefalea
e vomito possono comparire tardivamente; l’intervallo
lucido, che presuppone un’iniziale perdita di coscienza,
è un’eccezione e non la regola. Non esistono né un quadro clinico tipico né una logica sequenza temporale di
eventi prevedibili. Ogni paziente che subisce un TBI merita
dunque un’anamnesi approfondita, anche intervistando
testimoni del fatto. Una perdita di coscienza, seppur di
pochi secondi, è espressione sicura di danno, anche se solo
funzionale, ed è spesso un dato non facile da quantificare.
Il paziente si rialza prontamente, può presentare cefalea o
un ematoma dello scalpo, giungere al PS vigile e con esame
neurologico negativo.
La mortalità per EEA secondo alcuni Autori è direttamente
correlata al livello di coscienza al momento dell’intervento
chirurgico e non dipende dalla sede o dalle dimensioni
dell’ematoma [17,18]. Quando il malato arriva con segni
avanzati di incuneamento viene riportata una mortalità
fino al 40% [19]. Altri Autori indicano che la prognosi è
principalmente correlata al GCS e al valore di ICP, seguiti
dal grado di spostamento della linea mediana alla TC e
dall’età del paziente, mentre dinamica del trauma e durata
dell’intervallo lucido non sono fattori predittivi [20-22].
L’EEA merita un alto indice di sospetto in tutti i traumi
cranici; una contusione extracranica della regione temporale con associata frattura (nell’80-90% degli EEA il
cranio è fratturato) dovrebbe sempre essere considerata
a rischio. Una TC del cranio con finestra per osso può
escludere velocemente e con sicurezza fratture ed ema-
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tomi e/o identificare lesioni coesistenti. La TC offre però
una visione statica e istantanea di un fenomeno dinamico
come la formazione di un ematoma, cosìcché un EEA può
non essere visto quando l’esame viene effettuato troppo
precocemente (ultra-early CT). Va ricordato infine che i
pazienti affetti da coaugulopatie o in trattamento con terapia anticoagulante possono sviluppare un EEA anche in
seguito a traumi apparentemente banali. Esiste tuttavia la
possibilità che l’ematoma si sviluppi tardivamente, tanto
che questa evenienza ha assunto una propria dimensione
patologica. L’ematoma epidurale “tardivo” (delayed) non va
confuso con la variante sub-acuta o cronica; esso si manifesta clinicamente in forma acuta, ma a distanza di giorni dal
trauma per meccanismi patogenetici ancora poco chiari. È
un’evenienza rara, ma pericolosa e di difficile diagnosi. L’incidenza varia dal 6 all’8% di tutti gli ematomi epidurali. Il
termine “tardivo” descrive la dinamica del sanguinamento:
i pazienti inizialmente possono non avere o avere soltanto
una insignificante falda di ematoma alla TC e l’ematoma
viene diagnosticato soltanto mediante un follow-up radiologico o per documentare un peggioramento clinico. La
patogenesi non sta soltanto nella fonte del sanguinamento,
ma include variazioni di ICP, di PA e del volume intracranico. Una diminuzione di quest’ultimo, spontaneo o a
seguito di trattamento farmacologico, e un ritorno della PA
su valori fisiologici dopo lo shock iniziale, giustificano una
comparsa tardiva dell’ematoma, specialmente laddove esisteva una rima di frattura cranica. Vanno considerati infine
gli ematomi epidurali asintomatici.
La presenza alla TC di un EEA che comprime il parenchima cerebrale sottostante impone il trattamento chirurgico
urgente e indifferibile mediante craniotomia osteoplastica.
Per le altre situazioni, la scelta di un trattamento conservativo
o chirurgico è argomento ancora dibattuto [23]. A sostegno
delle tesi interventistiche, oltre al rischio dell’aumento improvviso di volume, vi sono considerazioni di tipo economico (aumento dei tempi di ospedalizzazione e del numero
delle TC). Tuttavia, anche se la storia naturale di un ematoma
epidurale è ben definita, non è prevedibile con certezza quali
ematomi epidurali si ingrandiranno e di quanto.
Ematoma sottodurale acuto
I traumi che producono una violenta accelerazione dell’encefalo all’interno della scatola cranica possono causare
la lacerazione dei vasi venosi drenanti il sangue dalla corteccia cerebrale ai seni venosi durali (vene cortico-durali).
Tale lacerazione avviene in genere in zone diametralmente
opposte alla sede dell’impatto, principalmente per l’inerzia
presentata dalla massa encefalica durante la rapida accelerazione. La raccolta ematica che ne consegue costituisce
l’ematoma sottodurale, che si dice acuto (ESDA; Ematoma
Sottodurale Acuto) quando i segni clinici, consistenti in
un rapido deterioramento della coscienza fino al coma
e a deficit neuromotori, iniziano entro le 48-72 ore dal
trauma [24] (Fig. 5.4).
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Trattamento sistematico delle lesioni
Figura 5.4 Quadro TC di ematoma subdurale acuto emisferico
sinistro. Effetto massa sulle cavità liquorali e deviazione
della linea mediana a destra.
Il 10-15% dei traumatizzati cranici gravi sviluppa un
ESDA; di questi, circa il 60% va incontro a rapido deterioramento delle condizioni neurologiche entro 6 ore dal trauma
e il 10% dopo le prime 24 ore [25]. Studi neuropatologici
hanno dimostrato che in seguito a ESDA quasi sempre si
instaura una sofferenza ischemica di entrambi gli emisferi
dovuta principalmente all’aumento della ICP e alla ridotta
perfusione cerebrale, essendo però il danno ischemico più
frequente nell’emisfero sottostante l’ESDA. Se si considera
che gli effetti dell’aumentata ICP sono diffusamente distribuiti nell’encefalo, la predominanza ipsilaterale del danno
ischemico non appare chiara. L’eventuale gradiente di pressione creato dalla raccolta sul parenchima sottostante non
sembra da solo essere sufficiente a spiegare tale fenomeno,
in quanto anche aree sottostanti a falde di ematoma molto
sottili e con effetto massa molto ridotto possono presentare
la stessa entità di ischemia [26,27]. Inoltre, è poco chiara
la genesi degli elevati valori di ICP in tali soggetti, dato che
sembra poco probabile che ne sia responsabile solo un
sanguinamento a pressione “venosa”.
L’intervento chirurgico di ampia craniotomia (frontotemporo-parieto-occipitale) ed evacuazione dell’ESDA va
eseguito con la massima urgenza, non tanto per il fatto di
evacuare l’ematoma stesso, quanto per garantire la decompressione osteo-durale del parenchima in grave sofferenza
ischemica. Tuttavia, nonostante il pronto intervento chirurgico, la prognosi dell’ESDA è spesso infausta: la maggioranza
delle casistiche presenta una mortalità di oltre il 50%, una
morbilità prossima all’80% e serie disabilità permanenti per
la maggior parte dei pazienti che sopravvivono. Insieme al
GCS, l’età dei pazienti è una variabile prognostica indipendente di mortalità (20% sotto i 40 anni, 65% per soggetti
più anziani, praticamente 100% negli ultra ottantenni).
I danni parenchimali associati inficiano ulteriormente
la prognosi: 22% di mortalità negli ESDA puri contro il
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30-60% negli ESDA associati ad altri ematomi intracerebrali
[28]. L’intervento di evacuazione chirurgica è spesso tecnicamente complesso per la difficoltà di ottenere un’emostasi
soddisfacente ed è condizionato dalla possibile insorgenza
del rigonfiamento cerebrale intraoperatorio, complicanza
frequente, acuta, difficilmente controllabile con i farmaci e
responsabile di alta mortalità perioperatoria.
Le considerazioni esposte portano dunque a considerare l’ESDA non come una massa occupante spazio, la cui
evacuazione chirurgica rappresenta l’atto principale del
processo curativo, ma quale epifenomeno ed espressione di
un TBI biomeccanicamente gravissimo, tanto che saranno
l’estensione e la gravità del danno primario a determinare
più di ogni altro fattore la prognosi finale. L’evento meccanico che provoca il brusco movimento inerziale della
massa encefalica, tanto violento da causare letteralmente
lo “strappamento” delle vene di drenaggio cortico-durale,
è lo stesso evento responsabile dell’instaurarsi di un gravissimo danno neuronale, assonale e micro-vascolare diffuso
(è frequente l’associazione tra ESDA e una o più contusioni
cerebrali). Gli scarsi meccanismi di compenso dell’omeostasi dei normali volumi intracranici, che in condizioni
fisiologiche prevedono un aumento massimo di circa
20 cc del volume prima di causare HICP, vengono aboliti
immediatamente dal versamento di sangue subdurale, in
genere piuttosto abbondante; anche se alle immagini TC
lo spessore della falda può apparire inferiore al centimetro, bisogna considerare che, non incontrando resistenze
anatomiche nella lassità dello spazio virtuale sottodurale,
il sangue si estende per l’intero emisfero e risulta di difficile
quantificazione. A questo punto l’encefalo, gravemente
danneggiato dall’insulto primario e ulteriormente gravato
dalle possibili sofferenze ipossiche e ipotensive legate alle
condizioni sistemiche, vede frustrati dal versamento ematico
subdurale tutti i possibili meccanismi di compenso pressorio-volumetrico. L’aumento inesorabile della ICP innesca
infine un circolo vizioso devastante. L’intervento chirurgico
di craniotomia, decompressione durale ed evacuazione dell’ematoma diventa dunque il primo e indispensabile atto per
poter successivamente tentare di ripristinare le condizioni
di omeostasi intracranica.
Contusioni cerebrali ed ematomi
intracerebrali post-traumatici
I meccanismi di violenta accelerazione/decelerazione dell’encefalo all’interno della scatola cranica provocano lesioni cerebrali per l’impatto del parenchima contro il pavimento delle
fosse craniche anteriore e media. Tali lesioni si presentano
come aree eterogenee e in genere multiple di necrosi, infarcimento ed emorragia con edema perilesionale, interessanti
più frequentemente le regioni fronto-temporo-polari in sede
cortico-sottocorticale. L’impatto degli emisferi contro la falce
può inoltre causare la formazione di focolai contusivi nella
loro parte mediale e sul corpo calloso. Nella fase iniziale, le
contusioni sono caratterizzate microscopicamente da emorra-
Trauma cranico
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vicinanza di questa struttura all’incisura tentoriale, anche a
valori ICP fino a quel momento bassi. Va sottolineato che la
scelta del trattamento chirurgico, tecnicamente complesso
per la difficoltà di ottenere un’emostasi soddisfacente, è attualmente basata su considerazioni opinionistiche e diverse
da paziente a paziente, non essendo presenti in letteratura
evidenze superiori alla categoria expert opinion.
Emorragia subaracnoidea
post-traumatica
Figura 5.5 Quadro TC di voluminoso ematoma intracerebrale
post-traumatico in regione frontale destra, associato
a ematoma subdurale acuto emisferico omolaterale (frecce).
gie perivascolari, picnosi delle cellule nervose, rigonfiamento
degli astrociti e alterazioni delle guaine mieliniche. Quando i
meccanismi di questo processo interessano aree più estese di
parenchima si innescano una serie di eventi emodinamici e
biochimici, quali il ripristino dei normali valori di pressione
arteriosa, il persistere della rottura della barriera ematoencefalica, il rilascio di enzimi da parte delle emazie stravasate,
la produzione di leucotrieni, prostaglandine e radicali liberi
in conseguenza della cascata dell’acido arachidonico, che
vanno ulteriormente a interferire sulla reattività vascolare e
sull’omeostasi dei meccanismi coagulativi locali. Il risultato
è che in poche ore si può formare un vero e proprio ematoma intracerebrale (Fig. 5.5).
Generalmente i focolai contusivi piccoli, con volume
inferiore ai 10 cc, non tendono ad aumentare e raramente
richiedono l’intervento chirurgico, mentre contusioni superiori ai 20 cc tendono nel 50% dei casi a evolvere entro
le 24 ore successive alla diagnosi TC e possono richiedere
l’evacuazione chirurgica, particolarmente se hanno sede nei
lobi temporali [29]. Quando al focolaio contusivo si associa
una falda di ESDA (anche se molto piccola) o ci si trova in
presenza di più focolai di scarso volume ma vicini tra loro,
la probabilità che la situazione evolva rapidamente è alta.
I pazienti con grandi ematomi cerebrali (>30 cc), con
spostamento della linea mediana evidente alla TC e alterato stato di coscienza richiedono l’evacuazione urgente
mediante craniotomia.
I pazienti a rischio di evoluzione di un’iniziale contusione
dovrebbero essere tenuti in stretta osservazione, sottoposti a
monitoraggio della ICP e a controlli TC qualora tale valore
subisca modificazioni in aumento. L’intervento di evacuazione chirurgica è indicato quando la ICP supera i 20 mmHg
nonostante il trattamento farmacologico, ovvero quando la
massa ha una rapida tendenza evolutiva ai controlli TC
seriati. Gli ematomi interessanti il lobo temporale possono
tuttavia provocare rapide e improvvise erniazioni, per la
Si intende con questo termine la presenza di sangue fra i
due foglietti (aracnoide e pia madre) delle leptomeningi.
L’emorragia subaracnoidea post-traumatica (tESA) è espressione di TBI grave; il versamento ematico ha origine più
frequentemente dalla rete vascolare piale, in genere in punti
diversi. Una volta fuoriuscito, il sangue tende inizialmente
ad accumularsi nelle parti declivi come le cisterne di base e
la scissura di Silvio, per poi “verniciare” l’encefalo lungo i
solchi e la scissura interemisferica. La presenza di sangue in
queste sedi è correlata con una prognosi peggiore rispetto a
un TBI di pari gravità senza tESA a causa soprattutto di due
fattori: l’aumento della ICP e l’insorgenza, a distanza di 3-7
giorni, di vasospasmo arterioso cui fa seguito inevitabilmente
una situazione di ischemia cerebrale [30]. Tale vasospasmo
sarebbe conseguenza di fattori diversi dalla sola presenza di
sangue subaracnoideo, come avviene nell’ESA spontanea. Il
massivo rilascio di serotonina che si verifica nei TBI potrebbe
avere un effetto vasocostrittore così come le forze di trazione
esercitate sui vasi durante il trauma potrebbero provocare
una reazione di spasmo. Il rischio dell’insorgenza di vasospasmo è presente infatti non solo nelle tESA ma anche negli
ematomi sottodurali, nelle emorragie intraventricolari, nelle
contusioni e nelle emorragie intracerebrali post-traumatiche;
i casi in cui la tESA si associa a raccolte ematiche intra o extraparenchimali hanno prognosi peggiore per quanto tempestiva possa essere l’evacuazione dell’ematoma.
La presenza di sangue nelle cisterne di base in una TC
eseguita al momento del ricovero è segno prognostico sfavorevole in quanto si ritiene tale situazione più di ogni altra
correlata a un aumento immediato dei valori medi di ICP,
prima dell’instaurarsi del rigonfiamento cerebrale. Oltre alla
sede ha fondamentale importanza la quantità di sangue presente nello spazio subaracnoideo, tanto che si è osservata una
correlazione quasi diretta tra quadro TC e prognosi [31].
Va infine ricordata la tESA che segue i traumi moderati
della base cranica e della regione sub-occipitale conseguenti ad aggressione o violenza. Proprio in considerazione
della discrepanza tra un trauma relativamente lieve (in
genere pugni o calci) e una prognosi nella maggior parte
dei casi sfavorevole, molta importanza va data al punto di
impatto e ai rapporti anatomici locali. Lo stiramento dei
vasi perforanti diretti al tronco encefalico e in particolare
al bulbo, che si associa alla lacerazione di quelli di calibro
maggiore, spiegherebbe l’alta mortalità gravante su questo
tipo di lesione.
105
Parte
|2|
Trattamento sistematico delle lesioni
Emorragia intraventricolare
post-traumatica
L’emorragia intraventricolare post-traumatica (tEIV), versamento emorragico interno alle cavità ventricolari dell’encefalo, consegue quasi esclusivamente a TBI gravi e contribuisce
ad aggravarne la prognosi. Prima dell’avvento della TC, la
tEIV era considerata un evento eccezionale e inevitabilmente
fatale; in realtà, la sua incidenza, quando lo studio neuroradiologico è effettuato entro sei ore dal trauma, varia
dall’1,5 al 3% di tutti i TBI non penetranti e si avvicina al
10% di tutti i TBI gravi. Il sangue può occupare solo i ventricoli laterali, limitarsi alle cavità sovratentoriali, al IV ventricolo o invadere tutto il sistema ventricolare. Tuttavia, la
tEIV è ancora un fenomeno poco studiato, tanto che la sua
patogenesi rimane incerta e speculativa. Una delle ipotesi
correnti è che la tEIV sia un epifenomeno dello spandimento
emorragico di un adiacente ematoma intracerebrale o focolaio contusivo-emorragico, sebbene raramente la tEIV possa
presentarsi come fenomeno isolato. Nuove teorie basate
sulla biomeccanica del trauma giustificano la patogenesi e le
caratteristiche della localizzazione della tEIV, nonché importanti implicazioni prognostiche [32]. Un impatto del cranio
lungo l’asse sagittale determinerebbe una deformazione dei
ventricoli laterali con stiramento e aumento dell’asse trasverso e conseguente emorragia, inizialmente subependimale e
in seguito intraventricolare, prevalentemente a carico delle
strutture sovratentoriali; queste ipotesi sono avvalorate dal
fatto che la tEIV è frequentemente associata a una raccolta
extra-assiale subdurale. L’altra interessante teoria è quella
secondo cui la tEIV, specialmente tetraventricolare, sia correlata al DAI, che è più comunemente causato da accelerazioni
angolari della testa o da bruschi movimenti lungo il piano
coronale. Il DAI includerebbe le emorragie del corpo calloso
e del tronco encefalico [33], alterazioni presenti nel 50%
dei pazienti che presentano tEIV tetraventricolare [34]: è
possibile dunque che la diversa distribuzione del sangue
all’interno dei ventricoli sia determinata dalla direzione
dell’accelerazione applicata al cranio.
La prognosi della tEIV è piuttosto grave, lievemente migliore nei pazienti più giovani. Fattore prognostico fondamentale e comune a tutti i TBI è la GCS all’ammissione,
secondo una proporzionalità linearmente inversa. Tutto
ciò in realtà non sembra legato alla presenza del sangue
nei ventricoli, ma alla gravità del danno primario causato
del trauma. L’idrocefalo acuto per esempio, che potrebbe costituire la prima complicanza ipotizzabile, è infatti
evenienza piuttosto rara, a differenza di quanto si verifica
nelle EIV non traumatiche; un altro dato è che la quantità
di sangue nei ventricoli, in particolare nelle forme tetraventricolari, non è correlata alla ICP. Questo è forse il dato più
significativo in base al quale la tEIV può essere considerata
un’ulteriore espressione del DAI, che raramente si associa
ad aumento della ICP. Anche per questo la prognosi delle
tEIV che interessano l’intero sistema ventricolare è peggiore
di quelle limitate ai soli ventricoli laterali.
106
DANNO CEREBRALE DIFFUSO
E DANNO ASSONALE DIFFUSO
Ogni trauma in grado di produrre alterazioni dello stato
neurologico in assenza di evidenti lesioni intracraniche alla
TC viene genericamente classificato come trauma “diffuso”,
in antitesi al trauma “focale” dove invece è sempre presente
almeno una lesione di dimensioni tali da poter essere facilmente identificata. Si definisce danno cerebrale diffuso
(DCI; Diffuse Cerebral Injury) l’assenza alla TC di lesioni iperdense superiori a 25 cc di volume in un paziente comatoso
a seguito di TBI. Tale nomenclatura è dunque strettamente
radiologica e non va confusa con il danno assonale diffuso
(DAI), concetto istopatologico e pertanto quantificabile solo
microscopicamente. Sebbene in presenza di un DCI l’unica
spiegazione fisiopatologica per giustificare lo stato di coma
sia quella di supporre una sofferenza neuro-assonale diffusa,
i due termini si riferiscono a costrutti completamente diversi
e non dovrebbero essere usati indistintamente.
Circa la metà dei pazienti che giunge in ospedale in stato
di coma mostra un quadro TC definibile come DCI, che
prevede 4 livelli di gravità [35]:
s nel DCI di grado I non c’è evidenza di patologia visibile alla TC;
s nel grado II è presente almeno una lesione iperdensa
s
s
di volume non superiore ai 25 cc; le cisterne della base
sono ben visibili con possibile shift della linea mediana
non superiore ai 5 mm (Fig. 5.6);
nel grado III è presente swelling e le cisterne non sono
più visibili alla TC;
il grado IV, quello più grave, è sovrapponibile al grado
III con la presenza di uno shift della linea mediana
superiore a 5 mm.
Almeno il 50% dei traumatizzati cranici gravi, anche con
evidente danno focale (ematomi, contusioni, emorragie),
presenta un DAI, che è causa di morte in circa il 35% dei
casi e responsabile di stato vegetativo persistente e di grave
morbilità. Il DAI propriamente detto è caratterizzato da
precise lesioni macro e microscopiche (documentabili solo
con analisi anatomo-istopatologica) ed è classificato in 3
livelli di gravità [33]:
s nel grado I è presente evidenza microscopica di danno
assonale nella sostanza bianca emisferica;
s nel grado II alle lesioni emisferiche si aggiungono le
lesioni del corpo calloso;
s nel grado III sono presenti anche lesioni del quadrante
dorsolaterale del tronco encefalico.
Dal punto di vista eziopatogenetico, il DAI viene considerato conseguenza diretta dell’insulto meccanico e viene attribuito al cosiddetto shearing injury di Strich [36]. Evidenze
teoriche e sperimentali hanno chiarito che la differenza sostanziale in termini di danno post-traumatico tra l’encefalo
e gli altri organi risiede proprio nella sua peculiare risposta
Trauma cranico
Figura 5.6 Esempio di TC con danno cerebrale diffuso di tipo
Marshall II, con piccole lesioni iperdense in corrispondenza
del corpo calloso, del corno frontale, del ventricolo laterale
destro e in sede temporale sinistra (frecce).
meccanica a una forza d’urto. Un qualunque organo che
subisce un impatto viene compresso e deformato a opera di
una parte dell’energia cinetica, mentre la parte rimanente lo
costringe a muoversi nella direzione del vettore della forza;
la resistenza maggiore a questo movimento è costituita dalla forza d’inerzia offerta per lo più dall’apparato muscoloosteo-articolare circostante. Il parenchima cerebrale è invece
racchiuso in una struttura poco deformabile e immersa in
un fluido, fattori che impediscono il diffondersi delle onde
meccaniche inizialmente generate dall’urto. Quando una
forza colpisce il cranio, tutta l’energia cinetica lo spinge
a muoversi insieme al contenuto encefalico; il tessuto
cerebrale continuerà tuttavia a muoversi con la stessa
energia anche una volta che il capo si sia fermato e subirà un nuovo urto contro la superficie interna del cranio
stesso (c.d. danno da contraccolpo). Inoltre, anche in
caso di trauma indiretto (cioè senza che il cranio venga
inizialmente colpito), il rachide cervicale agisce come un
fulcro attorno al quale tutte le forze inerziali vengono
facilmente trasmesse sempre e comunque al parenchima
encefalico, con conseguenti danni correlati all’entità dei
fenomeni di compressione, slittamento e soprattutto di
accelerazione angolare [37]. Le regioni più esposte a tale
danno sono le cosiddette “zone di confine” tra sostanza
bianca e sostanza grigia degli emisferi cerebrali, il corpo
calloso e alcune strutture del tronco encefalico (peduncoli
cerebellari superiori), a causa dei diversi coefficienti di
elasticità e viscosità: in altre parole, la massa encefalica
sollecitata dalla forza inerziale non si muove tutta insieme,
ma subisce movimenti di accelerazione-decelerazione in
tempi diversi e questo provoca lacerazione e strappamento
di assoni e piccoli vasi. Altre aree interessate dal DAI sono
i nuclei della base e in genere tutte quelle zone del parenchima encefalico in cui, per i particolari rapporti anatomici,
Capitolo
|5|
la risposta a un’accelerazione angolare è maggiore. Il DAI è
un fenomeno evolutivo, accertabile solo post-mortem anche
a distanza rilevante dall’evento traumatico. È probabile che
il DAI rappresenti il substrato anatomopatologico del DCI
visibile alla TC, a sua volta comprendente un vasto spettro
di situazioni cliniche, dalla sindrome concussiva allo stato
vegetativo persistente [38].
In termini fisiopatologici, i neuroni dimostrano tre stereotipi di risposta funzionale all’evento traumatico. Alcuni
di essi muoiono, altri rimangono in uno stato disfunzionale
a incerta evoluzione che comporta un danno soprattutto a
carico degli assoni, possibile causa della prolungata perdita
di coscienza che può fare seguito al TBI. In condizioni sperimentali, già a distanza di 15 minuti dall’evento traumatico
si è osservato lo sviluppo dei cosiddetti nodal blebs (piccoli
rigonfiamenti della membrana assoplasmatica in corrispondenza dei nodi di Ranvier) oltre a danni subcellulari
principalmente a carico del reticolo endoplasmatico e una
profonda disorganizzazione delle geometrie dei neurofilamenti del citoscheletro assonale, con conseguente blocco del
trasporto assonale, già evidenti dopo 2-6 ore. Se il neurone
non è in grado di ovviare a questo danno, per esempio
per una grave alterazione del suo metabolismo energetico,
le lesioni evolvono verso un edema dell’assone fino alla
irreversibile assonotomia [39] (Fig. 5.7). Non è noto il
meccanismo per cui tale sequenza di eventi si verifichi in
alcuni neuroni e non in altri. Secondo un’ipotesi recente
gli assoni che mostrano un certo orientamento spaziale
rispetto ai vettori delle forze traumatiche sarebbero quelli
maggiormente danneggiati, teoria supportata dal fatto che
il danno assonale interessa tipicamente “fasci” ben distinti
di assoni (cluster damage) come quelli che decussano o
cambiano spesso direzione.
La fisiopatologia del DAI comprende una serie complessa di cascate biochimiche innescate direttamente
dall’insulto traumatico, fra le quali la liberazione di EAA
(Excitatory Amino Acids, principalmente glutammato e
aspartato), l’alterazione dell’omeostasi del calcio intracel-
Figura 5.7 Aspetto microscopico del danno assonale diffuso
con formazione degli axonal bulbs e disconnessione assonale.
107
Parte
|2|
Trattamento sistematico delle lesioni
lulare e la formazione di radicali liberi dell’ossigeno (ROS;
Reactive Oxigen Species). L’istantanea e massiva liberazione
di EAA (excitatory storm) a seguito dell’insulto traumatico
costituisce la causa iniziale di edema dei neuroni (edema
neurotossico) e di successiva apoptosi, principalmente
attraverso il legame con i recettori di membrana NMDA
e AMPA (che causa una rapida depolarizzazione di membrana con grave disfunzione dell’omeostasi ionica/elettrochimica) [40]. A questo fenomeno fa seguito una massiva
entrata di ioni Ca2+, con immediata attivazione di fosfolipasi e nucleasi lisosomiali e di proteasi Ca-dipendenti, che
a loro volta disgregano alcune proteine del citoscheletro
[41]. Il calcio si accumula anche all’interno dei mitocondri
e li danneggia con conseguente deficit energetico, ulteriore
aggravamento della disfunzione ionica e peggioramento
dell’edema cellulare. Il cervello è l’ambiente ideale per
la formazione dei ROS e il substrato ideale per le loro
reazioni a catena: il neurone si trova così facilmente in
condizioni di stress ossidativo (quando la produzione di
radicali liberi supera le sue capacità antiossidanti). I ROS
sono ritenuti responsabili del danno precoce da perossidazione lipidica delle membrane delle cellule nervose e
dei loro organelli (in particolare delle membrane mitocondriali), nonché della distruzione del pool di coenzimi
nicotinici necessari per la fosforilazione ossidativa e la
sintesi dell’ATP [42-44].
Di conseguenza, l’iniziale deformazione meccanica della
cellula nervosa, il rilascio di EAA, lo squilibrio ionico che
ne deriva, l’accumulo di calcio intracellulare, la lisi delle
membrane cellulari e subcellari, il danno del citoscheletro
e la grave disfunzione mitocondriale contribuiscono a una
significativa alterazione del metabolismo cellulare [45].
Dal punto di vista clinico il DAI grave è caratterizzato
da uno stato di coma che insorge immediatamente dopo
il trauma e si prolunga per almeno 6 ore, dalla presenza
di petecchie emorragiche alla TC, da ICP normale pur in
presenza di condizioni neurologiche scadute. È importante
sottolineare però che in molti pazienti con DAI si assiste a
un progressivo miglioramento clinico, pur con meccanismi
tuttora poco noti; l’ipotesi più accreditata è che tutto dipenda dal grado di sofferenza metabolica energetica instauratasi
nel neurone durante le prime ore dal trauma.
FRATTURE DEL CRANIO
Quando la sollecitazione meccanica di una forza traumatica
diretta supera le capacità elastiche di resistenza delle ossa
craniche, queste si fratturano. Lo stesso può verificarsi per
l’azione di una forza indiretta (per esempio contraccolpo
trasmesso dal rachide per una caduta sui piedi o sul bacino), per compressione o per “azione bipolare” (quando
due forze sincrone agiscono sul cranio deformandone le
naturali curvature fino a produrre una frattura). Nella genesi delle fratture craniche prendono parte numerose altre
108
variabili, quali la forma e le caratteristiche di elasticità del
cranio stesso, la regione traumatizzata, il tipo di mezzo
contundente (a superficie stretta o ampia), l’intensità e la
direzione della forza ecc.
Se la cute e lo strato muscolo-aponevrotico soprastanti
l’impatto appaiono integri, la frattura si dice chiusa, altrimenti si definisce esposta. Se l’azione vulnerante non si
limita a interrompere il tegumento e la parete ossea, ma
penetra all’interno del cranio si parla di ferita craniocerebrale o trauma penetrante.
Una prima fondamentale classificazione delle fratture
craniche riguarda la loro distribuzione topografica, individuando i complessi fratturativi della volta (limitati alla
sede dell’impatto sulla volta cranica) e della base cranica.
Le due forme isolate di frattura vengono anche definite
fratture semplici, in quanto i fenomeni lesionali sono per
lo più circoscritti e localizzati alla sede d’impatto o di contraccolpo. Tuttavia, quando intervengono forze d’urto di
elevata entità si possono produrre complessi fratturativi
diffusi, il cui prototipo è costituito da una frattura della
volta irradiata alla base, in genere seguendo il percorso più
breve e le linee di forza del cranio [46].
Non esiste alcun rapporto di proporzionalità tra i vari
tipi di frattura cranica e quelli di una eventuale lesione
encefalica: la frattura può assorbire completamente l’energia
del colpo e accompagnarsi a minime lesioni dell’encefalo,
così come sono piuttosto frequenti lesioni encefaliche gravi
o mortali senza frattura.
Da un punto di vista morfologico si distinguono tre tipi
principali di fratture craniche: le fratture lineari, che possono interessare le ossa della volta e della base cranica,
le fratture infossate (o avvallate) e le fratture diastasiche;
queste ultime, in cui la rima di frattura è rappresentata da
una sutura cranica vera e propria che si amplia notevolmente, sono certamente le più rare, di solito riguardano
i bambini sotto i tre anni di età e non verranno prese in
considerazione in questo capitolo.
Fratture lineari della volta
La scatola cranica è dotata di un’elasticità tale da sopportare
una depressione di circa un centimetro nel punto in cui
viene applicata la forza traumatizzante, deformazione che
può aumentare nel caso vengano applicate forze “bipolari”. Dato che il cranio poggia sulla colonna vertebrale,
anche nei traumi “unipolari” esso viene compresso tra il
punto di applicazione (polo traumatizzante) e quello di
appoggio sul rachide (polo di reazione). Fra i due poli
si dipartono una serie di “meridiani” che, durante la compressione, si deformano aumentando il raggio di curvatura; superato il limite di coesione molecolare dell’osso, la
parete cranica si frattura secondo tali linee (fratture lineari
meridianiche). In base all’intensità della forza traumatica, tali fratture possono essere semplici, ossia costituite
da una fissurazione lineare della volta, o diffuse, costituite cioè da più linee di fissurazione “a stella”. Se la com-
Trauma cranico
pressione è di notevole entità, l’eccessiva deformazione
del meridiano nel suo punto di massima curvatura può
generare una seconda rima di frattura perpendicolare
alla prima (frattura “equatoriale”). Un complesso fratturativo costituito da una o più fratture meridianiche e da
un’unica frattura equatoriale viene considerato un complesso fratturativo semplice. Se la forza traumatizzante
prosegue la sua azione, saranno prodotte nuove linee di
frattura meridianiche e un’altra frattura equatoriale; tale
complesso fratturativo diffuso della volta cranica si definisce
a “mappamondo”. Si tratta di fratture molto gravi perché
spesso associate a notevole sofferenza encefalica, che si osservano in generale quando il cranio urta ad alta velocità
contro una superficie piana e molto ampia.
Il trattamento delle fratture lineari, sia semplici sia diffuse, non richiede intervento chirurgico. Può essere tuttavia
necessario procedere a craniotomia se è presente HICP da
sofferenza cerebrale focale o diffusa.
Capitolo
|5|
Fratture della base cranica
La volta e la base cranica sono separate idealmente da un
piano che passa anteriormente per le arcate orbitarie, lateralmente per il margine superiore dei processi zigomatici,
posteriormente per la protuberanza occipitale esterna. Se
la volta è rappresentata da strutture piuttosto uniformi per
linearità, spessore e consistenza dell’osso, la base cranica,
costituita dall’osso etmoide, dallo sfenoide, dai massicci
petroso-mastoidei e dalla base dell’occipite, è disseminata
di asperità, depressioni, fori e fessure. È divisa in tre “fosse”,
situate su tre piani diversi. Un’energia lesiva, seppure non
in grado di provocare una frattura della volta, può invece
produrre una frattura della base cranica (FBC), per esempio
un trauma della volta frontale che provoca frattura del tetto
dell’orbita; tutte le fratture della base si possono sempre
considerare indirette, poiché avvengono lontano dalla zona
di applicazione della forza (Fig. 5.8 a, b, c).
Figura 5.8 (a) Esempio di craniotomia temporo-basale per
il trattamento chirurgico di una frattura complessa della
rocca petrosa. (b) Visualizzazione su modello in plastica
della morfologia delle fratture della rocca petrosa classificate
in longitudinali o trasversali. Le fratture trasversali sono
molto più rare e molto più gravi in quanto espressione di
violentissimo trauma cranico. (c) Reperto TC di frattura
longitudinale della rocca petrosa (frecce nere)
109
Parte
|2|
Trattamento sistematico delle lesioni
Le FBC si producono sempre a seguito di traumi cranici
con dinamica maggiore, espressione cioè di applicazione
di elevata energia che bisogna immaginare applicata anche
all’encefalo.
Ancor prima che radiologicamente, il sospetto di una FBC
è legato alla presenza di rinorragia (indicativa di fratture
della fossa cranica anteriore con apertura dei seni paranasali frontali ed etmoidali) e/o otorragia (indicativa di
una frattura della fossa cranica media con interessamento
dell’orecchio medio e lacerazione della membrana timpanica). L’aspetto più importante da considerare in questi
casi è la frequente associazione delle FBC con la fuoriuscita
di liquor, che nelle prime ore può essere mascherata dal
sangue e soltanto alla fine assume i caratteri veri e propri di
liquorrea, continua o intermittente. Talvolta, tale fenomeno
si presenta piuttosto tardivamente (giorni) per il regredire
di qualche condizione che ha permesso una temporanea
chiusura della breccia, come la lisi di coaguli di sangue e il
miglioramento dello swelling. La rino-liquorrea è certamente
più pericolosa dell’oto-liquorrea per la maggiore facilità di
complicanze infettive e la minore tendenza alla guarigione
spontanea. Pur verificandosi in circa il 2% dei TBI e nel
12-30% delle FBC, la maggior parte delle fistole liquorali
si risolve spontaneamente entro le prime 24-48 ore (forse
con un meccanismo legato a esiti di reazioni infiammatorie
innescate dai prodotti di degradazione del sangue nel sito
della lacerazione durale), passando spesso inosservate. Le
fistole liquorali che persistono per più di sette giorni si
associano a un rischio infettivo rilevante; il 7-30% delle
fistole liquorali persistenti sviluppano meningite, tasso che
aumenta con il tempo di persistenza della fistola. Il ruolo
della profilassi antibiotica nelle fistole liquorali rimane
ancora controverso [47].
La diagnosi radiologica delle fistole liquorali prevede varie
combinazioni di TC ad alta risoluzione, cisternografia-TC
con mdc, cisternografia con radionuclide e cisternografiaRM, tuttavia la scelta dell’imaging neuroradiologico ottimale
è controversa.
Il trattamento delle fistole liquorali richiede fondamentalmente un’attenta osservazione clinica. Se inizialmente è
sempre accettabile un approccio conservativo con drenaggio
spinale, dopo sette giorni è consigliabile intervenire chirurgicamente con l’obiettivo di visualizzare e chiudere la breccia
durale. L’avvento di nuove tecniche ha completamente rivoluzionato il trattamento chirurgico di questa patologia, tanto
che l’approccio endoscopico endonasale va considerato, in
casi ben selezionati (fistole non complicate, localizzate nella
parte anteriore o posteriore del tetto etmoidale e nel seno sfenoidale), il trattamento di prima scelta per il più alto tasso di
successo e la minore morbilità postoperatoria. Le fistole conseguenti a fratture non complicate, localizzate a livello della
parete posteriore del seno frontale, possono essere riparate per
via extradurale attraverso una sinusotomia osteoplastica. Gli
approcci intracranici classici devono essere riservati a fistole
legate alla presenza di estese soluzioni di continuità del basicranio e/o alla presenza di fratture comminute dell’etmoide e
della parete posteriore del seno frontale (Fig. 5.9 a, b).
Una fistola liquorale non costituisce mai una controindicazione agli interventi di riduzione di frattura delle ossa facciali, che invece vanno effettuati prima possibile per favorire
la guarigione spontanea della fistola per riapprossimazione
dei lembi lacerati su struttura ossea. Il timing chirurgico va
scelto quindi sempre con grande cura e chiara strategia,
ricordando che gli interventi ritardati sono più complessi
e possono far recidivare una fistola già chiusa spontaneamente. La percentuale di successo della chiusura chirurgica
Figura 5.9 (a) TC 3D di complesso fratturativo diffuso con frattura lineare dell’osso frontale a sinistra, irradiata alla base
cranica, e frattura avvallata fronto-parietale sinistra, pluriframmentaria, complicata da lacerazione del seno longitudinale
superiore e irradiata in temporale. (b, c) Risultati del trattamento chirurgico a distanza, con “cranializzazione” del seno frontale
(sinusectomia frontale). Non essendo stato possibile in prima istanza riposizionare tutti i frammenti ossei, il paziente è rimasto
per circa due mesi con evidente craniolacunia, successivamente trattata con cranioplastica eterologa definitiva.
110
Trauma cranico
delle fistole liquorali post-traumatiche e la prognosi relativa
al loro trattamento sono incoraggianti.
Fratture infossate o avvallate
Sono così definite le fratture in cui frammenti di osso vengono a trovarsi all’interno della scatola cranica. Si tratta di
fratture della volta, semplici o diffuse, generalmente pluriframmentarie, molto spesso esposte, quasi sempre associate
a lacerazioni meningee e della corteccia cerebrale sottostante
(con conseguente associazione di fistole liquorali e contusioni/ematomi intraprenchimali) (Fig. 5.10).
Una frattura avvallata esposta necessita sempre di intervento chirurgico [48] qualora i frammenti siano penetrati
per più di 5 mm; per infossamenti di più di 1 cm senza
ematomi, segni di sofferenza encefalica o rischi infettivi, la
strategia chirurgica è tesa per lo più a criteri estetici, qualora
la deformità prodotta dalla frattura sia considerata inaccettabile dal paziente [49].
La complicanza più frequente di una frattura avvallata
esposta è quella infettiva (elevato rischio di meningite e/o
ascesso cerebrale), legata alla presenza o meno di una lacerazione durale: l’assoluta necessità di trattamento chirurgico
di tali fratture sta proprio nell’impossibilità di stabilire se
tale lacerazione sia presente o meno fino a che non vengono
sollevati chirurgicamente i frammenti ossei. È essenziale un
approfondito studio TC per la valutazione del complesso
fratturativo da trattare.
Tuttora irrisolta è la discussione sull’uso o meno di una
profilassi anticomiziale, in genere basata sulla gravità del
danno da lacerazione corticale sottostante la frattura; la
tendenza attuale è di non somministrare anticomiziali fino
alla comparsa di una crisi epilettica. L’uso degli antibiotici è
assolutamente necessario per il trattamento delle infezioni
Capitolo
|5|
accertate, mentre non vi è evidenza dell’efficacia di un loro
utilizzo a scopo profilattico [50].
Le fratture avvallate sono a loro volta classificabili in
complicate e non complicate. Nelle prime, la dura generalmente non è lacerata e negli studi preoperatori non
si repertano lesioni emorragiche del parenchima cerebrale sottostante la frattura. In questo caso l’intervento
si limita alla rimozione dei frammenti ossei avvallati e al
loro riposizionamento dopo una toilette extradurale. Se la
dura è lacerata e il parenchima sottostante è sede di lesioni
lacerocontusive, è sempre necessario aprire la meninge, praticare un’accurata toilette del focolaio, ottenere un’emostasi
perfetta e riposizionare i frammenti ossei. Nel caso in cui
ciò non fosse possibile per la grossolana frammentazione
dell’osso, è raccomandata la cranioplastica con mesh in
titanio o la semplice sutura dei tegumenti, in attesa di una
futura cranioplastica una volta certi che il sito chirurgico
non abbia sviluppato infezioni.
Ben più grave e problematica è la presenza di una frattura
avvallata direttamente soprastante un grosso seno venoso
durale (seno sagittale superiore o uno dei due seni trasversi):
se da una parte c’è la sicura necessità di operare la frattura, dall’altra esiste il rischio che il sollevamento dei frammenti possa
dare esito a un sanguinamento intraoperatorio difficilmente
controllabile. In questi casi, se il seno venoso è pervio e non
compresso, può essere utile una strategia di attesa affinché si
formi una fibrosi sulla lacerazione del seno; è fondamentale
un dettagliato studio angiografico della fase venosa, senza
sottrazione della componente ossea, per stabilire la relazione
topografica della frattura rispetto al seno e per determinare
quale sia il seno dominante, in modo da evitare di legarlo.
Se a distanza di una settimana il paziente non presenta ulteriori peggioramenti e le pareti del seno non presentano
irregolarità, si può assumere che il seno non abbia subito
lacerazioni e si può procedere all’intervento. Se invece il seno
si è occluso angiograficamente e il paziente sta tollerando
bene la situazione, in caso di emorragia intraoperatoria si
potrà procedere alla legatura. Quando invece a distanza di
poche ore dal trauma il paziente mostra un quadro cliniconeuroradiologico di occlusione dei seni, l’intervento, sebbene
rischiosissimo, diventa indifferibile, per cercare di ristabilire
la pervietà del flusso venoso.
MONITORAGGIO
IN TERAPIA INTENSIVA
Obiettivi del trattamento
Figura 5.10 Frattura infossata temporale sinistra. Un grosso
frammento di osso temporale risulta infossato per oltre 1 cm,
con evidente ematoma epidurale satellite e fuoriuscita di
liquor per lacerazione dei foglietti meningei.
Superata la prima giornata, è infrequente la comparsa di
nuovi ematomi o l’ingrandimento della quota emorragica
di una lesione intraparenchimale [51,52].
Ematomi e contusioni/lacerazioni con immediato effetto massa sono stati evacuati oppure è stata effettuata
una craniotomia decompressiva primaria [53]. Tuttavia,
111
Parte
|2|
Trattamento sistematico delle lesioni
alcune lesioni continuano a determinare effetti negativi
sull’encefalo:
s edema vasogenico o citotossico nelle aree perilesios
s
s
nali di contusioni/lacerazioni ed ematomi sottodurali
evacuati [54-56];
processi degenerativi e riparativi nei pazienti con
DCI [57];
presenza di alterazioni globali del flusso ematico cerebrale (CBF; Cerebral Blood Flow), della permeabilità
capillare della barriera ematoencefalica (BBB; Brain
Blood Barrier) e aree di edema citotossico nei pazienti
con swelling [58];
alterazione del riassorbimento liquorale da parte della
tESA [59].
Questi processi possono determinare un’espansione del
volume intracranico che, in funzione della compliance, può
produrre un aumento della ICP [60,61] tale da associarsi,
se non controllato, a ernie cerebrali e riduzione della CPP.
La ridotta CPP produce ischemia macrovascolare solo
di rado, o negli stadi avanzati, ma può determinare un
peggioramento dell’ischemia microvascolare se il flusso
ematico cerebrale regionale (rCBF; regional Cerebral Blood
Flow) è già in difficoltà per autonomo aumento delle resistenze vascolari o in presenza di alterata autoregolazione;
esiste infatti una “zona di penombra” nelle aree localmente
malate [62], che sono più sensibili a riduzioni della CPP
[63], ipossia, ipertermia, ipoglicemia, ipocapnia [64] e
fluttuazioni di sodiemia [65]. Inoltre, complessi fenomeni
riparativi e di rimaneggiamento (per esempio trascrizioni
geniche di molecole protettive contro ischemia, apoptosi,
infiammazione e plasticità neuronale) si instaurano appena
dopo il trauma e perdurano per settimane/mesi [66]; contro
tali meccanismi attualmente non vi sono veri trattamenti.
Il trattamento del TBI dopo le prime fasi rimane pertanto
focalizzato essenzialmente sul controllo dell’aumento del
contenuto cerebrale e sul mantenimento della perfusione,
obiettivi che devono essere monitorati nel tempo, possibilmente in termini quantitativi. Data l’intrinseca instabilità
del paziente critico e l’incompletezza delle conoscenze, è
necessario saper cercare risposte nelle sequenze temporali
delle variabili per identificare pattern patologici sulla base di
multiple e convergenti informazioni (monitoraggio multimodale), perseguendo finalità di cura dipendenti dalle risorse
(per esempio competenza di medici e infermieri, disponibilità finanziaria) e funzionali a obiettivi che spesso esulano
dall’aspetto clinico-assistenziale (per esempio convinzione
sulla recuperabilità della patologia neurologica, disponibilità
ad accettare l’evento morte piuttosto che la sopravvivenza dei
pazienti con stato vegetativo persistente e grave disabilità).
Monitoraggio di base
La prima variabile da monitorare è l’aumento del volume
cerebrale in relazione alla compliance del sistema intracranico, misurabile indirettamente attraverso il valore della
112
ICP, ossia della pressione generata dal volume generale
del cervello e determinata da quella del parenchima, del
CBV (Cerebral Blood Volume) e del liquor costretti in un
sistema rigido. La misura della ICP è invasiva e pertanto
la scelta di monitorarla deve essere commisurata ai rischi
(per esempio lesività diretta dei cateteri, danni da monitoring
driven therapy [67] intesa come condizione nella quale la
terapia è comandata dal monitoraggio fino a perdere di vista
gli obiettivi generali di cura) e ai benefici. Il monitoraggio
della ICP non sembra opportuno in:
s pazienti con DCI nei quali vi sia un GCS motorio di
s
s
s
s
s
5 e/o un’apertura degli occhi su stimolo; l’assenza di
lesioni profonde diencefaliche e mesencefaliche supporta questa indicazione;
pazienti con atrofia (anziani o con atrofia acquisita, per
esempio alcolismo cronico) in quanto si ipotizza una
elevata compliance cerebrale e un basso rischio di HICP;
pazienti con TBI moderato, che prima della chirurgia
abbiano sofferto di un deterioramento clinico senza coning e nei quali si sia osservato un risolutivo approccio
chirurgico, a volte associato a non riapposizione del
lembo osseo;
pazienti con età e/o comorbilità tali da ritenere la prognosi a distanza comunque negativa;
pazienti a outcome negativo immediato con midriasi
bilaterale areattiva;
pazienti midriatici con swelling e/o arresto cardiorespiratorio post-traumatico associato e/o politrauma
con coinvolgimento di più organi, emorragie e patologia della coagulazione; nei pazienti midriatici con
masse, la scelta di monitorare la ICP è secondaria alla
riduzione chirurgica della HICP e vincolata alle condizioni in chiusura del campo operatorio.
In altri pazienti si ritiene che il posizionamento della ICP
sia mandatorio, sebbene non esista nessuna evidenza. Si
tratta principalmente di pazienti nei quali sono frequenti
fasi di instabilità della ICP (per esempio con lesioni intraparenchimali non evacuate a rischio di edema perilesionale,
swelling senza alterazione pupillare, DCI e lesioni profonde
mesencefalo-talamiche). L’indicazione è rafforzata dalla
giovane età, che porta a maggior rischio di HICP a causa
della più bassa compliance cerebrale e della maggior rappresentazione del CBV.
La misurazione della ICP sembra ragionevole nei pazienti che sono o sono stati anisocorici, hanno sofferto
probabilmente di elevata HICP, anche se non misurata, e
possono avere aree ischemiche a genesi macro o microvascolare. Nei TBI moderati il GCS elevato non controindica
la misura della ICP se sono presenti lesioni potenzialmente
evolutive.
Tutti gli altri pazienti stanno nell’area di incertezza.
L’indicazione storica del posizionamento della ICP a
tutti i pazienti con GCS ≤8 e in pazienti con TC negativa
[68] non ha trovato riscontro nella realtà. Contrariamente,
nei pazienti con TBI moderato e TC positiva l’osservazione
Trauma cranico
clinica assieme alla ICP possono ridurre l’utilizzo della TC.
Nel politraumatizzato a maggior rischio di complicanze mediche e di multiple procedure chirurgiche, il monitoraggio
della ICP riveste un ulteriore aspetto di sicurezza. Coagulopatia e antiaggregazione controindicano il posizionamento
di misuratori di ICP ventricolari e parenchimali, ma lasciano
spazio, con le dovute cautele, a cateteri elettronici o idraulici
sottodurali. In assenza di prove di evidenza a favore della
ICP [69], è necessario ragionare su un approccio logico teso
a individuare più gli stati nei quali il monitoraggio della ICP
sia poco utile o sproprozionatamente aggressivo che quelli
nei quali sia indicato.
Di seguito viene schematicamente suggerito un flusso di
analisi dei fattori che favoriscono o meno il posizionamento di un catetere per misurazione ICP (Fig. 5.11).
s iniziare escludendo i casi nei quali l’utilità del moni-
s
toraggio della ICP è dubbia, a partire dalle situazioni
nelle quali l’incertezza è minore, e quelli in cui è solo
potenzialmente utile;
successivamente, considerare i casi nei quali il monitoraggio sarebbe eccessivamente aggressivo in relazione alla gravità del paziente;
se nessuno di questi criteri di esclusione è presente,
valutare i criteri di inclusione.
Criteri di inclusione:
s
s considerare i casi nei quali è più alta la convinzione
di eseguire il monitoraggio;
s considerare dapprima i pattern clinici e TC per i quali
s
s
si possa individuare una forte raccomandazione alla
misurazione della ICP;
successivamente considerare quei pattern nei quali la
raccomandazione sia più debole;
considerare infine eventuali casi non altrimenti categorizzabili nei quali le indicazioni debbano necessariamente essere individualizzate.
La ICP è un proxy del volume cerebrale e fra le componenti
che lo condizionano quella più rapida e instabile è il CBV
[61], le cui variazioni sono stimabili monitorando alcuni
dei seguenti parametri:
s PaCO2 (ETCO2) - Escludendo i casi gravissimi nei quali
s
l’ischemia è tale da impedirne la responsività, i vasi
cerebrali risentono moltissimo delle sue variazioni
[70]: aumenti della PaCO2 inducono dilatazione e
riduzioni della vasocostrizione, aumenti acuti della
PaCO2 inducono aumenti della ICP anche prolungati
nei pazienti con bassa compliance cerebrale. La costante
temporale di questa variabile si gioca nei minuti e
comunque entro l’ora.
Temperatura - Il suo aumento si associa a vasodilatazione (autoregolazione metabolica) e aumento della
ICP [71,72]; la costante temporale di questa variabile è
usualmente di ore.
|5|
s MAP (Mean Arterial Pressure) - I vasi cerebrali attivano il
Criteri di esclusione:
s
Capitolo
s
compenso con leggero ritardo e, come per tutti i sistemi
di controllo, in modo leggermente inferiore all’entità
della perturbazione: piccoli aumenti iniziali della ICP
possono dunque essere attesi. Tuttavia, se nel paziente
con normale autoregolazione l’aumento della MAP si
associa a vasocostrizione e mantenimento di CBF grazie
alla riduzione del CBV (e quindi riduzione della ICP),
nei pazienti con alterata autoregolazione la risposta è
contraria: all’aumento della MAP la vasocostrizione autoregolatoria non si realizza sufficientemente e il CBF segue
passivamente l’aumento della MAP con conseguente
aumento del CBV. Nei pazienti con autoregolazione
conservata, riduzioni acute della MAP possono indurre vasodilatazione cerebrale, mantenimento del CBF,
aumento del CBV e aumento della ICP. Le variazioni
della MAP e i loro effetti sulla ICP hanno usualmente
costante di tempo rapida ed entro l’ora. Possono esistere
fenomeni più progressivi, che non riguardano il CBV ma
l’edema vasogenico, quando aumenti violenti della MAP
oltre la soglia di autoregolazione danneggino la BBB [73].
Contrariamente, esistono livelli di CPP così bassi che
producono un progressivo collasso della microvasculatura
per aumento relativo della pressione esterna esercitata sui
vasi a sfavore della pressione transmurale, fino ad arrivare
alla critical closing pressure e all’assenza di CBF [74].
Emoglobina ed ematocrito - L’anemia acuta, specie nei
primi giorni dal trauma, non è tollerata dal cervello
ed è associata a vasodilatazione cerebrale e HICP. La
prima risposta alla riduzione dell’Ht, ovvero della viscosità, è una velocizzazione del flusso con aumento
del CBF cui segue, per autoregolazione metabolica,
vasodilatazione con aumento ulteriore del CBF e del
CBV [75,76]. Essendo tuttavia le variazioni di Hb lente
dopo il primo giorno, raramente vengono clinicamente
percepiti rapporti causa effetto fra ICP e Hb.
EEG - Le crisi epilettiche, convulsive e non convulsive,
determinando un aumento del consumo di O2 locale,
si associano a vasodilatazione, aumento del CBV e
potenziale aumento della ICP. L’EEG, da effettuare su
sospetto o in continuo, è un importante monitoraggio. La costante di tempo delle crisi può essere rapida
ma anche lunga quando è presente uno stato di male
non convulsivo.
Fortunatamente, non tutte le variazioni potenzialmente in
grado di cambiare il CBV producono un aumento della ICP,
dato che l’effetto dipende dal punto nel quale il paziente si
trova nella curva pressione/volume.
La presenza di acqua cellulare ed extracellulare non è distinguibile dalla TC, si può tuttavia supporre che negli ematomi
intraparenchimali la quota crescente di edema perilesionale
sia da relazionarsi a edema vasogenico [77] e che negli swelling
domini la quota citotossica [78]. La misura del Na+ sierico,
inteso quale principale fattore governabile dello stato di idratazione della cellula, andrebbe determinata almeno tre volte
113
Parte
|2|
Trattamento sistematico delle lesioni
Figura 5.11 Flusso di analisi dei fattori che favoriscono o meno il posizionamento di un catetere per misurazione ICP.
114
Trauma cranico
al giorno nei pazienti con instabilità della ICP: in presenza
di bassa compliance cerebrale, variazioni giornaliere di poche
mmol/L di Na+ possono scompensare gravemente la ICP,
indipendentemente dal livello di partenza della sodiemia.
L’obiettivo è mantenere il Na+ ai limiti superiori della norma
(145-150 mmol/L) e soprattutto minimizzarne le variazioni,
anche ricercando possibili cause di iposodiemia.
Oltre al monitoraggio del CBF è di interesse la misurazione
della perfusione cerebrale attraverso la CPP, principale proxy
del CBF in un approccio basic poiché, nei pazienti con autoregolazione preservata e dopo le prime 24 ore, il CBF è stabile in
un ampio range di valori di CPP (50-90 mmHg) [79,80], con
variazioni legate a età, PA, sesso. Tali previsioni non sarebbero
però verificabili in assenza di una misurazione del CBF. Nei
pazienti con alterata autoregolazione, la sola misura della
CPP non è indicativa, dato che vi può essere dipendenza del
CBF dalla CPP; in tali casi è possibile stimarne il valore con
altri metodi (calcolo computerizzato delle co-registrazioni ad
alta velocità di campionamento di ICP e CPP).
La stima, di per sé incerta, della perfusione cerebrale è
meno rilevante della valutazione di quanto questa sia adeguata al metabolismo cerebrale, che può essere vagamente
stimato tramite il monitoraggio neurologico: pazienti con
GCS più alto hanno un CMRO2 (Cerebral Metabolic Rate of
Oxygen) meno depresso [81]. Nei pazienti meno valutabili,
l’EEG in associazione al livello di sedazione o all’uso di
farmaci metabolico-soppressivi (propofol e barbiturico)
sono idealmente indicativi della riduzione del CMRO2.
L’adeguatezza del CBF globale al CMRO2 globale può essere inoltre valutata con la misura della SjO2 (Jugular Bulb
Venous Oxygen Saturation); nei pazienti con TBI sono da
considerarsi nella norma valori del 65-75% [82]: valori
più alti indicano una soppressione metabolica primaria
indotta dal trauma, dai farmaci o con l’ipotermia, mentre
valori più bassi possono essere conseguenza di anemia,
ipocapnia, bassa CPP [83] o di un livello metabolico più
vicino alla norma [84,85]. Valori molto ridotti di SjO2 sono
un segno di allarme per l’ossigenazione tissutale (se <50%
si associano a outcome peggiore [86]), essendo la SjO2 in
equilibrio con la pjO2 (Jugular Bulb Oxygen Partial Pressure) e
questa con l’ossigeno interstiziale e cellulare. Rilevante pure
la misurazione della glicemia [87], dato che l’ipoglicemia
può ridurre il CMRG (Cerebral Metabolic Rate of Glucose) e
compromettere la vitalità neuronale e che l’iperglicemia
estrema aumenta l’acidosi tissutale.
La valutazione neurologica è rilevante nel paziente con
GCS alto (nel TBI moderato le sue variazioni possono essere
inequivocabilmente interpretate come peggioramento [88])
e lo è meno nel paziente in corso di sedazione continua.
Il monitoraggio neurologico è meno rilevante anche in
presenza di patologia intracranica già evoluta, esaurita compliance e alto impegno terapeutico, situazioni nelle quali
l’interruzione della sedazione determina instabilità e potenziale danno secondario [89]. La valutazione neurologica
è potenzialmente utile per ridurre le complicanze a breve
e medio termine dei sedativi, ma anche per identificare
Capitolo
|5|
pazienti nei quali è stata inizialmente sovrastimata la gravità
[90], quando la rimozione precoce di masse si può associare
a un decorso non complicato o, infine, in quelli con DCI
meno grave.
Anche la TC viene spesso impiegata isolatamente nel
“monitoraggio” del paziente. Sebbene in acuto sia la prima
guida nel trattamento, la sua capacità di prevedere i livelli di
ICP è modesta [91-93]. In presenza di masse non evacuate,
elementi quali l’evoluzione dell’edema perilesionale, la
compressione del III ventricolo, la distorsione fino alla compressione delle cisterne omolaterali alle lesioni forniscono
importanti indicazioni di allarme. La TC è utile inoltre, sia
pure dal solo punto di vista prognostico, per rilevare lesioni
infartuali post-traumatiche [94].
Monitoraggio avanzato
Il passaggio a un livello superiore nel monitoraggio dovrebbe prevedere la misura continua del CBF regionale,
possibile mediante un sensore che sfrutta il metodo della
termodiluizione [95] (TDrCBF®, Hemedex) o un elettrodo
(di Clark) che rileva la ptiO2 (Tissue Oxygen Pressure) con il
metodo polarografico [96] (LICOX®). Posizionati in aree
apparentemente sane, queste misurazioni campionano pochi mm3 di tessuto cerebrale e sembrano correlarsi con valori
di CBF più globali [97,98]. Anche se il significato del loro
valore puntuale non è sostanzialmente diverso da quello
della SjO2 [99], questo monitoraggio permette di interpretare
in tempo reale le variabili che influiscono sulla disponibilità
di O2 cerebrale. Tali sistemi sembrano indicati nei pazienti
con swelling o nei quali si accettino valori più alti di ICP allo
scopo di conservare masse e zona perilesionale.
Il neuroimaging funzionale può misurare il CBF globale e
con questo, grazie alle differenze arterovenose cerebrali, il
CMRO2 e il CMRG. Nel contesto della valutazione globale
del CBF non si può prescindere da un’accurata misura quantitativa che attualmente è appannaggio solamente della XeCT
(Xe-enhanced Computed Tomography) [100] e della PET [101].
Nell’ambito del neuroimaging funzionale, la RM in diffusione
può evidenziare precocemente aree in sofferenza citotossica e
aree di edema vasogenico, potenzialmente reversibile.
TERAPIA
La strategia di ogni trattamento è composta di due anime. La
più importante consiste nell’applicazione di terapie a complessità crescente in funzione del caso; si basa su esperienza
e buon senso ma a volte non si adegua ai casi più difficili e si
cura poco di preservare le aree di penombra. L’associazione
con una strategia guidata dalla fisiopatologia è in grado di
compensare l’ampio campo di non conoscenza sistematica,
tuttavia è spesso Centro-dipendente e a volte espone a rischi
di sovrainterpretazione del monitoraggio.
115
Parte
|2|
Trattamento sistematico delle lesioni
Terapia a scalini
La strategia della cura a scalini [102] è essenzialmente pragmatica e può essere semplificata con il principio di usare i
metodi più aggressivi (e sfortunatamente più legati a complicazioni) dopo aver applicato i metodi più semplici, fino
a quando possibile. Su questa base è necessario:
s mantenere la proporzione tra ciò che si vuole ottenere
e ciò che si è ottenuto;
s usare uno strumento per volta per verificarne l’effis
cacia;
se la strategia utilizzata non raggiunge il risultato
sperato, metterla in dubbio e provare un approccio
magari meno raffinato ma più efficace.
Il protocollo di trattamento sarà di seguito descritto sull’ipotesi di un monitoraggio di base (vedi sezione specifica),
tenendo conto che la terapia a scalini va integrata dalle
informazioni fisiopatologiche fornite dal livello di monitoraggio in funzione delle potenzialità della struttura in cui
il paziente viene trattato [103].
Soglie di trattamento
Un trattamento specifico si attiva per lo più sulla base dello
scostamento da soglie predefinite.
1. Soglie ICP
a. Sotto i 6 anni si considera attivabile un trattamento
di una ICP sopra i 10 mmHg.
b. Negli adulti, nei primi giorni la soglia di trattamento
ICP è di 20 mmHg, in seguito può essere trattata una
ICP >25 mmHg se associata a CPP <60 mmHg. In
centri con consolidata esperienza si possono tollerare valori di ICP compresi fra 25 e 30 mmHg, se
questa non sia in costante peggioramento, quando si sia considerato di conservare masse focali in
aree eloquenti o in pazienti nei quali non si voglia
prolungare o intensificare ulteriormente la terapia
medica per il timore di complicanze.
c. Quando il cranio è decompresso la soglia scende a
15 mmHg.
d. Quando una contusione si trova nella zona sottotentoriale del lobo temporale, la soglia di ICP può
scendere a 15 mmHg e talvolta a 10 mmHg in quanto
sono descritti casi isolati di erniazione cerebrale associati con bassi livelli di ICP [104].
e. Sebbene una ICP più alta del valore soglia per più
di 5 minuti sia un’indicazione al trattamento, è opportuno caratterizzare il comportamento del singolo
paziente e comprendere come si distribuisce nel
tempo il rialzo.
2. Soglie CPP
a. L’obiettivo è di mantenere valori >60 mmHg.
b. Negli anziani con ipertensione arteriosa la CPP do-
vrebbe essere mantenuta sopra i 70 mmHg.
116
c. Nei giovani con DCI tipo I o II senza problemi di
HICP, la CPP potrebbe essere mantenuta tra 50 e
60 mmHg.
d. Nei bambini sotto gli 8 anni la CPP potrebbe essere
tenuta fra 40 e 50 mmHg [105].
e. Nei pazienti con ampio edema perifocale e possibile ischemia microvascolare mantenere la CPP
>70 mmHg.
Valutazione immediata
dopo un rialzo della ICP sopra soglia
I curanti dovrebbero valutare e prendere provvedimenti in
modo rapido e seguendo l’ordine di seguito definito.
1. Escludere peggioramenti neurologici. Se si evidenzia
una dilatazione pupillare non reagente alla luce è
necessario iniziare una terapia massimale per controllare l’HICP, attivando una TC di emergenza e
verificando contemporaneamente la lista al successivo
punto 2. In assenza di peggioramento neurologico,
è opportuno verificare la presenza di cause semplici/
intercorrenti di aumento di ICP.
2. Escludere e correggere le cause facilmente evitabili
di HICP.
a. Incremento della pressione venosa giugulare:
– ostacolato deflusso venoso del collo: mantenere
una lieve elevazione del capo associata a lieve antiTrendelemburg; evitare che sistemi di fissazione
della cannula tracheostomica, medicazioni, collare
cervicale o torsioni comprimano le giugulari;
– ostacolato ritorno venoso: verificare se presente
versamento pericardico e la tensione delle vene
giugulari;
– aumento della pressione intratoracica: evitare conflitto col ventilatore; escludere PNX, emotorace,
versamento pleurico; verificare se sia effettivamente necessaria una PEEP elevata;
– aumento della pressione intraddominale: misurare
la pressione intraddominale e applicare tecniche
di decompressione.
b. Incremento della pressione arteriosa e/o della vasodilatazione cerebrale:
– verificare la ETCO2 o la PaCO2;
– controllare la presenza di dolore: somministrare
farmaci analgesici o verificare il funzionamento
delle pompe infusionali;
– verificare il livello di sedazione: se inadeguato,
somministrare boli estemporanei di oppioidi
(maggiore protezione agli stimoli esterni e migliore adattamento al ventilatore con minore
impatto sulla PA rispetto ai sedativi);
– verificare eventuali incrementi (per esempio dolore, conflitto con il ventilatore, febbre) o riduzioni
improvvise (per esempio malfunzionamenti o
manovre di sostituzione della pompa infusionale
delle amine) della PA;
Trauma cranico
– verificare la presenza di brivido o incremento della
temperatura (una delle più importanti cause di
HICP [71,72]): somministrare in infusione continua diclofenac a basse dosi [106]; perseguire il
trattamento eziologico dell’infezione;
– verificare lo stato pupillare e la presenza di movimenti spontanei e di convulsioni; nel sospetto
controllare l’EEG;
– verificare se è presente un’improvvisa riduzione
della SpO2.
c. Altre cause:
– verificare un’eventuale iponatriemia assoluta o
relativa: correggere se Na+ <140 mEq/L oppure se
si verifica un’improvvisa riduzione rispetto a un
precedente valore stabile; in acuto somministrare
boli di mannitolo per adeguare l’osmolarità, successivamente impostare infusione continua di NaCl al
2% (non superare la velocità di 0,5-1 mEq/ora; se
un’iponatriemia relativa si verifica in seguito a una
pregressa ipernatriemia, correggere comunque la
natriemia incrementandola fino al controllo della
HICP); verificare almeno 3 volte al giorno la natriemia; identificare la causa della iponatriemia;
– escludere una possibile anemia: mantenere l’Hb
≥10 g/dL; in presenza di ipertensione endocranica,
swelling e/o ampie aree ipodense perilesionali,
mantenere Hb superiore a 10 g/dL per non compromettere ulteriormente la disponibilità di O2
regionale. Il timore della complicanza infettiva
legata all’emotrasfusione è rilevante; dati globali
contrari alla trasfusione sono un buon controllo
della ICP e CPP, elevati valori di SjO2 e l’uso di
farmaci soppressori del metabolismo cerebrale
(tiopentone sodico o propofol);
– escludere l’anafilassi;
– verificare ogni altro evento in relazione temporale
all’incremento della ICP.
3. Escludere un peggioramento morfologico dovuto
a masse evolutive o swelling. È possibile che lesioni
massa extrassiali (ematoma extra o sottodurale) non
presenti o non rilevanti alla TC delle prime ore possano manifestarsi successivamente.
– Considerare la ripetizione di una TC d’urgenza: se si
conferma la presenza di una lesione con effetto massa,
considerare l’intervento chirurgico urgente.
– Nel caso sia nota da una precedente TC la presenza
di una massa potenzialmente evolutiva, un aumento
della ICP è atteso: effettuare una TC di controllo per
rivalutare lo stato evolutivo e la strategia terapeutica,
dato che la rimozione della lesione può controllare
l’HICP ma comportare la rimozione di aree potenzialmente recuperabili di tessuto cerebrale. Se la correzione delle cause potenzialmente evitabili non ha
determinato un controllo soddisfacente della HICP
e se la TC dimostra evoluzione dell’effetto massa, la
Capitolo
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scelta terapeutica sarà basata su numerose variabili:
un ampio core rispetto all’area di edema pericontusionale, la collocazione nel lobo temporale (rischio
di erniazione) o in un’area non legata al linguaggio,
un livello già aggressivo di terapia medica e complicanze mediche pregresse o presenti (per esempio
polmoniti, ARDS) sono condizioni che incoraggiano la chirurgia.
Piano di trattamento medico
e scelta di terapie specifiche
Una volta escluso che l’aumento della ICP sia dovuto a cause facilmente evitabili, che non vi siano masse da evacuare
in urgenza e che l’incremento pressorio non sia transiente,
è necessario intraprendere una terapia sistematica della
HICP. L’applicazione della terapia a scalini è sintetizzabile
in terapia standard o di base (primo scalino), terapia rinforzata (secondo scalino), terapia estrema o per HICP refrattaria (terzo scalino) [107]. Si consideri che molti Centri
individuano solo due livelli terapeutici, così come terapie
diverse per i singoli scalini.
1. Terapia standard (primo scalino)
a. Sedazione e analgesia. Sono il punto principale
del trattamento e hanno l’obiettivo di ridurre l’incremento della ICP conseguente agli stimoli, permettendo un completo adattamento al ventilatore
e una buona tolleranza al brivido. Un’appropriata
sedazione stabilizza i valori di ICP e permette la
comprensione delle dinamiche intracerebrali escludendo interferenze esterne. La sedazione (sia con
midazolam, sia con diazepam, sia con fentanyl)
ha effetti diretti sulla ICP in quanto produce una
riduzione del CMRO2 e del CBF che determina
una riduzione del CBV. La terapia con sedativi si
configura inoltre come profilassi indiretta per le
crisi comiziali [108], riduce la risposta allo stress,
rallenta il metabolismo sistemico e può prevenire
la spasticità muscolotendinea. È necessario considerare che il propofol, a dosaggio elevato può determinare ipotensione e rendere necessario l’uso delle
catecolamine, mentre degli oppioidi sono noti gli
effetti sulla riduzione del transito intestinale.
Importante la prevenzione delle complicanze polmonari associate alla sedazione e alla ventilazione
attraverso pratiche quali la tracheotomia precoce,
la mobilizzazione del paziente, le espansioni
polmonari intermittenti. Nei pazienti con terapia
standard della HICP e con un quadro TC non
evolutivo, trascorsi alcuni giorni di trattamento si
suggerisce l’interruzione ciclica della sedazione che
permette, a ICP controllata, di ridurre l’accumulo
farmacologico; in caso di nuova instabilità della
ICP, la sedazione va ripresa raggiungendo la dose
minima efficace. Un approccio simile è suggerito
anche nei pazienti già sottoposti a terapia rinfor-
117
Parte
|2|
Trattamento sistematico delle lesioni
zata o estrema nei quali sia iniziata una fase di deescalation terapeutica.
b. Drenaggio del liquido cefalorachidiano. Questo
trattamento necessita della misurazione della ICP
attraverso un catetere ventricolare. I casi in cui la
componente liquorale è determinante (per eccessiva
produzione o per difetto di riassorbimento) sono
frequenti [61]. Dato che durante la deliquorazione
non è possibile leggere correttamente la ICP, è preferibile attuare la manovra soltanto per brevi periodi
e quando la ICP è sopra la soglia, verificandone
rapidamente l’efficacia: se la ICP aumenta, la manovra va sospesa. Casi di ipotensione liquorale sono
infrequenti e vanno sospettati in presenza di bassi o
negativi valori di ICP, pneumoencefalo, scomparsa
delle cisterne della base; in questi casi è necessario
sospendere la deliquorazione e individuare la causa
della perdita liquorale.
2. Terapia rinforzata (secondo scalino)
a. Terapia osmotica. Tranne per i casi di iponatriemia
assoluta o relativa, l’effetto del mannitolo, se infuso
lentamente, sulla ICP è limitato (pochi mmHg) e
qualche volta difficile da interpretare: per ottenere
l’effetto servono alcune ore durante le quali la ICP
può variare per ragioni diverse. Pertanto è suggerita
l’infusione del mannitolo (0,25 g) in pochi minuti,
anche per ottenere un precoce effetto di vasocostrizione [109,110]. Il mannitolo andrebbe usato
durante un rialzo acuto della ICP e non come
terapia programmata. Nei pazienti con ampio
edema pericontusionale è noto il rischio dell’effetto
paradosso del mannitolo dovuto alla sua dispersione, attraverso la BBB lesionata, all’interno del
tessuto danneggiato, con conseguente incremento
dell’edema per inversione del gradiente osmotico.
Un persistente incremento osmotico può essere
ottenuto mantenendo i livelli sierici di Na+ su valori
normali-elevati.
È diffuso l’uso alternativo della salina ipertonica.
Nei reparti con attento monitoraggio della sodiema,
pilotata ai limiti superiori della norma, l’uso supplettivo del mannitolo è preferito a quello della
ipertonica salina. Contrariamente è verosimile che,
nei reparti nei quali non sia usata di routine l’infusione continua di salina ipertonica per mantenere
controllati i livelli di sodiemia, l’uso di ipertonica
salina sia appropriato. L’uso di boli ripetuti deve
porre attenzione all’effetto indotto sulla stabilità dei livelli di sodiemia, con la possibilità che
iposodiemie relative, successive al decadimento
dell’effetto del bolo, possano alla lunga peggiorare
i valori medi di ICP. Come per il mannitolo, anche
per l’ipertonica salina è da considerare un effetto
rebound per diffusione del sodio in aree a danneggiata BBB.
118
b. Ipocapnia temporaneamente indotta. La riduzione
della PaCO2 come misura terapeutica sembra essere
molto efficace ma, a causa della tolleranza al cambiamento del pH nel CSF, è opportuno considerarla solo
per un breve periodo. Nel paziente stabile con ICP
controllata dev’essere fatto ogni sforzo per normalizzare la PaCO2, anche per potersene giovare quando
ne sia richiesta una riduzione terapeutica [111].
c. Catecolamine. Sono largamente utilizzate come
“supporto” per evitare l’ipotensione dovuta ai farmaci
ipnotici (soprattutto al propofol), tanto che il loro
utilizzo potrebbe essere considerato “standard” in
presenza di normali valori di ICP (sotto i 20 mmHg)
e con CPP inferiore a 60 mmHg. Il ricorso a questi
farmaci può ritenersi invece terapia rinforzata quando,
in condizioni di HICP nonostante le terapie, siano
somministrate per trattare una ridotta CPP conseguente a HICP o per ottenere riduzione della ICP tramite
attivazione della cascata vasocostrittiva [112].
d. Sedazione aggiuntiva con propofol. Prima di usare
terapie estreme è consigliabile cercare di ridurre
ulteriormente il CBV riducendo il CMRO2 con propofol in aggiunta alle infusioni base di midazolam/
diazepam e fentanyl. Il vantaggio consiste nell’ottenere una “sedazione bilanciata” e, al contempo,
l’effetto specifico del barbiturico-simile senza effetto
collaterale. Da considerare la possibilità di propofol
syndrome, quadro di tossicità da propofol aggravato
dalla coincidente infusione di amine e letale se non
riconosciuto [113].
3. Terapia estrema o per HICP refrattaria (terzo scalino).
Prima di ricorrere a terapie estreme, è sempre necessario
escludere l’opportunità di evacuare masse chirurgiche,
a meno che non sia stato consapevolmente deciso di
non intervenire in aree eloquenti. Le indicazioni per
una terapia estrema sono legate a due considerazioni
preliminari: che ci sia ancora spazio terapeutico per
bloccare il processo patologico e che ci si attenda un
outcome accettabile.
a. Propofol a dosi soppressive. L’end point è il controllo della HICP, tuttavia la velocità di infusione
non deve superare livelli che producano all’EEG
quadri oltre la burst suppression. L’uso in corso di
ipotermia è sconsigliato per un rallentamento del
metabolismo epatico e conseguente rischio di sovradosaggio.
b. Barbiturico in infusione continua. Rappresenta con
l’ipotermia la più potente terapia medica disponibile.
L’efficacia dipende dall’attività neuronale residua
e dalla rilevanza della componente vascolare sulla
HICP. Il bolo iniziale va infuso lentamente (minuti)
per poi iniziare l’infusione continua con una velocità
maggiore nelle prime ore; la dose va successivamente
ridotta, programmando una dose giornaliera di circa
2 g e minimizzando la durata della terapia.
Trauma cranico
Il barbiturico induce ipotermia, ulteriore contrazione del CMRO2, riduzione del metabolismo sistemico e, di conseguenza, della produzione di CO2
(riadattare la ventilazione per evitare ipocapnia).
Prima di iniziare la terapia è necessario verificare
la stabilità emodinamica (utile il monitoraggio
invasivo), mantenere il livello di benzodiazepine
precedentemente infuso ed evitare la burst suppression
(monitoraggio con almeno due EEG al giorno).
Fra le molte complicanze, va ricordato che il barbiturico riduce la clearance delle secrezioni polmonari e abolisce la tosse, è immunosoppressore, può
avere un effetto negativo su muscoli, pancreas e
surreni. Fondamentale quindi il nursing, migliorando la cura del polmone con posture automatiche,
adottando sistemi di umidificazione, monitorando
la diuresi per possibile poliuria da ipotermia o
su base endocrinologica (controllo frequente del
bilancio idrico) e verificando che la temperatura
non scenda sotto i 36 °C (in tal caso riscaldare il
paziente o ridurre l’infusione); è altresì necessario
adottare un’attenta strategia per la prevenzione
delle lesioni da decubito. Sul piano clinico, va aumentata la sorveglianza su atelettasie e infezioni
polmonari (leucocitosi e febbre possono essere
aboliti), predisposto un piano profondo di analgesia e programmati controlli seriati di amilasi e
CPK/mioglobina.
c. Ipotermia terapeutica lieve. Una riduzione controllata della core temperature tra 34-35,9 °C può
essere usata in alternativa al barbiturico e, per
certi versi, preferita per la più facile reversibilità.
L’induzione prevede l’infusione di cristalloidi
(1.500-3.000 mL) a 4 °C in 30-120 minuti, con
l’obiettivo di superare rapidamente la soglia vasocostrittiva (36,5 °C) e del brivido (35,5 °C). In
questa fase possono comparire poliuria, ipovolemia, disturbi elettrolitici (ipokaliemia, ipomagnesemia, ipofosforemia, ipersodiemia), iperglicemia,
ipocapnia, brivido, che dovrebbero essere repentinamente corretti. Nella fase di mantenimento
dev’essere massima l’attenzione alla prevenzione e
controllo delle complicanze infettive e delle lesioni
da decubito (soppressione assetto immunitario e
infiammatorio). Nella fase di riscaldamento sono
frequenti disturbi elettrolitici (soprattutto iperkaliemia) e iperglicemia: la riduzione della velocità
di riscaldamento (circa di 0,1-0,2 °C/ora) attenua
molte delle perturbazioni e riduce la possibilità di
rebound della ICP.
d. Decompressione cranica esterna secondaria. La
decompressione chirurgica aumenta la compliance
intracranica. Usualmente trova indicazione dopo
il fallimento del controllo della HICP con terapia
medica o alla comparsa/previsione di severe complicanze. In alcuni Centri viene applicata precocemente
Capitolo
|5|
rispetto alle terapie mediche, sempre con decisione
condivisa fra neurointensivisti e neurochirurghi.
La manovra è maggiormente applicabile nei pazienti con danno focale, dato che la craniotomia può
essere meno invasiva (monolaterale), la lesione
focale può essere toiletatta ed è più probabile che
un cono di pressione temporo-mesiale o frontobasale centrale venga attenuato; inoltre la prognosi
è migliore rispetto a pazienti con lesione diffusa.
Nello swelling emisferico monolaterale o nelle lesioni
focali che non si vogliono evacuare si preferiscono
ampie decompressioni fronto-temporo-parietali
unilaterali fino alla parte più caudale dell’osso temporale per proteggere ulteriormente dall’erniazione
temporale mesiale. Nello swelling bilaterale o nelle
lesioni contusive basofrontali bilaterali è preferita
la craniectomia bifrontale. Sebbene la rimozione
dell’osso riduca la ICP, una maggior efficacia è
ottenuta con l’apertura della dura e una successiva
ampia plastica.
Il trattamento medico non deve essere immediatamente rallentato poiché, oltre alle lesioni corticali
da bulging, possono persistere gradienti di HICP
potenzialmente sottostimati. Il sensore della ICP
dovrebbe essere posizionato controlateralmente
alla decompressione (se unilaterale) o distante;
appena possibile va posizionata una fasciatura
delicata sopra l’opercolo decompresso.
L’impegno verso il paziente è complesso, essendo
da programmare da subito la cranioplastica e il suo
follow-up. Numerose possono essere le complicanze, sia precoci (bulging cerebrale, raccolte ematiche
sottodurali, perdita di liquor, aumentato edema
cerebrale, infarcimento emorragico-ischemia delle
zone di bordo) sia tardive (idrocefalo, sunken skin
flap syndrome, complicanze da riapposizione dell’osso o protesi, infezioni, riassorbimento, instabilità)
[114]; tutti questi aspetti devono essere considerati
nella scelta terapeutica.
e. Ipocapnia moderata o spinta. L’uso persistente
dell’ipocapnia suscita perplessità non tanto per
il poco realistico rischio di ischemia cerebrale,
ma per la progressiva tolleranza che si realizza ai
valori ridotti di PaCO2. Può essere pertanto considerata come terapia in associazione da usare possibilmente come manovra a ponte con un attento
monitoraggio della SjO2.
f. Catecolamine per indurre ipertensione arteriosa. Nei pazienti con autoregolazione preservata,
aumentare la MAP con catecolamine induce vasocostrizione compensatoria e riduce la ICP. Se
nell’immediato questo approccio può produrre risultati brillanti, spesso nel medio termine possono
dominare complicanze quali sovraccarico idrico,
scompenso miocardico da incremento del postcarico, effetto vasocostrittivo sulle arterie coronarie,
119
Parte
|2|
Trattamento sistematico delle lesioni
eccesso di stimolazione B miocardica, poliuria da
aldosterone escape. Soprattutto nei casi difficili, il
rialzo della pressione arteriosa sistemica può produrre effetti opposti agli attesi (aumento della ICP)
che è possibile provare a contrastare abbassando la
PaCO2 o somministrando indometacina [115]. In
assenza di risposte favorevoli è necessario rinunciare
all’aumento della MAP.
g. Indometacina. In casi selezionati con onde plateau
(tipo A) non suscettibili di altre terapia e casi con
anormale capacità di autoregolazione può essere
usata l’indometacina [116] in infusione e in bolo,
monitorando la SjO2 (per intercettare un possibile
eccesso di vasocostrizione acuta), il bilancio idrico
e la funzionalità renale.
Quando interrompere
il monitoraggio ICP
Il monitoraggio ICP va interrotto quando i clinici abbiano
raggiunto la sensazione che la patologia abbia iniziato una
fase di reversione e il paziente abbia sopportato bene una
fase di de-escalation terapeutica. Anche la durata delle perturbazioni della ICP viene valutata quale indice della compliance
endocranica. Nella fase di “weaning” dalla terapia anti-HICP
va abbandonata progressivamente la deliquorazione, recuperata la normocapnia, sospesa l’infusione continua di sedativi
e analgesici, recuperata la normonatriemia, sospesa l’infusione di catecolamine, controllata la febbre. La rimozione
del catetere va preceduta da una TC e si deve associare alla
sospensione della somministrazione di eparina.
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Per il proprio contributo nella stesura del capitolo, il dott. Arturo Chieregato desidera ringraziare il prof. Nino Stocchetti per gli insegnamenti
ricevuti, che gli hanno permesso di disegnare le parole qui scritte.
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