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SEQUESTRO PREVENTIVO E PROFITTI

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SEQUESTRO PREVENTIVO E PROFITTI
SEQUESTRO PREVENTIVO E PROFITTO AGGREDIBILE NELLA
RESPONSABILITA’ DA REATO DEGLI ENTI COLLETTIVI
(BREVE COMMENTO ALLA SENTENZA DELLA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE
VI PENALE, 20.12.13 – 24.1.14, N. 3635)
Marcello Bertucci, Avvocato in Roma
La vicenda processuale
Con ordinanza emessa dal Tribunale del riesame di Taranto in data 15.6.2013, veniva
confermato il decreto di sequestro preventivo, funzionale alla confisca per equivalente, emesso dal
GIP del medesimo Tribunale, per un importo “prudenzialmente” quantificato in
€
8.100.000.000,00, nei confronti di un importante gruppo siderurgico italiano e di tutti gli enti nati
dalla sua trasformazione o fusione.
Il sequestro veniva emesso, alla luce del D.Lgs. n.231 del 2001, nell’ambito di un
procedimento penale già avviato nei confronti di dipendenti e di manager che, nel tempo, avevano
ricoperto cariche direttive nel suddetto gruppo industriale. Gli indagati erano stati chiamati a
rispondere di più delitti contro la pubblica incolumità e, segnatamente, dei reati di cui agli artt. 434,
437 e 439 c.p. nonché di reati contro la pubblica amministrazione e la pubblica fede, nonché in
materia di tutela ambientale, di prevenzione degli incidenti rilevanti e di igiene e sicurezza del
lavoro.
Le società destinatarie del sequestro proponevano ricorso per cassazione avverso il
provvedimento di conferma del Tribunale del Riesame, chiedendone l’annullamento.
La Corte di Cassazione, con la pronuncia n. 3635, depositata in data 24 gennaio 2014,
annullava il provvedimento impugnato e, con una motivazione che merita di essere analizzata, ha
introdotto tre fondamentali principi che non potranno essere tralasciati dagli operatori del diritto
nell’applicazione del D.Lgs. n. 231 del 2001.
Il primo principio
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Come si può facilmente evincere dalla lettura delle imputazioni contestate agli indagati,
alcune di queste sono estranee al catalogo dei reati individuati tassativamente dagli artt. 24 e 25 del
D.Lgs. n. 231/01, per i quali l’ente collettivo ne può rispondere.
Lo “stratagemma” utilizzato dal GIP ed avallato dal Tribunale del Riesame, per far rientrare
nell’ambito di applicazione del D.Lgs. n.231 del 2001 tali reati, è stato quello di contestare la
fattispecie associativa di cui all’art. 416 c.p., introdotta dalla L. n. 94/09 nella succitata
catalogazione dei reati previsti dal D.Lgs n. 231/01.
Secondo la ricostruzione operata dal GIP, poiché il delitto di cui all’art. 416 c.p. rientra tra
quelli previsti dal D.Lgs. n.231 del 2001, le società devono rispondere anche degli illeciti non
“catalogati” qualora essi siano, come nel caso di specie, reati-fine dell’associazione a delinquere.
A sostegno di tale ipotesi, l’ordinanza di conferma del Tribunale del Riesame richiama due
precedenti pronunce della Cassazione (Sez. 3, n. 5869 del 27/01/2011, dep. 17/02/2011, Rv. 249537
e Sez. 3, n. 11969 del 24/02/2011, dep. 24/03/2011, Rv. 249760) aventi ad oggetto reati di natura
fiscale anch’essi non rientranti nel catalogo ex artt. 24 e 25 del D.Lgs. n. 231/01.
E’ di indubbia evidenza che, se tale interpretazione si consolidasse nella prassi
giurisprudenziale, le società non sarebbero più in grado di approntare un valido modello
organizzativo e di gestione. Difatti, non potrebbe essere mai realizzato un modello ex art. 6 del
D.Lgs. n. 231/01 idoneo a prevenire astrattamente la commissione di tutti i reati previsti dal codice
penale e dalla legislazione penale speciale. Questo perché le società dovrebbero “mappare”, in via
astratta, tutte le tipologie di reato esistenti nel nostro ordinamento che, per il tramite della fattispecie
associativa, potrebbero assurgere a rilevanza penale ai sensi del D.Lgs. n.231/01.
Proprio in tale ottica, il legislatore ha ritenuto di dover circoscrivere ad un numero limitato
di reati la responsabilità amministrativa degli enti: la possibilità di poter predisporre un modello
organizzativo efficace dipende, invero, esclusivamente dal fatto che questo è diretto a prevenire una
gamma ristretta di fattispecie delittuose, ossia quelle previste dagli artt. 24 e 25 del D.Lgs. n.
231/01.
Orbene, con la pronuncia in commento, la Suprema Corte di Cassazione ha stabilito in modo
ineccepibile come, nel caso di specie, fosse stato violato il principio di tassatività del sistema
sanzionatorio contemplato dal D.Lgs. n. 231/01. Pertanto, i reati “contestabili” alle società devono
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essere esclusivamente quelli previsti dal D.Lgs. 231 del 2001 e non anche quelli eziologicamente
collegati a quest’ultimi.
Per superare le due precedenti pronunce “sfavorevoli”, la Corte ha specificato che le stesse
si riferivano a due vicende “storico-fattuali” differenti da quella sottoposta al suo giudizio: nel
primo caso, avente ad oggetto reati di natura fiscale, il profitto del reato, sequestrabile ai fini della
successiva confisca per equivalente, pur derivando necessariamente dalla commissione dei reatifine, era proprio frutto dell’esistenza di una stabile struttura criminale organizzata e del comune
progetto delinquenziale. Nel secondo caso, si era in presenza di una organizzazione criminale
transnazionale e, pertanto, il principio applicato non era adattabile al caso di specie, in quanto il
reato-fine di frode fiscale costituiva un reato transnazionale in base all’art. 3, comma 1, lett. c) della
L. 146/2006.
Il secondo principio
La Cassazione, con la pronuncia de qua, stabilendo un secondo principio, ha cassato la
decisione del Tribunale del riesame di Taranto sotto un ulteriore profilo di legittimità: la violazione
del principio di legalità previsto dall’art. 2 del D.Lgs. n. 231/01.
Difatti, nel caso di specie, era stato disposto il sequestro preventivo per reati commessi
allorquando i reati ambientali ed il reato associativo, contestati agli indagati, non erano ancora stati
introdotti nel catalogo delle fattispecie di cui agli arrt. 24 e 25 del D.Lgs. n. 231/01 .
La Suprema Corte ha stabilito, sul punto, che deve farsi riferimento non alla data di effettiva
acquisizione del profitto da parte della società, ma alla data del tempus commissi delicti da parte del
dipendente o dell’amministratore. Difatti, il momento di acquisizione del profitto costituisce solo
l'oggetto della sanzione-confisca, che incontra il suo necessario presupposto nell'esistenza di un
reato che risulti commesso nella vigenza del D.Lgs. n. 231/01. In caso contrario, come avvenuto nel
caso che ci occupa, si avrebbe una chiara violazione dei principi di legalità e di irretroattività
ribaditi dall’art. 2 del citato decreto.
Il terzo principio
Con riguardo al terzo principio affermato dalla Cassazione, si osserva quanto segue. Il
Tribunale del riesame di Taranto aveva individuato il profitto illecito, ottenuto dalla società, nel
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risparmio dei costi non sostenuti dal gruppo industriale per l’adeguamento dei propri impianti alle
migliori tecnologie disponibili. In sostanza, grazie alla commissione dei reati ambientali e degli altri
reati commessi dai propri managers, l’azienda avrebbe “risparmiato” illecitamente i soldi che
avrebbe dovuto spendere per limitare gli effetti inquinanti e i danni ambientali derivanti dallo
svolgimento della propria attività.
La sentenza oggi in commento, aderendo alla pronuncia delle Sezione Unite n. 26654/08, ha
stabilito che, per potere eseguire una confisca per equivalente, ai sensi dell’art. 19/2 del D.Lgs. n.
231/01, destinata a colpire beni non legati da un nesso pertinenziale con il reato, come sono,
appunto, i vantaggi economici derivanti da risparmio sui costi, occorre un quid in più.
Occorre, invero, che la condotta criminosa abbia fatto conseguire un risultato economico
positivo ovverosia deve esserci stato un “ricavo introitato” dal quale non siano stati detratti i costi
che, invece, si sarebbero dovuti sostenere. Nel caso di specie, le condotte illecite dei managers e
dei dipendenti non avevano prodotto un risultato economico positivo nelle casse del gruppo
industriale. Conseguentemente, l’ordinanza del Tribunale del riesame di Taranto ha violato
nuovamente il principio di tassatività delle sanzioni così come previsto dagli artt. 2 e 9 del D.Lgs. n.
231/01.
Proprio su tale punto, la Corte di Cassazione è arrivata ad auspicare una riforma della
normativa attinente al D.Lgs. n. 231/01 che dovrebbe ricalcare quanto stabilito dalla Legge
Finanziaria n.244/2007 per alcuni reati tributari. Per tali reati, difatti, si osservano le disposizioni di
cui all’art. 322 ter. c.p. e, conseguentemente, il profitto illecito si realizza semplicemente con il
mancato pagamento del tributo.
In attesa dell’auspicata riforma, la Suprema Corte ha annullato senza rinvio l’impugnata
ordinanza, ordinando la restituzione di quanto in sequestro agli aventi diritto.
Marcello Bertucci
Avvocato del Foro di Roma
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