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LILLI GRUBER E HELLA PROZIA NAZISTA PER AMORE

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LILLI GRUBER E HELLA PROZIA NAZISTA PER AMORE
l’antifascista
fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini
Periodico degli antifascisti di ieri e di oggi • anno LXI - n° 11-12 Novembre-Dicembre 2014
ESCLUSIVO: Parla la grande conduttrice televisiva autrice di “Tempesta”
LILLI GRUBER E HELLA
PROZIA NAZISTA PER AMORE
“HO CAPITO LE SUE SCELTE ANCHE SE, OVVIAMENTE, NON LE CONDIVIDO”- IL LIBRO NARRA LE VICENDE
DELLA PROPRIA FAMIGLIA E LE SOFFERENZE DEL POPOLO SUDTIROLESE DOPO LA GRANDE GUERRA
Nenni
di ELISABETTA VILLAGGIO
P
ubblicato il 22 ottobre nella
collana Saggi di Rizzoli,
“Tempesta” è il secondo libro
di Lilli Gruber, dopo “L'Eredità”, dove
la giornalista di origine sudtirolese
racconta le vicende della propria famiglia durante la seconda guerra
mondiale. Protagonista del romanzo è
Hella, prozia dell'autrice, fidanzata
con Waslt, il suo giovane innamorato
che parte per la guerra al fianco dei
nazisti. Entrambi credono nella vita,
nell'amore, nel futuro. Sono due
giovani innamorati che pensano che
Hitler possa ridare dignità ad un
popolo che aveva perso identità.
Infatti dopo la Grande Guerra, il
Sudtirolo, che apparteneva all'impero
austro-ungarico, è diviso e assegnato
all'Italia. Quel popolo di lingua
tedesca sarà messo alla berlina dal
regime fascista di Mussolini e, una
volta scoppiata la seconda guerra
mondiale, gli sarà data la possibilità di
PIAZZA FONTANA
Per quella strage, nessuno ha pagato
Saverio Ferrari e Gino Morrone alle pagine 2-3 e 4
Anche quest’anno
la
strage è stata ricordata, per
iniziativa del Comitato antifascista di cui fanno parte anche
l’Anppia e la Fiap, con grande
partecipazione di pubblico.
All’ora dello scoppio della
bomba, deposte davanti alla
Banca numerose corone delle
istituzioni e delle associazioni. Il consiglio comunale
ha tenuto una seduta straordinaria dedicata al ricordo
delle vitime. Oltre al sindaco Pisapia sono interventui
rappresentanti delle varie associazioni antifasciste e i
familiari delle vittime. Intanto il 22 dicembre scorso
14 neofascisti vicino a Ordine Nuovo sono stati arrestati perchè preparavano attentati a toghe e ministri....
segue in ultima pagina
Poste Italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento D.L. 353/2003 (conv.in. L. 46 del 27.02.2004) - Art.1, comma 2, DCB - Roma
Alfiere della libertà
di C. Tognoli
a pagina 6
Parri
Il Capo della Resistenza
di G. Galli
a pagina 10
Ardeatine
Il ruolo dei fascisti
di M. Franzinelli
a pagina 11
Hotel Regina
Macelleria fascista
di R. Cenati
a pagina 12
Egitto
Un Paese a rischio
di C.Spocci-G.Bertoluzzi
a pagina 16
2
Attualità
12 dicembre 1969. Alle 16.37 una bomba sventra la Banca dell’Agricoltura di Milano: 17 morti
PIAZZA FONTANA, PER LA STRAGE
FASCISTA NESSUNO HA MAI PAGATO
CON QUESTO ATTENTATO TERRORISTICO HA INIZIO LA STRATEGIA DELLA TENSIONE
L’INTRECCIO TRA ESTREMA DESTRA, VERTICI MILITARI E SETTORI DELLE CLASSI DIRIGENTI DI
FRONTE AL “PERICOLO COMUNISTA”
di SAVERIO FERRARI
chiamato a sancire l’alleanza governativa. La prova di forza terrorizzò
letteralmente le destre. Da allora l’avvio di una strategia eversiva messa a
punto dalle forze più retrive e reazionarie in un intreccio tra neofascisti,
vertici militari e settori delle classi
dirigenti. A parlare di "Strategia della
tensione" fu anni dopo un giornalista
inglese dell’«Observer», Leslie Finer,
che nei giorni seguenti le bombe del
12 dicembre 1969, cercando di spiegare
ai propri lettori in Inghilterra quanto
stava accadendo in Italia coniò per la
prima volta il termine.
DA PICCHIATORI A TERRORISTI
La Banca dell’Agricoltura la sera dell’attentato
L
a strage di piazza Fontana si
consumò alle 16.37 del 12
dicembre 1969, un venerdì,
all’interno del salone centrale della
Banca Nazionale dell’Agricoltura,
dove venne innescato un ordigno ad
alto potenziale. Si contarono immediatamente 14 morti e 87 feriti. I
decessi saliranno a 16 entro il 2
gennaio. Diciassette furono alla fine
le vittime.
Milano, nel pieno delle mobilitazioni operaie e studentesche non fu
scelta a caso. Ma forse fu un caso che
lì si compisse la prima di una lunga
catena di stragi. Il 15 aprile a Padova,
una bomba aveva devastato il rettorato dell’università, il 25 dello stesso
mese, a Milano, venti persone erano
rimaste ferite alla Fiera Campionaria da un’esplosione all’interno dello
stand della Fiat. Una seconda bomba
era deflagrata alla stazione Centrale,
all'ufficio cambi della Banca Nazionale delle Comunicazioni, per fortuna
procurando solo danni. Il 12 maggio
successivo tre ordigni erano stati
rinvenuti inesplosi, uno al Palazzo
di Giustizia di Torino e due a Roma
presso gli uffici della Procura e della
Cassazione. Il 24 luglio, sempre a
Milano, era stato scoperto e disinnescato un altro ordigno nei corridoi
del Palazzo di Giustizia. Tra l’8 e il
9 agosto, si erano verificati ben otto
attentati su altrettanti convogli ferroviari, causando dodici feriti.
Le stesse mani avevano costruito
e collocato quegli ordigni. Le bombe
trovate inesplose mostrarono assoluta
identità con i frammenti rinvenuti
a Padova e alla Fiera. Fino al tentativo più grave, quasi dimenticato, il 4
ottobre, con la scoperta di sei candelotti di gelignite, con una potenza
distruttrice doppia rispetto a quella
poi usata a piazza Fontana, collegati
a un congegno a orologeria e posti in
una cassetta sul davanzale dei bagni
della scuola slovena di Trieste. Solo a
causa di un difetto tecnico la bomba
non aveva funzionato. Se fosse scoppiata si sarebbe compiuta una strage
di bambini.
3
Attualità
Alla fine del 1969, secondo i dati
ufficiali del Ministero dell’Interno,
gli attentati erano stati 145, dodici al
mese, più di uno ogni tre giorni.
Proprio a seguito degli avvenimenti del luglio 1960 le principali
organizzazioni della destra extraparlamentare, da Ordine nuovo ad
Avanguardia nazionale, cominciarono
a raccogliere armi e a dotarsi di strutture clandestine, nella prospettiva di
un colpo di Stato. Altre si costituirono
ex novo con questa finalità, si pensi
a Europa civiltà. Altre ancora, come
il Mar (Movimento d’azione rivoluzionaria), un gruppo di ex partigiani
“bianchi”, presente in Valtellina, si
posero a loro volta su questo terreno.
Illuminanti, nell’agosto 1960, le
indicazioni date da Julius Evola, la
principale guida teorica e spirituale
del neofascismo italiano: «Dopo aver
appreso la lezione dei fatti di Genova»
- intervenne su «L’Italiano», una rivista d’area missina - «si dovrebbe
lasciare trascorrere un periodo di
L’INCUBAZIONE
La stagione delle stragi in Italia ebbe
una lunga incubazione. L’ambito fu
quello della “guerra fredda”. In questo
contesto, ben prima del Sessantotto
e dell’“autunno caldo”, va messa a
fuoco una data la cui importanza
ha rappresentato uno spartiacque
nella storia del Paese: il luglio 1960,
quando naufragò il tentativo di Ferdinando Tambroni di varare un governo
monocolore democristiano con i
voti determinanti dell’Msi, il partito
neofascista. L’imponente reazione
popolare con scontri di piazza in
numerose città, diversi morti e feriti,
costrinse il governo a dimettersi.
Genova rappresentò l’epicentro di
questo sommovimento democratico
e antifascista. Qui si impedì materialmente anche lo svolgimento del
congresso missino, già programmato,
L’interno della Banca dopo l’esplosione della bomba
apparente calma politica, che in realtà
sarebbe solo un periodo di accurata preparazione; non trascurare
alcun dettaglio. Poi il colpo decisivo»,
con l’esercito e con «le associazioni
d’arma», con i «sindacati non comunisti», nella prospettiva di «un’ora X»
quando «tutti i punti nevralgici della
nazione dovrebbero essere presidiati,
e dall’esercito e dalla polizia».
«LA GUERRA RIVOLUZIONARIA»
In quegli anni, nell’ambito delle Forze
armate, si tennero importanti convegni di studio con al centro il tema
del pericolo comunista, visto non più
unicamente attraverso l’ottica della
forza militare, ma della forza delle
idee. Uno di questi passò alla storia.
Organizzato dallo Stato maggiore
dell’esercito e finanziato dal Sifar
(Servizio informazioni forze armate),
si tenne tra il 3 e il 5 maggio 1965
all’Hotel Parco dei Principi di Roma.
Titolo: «La guerra rivoluzionaria»,
sulle «tecniche adottate dai comunisti» di penetrazione nel mondo
occidentale. «La guerra rivoluzionaria» veniva descritta come una
nuova forma dell’offensiva scatenata dal comunismo internazionale,
capace di mimetizzarsi nelle lotte,
nelle agitazioni sindacali, come nelle
nuove mode giovanili. Alla presidenza
del convegno il tenente colonnello
Adriano Magi Braschi, il massimo
esperto di “guerra psicologica” dell’esercito. In sala alti ufficiali, ma anche
esponenti della destra politica ed
economica. Tra i fascisti, Pino Rauti,
Stefano Delle Chiaie e Mario Merlino.
DA GIACARTA AD ATENE
Il colpo di Stato in Indonesia, nell’ottobre 1965, pochi mesi dopo il
convegno all’Hotel Parco dei Principi, con centinaia di migliaia di
comunisti passati per le armi, suscitò
l’entusiasmo nelle fila dell’estrema
destra, e non solo. Ma soprattutto lo
sferragliare per le vie di Atene, nella
notte fra il 20 e il 21 aprile 1967, dei
carri armati mossi dai colonnelli per
troncare la democrazia, convinse
lo schieramento golpista che anche
nel cuore dell’Europa si poteva fare
altrettanto.
In Grecia il colpo di Stato venne
attuato applicando il piano «Prometeo». Nello spazio di cinque ore
furono arrestate più di diecimila
persone, poi trasferite in “centri di
raccolta”. Alle sei del mattino era già
tutto finito. Non c’era stata alcuna
resistenza.
Dietro i colonnelli gli Stati Uniti.
Il Kyp, il servizio segreto era sotto
il loro diretto controllo, modellato e
finanziato dalla Cia.
Tra la primavera del 1964 e il 1967,
la Grecia fu scossa da una catena di
attentati. Prima alle caserme, poi ad
Atene, dove il 20 agosto 1965 nella
stessa notte scoppiarono diversi ordigni e gruppi organizzati attaccarono
poliziotti isolati. Si accusarono subito
gli anarchici e gli studenti di sinistra. Si scoprì in seguito che a operare
erano stati proprio gli
agenti del Kyp, spalleggiati dal movimento
neofascista 4 agosto,
costituito nel 1964 da
Costantino Plevris, il
teorico del “social-nazionalismo” greco.
Ancor prima ci fu
una strage, nel novembre 1964, in occasione di
una celebrazione organizzata dai reduci della
resistenza al ponte di
Gorgopotamos.
Cinque
i morti e più di un centinaio i feriti. La destra
accusò gli stessi partecipanti di aver portato al
raduno l’ordigno che poi
esplose.
La Grecia aveva fatto
scuola.
4
Attualità
5
Attualità
Piazza Fontana quarantacinque anni dopo
IL RICORDO DI UN TESTIMONE OCULARE
STRAGI: IL DIRITTO ALL’OBLIO E LA STORIA
di GINO MORRONE
di MIMMO FRANZINELLI
M
ilano, 12 dicembre 1969. Quel giorno ero di “corta” (leggi “giorno
di riposo per i giornalisti”) e, non so perché, mi ero vestito come un
commissario di polizia. Camicia bianca, abito di buon taglio, cravatta
scura, un bel cappotto grigio quasi nuovo. Avevo bisogno di starmene in pace: il 29
dicembre mi sarei sposato e avevo una certa fretta di compilare la lista degli invitati. Scelsi di rintanarmi nella nuova sala stampa dei carabinieri, in via Moscova,
che disponeva di comodissime poltrone e, soprattutto, non era molto frequentata.
Quando entrai, diedi un’occhiata al panorama: ero solo tra una pila di luccicanti
telefoni appena installati e alcune poltrone in pelle assolutamente invitanti.
Cominciai il mio “lavoro”, ma fui subito interrotto dal trillo fastidioso di uno
dei telefoni. Non risposi, mandando mentalmente al diavolo lo scocciatore. Il
telefono insisteva. Fui tentato di staccare e riattaccare. Ma poi prevalse il buon
senso: poteva essere una chiamata importante. Non appena misi all’orecchio il
microfono, dall’altra parte udii una voce concitata: “Capitano C. (era il comandante del pronto intervento), è scoppiata una bomba in piazza Fontana… alla
banca, ma forse è scoppiata una caldaia...”. Riattaccai, in gran fretta raccolsi le
mie cose e mi precipitai all’uscita. Cercai un taxi e diedi l’indirizzo, nel frat-
Pietro Valpreda
Giuseppe Pinelli
tempo cercavo di riordinare le idee, di organizzarmi. Pensai: in piazza della
Scala devo scendere e correre a piedi, la zona sarà transennata. Ero giovane e
atletico (45 anni fa!), perciò bruciai le tappe e arrivai in una piazza gremita di
gente vociante e disperata. Mi diressi con decisione all’ingresso e un poliziotto
si fece subito da parte lasciandomi entrare. Il mio look assolutamente casuale e
involontario aveva funzionato.
Fino ad allora avevo sempre pensato che l’inferno fosse una trovata geniale
per spaventare i piccoli peccatori come me, ma una volta nel salone sventrato
della banca capii che l’inferno esiste davvero ed era proprio lì sotto i miei occhi
sgomenti. Spaventoso, terrificante, apocalittico: cadaveri dilaniati; dappertutto,
persino spiaccicati sulle pareti, sangue e pezzetti di pelle umana; gente che
soffriva e urlava; una grande buca al centro del salone, coperta con dei tavolacci,
mostrava tutta la violenza di una bomba ad alto potenziale appena scoppiata. E
poi sirene, lettighe, medici e infermieri. Un cronista, entrato al seguito del cardinale giunto a benedire le salme, davanti a tanta atrocità, non resse e piombò a
terra come morto. Anch’io ero come paralizzato.
Ma il mestiere, il senso del dovere mi richiamano alla realtà: comincio a
contare i corpi dei poveretti dilaniati dal micidiale ordigno, prendo con meticolosità appunti, cerco di contattare il giornale. Esco dal salone, a caccia di un
telefono (quelli interni erano tutti
fuori uso), lo trovo nella farmacia
accanto. Il vicedirettore del giornale,
informato, scende all’ingresso della
sede e dirotta verso piazza Fontana
tutti i giornalisti che a quell’ora cominciavano i loro turni di lavoro. “Cercate
di contattare Morrone, è dentro la
banca”, urlava. Ebbi qualche problema
a rientrare, ma alla fine, non so come,
tornai in quel maledetto salone. Quel
tragico pomeriggio riuscii a rendermi
utilissimo al giornale. Al caporedattore chiesi timidamente: “Non
firmatemi l’elenco dei morti e dei
feriti”. Riattaccò, ma il giorno dopo la
mia firma fu adeguatamente collocata.
Luigi Calabresi
Passai una notte insonne, c’era un tg
regionale che dava il numero dei morti,
un numero diverso dal mio. Chiamai il
giornale più volte e alla fine il capocronista mi urlò: “Vai a dormire, quel tg ha
un disco e ripete sempre la stessa notizia, sono esatte le tue informazioni.
Buonanotte”. Io, che ero visibilmente
provato, diciamo pure sotto shock, mi
ero rifugiato a casa della mia ragazza,
Giuliana, che da lì a poche settimane
sarebbe stata mia moglie. La mia futura
suocera Cristina era impegnata, con
un efficace lavoro di olio di gomito, a
ripulire le scarpe quasi nuove, sporche,
diciamo imbrattate di sangue e tagliuzzate da tante piccole schegge di vetro.
Alla fine tornarono lustre. Ma io quelle
scarpe non le ho più calzate.
L’
annuncio della rimozione del
segreto di Stato su vicende
stragiste, su cui la presidente
della camera Laura Boldrini è tornata
in occasione della sua visita a Brescia,
aveva lasciato sperare in una svolta
nella ricerca storica (e forse anche
processuale) su vicende circondate
da misteri e impunità. Dopo alcuni
mesi, quale bilancio trarre? Sul piano
giudiziario non si registrano sostanziali processi, mentre sul terreno
della ricerca storica si è alle prese con
i problemi di sempre. A partire dai
bastoni tra le ruote costituiti dalla
legge sulla privacy (interpretata estensivamente) e dal cosiddetto diritto
all’oblio. La cavillosa normativa
sulla privacy, oltre a imporre agli
italiani inutili moltiplicazioni di
firme per ogni atto burocratico, ostacola l’accesso a molti documenti di
provenienza poliziesca e giudiziaria, sottratti alla consultazione dagli
archivisti per motivi prudenziali.
Il diritto all’oblio semina innumerevoli insidie, poiché espone lo studioso
alle querele di qualsiasi personaggio che – citato a qualunque titolo – si
ritenga danneggiato dalla rivisitazione
di aspetti sgraditi del suo passato …
Controversie che, in sede civile,
possono prevedere cospicui risarcimenti. È possibile studiare l’Italia
contemporanea, senza dover scegliere
tra l’autocensura e la sorte di San Sebastiano, bersagliati dalle citazioni a
giudizio? Sarebbe interessante sapere
quante e quali querele si siano attirati
giornalisti e storici occupatisi della
bomba di piazza della Loggia.
Per quanto mi riguarda, il volume
“La sottile linea nera: Neofascismo
e servizi segreti da Piazza Fontana a
Piazza della Loggia” (Rizzoli, 2008)
ha originato ben sei processi (uno dei
quali tuttora in corso) con perdita di
tempo, di pazienza e di denaro.
Senza contare la dozzina di casi in
cui questo o quel personaggio intimava
rettifiche e preannunciava in caso
contrario querele (poi non pervenute).
Vi sono due categorie di persone
propense ad agire in giudizio: 1) chi
Piazza della Loggia a Brescia dopo l’attentato fascista
– lamentando danni d’immagine
– punta a strappare cospicui “risarcimenti” allo scrittore e all’editore,
in primis con lo spauracchio della
querela, in subordine dell’eventuale
processo; 2) chi, in buona fede, si sente
coinvolto e danneggiato da riferimenti
che in realtà non lo riguardano.
Per il primo caso, ho subito ben due
processi su iniziativa di un personaggio manco nominato nel libro: il signor
Gianni Mezzorana che, a proposito
del depistaggio attuato dagli investigatori per l’attentato di Peteano
del 31 maggio 1972 costato la morte
di due carabinieri, contestò l’espressione “sei malavitosi” per i goriziani
ingiustamente inquisiti dopo il fallito
tentativo degli inquirenti di incastrare
un gruppo di estrema sinistra.
Per questa vicenda, accennata nel
testo alle pagine 207–208, ho avuto
un processo per diffamazione a
mezzo stampa (con archiviazione
decisa dal Tribunale di Padova,
perché le affermazioni del libro
erano veritiere) e uno deciso dal
giudice di pace di Gorizia con la
mia assoluzione e la condanna del
Mezzorana alle spese legali.
Per il secondo caso, il bresciano
Arturo Gussago, a suo tempo pretestuosamente indagato per strage con
Andrea Arcal e altri giovani della
destra radicale (il libro precisa che
si trattò di una falsa pista, destituita
di fondamento), si riconobbe nella
direzione della quarta di copertina “perché i responsabili sono stati
assolti?”. Ne derivò, per il sottoscritto,
una citazione a giudizio che immagino
dovuta a un qui pro quo, poiché mai
scrissi (né pensai) che quel gruppetto
di adolescenti avesse a che fare con la
bomba stragista.
Anzi, a ben vedere essi pure ne
subirono i contraccolpi, col carcere
duro, prima di venire assolti, con una
sentenza talmente convincente che
nessuno ha mai criticato.
A volte, vien da chiedersi se valga la
pena di continuare a occuparsi delle
pagine più oscure (e sanguinose)
del nostro passato prossimo, vista la
quantità di grane che s’incontrano…
Nonostante tutto, la risposta è comunque affermativa, sia perché su quelle
vicende vi è molto da scoprire, e si
tratta di una storia che dovrebbe divenire patrimonio comune, sia perché il
confronto tra le varie tesi accresce la
consapevolezza civile .
Post Scriptum – Se è consentito
esprimere un sommesso desiderio,
dinanzi alla tempesta di citazioni a
giudizio contro studiosi accusati di
diffamazione a mezzo stampa, qualche archiviazione in più e qualche
processo in meno diminuirebbero gli
arretrati giudiziari e assicurerebbero
maggiore libertà alla ricerca sull’età
contemporanea.
6
Personaggi
Personaggi
Pietro Nenni, il leader che portò i socialisti al Governo
Per tutta la sua vita ha servito il popolo, la democrazia e la libertà
di CARLO TOGNOLI (sindaco di Milano dal maggio 1976 al dicembre 1986)
P
ietro Nenni è stato uno dei ‘leader’ socialisti più autorevoli e popolari, con
Filippo Turati. Si iscrisse al PSI nel 1921, poco dopo la scissione comunista
di Livorno del gennaio di quell’anno. Giacinto Menotti Serrati, segretario del Partito socialista e capo dei massimalisti, sostenitore entusiasta della
Rivoluzione d’ottobre, in un primo tempo aveva respinto in nome dell’unità la
condizione posta al PSI da Lenin della rottura coi riformisti per l’ingresso nella
III Internazionale, ma poi aveva assecondato le richieste bolsceviche espellendo
i riformisti. Nel 1922, in seguito alla espulsione dei socialisti riformisti, voluta
da Serrati, era nato il Partito Socialista Unitario di Turati, Treves e Matteotti.
Nenni, giornalista già affermato, era diventato corrispondente dell’Avanti! per la
Francia nel 1921 e aveva aderito al PSI, dopo una lunga militanza repubblicana.
In quegli anni di crisi del socialismo dimostrò un notevole coraggio difendendo ciò
che rimaneva del PSI dai tentativi di farlo confluire nel partito comunista. In un articolo
dell’Avanti! del gennaio 1923, prese le distanze da Serrati che aveva deciso di portare il
PSI nell’Internazionale comunista. “… Io penso che se la nostra delegazione a Mosca e
la Direzione, avessero ricevuto l’incarico di procedere alla liquidazione sotto-costo del
Partito socialista, senza nessun beneficio né per l’Internazionale, né per il proletariato,
non si sarebbero comportate diversamente… Non si liquida un partito come un fondaco di
mercante. Non si decide la fusione senza che i due partiti abbiano via via superato il ricordo
delle loro divisioni e dei dissensi che… sono stati aspri e violenti… Una bandiera non si getta
in un canto come una cosa inutile…”.
Giornalista e ‘politico’
La sua biografia ricorda che perdette subito il posto di lavoro, da una fabbrica di ceramiche
faentina, nel 1908, per avere aderito a uno sciopero (aveva 17 anni). Collaborò al giornale
‘Lotta di Classe’ di cui era direttore Benito Mussolini (che nel 1912 divenne direttore
dell’Avanti!). Fu tra i protagonisti della ‘settimana rossa’, periodo di ribellione proletaria.
Arrestato nelle Marche, si trovò in cella con Mussolini. Fu poi interventista nella prima
guerra mondiale come molti repubblicani e un buon numero di socialisti (Bissolati e
Salvemini, Gramsci e Togliatti e Mussolini). Giornalista de ‘Il Secolo’, quotidiano milanese diffuso ed autorevole, il suo nome figura tra i partecipanti ad una missione nel 1920
in Georgia. Lloyd George, ministro degli esteri inglese, durante i lavori per il trattato di
Versailles, cercò di convincere prima Vittorio Emanuele Orlando e poi Francesco Saverio
Nitti, a rinunciare alla Dalmazia (salvo Zara) in cambio del protettorato della Georgia e
parte del Caucaso. L’interesse italiano fu in parte stimolato dagli imprenditori che conoscevano le ricchezze minerarie di quella parte dell’Asia. Due missioni, una militare
ed una economico politica si succedettero, dando un parere positivo sulle potenzialità di
quei Paesi. La seconda missione era guidata da Toeplitz e ne facevano parte Ettore Conti,
autorevole figura di imprenditore liberale e, tra i giornalisti, il mitico Luigi Barzini senior
per il ‘Corriere’ e Pietro Nenni per ‘Il Secolo’. Tutto però si fermò lì (sotto il governo Nitti)
perché stava arrivando l’Armata Rossa, che occupò la nazione di Stalin, fino ad allora in
mano ‘menscevica’. Il suo avvicinamento al PSI avvenne quando la casa dei socialisti stava
bruciando, il che mette in luce la passione politica e l’autenticità della sua scelta socialista.
Riuscì a tenere in piedi il PSI e l’Avanti! in un periodo drammatico, segnato dalla ‘marcia su
Roma’, dall’avvento di Mussolini, dell’assassinio di Matteotti, dalla fine della democrazia
con le leggi speciali del 1926, anno nel quale trovò anche modo di dar vita al periodico
‘Quarto Stato’ con Carlo Rosselli prima di prendere la via dell’esilio parigino. L’idea era
quella di ‘rielaborare criticamente l’ideologia e il programma socialista’ senza rinnegare
‘i principi fondamentali informatori’ per addivenire a una ‘loro consapevole riconquista, con le inevitabili correzioni imposte dagli anni e dalle attuali esperienze’ (Nenni).
Collaboravano con i fondatori Lelio Basso, Giuseppe Saragat, Giuseppe Faravelli, Guido
Mazzali, i Treves e molti altri giovani coraggiosi.
Nenni, che anche come repubblicano era sempre stato dalla parte degli ‘sfruttati’, si appassionò al marxismo, ma non ne divenne del tutto schiavo e privilegiò sempre la libertà e i
diritti dell’uomo, interpretando in questa chiave l’aspirazione alla società socialista.
Fu protagonista dell’unificazione socialista in Francia nel 1930 tra il troncone del
Partito Socialista Italiano sopravvissuto
alle scissioni e il Partito Socialista Unitario
che Filippo Turati aveva costituito nel 1922
con Giacomo Matteotti.
L’alleanza coi comunisti
Nella seconda metà degli anni ’30 Stalin
abbandonò la linea della demonizzazione
dei socialisti (definiti ‘socialfascisti’) e imboccò la strada delle alleanze con le forze
di sinistra, la politica dei ‘fronti popolari’.
Nel 1934 il socialista Léon Blum divenne
primo ministro in Francia, alla testa della
coalizione socialcomunista. In quel periodo Nenni scrisse una serie di articoli sul
‘Nuovo Avanti!’ (firmati con lo pseudonimo
Pietro Emiliani) dedicati ai processi di
Mosca del 1936/1938 (Kamenev, Zinoviev,
Bucharin, Tukacevsky ecc.). Egli concludeva sottolineando l’abbondanza delle
prove di mendacio e le lacune procedurali
della giustizia bolscevica: “… In verità non
tanto si tratta di giustizia quanto di un
regolamento di conti in sede giudiziaria ed
in forma quasi sommaria…” e ancora “… Il
bolscevismo della concezione egemonica
del partito è giunto alla intolleranza più
assoluta. Ormai o si è o non si è nella linea.
E chi non è nella linea è un nemico da squalificare, da schiacciare…” Sempre in quegli
scritti dell’autunno 1938, rifacendosi a testi
di esponenti ex-comunisti come Victor
Serge e Ciliga (amici, ma anche critici, di
Trotzki) Nenni riteneva convincente la
loro tesi che la ‘degenerazione burocratica
che ha usato metodi non socialisti verso
le masse laboriose’ e ancora prima ‘verso
i socialdemocratici menscevichi accusati
dalla Ceka di intelligenza col nemico e di
sabotaggio’ potesse farsi risalire al 1921, “…
con la repressione di Kronstadt (voluta da
Trotzki ndr) la soppressione della democrazia operaia al X congresso comunista
russo, l’eliminazione del proletariato dalla
gestione dell’industria…”.
Quando venne annunciato il patto di non
aggressione tra Germania nazista e Russia
bolscevica (Ribbentrop-Molotov) Nenni fu
costretto alle dimissioni da segretario del
PSI in esilio per l’opposizione tiepida verso
questo sciagurato accordo e venne sostituito da Angelo Tasca.
Successivamente l’evolversi della guerra,
Un giovane Pietro Nenni
con l’attacco tedesco all’URSS, lo riportò
a contatto con i socialisti, dai quali era
stato emarginato. Fu arrestato dai nazisti
nel Sud della Francia per essere spedito
in Germania, ma pare che l’intervento di
Mussolini l’abbia salvato, facendolo mandare al confino di Ponza.
Il ‘fronte popolare’ in Italia
In ogni caso il suo atteggiamento filocomunista non è facilmente comprensibile - non
tanto per il periodo dell’esilio, quando
venne concordato il ‘patto d’Unità d’azione’
con il PCI, sottoscritto anche da Saragat e
dalla maggioranza dei socialisti – quanto
per l’alleanza stretta col PCI nel dopoguerra. Forse era rimasto in lui il ricordo
della facilità con cui Mussolini era arrivato
al potere, disponendo di un piccolo gruppo
di parlamentari, grazie alle divisioni del
partito socialista e alla fragilità democratica dei liberali e dei popolari (salvo Sturzo
e De Gasperi). O forse in Spagna contro
Franco e durante la ‘resistenza’ in Italia
contro il nazifascismo valutò come indispensabile l’apporto organizzato e combattivo dei comunisti.
Probabilmente nel secondo dopoguerra,
dopo la Liberazione e la conquista della
Repubblica, temeva un ritorno se non al
fascismo, al predominio delle forze reazionarie. Protagonista della battaglia per
la Repubblica, vinta il 2 giugno 1946 la sua
alleanza con il PCI non gli fruttò neppure la
presidenza del Consiglio dei ministri.
Togliatti, dopo avergli preferito Parri,
il capo della Resistenza, uomo di grandi
qualità morali, ma meno politico e meno
rappresentativo del leader socialista – sostenne De Gasperi in una prospettiva di
permanenza del PCI al governo. Nel 1947,
con la scissione socialdemocratica, ebbe
ragione Saragat e quelli che lo sostennero
e lo accompagnarono (U. G. Mondolfo,
Faravelli, Matteotti figlio, Vigorelli) nello
scegliere la via dell’autonomia dal PCI.
Purtroppo il credito che i socialisti avevano
dato al PCI permise il rapido affermarsi
dell’egemonia comunista sulla classe operaia e la scissione indebolì fortemente il
socialismo italiano. Sindacato e cooperative finirono nelle mani del PCI, grazie al sostegno
del PSI nella lotta contro i socialdemocratici. Il patrimonio di voti ottenuto dal PSIUP, nel
giugno 1946 (21% contro 18,9% del PCI e 35% della DC) nelle elezioni per il referendum
istituzionale e per la costituente, nel ricordo del partito socialista prefascista, venne disperso.
Infatti nel 1948 per tener fede al patto d’unità d’azione col PCI, Nenni affrontò le prime
elezioni politiche dopo il referendum su monarchia o repubblica con il ‘Fronte democratico popolare’, basato sulla alleanza PSI-PCI. I socialisti subirono una sconfitta cocente
scendendo all’8% e 42 deputati nell’ambito del perdente ‘Fronte’ (contro i 133 deputati del
PCI, il 48,5% della DC e il 7% del PSDI). Nenni accusò il colpo, ma in quella fase non cambiò rotta, anche se le sue prime considerazioni dopo il 18 aprile 1948 furono politiche: “…
Posso io rifiutare di prendere atto che sotto la bandiera, direzione o ispirazione comunista
(apparente o reale poco importa) non si vince in Occidente?”
Il ‘patto d’unità d’azione’ PSI-PCI rimase in piedi mentre i governi De Gasperi (DC,
PLI, PRI, PSDI) ancoravano l’Italia alla solidarietà atlantica e cavalcavano, con l’aiuto
americano, la ripresa economica che avrebbe portato al ‘boom’ degli anni ’50, il miracolo
italiano. Al Congresso di Genova (1948) dopo la sconfitta del ‘fronte popolare’ Nenni finì
in minoranza con la vittoria di Lombardi, Jacometti e Romita, ma al successivo congresso
di Firenze (1949) con Rodolfo Morandi riprese in mano il Partito socialista peraltro dominato dal PCI. I primi segni di timido risveglio vennero dati al congresso di Milano del
1953 e alle elezioni politiche dello stesso anno con lo slogan ‘è l’ora dei socialisti’. Nel 1953
moriva Stalin.
I ‘fatti d’Ungheria’
Nel 1955 al congresso di Torino Nenni lanciava l’apertura alla DC, letta come ‘apertura
a sinistra’, condivisa anche da Rodolfo Morandi. Non c’era ancora una netta differenziazione dal PCI, ma il PSI riprendeva l’iniziativa. La svolta decisiva si registrava nel 1956
dopo il congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica e il, 'rapporto segreto’ di
Krusciov con il quale si denunciavano i crimini di Stalin e il culto della personalità del
capo comunista. Nella sinistra europea le reazioni furono forti. Nenni scrisse un saggio
‘revisionista’ (‘Luci e ombre del XX congresso’ del PCUS) nel quale metteva in discussione
il sistema poliziesco che aveva sostituito il socialismo. Ripresero i rapporti con il PSDI,
interrotti da molti anni. In un incontro Nenni – Saragat a Pralognan (in Val d’Aosta) si
ipotizzò la riunificazione tra i due partiti socialisti. A Milano la rielezione del sindaco
socialdemocratico Virgilio Ferrari (che era subentrato a Greppi nel 1951 con una giunta
di centro) nel settembre del 1956, venne favorita dal PSI e intesa come primo passo verso
l’unificazione tra PSI e PSDI. Ma fu la ‘rivoluzione’ ungherese dell’ottobre 1956, dopo la
ribellione polacca dell’estate, che spinse Nenni a prendere decisamente e definitivamente
le distanze dal comunismo sovietico e italiano. L’aspirazione degli ungheresi ad una maggiore tolleranza del regime comunista dopo le rivelazioni di Kruscev sui misfatti di Stalin
(‘il rapporto segreto’) al XX congresso del PCUS e qualche concessione fatta ai polacchi
con il ritorno dell’antistalinista Gomulka, fu stroncata dai carri armati sovietici il 4 novembre di quell’anno. Il capo del Governo Imre Nagy (già vittima dello stalinismo) e il
generale Maleter, entrambi comunisti, furono arrestati e giustiziati qualche anno dopo,
mentre Palmiro Togliatti scriveva al Partito comunista dell’ Unione Sovietica (la lettera si
sarebbe vista dopo l’apertura degli archivi di Mosca, negli anni ’90) che bisognava togliere
di mezzo il Nagy. Pietro Nenni, dopo una campagna giornalistica condotta dall’Avanti! per
far conoscere la durezza dell’intervento sovietico contro i ‘compagni’ ungheresi, tenne al
congresso di Venezia del PSI una memorabile relazione di taglio nettamente autonomista,
condannando il comportamento dei comunisti italiani e russi, solidali con la repressione.
“… Gli operai polacchi delle officine di Poznan, calunniati come fascisti’…e gli insorti di
Budapest (anch’essi definiti fascisti) che il 23 ottobre abbatterono la statua di Stalin…”
volevano ciò che era stato fatto intravvedere dopo il rapporto Kruscev, e cioè la fine delle
‘purghe’, l’eliminazione dei metodi barbari della polizia politica basati sulle confessioni
strappate con le torture, l’introduzione di un clima più tollerante. Continuava Nenni: “…
L’intervento sovietico, il fuoco dei carri armati, lo scioglimento dei consigli operai deciso il
9 dicembre (1956), la legge marziale, le esecuzioni sommarie, le proscrizioni, tutto questo è
opera di repressione che non risolve i problemi dell’Ungheria, non fa avanzare di un pollice
il socialismo, riabilita il fascismo… I comportamenti di Kruscev, la rinnovata condanna del
comunismo nazionale Jugoslavo… le dichiarazioni staliniane dei comunisti cecoslovacchi,
tedeschi e francesi, lo stesso atteggiamento dei comunisti italiani, così arretrato… tutto ciò
induce a credere a una pausa nella cosiddetta destalinizzazione…”. Ci fu una crisi profonda
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8
Personaggi
anche nel PCI, dopo i ‘fatti d’Ungheria’ e
una notevole emorragia di intellettuali,
dirigenti e iscritti. La politica socialista, da
allora, prese l’orientamento ‘autonomista’
(autonomia dal PCI) per la ricerca di una
collaborazione con cattolici e laici al fine di
dar vita a governi riformatori.
Verso il centro sinistra riformatore
Ciò avvenne con molte difficoltà, perché
Nenni venne messo in minoranza proprio
al congresso di Venezia (solo a Napoli nel
1959 conquistò la maggioranza col 58%).
Aveva vinto politicamente, ma era in minoranza nel Comitato Centrale. Le difficoltà
per arrivare a impostare una politica di
riforme furono notevoli non solo per colpa
delle divisioni interne del PSI, ma anche
per l'insensibilità e in parte per l’ostilità
di una parte consistente della classe dirigente del Paese (mondo imprenditoriale e
politico, una parte della DC, i liberali con
la loro grande stampa e la Rai cattolica)
che non aiutò Nenni a recuperare consensi.
La DC, per esempio, ostacolò il ricorso alle
elezioni anticipate che potevano svolgersi
nel 1957 e che avrebbero dato un ottimo
risultato al PSI a spese del PCI. Dopo il
1958, con il PSI al 14,2%, cominciò la danza
delle condizioni poste ai socialisti per avviare la politica di centro sinistra (DC, PSI,
PSDI, PRI) contrastata come abbiamo visto
dalle forze conservatrici. Alla collaborazione di governo si arrivò per la volontà
di Nenni e di una parte della DC, ma in
conseguenza di cause esterne. Nel 1960
Ferdinando Tambroni, della sinistra DC,
venne incaricato di dar vita ad un governo
che potesse ottenere l’appoggio del PSI,
ma senza alcuna concessione programmatica ai socialisti, che quindi si schierarono
all’opposizione. A quel punto le destre si
dichiararono disponibili a sostenere il governo. Ci fu una reazione popolare contro il
Movimento Sociale Italiano che, tra l’altro,
aveva convocato il congresso nazionale a
Genova. Le manifestazioni antifasciste si
moltiplicarono e fecero registrare episodi
luttuosi. Tambroni fu costretto a dimettersi. La palla passò a Fanfani che riuscì a
dar vita ad un governo che ottenne l’astensione dei socialisti e dei liberali: il governo
delle ‘convergenze parallele’ che fu la premessa al primo esperimento di centro sinistra. Paradossalmente il PCI poté rientrare
nel cosiddetto ‘arco costituzionale’, nel
nome dell’antifascismo, dopo l’isolamento
post-Ungheria. Nel 1962 il PSI entrò nella
maggioranza governativa assicurando il
sostegno esterno al gabinetto delle riforme,
sempre guidato da Fanfani che aveva predisposto un programma totalmente gradito ai
socialisti La coalizione di centro sinistra di
allora fu in grado, in poco tempo, di varare
provvedimenti ‘storici’, come la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la scuola
media unica, la riforma pensionistica. Ebbe
inizio un positivo dialogo coi sindacati. Si
registrò una redistribuzione dei redditi,
dopo il ‘miracolo economico degli anni
’50, che accrebbe il potere d’acquisto degli
operai e degli impiegati. Tuttavia ci furono
problemi anche per arrivare al governo con
la organica presenza dei ministri socialisti.
Dopo le elezioni del 1963 emerse l’ostilità
della sinistra socialista alla partecipazione
al governo e di conseguenza crebbero
le perplessità di Riccardo Lombardi nei
confronti del programma concordato con
la DC. Nel Comitato Centrale della notte
di S. Gregorio del 1963 (dopo le elezioni)
vennero sospese le trattative per il nuovo
governo. Si dovette ricorrere al governo
‘balneare’ di Giovanni Leone, prima di
dar vita al centro-sinistra organico dopo il
congresso PSI di ottobre. Il primo governo
Pietro Nenni
Moro-Nenni, con la partecipazione di ministri socialisti trovò una parte del lavoro
già compiuto da Fanfani, ma dovette fronteggiare minacce ‘golpiste’ (il piano SOLO)
provenienti da ambienti minoritari legati
alle Forze Armate e a una parte della destra
conservatrice. Nelle versioni successive il
centro sinistra approvò altre riforme, tra
cui l’avvio del nuovo ordinamento sanitario
(legge Mariotti per il riordino degli ospedali, agganciati al territorio, primo passo
per la riforma sanitaria) e lo statuto dei
diritti dei lavoratori, proposto dal Ministro
socialista Giacomo Brodolini, approvato
con l’astensione (sic) dei comunisti, nonché
ulteriori miglioramenti economici e giuridici del sistema pensionistico (come quello
del 1968, contrastato dal PCI per strumentalizzazione elettorale – Giovanni Mosca).
In una parola venne portato a termine il
‘welfare’ italiano, grazie al contributo di
Nenni e dei socialisti e dei loro alleati democristiani e laici, malgrado l’opposizione
del PCI. Il benessere si diffondeva, il mercato interno si allargava. Nenni, che aveva
puntato ad un ‘welfare state’ dove l’uomo
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Personaggi
fosse assistito ‘dalla culla alla tomba’, era
arrivato vicino al suo obbiettivo.
L’unificazione socialista
L’altra méta doveva essere l’unificazione
socialista che nel 1966 diventava realtà.
Saragat era diventato Presidente della
Repubblica, Nenni poteva essere il ‘taumaturgo’ che ricostruiva la casa di tutti
i socialisti. Non fu così anche se le premesse erano state positive per l’adesione
di moltissimi intellettuali al manifesto
dell’unificazione. L’opposizione dura del
PCI e della maggioranza della CGIL, l’indifferenza della DC e dell’’establishement’
economico, la nascente contestazione del
1968, che cancellò l’influenza che avrebbe
potuto avere nella sinistra italiana la repressione ‘brezneviana’ della primavera
cecoslovacca, furono alcune delle cause
che contribuirono alla sconfitta elettorale
del PSI-PSDI unificati, che ottenne meno
del 15% dei voti, nettamente al di sotto della
somma dei voti dei due partiti.
Nel 1969, malgrado la ripresa della
politica di centro sinistra con i governi
Rumor-De Martino, i contrasti interni al
partito e la rottura del gruppo autonomista provocato da Giacomo Mancini che
non esitò a mettere in minoranza Nenni,
presidente del Partito socialista unificato,
portarono ad una nuova scissione, con la
formazione del Partito socialista unitario
(poi PSDI). Unificazione non nata male,
ma cresciuta male, con una classe dirigente
dominata dai personalismi.
La soluzione proposta per ricucire le
rotture tra De Martino-Mancini e gli
autonomisti rimasti fedeli a Nenni, una
direzione paritetica, con Nenni arbitro, fu
respinta al Comitato Centrale del 4 luglio,
a maggioranza, da De Martino, Mancini e
Lombardi. Iniziò una pesante crisi del PSI
che si sarebbe ripreso solo dopo l’elezione
di Bettino Craxi a segretario (luglio 1976).
Nenni per la verità era stato di nuovo
presidente del Partito socialista dopo il
congresso di Genova del 1972, quando si era
formata una nuova maggioranza tra gli autonomisti e la corrente di De Martino che
aveva rotto con Mancini – e lo fu ancora
con Craxi segretario.
Dopo la sconfitta del 1968/69 l’anziano
‘leader’ socialista non si ritirò dall’agone
politico. Rimase nella sua corrente autonomista, in minoranza, intervenendo
con saggezza nell’interesse del Paese e del
PSI, anche se non sempre ascoltato. La sua
coerenza dal 1956 in poi fu esemplare e
fu preziosa per Craxi che era uno dei suoi
discepoli più fedeli, che non lo abbandonò
mai. L’elezione di Craxi fu anche la rivincita di Nenni e della sua politica, che non
aveva alternative.
Gli anni Settanta
Il periodo che va dal 1970 al 1980 è stato caratterizzato in Italia da una notevole instabilità politica ed economica, dal diffondersi
della violenza politica, dall’incremento
delle agitazioni sindacali.
La crisi economica, causata anche
dall’aumento dei costi delle risorse energetiche dopo la guerra del ‘Kippur’ (dal nome
della festività ebraica durante la quale
Siria ed Egitto riaprirono nel 1973 le ostilità contro Israele) favorì un clima di crisi
politica quasi permanente. I Paesi arabi
avevano ridotto l’offerta petrolifera verso
i paesi occidentali. La coalizione di centro
sinistra, che era nata agli inizi degli anni
sessanta sulla base dell' alleanza tra DC
e PSI, era in grave difficoltà – la precaria
situazione economica e le divisioni interne
ai socialisti e alla DC determinarono uno
scenario di incertezze e di provvisorietà
dei governi e quindi della ‘governance’ del
Paese. Le ‘stragi’ e gli attentati della fine
degli anni sessanta e inizio anni settanta
(piazza Fontana a Milano, piazza della
Loggia a Brescia, il treno a S.Benedetto Val
di Sambro) attribuiti all’estrema destra, per
reazione provocarono l’affermarsi di movimenti rivoluzionari di estrema sinistra,
le cui radici venivano dalla contestazione
studentesca del ’68. Da questi movimenti
e dall’estremismo sindacale si staccarono
frange che teorizzavano la violenza come
matrice della storia, dando luogo al terrorismo brigatista. Lo Stato democratico
‘borghese’ e i suoi servitori erano visti
come nemici. Gran parte della dirigenza e
della base del Partito Comunista, con Luigi
Longo, aveva ‘lisciato il pelo’ alla contestazione (fece eccezione Giorgio Amendola)
ottenendo vantaggi elettorali, ma quando
ebbero inizio i sequestri e gli attentati delle
‘brigate rosse’, il PCI dovette rapidamente
prendere le distanze dall’estremismo terrorista. Tuttavia la crisi economica, le violenze
di destra e di sinistra, le divisioni nel centro
sinistra, spostarono l’asse a destra. Dopo le
elezioni anticipate del 1972 (che si tennero
prima della scadenza naturale per far slittare il referendum abrogativo della legge sul
divorzio approvata nel 1970, ma osteggiata
dalla DC) si formò un governo sostenuto
dalla DC e dal PLI (Andreotti-Malagodi)
che poneva fine al decennio del centro sinistra. Dopo il governo DC-PLI si riformò per
la verità una coalizione di centro sinistra
(Rumor - De Martino) fino alle elezioni del
1976 (alla ricerca degli ‘equilibri più avanzati’) che segnarono una secca sconfitta del
PSI. Contemporaneamente si sviluppava
l’azione del PCI, favorita da Moro, per entrare nell’area governativa. Non si trattava
di ingresso comunista nel governo, ma di
una sorta di condizionamento rispetto alle
scelte governative. I governi della ‘non
sfiducia’. Il ‘consociativismo’ trovava il suo
ambiente naturale in Parlamento dove venivano concordate le decisioni e approvate le
leggi. Il passo verso il ‘compromesso storico’
fu breve. Questa strategia di matrice togliattiana che auspicava l’alleanza tra comunisti
e cattolici, ritenuta necessaria per portare
il Paese fuori dalla crisi, venne lanciata da
Enrico Berlinguer (segretario PCI) – dopo
il colpo di stato in Cile contro il presidente
di sinistra Salvador Allende – in base alla
tesi secondo la quale una maggioranza di
sinistra ‘risicata’ senza la DC non avrebbe
potuto governare l’Italia. Questa linea
venne sperimentata dopo le amministrative
del 1975, quando si registrò una notevole
avanzata del partito comunista. Le ‘prove’
di aggancio del PCI all’area dei partiti di
governo avvennero proprio nelle Regioni e
negli Enti Locali, con le giunte delle ‘larghe
intese’ (DC, PSI, laici con l’appoggio esterno
del PCI).
Questa tendenza sarebbe sfociata nel
1976 nei governi democristiani sostenuti
dall’astensione del PCI e del PSI e poi, nel
1978, dopo l’assassinio di Aldo Moro, nel
Governo Andreotti col PCI nella maggioranza (‘solidarietà nazionale’) fino alle
elezioni anticipate del 1979. Il ‘consociativismo’ e la ‘solidarietà nazionale’ furono
peraltro favoriti dalla lotta al terrorismo,
fenomeno che era continuato anche dopo
il drammatico epilogo del sequestro Moro.
Tutte le forze democratiche e i sindacati
si trovarono uniti nella difesa delle istituzioni democratiche, come era avvenuto in
occasione degli attentati e delle stragi del
terrorismo ‘nero’. In particolare la CGIL
doveva scrollarsi di dosso ogni sospetto,
perché alcuni brigatisti avevano militato in
quel sindacato. La posizione ‘responsabile’
di Luciano Lama venne contestata dai movimenti extraparlamentari della sinistra. La
congiuntura economica negativa aveva provocato una fortissima inflazione (arrivata al
20% annuo nella seconda metà degli anni
’70) e un rallentamento della produzione.
Contemporaneamente aumentava il debito
pubblico, in conseguenza anche di riforme
importanti: l’istituzione del servizio sanitario nazionale (1978) e ulteriori aumenti delle
pensioni, agganciate ormai agli stipendi e ai
salari più che ai contributi versati. Questa
crescita della spesa pubblica, tra l’altro, si
riversò negli anni ’80, quando arrivò a regime il servizio sanitario rivolto pressoché
gratuitamente a tutti i cittadini. In questo
quadro furono i socialisti a cercare una
strada per assicurare la governabilità del
Paese, per uscire dalla crisi e per riformare
le istituzioni la cui scarsa efficienza cominciava ad evidenziarsi.
Fu Craxi, l’uomo di Nenni di cui continuava la politica autonomista, diventato
segretario del PSI nel 1976, dopo la ‘débacle’
elettorale dei socialisti, a parlare per primo
della esigenza di stabilità dei governi per
aprire un nuova stagione di riforme. Nel
1979, in apertura della legislatura, fece riferimento alla ‘grande riforma’ per modernizzare lo stato, rendere più veloci il governo
e il parlamento nel prendere e nell’attuare
le decisioni, ridurre la presenza pubblica
nell’economia nei settori non strategici,
interrompere la spirale ‘prezzi-salari’ per
abbattere l’inflazione, perniciosa anche per
i lavoratori.
Craxi riportò i socialisti al governo nel
1980 con una coalizione non dissimile
dal centro sinistra, ma con il sostegno del
partito liberale, non più schierato a destra.
Fu l’inizio di un periodo di stabilità che
durò sino al 1992, l’anno di ‘tangentopoli’.
Diventarono capi di Governo anche i laici
Giovanni Spadolini (PRI) 1982/83 e Bettino
Craxi (PSI) 1983/87, cui seguirono Goria,
De Mita, Andreotti (DC).
L’Italia conobbe proprio con il governo
Craxi una forte ripresa fino ad entrare tra i
primi sette paesi industrializzati del mondo
(G7). Il ‘carisma’ (parola che allora si usava
poco per i capi politici) di Nenni era reale,
sia nei comizi (era un oratore straordinario
e avvincente) che in Parlamento (dove tutti
lo ascoltavano con ammirazione e rispetto)
che nei colloqui con dirigenti e compagni
di partito. ‘Il y a tojours un pur plus pur
qui t’èpure’ – ‘O la repubblica o il caos’, - ‘la
politica delle cose’ - ‘tutta Varsavia sapeva e
nessuno parlava’ - ‘portare i rappresentanti
socialisti dei lavoratori nella stanza dei bottoni’ - ‘fai ciò che devi avvenga ciò che può’,
sono alcune delle frasi dell’oratoria politica
di Nenni che si faceva comprendere dai lavoratori che non tradì mai.
Fece degli errori, come tutti, ma fu sempre guidato dalla bussola della democrazia
e della libertà. Quando capì, nel 1956, che
bisognava lasciare l’alleanza col PCI, portatore di una politica e di una ideologia sbagliate nelle loro radici bolsceviche, non ebbe
esitazioni e, come già gli era accaduto prima
del fascismo, non ebbe il timore di rimanere
in una posizione minoritaria.
Togliatti e Berlinguer ebbero più fortuna
elettorale di Pietro Nenni, ma hanno servito
una causa illiberale.
Nenni per tutta la sua vita ha servito il
popolo, la democrazia e la libertà.
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Personaggi
Sviluppi
Una figura mitica i cui valori venivano riconosciuti anche dagli avversari e dai nemici
Nuovi approfondimenti sull’atroce rappresaglia nazista che costò la vita a centinaia di innocenti
Ferruccio Parri, capo della Resistenza italiana
Fosse Ardeatine: il ruolo attivo dei fascisti
La sua cattura, dovuta a leggerezze incredibili, e il “trattamento” sofferto dalle SS all’Hotel Regina, comando della
Gestapo e mattatoio di partigiani, antifascisti, ebrei – L’esperienza alla guida del primo governo dopo la Liberazione
Nonostante la posizione pavida e pilatesca di Mussolini, evidente il decisivo collaborazionismo della Repubblica sociale
italiana - Nell’eccidio cadde anche Pilo Albertelli, assassinato con un colpo alla nuca perché antifascista
I
l 1945 iniziò in modo drammatico per
la Resistenza: il 2 gennaio Ferruccio
Parri viene arrestato a Milano dalle SS e presto riconosciuto, come racconta nel libro “Due mesi con i nazisti” (ed.
Carecas, 1973). Detenuto inizialmente
all’Hotel Regina, quartier generale delle Ss a Milano, Edgardo Sogno tenta di
liberarlo penetrandovi in divisa tedesca,
ma viene scoperto e arrestato a sua volta.
Entrambi sarebbero stati poi liberati, su
richiesta degli Alleati, come pegno e prova
di buona volontà e di buona fede nelle trattative già da tempo avviate da Karl Wolff,
plenipotenziario delle SS in Italia, per la
resa degli ottocentomila soldati tedeschi
ancora operanti nella penisola.
Questa la conclusione. Ma vi si giunge
appunto dopo due mesi terribili, il cui
inizio Parri così racconta,
una volta nota la sua vera
identità: “Poiché il gioco era
ormai chiaro cercai subito
di rovesciare le carte dichiarando a verbale che ero
io il maggior responsabile
della guerra contro di loro
e me ne vantavo, che ero io
il capo dell’organizzazione
in stretto rapporto con gli
Alleati. Mi scuso ancora una
volta con i compagni del Cvl
delle mie millanterie. Erano a fin di bene”
(pag. 29). E più avanti: “Sentivo che logicamente avrei dovuto giocare a pari e caffo
la mia testa. E tuttavia il mio fiuto di fondo
mi diceva che vinceva il ‘pari’: tra l’altro
quegli uomini era più soldati che civili ed
apprezzavano i soldati. Grange, che era
stato preso con me e aveva appena assunto
l’incarico nel nostro comando di occuparsi
di lanci, riconosciuto ammise tutto quello
che gli contestavano e concluse con aria
di sfida: ‘E adesso se non mi fucilate siete
dei buffoni’. Gli risposero ‘Bravo soldato’.
Gli strinsero calorosamente la mano e lo
spedirono a San Vittore senza torcergli
un capello” (pag. 46). Così Parri, lucidissimo, impartisce alle SS “una lezione
sulla Resistenza”, perché “se la Resistenza
doveva pesare in qualche modo sui loro
piani era meglio parlare storicamente,
politicamente, militarmente nel modo più
chiaro, sincero e persuasivo. Può apparire
di GIORGIO GALLI
ingenuo, anzi lo è, perché ingenuo sono io
ma secondo la mia esperienza è un parlare
che normalmente rende di più, anche coi
nazisti, anche coi nemici” (pag. 48; l’intero
verbale è pubblicato in appendice al libro).
La scelta di Parri si rivelò giusta, anche
perché la sua “lezione” veniva incontro
al desiderio tedesco di conoscere meglio
la situazione nel Nord Italia, Resistenza
compresa. Wolff cercava di trattare per
conto del suo capo, Himmler, comandante
supremo delle SS. Oggi disponiamo di
una ricca documentazione in proposito,
che ho utilizzato per il mio libro “Hitler
e la cultura occulta (ed.Rizzoli, 2013, in
particolare capitolo 19 “L’ultima carta di
Himmler”). Sia questi che il suo rappresentante in Italia appartenevano al vertice
nazionalsocialista legato alla cultura eso-
terica e Himmler consultava un astrologo,
teneva conto degli oroscopi, forse puntava
invano (come già Hess, col suo viaggio in
Scozia, nel maggio 1941) su circoli esoterici inglesi. Comunque decise di proporre
come pegno agli Alleati la resa delle truppe
tedesche in Norvegia e Danimarca al nord
e in Italia al sud.
Wolff avvia le trattative in Svizzera
all’inizio del 1945, proprio nei giorni
dell’arresto di Parri e mentre i russi iniziano l’offensiva finale su Berlino. Gli
Alleati sono interessati, perché si parla
di un possibile trasferimento di Hitler
dalla capitale minacciata a un ridotto
alpino attorno al suo “nido d’aquila” di
Berchtesgaden. Qui, oltre agli ottocentomila soldati dall’Italia, avrebbero potuto
confluire unità quasi intatte stanziate nel
protettorato di Boemia e Moravia e altre
provenienti dalla Germania meridionale.
In tal caso gli anglo-americani avrebbero
dovuto affrontare una dura battaglia
montana per piegare l’ultima fortezza di
Hitler. Da qui l’interesse per l’offerta di
una resa in Italia e l’immediata richiesta
di un trattamento corretto e poi del rilascio per Parri e Sogno. Così finisce bene
una vicenda iniziata male, come risulta da
un libro del partigiano Francesco Villani,
appena uscito dalle edizioni Punto Rosso:
“La cattura di Parri avvenne per un caso
mancino, con una ‘sciocchezza’ che tanto
sciocca non era: alcuni partigiani con incarichi importanti dati loro dal comando generale, avevano preso alloggio nello stesso
caseggiato di Milano, in via Vincenzo Monti
92. Uno era Martino il Tulipano (l’olandese
Walter de Hoog), che fungeva da corriere
di Parri e aveva ottenuto una camera dalla
signora Zoller, affittacamere svizzera. Al
piano superiore alloggiava Teresio
Grange, che si occupava degli
aviolanci alleati. Tulipano ha una
scusante per quanto riguarda l’ospitalità di Parri e di sua moglie nel
suo stesso appartamento. Era stato
il vertice del PdA a premere affinché ottenesse dall’affittacamere
un posto per i ‘coniugi Pasolini’,
ossia Parri e la moglie, che si
erano trovati improvvisamente
senza un tetto. Non solo, dunque,
due resistenti svolgenti attività
rilevanti che abitavano lo stesso palazzo
frequentandosi senza alcun accorgimento,
ma non impedirono e anzi facilitarono che
si aggiungesse un terzo inquilino nel caseggiato e addirittura nello stesso alloggio
di uno di loro, sapendo di chi si trattava.
Leggerezze incredibili, pur mettendo in
conto le urgenze impreviste. Leggerezze
che provocarono il soqquadro del Comando
generale, rischiando peggiori conclusioni.
Incredibile ma vero. Andò così.” (“Cif coi
ribelli - Un’esperienza partigiana”, pag. 46).
In realtà, grazie all’intelligenza e al
coraggio di Ferruccio Parri, “peggiori
conclusioni” non ci furono. La vicenda mi
pare comunque esemplare anche perché
suggerisce un modo non iconografico di
raccontare la Resistenza, che implicò,
accanto a gesta eroiche, “leggerezze incredibili”, con sullo sfondo il ruolo imprevedibile di astrologi e personaggi esoterici.
S
ull’eccidio delle Fosse Ardeatine, perpetrato il 23
marzo 1944 dalle SS contro 335 inermi prigionieri,
molto si è scritto (e vale sempre la pena di segnalare il
testo forse più significativo: il volume di Sandro Portelli
L’ordine è già stato eseguito), ma restano ulteriori aspetti
meritevoli di riflessione. In particolare, due punti: il ruolo
giocato in quella tragedia dai fascisti e il difficoltoso accertamento giudiziario di tutte le responsabilità.
Nell’immaginario collettivo, le Fosse Ardeatine simboleggiano l’atrocità della rappresaglia nazista; ciò risponde
effettivamente a realtà, a condizione di evidenziare il decisivo ruolo collaborazionistico degli apparati repressivi della
Repubblica sociale italiana.
Di fronte alla rappresaglia, Mussolini assunse una posizione pavida e pilatesca. In un’intercettazione telefonica
del suo colloquio con il maresciallo Graziani, il duce raccomanda di rimanere estranei alla vicenda, per non apparire
corresponsabili dell’eccidio. Agli occhi dell’opinione pubblica, infatti, la complicità fascista inasprirebbe ulteriormente il giudizio sui governanti di Salò.
Ma gli uomini e gli apparati dell’amministrazione fascista, lungi dal restare estranei, fornirono un importante
contributo alla macchina che preparava l’eccidio. L’esame
della documentazione d’archivio dimostra infatti la realtà
e l’estensione del collaborazionismo, a partire dall’elaborazione della lista dei fucilandi, consegnata agli occupatori
da funzionari di polizia della Rsi, lista che includeva anche
Pilo Albertelli, sgradito al regime di Mussolini al punto da
farlo assassinare con un colpo di pistola alla nuca.
Dopo la liberazione della capitale e il ristabilimento del
governo monarchico, il commissario di Pubblica Sicurezza
Raffaele Alianello, già collaboratore del Comando germanico di Roma, venne rinviato a giudizio della Corte d’Assise
di Roma «per avere tra il 22 e il 24 aprile 1944, fornito una
lista di 50 detenuti politici fucilati alle Fosse Ardeatine».
In tribunale affermò di avere cancellato dall’elenco consegnato ai tedeschi i nominativi di otto ebrei. Indignato da
tanta ipocrisia, il letterato Giacomo Debenedetti scrisse nel
settembre 1944 il pamphlet Otto ebrei, rilevando come in
tribunale la partecipazione a un atto nefando si ribaltava in
titolo di merito...
Ebbene, Alianello fu prosciolto e scarcerato il 28 luglio
1946 insieme ad altri sette suoi subalterni, come lui accusati
«di collaborazionismo e di atti rilevanti», grazie all’applicazione dell’amnistia Togliatti.
Tra i liberati figurava Adolfo Corazza, accusato di «avere
posteriormente all'8 settembre 1943 provocato l'arresto di Guzzo Roberto, Locatelli Arduino, Calvoni Antonio,
Sbardella Mario, Pelliccia Ulderico, Lucchetti Carlo e
Giovanni, dei quali il Pelliccia e il Lucchetti Carlo furono
fucilati alle Fosse Ardeatine».
Gli altri cinque coimputati scarcerati si erano macchiati
di delazioni contro antifascisti da loro fatti arrestare e poi
uccisi alle Fosse Ardeatine.
Se si considera che l’amnistia Togliatti fu emanata il 22
giugno, è evidente lo zelo della Corte nell’applicare con la
massima urgenza il provvedimento di clemenza a questi
funzionari statali macchiatisi di reati infamanti.
Il commissario Raffaele Alianello verrà subito reimmesso
nei ruoli della polizia, col pagamento delle mensilità arretrate di stipendio per il periodo della detenzione. Egli rimarrà in servizio sino al pensionamento, nel 1974, dopo una
onorata carriera (è defunto nel 1988).
Il «caso Alianello» svela gli squallidi retroscena della
dottrina della continuità dello Stato, grazie alla quale rimasero in servizio – nella polizia come nella magistratura
– elementi macchiatisi di pesanti corresponsabilità con la
dittatura e con l’occupante tedesco. Di contro, i partigiani
entrati alla polizia nei giorni della Liberazione furono rapidamente cacciati, così come vennero estromessi tutti i
prefetti nominati dal Comitato di Liberazione Nazionale,
lasciando campo libero ai funzionari che durante la dittatura avevano fatto carriera per meriti politici. Mancò insomma la volontà di rinnovare lo Stato, attingendo a quanto
di meglio la Resistenza aveva espresso. Il fenomeno – che
condizionò a lungo gli equilibri dello Stato e il funzionamento del suo apparato repressivo – fu agevolato dalla
guerra fredda. Nell’Europa divisa in due campi dalla cortina di ferro, i vari Alianello erano considerati un baluardo
anticomunista e valorizzati professionalmente, mentre di
personaggi come Riccardo Lombardi – esponente delle brigate «Giustizia e Libertà» e prefetto della Liberazione a
Milano – si diffidava in quanto quinta colonna del bolscevismo. (m.f.)
Il memoriale delle Fosse Ardeatine a Roma
12
Ricordo
Ricordo
HOTEL REGINA, MACELLERIA NAZISTA DI ANTIFASCISTI, PARTIGIANI ED EBREI
di ROBERTO CENATI
L’
Albergo Regina e Metropoli si trovava in pieno centro, un palazzo signorile a
duecento metri da piazza del Duomo, con un ingresso in via Santa Margherita.
Elegante e spazioso, l’edificio venne immediatamente requisito e circondato
da barriere di filo spinato. Nella Guida di Milano e Provincia anno 1951-1952, si legge che
in via Santa Margherita 16, nello stabile di proprietà dei F.lli Crespi, amministratore dr.
Brindicci, avevano sede “l’Albergo Regina e Metropoli del commendator Clementi, il
negozio di articoli per regalo di Arcidiacono Rocco, l’ufficio pubblicità e abbonamenti del
“Corriere della Sera”, il negozio di valigeria e selleria di Rejna Filippo”.
L’Albergo Regina continua dunque a svolgere la propria attività negli anni successivi al
dopoguerra, sino al 1969-1970, data in cui viene smantellato e i suoi arredi e mobilie vengono messi all’asta. Il 13 settembre 1943, l’Albergo Regina, illuminato di notte da potenti
cellule fotoelettriche, divenne la sede del comando interregionale di Rauff (collaboratore
di Eichmann e inventore dei camion della morte, camere a gas su quattro ruote) e di
quello interprovinciale affidato a Saevecke, responsabile dell'eccidio dei 15 Martiri di
piazzale Loreto, avvenuto il 10 agosto 1944. Nell’Albergo Regina si trovano i comandi
della SIPO-SD (polizia e servizi di sicurezza delle SS), nonché della Gestapo e dell’Ufficio IV B4, incaricato della persecuzione antiebraica. All’interno dell’Albergo Regina
agiva il famigerato Otto Koch, che veniva chiamato dai suoi collaboratori “cucinatore
di ebrei”. Al fianco di Otto Koch (stanza 24 dell’Albergo Regina) lavorano il maresciallo
Johann Schofmann e il sergente Walter Gradsack, detto il macellaio. Luogo di tortura di
partigiani ed ebrei, all’ultimo piano ospitava le celle di sicurezza. “Una foto di gruppo
dell’intero reparto SS dell’Albergo Regina – si legge nel libro di Luigi Borgomaneri Hitler
a Milano - ritrae in prima fila Rauff, seduto in mezzo a una ventina di segretarie e traduttrici e alle sue spalle, in piedi, Saevecke, insieme a una trentina di SS in divisa e a una
quindicina di uomini in borghese, probabilmente componenti la squadra italiana di Ugo
Osteria”. . All’interno dell’Albergo Regina agiva anche, al servizio delle SS a Milano,
“un certo Hugo Orlandi, detenuto a San Vittore per truffe, interprete poi, nel campo di
concentramento di Fossoli”, come apprendiamo da Poldo Gasparotto nel suo Diario di
Fossoli. Guido Leto, ex dirigente dell’OVRA, la polizia segreta di Mussolini, racconta che
appena arrivati i tedeschi a Milano, due ufficiali delle SS si precipitarono dal questore
Domenico Coglitore per farsi consegnare gli elenchi degli antifascisti e degli ebrei.
Le schedature erano state distrutte da un bombardamento che aveva colpito anche
l’archivio della questura centrale, ma i tedeschi non ci credettero e di fronte alle loro
minacce il funzionario cercò di scaricare la patata bollente sul commissario Domenico
Panoli il quale fornì l’elenco di persona che avrebbe potuto dare un efficace apporto.
Tale persona era Luca Osteria, il quale, nel 1953 dichiara: “Fui indicato ai tedeschi come
la persona che, per l’opera esplicata durante la guerra, era in condizione di assisterli nel
migliore dei modi”.
Il ruolo dell’UPI
La maggior parte dei politici detenuti a San Vittore che dipendeva dall'Albergo Regina,
veniva consegnata dagli agenti dell’Ufficio speciale dell’UPI, l’Ufficio politico investigativo inquadrato nella Guardia nazionale repubblicana. Anima nera dell’UPI provinciale è
il capitano Ferdinando Bossi, il cui comando si trovava in corso Venezia 32. Responsabili
delle sevizie nei confronti dei prigionieri, a San Vittore, sono anche Manlio Melli e
Dante Colombo. A Melli e a Colombo si attribuiscono le peggiori ignominie compiute a
San Vittore.
Il ruolo della Muti
Per opera precipua di Vincenzo Cairella, dirigente della caserma Salinas di via Tivoli,
verso la fine del 1944 divennero assai stretti i rapporti della Muti col comando SS dell’Albergo Regina. Agli inizi del novembre 1944, riesce a catturare numerosi responsabili del
Partito d’Azione. Nelle sole giornate tra il 29 novembre e il 5 dicembre 1944 la Divisione
della polizia della Muti invia a San Vittore più di un'ottantina di fermati specificando: “da
trattenersi a disposizione del Comando SD Germanico, Milano, Albergo Regina”.
Il servizio ascolto dei tecnici della Stipel
Nel cuore di Milano alcuni tecnici milanesi della Stipel ebbero l’audacia e l’ingegno di
stabilire un controllo telefonico per intercettare le conversazioni in arrivo e in partenza
dall’Albergo Regina, dalla Muti, dalla
federazione fascista, dall’Albergo Roma
(sede del comando requisizioni).
Attraverso otto centrali, allo scopo di
far perdere le tracce e di rendere impossibile qualunque identificazione, fu stabilito
un collegamento con i quattro anzidetti
comandi. L’inserimento sulle linee tedesche e fasciste avveniva secondo il modulo
dell’inclusione di operatore su conversazioni interurbane d’utente ma senza alcun
segnale. Ai microtelefoni dei quattro
apparecchi d’ascolto – situati in una casa
privata – furono asportate, per motivi
precauzionali, le capsule dei microfoni.
I collegamenti erano frutto del lavoro di
persone di assoluta fiducia e, dal febbraio
1944 ai primi di marzo 1945, due persone si
alternarono ininterrottamente all’ascolto.
Scopo di questo servizio ascolto era quello
di captare il maggior numero di notizie
interessanti e di utilizzarle nel modo più
opportuno. Poteva accadere di cogliere la
notizia che le SS o le Brigate Nere stavano
organizzando un rastrellamento in città
o una spedizione in montagna: l’informazione veniva immediatamente raccolta
e comunicata ai Comandi partigiani.
Oppure si riusciva ad avere notizia di un
arresto imminente (i fascisti e i tedeschi,
considerandosi padroni assoluti della città,
non si curavano di prendere precauzioni
e facevano nomi, cognomi e indirizzi). A
questo punto, era ancora il telefono che
si rivelava prezioso strumento di aiuto:
saputo il nome del ricercato, si provvedeva
immediatamente ad avvertirlo ma, per il
timore che si trattasse di un’esca fascista,
l’avvertimento veniva dato da un telefono
pubblico. Ma l’operazione ascolto aveva
anche scopi più vasti: ogni sera tutte le informazioni intercettate erano trasmesse,
sotto forma di rapporto, al Comando del
Corpo Volontari della Libertà. Il 10 marzo
1945 il servizio dovette essere interrotto:
ascoltando una conversazione in partenza dal Comando tedesco, si intercettò
l’ordine di arresto del capo del gruppo
dei tecnici che avevano effettuato i collegamenti e svolgevano il servizio: “… non
perdere tempo, andare subito in via Negri,
arrestarlo e portarlo a San Vittore, è una
spia… ” Il capo del gruppo fece appena in
tempo ad avvertire un suo collaboratore
di occultare meglio certo materiale provvisoriamente nascosto nel lucernario della
centrale Città Studi e poi uscire di corsa
dal proprio ufficio, mentre una squadra SS
faceva il suo ingresso in via Gaetano Negri.
Pochi giorni dopo il servizio era ancora
in piena efficienza: due linee di controllo
erano state installate in un convento dove
il capo del gruppo si era rifugiato e dove
rimase fino alla Liberazione. Inoltre, previe intese CLN Stipel e CLN Regionali,
furono presi accordi con la Direzione
Stipel per l’installazione, sul tetto dello
stesso convento, di un’antenna a filo, per
rendere possibile il collegamento con un
analogo impianto su una chiesa di Torino.
Il ponte radio fu scoperto il 24 aprile 1945
dai tedeschi i quali – dal tetto del palazzo
di Giustizia di Milano – aprirono il fuoco
contro alcuni operai della Stipel che stavano eseguendovi lavori.
La liberazione dell’Albergo Regina
Nella tarda mattina del 29 aprile 1945
entrano a Milano le prime avanguardie
della V Armata statunitense. Le SS sono
ancora trincerate all’Albergo Regina,
intenzionate a cedere le armi solo se garantite dalla presenza delle truppe alleate.
Il Comando Generale del Corpo Volontari
della Libertà, nell’intento di evitare ulteriore spargimento di sangue, ordina di
non attaccare l’Albergo che viene soltanto
circondato. Il colonnello Rauff (sarebbe
evaso dal campo di concentramento di
Rimini. Morirà in Cile nel 1984), in cambio della parte da lui svolta nelle trattative
di resa avviate da tempo con gli alleati,
ottiene dal capitano americano Daddario
l’incolumità per sé e per i suoi. E il 30
aprile, dopo 19 mesi e 17 giorni di spietata
occupazione, protette da mezzi corazzati
statunitensi, e sotto le armi puntate dei
partigiani, le SS abbandonano l’Albergo
Regina. “Di quel giorno rimane una serie
di fotografie che fissano la resa e l’evacuazione del Regina, e le riprese filmate
dai cineoperatori militari della V armata
statunitense e da un partigiano al seguito
delle brigate Moscatelli; le SS, truppa e
graduati insieme alle segretarie del comando, vengono caricati su camion, mentre gli ufficiali lasciano l’albergo a bordo
di alcune macchine scoperte ostacolati da
una folla sempre più minacciosa che tenta
di aggredirli, tanto che gli americani sono
costretti a sparare alcune raffiche di mitra
in aria per consentire loro il passaggio.”
Prima di abbandonare l’Albergo Regina
Saevecke ordina di distruggere ogni pezzo
di carta che potesse documentare l’attività
e le responsabilità tedesche, compresi gli
ordini emanati per il compimento dell’eccidio di piazzale Loreto.
La ricerca dei parenti all’Albergo Regina
L’Albergo Regina costituiva la triste meta
La lapide commemorativa dell’Hotel Regina a Milano
di numerosi parenti di antifascisti, partigiani, resistenti improvvisamente scomparsi.
Una storia particolarmente drammatica è quella raccontataci dalla nipote di Giuseppe
Lenzi, stretto collaboratore di Ferruccio Parri, portato all’Albergo Regina, dopo essere
stato catturato dai tedeschi. Lenzi viene arrestato nel marzo del 1944, nella sede della
Edison, dove lavorava. Lenzi non parla e il suo silenzio consente, momentaneamente, a
Parri di poter ancora operare liberamente. Lenzi viene trasferito nel campo di “Polizia
e di transito” di Fossoli e, successivamente a Gusen, dove muore il 21 novembre 1944. La
figlia di Giuseppe Lenzi, nei giorni immediatamente successivi alla cattura del padre, si
reca all’Albergo Regina per avere sue notizie. Fu quella un’esperienza terribile. Quando
arrivava ad un piano dell’Albergo Regina, alle sue spalle, con un comando elettrico, si
abbassava un’inferriata, dandole la spaventosa sensazione di essere imprigionata all’interno di quel terribile luogo. La donna riesce infine a parlare con un tedesco che le dice di
andarsene subito da lì e di ritenersi fortunata per non essere anch’ella arrestata.
I dirigenti della Pirelli all’Albergo Regina
In seguito ad uno sciopero verificatosi il 23 novembre 1944 presso lo stabilimento Pirelli
Bicocca, verso le ore 11 un reparto delle SS si presentava nello stabilimento e procedeva
al fermo indiscriminato di 181 operai e di due impiegati, che venivano quindi trasferiti
alle carceri per il successivo inoltro in Germania. L’operazione era diretta dal capitano
Saevecke. “In occasione di un abboccamento che l’ingegner Trotto e il rag. Morandi ebbero
con il capitano Beuer, negli uffici dell’Albergo Regina, per perorare la causa dei dipendenti
che erano stati arrestati, il capitano Beuer, che appariva agitatissimo, avanzò violente critiche contro Alberto Pirelli, ed aggiunse oscure minacce contro la Direzione della Società
Pirelli. A conclusione del colloquio il capitano Beuer dichiarò che le decisioni circa il trasferimento in Germania degli operai erano già state prese da parte del comando delle SS e
che egli non riteneva di doverle comunicare. Si limitò a dire che sarebbero stati rilasciati 16
elementi non idonei fisicamente.”
La cattura di Parri e di Sogno
Nel gennaio 1945 la Polizia di Sicurezza arresta casualmente Ferruccio Parri, anima della
Resistenza e vicecomandante del Corpo Volontari della Libertà. Saevecke, conscio dell’importanza della preda, ne ordina il trasferimento da San Vittore all’Albergo Regina dove
viene posto sotto strettissima sorveglianza. Edgardo Sogno decide di tentare di liberarlo
insieme a Turrina e al medico Stefano Porta. Scoperti mentre sono in procinto di attuare
il loro piano, Sogno e Turrina vengono presi. Condotti nel garage dell’albergo vengono
sottoposti a un violento pestaggio. Turrina racconta che furono torturati per ordine e in
presenza di Saevecke e che Sogno venne denudato e gli furono schiacciati i testicoli con i
calci dei fucili.
La lapide all'Albergo Regina
Dopo 65 anni dalla liberazione dell'Albergo Regina, una lapide viene finalmente posta su
quella facciata, nella ricorrenza del Giorno della Memoria, venerdì 22 gennaio 2010, su iniziativa di un Comitato promotore costituito da ANPI, ANED e Comunità ebraica milanese.
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Personaggi
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Personaggi
la scomparsa del giornalista milanese insignito di medaglia d’argento al Valore Militare
ADDIO ALL’EROE ENZO GALLETTI: ENTRÒ NELLA RESISTENZA A 16 ANNI
Arrestato e torturato dai nazifascisti non fece mai i nomi dei suoi compagni
È
morto Enzo Galletti, giornalista professionista ed
eroe della Guerra di Liberazione nazionale. Medaglia d’argento al Valor Militare. Aveva 86 anni. Non
parlò sotto tortura; anche lui fu arrestato e passò quasi un
anno, a cavallo tra il '44 e il '45 a San Vittore. Ne uscì vivo,
ma non tradì mai i compagni, resistendo anche quando i
nazisti lo scorticarono vivo. "Non sono uno di quelli che
parlano" quasi si schermiva quelle poche volte che alludeva
alla guerra partigiana con i suoi colleghi del “Giorno”.
Guidò la rivolta di San Vittore del 24 aprile 1945 impugnando una pistola.
Di lui scrive Fabio Ghezzi: “Benché io sia un trentenne,
e lui vicino ai novanta; io cattolico, lui quasi ateo; io indipendentista di destra e lui ex partigiano, ed entrambi dal
carattere sanguigno, eravamo diventati amici. Era una
persona spigolosa, certo, ma coerente. Infondeva una
passione che i ventenni neppure conoscono. Non ha sprecato un’esistenza al bar, davanti alla tv, o a fare chiacchiere
al vento. Per tutta la sua vita, da giornalista, non si è uniformato alla routine e alla insipidezza scialba dei nostri giorni.
Ha sempre approfondito il dettaglio. Perché, come mi aveva
confidato, i capolavori si distinguono dalle storie banali dal
dettaglio. Arrivederci, Enzo”.
Chi era
Ed ecco le note biografiche di Enzo Galletti a cura di
Edgardo Bertulli.
Enzo Galletti è nato a Milano il 28 luglio 1928. Di famiglia antifascista, da giovane studente assistette il 10 agosto
del 1944 alla tremenda esposizione, in piazzale Loreto, dei
corpi dei 15 Martiri, uccisi per rappresaglia dai tedeschi e
gettati in quel luogo ed esposti per un giorno alla folla, tra
gli insulti, il disprezzo e il vilipendio dei militi della Ettore
Muti che vi fecero la guardia per un intero giorno ed impedirono anche ai familiari di avvicinarsi per ricomporre le
salme dei loro cari: ricorda che quella fu la molla che lo
convinse alla lotta armata nei confronti della Repubblica
Sociale.
Insieme ad alcuni compagni di scuola, entrò a far parte
del Fronte della Gioventù, formazione di giovani antifascisti fondata da Eugenio Curiel il cui responsabile politico
era Gillo Pontecorvo, che avevano per compito quello di
sottrarre alle guardie repubblichine armi e indumenti che
venivano destinati alle squadre partigiane che agivano
sul territorio. Per la precisione il suo gruppo faceva parte
del Quinto Settore, che operava prevalentemente in zona
Romana. Il capo di questo intero settore era Quinto Bonazzoli, detto “Remo”, mentre il responsabile più diretto del
gruppo di Galletti era Giuseppe Tortorella detto “Gip”.
Queste azioni si svolgevano di solito la sera e la notte
durante il coprifuoco.
A sedici anni quindi egli abbandonò il recapito familiare ed entrò in clandestinità. Questo fatto comportava il
dormire in posti differenti e protetti per evitare la cattura.
Man mano che il suo gruppo raggiunse un buon livello di
capacità militare e di coordinamento con altre formazioni
partigiane, anche i Gap milanesi si avvalsero della collaborazione di questo nucleo per compiere numerose altre azioni
quali comizi volanti nelle fabbriche della zona, acquisizioni
di armi anche con azioni sorprendenti in alcune caserme di
Milano, distribuzione della stampa clandestina nei quartieri
di riferimento. Questo gruppo operava prevalentemente in
zona Romana ma aveva collegamenti operativi anche con la
zona Corvetto–Calvairate. Nel novembre del 1944 in seguito
a un controllo volante del Battaglione Azzurro sulla linea
del tram che passava da viale Montenero, venne catturato e
portato per essere interrogato nella caserma dei Carabinieri
di via Lamarmora. Qui fu torturato e poi deferito al tribunale fascista che gli comminò 30 anni di galera e lo internò
successivamente nel carcere di San Vittore. Egli vi restò
fino al 24 aprile del 1945, quando entrato fortunosamente
in possesso di una pistola all’interno del carcere, provvide
a disarmare alcune guardie carcerarie, a liberare numerosi detenuti tra cui il suo compagno di azione Mario Santin
(anch’egli catturato e rinchiuso a San Vittore nel marzo di
quello stesso anno). Provvide poi a far saltare i chiavistelli
delle celle dei vari settori del carcere per consentire a chi lo
voleva di scappare da quel luogo. Uscire era ancora rischioso
perché una parte delle mura era sorvegliata da guardie tedesche armate. Fuggito, si rifugiò presso un parente e da lì
riprese i contatti con la lotta clandestina che lo assegnò a
compiti di sorveglianza e guardia nella stazione di Porta
Romana. Nei giorni successivi venne dirottato assieme a
Santin in piazzale Loreto quando vi arrivarono i cadaveri
di Mussolini, della Petacci e degli altri gerarchi che vennero
in quei giorni passati per le armi. Di quella vicenda ricorda
assieme a Santin che quei corpi vennero appesi dai vigili del
fuoco all’architrave di quella stazione di benzina per essere
sottratti alla furia e allo scempio di una enorme folla inferocita accorsa sempre più numerosa in quello stesso posto
dove vennero crudelmente esposti l’anno precedente i 15
Martiri. Divenuto giornalista professionista nei primi anni
del dopoguerra, gli venne riconosciuta solo tardivamente la
sua militanza partigiana e fu quindi insignito negli anni '70
della medaglia d’argento al valor militare.
Pubblichiamo l’intervista rilasciata da Enzo Galletti in
occasione della consegna della medaglia d'oro per i 50 anni
di iscrizione all’albo da parte del presidente dei giornalisti Franco Abruzzo, intervista curata da Gianluca Ursini e
apparsa su Tabloid nel marzo del 2003:
Settant’anni fa bombe Usa rasero al suolo una scuola
massacrando 180 bambini e 20 maestre
I PICCOLI MARTIRI DI GORLA UCCISI DAL FUOCO AMICO
Ricorre un altro anniversario triste, quello della strage di bambini a Gorla, Milano. Questa volta provocato da fuoco
amico. Si dirà: le guerre sono crudeli e gli innocenti sono costretti a pagare anche loro il prezzo della ferocia umana.
Però, ci sono errori che si potrebbero evitare. A 70 anni dalla strage avvenuta in quella scuola di periferia, un professore
americano di 48 anni, ha avuto una tenerissima idea, quella di regalare un mazzo di fiori a Graziella Ghisalberti Savoia,
una delle sopravvissute al bombardamento alleato della scuola “Crispi”. Quel venerdì aveva 7 anni e riuscì a scappare
dall’aula, salvandosi. Nel biglietto che accompagnava il mazzo di fiori c’era scritto: “Graziella, ci scusi”. Come ricorda
Laura Guardini sul “Corriere della Sera”, la commemorazione ha avuto momenti di intensa commozione soprattutto
“quando la cerimonia di ricordo dei Piccoli Martiri di Gorla era ormai conclusa e si stava assottigliando anche la coda
davanti al memoriale che accoglie i 184 bambini e le 20 maestre uccisi dal bombardamento di settant'anni fa. A un
certo punto ecco farsi avanti un giovanotto in camicia e berrettino blu, in mano un mazzo di lilium rosa e rose bianche.
Porgendoli a Graziella Ghisalberti Savoia, che quel venerdì del 1944 aveva sette anni e riuscì a fuggire dall’elementare Francesco Crispi ha detto semplicemente: “Sono un cittadino americano e sono tremendamente dispiaciuto per
quell'errore devastante. Qualcuno di noi doveva pur venire a chiedere scusa”. La signora Graziella, come gli altri del
comitato presieduto da Carlo Rumi, quasi non credevano fosse vero. L’autore di questo bel gesto è un professore di 48
anni, si chiama Robert Bloomhutf, abita a Lissone da tre anni e mezzo, con la sua fidanzata, Ida. Prima di venire in Italia
(dove intende restare), ha insegnato Storia in California: aveva già approfondito la Seconda guerra mondiale in Italia,
ma è stato solo dopo, una volta arrivato in Lombardia, che ha saputo di Gorla, e delle bombe destinate alla Breda ma
che - per un errore di rotta e per la decisione di non aspettare a sganciare sulle campagne o sul mare – i B-24 statunitensi lanciarono su Gorla. «Avevo già portato diversi amici statunitensi a vedere questo monumento, qui dove sorgeva
la scuola bombardata - spiega Robert -. E poi, circa un mese fa, ho saputo che oggi sarebbe stato il settantesimo anniversario. Semplicemente, l’ho segnato nella mia agenda e ho pensato che avrei dovuto esserci anch’io, per rappresentare gli
Stati Uniti e chiedere perdono per quell’errore orrendo”. Il sindaco di Milano Giuliano Pisapia ha inviato un messaggio
in cui si dice che “Milano vuole essere una città degna di Gorla. Città di pace che tutela i bambini” (m.p.)
"Non sono uno di quelli che parlano". Persona riservata
e poco amante delle luci della ribalta, Enzo Galletti ha un
passato da eroe della Resistenza su cui mantiene un riserbo
assolutamente fuori dai tempi. Per la professione che ha
amato ed esercitato, nell'arco di mezzo secolo rappresenta
un'eccezione assoluta. In un ambiente in cui si aggirano
personaggi dall'ego spropositato, Galletti non vuole strombazzare i tanti risultati conseguiti, le lotte combattute con
successo, sempre e solo per ragioni ideali, mai per calcolo
personale. Un caso unico, se pensiamo a come Enzo Biagi
ha definito un vizio della categoria: "l’autobiografismo,
malattia senile del giornalismo".
"Ho cominciato scrivendo sui muri”, così vuole essere
ricordato questo milanese, nato nel 1928, e questa frase dà il
senso della sua modestia. Condensare in cinque parole anni
di lotta antifascista, combattuta mettendo a repentaglio la
propria vita, non dà il senso del coraggio dimostrato dal
futuro giornalista come partigiano. Galletti ha dato il suo
contributo come attivista democratico occupandosi comunque di comunicazione: distribuiva le testate clandestine,
come L’Unità o il Fronte della Gioventù.
Questo il ricordo che il giornalista conserva di quegli
anni: "Eravamo circa un centinaio i ragazzi nel gruppo, si
chiamava "Fronte della Gioventù, un nome che ci è stato poi
usurpato", si rammarica Galletti, "fondato, tra gli altri, da
Eugenio Curiel e Gillo Pontecorvo, insieme ai fratelli Aldo
e Giuseppe Tortorella ed alla fine siamo sopravvissuti in
tre, gli altri, catturati dai nazi-fascisti, finirono o fucilati
sul posto, o uccisi sotto tortura, o nei campi dove furono
deportati. Altri morirono in combattimento. Giravamo per
Milano con un triciclo dal doppio fondo, in cui nascondevamo le pubblicazioni clandestine, e le consegnavamo in
giro per la città". Se avete già capito la persona, comprenderete perché Galletti non fa menzione della Medaglia
d'argento al Valor militare, di cui è stato insignito per non
aver parlato sotto tortura.
Finita la guerra, Galletti può finalmente dedicarsi alla
sua passione: inizia in cronaca, nel '48, alla redazione di
Milano Sera. Il giornale verrà chiuso e parecchi redattori
crederanno poi in una scommessa di Giangiacomo Feltrinelli che non vedrà mai la luce. Nel '54 viene chiamato alla
Gazzetta di Mantova, dove rimarrà tre anni, al termine
dei quali gli viene offerto di occuparsi della gestione della
Provincia pavese. Questo periodo dura altri tre anni, ma
il giornale non va tanto bene da sopravvivere anche se
viene apprezzato. Nel '60 Galetti decide di presentare le
proprie dimissioni irrevocabili e va a a salutare in città
tutti i personaggi pubblici e le autorità con cui si è trovato
a contatto in quegli anni; le proteste per l’abbandono del
giornale sono unanimi, e il direttore trova subito entusiasti finanziatori per un’altra avventura editoriale. Nasce “Il
Giornale di Pavia”, che avrà l’ex partigiano come direttore
per alcuni anni. Comincia un intermezzo come capo ufficio stampa alla Candy. Dal 1972 Galletti lavorerà al Giorno.
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Esteri
Esteri
LA POLVERIERA EGITTO
L’Italia è il partner europeo ideale ma la situazione interna sta diventando esplosiva e sono
in molti gli osservatori che sostengono che il Paese sia peggiore di quello di Mubarak
di COSTANZA SPOCCI e GIULIA BERTOLUZZI
È stato detto tanto sul ruolo del Mediterraneo per l’Europa, in un ventennio di tentativi di apertura dei mercati sin
dal fallito processo di Barcellona del '95. A Novembre 2014,
il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi nel suo primo tour
europeo in veste di presidente, ha deciso di visitare Italia e
Francia, per disegnare un’agenda comune su business e lotta
al terrorismo.
“Se è vero che il Mediterraneo non è la frontiera dell’Europa, ma il cuore dell’Europa, noi non possiamo che vedere
nell’Egitto il partner strategico per affrontare insieme le
questioni principali di quell’area” dichiarava Matteo Renzi
nella conferenza stampa indetta a seguito del primo colloquio
bilaterale con la sua controparte egiziana. Come per Renzi lo
è l’Egitto, anche per al-Sisi l’Italia è il partner europeo ideale,
con uno scambio commerciale di circa 962,8 milioni di euro
(2013) e con la stessa apprensione per l’instabilità libica.
L’Italia vuole allargare i suoi investimenti nel Paese più popoloso del Nord Africa, composto dal 31,32% di forza lavoro
sotto i 25 anni [fonte Nazioni Unite, 2010] e iniettare milioni
di euro alle oltre 900 aziende italiane operanti in Egitto, attraverso organi come il Business Council italo-egiziano. Con
i continui arrivi di immigrati sulle coste italiane, di cui il 95%
provenienti dalla Libia secondo il Ministero degli Interni, e
le conseguenti pressioni europee in materia d’immigrazione,
il concerto e la comunione d’intenti fanno dei due Paesi due
coniugi perfetti.
Per l’Italia, la Libia è una maggiore fonte di turbamento.
Infatti subito dopo l’intervento NATO che ha portato all’uccisione di Gheddafi, e la conseguente presa di potere da
parte delle milizie libiche, l’Italia ha riscontrato un collasso nell’approvvigionamento di greggio e gas. Molti pozzi di
petrolio, di cui tanti erano nelle mani dell’ENI (compreso il
gasdotto Greenstream) e che producevano 1,5 milioni di barili di greggio oltre ai 10 miliardi di metri cubi di gas l'anno
per l’esportazione a Europa e USA, sono stati smantellati o
occupati dalle forze dei miliziani libici. La conseguente diminuzione della produzione in Libia ha avuto un impatto considerevole sulle aspettative di approvvigionamento energetico
in Italia
Sulla questione dei barconi d’immigrati, tema importante
non solo a livello di opinione pubblica e di politica
interna, ma anche a livello
europeo, Renzi dichiarava
“se noi abbiamo ricevuto 150.000 arrivi, l’Egitto,
come al-Sisi ci dice, deve
‘occuparsi’ di 5 milioni di
rifugiati”, ponendo l’accento sulla necessità di
stabilizzare sia Paesi di
origine che quelli di transito. Bisogna però tenere
conto che l’Egitto non ha una legge in materia d’asilo e delega totalmente la responsabilità all’Alto Commissariato per
i Rifugiati delle Nazioni Unite. UNHCR stima 253.268 rifugiati e richiedenti asilo in Egitto, molti dei quali continuano
a lasciare il Paese in massa proprio a causa delle numerose
difficoltà riscontrate a livello di integrazione, aiuti umanitari
e discriminazione.
Il terzo punto in agenda è la lotta al terrorismo, su cui alSisi sta fondando non solo le alleanze internazionali, ma anche tutta la sua politica interna. L’Egitto sta già sostenendo
logisticamente l’esercito libico, attraverso addestramenti e
approvvigionamento di materiale bellico. In un’intervista
rilasciata a France24, Sisi dichiara che “il problema libico
dovrebbe essere trattato come la crisi siriana e irachena, e la
comunità internazionale dovrebbe impegnarsi di più”. Sfruttando la recente dichiarazione del califfo dello Stato Islamico
Abo Bakr Al Baghdadi riguardo la conquista della città libica
di Darnah - sulla costa mediterranea e al confine con l’Egitto
- Sisi ricerca un sostegno europeo, e in particolare di Francia
e Italia, per stabilizzare la Libia.
Questo onere, farebbe recuperare all’Egitto di al-Sisi quel
ruolo di Paese d’appoggio per le forze occidentali in Medio
Oriente e nel Mediterraneo. Non solo per quanto riguarda i
vecchi scenari mediorientali, come il conflitto israelo-palestinese in cui Sisi si è ripresentato sulle orme di Sadat come
mediatore e paciere, ma anche sul nuovo scacchiere regionale ridisegnato dall’avanzata dell’ISIS in Iraq e Siria.
Al-Sisi ha capito che gli interessi e obiettivi europei soprattutto di Italia e Francia, in contrapposizione con la Germania, sono più “approcciabili” e condivisibili dall’Egitto che da
un supporto atlantico, dato che Washington è più concentrata sulle crisi in Iraq, Siria e Ucraina. Al-Sisi continua dunque
a tessere nuove alleanze, giocando sulle frizioni e i punti deboli delle grandi potenze. Il riavvicinamento con la Russia,
che rievoca fantasmi nasseriani, e la previsione di nuovi legami economici e politici con la Cina, hanno spinto Obama ad
affrettarsi a riassettare il pluridecennale sostegno militare,
nato dagli accordi di Camp David che era stato temporaneamente sospeso dopo la rimozione dell’ex-presidente dei Fratelli Musulmani Mohammad Morsi il 3 luglio 2013.
Un punto su cui l’Egitto può
sempre giocare, essendo di
fatto insieme alla Giordania
il maggiore “proxy” garante della sicurezza di Israele
nella regione.
Da non dimenticare che
sulla politica estera egiziana
incombe l’ombra dell’Arabia
Saudita, principale sostenitrice nel Golfo dell’establishment militare insieme
Hosni Mubarak, presidente per trent’anni dell’Egitto
Proteste in Egitto durante la “Rivoluzione del Nilo” nel 2011
agli Emirati Arabi Uniti. Un sostegno politico supportato da
ingenti prestiti e finanziamenti diretti nelle casse dello Stato egiziano. Recentemente questi due Stati hanno dato segno
di voler “normalizzare” le relazioni con il loro principale avversario, il Qatar, astro nascente nella battaglia regionale per
determinare le sfere d’influenza: su richiesta degli Stati Uniti
hanno invitato il governo egiziano a “riconsiderare” le relazioni con Doha. Questo, però, non senza che l’Arabia Saudita
abbia prima appoggiato la giunta militare egiziana per debellare i Fratelli Musulmani, espellendo così l’influenza del
Qatar dall’Egitto.
Al Sisi continua a cercare alleati nella comunità internazionale che, come i Paesi del Golfo, non discutano il suo operato sia come Presidente che come ex-Ministro della Difesa. E
nell’Italia, in quest’ottica, sembra aver trovato il partner ideale: “nei prossimi mesi si vedrà come la cooperazione Egitto-Italia darà i suoi frutti sotto tutti i livelli, non solo quello
economico” diceva il presidente del Consiglio italiano il 24
novembre a Roma. Nel corso della stessa conferenza stampa,
nessuna domanda è uscita sullo stato delle cose nel Paese, né
sulla feroce repressione, i massacri, gli arresti di giornalisti
e attivisti e lo stato di polizia che regna nelle strade. Un interesse che, pertanto, dovrebbe essere notevole, e non solo per
la retorica italiana ed europea su diritti umani, ma anche e
soprattutto per gli interessi strategico-commerciali che l’Italia ha in Egitto: una repressione statale di questo tipo, già
in atto da un anno e mezzo e che si fa sempre più soffocante
ad ogni mese che passa, non è sostenibile nel lungo termine
e non garantisce quella stabilità che le aziende italiane auspicano per triplicare i loro investimenti. Soprattutto perché
non ci si può aspettare che a questa repressione non vengano
formulate risposte.
La società civile, però, ha le gambe spezzate: le associazioni
e le organizzazioni non governative locali, che erano il lascito
organizzato della rivoluzione, hanno chiuso i battenti in seguito alla legge sulle ONG emanata dal governo o continuano
a lavorare sotto minaccia costante ed enormi pressioni; nel
novembre 2013 la legge anti-proteste vieta raggruppamenti
non autorizzati di più di 10 persone, pena l’incarcerazione; i
maggiori partiti di opposizione sono stati quasi tutti cooptati
nel luglio 2013 (per poi essere isolati e neutralizzati), oppure
messi al muro o allontanatisi dalla politica per non legittimare un processo politico compromesso alla base; il presidente
legifera per decreti, da due anni il Paese non ha un parlamento (la camera alta fu sciolta dal Consiglio Supremo delle
Forze Armate nel giugno 2012, la camera bassa sempre dallo
SCAF nel luglio 2013) e le elezioni parlamentari sono state ulteriormente posposte a marzo 2015, senza reali garanzie che
si tengano nei tempi stabiliti; il potere giudiziario non è indipendente, le sue teste sono personaggi legati all’era di Hosni
Mubarak, oggi passati sotto l’ala della nuova giunta militare,
e i processi politici si moltiplicano senza sosta; l’islam politico, ovvero quell’islam che si muove all’interno delle istituzioni statali e che quindi porta avanti le sue istanze nel
quadro dell’arena politica, è stato definitivamente debellato
con l’arresto degli alti quadri e quelli intermedi dei Fratelli
Musulmani, esclusi dopo il 30 giugno dalla politica istituzionale; i sindacati indipendenti rimangono tuttora in un limbo,
non ne viene riconosciuta la legalità e le trattative sindacali
vengono portate avanti dalle branche dell’ETUF, il sindacato
statale sotto lo stretto controllo del governo, mentre nuovi
imprenditori che sostengono Al-Sisi prendono il controllo
delle principali aziende, stracciando gli accordi stipulati con
i lavoratori dalle precedenti amministrazioni. Chi resta dunque? Le frange estreme, che con il peggiorare della situazione egiziana hanno a loro disposizione un bacino di reclutamento sempre più ampio. Il terrorismo che Al-Sisi dichiara
di voler sconfiggere, infatti, è in realtà un terrorismo nutrito
e “accudito” dalla repressione statale. Un esempio lampante
è il gruppo jihadista Ansar al Beyt al Maqdis (ABM) in Nord
Sinai, creato dalla Maglis-e-Shura [congregazione] di Gaza
nel 2011 per minare le relazioni egiziano-israeliane. In una
prima istanza ABM si limitava a lanci di razzi sulla città sudisraeliana di Eilat e all’attacco di gasdotti egiziani verso Israele in Nord Sinai, ma progressivamente si è trasformato in
un gruppo anti-statale i cui principali obiettivi degli attacchi
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Esteri
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Podemos fa tremare la politica spagnola e l'austerità di Merkel & sOCI
bomba sono i direttorati sicurezza (gennaio 2014), il Ministero degli Interni (settembre 2013), tribunali (gennaio 2014), installazioni militari e di polizia. In seguito alla deposizione di
Morsi, la giunta militare ha iniziato un’operazione militare in
Nord Sinai, di fatto una guerra a bassa intensità, che è tuttora
in corso e che ha portato alla morte di centinaia di civili nonché alla distruzione di altrettante abitazioni. Chi è riuscito ad
entrare in Nord Sinai negli ultimi mesi – l’accesso dell’area
alla stampa è strettamente sorvegliato - riporta di un paesaggio desolato comparabile a quello della Siria, con villaggi fantasma utilizzati dai militanti islamici come avamposti contro
le forze armate egiziane.
A questo si aggiunge un razzismo e un trattamento altamente sfavorevole per la popolazione beduina che abita quell’area,
dall’insufficienza di scuole e sanità alla sottrazione delle terre. Lo scorso ottobre, inoltre, il governo egiziano ha predisposto la creazione di una zona cuscinetto tra la città egiziana
di confine di Rafah e Gaza: in un chilometro di larghezza per
13 di lunghezza più di 20.000 persone sono state obbligate a
lasciare le loro case, rase al suolo per la creazione di un canale
di divisione tra Egitto e Gaza che ha come scopo principale quello di isolare Hamas. Un accordo, quello di creare un
canale divisorio, già sondato nel 2007 tra il braccio destro di
Mubarak, Omar Suleiman, e Tzipi Livni, Ministra degli Esteri israeliana del governo Olmert. L’operazione ha fatto infuriare ulteriormente gli abitanti del Nord Sinai, e lo scorso 10
novembre il gruppo jihadista ABM si è ufficialmente alleato
allo Stato Islamico, giurando fedeltà a Abu Bakr Al Baghdadi.
L’alleanza con ISIS ha un impatto effettivo sull’Egitto: esistono cellule di ABM anche nella zona agricola ed industriale,
il Delta del Nilo, ma soprattutto uno Stato Islamico (SI) in
Egitto ha lo scopo di reindirizzare in azioni locali tutti quei
giovani frustrati dalla situazione, che stanno partendo per la
Siria e l’Iraq. D’altro canto, questo legittima ulteriormente il
governo egiziano a rafforzare le misure di sicurezza e nutre
la retorica anti-terrorismo all’interno. Paradossalmente, per
il governo fa comodo avere un abbozzo di SI in casa, poiché
permette ad Al Sisi di mettere tutto nello stesso sacco - jihadismo, islam politico, islamismo tout court – del terrorismo,
compresi rivoluzionari e liberali. Una visione che il nostro
primo Ministro condivide con il presidente egiziano, nonostante questo approccio non abbia portato a buoni risultati
sul terreno. La questione che si pone all’Italia, anche nell’ottica di un intervento in Libia in cooperazione con l’Egitto, è
non solo sull’affidabilità del “partner strategico”, ma anche
sul prezzo politico da pagare, ovvero supportare una giunta
militare, un terrorismo di stato e una strategia della tensione che rischiano nel lungo periodo di degenerare in scenari
catastrofici, ben opposti ad un “Egitto stabile” e “pilastro del
Mediterraneo”.
Nel frattempo il clima di sospetto e paranoia degenerano in
situazioni in cui “buoni cittadini” denunciano o addirittura
arrestano in strada chi osa esprimere un’opinione contraria al
governo, con l’accusa di “fomentare il caos”, o casi in cui taxisti e conduttori sentendo conversazioni “vietate” al telefono
o tra persone, portano direttamente i passeggeri al Ministero
degli Interni o alla più vicina stazione di polizia. Aumentano
nel frattempo i casi di persone scomparse, “desaparecidos”,
le torture e le morti in carcere restano impunite, così come
tutti i massacri di rivoluzionari, copti e Fratelli Musulmani,
dal 2011 a oggi. Il tutto accompagnato da una barriera di conformismo dietro cui la maggioranza delle persone ha deciso
di proteggersi e dalla retorica di una Nazione forte e gloriosa
i cui problemi sono interamente imputati ad un non ben definito “complotto straniero”. Un Egitto peggiore di quello di
Mubarak, a detta di tutti coloro che la rivoluzione del 2011
l’hanno fatta. Ma al vecchio continente, evidentemente, i dittatori continuano a piacere di più.
Piazza Tahrir occupata dalle tende dei manifestanti
UNA “NUOVA” SINISTRA AVANZA IN EUROPA
di MAURIZIO GALLI
D
alla crisi del 2008 la Spagna
sembra esserne quasi uscita ma
solamente per i burocrati della UE, impegnati a fare rispettare i rigidi parametri ai PIGS, meno attenti alle
conseguenze a lungo termine che questi
“compiti” stanno avendo sulle fasce più
deboli dei cittadini. In Spagna la disoccupazione giovanile tocca punte del 60%,
il precariato quasi i 2/3 dei nuovi assunti, mentre solo nel 2014 sono stati 300.00
gli sfratti esecutivi per insolvenza da parte dei proprietari delle case verso le banche. Banche spagnole che hanno avuto
in questi anni più di 200 miliardi di euro
per ripianare i propri debiti, e foraggiare
la stessa classe dirigente che aveva portato il paese sull'orlo del fallimento. Dopo il
governo Zapatero, co-responsabile della
debacle spagnola, la destra popolare guidata da Rajoi, grazie anche al controverso sistema elettorale iberico, era riuscita a salire al governo, pronta a seguire i
dettami di Bruxelles, facendo
tabula rasa di molti diritti dei
lavoratori, tagliando il welfare
e rendendo il lavoro flessibile
più di quanto già non fosse. Le
varie proteste però venivano
dalla società civile in maniera poco sinergica e organizzata. Il movimento studentesco,
gli sfrattati della Pah, il sindacato, orfano del PSOE, ormai
ridotto al lumicino e impossibilitato, e anche poco intenzionato, a fare opposizione. Tutto
questo ha consentito al governo guidato dai Popolari di
uscire pressochè indenne dalle elezioni europee del maggio
scorso, facendo tirare un sospiro di sollievo al mondo finanziario. Un'altra Grecia
sembrava scongiurata. Ma l'ondata di
arresti di una nuova tangentopoli colpiva
ad ottobre il partito del Primo Ministro,
portando alla ribalta una nuova stagione
di proteste. Questa volta però una sponda politica ha approfittato di questo malcontento, il nuovo partito di sinistra chiamato “Podemos”. L’esordio di questa forza
politica in realtà risale a qualche anno
prima. Nata per filiazione dal movimento
degli Indignados del 2011, ha ottenuto alle
recenti elezioni europee un risultato molto lusinghiero, 8% di suffragi e 5 deputati.
Un risultato che ha spinto i suoi promotori
a virare verso una soluzione organizzativa
meno informale del sodalizio. Di fatto si è
dato l’avvio alla costituzione di un partito vero e proprio. Il processo costituente (Asamblea Ciudadana, Assemblea dei
Cittadini) si è aperto il 15 settembre scorso
e si è concluso il 14 novembre, con la votazione finale dei candidati alle cariche elettive. Il suo leader e ideologo, Pablo Manuel
Iglesias Turrión, classe 1978, è un giovane
professore di Scienze politiche all’Università di Madrid, studioso di Gramsci, che
ha ricevuto il battesimo alla politica tra
le fila della Juventud Comunista (UJCE),
l’organizzazione giovanile del Partito
Comunista Spagnolo. Figura carismatica, abile comunicatore dalla retorica forbita e penetrante, Iglesias è il volto e l’anima del movimento, letteralmente. Non a
caso il simbolo presentato alle scorse elezioni europee recava proprio la sua effige.
Si è subito provato a fare un paragone con
il Movimento 5 stelle, ma ben poco hanno
in comune i due fenomeni politici, se non
Pablo Manuel Iglesias a un comizio di Podemos
altro che il raccogliere l'indignazione e la
disperazione delle persone nei confronti
di una politica sempre più sorda alle esigenze quotidiane. In realtà Podemos è ben
allineato a sinistra.
Al Parlamento Europeo siede insieme
alla Lista Tspiras e alla Linke tedesca, nei
banchi della sinistra tradizionale, non fa
una campagna anti-partiti, né antipolitica,
cerca le risposte dentro quello che da sempre è un programma socialista nel senso
storico del termine. La differenza la fa l'uso
consapevole dei nuovi media, internet,
social network su tutti, e un linguaggio
diretto e moderno dei suoi leader, sopratutto di Iglesias, che ha la stoffa dell'uomo
al comando, perfetto per la spettacolarizzazione che la politica di oggi richiede ai
suoi interpreti, di qualsiasi area siano. Ma
dietro al necessario show c'è un'idea ben
chiara, nata da una prolungata ed intensa
attività di studio e di ricerca sull’evoluzione della società spagnola e sulle
conseguenze delle politiche neoliberiste,
che ha avuto come luogo di elezione la facoltà di Scienze politiche dell’Università
Complutense di Madrid, da cui provengono sia Pablo Iglesias che altri dirigenti
del movimento. Fuori dai confini nazionali i loro riferimenti si chiamano Hugo
Chavez (Iglesias è stato consulente del
governo venezuelano) ed Evo Morales,
icone delle recenti rivoluzioni bolivariane
nel Sudamerica e di quello che, da quelle
parti, è stato battezzato come «socialismo
del XXI secolo». Con Renzi condividono
un'idea di “rottamzione”, ma dei partiti
tradizionali, PPE e PSOE, tanto che Rajoi
inizia a parlare di larghe intese anche in
Spagna, per paura che la
non rappresentanza reale
del paese all'interno del
Parlamento possa aumentare la protesta, e l'ascesa
di questa nuova forza. Nel
proprio piano programmatico Podemos annuncia misure chiare e per niente interpretabili: riconversione
ecologica dell’economia,
nazionalizzazione dei servizi pubblici essenziali, riduzione dell’età pensionabile e dell’orario di lavoro
a 35 ore settimanali, sostegno alle produzioni locali
di cibo, ristrutturazione
del debito, lotta alle multinazionali, allo
strapotere della finanza e delle banche
Proposte che in Italia farebbero titolare
ai giornali di forza conservatrice e non
riformista, mentre in Spagna dagli ultimi
sondaggi Podemos ha raggiunto il 27%,
diventando così virtualmente il primo
partito. Non solo quindi forze populiste e
razziste di destra sembra far nascere questa crisi, nei prossimi mesi i veri “nemici”
dei burocrati europei saranno le sinistre
di Tspiras e di Iglesias, aspettando anche
in Italia una nuova idea, o questa nuova
idea, magari portata da un Landini, non
più sindacalista, ma leader di un nuovo
movimento italiano alternativo a Renzi e
alle larghe intese.
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Memoria
Memoria
DELIO TESSA, IL POETA ANTIFASCISTA COSTRETTO A “EMIGRARE” IN SVIZZERA
Resistenza: Menici divide ancora i partigiani
di ARTURO COLOMBO
Convegno a Temù a 70 anni dalla sua uccisione - Il rifiuto dell’Anpi a dare il suo patrocinio
A
nche se c’è ancora qualcuno che
ricorda quel singolare verso in
dialetto milanese “L’è el dì di
mort, alegher !”, non so quanti conoscano il nome dell’autore, che è Delio Tessa,
singolare personaggio vissuto a Milano
dal 1886 al 1939. Faceva l’avvocato, ma era
soprattutto un appassionato di poesia e un
giornalista. Però, da coerente antifascista
gli era vietato di scrivere sui grandi quotidiani italiani; e così era diventato collaboratore di “testate” svizzere. Ecco perché è
una felice sorpresa il volume di Tessa, La
rava e la fava, curato da Mauro Novelli (ed.
Casagrande, Lugano & Milano), che raccoglie “cinquanta prose disperse”.
Ironia e vena crepuscolare – spiega bene
Novelli – caratterizzano molte di queste
pagine, spesso dedicate a esponenti del
mondo culturale. Ne offre un prezioso
esempio un articolo, che risale al 12 maggio 1936 e dedicato al grande direttore
d’orchestra Arturo Toscanini, che per
Tessa non è solo un “uomo di genio”, ma
“un lavoratore tenace, sovente notturno”,
che possiede “il portento della memoria”,
perché di ogni autore “la partitura gli si è
fissata nella mente nota per nota”. E due
anni più tardi, sempre con riferimento a
Toscanini sottolinea che “l’Italia può essere ben fiera di questo suo fierissimo figlio,
di questo protagonista del genio italiano
all’estero”.
Non credo di sbagliarmi se sostengo che
i ritratti dedicati a protagonisti costituiscono uno dei maggiori meriti di Tessa. Lo
dimostra il ritratto di Arnoldo Mondadori,
definito “il principe degli editori italiani”,
la cui vita “è sempre stata un seguito di
battaglie e di vittorie”. Invece Benedetto
Croce lo descrive così: “chi lo avvicina e lo
conosce, subito intuisce che la vita condotta in disparte è la sua vera vita, la sola che
gli consenta la meditazione e lo studio”.
Di Gioacchino Belli, Tessa sostiene che
“non fu soltanto poeta satirico ma riuscì
anche eccellente psicologo”, mentre Francesco Pastonchi ce lo presenta come “dicitore di Dante”, e Anselmo Bucci, letterato
e pittore, lo presenta “gioviale, massiccio,
un uomo vivo”.
In altri articoli Tessa si dedica a raccontare alcuni film, come “Tempi moderni”,
dove protagonista è Charlot, “l’indefinibile, l’inafferrabile. Non ha età, non ha casa,
non ha patria e sembra quasi un asessuale”, oppure “I Miserabili”, dove “quasi tutte le scene hanno il fascino di vecchie illu-
strazioni ottocentesche”, o ancora “Angeli
senza Paradiso”, dove “tutto è poesia, vera
poesia”. E non meno godibili sono le pagine, dove Tessa illustra alcune “prime”,
come la “serata memorabile” del 5 febbraio
1887, quando Verdi fu chiamato “un numero infinito di volte alla ribalta della Scala”
per la prima dell’Otello, oppure la prima
della Butterfly, arricchita dall’aneddoto di
“un gatto [che] uscì dalle quinte a fare una
passeggiatina sul palcoscenico fra l’ilarità
generale”.
Ma ce ne sono altri di articoli su temi
anche molto diversi fra loro: per esempio,
la descrizione di una serata al Bagutta,
notissimo ristorante milanese dove “è risorto un po’ lo spirito della scapigliatura
lombarda dell’ultimo Ottocento”, oppure
la tragedia di “un povero scapolo”, o ancora, con espliciti riferimenti al Cantone Ticino, quello del 2 giugno del 1937, dal titolo
eloquente: “Un giorno a Lugano nella Casa
degli Italiani”. Insomma, gli argomenti
sono anche molto differenti fra loro, ma
spicca sempre la grande originalità, di cui
Delio Tessa rivela la sua meritoria padronanza.
E i lupi raccontano la strage fascista sulla Sila
di FILIPPO SENATORE
Pochi ricordano la strage fascista del 2 agosto 1925. Vittime innocenti, soprattutto donne di cui una incinta. Manifestavano per il
carovita nella piazza principale di San Giovanni in Fiore nel cuore
della Sila. Giovanni Belcastro la racconta nel libro Il silenzio dei Lupi
edito da Rubbettino, Soveria Mannelli. In quell’afosa estate del 1925
il regime fascista controllava a stento il popolo in rivolta. Michele
Bianchi, quadrunviro della marcia su Roma, volle dare una lezione
ai socialisti che avevano osato creare un sistema di mutuo soccorso
per la compravendita di terreni da distribuire ai senza terra. Bianchi era allora potente sottosegretario fascista ai lavori pubblici.
Carabinieri e squadristi accerchiarono la cittadina silana per far
fronte al malcontento di migliaia di contadini disarmati che protestavano pacificamente contro le tasse inique sui beni di prima necessità. Le forze dell'ordine spararono sulla folla per uccidere. I criLapide in ricordo della strage a San Giovanni in Fiore (CS)
minali colpirono almeno 35 persone e uccisero Filomena Marra di
27 anni al nono mese di gravidanza, il figlio che portava in grembo,
Barbara Veltri 23 anni, Antonia Silletta 68 anni, Arianna Mascaro
73 anni e Saverio Basile 33 anni. L’Agenzia Stefani dettò un dispaccio alla stampa nazionale, manipolato dai fascisti, nel quale si parlò
di una folla non controllabile che aveva provocato “la giusta” reazione dei carabinieri e degli squadristi.
La censura impedì a pochi giornali liberi di esprimere parere
contrario. Ciò che premeva al regime – sottolinea Belcastro – fu rimuovere e far dimenticare una strage che 22 anni dopo si ripetette
con una regia simile a Portella della Ginestra in Sicilia.
I martiri dimenticati persino nel Dopoguerra vennero ricordati
solo nel 1973 con una lapide nel luogo dell’eccidio. Oggi - ammonisce Giovanni Belcastro, professore emerito di Chirurgia all’Università di Ferrara – la lapide è illeggibile ed andrebbe rinnovato
il sentimento di identità antifascista in una Calabria dove alcuni
nostalgici ricordano il criminale Michele Bianchi, fucilatore dei
contadini al servizio dei latifondisti calabresi. Un monumento
purtroppo lo ricorda nella natia Belmonte segno del trasformismo
giustificato da un ottuso campanilismo strapaesano. Un bimbo mai
nato senza nome e volto, non divenne mai coetaneo dei nostri padri, ma rose le coscienze di tutti coloro che tacquero anche dopo la
conquista della libertà. Un monito anche per le future generazioni.
Per non dimenticare.
C
on l’approssimarsi del 70° anniversario della morte vecchio alpino» agli amici «del nostro Menici, che finaldel colonnello Raffaele Menici (Corteno, 17 novem- mente ha trovato la via della verità».
Rigoni Stern salutava i garibaldini che - coordinati da
bre 1944), ufficiale degli alpini e promotore della
Resistenza in Valle Camonica, si riscopre un’originale figu- Firmo Ballardini - eressero il 9 settembre 1995 un cippo nei
ra di montanaro, legato alla sua terra e ai suoi commilito- pressi della località dove tre fiamme verdi consegnarono
ni, ucciso in un dramma partigiano, in circostanze che oggi Menici alle SS, ovvero alla morte. All’inaugurazione, orgaè finalmente possibile chiarire, con ulteriori documenti e nizzata dall’Anpi di Brescia con oratore Aristide Giudici
(membro con Dolores Abbiati e Lino Pedroni del direttivo
testimonianze.
La dimensione alpina è radicata nella sua partecipa- provinciale), parteciparono molti reduci con annodati al
zione alla grande guerra, nel 5° Corpo d’Armata. Promosso collo i fazzoletti rossi della 54ª Brigata Garibaldi e i fazzotenente nel dicembre 1915, combatte sulle trincee del Tren- letti verdi della «Tito Speri». Mancò invece l’adesione
tino. Istruttore di allievi-ufficiali e ispettore al fronte, tiene dell’Associazione Fiamme Verdi, scandalizzata dall’indii contatti con il Comando Supremo di Cadorna. Tra il luglio cazione «colpito a tradimento», riportata dalla lapide. Alla
1915 e il gennaio 1917 annota il diario di guerra (conser- vigilia della cerimonia, i dirigenti delle FF.VV. avevano
vato al Museo della Guerra Bianca dell’Adamello, Temù). chiesto all’Anpi la cancellazione di quelle parole, preannunciando altrimenti la fuoruscita dal
Nel febbraio ’17 è trasferito al Battasodalizio degli iscritti alle Fiamme
glione Cavento, sulle postazioni
Verdi. Il diktat fu sdegnatamente
dell’Adamello.
respinto e l’iniziativa si svolse con
In ottobre, promosso capitano,
grande concorso popolare.
comanda una Compagnia che nella
Nel 1995 l’Anpi di Brescia orgaparte finale dei combattimenti
nizzò le cerimonie in onore di
guida sino a Merano. È devoto alla
Menici, mentre nel 70° della morte,
memoria di Cesare Battisti, conooltre a non predisporre alcunché,
sciuto nell’anteguerra attraverso la
rifiuta il patrocinio al convegno
moglie Ernesta, già compagna di
del 15 novembre al Museo della
studi di Giuseppina Rossini, fidanGuerra Bianca di Temù, con relazata (e, dall’aprile 1921, moglie) di
tore il vicecomandante della 54ª
Menici. Nel gennaio 1941 - mobiliBrigata Garibaldi, Gino Boldini, che
tato sul fronte albanese - riceve in
aveva combattuto fianco a fianco
ricordo l’acquaforte col volto del
con Menici i fascisti e i tedeschi.La
martire e una dedica significativa:
clamorosa assenza è così motivata
«L’immagine di Cesare Battisti che
dal presidente provinciale, Giulio
nella divisa d’alpino combatté la sua
Ghidotti: «L’orientamento generale
ultima battaglia per quel Tricolore in
assunto a suo tempo dall’Associacui palpitò la più nuova storia d’Itazione in merito a proposte di figurare
lia - Al Ten. Col. Raffaele Menici,
Raffaele Menici durante la Prima guerra mondiale
su manifesti, comunicati, media tra
Alpino, la vedova di Cesare Battisti». Comandante del Battaglione complemento del 6° Alpini gli organizzatori o tra i patrocinatori di convegni/eventi
«Vestone», ha alle sue dipendenze Mario Rigoni Stern. Tra prodotti in collaborazione con altri soggetti, è che l’assenso
i due s’instaura un rapporto tenace, che nemmeno la morte è subordinato al fatto che l’Associazione sia stata fin dal
spezzerà. Nel 1995, informato delle iniziative commemora- principio coinvolta e partecipe in forma ufficiale e sostantive (cippo a Corteno e convegno a Breno), l’autore di “Quota ziale in tutte le fasi che portano alla realizzazione del
Albania” e de “Il sergente della neve” scrive cinque lettere, convegno/evento stesso. Soprattutto nelle fasi di 1) ideazione
ad oggi inedite, improntate a persistente affetto: «Non so e specificazione di temi e di sottotemi, di finalità e obiettivi;
se nel dicembre 1940 le cose peggio di così non dovessero 2) individuazione della collocazione spazio-temporale, degli
andare, ma è il fatto che con l’arrivo di Menici, cambiarono. eventuali collaboratori, dei partner, dei patrocinatori, dei
Era un uomo che dava fiducia, sempre attivo. Fu lui che relatori; 3) costituzione dell’équipe operativa; 4) definizione
mi procurò un paio di scarponi, perché i miei piedi erano bozza del programma e del piano finanziario; 5) approvapiù sulla neve che sul cuoio. Aveva avuto tutta la stima del zione del programma definitivo. Tenuto presente quanto
nostro col. comandante Augusto Restenna». Lo scrittore di cui sopra, non essendosi verificate nell’organizzazione
ebbe notizia della fine di Menici da un alpino trentino: «Nel del convegno in oggetto le condizioni appena richiamate,
raccontarmelo, Brandalise era molto commosso e mi diceva: si ritiene di declinare l’invito». La richiesta di patrocinio
“Menici per me era un papà” (Brandalise era orfano)». pervenne all’Anpi con quaranta giorni d’anticipo, dunque
Trascorso mezzo secolo, bolla con una frase di fuoco i malu- in tempo utile per consentire ai suoi dirigenti di informarsi
mori di certo reducismo bresciano per chi vuol chiarire le e - se solo lo avessero ritenuto - di contribuire attivamente
circostanze di quell’assassinio: «L’ombra di Raffaele Menici alla fase organizzativa. Si è invece preferito, per motivare la
come può ancora turbare la coscienza degli pseudo-parti- propria (imbarazzata e imbarazzante) indisponibilità, ripiegiani!». L’ultima lettera (1° gennaio 1996) reca l’augurio «del gare su di un profilo aridamente burocratico. (m.f.)
21
22
Memoria
Ricordo di Giacomo Matteotti
Memoria
grande eroe dell’antifascismo
di MARIO ARTALI
S
ettant’anni orsono si svolgeva il
secondo – ed il più tragico - dei
tre anni (1943-1944-1945) della
riscossa nazionale, ma venti anni prima, e quindi novanta anni fa l’assassinio di Giacomo Matteotti ed il ricordo incancellabile che ne era derivato
(“l’ombra di Banco” come scrisse Carlo
Rosselli) segnano insieme l’inizio della
dittatura e della lotta per la riconquista
della libertà.
Settanta anni orsono i primi mesi
del 1944 avevano alimentato le
speranze di una rapida conclusione della guerra con la sconfitta
del nazifascismo.
A marzo i grandi scioperi
in tutta l’Italia occupata, il 4
giugno la liberazione di Roma e
subito dopo dell’intero Abruzzo,
in luglio Siena, Arezzo, Ancona
e Livorno. Per tutto agosto si
combatte a Firenze fino alla
vittoria del 1° settembre. Dovunque si rafforzano le bande
partigiane e ne nascono di nuove,
si implementa faticosamente il
coordinamento delle formazioni
sulla base della decisione presa
il 19 giugno dal CLNAI di costituire il CVL sotto il comando
di Raffaele Cadorna, con Luigi
Longo e Ferruccio Parri vicecomandanti.
Da marzo 1944 era iniziata la
costituzione del Corpo Italiano
di Liberazione (CIL) per combattere accanto agli Alleati, dopo
che negli ultimi mesi del 1943, il 1°
raggruppamento motorizzato si era
battuto insieme agli angloamericani
e la bandiera italiana era sventolata
con quella americana sulle pendici
di Monte Lungo. A settembre dello
stesso anno il CIL lascia il posto ai
primi "Gruppi di Combattimento",
vere e proprie Divisioni di fanteria
del ricostituito esercito: un complesso
di 20.000 uomini, armati ed equipaggiati dagli inglesi ma con stellette
ed il tricolore al braccio. Collegata
al Comando alleato opera anche la
Brigata Majella di Ettore Troilo, che di
Matteotti fu assistente e compagno di
Partito.
A giugno era stata costituita a
Montefiorino (Modena) la prima
repubblica partigiana, la prima
di molte: la Resistenza cercava di
riscoprire la democrazia e la partecipazione, dopo la lunga notte del
fascismo.
A settembre nasce la Repubblica
dell’Ossola, una delle principali e delle
più ricordate. La giunta provvisoria
di governo è presieduta dal socialista Ettore Tibaldi, che così definisce
l’obiettivo della Repubblica: “dare un
esempio di come gli italiani, libera-
tisi per esclusiva forza loro, sapessero
amministrarsi, attraverso un libero
Governo, dando prova della capacità a
democraticamente reggersi”.
A coloro che ancora sottovalutano
il contributo di tutti i combattenti
per la libertà – non importa se inquadrati nelle Forze Armate o partigiani
delle più diverse formazioni – ricordo
la sobria efficacia con cui a Parigi, alla
conferenza di pace, si espresse Alcide
De Gasperi rivendicando per l’Italia
condizioni diverse da quelle riservate
alla Germania ed al Giappone.
De Gasperi rifiuta (sono sue parole)
“la formulazione così stentata ed agra
della cobelligeranza” che è: “delle
Forze armate italiane hanno preso
parte attiva alla guerra contro la
Germania”. “Delle forze?” - ancora
De Gasperi - “ma si tratta di tutta
la marina da guerra, di centinaia di
migliaia di militari per i servizi di
retrovia, del Corpo Italiano di Liberazione, trasformatosi poi nelle divisioni
combattenti e last but not least dei
partigiani, autori soprattutto della
insurrezione del nord”.
Ma da dove nasce tutto questo, dopo
vent’anni di dittatura e di deformazione delle coscienze?
Da dove nasce, dopo il rallentamento e l’arresto dell’avanzata
alleata, le terribili rappresaglie
nazifasciste, il prezzo inumano
pagato per superare il lungo e
durissimo inverno, l’energia che
si sprigiona fino alla vittoria del
25 aprile del 1945?
Nasce certo dal sacrificio di
molti, di eroi di tutte le colorazioni dell’arcobaleno e di
soldati fedeli al giuramento
prestato, dall’esempio di tanti,
esuli, prigionieri
o clandestini in Patria, ognuno dei quali
dobbiamo onorare e ricordare.
Oggi voglio ricordare un uomo
il cui nome significò e significa
più di altri tutto questo: Giacomo
Matteotti.
Ho letto da qualche parte che
il professor Stefano Caretti ha
detto: “Per riportare Matteotti
nella storia, come finalmente
merita, bisogna andare a cercarlo
nel mito”.
Strana sorte per un “eroe tutta
prosa” come lo definì Carlo Rosselli,
che scrisse, dieci anni dopo:
“Matteotti è diventato il simbolo
dell'antifascismo e dell'eroismo antifascista. In qualunque riunione si
faccia il suo nome, il pubblico balza in
piedi o applaude. Comitati Matteotti,
Fondi Matteotti, Circoli Matteotti,
Case Matteotti. Matteotti, come l'ombra di Banco, accompagna Mussolini.
E Mussolini lo sa. Eppure, nessun
uomo fu meno simbolo, meno "eroe",
nel senso usuale dell'espressione, di
Matteotti. Gli mancavano per questo
le doti di popolarità, di oratoria, di
facilità che creano nel popolo il feticcio; e la sua vita breve non registra
neppure uno di quei gesti drammatici
che colpiscono la fantasia e promuovono ad "eroe" il semplice mortale.
Matteotti possedeva però in grado
eminente una qualità rara tra gli
italiani e rarissima tra i parlamentari:
il carattere. Era tutto d'un pezzo. Alle
sue idee ci credeva con ostinazione, e
con ostinazione le applicava. Quando
lo conobbi a Torino insieme a Gobetti
ricordo che entrambi rimanemmo
colpiti dalla sua serietà e dal suo stile
antiretorico e ci comunicammo la
nostra impressione”.
Antiretorico e di grande preparazione, non solo giuridica.
Figlio di famiglia abbiente in quella
che era allora una delle zone più povere
del Paese - il Polesine - sceglie senza
esitazioni la difesa dei diseredati.
All’inizio del 1900, a soli 15 anni
Matteotti inizia la sua militanza
socialista e collabora al periodico
“La lotta”, il giornale di riferimento
del socialismo riformista in provincia di Rovigo. I primi articoli sono di
generica propaganda, poi inizia ad
occuparsi in modo sempre più attento
della questione bracciantile.
Matteotti è antimilitarista e tra i più
risoluti avversari della guerra libica e
poi della prima guerra mondiale tanto
che, richiamato alle armi, viene internato in Sicilia e non mandato al fronte,
dove lo si ritiene in grado di nuocere
alla causa nazionale.
A 25 anni, nel 1910, inizia la sua esperienza di amministratore socialista.
Il governo locale è per i socialisti
un modo concreto per intervenire a
migliorare le condizioni dei lavoratori
ed è una prospettiva di trasformazione
dello stato. Matteotti è riformista,
convinto sostenitore dell’unità del
Partito e della centralità delle Leghe,
delle organizzazioni sindacali, delle
cooperative, delle quali è instancabile promotore. A questi organismi di
classe spetta a suo avviso il primato, e
non ai teorici del Partito, che tendono
a vedere le riforme o la rivoluzione
come fine e non come semplici mezzi
per arrivare al socialismo.
La sua dedizione gli fa lasciare
anche i più importanti impegni di
politico e parlamentare per accorrere
a sostenere i suoi compagni.
Nel primo dopoguerra dal 1919 è
deputato al Parlamento e i lavoratori delle campagne restano una sua
priorità d’azione. Nel 1920, in occasione del rinnovo dei patti agricoli
annuali, Matteotti, sostenuto anche
dalla grande avanzata elettorale
dei socialisti, riesce ad imporre un
patto agricolo, detto anche “Patto
Matteotti” che riconosce importanti
miglioramenti nelle condizioni di
lavoro e soprattutto fissa “l’imponibile
di manodopera”, obiettivo prioritario delle lotte bracciantili nella prima
metà del '900 (in sintesi le leghe chiedevano di stabilire quanti lavoratori
fossero necessari per determinati
lavori).
È tra i pochi che comprendono
dall’inizio la natura del fascismo:
denuncia con fermezza le violenze
squadriste, volte nelle campagne a
impedire il rinnovo dei patti agricoli
del 1920. Nel marzo del 1921 denuncia alla Camera queste intimidazioni
e dopo pochi giorni viene rapito e
picchiato da una banda fascista, preludio a quello che succederà nel 1924.
Socialista riformista diviene nell’ottobre del 1922 segretario del PSU, il
Partito di Turati.
Nell’ultima lettera a Filippo Turati,
scritta subito prima delle elezioni del
1924 (Critica Sociale, 16 giugno 1946)
scrive: “L’esito (delle elezioni) darà
la misura della violenza e del terrore,
non del consenso dei singoli partiti”
e aggiunge: “la nostra resistenza
al regime dell’arbitrio deve essere
più attiva…. Tutti i diritti cittadini
devono essere rivendicati; lo stesso
Codice riconosce la legittima difesa.
Nessuno può lusingarsi che il fascismo dominante deponga le armi e
restituisca spontaneamente all’Italia
un regime di legalità
e di libertà; tutto ciò
che esso ottiene, lo
spinge a nuovi arbitrii, a nuovi soprusi.
È la sua essenza, la
sua unica forza; ed
è il temperamento
stesso che lo dirige”.
Ricerca la più
ampia unità e rifiuta
la falsa combattività
di coloro che “riparano sotto il pretesto
formale che tutti i
governi sono eguali”
Individua il punto
debole di altre forme
di antifascismo: “il
nemico è attualmente uno solo: il
23
fascismo. Complice involontario del
fascismo è il comunismo. La violenza
e la dittatura predicata dall’uno
diviene il pretesto e la giustificazione della violenza e della dittatura
in atto dell’altro.” Matteotti replica
in maniera dura a Togliatti: “Voi
escludete - a priori - qualsiasi blocco
di opposizione al fascismo ed alla
dittatura da esso instaurata che si
proponga come scopo una restaurazione pura e semplice delle libertà
statutarie…. Il porre tali condizioni pregiudiziali ad una intesa
che, secondo noi, invece dovrebbe
mirare, avanti tutto e in ogni modo,
alla riconquista delle libertà politiche
elementari, e a trarre il proletariato
dall’attuale tragica situazione, significa non solo rendere impossibile
l’intesa, ma anche vana ogni discussione”.
Difficile quindi dare torto ad un
altro grande simbolo dell’antifascismo, Piero Gobetti, quando scrive: “Ci
vuole un’intelligenza fredda e calcolatrice per scoprire l’avversario vero in
Matteotti…. Nulla di fortuito nel suo
assassinio… si è voluto colpire il capo
di uno Stato maggiore”.
Ecco dove sono le basi della Resistenza senza di cui “saremmo passati”
- come diceva Pietro Nenni - “senza
un fremito di orgoglio dall’una all’altra occupazione militare straniera”,
e questo non avrebbe significato solo
condizioni di pace peggiori ma anche
la impossibilità di ricostruire l’identità e l’orgoglio della Nazione.
Documento di Giacomo Matteotti dal CPC
24
Memoria
Memoria
La Consulta dichiara illegittimo il blocco dei risarcimenti civili alle vittime del nazismo
GIUSTIZIA PER GLI SCHIAVI DI HITLER?
di WALTER MERAZZI
C
on la sentenza del 22 ottobre
2014 la Corte Costituzionale
ha dichiarato l'illegittimità
delle norme che impediscono l'accertamento giurisdizionale delle eventuali responsabilità civili di un altro
Stato nel caso di crimini di guerra e
contro l'umanità commessi nel territorio nazionale, lesivi dei diritti inviolabili della persona garantiti dagli artt.
2 e 24 della Costituzione.
Si tratta di una sentenza storica che
ripristina un corretto rapporto fra
diritto e giustizia e rigetta il pronunciamento del tribunale internazionale
de L’Aja del 3 febbraio 2012 che aveva
accolto il ricorso della Germania
contro le cause in corso in Italia per
crimini di guerra. La corte aveva
accusato l’Italia di "venire meno ai
suoi obblighi di rispetto nei confronti
dell'immunità di uno stato sovrano
come la Germania in virtù del diritto
internazionale".
La
decisione
della
Consulta è un atto chiaro
e forte contro la ragion di
Stato che governa il riconoscimento - risarcimento
morale e storico delle
vicende di circa un milione
di italiani. È giunto inaspettato, una ventata d'aria
fresca in una vicenda che
si trascina dalla fine della
guerra, ma c’è di più, perché
i suoi esiti riguardano i
nostri diritti oggi: misurano
la sovranità della giurisdizione nazionale alla luce delle convenzioni e dei
tribunali internazionali, segnano il
confine di libertà e giustizia secondo
i principi sanciti dalla nostra Costituzione.
STORIA
Deportazione e sfruttamento del
lavoro forzato furono giudicati
crimini contro l'umanità dal tribunale di Norimberga che condannò nel
1946 i principali responsabili politici,
ma non i dirigenti delle imprese tedesche che avevano accumulato enormi
profitti con il lavoro dei deportati.
Secondo gli stessi storici tedeschi gli
italiani occuparono uno dei gradini
più bassi nella scala razzialeeconomico-politica
che
regolava
il trattamento dei 14–18 milioni di
schiavi di Hitler, in gran parte deportati dall’Europa orientale nel territorio
del Reich.
Gli italiani furono gli ultimi prigionieri ad essere rimpatriati dai Lager.
Buona parte rientrò autonomamente
in condizioni pietose. Almeno 50mila
furono i deceduti nel Reich di fame,
malattie, violenze, bombardamenti.
Sconosciuto il numero di quanti morirono dopo il rimpatrio.
Rifiutando le offerte di arruolamento nell'esercito di Mussolini e
Graziani oltre 600mila Internati
Militari italiani (IMI) espressero in
massa il sentimento del Paese. La loro
vicenda riguardò altrettante famiglie e coinvolse milioni di italiani.
La scelta degli IMI fu un atto esplicito che costò loro il Lager e il lavoro
forzato e appartiene a pieno titolo alla
storia della Resistenza europea alla
guerra e al nazifascismo.
Fu una scelta maturata nei disastri
della guerra di aggressione voluta dal
fascismo, condivisa dalla monarchia
e dalle classi dirigenti sulla pelle del
Paese e di due milioni di uomini alle
armi.
Una Resistenza senz'armi, come
quella dei civili che in Italia collaborarono in varie forme con il movimento
di Liberazione, oppure prestarono
semplice assistenza a partigiani, ebrei,
ex prigionieri alleati, renitenti. Il NO
degli IMI rese esplicito il rifiuto di
una intera generazione che sfuggiva
ai bandi fascisti, nell’attesa della fine
dell'occupazione tedesca con le sue
spoliazioni e stragi, le deportazioni
di ebrei e antifascisti, lo sfruttamento economico, i rastrellamenti e le
precettazioni di forza lavoro dall’Italia di circa 100.000 civili.
Traditi dalle alte gerarchie dello
Stato e abbandonati al loro destino, gli
IMI seppero difendere la dignità della
Nazione, sacrificando la libertà personale per l'idea di una diversa umanità.
La loro esperienza è rimasta sepolta
nella memoria individuale. Da centinaia di reduci ho sentito ripetere con
mestizia e delusione che non valeva
la pena raccontare quelle vicende,
meglio dimenticare.
I RISARCIMENTI DI GUERRA
Nel dopoguerra l’elaborazione di una
memoria della storia più recente, se
non condivisa almeno cosciente, fu
pregiudicata da profonde divisioni
ideologiche e opportunità
politiche.
L'occupazione
alleata,
la guerra fredda e le divisioni tra i partiti determinarono il racconto storico
della guerra italiana, la cui
Memoria fu frutto di accordi fra diplomazie e all'interno dello scontro politico
nazionale. Le corresponsabilità del regio esercito
in Slovenia e nei Balcani a
danno dei civili divennero
una merce di scambio e furono occultate come i fascicoli riguardanti le stragi e i crimini commessi
dalla Wehrmacht nell'Italia occupata.
Ne fecero le spese anche i reduci dalla
Germania che ricordavano precise responsabilità. Deportazione e sfruttamento coatto e Resistenza vennero
consegnate all'oblio, estranee alla storiografia e rimosse dalla coscienza
storica del Paese.
Con il Trattato di pace del 1947 ai
cittadini italiani fu esplicitamente
garantito il futuro risarcimento dei
danni in base agli accordi che gli
alleati avrebbero concordato con la
Germania. Nel frattempo il governo
italiano rinunciò, nei confronti e a
favore degli alleati, di chiedere i danni
alla Germania occupata. In verità tra
il 1953-54, con l’accordo di Londra sui
debiti del Reich e con il Trattato di
Parigi e Bonn (Deutschlandvertrag–
Überletungsvertrag ) la Repubblica
Federale assunse l’obbligo di risarcire
anche il lavoro forzato dei cittadini
italiani, ma soltanto dopo la riunificazione tedesca. Con gli accordi di Bonn
del 1961, in attesa della riunificazione,
si decise di garantire alle vittime
della persecuzione razziale un primo
indennizzo, conservando comunque
i diritti al risarcimento, con l’obbligo
dell’Italia di ratificare l’accordo di
Londra, avvenuto nel 1966.
LA FONDAZIONE TEDESCA
“MEMORIA, RESPONSABILITÀ,
FUTURO”
Nel 2000, undici anni dopo la caduta
del Muro, la legge tedesca per il risarcimento del lavoro forzato ha riaperto
una ferita mai rimarginata per gli oltre
100.000 ex deportati ancora viventi in
Italia.
Promulgata per tamponare i
processi promossi dalle organizzazioni ebraiche americane contro le
imprese tedesche, la legge ha istituito
la Fondazione “Memoria, Responsabilità, Futuro”, incaricata di risarcire
le vittime del lavoro forzato con un
fondo stanziato dal Parlamento tedesco, dai Länder e dalle imprese.
La legge tedesca è nata nell'ambito
del rapporto fra Stati Uniti, Germania e Israele, per sanare le ultime
“pendenze" della guerra. Appartengono a questo capitolo la questione dei
fondi assicurativi e dei depositi svizzeri, la commissione Anselmi in Italia
per i beni ebraici, la regolamentazione
dell’accesso agli archivi tedeschi, oltre
alla decisione di indire un Giorno
internazionale della Memoria.
La legge tedesca ha risarcito deportati politici e razziali e in gran numero
i civili rastrellati nell’est Europa, oggi
cittadini delle repubbliche nate dopo
la dissoluzione dell'Urss.
La Fondazione “Memoria, Responsabilità, Futuro”, ha escluso i
militari italiani dal risarcimento dopo
il parere, senza appello, del professor
Tomuschat, docente di diritto internazionale nominato dal ministero delle
Finanze tedesco.
Gli italiani sono stati esclusi in
quanto considerati "prigionieri di
guerra",
uno
status che non
corrisponde
a
quello assegnato
loro da Hitler di
“Internati militari”.
Privati
della protezione
della Croce Rossa
e dei benefici
della
Convenzione di Ginevra
furono
infatti
prigionieri senza
diritti, sottoposti
a comportamenti
arbitrari
come
documentano
gli stessi storici
tedeschi.
Verso la causa degli italiani la
Fondazione si è mostrata irremovibile, non accettando nemmeno di
discutere casi limite come quello di
Kahla, che impiegò circa 15.000 lavoratori forzati, fra i quali 2.000–2.500
italiani, in gran parte civili rastrellati. 6.000 furono i morti senza nome
sepolti in una fossa comune. 450
gli italiani di cui venne registrato il
decesso.
A fronte della decisione “arbitraria” della Fondazione, lo Stato
italiano nulla ha fatto per difendere
i suoi cittadini. La causa dei militari e dei civili deportati dall'Italia
è stata “consegnata” alla selezione
naturale. La questione, di competenza del Ministero degli Esteri è
divenuta una pratica dei rapporti
bilaterali, più che altro una grana.
Sarebbe costata poco una soluzione
politica quando molti erano ancora
viventi e a questo abbiamo cercato
di lavorare con Ricciotti Lazzero,
Claudio Sommaruga e altri reduci,
con le loro associazioni, con pochi
compagni e amici dal 2000, quando
chiedemmo: una iniziativa ufficiale
dei due presidenti della Repubblica
in un cimitero tedesco dove ancora
giacciono gli italiani; un risarcimento economico; l’accesso facilitato
agli archivi tedeschi, ma soprattutto
le scuse della Germania a queste
vittime dimenticate. Il nostro Parlamento se l'è cavata con pochi soldi
e una legge sulla medaglia d'onore,
concessa dal 2009 a chi ne fa richiesta documentata. L’unico valore reale
dell’onorificenza è che riporta finalmente un nome e un cognome.
25
LA CAMPAGNA PER IL
RISARCIMENTO
Nonostante le delusioni e la scomparsa
progressiva dei protagonisti, negli
ultimi quindici anni la battaglia civile
e storica per un risarcimento-riconoscimento delle vicende degli schiavi
di Hitler ha preso corpo e stimolato
fortemente il desiderio di rompere il
muro del silenzio che ha circondato
queste vicende.
Hanno contribuito a questo fatto
i nuovi strumenti di comunicazione
che hanno unito realtà molto separate, ma soprattutto un desiderio di
riscatto pubblico, al di là del risarcimento, che ha mobilitato una parte
dei reduci. Questi uomini alla fine
della vita hanno sentito il bisogno di
trasmettere la loro esperienza alle
nuove generazione nel contesto della
maggiore sensibilità legata alle celebrazioni del Giorno della Memoria.
È stato un fiorire di racconti, spesso
dolorosi e ri-scoperte di diari, corrispondenze, documenti e immagini su
queste vicende oggetto di rimozione
storica e mancata giustizia.
Quello fra giustizia e storiografia è
un legame stretto e l'esclusione degli
italiani dal risarcimento, ha avuto
un effetto ulteriore. La Fondazione
“Memoria, Responsabilità, Futuro”,
esaurito il compito di provvedere alla
distribuzione dei fondi, ha cancellato
gli italiani anche dalla Memoria degli
“Zwangsarbeiter” non dedicando loro
progetti di ricerca storica.
LE CAUSE GIUDIZIARIE
A partire dal 1998 alcuni reduci hanno
avviato cause giudiziarie individuali.
26
Memoria
Nel 2004 la Cassazione ha giudicato legittima la causa civile
di Luigi Ferrini, patrocinata davanti al tribunale di Arezzo
dall'avvocato Joaquim Lau e nel 2008, ha riaffermato la
competenza dei giudici italiani e l’obbligo di pagamento di
un risarcimento ai familiari delle vittime della strage nazista del 29 giugno 1944 a Civitella e altre frazioni di Cortona
(Arezzo) in cui vennero uccisi 203 civili, in gran parte
donne e bambini.
I pronunciamenti della Cassazione e la cinquantina di
cause aperte in Italia da parte di ex deportati e per stragi
hanno messo gravemente in difficoltà la Germania e mobilitato le diplomazie.
La Repubblica Federale ha deciso, insieme al governo
italiano, di ricorrere al Tribunale Internazionale de L'Aja
rivendicando l’immunità degli stati riconosciuta dal diritto
consuetudinario internazionale.
Il governo italiano ha deciso di accettare la competenza della Corte Internazionale senza chiedere nello
stesso momento l’accettazione della competenza per la sua
domanda riconvenzionale.
La Corte de L’Aja il 2 febbraio 2012 accettava il ricorso
della Germania, ordinando “all'Italia di prendere tutte
le misure necessarie affinché le decisioni della giustizia
italiana che contravvengono alla sua immunità siano prive
d'effetto e che i suoi tribunali non pronunzino più sentenze
su simili casi".
In pochi in Italia abbiamo reagito a questo pronunciamento, condannato da Amnesty International.
Nel contempo però il Tribunale dell'Aja ha ritenuto che
“le richieste originate dal trattamento degli internati militari italiani, insieme a altre richieste di cittadini italiani
finora non regolate, possano essere oggetto di un ulteriore
negoziato tra gli stati convenuti".
L’ulteriore negoziato, destinato a chiudere definitivamente la questione, trasferendola dal piano politico
–economico-giudiziario a quello storico, ha portato ad una
commissione mista italo–tedesca che ha prodotto il documento consultabile al sito: http://www.villavigoni.it/
page.php?sez_id=11&pag_id=45&ed_kind=2&lang_
id=1, oltre all’avvio di alcuni progetti di ricerca storica.
Il Parlamento italiano con la legge n. 5 del 2013 ratificava la decisione de L’Aja nel contesto della “Adesione alla
Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni” che all’art. 3 dispone
l’espressa esclusione della giurisdizione italiana per i
crimini di guerra commessi dal terzo Reich anche per i
procedimenti in corso.
Con la decisione del Parlamento italiano la questione
della giustizia per gli schiavi di Hitler veniva sepolta sotto
una pietra tombale, come avrebbe detto Ricciotti Lazzero,
ma non era ancora finita.
Si deve alla costanza, coraggio e capacità professionali
dell’avvocato Lau se le sue obiezioni alla legge che bloccava
i processi sono state recepite dal tribunale di Firenze che si
è rivolto alla Consulta. La sentenza “storica” del 22 ottobre
2014 della Corte Costituzionale avrà un immediato effetto
sulle cause giudiziarie bloccate dalla legge del Parlamento
italiano. Alcune diventano esecutive, altre riprendono il
loro iter ed è presumibile l'avvio di nuovi procedimenti.
Il pronunciamento riapre anche la spinosa questione di
Villa Vigoni di Menaggio (Como), centro culturale tedesco in Italia, posta sotto ipoteca giudiziaria in una causa
che riguarda la strage perpetrata dall'esercito tedesco
a Distomo in Grecia. La sentenza della Consulta è stata
coraggiosa, nonostante forti pressioni politiche. La sopravvivenza di questa vicenda nell’ambito dei rapporti fra i due
Paesi è un peso e la questione è ancora lungi dall’essere
conclusa. Vedremo quale sarà la reazione dei governi.
Le cause adesso ripartono con gli eredi. Una soluzione
politica è solo auspicabile, ma non sembra perseguita. Irrealistico pensarci tanto appare fuori dalle logiche di tutti i
governi italiani, che si sono occupati (o dovuti occupare)
di questa vicenda, che se ne sono sempre lavati le mani. La
Germania è irremovibile, ma voglio poter anche credere
che la questione sia arrivata a un punto per cui costa di
più tenerla in piedi che chiuderla. Chissà? In Grecia l’argomento dei risarcimenti è un tema del dibattito pubblico e
della campagna elettorale. Mi preme in conclusione cercare
di tornare alla decisione della Corte Costituzionale per i
suoi effetti sul nostro presente.
Dichiarando che le norme del Tribunale Internazionale
dell’Onu approvate dal Parlamento sono lesive dei diritti
riconosciuti dalla nostra, Costituzione la Corte si pronuncia sullo svuotamento della carta costituzionale quanto
su diritti individuali, principi di sovranità, convenzioni e
Tribunali Internazionali, immunità degli Stati, giustizia e
politica della Memoria, cristallizzata il 27 gennaio di ogni
anno. Sono tutti temi dell’oggi che non riguardano solo i
familiari dei reduci, avvocati, giudici e pochi altri, ma sollecitano un’ampia riflessione e partecipazione pubblica.
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Cultura
“Diplomacy” ricostruisce le ore in cui la capitale francese rischiò di essere rasa al suolo
Una notte per salvare Parigi
P
arigi agosto 1944. La città è sotto l'assedio dei nazisti e contemporaneamente le truppe alleate stanno organizzando diversi sbarchi. Il primo agosto la Seconda Divisione
dell'esercito francese sbarca in Normandia e il 15 l'esercito franco-americano
approda in Provenza. Il 19 prendono il via i primi movimenti insurrezionalisti, il 20 il generale Pètain lascia Vichy e presso il consolato svedese iniziano i negoziati con la Resistenza.
Il 21 il generale Leclerc, comandante della Divisione Corazzata, manda un distaccamento a
Parigi. Nel frattempo continuano i combattimenti in strada con la Resistenza francese che
costruisce barricate in tutta la città. Il 23 agosto Hitler ordina di distruggere Parigi. Berlino
era stata rasa al suolo e il Führer aveva ordinato che anche Parigi subisse la stessa sorte in
caso di resa da parte dell'esercito tedesco. I ponti e i più importanti monumenti, tra i quali
il Louvre e l'Opera, sono già minati. A capo dell'esercito tedesco c'è il generale Dietrich von
Choltitz, un soldato che si era formato nella scuola dei cadetti di Dresda e che si era distinto
durante la Prima Guerra Mondiale e nelle campagne di Polonia e di Francia nella Seconda. È
uno dei pochi generali a non aver partecipato all'attentato contro Hitler, il 20 luglio del '44,
e proprio per questa ragione è mandato a comandare le forze tedesche a Parigi. La Svezia,
che è un paese neutrale, manda il suo console per fare da intermediario tra tedeschi e alleati. Il console svedese è Raoul Nordling, nato a Parigi da padre svedese e madre francese.
Il diplomatico e il generale si incontrano più volte durante quei giorni infuocati fino al 26
agosto quando il popolo acclamerà il generale De Gaulle. Da questi fatti realmente accaduti
parte Diplomacy, il bel film di Volker Schondorff, tratto dall'opera teatrale Diplomatie di
Cyril Gely, che affronta un possibile dialogo tra un generale fedele al suo ruolo, interpretato da Niels Arestrup, e un diplomatico, Andre Dussollier, che non crede nella guerra e deve
convincere il suo avversario a non rispettare gli ordini di un folle. Tutto il film si svolge in
una notte, tra il 24 e il 25
agosto del 1944, durante la quale von Choltitz e
Nordling sono impegnati in una dura battaglia
l’uno contro l'altro. Alla
fine il buon senso prevarrà e Parigi con i suoi abitanti sarà salvata. Il film
è stato presentato all’ul
timo Festival di Berlino.
cercando di capire lo stato d’animo del
generale tedesco. Poi ci sono elementi
che sono una pura invenzione. Ho
preferito alleggerire i toni e svincolarmi dalla fedeltà ai fatti. Inoltre, al
contrario che in teatro, sullo schermo
è necessario un punto di vista, sapere
chi sta raccontando la storia e il motivo
per cui la sta raccontando. In questo
caso poteva farlo solo il Console.
Ecco perché il film inizia con una sua
passeggiata di notte per le strade di
Parigi, ossessionato dalle immagini
della distruzione di Varsavia e torturato da una domanda assillante: come
convincere il generale a evitare di far
eseguire l'ordine di distruzione firmato
da Hitler il giorno prima. Se Parigi
è in pericolo, tutto è lecito. Andrè
Dussolier, il Console, racconta di aver
trovato particolarmente interessante
affrontare un capitolo relativamente
sconosciuto della Storia. “Parigi era a
un soffio di distanza dal disastro assoluto. Cyril Gely e Volker Schlöndorff
sono riusciti a raccontare l’importanza della coscienza degli uomini e la
loro capacità di confrontarsi tra loro,
trascendendo se stessi – per impersonare il loro paese e la loro gente. E lo
fanno oltrepassando entrambi i limiti”.
Mentre Niels Arenstrup, il Generale,
dice che è stato attratto dal progetto
poiché l'intensa suspense di questa
storia che, nonostante si basi su una
situazione che è nota a tutti e cioè che
Parigi non è stata distrutta, suscita
l'ansia nello spettatore.
Chiediamo al regista "cosa l'ha attirato in questo progetto"?
La guerra crea situazioni estreme tirando fuori ciò che c'è di meglio e di peggio
negli uomini. Oggi un conflitto franco-tedesco sarebbe impensabile ma, se Parigi
fosse stata rasa al suolo, i legami tra le due nazioni sarebbero molto diversi.
Diplomacy racconta una storia non
troppo nota e il film fa trattenere il
respiro per capire come si concluderanno i negoziati e se si giungerà ad un
accordo. Parigi fu salva e il generale fu
arrestato ma poi gli americani lo liberarono nel 1947, solo due anni dopo
la fine della guerra. Avrebbe potuto
fornire preziose informazioni agli alleati, ma è improbabile che la clemenza
nei suoi confronti, possa essere dovuta
al fatto di aver salvato Parigi. Durante
gli anni dopo la guerra, non parlò mai
della sua inaspettata liberazione e morì
a Baden Baden nel 1966. Nordling, oltre
a salvare Parigi, ottenne la liberazione
di tremila prigionieri. Fu decorato con
la Legione d’Onore e morì a Parigi nel
’62. (e.v.)
Questo incontro che lei racconta nel film è andato veramente così?
È certificato che Nordling e Von Choltitz s’incontrarono più volte per negoziare
uno scambio di prigionieri e anche per una sorta di cessate il fuoco.
Dove finisce la realtà e dove inizia la fiction?
La fiction gioca un ruolo fondamentale nel film, ed è ciò che m’interessava di più.
Alcuni fatti sono realmente accaduti e Cyril Gely, l’autore del testo teatrale, li ha
usati come punto di partenza: i due uomini si conoscevano realmente e avevano
parlato del destino di Parigi. Ecco perché gli Alleati avevano utilizzato il Console
come tramite con von Choltitz, chiedendogli di recapitargli una lettera, probabilmente scritta dal generale Leclerc, che conteneva una proposta per il Generale di
abbandonare la città e liberarla senza distruggerla.
Come mostrato nel film, il Generale Von Choltitz probabilmente respinse l'ultimatum. Abbiamo strutturato la narrazione partendo da alcuni fatti storici e
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Cultura
ANTIFASCISMO D’OLTRE MARE:
L’OPPOSIZIONE TUNISINA AL REGIME
di FABIO ECCA
Cultura
Interessante convegno nella sede del Palazzaccio a Roma sulle nefandezze mussoliniane
IL TRIBUNALE SPECIALE CONDANNÒ A MORTE 42 NEMICI DEL REGIME
Presenti due vittime delle “fascistissime “ leggi oltre a eminenti giuristi – Il messaggio del presidente dell’Anppia, Guido
Albertelli. Tra gli imputati Terracini, Pertini, Altiero Spinelli
di PAOLO BROGI
L
a storiografia sull’antifascismo italiano risente del
diffuso luogo comune che vede gli italiani residenti
nelle colonie schierati, per convinzione politica o
per convenienza, dalla parte del fascismo. Si tratta per l’appunto di un topos, frutto per lo più della mancanza di
ricerche e studi sul tema, che ha influenzato buona parte
dell’opinione pubblica. Gli studi sull’opposizione al regime
mussoliniano si sono infatti per lo più concentrati sulle
importanti esperienze realizzate nella Penisola, sulle
modalità e gli strumenti di repressione qui operanti e, al
massimo, sul fenomeno dell’emigrazione politica. Sono
poco numerose le ricerche sui vari Tribunali Speciali coloniali, sulle deportazioni e persecuzioni subite sotto il
fascismo dalle popolazioni locali che si opponevano al controllo del
regime e, più in generale, sulle esperienze di
contrasto al fascismo.
Il movimento antifascista non limitava la
propria
azione
ai
confini nazionali e così,
allo stesso modo, lo
studio di questo fenomeno non può più
essere orientato ai soli
avvenimenti nazionali,
seppur questi siano
fondamentali
per
capire la complessità
dell’opposizione antifascista e la repressione.
È per questo che
l’ANPPIA ha deciso di
sostenere e contribuire alla pubblicazione
del volume di Leila El
Houssi “L’urlo contro
il regime. Gli antifascisti italiani in Tunisia
tra le due guerre”, edito
da Carocci nel novembre 2014. Il libro vuole
affrontare per la prima
volta in modo organico il tema dell’antifascismo italiano
operante in Tunisia tra il 1919 e il 1939 e agisce quindi
con rigore scientifico contro il pregiudizio diffuso nell’opinione pubblica che tutta la collettività italiana presente
nel Paese nord-africano sia stata schierata totalmente
col regime fascista. In realtà, contro la dittatura mussoliniana operava un’articolata e composita opposizione
composta da esponenti dell’élite borghese, da militanti
del movimento anarchico, da numerosi membri socialisti,
comunisti e appartenenti a Giustizia e Libertà. Si riesce in
questa maniera a ricostruire per la prima volta quello che
la stessa autrice definisce un prezioso e «dinamico laboratorio politico» in cui opera sia la sezione tunisina della
Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo sia il Partito Comunista d’Italia, che stringerà un rapporto sempre più stretto e
privilegiato tra i suoi esponenti e quelli tunisini. Non a caso
sarà proprio in Tunisia che agiranno a sostegno dell’opposizione antifascista italiana locale personaggi come Velio
Spano e Giorgio Amendola, inviati dal Centro estero comunista per dare un respiro internazionale al movimento
antifascista di Tunisia,
o Giuseppe Di Vittorio e Alberto Cianca in
qualità di esponenti di
spicco della LIDU.
Attraverso
la
consultazione
della
documentazione
conservata presso gli
archivi tunisini, quelli
italiani e quelli francesi e con l’analisi della
stampa e della memorialistica del tempo,
Leila El Houssi riesce
in questa maniera a
ricostruire le vicende
di questo significativo
nucleo antifascista la
cui sola presenza e attività offre nuovi fronti
di ricerca. L’espandersi
dell’ideologia
fascista non trova quindi
terreno fertile in tutti
gli italiani di Tunisia dove invece nasce
un’opposizione sempre
più agguerrita e organizzata, strettamente
legata all’Italia sia per
la presenza di discendenti dei Grana, una famiglia di storici esponenti dell’élite
livornese, sia per i costanti contatti con l’opposizione sarda
e nazionale. Grazie all’ANPPIA, si è voluto quindi sostenere una pubblicazione che supera i confini territoriali e
culturali nazionali della storia dell’antifascismo per aprire
e incoraggiare nuove prospettive per lo studio dell’opposizione al regime mussoliniano.
I
l Tribunale Speciale fascista,
braccio armato del regime mussoliniano ha erogato 42 condanne a
morte di avversari politici. Sul tema è
stato organizzato un convegno a
Roma. Sono tornati in quell'aula sorda
e grigia dentro il Palazzaccio, per
ricordare le loro condanne, due dei
destinatari delle 4.600 condanne
emesse in 17 anni di attività dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato,
tra il 1926 e il 1943. Garibaldo Benifei,
perseguitato politico e Ljubomir Susic
antifascista triestino, sono stati infatti
i testimoni d'eccezione di questo
convegno, tenutosi dentro la sede della
Cassazione, per ripercorrere l’attività
nefasta dell'organo giudiziario con cui
il regime mussoliniano amministrò la
dura repressione contro gli antifascisti comminando condanne per
27.235 anni complessivi. È la prima
volta che in quell'aula, dove si pronunciarono anche 42 condanne a morte, si
torna a discutere di quell'obbrobrio
giuridico con cui fu regolata la repressione nei confronti degli antifascisti.
Attualmente l'aula serve infatti come
sede del Consiglio dell'Ordine degli
Avvocati di Roma. Alle 15, dopo i
saluti di Giorgio Santacroce, primo
Presidente della Corte di Cassazione,
e di Guido Albertelli presidente
dell'ANPPIA nazionale, sono intervenuti giuristi del calibro di Guido
Neppi Modona, Giovanni de Roberto,
Carlo Brusco, Claudio Longhitano e il
Presidente dell'ANPI Carlo Smuraglia,
oltre ai due ex condannati Benifei (che
ha 102 anni) e Susic.
Sotto accusa la legge del 1926 per i
“Provvedimenti in difesa dello Stato”
che istituì l'inedito organo speciale
in palese contrasto con l'articolo 71
dello Statuto che vietava la creazione
di tribunali straordinari. Con la stessa
legge fu anche reintrodotta la pena di
morte che era stata abolita nel 1889 nel
Codice Zanardelli. E tutto questo fu in
seguito trasfuso nel codice Rocco del
1930. L'adozione di questo strumento
di repressione scattò a coronamento
del varo dell'insieme di leggi liberticide chiamate anche “fascistissime”.
IL MESSAGGIO DEL PRESIDENTE
DELL'ANPPIA GUIDO ALBERTELLI
Il Convegno che si è tenuto presso la Corte di Cassazione di Roma, è stato
per noi dell'ANPPIA un successo. La sala era piena ed erano presenti molti
magistrati, avvocati, studiosi di giurisprudenza, ragazzi delle scuole. Il Primo
Presidente della Corte di Cassazione, Santacroce, dopo un breve saluto molto
conciso ed efficace, e ha letto un messaggio del Presidente della Repubblica i
lavori sono proseguiti con le relazioni dei Magistrati ed esperti presenti, i quali
hanno approfondito l'intero scenario costitutivo del Tribunale Speciale e le sue
crudeli applicazioni.
Come Presidente dell'ANPPIA ho ringraziato la Corte per aver accolto questo
invito per una giornata simbolica in quanto il Convegno si è tenuto nella stessa
aula dove si svolgevano le udienze contro gli antifascisti. Le testimonianze di
due persone sono state molto commoventi e significative: quelle di Garibaldo
Benifei e Ljubumir Susic, Presidenti Onorari dell'ANPPIA e condannati in questa
stessa aula più di settant'anni fa. Per la prima volta sono tornati, da uomini liberi,
laddove avevano subito l'ingiuria e l'ingiustizia di una condanna.
L'ANPPIA Nazionale ha chiuso il convegno dichiarando la sua vicinanza alla
Magistratura, nella difesa della sua autonomia, fattore indispensabile per uno
Stato democratico.
Il Tribunale Speciale si doveva occupare di reati contro la sicurezza dello
Stato e del regime: costituito da magistrati e da fedelissimi del regime, perlopiù appartenenti alla Milizia. Una
linea telefonica diretta collegava la
Camera di Consiglio con l'ufficio di
Mussolini a Piazza Venezia. Durante
il regime fascista il Tribunale Speciale
ebbe il potere di diffidare, ammonire
e condannare gli imputati politici ritenuti pericolosi per l'ordine pubblico e la sicurezza del regime stesso.
Il Tribunale Speciale operava secondo
le norme del codice penale per l'Esercito sulla procedura penale del tempo
di guerra. Contro le sue sentenze non
era possibile alcun ricorso o altra impugnazione.
Tra le sue vittime ricordiamo
Antonio Gramsci, Umberto Terracini,
Sandro Pertini, Altiero Spinelli,
Ernesto Rossi, Leone Ginzburg. Dopo
la caduta del fascismo il Tribunale fu
trasferito al nord e ricostituito sotto la
Repubblica Sociale.
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LIVORNO
CONSIGLIO NAZIONALE DELL'ANPPIA
Roma, Casa San Bernardo - 21/22/23 novembre 2014
Si è svolto nei giorni 21/22/23 novembre a Roma, presso la Casa San Bernardo il Consiglio Nazionale dell'ANPPIA.
Numerosa è stata la partecipazione dei delegati delle varie Federazioni territoriali. Sono stati affrontati e discussi i temi
che riguardano la vita e l'organizzazione dell'Associazione. Al termine di un approfondito dibattito è stato votato il
documento di seguito riportato.
Il Consiglio Nazionale riunito a Roma esprime grande preoccupazione per la crescita dei movimenti populisti e di estrema
Destra, in Italia e in Europa. In particolare desta inquietudine il palese tentativo da parte di movimenti, parlamentari e non,
di strumentalizzare il disagio di chi vive maggiormente gli effetti della pesante crisi economica che ancora attanaglia il Paese,
con le aggressioni agli immigrati identificati come responsabili del degrado e delle difficoltà.
Nel 2015, quindi, anno del 70° della Liberazione e del successivo svolgimento del XVIII Congresso nazionale dell'Associazione, compito dell'Anppia è quello di rinvigorire a tutti i livelli la sua azione culturale e politica, dando un quadro unitario alle
nostre attività in difesa dei valori di democrazia, rispetto della dignità umana, difesa dei lavoratori ed eguaglianza, mostrando
soprattutto alle giovani generazioni come essi siano specie in un'epoca di profonda crisi economica e culturale, non eredità del
passato ma patrimonio positivo per costruire il Futuro.
Giungiamo a questi appuntamenti con un'Associazione viva e attiva grazie anche e soprattutto all'impegno profuso dal
Presidente e dal Segretario Generale (che auspichiamo possano continuare il loro proficuo apporto) e con qualche incertezza
legata soprattutto allo status giuridico dell'Associazione oggi interessata dalla legge di riforma del Terzo Settore. In considerazione di quest'ultimo fatto ci sembra che la proposta di modifica del nome vada sospesa ed approfondita anche in relazione
all'evoluzione e agli sviluppi del progetto di riforma.
I settori sui quali riteniamo utile concentrare la nostra attività e il nostro impegno sono:
- Il rafforzamento dell'attività con le scuole e con gli insegnanti, creando un'apposita e funzionante commissione scuola, e lavorando a collaborazioni con altri soggetti e/o apposite convenzioni con il MIUR,
- L'apertura di una riflessione approfondita sull'uso dei social media e dei nuovi canali di comunicazione on line,
che tanto abilmente sono utilizzati dai movimenti di estrema destra, per entrare in contatto con i giovani,
-L'implementazione dei contenuti del nuovo sito e delle molteplici potenzialità in esso contenuti; la valorizzazione del nostro giornale L'Antifascista così profondamente e ben rinnovato dal nuovo Direttore Luigi Morrone,
- L'intensificazione della rete e delle relazioni tra Federazioni e tra Federazioni e Nazionale anche allo scopo di
dare, pur nella necessaria e legittima autonomia, unitarietà alla nostra azione.
- L'inizio di un percorso di ricerca e partecipazione ai bandi progettuali europei, nazionali, regionali e locali
volti a cercare finanziamenti ad hoc per iniziative dell'associazione.
Il Consiglio Nazionale assume e fa propri gli ordini del giorno approvati e che fanno parte integrante del presente documento.
Cardini all’Anppia di Livorno: Medio-Oriente in fiamme, ecco perché
A Villa Mimbelli nella splendida cornice
della Sala degli Specchi ha avuto luogo il
giorno 21 ottobre alle ore 16,30 la conferenza del prof. Franco Cardini: “ Il mediterraneo: mare di pace, di immigrazione,
di guerre. “
“ Tutta colpa di Versailles” -dice il prof.
Cardini, ospite dell’Anppia di Livorno per
una lectio magistralis sulla storia e la situazione geopolitica del Mediterraneo- l’origine dei mutamenti in atto nel vicino
Medio-Oriente è da ricercarsi nei trattati del 1919 che sancirono la fine della
Grande Guerra".
Introdotto dalla testimonianza del presidente onorario Anppia Garibaldo Benifei e presentato da Lorenzo Bacci,
Cardini è partito subito all’attacco. “Versailles non fu solo l’occasione per punire
la Germania - dice - fu lì che i vincitori
si spartirono a tavolino il mondo arabo,
lì furono avviati i meccanismi che oggi
producono le “ primavere” e perpetuano
le guerre.”
È stato solo il primo dei “pugni” nello
stomaco all’auditorio che Cardini ama
sferrare. Non sono mancate le invettive contro le grandi democrazie (ce n’è
stato per Obama e Hollande), che avrebbero alimentato il “conflitto di civiltà”,
né contro gli occidentali tutti colpevoli,
dice, di un passivo disinteresse.
“Siamo seduti su una polveriera che abbiamo riempito noi, - conclude- la Storia
ce ne da consapevolezza, può indicarci
la soluzione”. Già autore di una “Storia
di Livorno”, ed amico di lunga durata
dell’ammiraglio Mimbelli , di Borzacchini
e del rabbino Toaff, Cardini è stato a lungo
considerato un uomo di destra, ma rifiutando questa etichetta , rivendica il valore della
“movimentazione a prescindere dall’appartenenza”.
“In Italia oggi manca lo stimolo alla discussione politica, mi chiedo cosa sarebbe in
grado di fare lo stesso Togliatti con un po-
polo senza coscienza sociale“.
Alla fine i vertici dell’Anppia hanno annunciato ai numerosi presenti che l’Associazione sarà a Roma il 25 novembre alla
manifestazione per la reinstallazione della
famigerata “Aula IV” del Tribunale Speciale
Fascista, in cui lo stesso Benifei, uno degli
ultimi sopravvissuti, fu processato.
Da sinistra: Renzo Bacci, Prof. Franco Cardini, Spartaco Geppetti e Garibaldo Benifei a Livorno durante il convegno
TERNI
L’Anppia di Terni ricorda Giacomo Matteotti, eroe dell’antifascismo
L'Anpi e l'Anppia di Terni hanno organizzato, presso il "Palazzo Primavera", il 29 novembre
2014, il convegno su: “La figura di Matteotti, libertà e democrazia"
Ricordare Matteotti, a novanta anni dal suo assassinio, serve a far comprendere alle nuove
generazioni come libertà e democrazia non siano conquiste di un momento e come per essere difese, vadano alimentate giorno per giorno perché esposte di continuo a frequenti e
sotterranee minacce.
È dalla scuola che bisogna partire per creare coscienze critiche e una cultura che sia la base
del vivere civile, come ha sottolineato il professor Alberto Picciponi, presidente dell’Anppia.
L’iniziativa ha avuto e meritato un significativo successo sia di pubblico che per l’elevato
valore degli interventi. Un eroe dell’antifascismo non poteva essere ricordato meglio dai
ternani e da coloro che hanno a cuore i valori inestinguibili di libertà e democrazia.
SOTTOSCRIZIONI:
In memoria:
del padre CELSO GHINI,
della madre LUISA DESKOVICH
e di OMERO GHINI,
500 Euro per il giornale
da SERGIO GHINI
L'editoriale
segue dalla prima pagina
scelta: arruolarsi nell'esercito nazista
ed emigrare in terre occupate dalla
Germania o restare e non parlare più il
tedesco, dimenticare le proprie tradizioni e usanze. Alcuni giovani sceglieranno una via, taluni l'altra. Per tutti il
destino sarà duro, crudele, assurdo. La
tragica sorte imposta da una guerra
fratricida, inutile, cattiva e devastante
che tradirà i sogni di Hella, del suo
fidanzato, dei loro parenti e di tanti
altri giovani colpevoli solo di essere
nati nel posto sbagliato nel momento
sbagliato. La Gruber racconta senza
compiacimenti e senza pregiudizi una
storia difficile non ancora metabolizzata, un pezzo di storia d'Italia con la
quale il Paese stesso non ha ancora del
tutto chiuso i conti. “Tempesta” è un
viaggio nella memoria dove la finzione
si mischia a vicende vere, a testimonianze di persone anziane che hanno
vissuto quel periodo buio, a lettere
rimaste nascoste per anni in soffitte
polverose. Alla fine il romanzo è un
lungo viaggio che mette in luce un
popolo che ha subito troppo soltanto
per la posizione geografica e strategica
in cui si trovava. Un popolo onesto di
gente semplice, di contadini che
amavano la propria terra, di persone
costrette a dividersi per cause superiori e forse a loro incomprensibili. Un
popolo che ha pagato care colpe non
proprie. Un popolo che pensava di
poter realizzare i propri normali
sogni, cioè quelli di vivere accanto al
proprio amore e di essere liberi a casa
propria, sulle loro montagne nei loro
masi. Un popolo che ha dovuto sacrificare troppe giovani vite.
Incontriamo Lilli Gruber che è
gentile e disponibile nonostante i
tantissimi impegni, che vanno dal
ritorno in televisione alla promozione
del libro.
Un lungo lavoro di due anni tra
scrittura, ricerche e interviste.
Come è andata?
Ha assorbito molto tempo e molte
energie. Scrivere “Eredità”, il primo
libro sulla storia della mia famiglia,
non era stata certo una passeggiata
ma con “Tempesta” mi sono impegnata come mai prima anche sulla
costruzione della trama di fiction,
dei personaggi… È stato un po’ come
scrivere due libri in uno, saggio e
romanzo. Ma la risposta dei lettori,
molto calorosa, mi conferma che l’intuizione sul modo in cui questa storia
andava raccontata è stata giusta.
Il libro affronta un pezzo di storia
italiana che invece i libri di storia
hanno dimenticato? La Seconda
guerra mondiale è un pezzo di storia
europea e, appunto, mondiale così
complesso e tragico che non si possono
certo biasimare i libri di storia, né i
programmi scolastici, se “dimenticano” il Sudtirolo. Credo però che il
compito della buona divulgazione, e il
privilegio di una certa narrativa, sia
accompagnare il lettore in luoghi e
tempi che non conosce, per consentirgli di capire meglio quelli in cui vive. È
quello che ho cercato di fare.
Come si siano sentite allora quelle
popolazioni, si capisce molto bene
dal suo libro. Come si sentono
ora? In una terra di frontiera come
il Sudtirolo i problemi di identità non
si risolvono: si impara a conviverci.
della materia di cui si tratta. Figurarsi
quando si scrive una storia familiare.
Più che di analisi però parlerei di
scoperta e anche di emozione: aggiungere una dimensione di romanzo alla
mia scrittura, tradizionalmente più
basata sull’inchiesta, mi ha aperto una
nuova dimensione. Trovarmi a raccontare una grande storia d’amore e di
guerra, seguendo le vicissitudini vere
di Hella e quelle inventate del falsario Karl, mi ha costretta a scavare in
profondità in emozioni che sono alla
base del nostro essere umani, come
la passione e la paura, la speranza
e la disperazione. In questo senso
“Tempesta” mi ha dato molto.
l’antifascista
Mensile dell’ANPPIA
Associazione Nazionale Perseguitati
Politici Italiani Antifascisti
Direttore Responsabile:
Luigi Francesco Morrone
In Redazione:
Maurizio Galli
Non è stato facile ai tempi di cui parla
“Tempesta”: ingiustizie, violenze,
famiglie dilaniate al loro interno. Sono
ferite che non si rimarginano e l’elaborazione di questo lutto storico, per
molti motivi, non è stata all’altezza di
un compito così difficile. Così anche
oggi a volte le cicatrici bruciano: la
realtà sociale del Sudtirolo è ancora
una realtà di divisioni. E la crisi
economica non aiuta. Per fortuna
molti riescono oggi a riconciliare i due
mondi traendone una sintesi felice:
chi ha lottato per il riconoscimento
dell’autonomia ha lottato per questo.
Che cosa sarebbe giusto che l’Italia facesse oggi per il Sudtirolo?
Sono purtroppo una delle sudtirolesi
meno indicate per rispondere a questa
domanda, da molti anni non vivo
nella mia Heimat (patria, luogo d'origine ndr). Credo che l’insegnamento
della storia, di questa storia, sia che
le voci delle minoranze vanno ascoltate: sempre. Non vale certo solo per i
sudtirolesi.
Scrivere “Tempesta” è stata
una specie di analisi di là dall’aver
scoperto nuove cose della sua famiglia? Scrivere è sempre un percorso
di conoscenza: di se stessi oltre che
SEDE:
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Tel 06 6869415 Fax 06 68806431
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A QUESTO NUMERO:
Mario Artali, Giulia Bertoluzzi,
Paolo Brogi, Roberto Cenati,
Arturo Colombo, Fabio Ecca,
Saverio Ferrari, Mimmo Franzinelli,
Giorgio Galli, Maurizio Galli,
Walter Merazzi, Martina Parodi,
Filippo Senatore, Costanza Spocci,
Carlo Tognoli, Elisabetta Villaggio
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Abbonamento annuo: 15,00 euro
Sostenitore: da 20,00 euro
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a l’antifascista
Chiuso in redazione il: 8/01/2015
Finito di stampare il: 15/01/2015
Registrazione al Tribunale di
Roma n. 3925 del 13.05.1954
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