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LILLI GRUBER E HELLA PROZIA NAZISTA PER AMORE
l’antifascista fondato nel 1954 da Sandro Pertini e Umberto Terracini Periodico degli antifascisti di ieri e di oggi • anno LXI - n° 11-12 Novembre-Dicembre 2014 ESCLUSIVO: Parla la grande conduttrice televisiva autrice di “Tempesta” LILLI GRUBER E HELLA PROZIA NAZISTA PER AMORE “HO CAPITO LE SUE SCELTE ANCHE SE, OVVIAMENTE, NON LE CONDIVIDO”- IL LIBRO NARRA LE VICENDE DELLA PROPRIA FAMIGLIA E LE SOFFERENZE DEL POPOLO SUDTIROLESE DOPO LA GRANDE GUERRA Nenni di ELISABETTA VILLAGGIO P ubblicato il 22 ottobre nella collana Saggi di Rizzoli, “Tempesta” è il secondo libro di Lilli Gruber, dopo “L'Eredità”, dove la giornalista di origine sudtirolese racconta le vicende della propria famiglia durante la seconda guerra mondiale. Protagonista del romanzo è Hella, prozia dell'autrice, fidanzata con Waslt, il suo giovane innamorato che parte per la guerra al fianco dei nazisti. Entrambi credono nella vita, nell'amore, nel futuro. Sono due giovani innamorati che pensano che Hitler possa ridare dignità ad un popolo che aveva perso identità. Infatti dopo la Grande Guerra, il Sudtirolo, che apparteneva all'impero austro-ungarico, è diviso e assegnato all'Italia. Quel popolo di lingua tedesca sarà messo alla berlina dal regime fascista di Mussolini e, una volta scoppiata la seconda guerra mondiale, gli sarà data la possibilità di PIAZZA FONTANA Per quella strage, nessuno ha pagato Saverio Ferrari e Gino Morrone alle pagine 2-3 e 4 Anche quest’anno la strage è stata ricordata, per iniziativa del Comitato antifascista di cui fanno parte anche l’Anppia e la Fiap, con grande partecipazione di pubblico. All’ora dello scoppio della bomba, deposte davanti alla Banca numerose corone delle istituzioni e delle associazioni. Il consiglio comunale ha tenuto una seduta straordinaria dedicata al ricordo delle vitime. Oltre al sindaco Pisapia sono interventui rappresentanti delle varie associazioni antifasciste e i familiari delle vittime. Intanto il 22 dicembre scorso 14 neofascisti vicino a Ordine Nuovo sono stati arrestati perchè preparavano attentati a toghe e ministri.... segue in ultima pagina Poste Italiane s.p.a. - spedizione in abbonamento D.L. 353/2003 (conv.in. L. 46 del 27.02.2004) - Art.1, comma 2, DCB - Roma Alfiere della libertà di C. Tognoli a pagina 6 Parri Il Capo della Resistenza di G. Galli a pagina 10 Ardeatine Il ruolo dei fascisti di M. Franzinelli a pagina 11 Hotel Regina Macelleria fascista di R. Cenati a pagina 12 Egitto Un Paese a rischio di C.Spocci-G.Bertoluzzi a pagina 16 2 Attualità 12 dicembre 1969. Alle 16.37 una bomba sventra la Banca dell’Agricoltura di Milano: 17 morti PIAZZA FONTANA, PER LA STRAGE FASCISTA NESSUNO HA MAI PAGATO CON QUESTO ATTENTATO TERRORISTICO HA INIZIO LA STRATEGIA DELLA TENSIONE L’INTRECCIO TRA ESTREMA DESTRA, VERTICI MILITARI E SETTORI DELLE CLASSI DIRIGENTI DI FRONTE AL “PERICOLO COMUNISTA” di SAVERIO FERRARI chiamato a sancire l’alleanza governativa. La prova di forza terrorizzò letteralmente le destre. Da allora l’avvio di una strategia eversiva messa a punto dalle forze più retrive e reazionarie in un intreccio tra neofascisti, vertici militari e settori delle classi dirigenti. A parlare di "Strategia della tensione" fu anni dopo un giornalista inglese dell’«Observer», Leslie Finer, che nei giorni seguenti le bombe del 12 dicembre 1969, cercando di spiegare ai propri lettori in Inghilterra quanto stava accadendo in Italia coniò per la prima volta il termine. DA PICCHIATORI A TERRORISTI La Banca dell’Agricoltura la sera dell’attentato L a strage di piazza Fontana si consumò alle 16.37 del 12 dicembre 1969, un venerdì, all’interno del salone centrale della Banca Nazionale dell’Agricoltura, dove venne innescato un ordigno ad alto potenziale. Si contarono immediatamente 14 morti e 87 feriti. I decessi saliranno a 16 entro il 2 gennaio. Diciassette furono alla fine le vittime. Milano, nel pieno delle mobilitazioni operaie e studentesche non fu scelta a caso. Ma forse fu un caso che lì si compisse la prima di una lunga catena di stragi. Il 15 aprile a Padova, una bomba aveva devastato il rettorato dell’università, il 25 dello stesso mese, a Milano, venti persone erano rimaste ferite alla Fiera Campionaria da un’esplosione all’interno dello stand della Fiat. Una seconda bomba era deflagrata alla stazione Centrale, all'ufficio cambi della Banca Nazionale delle Comunicazioni, per fortuna procurando solo danni. Il 12 maggio successivo tre ordigni erano stati rinvenuti inesplosi, uno al Palazzo di Giustizia di Torino e due a Roma presso gli uffici della Procura e della Cassazione. Il 24 luglio, sempre a Milano, era stato scoperto e disinnescato un altro ordigno nei corridoi del Palazzo di Giustizia. Tra l’8 e il 9 agosto, si erano verificati ben otto attentati su altrettanti convogli ferroviari, causando dodici feriti. Le stesse mani avevano costruito e collocato quegli ordigni. Le bombe trovate inesplose mostrarono assoluta identità con i frammenti rinvenuti a Padova e alla Fiera. Fino al tentativo più grave, quasi dimenticato, il 4 ottobre, con la scoperta di sei candelotti di gelignite, con una potenza distruttrice doppia rispetto a quella poi usata a piazza Fontana, collegati a un congegno a orologeria e posti in una cassetta sul davanzale dei bagni della scuola slovena di Trieste. Solo a causa di un difetto tecnico la bomba non aveva funzionato. Se fosse scoppiata si sarebbe compiuta una strage di bambini. 3 Attualità Alla fine del 1969, secondo i dati ufficiali del Ministero dell’Interno, gli attentati erano stati 145, dodici al mese, più di uno ogni tre giorni. Proprio a seguito degli avvenimenti del luglio 1960 le principali organizzazioni della destra extraparlamentare, da Ordine nuovo ad Avanguardia nazionale, cominciarono a raccogliere armi e a dotarsi di strutture clandestine, nella prospettiva di un colpo di Stato. Altre si costituirono ex novo con questa finalità, si pensi a Europa civiltà. Altre ancora, come il Mar (Movimento d’azione rivoluzionaria), un gruppo di ex partigiani “bianchi”, presente in Valtellina, si posero a loro volta su questo terreno. Illuminanti, nell’agosto 1960, le indicazioni date da Julius Evola, la principale guida teorica e spirituale del neofascismo italiano: «Dopo aver appreso la lezione dei fatti di Genova» - intervenne su «L’Italiano», una rivista d’area missina - «si dovrebbe lasciare trascorrere un periodo di L’INCUBAZIONE La stagione delle stragi in Italia ebbe una lunga incubazione. L’ambito fu quello della “guerra fredda”. In questo contesto, ben prima del Sessantotto e dell’“autunno caldo”, va messa a fuoco una data la cui importanza ha rappresentato uno spartiacque nella storia del Paese: il luglio 1960, quando naufragò il tentativo di Ferdinando Tambroni di varare un governo monocolore democristiano con i voti determinanti dell’Msi, il partito neofascista. L’imponente reazione popolare con scontri di piazza in numerose città, diversi morti e feriti, costrinse il governo a dimettersi. Genova rappresentò l’epicentro di questo sommovimento democratico e antifascista. Qui si impedì materialmente anche lo svolgimento del congresso missino, già programmato, L’interno della Banca dopo l’esplosione della bomba apparente calma politica, che in realtà sarebbe solo un periodo di accurata preparazione; non trascurare alcun dettaglio. Poi il colpo decisivo», con l’esercito e con «le associazioni d’arma», con i «sindacati non comunisti», nella prospettiva di «un’ora X» quando «tutti i punti nevralgici della nazione dovrebbero essere presidiati, e dall’esercito e dalla polizia». «LA GUERRA RIVOLUZIONARIA» In quegli anni, nell’ambito delle Forze armate, si tennero importanti convegni di studio con al centro il tema del pericolo comunista, visto non più unicamente attraverso l’ottica della forza militare, ma della forza delle idee. Uno di questi passò alla storia. Organizzato dallo Stato maggiore dell’esercito e finanziato dal Sifar (Servizio informazioni forze armate), si tenne tra il 3 e il 5 maggio 1965 all’Hotel Parco dei Principi di Roma. Titolo: «La guerra rivoluzionaria», sulle «tecniche adottate dai comunisti» di penetrazione nel mondo occidentale. «La guerra rivoluzionaria» veniva descritta come una nuova forma dell’offensiva scatenata dal comunismo internazionale, capace di mimetizzarsi nelle lotte, nelle agitazioni sindacali, come nelle nuove mode giovanili. Alla presidenza del convegno il tenente colonnello Adriano Magi Braschi, il massimo esperto di “guerra psicologica” dell’esercito. In sala alti ufficiali, ma anche esponenti della destra politica ed economica. Tra i fascisti, Pino Rauti, Stefano Delle Chiaie e Mario Merlino. DA GIACARTA AD ATENE Il colpo di Stato in Indonesia, nell’ottobre 1965, pochi mesi dopo il convegno all’Hotel Parco dei Principi, con centinaia di migliaia di comunisti passati per le armi, suscitò l’entusiasmo nelle fila dell’estrema destra, e non solo. Ma soprattutto lo sferragliare per le vie di Atene, nella notte fra il 20 e il 21 aprile 1967, dei carri armati mossi dai colonnelli per troncare la democrazia, convinse lo schieramento golpista che anche nel cuore dell’Europa si poteva fare altrettanto. In Grecia il colpo di Stato venne attuato applicando il piano «Prometeo». Nello spazio di cinque ore furono arrestate più di diecimila persone, poi trasferite in “centri di raccolta”. Alle sei del mattino era già tutto finito. Non c’era stata alcuna resistenza. Dietro i colonnelli gli Stati Uniti. Il Kyp, il servizio segreto era sotto il loro diretto controllo, modellato e finanziato dalla Cia. Tra la primavera del 1964 e il 1967, la Grecia fu scossa da una catena di attentati. Prima alle caserme, poi ad Atene, dove il 20 agosto 1965 nella stessa notte scoppiarono diversi ordigni e gruppi organizzati attaccarono poliziotti isolati. Si accusarono subito gli anarchici e gli studenti di sinistra. Si scoprì in seguito che a operare erano stati proprio gli agenti del Kyp, spalleggiati dal movimento neofascista 4 agosto, costituito nel 1964 da Costantino Plevris, il teorico del “social-nazionalismo” greco. Ancor prima ci fu una strage, nel novembre 1964, in occasione di una celebrazione organizzata dai reduci della resistenza al ponte di Gorgopotamos. Cinque i morti e più di un centinaio i feriti. La destra accusò gli stessi partecipanti di aver portato al raduno l’ordigno che poi esplose. La Grecia aveva fatto scuola. 4 Attualità 5 Attualità Piazza Fontana quarantacinque anni dopo IL RICORDO DI UN TESTIMONE OCULARE STRAGI: IL DIRITTO ALL’OBLIO E LA STORIA di GINO MORRONE di MIMMO FRANZINELLI M ilano, 12 dicembre 1969. Quel giorno ero di “corta” (leggi “giorno di riposo per i giornalisti”) e, non so perché, mi ero vestito come un commissario di polizia. Camicia bianca, abito di buon taglio, cravatta scura, un bel cappotto grigio quasi nuovo. Avevo bisogno di starmene in pace: il 29 dicembre mi sarei sposato e avevo una certa fretta di compilare la lista degli invitati. Scelsi di rintanarmi nella nuova sala stampa dei carabinieri, in via Moscova, che disponeva di comodissime poltrone e, soprattutto, non era molto frequentata. Quando entrai, diedi un’occhiata al panorama: ero solo tra una pila di luccicanti telefoni appena installati e alcune poltrone in pelle assolutamente invitanti. Cominciai il mio “lavoro”, ma fui subito interrotto dal trillo fastidioso di uno dei telefoni. Non risposi, mandando mentalmente al diavolo lo scocciatore. Il telefono insisteva. Fui tentato di staccare e riattaccare. Ma poi prevalse il buon senso: poteva essere una chiamata importante. Non appena misi all’orecchio il microfono, dall’altra parte udii una voce concitata: “Capitano C. (era il comandante del pronto intervento), è scoppiata una bomba in piazza Fontana… alla banca, ma forse è scoppiata una caldaia...”. Riattaccai, in gran fretta raccolsi le mie cose e mi precipitai all’uscita. Cercai un taxi e diedi l’indirizzo, nel frat- Pietro Valpreda Giuseppe Pinelli tempo cercavo di riordinare le idee, di organizzarmi. Pensai: in piazza della Scala devo scendere e correre a piedi, la zona sarà transennata. Ero giovane e atletico (45 anni fa!), perciò bruciai le tappe e arrivai in una piazza gremita di gente vociante e disperata. Mi diressi con decisione all’ingresso e un poliziotto si fece subito da parte lasciandomi entrare. Il mio look assolutamente casuale e involontario aveva funzionato. Fino ad allora avevo sempre pensato che l’inferno fosse una trovata geniale per spaventare i piccoli peccatori come me, ma una volta nel salone sventrato della banca capii che l’inferno esiste davvero ed era proprio lì sotto i miei occhi sgomenti. Spaventoso, terrificante, apocalittico: cadaveri dilaniati; dappertutto, persino spiaccicati sulle pareti, sangue e pezzetti di pelle umana; gente che soffriva e urlava; una grande buca al centro del salone, coperta con dei tavolacci, mostrava tutta la violenza di una bomba ad alto potenziale appena scoppiata. E poi sirene, lettighe, medici e infermieri. Un cronista, entrato al seguito del cardinale giunto a benedire le salme, davanti a tanta atrocità, non resse e piombò a terra come morto. Anch’io ero come paralizzato. Ma il mestiere, il senso del dovere mi richiamano alla realtà: comincio a contare i corpi dei poveretti dilaniati dal micidiale ordigno, prendo con meticolosità appunti, cerco di contattare il giornale. Esco dal salone, a caccia di un telefono (quelli interni erano tutti fuori uso), lo trovo nella farmacia accanto. Il vicedirettore del giornale, informato, scende all’ingresso della sede e dirotta verso piazza Fontana tutti i giornalisti che a quell’ora cominciavano i loro turni di lavoro. “Cercate di contattare Morrone, è dentro la banca”, urlava. Ebbi qualche problema a rientrare, ma alla fine, non so come, tornai in quel maledetto salone. Quel tragico pomeriggio riuscii a rendermi utilissimo al giornale. Al caporedattore chiesi timidamente: “Non firmatemi l’elenco dei morti e dei feriti”. Riattaccò, ma il giorno dopo la mia firma fu adeguatamente collocata. Luigi Calabresi Passai una notte insonne, c’era un tg regionale che dava il numero dei morti, un numero diverso dal mio. Chiamai il giornale più volte e alla fine il capocronista mi urlò: “Vai a dormire, quel tg ha un disco e ripete sempre la stessa notizia, sono esatte le tue informazioni. Buonanotte”. Io, che ero visibilmente provato, diciamo pure sotto shock, mi ero rifugiato a casa della mia ragazza, Giuliana, che da lì a poche settimane sarebbe stata mia moglie. La mia futura suocera Cristina era impegnata, con un efficace lavoro di olio di gomito, a ripulire le scarpe quasi nuove, sporche, diciamo imbrattate di sangue e tagliuzzate da tante piccole schegge di vetro. Alla fine tornarono lustre. Ma io quelle scarpe non le ho più calzate. L’ annuncio della rimozione del segreto di Stato su vicende stragiste, su cui la presidente della camera Laura Boldrini è tornata in occasione della sua visita a Brescia, aveva lasciato sperare in una svolta nella ricerca storica (e forse anche processuale) su vicende circondate da misteri e impunità. Dopo alcuni mesi, quale bilancio trarre? Sul piano giudiziario non si registrano sostanziali processi, mentre sul terreno della ricerca storica si è alle prese con i problemi di sempre. A partire dai bastoni tra le ruote costituiti dalla legge sulla privacy (interpretata estensivamente) e dal cosiddetto diritto all’oblio. La cavillosa normativa sulla privacy, oltre a imporre agli italiani inutili moltiplicazioni di firme per ogni atto burocratico, ostacola l’accesso a molti documenti di provenienza poliziesca e giudiziaria, sottratti alla consultazione dagli archivisti per motivi prudenziali. Il diritto all’oblio semina innumerevoli insidie, poiché espone lo studioso alle querele di qualsiasi personaggio che – citato a qualunque titolo – si ritenga danneggiato dalla rivisitazione di aspetti sgraditi del suo passato … Controversie che, in sede civile, possono prevedere cospicui risarcimenti. È possibile studiare l’Italia contemporanea, senza dover scegliere tra l’autocensura e la sorte di San Sebastiano, bersagliati dalle citazioni a giudizio? Sarebbe interessante sapere quante e quali querele si siano attirati giornalisti e storici occupatisi della bomba di piazza della Loggia. Per quanto mi riguarda, il volume “La sottile linea nera: Neofascismo e servizi segreti da Piazza Fontana a Piazza della Loggia” (Rizzoli, 2008) ha originato ben sei processi (uno dei quali tuttora in corso) con perdita di tempo, di pazienza e di denaro. Senza contare la dozzina di casi in cui questo o quel personaggio intimava rettifiche e preannunciava in caso contrario querele (poi non pervenute). Vi sono due categorie di persone propense ad agire in giudizio: 1) chi Piazza della Loggia a Brescia dopo l’attentato fascista – lamentando danni d’immagine – punta a strappare cospicui “risarcimenti” allo scrittore e all’editore, in primis con lo spauracchio della querela, in subordine dell’eventuale processo; 2) chi, in buona fede, si sente coinvolto e danneggiato da riferimenti che in realtà non lo riguardano. Per il primo caso, ho subito ben due processi su iniziativa di un personaggio manco nominato nel libro: il signor Gianni Mezzorana che, a proposito del depistaggio attuato dagli investigatori per l’attentato di Peteano del 31 maggio 1972 costato la morte di due carabinieri, contestò l’espressione “sei malavitosi” per i goriziani ingiustamente inquisiti dopo il fallito tentativo degli inquirenti di incastrare un gruppo di estrema sinistra. Per questa vicenda, accennata nel testo alle pagine 207–208, ho avuto un processo per diffamazione a mezzo stampa (con archiviazione decisa dal Tribunale di Padova, perché le affermazioni del libro erano veritiere) e uno deciso dal giudice di pace di Gorizia con la mia assoluzione e la condanna del Mezzorana alle spese legali. Per il secondo caso, il bresciano Arturo Gussago, a suo tempo pretestuosamente indagato per strage con Andrea Arcal e altri giovani della destra radicale (il libro precisa che si trattò di una falsa pista, destituita di fondamento), si riconobbe nella direzione della quarta di copertina “perché i responsabili sono stati assolti?”. Ne derivò, per il sottoscritto, una citazione a giudizio che immagino dovuta a un qui pro quo, poiché mai scrissi (né pensai) che quel gruppetto di adolescenti avesse a che fare con la bomba stragista. Anzi, a ben vedere essi pure ne subirono i contraccolpi, col carcere duro, prima di venire assolti, con una sentenza talmente convincente che nessuno ha mai criticato. A volte, vien da chiedersi se valga la pena di continuare a occuparsi delle pagine più oscure (e sanguinose) del nostro passato prossimo, vista la quantità di grane che s’incontrano… Nonostante tutto, la risposta è comunque affermativa, sia perché su quelle vicende vi è molto da scoprire, e si tratta di una storia che dovrebbe divenire patrimonio comune, sia perché il confronto tra le varie tesi accresce la consapevolezza civile . Post Scriptum – Se è consentito esprimere un sommesso desiderio, dinanzi alla tempesta di citazioni a giudizio contro studiosi accusati di diffamazione a mezzo stampa, qualche archiviazione in più e qualche processo in meno diminuirebbero gli arretrati giudiziari e assicurerebbero maggiore libertà alla ricerca sull’età contemporanea. 6 Personaggi Personaggi Pietro Nenni, il leader che portò i socialisti al Governo Per tutta la sua vita ha servito il popolo, la democrazia e la libertà di CARLO TOGNOLI (sindaco di Milano dal maggio 1976 al dicembre 1986) P ietro Nenni è stato uno dei ‘leader’ socialisti più autorevoli e popolari, con Filippo Turati. Si iscrisse al PSI nel 1921, poco dopo la scissione comunista di Livorno del gennaio di quell’anno. Giacinto Menotti Serrati, segretario del Partito socialista e capo dei massimalisti, sostenitore entusiasta della Rivoluzione d’ottobre, in un primo tempo aveva respinto in nome dell’unità la condizione posta al PSI da Lenin della rottura coi riformisti per l’ingresso nella III Internazionale, ma poi aveva assecondato le richieste bolsceviche espellendo i riformisti. Nel 1922, in seguito alla espulsione dei socialisti riformisti, voluta da Serrati, era nato il Partito Socialista Unitario di Turati, Treves e Matteotti. Nenni, giornalista già affermato, era diventato corrispondente dell’Avanti! per la Francia nel 1921 e aveva aderito al PSI, dopo una lunga militanza repubblicana. In quegli anni di crisi del socialismo dimostrò un notevole coraggio difendendo ciò che rimaneva del PSI dai tentativi di farlo confluire nel partito comunista. In un articolo dell’Avanti! del gennaio 1923, prese le distanze da Serrati che aveva deciso di portare il PSI nell’Internazionale comunista. “… Io penso che se la nostra delegazione a Mosca e la Direzione, avessero ricevuto l’incarico di procedere alla liquidazione sotto-costo del Partito socialista, senza nessun beneficio né per l’Internazionale, né per il proletariato, non si sarebbero comportate diversamente… Non si liquida un partito come un fondaco di mercante. Non si decide la fusione senza che i due partiti abbiano via via superato il ricordo delle loro divisioni e dei dissensi che… sono stati aspri e violenti… Una bandiera non si getta in un canto come una cosa inutile…”. Giornalista e ‘politico’ La sua biografia ricorda che perdette subito il posto di lavoro, da una fabbrica di ceramiche faentina, nel 1908, per avere aderito a uno sciopero (aveva 17 anni). Collaborò al giornale ‘Lotta di Classe’ di cui era direttore Benito Mussolini (che nel 1912 divenne direttore dell’Avanti!). Fu tra i protagonisti della ‘settimana rossa’, periodo di ribellione proletaria. Arrestato nelle Marche, si trovò in cella con Mussolini. Fu poi interventista nella prima guerra mondiale come molti repubblicani e un buon numero di socialisti (Bissolati e Salvemini, Gramsci e Togliatti e Mussolini). Giornalista de ‘Il Secolo’, quotidiano milanese diffuso ed autorevole, il suo nome figura tra i partecipanti ad una missione nel 1920 in Georgia. Lloyd George, ministro degli esteri inglese, durante i lavori per il trattato di Versailles, cercò di convincere prima Vittorio Emanuele Orlando e poi Francesco Saverio Nitti, a rinunciare alla Dalmazia (salvo Zara) in cambio del protettorato della Georgia e parte del Caucaso. L’interesse italiano fu in parte stimolato dagli imprenditori che conoscevano le ricchezze minerarie di quella parte dell’Asia. Due missioni, una militare ed una economico politica si succedettero, dando un parere positivo sulle potenzialità di quei Paesi. La seconda missione era guidata da Toeplitz e ne facevano parte Ettore Conti, autorevole figura di imprenditore liberale e, tra i giornalisti, il mitico Luigi Barzini senior per il ‘Corriere’ e Pietro Nenni per ‘Il Secolo’. Tutto però si fermò lì (sotto il governo Nitti) perché stava arrivando l’Armata Rossa, che occupò la nazione di Stalin, fino ad allora in mano ‘menscevica’. Il suo avvicinamento al PSI avvenne quando la casa dei socialisti stava bruciando, il che mette in luce la passione politica e l’autenticità della sua scelta socialista. Riuscì a tenere in piedi il PSI e l’Avanti! in un periodo drammatico, segnato dalla ‘marcia su Roma’, dall’avvento di Mussolini, dell’assassinio di Matteotti, dalla fine della democrazia con le leggi speciali del 1926, anno nel quale trovò anche modo di dar vita al periodico ‘Quarto Stato’ con Carlo Rosselli prima di prendere la via dell’esilio parigino. L’idea era quella di ‘rielaborare criticamente l’ideologia e il programma socialista’ senza rinnegare ‘i principi fondamentali informatori’ per addivenire a una ‘loro consapevole riconquista, con le inevitabili correzioni imposte dagli anni e dalle attuali esperienze’ (Nenni). Collaboravano con i fondatori Lelio Basso, Giuseppe Saragat, Giuseppe Faravelli, Guido Mazzali, i Treves e molti altri giovani coraggiosi. Nenni, che anche come repubblicano era sempre stato dalla parte degli ‘sfruttati’, si appassionò al marxismo, ma non ne divenne del tutto schiavo e privilegiò sempre la libertà e i diritti dell’uomo, interpretando in questa chiave l’aspirazione alla società socialista. Fu protagonista dell’unificazione socialista in Francia nel 1930 tra il troncone del Partito Socialista Italiano sopravvissuto alle scissioni e il Partito Socialista Unitario che Filippo Turati aveva costituito nel 1922 con Giacomo Matteotti. L’alleanza coi comunisti Nella seconda metà degli anni ’30 Stalin abbandonò la linea della demonizzazione dei socialisti (definiti ‘socialfascisti’) e imboccò la strada delle alleanze con le forze di sinistra, la politica dei ‘fronti popolari’. Nel 1934 il socialista Léon Blum divenne primo ministro in Francia, alla testa della coalizione socialcomunista. In quel periodo Nenni scrisse una serie di articoli sul ‘Nuovo Avanti!’ (firmati con lo pseudonimo Pietro Emiliani) dedicati ai processi di Mosca del 1936/1938 (Kamenev, Zinoviev, Bucharin, Tukacevsky ecc.). Egli concludeva sottolineando l’abbondanza delle prove di mendacio e le lacune procedurali della giustizia bolscevica: “… In verità non tanto si tratta di giustizia quanto di un regolamento di conti in sede giudiziaria ed in forma quasi sommaria…” e ancora “… Il bolscevismo della concezione egemonica del partito è giunto alla intolleranza più assoluta. Ormai o si è o non si è nella linea. E chi non è nella linea è un nemico da squalificare, da schiacciare…” Sempre in quegli scritti dell’autunno 1938, rifacendosi a testi di esponenti ex-comunisti come Victor Serge e Ciliga (amici, ma anche critici, di Trotzki) Nenni riteneva convincente la loro tesi che la ‘degenerazione burocratica che ha usato metodi non socialisti verso le masse laboriose’ e ancora prima ‘verso i socialdemocratici menscevichi accusati dalla Ceka di intelligenza col nemico e di sabotaggio’ potesse farsi risalire al 1921, “… con la repressione di Kronstadt (voluta da Trotzki ndr) la soppressione della democrazia operaia al X congresso comunista russo, l’eliminazione del proletariato dalla gestione dell’industria…”. Quando venne annunciato il patto di non aggressione tra Germania nazista e Russia bolscevica (Ribbentrop-Molotov) Nenni fu costretto alle dimissioni da segretario del PSI in esilio per l’opposizione tiepida verso questo sciagurato accordo e venne sostituito da Angelo Tasca. Successivamente l’evolversi della guerra, Un giovane Pietro Nenni con l’attacco tedesco all’URSS, lo riportò a contatto con i socialisti, dai quali era stato emarginato. Fu arrestato dai nazisti nel Sud della Francia per essere spedito in Germania, ma pare che l’intervento di Mussolini l’abbia salvato, facendolo mandare al confino di Ponza. Il ‘fronte popolare’ in Italia In ogni caso il suo atteggiamento filocomunista non è facilmente comprensibile - non tanto per il periodo dell’esilio, quando venne concordato il ‘patto d’Unità d’azione’ con il PCI, sottoscritto anche da Saragat e dalla maggioranza dei socialisti – quanto per l’alleanza stretta col PCI nel dopoguerra. Forse era rimasto in lui il ricordo della facilità con cui Mussolini era arrivato al potere, disponendo di un piccolo gruppo di parlamentari, grazie alle divisioni del partito socialista e alla fragilità democratica dei liberali e dei popolari (salvo Sturzo e De Gasperi). O forse in Spagna contro Franco e durante la ‘resistenza’ in Italia contro il nazifascismo valutò come indispensabile l’apporto organizzato e combattivo dei comunisti. Probabilmente nel secondo dopoguerra, dopo la Liberazione e la conquista della Repubblica, temeva un ritorno se non al fascismo, al predominio delle forze reazionarie. Protagonista della battaglia per la Repubblica, vinta il 2 giugno 1946 la sua alleanza con il PCI non gli fruttò neppure la presidenza del Consiglio dei ministri. Togliatti, dopo avergli preferito Parri, il capo della Resistenza, uomo di grandi qualità morali, ma meno politico e meno rappresentativo del leader socialista – sostenne De Gasperi in una prospettiva di permanenza del PCI al governo. Nel 1947, con la scissione socialdemocratica, ebbe ragione Saragat e quelli che lo sostennero e lo accompagnarono (U. G. Mondolfo, Faravelli, Matteotti figlio, Vigorelli) nello scegliere la via dell’autonomia dal PCI. Purtroppo il credito che i socialisti avevano dato al PCI permise il rapido affermarsi dell’egemonia comunista sulla classe operaia e la scissione indebolì fortemente il socialismo italiano. Sindacato e cooperative finirono nelle mani del PCI, grazie al sostegno del PSI nella lotta contro i socialdemocratici. Il patrimonio di voti ottenuto dal PSIUP, nel giugno 1946 (21% contro 18,9% del PCI e 35% della DC) nelle elezioni per il referendum istituzionale e per la costituente, nel ricordo del partito socialista prefascista, venne disperso. Infatti nel 1948 per tener fede al patto d’unità d’azione col PCI, Nenni affrontò le prime elezioni politiche dopo il referendum su monarchia o repubblica con il ‘Fronte democratico popolare’, basato sulla alleanza PSI-PCI. I socialisti subirono una sconfitta cocente scendendo all’8% e 42 deputati nell’ambito del perdente ‘Fronte’ (contro i 133 deputati del PCI, il 48,5% della DC e il 7% del PSDI). Nenni accusò il colpo, ma in quella fase non cambiò rotta, anche se le sue prime considerazioni dopo il 18 aprile 1948 furono politiche: “… Posso io rifiutare di prendere atto che sotto la bandiera, direzione o ispirazione comunista (apparente o reale poco importa) non si vince in Occidente?” Il ‘patto d’unità d’azione’ PSI-PCI rimase in piedi mentre i governi De Gasperi (DC, PLI, PRI, PSDI) ancoravano l’Italia alla solidarietà atlantica e cavalcavano, con l’aiuto americano, la ripresa economica che avrebbe portato al ‘boom’ degli anni ’50, il miracolo italiano. Al Congresso di Genova (1948) dopo la sconfitta del ‘fronte popolare’ Nenni finì in minoranza con la vittoria di Lombardi, Jacometti e Romita, ma al successivo congresso di Firenze (1949) con Rodolfo Morandi riprese in mano il Partito socialista peraltro dominato dal PCI. I primi segni di timido risveglio vennero dati al congresso di Milano del 1953 e alle elezioni politiche dello stesso anno con lo slogan ‘è l’ora dei socialisti’. Nel 1953 moriva Stalin. I ‘fatti d’Ungheria’ Nel 1955 al congresso di Torino Nenni lanciava l’apertura alla DC, letta come ‘apertura a sinistra’, condivisa anche da Rodolfo Morandi. Non c’era ancora una netta differenziazione dal PCI, ma il PSI riprendeva l’iniziativa. La svolta decisiva si registrava nel 1956 dopo il congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica e il, 'rapporto segreto’ di Krusciov con il quale si denunciavano i crimini di Stalin e il culto della personalità del capo comunista. Nella sinistra europea le reazioni furono forti. Nenni scrisse un saggio ‘revisionista’ (‘Luci e ombre del XX congresso’ del PCUS) nel quale metteva in discussione il sistema poliziesco che aveva sostituito il socialismo. Ripresero i rapporti con il PSDI, interrotti da molti anni. In un incontro Nenni – Saragat a Pralognan (in Val d’Aosta) si ipotizzò la riunificazione tra i due partiti socialisti. A Milano la rielezione del sindaco socialdemocratico Virgilio Ferrari (che era subentrato a Greppi nel 1951 con una giunta di centro) nel settembre del 1956, venne favorita dal PSI e intesa come primo passo verso l’unificazione tra PSI e PSDI. Ma fu la ‘rivoluzione’ ungherese dell’ottobre 1956, dopo la ribellione polacca dell’estate, che spinse Nenni a prendere decisamente e definitivamente le distanze dal comunismo sovietico e italiano. L’aspirazione degli ungheresi ad una maggiore tolleranza del regime comunista dopo le rivelazioni di Kruscev sui misfatti di Stalin (‘il rapporto segreto’) al XX congresso del PCUS e qualche concessione fatta ai polacchi con il ritorno dell’antistalinista Gomulka, fu stroncata dai carri armati sovietici il 4 novembre di quell’anno. Il capo del Governo Imre Nagy (già vittima dello stalinismo) e il generale Maleter, entrambi comunisti, furono arrestati e giustiziati qualche anno dopo, mentre Palmiro Togliatti scriveva al Partito comunista dell’ Unione Sovietica (la lettera si sarebbe vista dopo l’apertura degli archivi di Mosca, negli anni ’90) che bisognava togliere di mezzo il Nagy. Pietro Nenni, dopo una campagna giornalistica condotta dall’Avanti! per far conoscere la durezza dell’intervento sovietico contro i ‘compagni’ ungheresi, tenne al congresso di Venezia del PSI una memorabile relazione di taglio nettamente autonomista, condannando il comportamento dei comunisti italiani e russi, solidali con la repressione. “… Gli operai polacchi delle officine di Poznan, calunniati come fascisti’…e gli insorti di Budapest (anch’essi definiti fascisti) che il 23 ottobre abbatterono la statua di Stalin…” volevano ciò che era stato fatto intravvedere dopo il rapporto Kruscev, e cioè la fine delle ‘purghe’, l’eliminazione dei metodi barbari della polizia politica basati sulle confessioni strappate con le torture, l’introduzione di un clima più tollerante. Continuava Nenni: “… L’intervento sovietico, il fuoco dei carri armati, lo scioglimento dei consigli operai deciso il 9 dicembre (1956), la legge marziale, le esecuzioni sommarie, le proscrizioni, tutto questo è opera di repressione che non risolve i problemi dell’Ungheria, non fa avanzare di un pollice il socialismo, riabilita il fascismo… I comportamenti di Kruscev, la rinnovata condanna del comunismo nazionale Jugoslavo… le dichiarazioni staliniane dei comunisti cecoslovacchi, tedeschi e francesi, lo stesso atteggiamento dei comunisti italiani, così arretrato… tutto ciò induce a credere a una pausa nella cosiddetta destalinizzazione…”. Ci fu una crisi profonda 7 8 Personaggi anche nel PCI, dopo i ‘fatti d’Ungheria’ e una notevole emorragia di intellettuali, dirigenti e iscritti. La politica socialista, da allora, prese l’orientamento ‘autonomista’ (autonomia dal PCI) per la ricerca di una collaborazione con cattolici e laici al fine di dar vita a governi riformatori. Verso il centro sinistra riformatore Ciò avvenne con molte difficoltà, perché Nenni venne messo in minoranza proprio al congresso di Venezia (solo a Napoli nel 1959 conquistò la maggioranza col 58%). Aveva vinto politicamente, ma era in minoranza nel Comitato Centrale. Le difficoltà per arrivare a impostare una politica di riforme furono notevoli non solo per colpa delle divisioni interne del PSI, ma anche per l'insensibilità e in parte per l’ostilità di una parte consistente della classe dirigente del Paese (mondo imprenditoriale e politico, una parte della DC, i liberali con la loro grande stampa e la Rai cattolica) che non aiutò Nenni a recuperare consensi. La DC, per esempio, ostacolò il ricorso alle elezioni anticipate che potevano svolgersi nel 1957 e che avrebbero dato un ottimo risultato al PSI a spese del PCI. Dopo il 1958, con il PSI al 14,2%, cominciò la danza delle condizioni poste ai socialisti per avviare la politica di centro sinistra (DC, PSI, PSDI, PRI) contrastata come abbiamo visto dalle forze conservatrici. Alla collaborazione di governo si arrivò per la volontà di Nenni e di una parte della DC, ma in conseguenza di cause esterne. Nel 1960 Ferdinando Tambroni, della sinistra DC, venne incaricato di dar vita ad un governo che potesse ottenere l’appoggio del PSI, ma senza alcuna concessione programmatica ai socialisti, che quindi si schierarono all’opposizione. A quel punto le destre si dichiararono disponibili a sostenere il governo. Ci fu una reazione popolare contro il Movimento Sociale Italiano che, tra l’altro, aveva convocato il congresso nazionale a Genova. Le manifestazioni antifasciste si moltiplicarono e fecero registrare episodi luttuosi. Tambroni fu costretto a dimettersi. La palla passò a Fanfani che riuscì a dar vita ad un governo che ottenne l’astensione dei socialisti e dei liberali: il governo delle ‘convergenze parallele’ che fu la premessa al primo esperimento di centro sinistra. Paradossalmente il PCI poté rientrare nel cosiddetto ‘arco costituzionale’, nel nome dell’antifascismo, dopo l’isolamento post-Ungheria. Nel 1962 il PSI entrò nella maggioranza governativa assicurando il sostegno esterno al gabinetto delle riforme, sempre guidato da Fanfani che aveva predisposto un programma totalmente gradito ai socialisti La coalizione di centro sinistra di allora fu in grado, in poco tempo, di varare provvedimenti ‘storici’, come la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la scuola media unica, la riforma pensionistica. Ebbe inizio un positivo dialogo coi sindacati. Si registrò una redistribuzione dei redditi, dopo il ‘miracolo economico degli anni ’50, che accrebbe il potere d’acquisto degli operai e degli impiegati. Tuttavia ci furono problemi anche per arrivare al governo con la organica presenza dei ministri socialisti. Dopo le elezioni del 1963 emerse l’ostilità della sinistra socialista alla partecipazione al governo e di conseguenza crebbero le perplessità di Riccardo Lombardi nei confronti del programma concordato con la DC. Nel Comitato Centrale della notte di S. Gregorio del 1963 (dopo le elezioni) vennero sospese le trattative per il nuovo governo. Si dovette ricorrere al governo ‘balneare’ di Giovanni Leone, prima di dar vita al centro-sinistra organico dopo il congresso PSI di ottobre. Il primo governo Pietro Nenni Moro-Nenni, con la partecipazione di ministri socialisti trovò una parte del lavoro già compiuto da Fanfani, ma dovette fronteggiare minacce ‘golpiste’ (il piano SOLO) provenienti da ambienti minoritari legati alle Forze Armate e a una parte della destra conservatrice. Nelle versioni successive il centro sinistra approvò altre riforme, tra cui l’avvio del nuovo ordinamento sanitario (legge Mariotti per il riordino degli ospedali, agganciati al territorio, primo passo per la riforma sanitaria) e lo statuto dei diritti dei lavoratori, proposto dal Ministro socialista Giacomo Brodolini, approvato con l’astensione (sic) dei comunisti, nonché ulteriori miglioramenti economici e giuridici del sistema pensionistico (come quello del 1968, contrastato dal PCI per strumentalizzazione elettorale – Giovanni Mosca). In una parola venne portato a termine il ‘welfare’ italiano, grazie al contributo di Nenni e dei socialisti e dei loro alleati democristiani e laici, malgrado l’opposizione del PCI. Il benessere si diffondeva, il mercato interno si allargava. Nenni, che aveva puntato ad un ‘welfare state’ dove l’uomo 9 Personaggi fosse assistito ‘dalla culla alla tomba’, era arrivato vicino al suo obbiettivo. L’unificazione socialista L’altra méta doveva essere l’unificazione socialista che nel 1966 diventava realtà. Saragat era diventato Presidente della Repubblica, Nenni poteva essere il ‘taumaturgo’ che ricostruiva la casa di tutti i socialisti. Non fu così anche se le premesse erano state positive per l’adesione di moltissimi intellettuali al manifesto dell’unificazione. L’opposizione dura del PCI e della maggioranza della CGIL, l’indifferenza della DC e dell’’establishement’ economico, la nascente contestazione del 1968, che cancellò l’influenza che avrebbe potuto avere nella sinistra italiana la repressione ‘brezneviana’ della primavera cecoslovacca, furono alcune delle cause che contribuirono alla sconfitta elettorale del PSI-PSDI unificati, che ottenne meno del 15% dei voti, nettamente al di sotto della somma dei voti dei due partiti. Nel 1969, malgrado la ripresa della politica di centro sinistra con i governi Rumor-De Martino, i contrasti interni al partito e la rottura del gruppo autonomista provocato da Giacomo Mancini che non esitò a mettere in minoranza Nenni, presidente del Partito socialista unificato, portarono ad una nuova scissione, con la formazione del Partito socialista unitario (poi PSDI). Unificazione non nata male, ma cresciuta male, con una classe dirigente dominata dai personalismi. La soluzione proposta per ricucire le rotture tra De Martino-Mancini e gli autonomisti rimasti fedeli a Nenni, una direzione paritetica, con Nenni arbitro, fu respinta al Comitato Centrale del 4 luglio, a maggioranza, da De Martino, Mancini e Lombardi. Iniziò una pesante crisi del PSI che si sarebbe ripreso solo dopo l’elezione di Bettino Craxi a segretario (luglio 1976). Nenni per la verità era stato di nuovo presidente del Partito socialista dopo il congresso di Genova del 1972, quando si era formata una nuova maggioranza tra gli autonomisti e la corrente di De Martino che aveva rotto con Mancini – e lo fu ancora con Craxi segretario. Dopo la sconfitta del 1968/69 l’anziano ‘leader’ socialista non si ritirò dall’agone politico. Rimase nella sua corrente autonomista, in minoranza, intervenendo con saggezza nell’interesse del Paese e del PSI, anche se non sempre ascoltato. La sua coerenza dal 1956 in poi fu esemplare e fu preziosa per Craxi che era uno dei suoi discepoli più fedeli, che non lo abbandonò mai. L’elezione di Craxi fu anche la rivincita di Nenni e della sua politica, che non aveva alternative. Gli anni Settanta Il periodo che va dal 1970 al 1980 è stato caratterizzato in Italia da una notevole instabilità politica ed economica, dal diffondersi della violenza politica, dall’incremento delle agitazioni sindacali. La crisi economica, causata anche dall’aumento dei costi delle risorse energetiche dopo la guerra del ‘Kippur’ (dal nome della festività ebraica durante la quale Siria ed Egitto riaprirono nel 1973 le ostilità contro Israele) favorì un clima di crisi politica quasi permanente. I Paesi arabi avevano ridotto l’offerta petrolifera verso i paesi occidentali. La coalizione di centro sinistra, che era nata agli inizi degli anni sessanta sulla base dell' alleanza tra DC e PSI, era in grave difficoltà – la precaria situazione economica e le divisioni interne ai socialisti e alla DC determinarono uno scenario di incertezze e di provvisorietà dei governi e quindi della ‘governance’ del Paese. Le ‘stragi’ e gli attentati della fine degli anni sessanta e inizio anni settanta (piazza Fontana a Milano, piazza della Loggia a Brescia, il treno a S.Benedetto Val di Sambro) attribuiti all’estrema destra, per reazione provocarono l’affermarsi di movimenti rivoluzionari di estrema sinistra, le cui radici venivano dalla contestazione studentesca del ’68. Da questi movimenti e dall’estremismo sindacale si staccarono frange che teorizzavano la violenza come matrice della storia, dando luogo al terrorismo brigatista. Lo Stato democratico ‘borghese’ e i suoi servitori erano visti come nemici. Gran parte della dirigenza e della base del Partito Comunista, con Luigi Longo, aveva ‘lisciato il pelo’ alla contestazione (fece eccezione Giorgio Amendola) ottenendo vantaggi elettorali, ma quando ebbero inizio i sequestri e gli attentati delle ‘brigate rosse’, il PCI dovette rapidamente prendere le distanze dall’estremismo terrorista. Tuttavia la crisi economica, le violenze di destra e di sinistra, le divisioni nel centro sinistra, spostarono l’asse a destra. Dopo le elezioni anticipate del 1972 (che si tennero prima della scadenza naturale per far slittare il referendum abrogativo della legge sul divorzio approvata nel 1970, ma osteggiata dalla DC) si formò un governo sostenuto dalla DC e dal PLI (Andreotti-Malagodi) che poneva fine al decennio del centro sinistra. Dopo il governo DC-PLI si riformò per la verità una coalizione di centro sinistra (Rumor - De Martino) fino alle elezioni del 1976 (alla ricerca degli ‘equilibri più avanzati’) che segnarono una secca sconfitta del PSI. Contemporaneamente si sviluppava l’azione del PCI, favorita da Moro, per entrare nell’area governativa. Non si trattava di ingresso comunista nel governo, ma di una sorta di condizionamento rispetto alle scelte governative. I governi della ‘non sfiducia’. Il ‘consociativismo’ trovava il suo ambiente naturale in Parlamento dove venivano concordate le decisioni e approvate le leggi. Il passo verso il ‘compromesso storico’ fu breve. Questa strategia di matrice togliattiana che auspicava l’alleanza tra comunisti e cattolici, ritenuta necessaria per portare il Paese fuori dalla crisi, venne lanciata da Enrico Berlinguer (segretario PCI) – dopo il colpo di stato in Cile contro il presidente di sinistra Salvador Allende – in base alla tesi secondo la quale una maggioranza di sinistra ‘risicata’ senza la DC non avrebbe potuto governare l’Italia. Questa linea venne sperimentata dopo le amministrative del 1975, quando si registrò una notevole avanzata del partito comunista. Le ‘prove’ di aggancio del PCI all’area dei partiti di governo avvennero proprio nelle Regioni e negli Enti Locali, con le giunte delle ‘larghe intese’ (DC, PSI, laici con l’appoggio esterno del PCI). Questa tendenza sarebbe sfociata nel 1976 nei governi democristiani sostenuti dall’astensione del PCI e del PSI e poi, nel 1978, dopo l’assassinio di Aldo Moro, nel Governo Andreotti col PCI nella maggioranza (‘solidarietà nazionale’) fino alle elezioni anticipate del 1979. Il ‘consociativismo’ e la ‘solidarietà nazionale’ furono peraltro favoriti dalla lotta al terrorismo, fenomeno che era continuato anche dopo il drammatico epilogo del sequestro Moro. Tutte le forze democratiche e i sindacati si trovarono uniti nella difesa delle istituzioni democratiche, come era avvenuto in occasione degli attentati e delle stragi del terrorismo ‘nero’. In particolare la CGIL doveva scrollarsi di dosso ogni sospetto, perché alcuni brigatisti avevano militato in quel sindacato. La posizione ‘responsabile’ di Luciano Lama venne contestata dai movimenti extraparlamentari della sinistra. La congiuntura economica negativa aveva provocato una fortissima inflazione (arrivata al 20% annuo nella seconda metà degli anni ’70) e un rallentamento della produzione. Contemporaneamente aumentava il debito pubblico, in conseguenza anche di riforme importanti: l’istituzione del servizio sanitario nazionale (1978) e ulteriori aumenti delle pensioni, agganciate ormai agli stipendi e ai salari più che ai contributi versati. Questa crescita della spesa pubblica, tra l’altro, si riversò negli anni ’80, quando arrivò a regime il servizio sanitario rivolto pressoché gratuitamente a tutti i cittadini. In questo quadro furono i socialisti a cercare una strada per assicurare la governabilità del Paese, per uscire dalla crisi e per riformare le istituzioni la cui scarsa efficienza cominciava ad evidenziarsi. Fu Craxi, l’uomo di Nenni di cui continuava la politica autonomista, diventato segretario del PSI nel 1976, dopo la ‘débacle’ elettorale dei socialisti, a parlare per primo della esigenza di stabilità dei governi per aprire un nuova stagione di riforme. Nel 1979, in apertura della legislatura, fece riferimento alla ‘grande riforma’ per modernizzare lo stato, rendere più veloci il governo e il parlamento nel prendere e nell’attuare le decisioni, ridurre la presenza pubblica nell’economia nei settori non strategici, interrompere la spirale ‘prezzi-salari’ per abbattere l’inflazione, perniciosa anche per i lavoratori. Craxi riportò i socialisti al governo nel 1980 con una coalizione non dissimile dal centro sinistra, ma con il sostegno del partito liberale, non più schierato a destra. Fu l’inizio di un periodo di stabilità che durò sino al 1992, l’anno di ‘tangentopoli’. Diventarono capi di Governo anche i laici Giovanni Spadolini (PRI) 1982/83 e Bettino Craxi (PSI) 1983/87, cui seguirono Goria, De Mita, Andreotti (DC). L’Italia conobbe proprio con il governo Craxi una forte ripresa fino ad entrare tra i primi sette paesi industrializzati del mondo (G7). Il ‘carisma’ (parola che allora si usava poco per i capi politici) di Nenni era reale, sia nei comizi (era un oratore straordinario e avvincente) che in Parlamento (dove tutti lo ascoltavano con ammirazione e rispetto) che nei colloqui con dirigenti e compagni di partito. ‘Il y a tojours un pur plus pur qui t’èpure’ – ‘O la repubblica o il caos’, - ‘la politica delle cose’ - ‘tutta Varsavia sapeva e nessuno parlava’ - ‘portare i rappresentanti socialisti dei lavoratori nella stanza dei bottoni’ - ‘fai ciò che devi avvenga ciò che può’, sono alcune delle frasi dell’oratoria politica di Nenni che si faceva comprendere dai lavoratori che non tradì mai. Fece degli errori, come tutti, ma fu sempre guidato dalla bussola della democrazia e della libertà. Quando capì, nel 1956, che bisognava lasciare l’alleanza col PCI, portatore di una politica e di una ideologia sbagliate nelle loro radici bolsceviche, non ebbe esitazioni e, come già gli era accaduto prima del fascismo, non ebbe il timore di rimanere in una posizione minoritaria. Togliatti e Berlinguer ebbero più fortuna elettorale di Pietro Nenni, ma hanno servito una causa illiberale. Nenni per tutta la sua vita ha servito il popolo, la democrazia e la libertà. 10 11 Personaggi Sviluppi Una figura mitica i cui valori venivano riconosciuti anche dagli avversari e dai nemici Nuovi approfondimenti sull’atroce rappresaglia nazista che costò la vita a centinaia di innocenti Ferruccio Parri, capo della Resistenza italiana Fosse Ardeatine: il ruolo attivo dei fascisti La sua cattura, dovuta a leggerezze incredibili, e il “trattamento” sofferto dalle SS all’Hotel Regina, comando della Gestapo e mattatoio di partigiani, antifascisti, ebrei – L’esperienza alla guida del primo governo dopo la Liberazione Nonostante la posizione pavida e pilatesca di Mussolini, evidente il decisivo collaborazionismo della Repubblica sociale italiana - Nell’eccidio cadde anche Pilo Albertelli, assassinato con un colpo alla nuca perché antifascista I l 1945 iniziò in modo drammatico per la Resistenza: il 2 gennaio Ferruccio Parri viene arrestato a Milano dalle SS e presto riconosciuto, come racconta nel libro “Due mesi con i nazisti” (ed. Carecas, 1973). Detenuto inizialmente all’Hotel Regina, quartier generale delle Ss a Milano, Edgardo Sogno tenta di liberarlo penetrandovi in divisa tedesca, ma viene scoperto e arrestato a sua volta. Entrambi sarebbero stati poi liberati, su richiesta degli Alleati, come pegno e prova di buona volontà e di buona fede nelle trattative già da tempo avviate da Karl Wolff, plenipotenziario delle SS in Italia, per la resa degli ottocentomila soldati tedeschi ancora operanti nella penisola. Questa la conclusione. Ma vi si giunge appunto dopo due mesi terribili, il cui inizio Parri così racconta, una volta nota la sua vera identità: “Poiché il gioco era ormai chiaro cercai subito di rovesciare le carte dichiarando a verbale che ero io il maggior responsabile della guerra contro di loro e me ne vantavo, che ero io il capo dell’organizzazione in stretto rapporto con gli Alleati. Mi scuso ancora una volta con i compagni del Cvl delle mie millanterie. Erano a fin di bene” (pag. 29). E più avanti: “Sentivo che logicamente avrei dovuto giocare a pari e caffo la mia testa. E tuttavia il mio fiuto di fondo mi diceva che vinceva il ‘pari’: tra l’altro quegli uomini era più soldati che civili ed apprezzavano i soldati. Grange, che era stato preso con me e aveva appena assunto l’incarico nel nostro comando di occuparsi di lanci, riconosciuto ammise tutto quello che gli contestavano e concluse con aria di sfida: ‘E adesso se non mi fucilate siete dei buffoni’. Gli risposero ‘Bravo soldato’. Gli strinsero calorosamente la mano e lo spedirono a San Vittore senza torcergli un capello” (pag. 46). Così Parri, lucidissimo, impartisce alle SS “una lezione sulla Resistenza”, perché “se la Resistenza doveva pesare in qualche modo sui loro piani era meglio parlare storicamente, politicamente, militarmente nel modo più chiaro, sincero e persuasivo. Può apparire di GIORGIO GALLI ingenuo, anzi lo è, perché ingenuo sono io ma secondo la mia esperienza è un parlare che normalmente rende di più, anche coi nazisti, anche coi nemici” (pag. 48; l’intero verbale è pubblicato in appendice al libro). La scelta di Parri si rivelò giusta, anche perché la sua “lezione” veniva incontro al desiderio tedesco di conoscere meglio la situazione nel Nord Italia, Resistenza compresa. Wolff cercava di trattare per conto del suo capo, Himmler, comandante supremo delle SS. Oggi disponiamo di una ricca documentazione in proposito, che ho utilizzato per il mio libro “Hitler e la cultura occulta (ed.Rizzoli, 2013, in particolare capitolo 19 “L’ultima carta di Himmler”). Sia questi che il suo rappresentante in Italia appartenevano al vertice nazionalsocialista legato alla cultura eso- terica e Himmler consultava un astrologo, teneva conto degli oroscopi, forse puntava invano (come già Hess, col suo viaggio in Scozia, nel maggio 1941) su circoli esoterici inglesi. Comunque decise di proporre come pegno agli Alleati la resa delle truppe tedesche in Norvegia e Danimarca al nord e in Italia al sud. Wolff avvia le trattative in Svizzera all’inizio del 1945, proprio nei giorni dell’arresto di Parri e mentre i russi iniziano l’offensiva finale su Berlino. Gli Alleati sono interessati, perché si parla di un possibile trasferimento di Hitler dalla capitale minacciata a un ridotto alpino attorno al suo “nido d’aquila” di Berchtesgaden. Qui, oltre agli ottocentomila soldati dall’Italia, avrebbero potuto confluire unità quasi intatte stanziate nel protettorato di Boemia e Moravia e altre provenienti dalla Germania meridionale. In tal caso gli anglo-americani avrebbero dovuto affrontare una dura battaglia montana per piegare l’ultima fortezza di Hitler. Da qui l’interesse per l’offerta di una resa in Italia e l’immediata richiesta di un trattamento corretto e poi del rilascio per Parri e Sogno. Così finisce bene una vicenda iniziata male, come risulta da un libro del partigiano Francesco Villani, appena uscito dalle edizioni Punto Rosso: “La cattura di Parri avvenne per un caso mancino, con una ‘sciocchezza’ che tanto sciocca non era: alcuni partigiani con incarichi importanti dati loro dal comando generale, avevano preso alloggio nello stesso caseggiato di Milano, in via Vincenzo Monti 92. Uno era Martino il Tulipano (l’olandese Walter de Hoog), che fungeva da corriere di Parri e aveva ottenuto una camera dalla signora Zoller, affittacamere svizzera. Al piano superiore alloggiava Teresio Grange, che si occupava degli aviolanci alleati. Tulipano ha una scusante per quanto riguarda l’ospitalità di Parri e di sua moglie nel suo stesso appartamento. Era stato il vertice del PdA a premere affinché ottenesse dall’affittacamere un posto per i ‘coniugi Pasolini’, ossia Parri e la moglie, che si erano trovati improvvisamente senza un tetto. Non solo, dunque, due resistenti svolgenti attività rilevanti che abitavano lo stesso palazzo frequentandosi senza alcun accorgimento, ma non impedirono e anzi facilitarono che si aggiungesse un terzo inquilino nel caseggiato e addirittura nello stesso alloggio di uno di loro, sapendo di chi si trattava. Leggerezze incredibili, pur mettendo in conto le urgenze impreviste. Leggerezze che provocarono il soqquadro del Comando generale, rischiando peggiori conclusioni. Incredibile ma vero. Andò così.” (“Cif coi ribelli - Un’esperienza partigiana”, pag. 46). In realtà, grazie all’intelligenza e al coraggio di Ferruccio Parri, “peggiori conclusioni” non ci furono. La vicenda mi pare comunque esemplare anche perché suggerisce un modo non iconografico di raccontare la Resistenza, che implicò, accanto a gesta eroiche, “leggerezze incredibili”, con sullo sfondo il ruolo imprevedibile di astrologi e personaggi esoterici. S ull’eccidio delle Fosse Ardeatine, perpetrato il 23 marzo 1944 dalle SS contro 335 inermi prigionieri, molto si è scritto (e vale sempre la pena di segnalare il testo forse più significativo: il volume di Sandro Portelli L’ordine è già stato eseguito), ma restano ulteriori aspetti meritevoli di riflessione. In particolare, due punti: il ruolo giocato in quella tragedia dai fascisti e il difficoltoso accertamento giudiziario di tutte le responsabilità. Nell’immaginario collettivo, le Fosse Ardeatine simboleggiano l’atrocità della rappresaglia nazista; ciò risponde effettivamente a realtà, a condizione di evidenziare il decisivo ruolo collaborazionistico degli apparati repressivi della Repubblica sociale italiana. Di fronte alla rappresaglia, Mussolini assunse una posizione pavida e pilatesca. In un’intercettazione telefonica del suo colloquio con il maresciallo Graziani, il duce raccomanda di rimanere estranei alla vicenda, per non apparire corresponsabili dell’eccidio. Agli occhi dell’opinione pubblica, infatti, la complicità fascista inasprirebbe ulteriormente il giudizio sui governanti di Salò. Ma gli uomini e gli apparati dell’amministrazione fascista, lungi dal restare estranei, fornirono un importante contributo alla macchina che preparava l’eccidio. L’esame della documentazione d’archivio dimostra infatti la realtà e l’estensione del collaborazionismo, a partire dall’elaborazione della lista dei fucilandi, consegnata agli occupatori da funzionari di polizia della Rsi, lista che includeva anche Pilo Albertelli, sgradito al regime di Mussolini al punto da farlo assassinare con un colpo di pistola alla nuca. Dopo la liberazione della capitale e il ristabilimento del governo monarchico, il commissario di Pubblica Sicurezza Raffaele Alianello, già collaboratore del Comando germanico di Roma, venne rinviato a giudizio della Corte d’Assise di Roma «per avere tra il 22 e il 24 aprile 1944, fornito una lista di 50 detenuti politici fucilati alle Fosse Ardeatine». In tribunale affermò di avere cancellato dall’elenco consegnato ai tedeschi i nominativi di otto ebrei. Indignato da tanta ipocrisia, il letterato Giacomo Debenedetti scrisse nel settembre 1944 il pamphlet Otto ebrei, rilevando come in tribunale la partecipazione a un atto nefando si ribaltava in titolo di merito... Ebbene, Alianello fu prosciolto e scarcerato il 28 luglio 1946 insieme ad altri sette suoi subalterni, come lui accusati «di collaborazionismo e di atti rilevanti», grazie all’applicazione dell’amnistia Togliatti. Tra i liberati figurava Adolfo Corazza, accusato di «avere posteriormente all'8 settembre 1943 provocato l'arresto di Guzzo Roberto, Locatelli Arduino, Calvoni Antonio, Sbardella Mario, Pelliccia Ulderico, Lucchetti Carlo e Giovanni, dei quali il Pelliccia e il Lucchetti Carlo furono fucilati alle Fosse Ardeatine». Gli altri cinque coimputati scarcerati si erano macchiati di delazioni contro antifascisti da loro fatti arrestare e poi uccisi alle Fosse Ardeatine. Se si considera che l’amnistia Togliatti fu emanata il 22 giugno, è evidente lo zelo della Corte nell’applicare con la massima urgenza il provvedimento di clemenza a questi funzionari statali macchiatisi di reati infamanti. Il commissario Raffaele Alianello verrà subito reimmesso nei ruoli della polizia, col pagamento delle mensilità arretrate di stipendio per il periodo della detenzione. Egli rimarrà in servizio sino al pensionamento, nel 1974, dopo una onorata carriera (è defunto nel 1988). Il «caso Alianello» svela gli squallidi retroscena della dottrina della continuità dello Stato, grazie alla quale rimasero in servizio – nella polizia come nella magistratura – elementi macchiatisi di pesanti corresponsabilità con la dittatura e con l’occupante tedesco. Di contro, i partigiani entrati alla polizia nei giorni della Liberazione furono rapidamente cacciati, così come vennero estromessi tutti i prefetti nominati dal Comitato di Liberazione Nazionale, lasciando campo libero ai funzionari che durante la dittatura avevano fatto carriera per meriti politici. Mancò insomma la volontà di rinnovare lo Stato, attingendo a quanto di meglio la Resistenza aveva espresso. Il fenomeno – che condizionò a lungo gli equilibri dello Stato e il funzionamento del suo apparato repressivo – fu agevolato dalla guerra fredda. Nell’Europa divisa in due campi dalla cortina di ferro, i vari Alianello erano considerati un baluardo anticomunista e valorizzati professionalmente, mentre di personaggi come Riccardo Lombardi – esponente delle brigate «Giustizia e Libertà» e prefetto della Liberazione a Milano – si diffidava in quanto quinta colonna del bolscevismo. (m.f.) Il memoriale delle Fosse Ardeatine a Roma 12 Ricordo Ricordo HOTEL REGINA, MACELLERIA NAZISTA DI ANTIFASCISTI, PARTIGIANI ED EBREI di ROBERTO CENATI L’ Albergo Regina e Metropoli si trovava in pieno centro, un palazzo signorile a duecento metri da piazza del Duomo, con un ingresso in via Santa Margherita. Elegante e spazioso, l’edificio venne immediatamente requisito e circondato da barriere di filo spinato. Nella Guida di Milano e Provincia anno 1951-1952, si legge che in via Santa Margherita 16, nello stabile di proprietà dei F.lli Crespi, amministratore dr. Brindicci, avevano sede “l’Albergo Regina e Metropoli del commendator Clementi, il negozio di articoli per regalo di Arcidiacono Rocco, l’ufficio pubblicità e abbonamenti del “Corriere della Sera”, il negozio di valigeria e selleria di Rejna Filippo”. L’Albergo Regina continua dunque a svolgere la propria attività negli anni successivi al dopoguerra, sino al 1969-1970, data in cui viene smantellato e i suoi arredi e mobilie vengono messi all’asta. Il 13 settembre 1943, l’Albergo Regina, illuminato di notte da potenti cellule fotoelettriche, divenne la sede del comando interregionale di Rauff (collaboratore di Eichmann e inventore dei camion della morte, camere a gas su quattro ruote) e di quello interprovinciale affidato a Saevecke, responsabile dell'eccidio dei 15 Martiri di piazzale Loreto, avvenuto il 10 agosto 1944. Nell’Albergo Regina si trovano i comandi della SIPO-SD (polizia e servizi di sicurezza delle SS), nonché della Gestapo e dell’Ufficio IV B4, incaricato della persecuzione antiebraica. All’interno dell’Albergo Regina agiva il famigerato Otto Koch, che veniva chiamato dai suoi collaboratori “cucinatore di ebrei”. Al fianco di Otto Koch (stanza 24 dell’Albergo Regina) lavorano il maresciallo Johann Schofmann e il sergente Walter Gradsack, detto il macellaio. Luogo di tortura di partigiani ed ebrei, all’ultimo piano ospitava le celle di sicurezza. “Una foto di gruppo dell’intero reparto SS dell’Albergo Regina – si legge nel libro di Luigi Borgomaneri Hitler a Milano - ritrae in prima fila Rauff, seduto in mezzo a una ventina di segretarie e traduttrici e alle sue spalle, in piedi, Saevecke, insieme a una trentina di SS in divisa e a una quindicina di uomini in borghese, probabilmente componenti la squadra italiana di Ugo Osteria”. . All’interno dell’Albergo Regina agiva anche, al servizio delle SS a Milano, “un certo Hugo Orlandi, detenuto a San Vittore per truffe, interprete poi, nel campo di concentramento di Fossoli”, come apprendiamo da Poldo Gasparotto nel suo Diario di Fossoli. Guido Leto, ex dirigente dell’OVRA, la polizia segreta di Mussolini, racconta che appena arrivati i tedeschi a Milano, due ufficiali delle SS si precipitarono dal questore Domenico Coglitore per farsi consegnare gli elenchi degli antifascisti e degli ebrei. Le schedature erano state distrutte da un bombardamento che aveva colpito anche l’archivio della questura centrale, ma i tedeschi non ci credettero e di fronte alle loro minacce il funzionario cercò di scaricare la patata bollente sul commissario Domenico Panoli il quale fornì l’elenco di persona che avrebbe potuto dare un efficace apporto. Tale persona era Luca Osteria, il quale, nel 1953 dichiara: “Fui indicato ai tedeschi come la persona che, per l’opera esplicata durante la guerra, era in condizione di assisterli nel migliore dei modi”. Il ruolo dell’UPI La maggior parte dei politici detenuti a San Vittore che dipendeva dall'Albergo Regina, veniva consegnata dagli agenti dell’Ufficio speciale dell’UPI, l’Ufficio politico investigativo inquadrato nella Guardia nazionale repubblicana. Anima nera dell’UPI provinciale è il capitano Ferdinando Bossi, il cui comando si trovava in corso Venezia 32. Responsabili delle sevizie nei confronti dei prigionieri, a San Vittore, sono anche Manlio Melli e Dante Colombo. A Melli e a Colombo si attribuiscono le peggiori ignominie compiute a San Vittore. Il ruolo della Muti Per opera precipua di Vincenzo Cairella, dirigente della caserma Salinas di via Tivoli, verso la fine del 1944 divennero assai stretti i rapporti della Muti col comando SS dell’Albergo Regina. Agli inizi del novembre 1944, riesce a catturare numerosi responsabili del Partito d’Azione. Nelle sole giornate tra il 29 novembre e il 5 dicembre 1944 la Divisione della polizia della Muti invia a San Vittore più di un'ottantina di fermati specificando: “da trattenersi a disposizione del Comando SD Germanico, Milano, Albergo Regina”. Il servizio ascolto dei tecnici della Stipel Nel cuore di Milano alcuni tecnici milanesi della Stipel ebbero l’audacia e l’ingegno di stabilire un controllo telefonico per intercettare le conversazioni in arrivo e in partenza dall’Albergo Regina, dalla Muti, dalla federazione fascista, dall’Albergo Roma (sede del comando requisizioni). Attraverso otto centrali, allo scopo di far perdere le tracce e di rendere impossibile qualunque identificazione, fu stabilito un collegamento con i quattro anzidetti comandi. L’inserimento sulle linee tedesche e fasciste avveniva secondo il modulo dell’inclusione di operatore su conversazioni interurbane d’utente ma senza alcun segnale. Ai microtelefoni dei quattro apparecchi d’ascolto – situati in una casa privata – furono asportate, per motivi precauzionali, le capsule dei microfoni. I collegamenti erano frutto del lavoro di persone di assoluta fiducia e, dal febbraio 1944 ai primi di marzo 1945, due persone si alternarono ininterrottamente all’ascolto. Scopo di questo servizio ascolto era quello di captare il maggior numero di notizie interessanti e di utilizzarle nel modo più opportuno. Poteva accadere di cogliere la notizia che le SS o le Brigate Nere stavano organizzando un rastrellamento in città o una spedizione in montagna: l’informazione veniva immediatamente raccolta e comunicata ai Comandi partigiani. Oppure si riusciva ad avere notizia di un arresto imminente (i fascisti e i tedeschi, considerandosi padroni assoluti della città, non si curavano di prendere precauzioni e facevano nomi, cognomi e indirizzi). A questo punto, era ancora il telefono che si rivelava prezioso strumento di aiuto: saputo il nome del ricercato, si provvedeva immediatamente ad avvertirlo ma, per il timore che si trattasse di un’esca fascista, l’avvertimento veniva dato da un telefono pubblico. Ma l’operazione ascolto aveva anche scopi più vasti: ogni sera tutte le informazioni intercettate erano trasmesse, sotto forma di rapporto, al Comando del Corpo Volontari della Libertà. Il 10 marzo 1945 il servizio dovette essere interrotto: ascoltando una conversazione in partenza dal Comando tedesco, si intercettò l’ordine di arresto del capo del gruppo dei tecnici che avevano effettuato i collegamenti e svolgevano il servizio: “… non perdere tempo, andare subito in via Negri, arrestarlo e portarlo a San Vittore, è una spia… ” Il capo del gruppo fece appena in tempo ad avvertire un suo collaboratore di occultare meglio certo materiale provvisoriamente nascosto nel lucernario della centrale Città Studi e poi uscire di corsa dal proprio ufficio, mentre una squadra SS faceva il suo ingresso in via Gaetano Negri. Pochi giorni dopo il servizio era ancora in piena efficienza: due linee di controllo erano state installate in un convento dove il capo del gruppo si era rifugiato e dove rimase fino alla Liberazione. Inoltre, previe intese CLN Stipel e CLN Regionali, furono presi accordi con la Direzione Stipel per l’installazione, sul tetto dello stesso convento, di un’antenna a filo, per rendere possibile il collegamento con un analogo impianto su una chiesa di Torino. Il ponte radio fu scoperto il 24 aprile 1945 dai tedeschi i quali – dal tetto del palazzo di Giustizia di Milano – aprirono il fuoco contro alcuni operai della Stipel che stavano eseguendovi lavori. La liberazione dell’Albergo Regina Nella tarda mattina del 29 aprile 1945 entrano a Milano le prime avanguardie della V Armata statunitense. Le SS sono ancora trincerate all’Albergo Regina, intenzionate a cedere le armi solo se garantite dalla presenza delle truppe alleate. Il Comando Generale del Corpo Volontari della Libertà, nell’intento di evitare ulteriore spargimento di sangue, ordina di non attaccare l’Albergo che viene soltanto circondato. Il colonnello Rauff (sarebbe evaso dal campo di concentramento di Rimini. Morirà in Cile nel 1984), in cambio della parte da lui svolta nelle trattative di resa avviate da tempo con gli alleati, ottiene dal capitano americano Daddario l’incolumità per sé e per i suoi. E il 30 aprile, dopo 19 mesi e 17 giorni di spietata occupazione, protette da mezzi corazzati statunitensi, e sotto le armi puntate dei partigiani, le SS abbandonano l’Albergo Regina. “Di quel giorno rimane una serie di fotografie che fissano la resa e l’evacuazione del Regina, e le riprese filmate dai cineoperatori militari della V armata statunitense e da un partigiano al seguito delle brigate Moscatelli; le SS, truppa e graduati insieme alle segretarie del comando, vengono caricati su camion, mentre gli ufficiali lasciano l’albergo a bordo di alcune macchine scoperte ostacolati da una folla sempre più minacciosa che tenta di aggredirli, tanto che gli americani sono costretti a sparare alcune raffiche di mitra in aria per consentire loro il passaggio.” Prima di abbandonare l’Albergo Regina Saevecke ordina di distruggere ogni pezzo di carta che potesse documentare l’attività e le responsabilità tedesche, compresi gli ordini emanati per il compimento dell’eccidio di piazzale Loreto. La ricerca dei parenti all’Albergo Regina L’Albergo Regina costituiva la triste meta La lapide commemorativa dell’Hotel Regina a Milano di numerosi parenti di antifascisti, partigiani, resistenti improvvisamente scomparsi. Una storia particolarmente drammatica è quella raccontataci dalla nipote di Giuseppe Lenzi, stretto collaboratore di Ferruccio Parri, portato all’Albergo Regina, dopo essere stato catturato dai tedeschi. Lenzi viene arrestato nel marzo del 1944, nella sede della Edison, dove lavorava. Lenzi non parla e il suo silenzio consente, momentaneamente, a Parri di poter ancora operare liberamente. Lenzi viene trasferito nel campo di “Polizia e di transito” di Fossoli e, successivamente a Gusen, dove muore il 21 novembre 1944. La figlia di Giuseppe Lenzi, nei giorni immediatamente successivi alla cattura del padre, si reca all’Albergo Regina per avere sue notizie. Fu quella un’esperienza terribile. Quando arrivava ad un piano dell’Albergo Regina, alle sue spalle, con un comando elettrico, si abbassava un’inferriata, dandole la spaventosa sensazione di essere imprigionata all’interno di quel terribile luogo. La donna riesce infine a parlare con un tedesco che le dice di andarsene subito da lì e di ritenersi fortunata per non essere anch’ella arrestata. I dirigenti della Pirelli all’Albergo Regina In seguito ad uno sciopero verificatosi il 23 novembre 1944 presso lo stabilimento Pirelli Bicocca, verso le ore 11 un reparto delle SS si presentava nello stabilimento e procedeva al fermo indiscriminato di 181 operai e di due impiegati, che venivano quindi trasferiti alle carceri per il successivo inoltro in Germania. L’operazione era diretta dal capitano Saevecke. “In occasione di un abboccamento che l’ingegner Trotto e il rag. Morandi ebbero con il capitano Beuer, negli uffici dell’Albergo Regina, per perorare la causa dei dipendenti che erano stati arrestati, il capitano Beuer, che appariva agitatissimo, avanzò violente critiche contro Alberto Pirelli, ed aggiunse oscure minacce contro la Direzione della Società Pirelli. A conclusione del colloquio il capitano Beuer dichiarò che le decisioni circa il trasferimento in Germania degli operai erano già state prese da parte del comando delle SS e che egli non riteneva di doverle comunicare. Si limitò a dire che sarebbero stati rilasciati 16 elementi non idonei fisicamente.” La cattura di Parri e di Sogno Nel gennaio 1945 la Polizia di Sicurezza arresta casualmente Ferruccio Parri, anima della Resistenza e vicecomandante del Corpo Volontari della Libertà. Saevecke, conscio dell’importanza della preda, ne ordina il trasferimento da San Vittore all’Albergo Regina dove viene posto sotto strettissima sorveglianza. Edgardo Sogno decide di tentare di liberarlo insieme a Turrina e al medico Stefano Porta. Scoperti mentre sono in procinto di attuare il loro piano, Sogno e Turrina vengono presi. Condotti nel garage dell’albergo vengono sottoposti a un violento pestaggio. Turrina racconta che furono torturati per ordine e in presenza di Saevecke e che Sogno venne denudato e gli furono schiacciati i testicoli con i calci dei fucili. La lapide all'Albergo Regina Dopo 65 anni dalla liberazione dell'Albergo Regina, una lapide viene finalmente posta su quella facciata, nella ricorrenza del Giorno della Memoria, venerdì 22 gennaio 2010, su iniziativa di un Comitato promotore costituito da ANPI, ANED e Comunità ebraica milanese. 13 Personaggi 14 Personaggi la scomparsa del giornalista milanese insignito di medaglia d’argento al Valore Militare ADDIO ALL’EROE ENZO GALLETTI: ENTRÒ NELLA RESISTENZA A 16 ANNI Arrestato e torturato dai nazifascisti non fece mai i nomi dei suoi compagni È morto Enzo Galletti, giornalista professionista ed eroe della Guerra di Liberazione nazionale. Medaglia d’argento al Valor Militare. Aveva 86 anni. Non parlò sotto tortura; anche lui fu arrestato e passò quasi un anno, a cavallo tra il '44 e il '45 a San Vittore. Ne uscì vivo, ma non tradì mai i compagni, resistendo anche quando i nazisti lo scorticarono vivo. "Non sono uno di quelli che parlano" quasi si schermiva quelle poche volte che alludeva alla guerra partigiana con i suoi colleghi del “Giorno”. Guidò la rivolta di San Vittore del 24 aprile 1945 impugnando una pistola. Di lui scrive Fabio Ghezzi: “Benché io sia un trentenne, e lui vicino ai novanta; io cattolico, lui quasi ateo; io indipendentista di destra e lui ex partigiano, ed entrambi dal carattere sanguigno, eravamo diventati amici. Era una persona spigolosa, certo, ma coerente. Infondeva una passione che i ventenni neppure conoscono. Non ha sprecato un’esistenza al bar, davanti alla tv, o a fare chiacchiere al vento. Per tutta la sua vita, da giornalista, non si è uniformato alla routine e alla insipidezza scialba dei nostri giorni. Ha sempre approfondito il dettaglio. Perché, come mi aveva confidato, i capolavori si distinguono dalle storie banali dal dettaglio. Arrivederci, Enzo”. Chi era Ed ecco le note biografiche di Enzo Galletti a cura di Edgardo Bertulli. Enzo Galletti è nato a Milano il 28 luglio 1928. Di famiglia antifascista, da giovane studente assistette il 10 agosto del 1944 alla tremenda esposizione, in piazzale Loreto, dei corpi dei 15 Martiri, uccisi per rappresaglia dai tedeschi e gettati in quel luogo ed esposti per un giorno alla folla, tra gli insulti, il disprezzo e il vilipendio dei militi della Ettore Muti che vi fecero la guardia per un intero giorno ed impedirono anche ai familiari di avvicinarsi per ricomporre le salme dei loro cari: ricorda che quella fu la molla che lo convinse alla lotta armata nei confronti della Repubblica Sociale. Insieme ad alcuni compagni di scuola, entrò a far parte del Fronte della Gioventù, formazione di giovani antifascisti fondata da Eugenio Curiel il cui responsabile politico era Gillo Pontecorvo, che avevano per compito quello di sottrarre alle guardie repubblichine armi e indumenti che venivano destinati alle squadre partigiane che agivano sul territorio. Per la precisione il suo gruppo faceva parte del Quinto Settore, che operava prevalentemente in zona Romana. Il capo di questo intero settore era Quinto Bonazzoli, detto “Remo”, mentre il responsabile più diretto del gruppo di Galletti era Giuseppe Tortorella detto “Gip”. Queste azioni si svolgevano di solito la sera e la notte durante il coprifuoco. A sedici anni quindi egli abbandonò il recapito familiare ed entrò in clandestinità. Questo fatto comportava il dormire in posti differenti e protetti per evitare la cattura. Man mano che il suo gruppo raggiunse un buon livello di capacità militare e di coordinamento con altre formazioni partigiane, anche i Gap milanesi si avvalsero della collaborazione di questo nucleo per compiere numerose altre azioni quali comizi volanti nelle fabbriche della zona, acquisizioni di armi anche con azioni sorprendenti in alcune caserme di Milano, distribuzione della stampa clandestina nei quartieri di riferimento. Questo gruppo operava prevalentemente in zona Romana ma aveva collegamenti operativi anche con la zona Corvetto–Calvairate. Nel novembre del 1944 in seguito a un controllo volante del Battaglione Azzurro sulla linea del tram che passava da viale Montenero, venne catturato e portato per essere interrogato nella caserma dei Carabinieri di via Lamarmora. Qui fu torturato e poi deferito al tribunale fascista che gli comminò 30 anni di galera e lo internò successivamente nel carcere di San Vittore. Egli vi restò fino al 24 aprile del 1945, quando entrato fortunosamente in possesso di una pistola all’interno del carcere, provvide a disarmare alcune guardie carcerarie, a liberare numerosi detenuti tra cui il suo compagno di azione Mario Santin (anch’egli catturato e rinchiuso a San Vittore nel marzo di quello stesso anno). Provvide poi a far saltare i chiavistelli delle celle dei vari settori del carcere per consentire a chi lo voleva di scappare da quel luogo. Uscire era ancora rischioso perché una parte delle mura era sorvegliata da guardie tedesche armate. Fuggito, si rifugiò presso un parente e da lì riprese i contatti con la lotta clandestina che lo assegnò a compiti di sorveglianza e guardia nella stazione di Porta Romana. Nei giorni successivi venne dirottato assieme a Santin in piazzale Loreto quando vi arrivarono i cadaveri di Mussolini, della Petacci e degli altri gerarchi che vennero in quei giorni passati per le armi. Di quella vicenda ricorda assieme a Santin che quei corpi vennero appesi dai vigili del fuoco all’architrave di quella stazione di benzina per essere sottratti alla furia e allo scempio di una enorme folla inferocita accorsa sempre più numerosa in quello stesso posto dove vennero crudelmente esposti l’anno precedente i 15 Martiri. Divenuto giornalista professionista nei primi anni del dopoguerra, gli venne riconosciuta solo tardivamente la sua militanza partigiana e fu quindi insignito negli anni '70 della medaglia d’argento al valor militare. Pubblichiamo l’intervista rilasciata da Enzo Galletti in occasione della consegna della medaglia d'oro per i 50 anni di iscrizione all’albo da parte del presidente dei giornalisti Franco Abruzzo, intervista curata da Gianluca Ursini e apparsa su Tabloid nel marzo del 2003: Settant’anni fa bombe Usa rasero al suolo una scuola massacrando 180 bambini e 20 maestre I PICCOLI MARTIRI DI GORLA UCCISI DAL FUOCO AMICO Ricorre un altro anniversario triste, quello della strage di bambini a Gorla, Milano. Questa volta provocato da fuoco amico. Si dirà: le guerre sono crudeli e gli innocenti sono costretti a pagare anche loro il prezzo della ferocia umana. Però, ci sono errori che si potrebbero evitare. A 70 anni dalla strage avvenuta in quella scuola di periferia, un professore americano di 48 anni, ha avuto una tenerissima idea, quella di regalare un mazzo di fiori a Graziella Ghisalberti Savoia, una delle sopravvissute al bombardamento alleato della scuola “Crispi”. Quel venerdì aveva 7 anni e riuscì a scappare dall’aula, salvandosi. Nel biglietto che accompagnava il mazzo di fiori c’era scritto: “Graziella, ci scusi”. Come ricorda Laura Guardini sul “Corriere della Sera”, la commemorazione ha avuto momenti di intensa commozione soprattutto “quando la cerimonia di ricordo dei Piccoli Martiri di Gorla era ormai conclusa e si stava assottigliando anche la coda davanti al memoriale che accoglie i 184 bambini e le 20 maestre uccisi dal bombardamento di settant'anni fa. A un certo punto ecco farsi avanti un giovanotto in camicia e berrettino blu, in mano un mazzo di lilium rosa e rose bianche. Porgendoli a Graziella Ghisalberti Savoia, che quel venerdì del 1944 aveva sette anni e riuscì a fuggire dall’elementare Francesco Crispi ha detto semplicemente: “Sono un cittadino americano e sono tremendamente dispiaciuto per quell'errore devastante. Qualcuno di noi doveva pur venire a chiedere scusa”. La signora Graziella, come gli altri del comitato presieduto da Carlo Rumi, quasi non credevano fosse vero. L’autore di questo bel gesto è un professore di 48 anni, si chiama Robert Bloomhutf, abita a Lissone da tre anni e mezzo, con la sua fidanzata, Ida. Prima di venire in Italia (dove intende restare), ha insegnato Storia in California: aveva già approfondito la Seconda guerra mondiale in Italia, ma è stato solo dopo, una volta arrivato in Lombardia, che ha saputo di Gorla, e delle bombe destinate alla Breda ma che - per un errore di rotta e per la decisione di non aspettare a sganciare sulle campagne o sul mare – i B-24 statunitensi lanciarono su Gorla. «Avevo già portato diversi amici statunitensi a vedere questo monumento, qui dove sorgeva la scuola bombardata - spiega Robert -. E poi, circa un mese fa, ho saputo che oggi sarebbe stato il settantesimo anniversario. Semplicemente, l’ho segnato nella mia agenda e ho pensato che avrei dovuto esserci anch’io, per rappresentare gli Stati Uniti e chiedere perdono per quell’errore orrendo”. Il sindaco di Milano Giuliano Pisapia ha inviato un messaggio in cui si dice che “Milano vuole essere una città degna di Gorla. Città di pace che tutela i bambini” (m.p.) "Non sono uno di quelli che parlano". Persona riservata e poco amante delle luci della ribalta, Enzo Galletti ha un passato da eroe della Resistenza su cui mantiene un riserbo assolutamente fuori dai tempi. Per la professione che ha amato ed esercitato, nell'arco di mezzo secolo rappresenta un'eccezione assoluta. In un ambiente in cui si aggirano personaggi dall'ego spropositato, Galletti non vuole strombazzare i tanti risultati conseguiti, le lotte combattute con successo, sempre e solo per ragioni ideali, mai per calcolo personale. Un caso unico, se pensiamo a come Enzo Biagi ha definito un vizio della categoria: "l’autobiografismo, malattia senile del giornalismo". "Ho cominciato scrivendo sui muri”, così vuole essere ricordato questo milanese, nato nel 1928, e questa frase dà il senso della sua modestia. Condensare in cinque parole anni di lotta antifascista, combattuta mettendo a repentaglio la propria vita, non dà il senso del coraggio dimostrato dal futuro giornalista come partigiano. Galletti ha dato il suo contributo come attivista democratico occupandosi comunque di comunicazione: distribuiva le testate clandestine, come L’Unità o il Fronte della Gioventù. Questo il ricordo che il giornalista conserva di quegli anni: "Eravamo circa un centinaio i ragazzi nel gruppo, si chiamava "Fronte della Gioventù, un nome che ci è stato poi usurpato", si rammarica Galletti, "fondato, tra gli altri, da Eugenio Curiel e Gillo Pontecorvo, insieme ai fratelli Aldo e Giuseppe Tortorella ed alla fine siamo sopravvissuti in tre, gli altri, catturati dai nazi-fascisti, finirono o fucilati sul posto, o uccisi sotto tortura, o nei campi dove furono deportati. Altri morirono in combattimento. Giravamo per Milano con un triciclo dal doppio fondo, in cui nascondevamo le pubblicazioni clandestine, e le consegnavamo in giro per la città". Se avete già capito la persona, comprenderete perché Galletti non fa menzione della Medaglia d'argento al Valor militare, di cui è stato insignito per non aver parlato sotto tortura. Finita la guerra, Galletti può finalmente dedicarsi alla sua passione: inizia in cronaca, nel '48, alla redazione di Milano Sera. Il giornale verrà chiuso e parecchi redattori crederanno poi in una scommessa di Giangiacomo Feltrinelli che non vedrà mai la luce. Nel '54 viene chiamato alla Gazzetta di Mantova, dove rimarrà tre anni, al termine dei quali gli viene offerto di occuparsi della gestione della Provincia pavese. Questo periodo dura altri tre anni, ma il giornale non va tanto bene da sopravvivere anche se viene apprezzato. Nel '60 Galetti decide di presentare le proprie dimissioni irrevocabili e va a a salutare in città tutti i personaggi pubblici e le autorità con cui si è trovato a contatto in quegli anni; le proteste per l’abbandono del giornale sono unanimi, e il direttore trova subito entusiasti finanziatori per un’altra avventura editoriale. Nasce “Il Giornale di Pavia”, che avrà l’ex partigiano come direttore per alcuni anni. Comincia un intermezzo come capo ufficio stampa alla Candy. Dal 1972 Galletti lavorerà al Giorno. 15 16 Esteri Esteri LA POLVERIERA EGITTO L’Italia è il partner europeo ideale ma la situazione interna sta diventando esplosiva e sono in molti gli osservatori che sostengono che il Paese sia peggiore di quello di Mubarak di COSTANZA SPOCCI e GIULIA BERTOLUZZI È stato detto tanto sul ruolo del Mediterraneo per l’Europa, in un ventennio di tentativi di apertura dei mercati sin dal fallito processo di Barcellona del '95. A Novembre 2014, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi nel suo primo tour europeo in veste di presidente, ha deciso di visitare Italia e Francia, per disegnare un’agenda comune su business e lotta al terrorismo. “Se è vero che il Mediterraneo non è la frontiera dell’Europa, ma il cuore dell’Europa, noi non possiamo che vedere nell’Egitto il partner strategico per affrontare insieme le questioni principali di quell’area” dichiarava Matteo Renzi nella conferenza stampa indetta a seguito del primo colloquio bilaterale con la sua controparte egiziana. Come per Renzi lo è l’Egitto, anche per al-Sisi l’Italia è il partner europeo ideale, con uno scambio commerciale di circa 962,8 milioni di euro (2013) e con la stessa apprensione per l’instabilità libica. L’Italia vuole allargare i suoi investimenti nel Paese più popoloso del Nord Africa, composto dal 31,32% di forza lavoro sotto i 25 anni [fonte Nazioni Unite, 2010] e iniettare milioni di euro alle oltre 900 aziende italiane operanti in Egitto, attraverso organi come il Business Council italo-egiziano. Con i continui arrivi di immigrati sulle coste italiane, di cui il 95% provenienti dalla Libia secondo il Ministero degli Interni, e le conseguenti pressioni europee in materia d’immigrazione, il concerto e la comunione d’intenti fanno dei due Paesi due coniugi perfetti. Per l’Italia, la Libia è una maggiore fonte di turbamento. Infatti subito dopo l’intervento NATO che ha portato all’uccisione di Gheddafi, e la conseguente presa di potere da parte delle milizie libiche, l’Italia ha riscontrato un collasso nell’approvvigionamento di greggio e gas. Molti pozzi di petrolio, di cui tanti erano nelle mani dell’ENI (compreso il gasdotto Greenstream) e che producevano 1,5 milioni di barili di greggio oltre ai 10 miliardi di metri cubi di gas l'anno per l’esportazione a Europa e USA, sono stati smantellati o occupati dalle forze dei miliziani libici. La conseguente diminuzione della produzione in Libia ha avuto un impatto considerevole sulle aspettative di approvvigionamento energetico in Italia Sulla questione dei barconi d’immigrati, tema importante non solo a livello di opinione pubblica e di politica interna, ma anche a livello europeo, Renzi dichiarava “se noi abbiamo ricevuto 150.000 arrivi, l’Egitto, come al-Sisi ci dice, deve ‘occuparsi’ di 5 milioni di rifugiati”, ponendo l’accento sulla necessità di stabilizzare sia Paesi di origine che quelli di transito. Bisogna però tenere conto che l’Egitto non ha una legge in materia d’asilo e delega totalmente la responsabilità all’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite. UNHCR stima 253.268 rifugiati e richiedenti asilo in Egitto, molti dei quali continuano a lasciare il Paese in massa proprio a causa delle numerose difficoltà riscontrate a livello di integrazione, aiuti umanitari e discriminazione. Il terzo punto in agenda è la lotta al terrorismo, su cui alSisi sta fondando non solo le alleanze internazionali, ma anche tutta la sua politica interna. L’Egitto sta già sostenendo logisticamente l’esercito libico, attraverso addestramenti e approvvigionamento di materiale bellico. In un’intervista rilasciata a France24, Sisi dichiara che “il problema libico dovrebbe essere trattato come la crisi siriana e irachena, e la comunità internazionale dovrebbe impegnarsi di più”. Sfruttando la recente dichiarazione del califfo dello Stato Islamico Abo Bakr Al Baghdadi riguardo la conquista della città libica di Darnah - sulla costa mediterranea e al confine con l’Egitto - Sisi ricerca un sostegno europeo, e in particolare di Francia e Italia, per stabilizzare la Libia. Questo onere, farebbe recuperare all’Egitto di al-Sisi quel ruolo di Paese d’appoggio per le forze occidentali in Medio Oriente e nel Mediterraneo. Non solo per quanto riguarda i vecchi scenari mediorientali, come il conflitto israelo-palestinese in cui Sisi si è ripresentato sulle orme di Sadat come mediatore e paciere, ma anche sul nuovo scacchiere regionale ridisegnato dall’avanzata dell’ISIS in Iraq e Siria. Al-Sisi ha capito che gli interessi e obiettivi europei soprattutto di Italia e Francia, in contrapposizione con la Germania, sono più “approcciabili” e condivisibili dall’Egitto che da un supporto atlantico, dato che Washington è più concentrata sulle crisi in Iraq, Siria e Ucraina. Al-Sisi continua dunque a tessere nuove alleanze, giocando sulle frizioni e i punti deboli delle grandi potenze. Il riavvicinamento con la Russia, che rievoca fantasmi nasseriani, e la previsione di nuovi legami economici e politici con la Cina, hanno spinto Obama ad affrettarsi a riassettare il pluridecennale sostegno militare, nato dagli accordi di Camp David che era stato temporaneamente sospeso dopo la rimozione dell’ex-presidente dei Fratelli Musulmani Mohammad Morsi il 3 luglio 2013. Un punto su cui l’Egitto può sempre giocare, essendo di fatto insieme alla Giordania il maggiore “proxy” garante della sicurezza di Israele nella regione. Da non dimenticare che sulla politica estera egiziana incombe l’ombra dell’Arabia Saudita, principale sostenitrice nel Golfo dell’establishment militare insieme Hosni Mubarak, presidente per trent’anni dell’Egitto Proteste in Egitto durante la “Rivoluzione del Nilo” nel 2011 agli Emirati Arabi Uniti. Un sostegno politico supportato da ingenti prestiti e finanziamenti diretti nelle casse dello Stato egiziano. Recentemente questi due Stati hanno dato segno di voler “normalizzare” le relazioni con il loro principale avversario, il Qatar, astro nascente nella battaglia regionale per determinare le sfere d’influenza: su richiesta degli Stati Uniti hanno invitato il governo egiziano a “riconsiderare” le relazioni con Doha. Questo, però, non senza che l’Arabia Saudita abbia prima appoggiato la giunta militare egiziana per debellare i Fratelli Musulmani, espellendo così l’influenza del Qatar dall’Egitto. Al Sisi continua a cercare alleati nella comunità internazionale che, come i Paesi del Golfo, non discutano il suo operato sia come Presidente che come ex-Ministro della Difesa. E nell’Italia, in quest’ottica, sembra aver trovato il partner ideale: “nei prossimi mesi si vedrà come la cooperazione Egitto-Italia darà i suoi frutti sotto tutti i livelli, non solo quello economico” diceva il presidente del Consiglio italiano il 24 novembre a Roma. Nel corso della stessa conferenza stampa, nessuna domanda è uscita sullo stato delle cose nel Paese, né sulla feroce repressione, i massacri, gli arresti di giornalisti e attivisti e lo stato di polizia che regna nelle strade. Un interesse che, pertanto, dovrebbe essere notevole, e non solo per la retorica italiana ed europea su diritti umani, ma anche e soprattutto per gli interessi strategico-commerciali che l’Italia ha in Egitto: una repressione statale di questo tipo, già in atto da un anno e mezzo e che si fa sempre più soffocante ad ogni mese che passa, non è sostenibile nel lungo termine e non garantisce quella stabilità che le aziende italiane auspicano per triplicare i loro investimenti. Soprattutto perché non ci si può aspettare che a questa repressione non vengano formulate risposte. La società civile, però, ha le gambe spezzate: le associazioni e le organizzazioni non governative locali, che erano il lascito organizzato della rivoluzione, hanno chiuso i battenti in seguito alla legge sulle ONG emanata dal governo o continuano a lavorare sotto minaccia costante ed enormi pressioni; nel novembre 2013 la legge anti-proteste vieta raggruppamenti non autorizzati di più di 10 persone, pena l’incarcerazione; i maggiori partiti di opposizione sono stati quasi tutti cooptati nel luglio 2013 (per poi essere isolati e neutralizzati), oppure messi al muro o allontanatisi dalla politica per non legittimare un processo politico compromesso alla base; il presidente legifera per decreti, da due anni il Paese non ha un parlamento (la camera alta fu sciolta dal Consiglio Supremo delle Forze Armate nel giugno 2012, la camera bassa sempre dallo SCAF nel luglio 2013) e le elezioni parlamentari sono state ulteriormente posposte a marzo 2015, senza reali garanzie che si tengano nei tempi stabiliti; il potere giudiziario non è indipendente, le sue teste sono personaggi legati all’era di Hosni Mubarak, oggi passati sotto l’ala della nuova giunta militare, e i processi politici si moltiplicano senza sosta; l’islam politico, ovvero quell’islam che si muove all’interno delle istituzioni statali e che quindi porta avanti le sue istanze nel quadro dell’arena politica, è stato definitivamente debellato con l’arresto degli alti quadri e quelli intermedi dei Fratelli Musulmani, esclusi dopo il 30 giugno dalla politica istituzionale; i sindacati indipendenti rimangono tuttora in un limbo, non ne viene riconosciuta la legalità e le trattative sindacali vengono portate avanti dalle branche dell’ETUF, il sindacato statale sotto lo stretto controllo del governo, mentre nuovi imprenditori che sostengono Al-Sisi prendono il controllo delle principali aziende, stracciando gli accordi stipulati con i lavoratori dalle precedenti amministrazioni. Chi resta dunque? Le frange estreme, che con il peggiorare della situazione egiziana hanno a loro disposizione un bacino di reclutamento sempre più ampio. Il terrorismo che Al-Sisi dichiara di voler sconfiggere, infatti, è in realtà un terrorismo nutrito e “accudito” dalla repressione statale. Un esempio lampante è il gruppo jihadista Ansar al Beyt al Maqdis (ABM) in Nord Sinai, creato dalla Maglis-e-Shura [congregazione] di Gaza nel 2011 per minare le relazioni egiziano-israeliane. In una prima istanza ABM si limitava a lanci di razzi sulla città sudisraeliana di Eilat e all’attacco di gasdotti egiziani verso Israele in Nord Sinai, ma progressivamente si è trasformato in un gruppo anti-statale i cui principali obiettivi degli attacchi 17 18 Esteri 19 Esteri Podemos fa tremare la politica spagnola e l'austerità di Merkel & sOCI bomba sono i direttorati sicurezza (gennaio 2014), il Ministero degli Interni (settembre 2013), tribunali (gennaio 2014), installazioni militari e di polizia. In seguito alla deposizione di Morsi, la giunta militare ha iniziato un’operazione militare in Nord Sinai, di fatto una guerra a bassa intensità, che è tuttora in corso e che ha portato alla morte di centinaia di civili nonché alla distruzione di altrettante abitazioni. Chi è riuscito ad entrare in Nord Sinai negli ultimi mesi – l’accesso dell’area alla stampa è strettamente sorvegliato - riporta di un paesaggio desolato comparabile a quello della Siria, con villaggi fantasma utilizzati dai militanti islamici come avamposti contro le forze armate egiziane. A questo si aggiunge un razzismo e un trattamento altamente sfavorevole per la popolazione beduina che abita quell’area, dall’insufficienza di scuole e sanità alla sottrazione delle terre. Lo scorso ottobre, inoltre, il governo egiziano ha predisposto la creazione di una zona cuscinetto tra la città egiziana di confine di Rafah e Gaza: in un chilometro di larghezza per 13 di lunghezza più di 20.000 persone sono state obbligate a lasciare le loro case, rase al suolo per la creazione di un canale di divisione tra Egitto e Gaza che ha come scopo principale quello di isolare Hamas. Un accordo, quello di creare un canale divisorio, già sondato nel 2007 tra il braccio destro di Mubarak, Omar Suleiman, e Tzipi Livni, Ministra degli Esteri israeliana del governo Olmert. L’operazione ha fatto infuriare ulteriormente gli abitanti del Nord Sinai, e lo scorso 10 novembre il gruppo jihadista ABM si è ufficialmente alleato allo Stato Islamico, giurando fedeltà a Abu Bakr Al Baghdadi. L’alleanza con ISIS ha un impatto effettivo sull’Egitto: esistono cellule di ABM anche nella zona agricola ed industriale, il Delta del Nilo, ma soprattutto uno Stato Islamico (SI) in Egitto ha lo scopo di reindirizzare in azioni locali tutti quei giovani frustrati dalla situazione, che stanno partendo per la Siria e l’Iraq. D’altro canto, questo legittima ulteriormente il governo egiziano a rafforzare le misure di sicurezza e nutre la retorica anti-terrorismo all’interno. Paradossalmente, per il governo fa comodo avere un abbozzo di SI in casa, poiché permette ad Al Sisi di mettere tutto nello stesso sacco - jihadismo, islam politico, islamismo tout court – del terrorismo, compresi rivoluzionari e liberali. Una visione che il nostro primo Ministro condivide con il presidente egiziano, nonostante questo approccio non abbia portato a buoni risultati sul terreno. La questione che si pone all’Italia, anche nell’ottica di un intervento in Libia in cooperazione con l’Egitto, è non solo sull’affidabilità del “partner strategico”, ma anche sul prezzo politico da pagare, ovvero supportare una giunta militare, un terrorismo di stato e una strategia della tensione che rischiano nel lungo periodo di degenerare in scenari catastrofici, ben opposti ad un “Egitto stabile” e “pilastro del Mediterraneo”. Nel frattempo il clima di sospetto e paranoia degenerano in situazioni in cui “buoni cittadini” denunciano o addirittura arrestano in strada chi osa esprimere un’opinione contraria al governo, con l’accusa di “fomentare il caos”, o casi in cui taxisti e conduttori sentendo conversazioni “vietate” al telefono o tra persone, portano direttamente i passeggeri al Ministero degli Interni o alla più vicina stazione di polizia. Aumentano nel frattempo i casi di persone scomparse, “desaparecidos”, le torture e le morti in carcere restano impunite, così come tutti i massacri di rivoluzionari, copti e Fratelli Musulmani, dal 2011 a oggi. Il tutto accompagnato da una barriera di conformismo dietro cui la maggioranza delle persone ha deciso di proteggersi e dalla retorica di una Nazione forte e gloriosa i cui problemi sono interamente imputati ad un non ben definito “complotto straniero”. Un Egitto peggiore di quello di Mubarak, a detta di tutti coloro che la rivoluzione del 2011 l’hanno fatta. Ma al vecchio continente, evidentemente, i dittatori continuano a piacere di più. Piazza Tahrir occupata dalle tende dei manifestanti UNA “NUOVA” SINISTRA AVANZA IN EUROPA di MAURIZIO GALLI D alla crisi del 2008 la Spagna sembra esserne quasi uscita ma solamente per i burocrati della UE, impegnati a fare rispettare i rigidi parametri ai PIGS, meno attenti alle conseguenze a lungo termine che questi “compiti” stanno avendo sulle fasce più deboli dei cittadini. In Spagna la disoccupazione giovanile tocca punte del 60%, il precariato quasi i 2/3 dei nuovi assunti, mentre solo nel 2014 sono stati 300.00 gli sfratti esecutivi per insolvenza da parte dei proprietari delle case verso le banche. Banche spagnole che hanno avuto in questi anni più di 200 miliardi di euro per ripianare i propri debiti, e foraggiare la stessa classe dirigente che aveva portato il paese sull'orlo del fallimento. Dopo il governo Zapatero, co-responsabile della debacle spagnola, la destra popolare guidata da Rajoi, grazie anche al controverso sistema elettorale iberico, era riuscita a salire al governo, pronta a seguire i dettami di Bruxelles, facendo tabula rasa di molti diritti dei lavoratori, tagliando il welfare e rendendo il lavoro flessibile più di quanto già non fosse. Le varie proteste però venivano dalla società civile in maniera poco sinergica e organizzata. Il movimento studentesco, gli sfrattati della Pah, il sindacato, orfano del PSOE, ormai ridotto al lumicino e impossibilitato, e anche poco intenzionato, a fare opposizione. Tutto questo ha consentito al governo guidato dai Popolari di uscire pressochè indenne dalle elezioni europee del maggio scorso, facendo tirare un sospiro di sollievo al mondo finanziario. Un'altra Grecia sembrava scongiurata. Ma l'ondata di arresti di una nuova tangentopoli colpiva ad ottobre il partito del Primo Ministro, portando alla ribalta una nuova stagione di proteste. Questa volta però una sponda politica ha approfittato di questo malcontento, il nuovo partito di sinistra chiamato “Podemos”. L’esordio di questa forza politica in realtà risale a qualche anno prima. Nata per filiazione dal movimento degli Indignados del 2011, ha ottenuto alle recenti elezioni europee un risultato molto lusinghiero, 8% di suffragi e 5 deputati. Un risultato che ha spinto i suoi promotori a virare verso una soluzione organizzativa meno informale del sodalizio. Di fatto si è dato l’avvio alla costituzione di un partito vero e proprio. Il processo costituente (Asamblea Ciudadana, Assemblea dei Cittadini) si è aperto il 15 settembre scorso e si è concluso il 14 novembre, con la votazione finale dei candidati alle cariche elettive. Il suo leader e ideologo, Pablo Manuel Iglesias Turrión, classe 1978, è un giovane professore di Scienze politiche all’Università di Madrid, studioso di Gramsci, che ha ricevuto il battesimo alla politica tra le fila della Juventud Comunista (UJCE), l’organizzazione giovanile del Partito Comunista Spagnolo. Figura carismatica, abile comunicatore dalla retorica forbita e penetrante, Iglesias è il volto e l’anima del movimento, letteralmente. Non a caso il simbolo presentato alle scorse elezioni europee recava proprio la sua effige. Si è subito provato a fare un paragone con il Movimento 5 stelle, ma ben poco hanno in comune i due fenomeni politici, se non Pablo Manuel Iglesias a un comizio di Podemos altro che il raccogliere l'indignazione e la disperazione delle persone nei confronti di una politica sempre più sorda alle esigenze quotidiane. In realtà Podemos è ben allineato a sinistra. Al Parlamento Europeo siede insieme alla Lista Tspiras e alla Linke tedesca, nei banchi della sinistra tradizionale, non fa una campagna anti-partiti, né antipolitica, cerca le risposte dentro quello che da sempre è un programma socialista nel senso storico del termine. La differenza la fa l'uso consapevole dei nuovi media, internet, social network su tutti, e un linguaggio diretto e moderno dei suoi leader, sopratutto di Iglesias, che ha la stoffa dell'uomo al comando, perfetto per la spettacolarizzazione che la politica di oggi richiede ai suoi interpreti, di qualsiasi area siano. Ma dietro al necessario show c'è un'idea ben chiara, nata da una prolungata ed intensa attività di studio e di ricerca sull’evoluzione della società spagnola e sulle conseguenze delle politiche neoliberiste, che ha avuto come luogo di elezione la facoltà di Scienze politiche dell’Università Complutense di Madrid, da cui provengono sia Pablo Iglesias che altri dirigenti del movimento. Fuori dai confini nazionali i loro riferimenti si chiamano Hugo Chavez (Iglesias è stato consulente del governo venezuelano) ed Evo Morales, icone delle recenti rivoluzioni bolivariane nel Sudamerica e di quello che, da quelle parti, è stato battezzato come «socialismo del XXI secolo». Con Renzi condividono un'idea di “rottamzione”, ma dei partiti tradizionali, PPE e PSOE, tanto che Rajoi inizia a parlare di larghe intese anche in Spagna, per paura che la non rappresentanza reale del paese all'interno del Parlamento possa aumentare la protesta, e l'ascesa di questa nuova forza. Nel proprio piano programmatico Podemos annuncia misure chiare e per niente interpretabili: riconversione ecologica dell’economia, nazionalizzazione dei servizi pubblici essenziali, riduzione dell’età pensionabile e dell’orario di lavoro a 35 ore settimanali, sostegno alle produzioni locali di cibo, ristrutturazione del debito, lotta alle multinazionali, allo strapotere della finanza e delle banche Proposte che in Italia farebbero titolare ai giornali di forza conservatrice e non riformista, mentre in Spagna dagli ultimi sondaggi Podemos ha raggiunto il 27%, diventando così virtualmente il primo partito. Non solo quindi forze populiste e razziste di destra sembra far nascere questa crisi, nei prossimi mesi i veri “nemici” dei burocrati europei saranno le sinistre di Tspiras e di Iglesias, aspettando anche in Italia una nuova idea, o questa nuova idea, magari portata da un Landini, non più sindacalista, ma leader di un nuovo movimento italiano alternativo a Renzi e alle larghe intese. 20 Memoria Memoria DELIO TESSA, IL POETA ANTIFASCISTA COSTRETTO A “EMIGRARE” IN SVIZZERA Resistenza: Menici divide ancora i partigiani di ARTURO COLOMBO Convegno a Temù a 70 anni dalla sua uccisione - Il rifiuto dell’Anpi a dare il suo patrocinio A nche se c’è ancora qualcuno che ricorda quel singolare verso in dialetto milanese “L’è el dì di mort, alegher !”, non so quanti conoscano il nome dell’autore, che è Delio Tessa, singolare personaggio vissuto a Milano dal 1886 al 1939. Faceva l’avvocato, ma era soprattutto un appassionato di poesia e un giornalista. Però, da coerente antifascista gli era vietato di scrivere sui grandi quotidiani italiani; e così era diventato collaboratore di “testate” svizzere. Ecco perché è una felice sorpresa il volume di Tessa, La rava e la fava, curato da Mauro Novelli (ed. Casagrande, Lugano & Milano), che raccoglie “cinquanta prose disperse”. Ironia e vena crepuscolare – spiega bene Novelli – caratterizzano molte di queste pagine, spesso dedicate a esponenti del mondo culturale. Ne offre un prezioso esempio un articolo, che risale al 12 maggio 1936 e dedicato al grande direttore d’orchestra Arturo Toscanini, che per Tessa non è solo un “uomo di genio”, ma “un lavoratore tenace, sovente notturno”, che possiede “il portento della memoria”, perché di ogni autore “la partitura gli si è fissata nella mente nota per nota”. E due anni più tardi, sempre con riferimento a Toscanini sottolinea che “l’Italia può essere ben fiera di questo suo fierissimo figlio, di questo protagonista del genio italiano all’estero”. Non credo di sbagliarmi se sostengo che i ritratti dedicati a protagonisti costituiscono uno dei maggiori meriti di Tessa. Lo dimostra il ritratto di Arnoldo Mondadori, definito “il principe degli editori italiani”, la cui vita “è sempre stata un seguito di battaglie e di vittorie”. Invece Benedetto Croce lo descrive così: “chi lo avvicina e lo conosce, subito intuisce che la vita condotta in disparte è la sua vera vita, la sola che gli consenta la meditazione e lo studio”. Di Gioacchino Belli, Tessa sostiene che “non fu soltanto poeta satirico ma riuscì anche eccellente psicologo”, mentre Francesco Pastonchi ce lo presenta come “dicitore di Dante”, e Anselmo Bucci, letterato e pittore, lo presenta “gioviale, massiccio, un uomo vivo”. In altri articoli Tessa si dedica a raccontare alcuni film, come “Tempi moderni”, dove protagonista è Charlot, “l’indefinibile, l’inafferrabile. Non ha età, non ha casa, non ha patria e sembra quasi un asessuale”, oppure “I Miserabili”, dove “quasi tutte le scene hanno il fascino di vecchie illu- strazioni ottocentesche”, o ancora “Angeli senza Paradiso”, dove “tutto è poesia, vera poesia”. E non meno godibili sono le pagine, dove Tessa illustra alcune “prime”, come la “serata memorabile” del 5 febbraio 1887, quando Verdi fu chiamato “un numero infinito di volte alla ribalta della Scala” per la prima dell’Otello, oppure la prima della Butterfly, arricchita dall’aneddoto di “un gatto [che] uscì dalle quinte a fare una passeggiatina sul palcoscenico fra l’ilarità generale”. Ma ce ne sono altri di articoli su temi anche molto diversi fra loro: per esempio, la descrizione di una serata al Bagutta, notissimo ristorante milanese dove “è risorto un po’ lo spirito della scapigliatura lombarda dell’ultimo Ottocento”, oppure la tragedia di “un povero scapolo”, o ancora, con espliciti riferimenti al Cantone Ticino, quello del 2 giugno del 1937, dal titolo eloquente: “Un giorno a Lugano nella Casa degli Italiani”. Insomma, gli argomenti sono anche molto differenti fra loro, ma spicca sempre la grande originalità, di cui Delio Tessa rivela la sua meritoria padronanza. E i lupi raccontano la strage fascista sulla Sila di FILIPPO SENATORE Pochi ricordano la strage fascista del 2 agosto 1925. Vittime innocenti, soprattutto donne di cui una incinta. Manifestavano per il carovita nella piazza principale di San Giovanni in Fiore nel cuore della Sila. Giovanni Belcastro la racconta nel libro Il silenzio dei Lupi edito da Rubbettino, Soveria Mannelli. In quell’afosa estate del 1925 il regime fascista controllava a stento il popolo in rivolta. Michele Bianchi, quadrunviro della marcia su Roma, volle dare una lezione ai socialisti che avevano osato creare un sistema di mutuo soccorso per la compravendita di terreni da distribuire ai senza terra. Bianchi era allora potente sottosegretario fascista ai lavori pubblici. Carabinieri e squadristi accerchiarono la cittadina silana per far fronte al malcontento di migliaia di contadini disarmati che protestavano pacificamente contro le tasse inique sui beni di prima necessità. Le forze dell'ordine spararono sulla folla per uccidere. I criLapide in ricordo della strage a San Giovanni in Fiore (CS) minali colpirono almeno 35 persone e uccisero Filomena Marra di 27 anni al nono mese di gravidanza, il figlio che portava in grembo, Barbara Veltri 23 anni, Antonia Silletta 68 anni, Arianna Mascaro 73 anni e Saverio Basile 33 anni. L’Agenzia Stefani dettò un dispaccio alla stampa nazionale, manipolato dai fascisti, nel quale si parlò di una folla non controllabile che aveva provocato “la giusta” reazione dei carabinieri e degli squadristi. La censura impedì a pochi giornali liberi di esprimere parere contrario. Ciò che premeva al regime – sottolinea Belcastro – fu rimuovere e far dimenticare una strage che 22 anni dopo si ripetette con una regia simile a Portella della Ginestra in Sicilia. I martiri dimenticati persino nel Dopoguerra vennero ricordati solo nel 1973 con una lapide nel luogo dell’eccidio. Oggi - ammonisce Giovanni Belcastro, professore emerito di Chirurgia all’Università di Ferrara – la lapide è illeggibile ed andrebbe rinnovato il sentimento di identità antifascista in una Calabria dove alcuni nostalgici ricordano il criminale Michele Bianchi, fucilatore dei contadini al servizio dei latifondisti calabresi. Un monumento purtroppo lo ricorda nella natia Belmonte segno del trasformismo giustificato da un ottuso campanilismo strapaesano. Un bimbo mai nato senza nome e volto, non divenne mai coetaneo dei nostri padri, ma rose le coscienze di tutti coloro che tacquero anche dopo la conquista della libertà. Un monito anche per le future generazioni. Per non dimenticare. C on l’approssimarsi del 70° anniversario della morte vecchio alpino» agli amici «del nostro Menici, che finaldel colonnello Raffaele Menici (Corteno, 17 novem- mente ha trovato la via della verità». Rigoni Stern salutava i garibaldini che - coordinati da bre 1944), ufficiale degli alpini e promotore della Resistenza in Valle Camonica, si riscopre un’originale figu- Firmo Ballardini - eressero il 9 settembre 1995 un cippo nei ra di montanaro, legato alla sua terra e ai suoi commilito- pressi della località dove tre fiamme verdi consegnarono ni, ucciso in un dramma partigiano, in circostanze che oggi Menici alle SS, ovvero alla morte. All’inaugurazione, orgaè finalmente possibile chiarire, con ulteriori documenti e nizzata dall’Anpi di Brescia con oratore Aristide Giudici (membro con Dolores Abbiati e Lino Pedroni del direttivo testimonianze. La dimensione alpina è radicata nella sua partecipa- provinciale), parteciparono molti reduci con annodati al zione alla grande guerra, nel 5° Corpo d’Armata. Promosso collo i fazzoletti rossi della 54ª Brigata Garibaldi e i fazzotenente nel dicembre 1915, combatte sulle trincee del Tren- letti verdi della «Tito Speri». Mancò invece l’adesione tino. Istruttore di allievi-ufficiali e ispettore al fronte, tiene dell’Associazione Fiamme Verdi, scandalizzata dall’indii contatti con il Comando Supremo di Cadorna. Tra il luglio cazione «colpito a tradimento», riportata dalla lapide. Alla 1915 e il gennaio 1917 annota il diario di guerra (conser- vigilia della cerimonia, i dirigenti delle FF.VV. avevano vato al Museo della Guerra Bianca dell’Adamello, Temù). chiesto all’Anpi la cancellazione di quelle parole, preannunciando altrimenti la fuoruscita dal Nel febbraio ’17 è trasferito al Battasodalizio degli iscritti alle Fiamme glione Cavento, sulle postazioni Verdi. Il diktat fu sdegnatamente dell’Adamello. respinto e l’iniziativa si svolse con In ottobre, promosso capitano, grande concorso popolare. comanda una Compagnia che nella Nel 1995 l’Anpi di Brescia orgaparte finale dei combattimenti nizzò le cerimonie in onore di guida sino a Merano. È devoto alla Menici, mentre nel 70° della morte, memoria di Cesare Battisti, conooltre a non predisporre alcunché, sciuto nell’anteguerra attraverso la rifiuta il patrocinio al convegno moglie Ernesta, già compagna di del 15 novembre al Museo della studi di Giuseppina Rossini, fidanGuerra Bianca di Temù, con relazata (e, dall’aprile 1921, moglie) di tore il vicecomandante della 54ª Menici. Nel gennaio 1941 - mobiliBrigata Garibaldi, Gino Boldini, che tato sul fronte albanese - riceve in aveva combattuto fianco a fianco ricordo l’acquaforte col volto del con Menici i fascisti e i tedeschi.La martire e una dedica significativa: clamorosa assenza è così motivata «L’immagine di Cesare Battisti che dal presidente provinciale, Giulio nella divisa d’alpino combatté la sua Ghidotti: «L’orientamento generale ultima battaglia per quel Tricolore in assunto a suo tempo dall’Associacui palpitò la più nuova storia d’Itazione in merito a proposte di figurare lia - Al Ten. Col. Raffaele Menici, Raffaele Menici durante la Prima guerra mondiale su manifesti, comunicati, media tra Alpino, la vedova di Cesare Battisti». Comandante del Battaglione complemento del 6° Alpini gli organizzatori o tra i patrocinatori di convegni/eventi «Vestone», ha alle sue dipendenze Mario Rigoni Stern. Tra prodotti in collaborazione con altri soggetti, è che l’assenso i due s’instaura un rapporto tenace, che nemmeno la morte è subordinato al fatto che l’Associazione sia stata fin dal spezzerà. Nel 1995, informato delle iniziative commemora- principio coinvolta e partecipe in forma ufficiale e sostantive (cippo a Corteno e convegno a Breno), l’autore di “Quota ziale in tutte le fasi che portano alla realizzazione del Albania” e de “Il sergente della neve” scrive cinque lettere, convegno/evento stesso. Soprattutto nelle fasi di 1) ideazione ad oggi inedite, improntate a persistente affetto: «Non so e specificazione di temi e di sottotemi, di finalità e obiettivi; se nel dicembre 1940 le cose peggio di così non dovessero 2) individuazione della collocazione spazio-temporale, degli andare, ma è il fatto che con l’arrivo di Menici, cambiarono. eventuali collaboratori, dei partner, dei patrocinatori, dei Era un uomo che dava fiducia, sempre attivo. Fu lui che relatori; 3) costituzione dell’équipe operativa; 4) definizione mi procurò un paio di scarponi, perché i miei piedi erano bozza del programma e del piano finanziario; 5) approvapiù sulla neve che sul cuoio. Aveva avuto tutta la stima del zione del programma definitivo. Tenuto presente quanto nostro col. comandante Augusto Restenna». Lo scrittore di cui sopra, non essendosi verificate nell’organizzazione ebbe notizia della fine di Menici da un alpino trentino: «Nel del convegno in oggetto le condizioni appena richiamate, raccontarmelo, Brandalise era molto commosso e mi diceva: si ritiene di declinare l’invito». La richiesta di patrocinio “Menici per me era un papà” (Brandalise era orfano)». pervenne all’Anpi con quaranta giorni d’anticipo, dunque Trascorso mezzo secolo, bolla con una frase di fuoco i malu- in tempo utile per consentire ai suoi dirigenti di informarsi mori di certo reducismo bresciano per chi vuol chiarire le e - se solo lo avessero ritenuto - di contribuire attivamente circostanze di quell’assassinio: «L’ombra di Raffaele Menici alla fase organizzativa. Si è invece preferito, per motivare la come può ancora turbare la coscienza degli pseudo-parti- propria (imbarazzata e imbarazzante) indisponibilità, ripiegiani!». L’ultima lettera (1° gennaio 1996) reca l’augurio «del gare su di un profilo aridamente burocratico. (m.f.) 21 22 Memoria Ricordo di Giacomo Matteotti Memoria grande eroe dell’antifascismo di MARIO ARTALI S ettant’anni orsono si svolgeva il secondo – ed il più tragico - dei tre anni (1943-1944-1945) della riscossa nazionale, ma venti anni prima, e quindi novanta anni fa l’assassinio di Giacomo Matteotti ed il ricordo incancellabile che ne era derivato (“l’ombra di Banco” come scrisse Carlo Rosselli) segnano insieme l’inizio della dittatura e della lotta per la riconquista della libertà. Settanta anni orsono i primi mesi del 1944 avevano alimentato le speranze di una rapida conclusione della guerra con la sconfitta del nazifascismo. A marzo i grandi scioperi in tutta l’Italia occupata, il 4 giugno la liberazione di Roma e subito dopo dell’intero Abruzzo, in luglio Siena, Arezzo, Ancona e Livorno. Per tutto agosto si combatte a Firenze fino alla vittoria del 1° settembre. Dovunque si rafforzano le bande partigiane e ne nascono di nuove, si implementa faticosamente il coordinamento delle formazioni sulla base della decisione presa il 19 giugno dal CLNAI di costituire il CVL sotto il comando di Raffaele Cadorna, con Luigi Longo e Ferruccio Parri vicecomandanti. Da marzo 1944 era iniziata la costituzione del Corpo Italiano di Liberazione (CIL) per combattere accanto agli Alleati, dopo che negli ultimi mesi del 1943, il 1° raggruppamento motorizzato si era battuto insieme agli angloamericani e la bandiera italiana era sventolata con quella americana sulle pendici di Monte Lungo. A settembre dello stesso anno il CIL lascia il posto ai primi "Gruppi di Combattimento", vere e proprie Divisioni di fanteria del ricostituito esercito: un complesso di 20.000 uomini, armati ed equipaggiati dagli inglesi ma con stellette ed il tricolore al braccio. Collegata al Comando alleato opera anche la Brigata Majella di Ettore Troilo, che di Matteotti fu assistente e compagno di Partito. A giugno era stata costituita a Montefiorino (Modena) la prima repubblica partigiana, la prima di molte: la Resistenza cercava di riscoprire la democrazia e la partecipazione, dopo la lunga notte del fascismo. A settembre nasce la Repubblica dell’Ossola, una delle principali e delle più ricordate. La giunta provvisoria di governo è presieduta dal socialista Ettore Tibaldi, che così definisce l’obiettivo della Repubblica: “dare un esempio di come gli italiani, libera- tisi per esclusiva forza loro, sapessero amministrarsi, attraverso un libero Governo, dando prova della capacità a democraticamente reggersi”. A coloro che ancora sottovalutano il contributo di tutti i combattenti per la libertà – non importa se inquadrati nelle Forze Armate o partigiani delle più diverse formazioni – ricordo la sobria efficacia con cui a Parigi, alla conferenza di pace, si espresse Alcide De Gasperi rivendicando per l’Italia condizioni diverse da quelle riservate alla Germania ed al Giappone. De Gasperi rifiuta (sono sue parole) “la formulazione così stentata ed agra della cobelligeranza” che è: “delle Forze armate italiane hanno preso parte attiva alla guerra contro la Germania”. “Delle forze?” - ancora De Gasperi - “ma si tratta di tutta la marina da guerra, di centinaia di migliaia di militari per i servizi di retrovia, del Corpo Italiano di Liberazione, trasformatosi poi nelle divisioni combattenti e last but not least dei partigiani, autori soprattutto della insurrezione del nord”. Ma da dove nasce tutto questo, dopo vent’anni di dittatura e di deformazione delle coscienze? Da dove nasce, dopo il rallentamento e l’arresto dell’avanzata alleata, le terribili rappresaglie nazifasciste, il prezzo inumano pagato per superare il lungo e durissimo inverno, l’energia che si sprigiona fino alla vittoria del 25 aprile del 1945? Nasce certo dal sacrificio di molti, di eroi di tutte le colorazioni dell’arcobaleno e di soldati fedeli al giuramento prestato, dall’esempio di tanti, esuli, prigionieri o clandestini in Patria, ognuno dei quali dobbiamo onorare e ricordare. Oggi voglio ricordare un uomo il cui nome significò e significa più di altri tutto questo: Giacomo Matteotti. Ho letto da qualche parte che il professor Stefano Caretti ha detto: “Per riportare Matteotti nella storia, come finalmente merita, bisogna andare a cercarlo nel mito”. Strana sorte per un “eroe tutta prosa” come lo definì Carlo Rosselli, che scrisse, dieci anni dopo: “Matteotti è diventato il simbolo dell'antifascismo e dell'eroismo antifascista. In qualunque riunione si faccia il suo nome, il pubblico balza in piedi o applaude. Comitati Matteotti, Fondi Matteotti, Circoli Matteotti, Case Matteotti. Matteotti, come l'ombra di Banco, accompagna Mussolini. E Mussolini lo sa. Eppure, nessun uomo fu meno simbolo, meno "eroe", nel senso usuale dell'espressione, di Matteotti. Gli mancavano per questo le doti di popolarità, di oratoria, di facilità che creano nel popolo il feticcio; e la sua vita breve non registra neppure uno di quei gesti drammatici che colpiscono la fantasia e promuovono ad "eroe" il semplice mortale. Matteotti possedeva però in grado eminente una qualità rara tra gli italiani e rarissima tra i parlamentari: il carattere. Era tutto d'un pezzo. Alle sue idee ci credeva con ostinazione, e con ostinazione le applicava. Quando lo conobbi a Torino insieme a Gobetti ricordo che entrambi rimanemmo colpiti dalla sua serietà e dal suo stile antiretorico e ci comunicammo la nostra impressione”. Antiretorico e di grande preparazione, non solo giuridica. Figlio di famiglia abbiente in quella che era allora una delle zone più povere del Paese - il Polesine - sceglie senza esitazioni la difesa dei diseredati. All’inizio del 1900, a soli 15 anni Matteotti inizia la sua militanza socialista e collabora al periodico “La lotta”, il giornale di riferimento del socialismo riformista in provincia di Rovigo. I primi articoli sono di generica propaganda, poi inizia ad occuparsi in modo sempre più attento della questione bracciantile. Matteotti è antimilitarista e tra i più risoluti avversari della guerra libica e poi della prima guerra mondiale tanto che, richiamato alle armi, viene internato in Sicilia e non mandato al fronte, dove lo si ritiene in grado di nuocere alla causa nazionale. A 25 anni, nel 1910, inizia la sua esperienza di amministratore socialista. Il governo locale è per i socialisti un modo concreto per intervenire a migliorare le condizioni dei lavoratori ed è una prospettiva di trasformazione dello stato. Matteotti è riformista, convinto sostenitore dell’unità del Partito e della centralità delle Leghe, delle organizzazioni sindacali, delle cooperative, delle quali è instancabile promotore. A questi organismi di classe spetta a suo avviso il primato, e non ai teorici del Partito, che tendono a vedere le riforme o la rivoluzione come fine e non come semplici mezzi per arrivare al socialismo. La sua dedizione gli fa lasciare anche i più importanti impegni di politico e parlamentare per accorrere a sostenere i suoi compagni. Nel primo dopoguerra dal 1919 è deputato al Parlamento e i lavoratori delle campagne restano una sua priorità d’azione. Nel 1920, in occasione del rinnovo dei patti agricoli annuali, Matteotti, sostenuto anche dalla grande avanzata elettorale dei socialisti, riesce ad imporre un patto agricolo, detto anche “Patto Matteotti” che riconosce importanti miglioramenti nelle condizioni di lavoro e soprattutto fissa “l’imponibile di manodopera”, obiettivo prioritario delle lotte bracciantili nella prima metà del '900 (in sintesi le leghe chiedevano di stabilire quanti lavoratori fossero necessari per determinati lavori). È tra i pochi che comprendono dall’inizio la natura del fascismo: denuncia con fermezza le violenze squadriste, volte nelle campagne a impedire il rinnovo dei patti agricoli del 1920. Nel marzo del 1921 denuncia alla Camera queste intimidazioni e dopo pochi giorni viene rapito e picchiato da una banda fascista, preludio a quello che succederà nel 1924. Socialista riformista diviene nell’ottobre del 1922 segretario del PSU, il Partito di Turati. Nell’ultima lettera a Filippo Turati, scritta subito prima delle elezioni del 1924 (Critica Sociale, 16 giugno 1946) scrive: “L’esito (delle elezioni) darà la misura della violenza e del terrore, non del consenso dei singoli partiti” e aggiunge: “la nostra resistenza al regime dell’arbitrio deve essere più attiva…. Tutti i diritti cittadini devono essere rivendicati; lo stesso Codice riconosce la legittima difesa. Nessuno può lusingarsi che il fascismo dominante deponga le armi e restituisca spontaneamente all’Italia un regime di legalità e di libertà; tutto ciò che esso ottiene, lo spinge a nuovi arbitrii, a nuovi soprusi. È la sua essenza, la sua unica forza; ed è il temperamento stesso che lo dirige”. Ricerca la più ampia unità e rifiuta la falsa combattività di coloro che “riparano sotto il pretesto formale che tutti i governi sono eguali” Individua il punto debole di altre forme di antifascismo: “il nemico è attualmente uno solo: il 23 fascismo. Complice involontario del fascismo è il comunismo. La violenza e la dittatura predicata dall’uno diviene il pretesto e la giustificazione della violenza e della dittatura in atto dell’altro.” Matteotti replica in maniera dura a Togliatti: “Voi escludete - a priori - qualsiasi blocco di opposizione al fascismo ed alla dittatura da esso instaurata che si proponga come scopo una restaurazione pura e semplice delle libertà statutarie…. Il porre tali condizioni pregiudiziali ad una intesa che, secondo noi, invece dovrebbe mirare, avanti tutto e in ogni modo, alla riconquista delle libertà politiche elementari, e a trarre il proletariato dall’attuale tragica situazione, significa non solo rendere impossibile l’intesa, ma anche vana ogni discussione”. Difficile quindi dare torto ad un altro grande simbolo dell’antifascismo, Piero Gobetti, quando scrive: “Ci vuole un’intelligenza fredda e calcolatrice per scoprire l’avversario vero in Matteotti…. Nulla di fortuito nel suo assassinio… si è voluto colpire il capo di uno Stato maggiore”. Ecco dove sono le basi della Resistenza senza di cui “saremmo passati” - come diceva Pietro Nenni - “senza un fremito di orgoglio dall’una all’altra occupazione militare straniera”, e questo non avrebbe significato solo condizioni di pace peggiori ma anche la impossibilità di ricostruire l’identità e l’orgoglio della Nazione. Documento di Giacomo Matteotti dal CPC 24 Memoria Memoria La Consulta dichiara illegittimo il blocco dei risarcimenti civili alle vittime del nazismo GIUSTIZIA PER GLI SCHIAVI DI HITLER? di WALTER MERAZZI C on la sentenza del 22 ottobre 2014 la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità delle norme che impediscono l'accertamento giurisdizionale delle eventuali responsabilità civili di un altro Stato nel caso di crimini di guerra e contro l'umanità commessi nel territorio nazionale, lesivi dei diritti inviolabili della persona garantiti dagli artt. 2 e 24 della Costituzione. Si tratta di una sentenza storica che ripristina un corretto rapporto fra diritto e giustizia e rigetta il pronunciamento del tribunale internazionale de L’Aja del 3 febbraio 2012 che aveva accolto il ricorso della Germania contro le cause in corso in Italia per crimini di guerra. La corte aveva accusato l’Italia di "venire meno ai suoi obblighi di rispetto nei confronti dell'immunità di uno stato sovrano come la Germania in virtù del diritto internazionale". La decisione della Consulta è un atto chiaro e forte contro la ragion di Stato che governa il riconoscimento - risarcimento morale e storico delle vicende di circa un milione di italiani. È giunto inaspettato, una ventata d'aria fresca in una vicenda che si trascina dalla fine della guerra, ma c’è di più, perché i suoi esiti riguardano i nostri diritti oggi: misurano la sovranità della giurisdizione nazionale alla luce delle convenzioni e dei tribunali internazionali, segnano il confine di libertà e giustizia secondo i principi sanciti dalla nostra Costituzione. STORIA Deportazione e sfruttamento del lavoro forzato furono giudicati crimini contro l'umanità dal tribunale di Norimberga che condannò nel 1946 i principali responsabili politici, ma non i dirigenti delle imprese tedesche che avevano accumulato enormi profitti con il lavoro dei deportati. Secondo gli stessi storici tedeschi gli italiani occuparono uno dei gradini più bassi nella scala razzialeeconomico-politica che regolava il trattamento dei 14–18 milioni di schiavi di Hitler, in gran parte deportati dall’Europa orientale nel territorio del Reich. Gli italiani furono gli ultimi prigionieri ad essere rimpatriati dai Lager. Buona parte rientrò autonomamente in condizioni pietose. Almeno 50mila furono i deceduti nel Reich di fame, malattie, violenze, bombardamenti. Sconosciuto il numero di quanti morirono dopo il rimpatrio. Rifiutando le offerte di arruolamento nell'esercito di Mussolini e Graziani oltre 600mila Internati Militari italiani (IMI) espressero in massa il sentimento del Paese. La loro vicenda riguardò altrettante famiglie e coinvolse milioni di italiani. La scelta degli IMI fu un atto esplicito che costò loro il Lager e il lavoro forzato e appartiene a pieno titolo alla storia della Resistenza europea alla guerra e al nazifascismo. Fu una scelta maturata nei disastri della guerra di aggressione voluta dal fascismo, condivisa dalla monarchia e dalle classi dirigenti sulla pelle del Paese e di due milioni di uomini alle armi. Una Resistenza senz'armi, come quella dei civili che in Italia collaborarono in varie forme con il movimento di Liberazione, oppure prestarono semplice assistenza a partigiani, ebrei, ex prigionieri alleati, renitenti. Il NO degli IMI rese esplicito il rifiuto di una intera generazione che sfuggiva ai bandi fascisti, nell’attesa della fine dell'occupazione tedesca con le sue spoliazioni e stragi, le deportazioni di ebrei e antifascisti, lo sfruttamento economico, i rastrellamenti e le precettazioni di forza lavoro dall’Italia di circa 100.000 civili. Traditi dalle alte gerarchie dello Stato e abbandonati al loro destino, gli IMI seppero difendere la dignità della Nazione, sacrificando la libertà personale per l'idea di una diversa umanità. La loro esperienza è rimasta sepolta nella memoria individuale. Da centinaia di reduci ho sentito ripetere con mestizia e delusione che non valeva la pena raccontare quelle vicende, meglio dimenticare. I RISARCIMENTI DI GUERRA Nel dopoguerra l’elaborazione di una memoria della storia più recente, se non condivisa almeno cosciente, fu pregiudicata da profonde divisioni ideologiche e opportunità politiche. L'occupazione alleata, la guerra fredda e le divisioni tra i partiti determinarono il racconto storico della guerra italiana, la cui Memoria fu frutto di accordi fra diplomazie e all'interno dello scontro politico nazionale. Le corresponsabilità del regio esercito in Slovenia e nei Balcani a danno dei civili divennero una merce di scambio e furono occultate come i fascicoli riguardanti le stragi e i crimini commessi dalla Wehrmacht nell'Italia occupata. Ne fecero le spese anche i reduci dalla Germania che ricordavano precise responsabilità. Deportazione e sfruttamento coatto e Resistenza vennero consegnate all'oblio, estranee alla storiografia e rimosse dalla coscienza storica del Paese. Con il Trattato di pace del 1947 ai cittadini italiani fu esplicitamente garantito il futuro risarcimento dei danni in base agli accordi che gli alleati avrebbero concordato con la Germania. Nel frattempo il governo italiano rinunciò, nei confronti e a favore degli alleati, di chiedere i danni alla Germania occupata. In verità tra il 1953-54, con l’accordo di Londra sui debiti del Reich e con il Trattato di Parigi e Bonn (Deutschlandvertrag– Überletungsvertrag ) la Repubblica Federale assunse l’obbligo di risarcire anche il lavoro forzato dei cittadini italiani, ma soltanto dopo la riunificazione tedesca. Con gli accordi di Bonn del 1961, in attesa della riunificazione, si decise di garantire alle vittime della persecuzione razziale un primo indennizzo, conservando comunque i diritti al risarcimento, con l’obbligo dell’Italia di ratificare l’accordo di Londra, avvenuto nel 1966. LA FONDAZIONE TEDESCA “MEMORIA, RESPONSABILITÀ, FUTURO” Nel 2000, undici anni dopo la caduta del Muro, la legge tedesca per il risarcimento del lavoro forzato ha riaperto una ferita mai rimarginata per gli oltre 100.000 ex deportati ancora viventi in Italia. Promulgata per tamponare i processi promossi dalle organizzazioni ebraiche americane contro le imprese tedesche, la legge ha istituito la Fondazione “Memoria, Responsabilità, Futuro”, incaricata di risarcire le vittime del lavoro forzato con un fondo stanziato dal Parlamento tedesco, dai Länder e dalle imprese. La legge tedesca è nata nell'ambito del rapporto fra Stati Uniti, Germania e Israele, per sanare le ultime “pendenze" della guerra. Appartengono a questo capitolo la questione dei fondi assicurativi e dei depositi svizzeri, la commissione Anselmi in Italia per i beni ebraici, la regolamentazione dell’accesso agli archivi tedeschi, oltre alla decisione di indire un Giorno internazionale della Memoria. La legge tedesca ha risarcito deportati politici e razziali e in gran numero i civili rastrellati nell’est Europa, oggi cittadini delle repubbliche nate dopo la dissoluzione dell'Urss. La Fondazione “Memoria, Responsabilità, Futuro”, ha escluso i militari italiani dal risarcimento dopo il parere, senza appello, del professor Tomuschat, docente di diritto internazionale nominato dal ministero delle Finanze tedesco. Gli italiani sono stati esclusi in quanto considerati "prigionieri di guerra", uno status che non corrisponde a quello assegnato loro da Hitler di “Internati militari”. Privati della protezione della Croce Rossa e dei benefici della Convenzione di Ginevra furono infatti prigionieri senza diritti, sottoposti a comportamenti arbitrari come documentano gli stessi storici tedeschi. Verso la causa degli italiani la Fondazione si è mostrata irremovibile, non accettando nemmeno di discutere casi limite come quello di Kahla, che impiegò circa 15.000 lavoratori forzati, fra i quali 2.000–2.500 italiani, in gran parte civili rastrellati. 6.000 furono i morti senza nome sepolti in una fossa comune. 450 gli italiani di cui venne registrato il decesso. A fronte della decisione “arbitraria” della Fondazione, lo Stato italiano nulla ha fatto per difendere i suoi cittadini. La causa dei militari e dei civili deportati dall'Italia è stata “consegnata” alla selezione naturale. La questione, di competenza del Ministero degli Esteri è divenuta una pratica dei rapporti bilaterali, più che altro una grana. Sarebbe costata poco una soluzione politica quando molti erano ancora viventi e a questo abbiamo cercato di lavorare con Ricciotti Lazzero, Claudio Sommaruga e altri reduci, con le loro associazioni, con pochi compagni e amici dal 2000, quando chiedemmo: una iniziativa ufficiale dei due presidenti della Repubblica in un cimitero tedesco dove ancora giacciono gli italiani; un risarcimento economico; l’accesso facilitato agli archivi tedeschi, ma soprattutto le scuse della Germania a queste vittime dimenticate. Il nostro Parlamento se l'è cavata con pochi soldi e una legge sulla medaglia d'onore, concessa dal 2009 a chi ne fa richiesta documentata. L’unico valore reale dell’onorificenza è che riporta finalmente un nome e un cognome. 25 LA CAMPAGNA PER IL RISARCIMENTO Nonostante le delusioni e la scomparsa progressiva dei protagonisti, negli ultimi quindici anni la battaglia civile e storica per un risarcimento-riconoscimento delle vicende degli schiavi di Hitler ha preso corpo e stimolato fortemente il desiderio di rompere il muro del silenzio che ha circondato queste vicende. Hanno contribuito a questo fatto i nuovi strumenti di comunicazione che hanno unito realtà molto separate, ma soprattutto un desiderio di riscatto pubblico, al di là del risarcimento, che ha mobilitato una parte dei reduci. Questi uomini alla fine della vita hanno sentito il bisogno di trasmettere la loro esperienza alle nuove generazione nel contesto della maggiore sensibilità legata alle celebrazioni del Giorno della Memoria. È stato un fiorire di racconti, spesso dolorosi e ri-scoperte di diari, corrispondenze, documenti e immagini su queste vicende oggetto di rimozione storica e mancata giustizia. Quello fra giustizia e storiografia è un legame stretto e l'esclusione degli italiani dal risarcimento, ha avuto un effetto ulteriore. La Fondazione “Memoria, Responsabilità, Futuro”, esaurito il compito di provvedere alla distribuzione dei fondi, ha cancellato gli italiani anche dalla Memoria degli “Zwangsarbeiter” non dedicando loro progetti di ricerca storica. LE CAUSE GIUDIZIARIE A partire dal 1998 alcuni reduci hanno avviato cause giudiziarie individuali. 26 Memoria Nel 2004 la Cassazione ha giudicato legittima la causa civile di Luigi Ferrini, patrocinata davanti al tribunale di Arezzo dall'avvocato Joaquim Lau e nel 2008, ha riaffermato la competenza dei giudici italiani e l’obbligo di pagamento di un risarcimento ai familiari delle vittime della strage nazista del 29 giugno 1944 a Civitella e altre frazioni di Cortona (Arezzo) in cui vennero uccisi 203 civili, in gran parte donne e bambini. I pronunciamenti della Cassazione e la cinquantina di cause aperte in Italia da parte di ex deportati e per stragi hanno messo gravemente in difficoltà la Germania e mobilitato le diplomazie. La Repubblica Federale ha deciso, insieme al governo italiano, di ricorrere al Tribunale Internazionale de L'Aja rivendicando l’immunità degli stati riconosciuta dal diritto consuetudinario internazionale. Il governo italiano ha deciso di accettare la competenza della Corte Internazionale senza chiedere nello stesso momento l’accettazione della competenza per la sua domanda riconvenzionale. La Corte de L’Aja il 2 febbraio 2012 accettava il ricorso della Germania, ordinando “all'Italia di prendere tutte le misure necessarie affinché le decisioni della giustizia italiana che contravvengono alla sua immunità siano prive d'effetto e che i suoi tribunali non pronunzino più sentenze su simili casi". In pochi in Italia abbiamo reagito a questo pronunciamento, condannato da Amnesty International. Nel contempo però il Tribunale dell'Aja ha ritenuto che “le richieste originate dal trattamento degli internati militari italiani, insieme a altre richieste di cittadini italiani finora non regolate, possano essere oggetto di un ulteriore negoziato tra gli stati convenuti". L’ulteriore negoziato, destinato a chiudere definitivamente la questione, trasferendola dal piano politico –economico-giudiziario a quello storico, ha portato ad una commissione mista italo–tedesca che ha prodotto il documento consultabile al sito: http://www.villavigoni.it/ page.php?sez_id=11&pag_id=45&ed_kind=2&lang_ id=1, oltre all’avvio di alcuni progetti di ricerca storica. Il Parlamento italiano con la legge n. 5 del 2013 ratificava la decisione de L’Aja nel contesto della “Adesione alla Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni” che all’art. 3 dispone l’espressa esclusione della giurisdizione italiana per i crimini di guerra commessi dal terzo Reich anche per i procedimenti in corso. Con la decisione del Parlamento italiano la questione della giustizia per gli schiavi di Hitler veniva sepolta sotto una pietra tombale, come avrebbe detto Ricciotti Lazzero, ma non era ancora finita. Si deve alla costanza, coraggio e capacità professionali dell’avvocato Lau se le sue obiezioni alla legge che bloccava i processi sono state recepite dal tribunale di Firenze che si è rivolto alla Consulta. La sentenza “storica” del 22 ottobre 2014 della Corte Costituzionale avrà un immediato effetto sulle cause giudiziarie bloccate dalla legge del Parlamento italiano. Alcune diventano esecutive, altre riprendono il loro iter ed è presumibile l'avvio di nuovi procedimenti. Il pronunciamento riapre anche la spinosa questione di Villa Vigoni di Menaggio (Como), centro culturale tedesco in Italia, posta sotto ipoteca giudiziaria in una causa che riguarda la strage perpetrata dall'esercito tedesco a Distomo in Grecia. La sentenza della Consulta è stata coraggiosa, nonostante forti pressioni politiche. La sopravvivenza di questa vicenda nell’ambito dei rapporti fra i due Paesi è un peso e la questione è ancora lungi dall’essere conclusa. Vedremo quale sarà la reazione dei governi. Le cause adesso ripartono con gli eredi. Una soluzione politica è solo auspicabile, ma non sembra perseguita. Irrealistico pensarci tanto appare fuori dalle logiche di tutti i governi italiani, che si sono occupati (o dovuti occupare) di questa vicenda, che se ne sono sempre lavati le mani. La Germania è irremovibile, ma voglio poter anche credere che la questione sia arrivata a un punto per cui costa di più tenerla in piedi che chiuderla. Chissà? In Grecia l’argomento dei risarcimenti è un tema del dibattito pubblico e della campagna elettorale. Mi preme in conclusione cercare di tornare alla decisione della Corte Costituzionale per i suoi effetti sul nostro presente. Dichiarando che le norme del Tribunale Internazionale dell’Onu approvate dal Parlamento sono lesive dei diritti riconosciuti dalla nostra, Costituzione la Corte si pronuncia sullo svuotamento della carta costituzionale quanto su diritti individuali, principi di sovranità, convenzioni e Tribunali Internazionali, immunità degli Stati, giustizia e politica della Memoria, cristallizzata il 27 gennaio di ogni anno. Sono tutti temi dell’oggi che non riguardano solo i familiari dei reduci, avvocati, giudici e pochi altri, ma sollecitano un’ampia riflessione e partecipazione pubblica. 27 Cultura “Diplomacy” ricostruisce le ore in cui la capitale francese rischiò di essere rasa al suolo Una notte per salvare Parigi P arigi agosto 1944. La città è sotto l'assedio dei nazisti e contemporaneamente le truppe alleate stanno organizzando diversi sbarchi. Il primo agosto la Seconda Divisione dell'esercito francese sbarca in Normandia e il 15 l'esercito franco-americano approda in Provenza. Il 19 prendono il via i primi movimenti insurrezionalisti, il 20 il generale Pètain lascia Vichy e presso il consolato svedese iniziano i negoziati con la Resistenza. Il 21 il generale Leclerc, comandante della Divisione Corazzata, manda un distaccamento a Parigi. Nel frattempo continuano i combattimenti in strada con la Resistenza francese che costruisce barricate in tutta la città. Il 23 agosto Hitler ordina di distruggere Parigi. Berlino era stata rasa al suolo e il Führer aveva ordinato che anche Parigi subisse la stessa sorte in caso di resa da parte dell'esercito tedesco. I ponti e i più importanti monumenti, tra i quali il Louvre e l'Opera, sono già minati. A capo dell'esercito tedesco c'è il generale Dietrich von Choltitz, un soldato che si era formato nella scuola dei cadetti di Dresda e che si era distinto durante la Prima Guerra Mondiale e nelle campagne di Polonia e di Francia nella Seconda. È uno dei pochi generali a non aver partecipato all'attentato contro Hitler, il 20 luglio del '44, e proprio per questa ragione è mandato a comandare le forze tedesche a Parigi. La Svezia, che è un paese neutrale, manda il suo console per fare da intermediario tra tedeschi e alleati. Il console svedese è Raoul Nordling, nato a Parigi da padre svedese e madre francese. Il diplomatico e il generale si incontrano più volte durante quei giorni infuocati fino al 26 agosto quando il popolo acclamerà il generale De Gaulle. Da questi fatti realmente accaduti parte Diplomacy, il bel film di Volker Schondorff, tratto dall'opera teatrale Diplomatie di Cyril Gely, che affronta un possibile dialogo tra un generale fedele al suo ruolo, interpretato da Niels Arestrup, e un diplomatico, Andre Dussollier, che non crede nella guerra e deve convincere il suo avversario a non rispettare gli ordini di un folle. Tutto il film si svolge in una notte, tra il 24 e il 25 agosto del 1944, durante la quale von Choltitz e Nordling sono impegnati in una dura battaglia l’uno contro l'altro. Alla fine il buon senso prevarrà e Parigi con i suoi abitanti sarà salvata. Il film è stato presentato all’ul timo Festival di Berlino. cercando di capire lo stato d’animo del generale tedesco. Poi ci sono elementi che sono una pura invenzione. Ho preferito alleggerire i toni e svincolarmi dalla fedeltà ai fatti. Inoltre, al contrario che in teatro, sullo schermo è necessario un punto di vista, sapere chi sta raccontando la storia e il motivo per cui la sta raccontando. In questo caso poteva farlo solo il Console. Ecco perché il film inizia con una sua passeggiata di notte per le strade di Parigi, ossessionato dalle immagini della distruzione di Varsavia e torturato da una domanda assillante: come convincere il generale a evitare di far eseguire l'ordine di distruzione firmato da Hitler il giorno prima. Se Parigi è in pericolo, tutto è lecito. Andrè Dussolier, il Console, racconta di aver trovato particolarmente interessante affrontare un capitolo relativamente sconosciuto della Storia. “Parigi era a un soffio di distanza dal disastro assoluto. Cyril Gely e Volker Schlöndorff sono riusciti a raccontare l’importanza della coscienza degli uomini e la loro capacità di confrontarsi tra loro, trascendendo se stessi – per impersonare il loro paese e la loro gente. E lo fanno oltrepassando entrambi i limiti”. Mentre Niels Arenstrup, il Generale, dice che è stato attratto dal progetto poiché l'intensa suspense di questa storia che, nonostante si basi su una situazione che è nota a tutti e cioè che Parigi non è stata distrutta, suscita l'ansia nello spettatore. Chiediamo al regista "cosa l'ha attirato in questo progetto"? La guerra crea situazioni estreme tirando fuori ciò che c'è di meglio e di peggio negli uomini. Oggi un conflitto franco-tedesco sarebbe impensabile ma, se Parigi fosse stata rasa al suolo, i legami tra le due nazioni sarebbero molto diversi. Diplomacy racconta una storia non troppo nota e il film fa trattenere il respiro per capire come si concluderanno i negoziati e se si giungerà ad un accordo. Parigi fu salva e il generale fu arrestato ma poi gli americani lo liberarono nel 1947, solo due anni dopo la fine della guerra. Avrebbe potuto fornire preziose informazioni agli alleati, ma è improbabile che la clemenza nei suoi confronti, possa essere dovuta al fatto di aver salvato Parigi. Durante gli anni dopo la guerra, non parlò mai della sua inaspettata liberazione e morì a Baden Baden nel 1966. Nordling, oltre a salvare Parigi, ottenne la liberazione di tremila prigionieri. Fu decorato con la Legione d’Onore e morì a Parigi nel ’62. (e.v.) Questo incontro che lei racconta nel film è andato veramente così? È certificato che Nordling e Von Choltitz s’incontrarono più volte per negoziare uno scambio di prigionieri e anche per una sorta di cessate il fuoco. Dove finisce la realtà e dove inizia la fiction? La fiction gioca un ruolo fondamentale nel film, ed è ciò che m’interessava di più. Alcuni fatti sono realmente accaduti e Cyril Gely, l’autore del testo teatrale, li ha usati come punto di partenza: i due uomini si conoscevano realmente e avevano parlato del destino di Parigi. Ecco perché gli Alleati avevano utilizzato il Console come tramite con von Choltitz, chiedendogli di recapitargli una lettera, probabilmente scritta dal generale Leclerc, che conteneva una proposta per il Generale di abbandonare la città e liberarla senza distruggerla. Come mostrato nel film, il Generale Von Choltitz probabilmente respinse l'ultimatum. Abbiamo strutturato la narrazione partendo da alcuni fatti storici e 28 Cultura ANTIFASCISMO D’OLTRE MARE: L’OPPOSIZIONE TUNISINA AL REGIME di FABIO ECCA Cultura Interessante convegno nella sede del Palazzaccio a Roma sulle nefandezze mussoliniane IL TRIBUNALE SPECIALE CONDANNÒ A MORTE 42 NEMICI DEL REGIME Presenti due vittime delle “fascistissime “ leggi oltre a eminenti giuristi – Il messaggio del presidente dell’Anppia, Guido Albertelli. Tra gli imputati Terracini, Pertini, Altiero Spinelli di PAOLO BROGI L a storiografia sull’antifascismo italiano risente del diffuso luogo comune che vede gli italiani residenti nelle colonie schierati, per convinzione politica o per convenienza, dalla parte del fascismo. Si tratta per l’appunto di un topos, frutto per lo più della mancanza di ricerche e studi sul tema, che ha influenzato buona parte dell’opinione pubblica. Gli studi sull’opposizione al regime mussoliniano si sono infatti per lo più concentrati sulle importanti esperienze realizzate nella Penisola, sulle modalità e gli strumenti di repressione qui operanti e, al massimo, sul fenomeno dell’emigrazione politica. Sono poco numerose le ricerche sui vari Tribunali Speciali coloniali, sulle deportazioni e persecuzioni subite sotto il fascismo dalle popolazioni locali che si opponevano al controllo del regime e, più in generale, sulle esperienze di contrasto al fascismo. Il movimento antifascista non limitava la propria azione ai confini nazionali e così, allo stesso modo, lo studio di questo fenomeno non può più essere orientato ai soli avvenimenti nazionali, seppur questi siano fondamentali per capire la complessità dell’opposizione antifascista e la repressione. È per questo che l’ANPPIA ha deciso di sostenere e contribuire alla pubblicazione del volume di Leila El Houssi “L’urlo contro il regime. Gli antifascisti italiani in Tunisia tra le due guerre”, edito da Carocci nel novembre 2014. Il libro vuole affrontare per la prima volta in modo organico il tema dell’antifascismo italiano operante in Tunisia tra il 1919 e il 1939 e agisce quindi con rigore scientifico contro il pregiudizio diffuso nell’opinione pubblica che tutta la collettività italiana presente nel Paese nord-africano sia stata schierata totalmente col regime fascista. In realtà, contro la dittatura mussoliniana operava un’articolata e composita opposizione composta da esponenti dell’élite borghese, da militanti del movimento anarchico, da numerosi membri socialisti, comunisti e appartenenti a Giustizia e Libertà. Si riesce in questa maniera a ricostruire per la prima volta quello che la stessa autrice definisce un prezioso e «dinamico laboratorio politico» in cui opera sia la sezione tunisina della Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo sia il Partito Comunista d’Italia, che stringerà un rapporto sempre più stretto e privilegiato tra i suoi esponenti e quelli tunisini. Non a caso sarà proprio in Tunisia che agiranno a sostegno dell’opposizione antifascista italiana locale personaggi come Velio Spano e Giorgio Amendola, inviati dal Centro estero comunista per dare un respiro internazionale al movimento antifascista di Tunisia, o Giuseppe Di Vittorio e Alberto Cianca in qualità di esponenti di spicco della LIDU. Attraverso la consultazione della documentazione conservata presso gli archivi tunisini, quelli italiani e quelli francesi e con l’analisi della stampa e della memorialistica del tempo, Leila El Houssi riesce in questa maniera a ricostruire le vicende di questo significativo nucleo antifascista la cui sola presenza e attività offre nuovi fronti di ricerca. L’espandersi dell’ideologia fascista non trova quindi terreno fertile in tutti gli italiani di Tunisia dove invece nasce un’opposizione sempre più agguerrita e organizzata, strettamente legata all’Italia sia per la presenza di discendenti dei Grana, una famiglia di storici esponenti dell’élite livornese, sia per i costanti contatti con l’opposizione sarda e nazionale. Grazie all’ANPPIA, si è voluto quindi sostenere una pubblicazione che supera i confini territoriali e culturali nazionali della storia dell’antifascismo per aprire e incoraggiare nuove prospettive per lo studio dell’opposizione al regime mussoliniano. I l Tribunale Speciale fascista, braccio armato del regime mussoliniano ha erogato 42 condanne a morte di avversari politici. Sul tema è stato organizzato un convegno a Roma. Sono tornati in quell'aula sorda e grigia dentro il Palazzaccio, per ricordare le loro condanne, due dei destinatari delle 4.600 condanne emesse in 17 anni di attività dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, tra il 1926 e il 1943. Garibaldo Benifei, perseguitato politico e Ljubomir Susic antifascista triestino, sono stati infatti i testimoni d'eccezione di questo convegno, tenutosi dentro la sede della Cassazione, per ripercorrere l’attività nefasta dell'organo giudiziario con cui il regime mussoliniano amministrò la dura repressione contro gli antifascisti comminando condanne per 27.235 anni complessivi. È la prima volta che in quell'aula, dove si pronunciarono anche 42 condanne a morte, si torna a discutere di quell'obbrobrio giuridico con cui fu regolata la repressione nei confronti degli antifascisti. Attualmente l'aula serve infatti come sede del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Roma. Alle 15, dopo i saluti di Giorgio Santacroce, primo Presidente della Corte di Cassazione, e di Guido Albertelli presidente dell'ANPPIA nazionale, sono intervenuti giuristi del calibro di Guido Neppi Modona, Giovanni de Roberto, Carlo Brusco, Claudio Longhitano e il Presidente dell'ANPI Carlo Smuraglia, oltre ai due ex condannati Benifei (che ha 102 anni) e Susic. Sotto accusa la legge del 1926 per i “Provvedimenti in difesa dello Stato” che istituì l'inedito organo speciale in palese contrasto con l'articolo 71 dello Statuto che vietava la creazione di tribunali straordinari. Con la stessa legge fu anche reintrodotta la pena di morte che era stata abolita nel 1889 nel Codice Zanardelli. E tutto questo fu in seguito trasfuso nel codice Rocco del 1930. L'adozione di questo strumento di repressione scattò a coronamento del varo dell'insieme di leggi liberticide chiamate anche “fascistissime”. IL MESSAGGIO DEL PRESIDENTE DELL'ANPPIA GUIDO ALBERTELLI Il Convegno che si è tenuto presso la Corte di Cassazione di Roma, è stato per noi dell'ANPPIA un successo. La sala era piena ed erano presenti molti magistrati, avvocati, studiosi di giurisprudenza, ragazzi delle scuole. Il Primo Presidente della Corte di Cassazione, Santacroce, dopo un breve saluto molto conciso ed efficace, e ha letto un messaggio del Presidente della Repubblica i lavori sono proseguiti con le relazioni dei Magistrati ed esperti presenti, i quali hanno approfondito l'intero scenario costitutivo del Tribunale Speciale e le sue crudeli applicazioni. Come Presidente dell'ANPPIA ho ringraziato la Corte per aver accolto questo invito per una giornata simbolica in quanto il Convegno si è tenuto nella stessa aula dove si svolgevano le udienze contro gli antifascisti. Le testimonianze di due persone sono state molto commoventi e significative: quelle di Garibaldo Benifei e Ljubumir Susic, Presidenti Onorari dell'ANPPIA e condannati in questa stessa aula più di settant'anni fa. Per la prima volta sono tornati, da uomini liberi, laddove avevano subito l'ingiuria e l'ingiustizia di una condanna. L'ANPPIA Nazionale ha chiuso il convegno dichiarando la sua vicinanza alla Magistratura, nella difesa della sua autonomia, fattore indispensabile per uno Stato democratico. Il Tribunale Speciale si doveva occupare di reati contro la sicurezza dello Stato e del regime: costituito da magistrati e da fedelissimi del regime, perlopiù appartenenti alla Milizia. Una linea telefonica diretta collegava la Camera di Consiglio con l'ufficio di Mussolini a Piazza Venezia. Durante il regime fascista il Tribunale Speciale ebbe il potere di diffidare, ammonire e condannare gli imputati politici ritenuti pericolosi per l'ordine pubblico e la sicurezza del regime stesso. Il Tribunale Speciale operava secondo le norme del codice penale per l'Esercito sulla procedura penale del tempo di guerra. Contro le sue sentenze non era possibile alcun ricorso o altra impugnazione. Tra le sue vittime ricordiamo Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Sandro Pertini, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Leone Ginzburg. Dopo la caduta del fascismo il Tribunale fu trasferito al nord e ricostituito sotto la Repubblica Sociale. 29 30 Noi 31 Noi LIVORNO CONSIGLIO NAZIONALE DELL'ANPPIA Roma, Casa San Bernardo - 21/22/23 novembre 2014 Si è svolto nei giorni 21/22/23 novembre a Roma, presso la Casa San Bernardo il Consiglio Nazionale dell'ANPPIA. Numerosa è stata la partecipazione dei delegati delle varie Federazioni territoriali. Sono stati affrontati e discussi i temi che riguardano la vita e l'organizzazione dell'Associazione. Al termine di un approfondito dibattito è stato votato il documento di seguito riportato. Il Consiglio Nazionale riunito a Roma esprime grande preoccupazione per la crescita dei movimenti populisti e di estrema Destra, in Italia e in Europa. In particolare desta inquietudine il palese tentativo da parte di movimenti, parlamentari e non, di strumentalizzare il disagio di chi vive maggiormente gli effetti della pesante crisi economica che ancora attanaglia il Paese, con le aggressioni agli immigrati identificati come responsabili del degrado e delle difficoltà. Nel 2015, quindi, anno del 70° della Liberazione e del successivo svolgimento del XVIII Congresso nazionale dell'Associazione, compito dell'Anppia è quello di rinvigorire a tutti i livelli la sua azione culturale e politica, dando un quadro unitario alle nostre attività in difesa dei valori di democrazia, rispetto della dignità umana, difesa dei lavoratori ed eguaglianza, mostrando soprattutto alle giovani generazioni come essi siano specie in un'epoca di profonda crisi economica e culturale, non eredità del passato ma patrimonio positivo per costruire il Futuro. Giungiamo a questi appuntamenti con un'Associazione viva e attiva grazie anche e soprattutto all'impegno profuso dal Presidente e dal Segretario Generale (che auspichiamo possano continuare il loro proficuo apporto) e con qualche incertezza legata soprattutto allo status giuridico dell'Associazione oggi interessata dalla legge di riforma del Terzo Settore. In considerazione di quest'ultimo fatto ci sembra che la proposta di modifica del nome vada sospesa ed approfondita anche in relazione all'evoluzione e agli sviluppi del progetto di riforma. I settori sui quali riteniamo utile concentrare la nostra attività e il nostro impegno sono: - Il rafforzamento dell'attività con le scuole e con gli insegnanti, creando un'apposita e funzionante commissione scuola, e lavorando a collaborazioni con altri soggetti e/o apposite convenzioni con il MIUR, - L'apertura di una riflessione approfondita sull'uso dei social media e dei nuovi canali di comunicazione on line, che tanto abilmente sono utilizzati dai movimenti di estrema destra, per entrare in contatto con i giovani, -L'implementazione dei contenuti del nuovo sito e delle molteplici potenzialità in esso contenuti; la valorizzazione del nostro giornale L'Antifascista così profondamente e ben rinnovato dal nuovo Direttore Luigi Morrone, - L'intensificazione della rete e delle relazioni tra Federazioni e tra Federazioni e Nazionale anche allo scopo di dare, pur nella necessaria e legittima autonomia, unitarietà alla nostra azione. - L'inizio di un percorso di ricerca e partecipazione ai bandi progettuali europei, nazionali, regionali e locali volti a cercare finanziamenti ad hoc per iniziative dell'associazione. Il Consiglio Nazionale assume e fa propri gli ordini del giorno approvati e che fanno parte integrante del presente documento. Cardini all’Anppia di Livorno: Medio-Oriente in fiamme, ecco perché A Villa Mimbelli nella splendida cornice della Sala degli Specchi ha avuto luogo il giorno 21 ottobre alle ore 16,30 la conferenza del prof. Franco Cardini: “ Il mediterraneo: mare di pace, di immigrazione, di guerre. “ “ Tutta colpa di Versailles” -dice il prof. Cardini, ospite dell’Anppia di Livorno per una lectio magistralis sulla storia e la situazione geopolitica del Mediterraneo- l’origine dei mutamenti in atto nel vicino Medio-Oriente è da ricercarsi nei trattati del 1919 che sancirono la fine della Grande Guerra". Introdotto dalla testimonianza del presidente onorario Anppia Garibaldo Benifei e presentato da Lorenzo Bacci, Cardini è partito subito all’attacco. “Versailles non fu solo l’occasione per punire la Germania - dice - fu lì che i vincitori si spartirono a tavolino il mondo arabo, lì furono avviati i meccanismi che oggi producono le “ primavere” e perpetuano le guerre.” È stato solo il primo dei “pugni” nello stomaco all’auditorio che Cardini ama sferrare. Non sono mancate le invettive contro le grandi democrazie (ce n’è stato per Obama e Hollande), che avrebbero alimentato il “conflitto di civiltà”, né contro gli occidentali tutti colpevoli, dice, di un passivo disinteresse. “Siamo seduti su una polveriera che abbiamo riempito noi, - conclude- la Storia ce ne da consapevolezza, può indicarci la soluzione”. Già autore di una “Storia di Livorno”, ed amico di lunga durata dell’ammiraglio Mimbelli , di Borzacchini e del rabbino Toaff, Cardini è stato a lungo considerato un uomo di destra, ma rifiutando questa etichetta , rivendica il valore della “movimentazione a prescindere dall’appartenenza”. “In Italia oggi manca lo stimolo alla discussione politica, mi chiedo cosa sarebbe in grado di fare lo stesso Togliatti con un po- polo senza coscienza sociale“. Alla fine i vertici dell’Anppia hanno annunciato ai numerosi presenti che l’Associazione sarà a Roma il 25 novembre alla manifestazione per la reinstallazione della famigerata “Aula IV” del Tribunale Speciale Fascista, in cui lo stesso Benifei, uno degli ultimi sopravvissuti, fu processato. Da sinistra: Renzo Bacci, Prof. Franco Cardini, Spartaco Geppetti e Garibaldo Benifei a Livorno durante il convegno TERNI L’Anppia di Terni ricorda Giacomo Matteotti, eroe dell’antifascismo L'Anpi e l'Anppia di Terni hanno organizzato, presso il "Palazzo Primavera", il 29 novembre 2014, il convegno su: “La figura di Matteotti, libertà e democrazia" Ricordare Matteotti, a novanta anni dal suo assassinio, serve a far comprendere alle nuove generazioni come libertà e democrazia non siano conquiste di un momento e come per essere difese, vadano alimentate giorno per giorno perché esposte di continuo a frequenti e sotterranee minacce. È dalla scuola che bisogna partire per creare coscienze critiche e una cultura che sia la base del vivere civile, come ha sottolineato il professor Alberto Picciponi, presidente dell’Anppia. L’iniziativa ha avuto e meritato un significativo successo sia di pubblico che per l’elevato valore degli interventi. Un eroe dell’antifascismo non poteva essere ricordato meglio dai ternani e da coloro che hanno a cuore i valori inestinguibili di libertà e democrazia. SOTTOSCRIZIONI: In memoria: del padre CELSO GHINI, della madre LUISA DESKOVICH e di OMERO GHINI, 500 Euro per il giornale da SERGIO GHINI L'editoriale segue dalla prima pagina scelta: arruolarsi nell'esercito nazista ed emigrare in terre occupate dalla Germania o restare e non parlare più il tedesco, dimenticare le proprie tradizioni e usanze. Alcuni giovani sceglieranno una via, taluni l'altra. Per tutti il destino sarà duro, crudele, assurdo. La tragica sorte imposta da una guerra fratricida, inutile, cattiva e devastante che tradirà i sogni di Hella, del suo fidanzato, dei loro parenti e di tanti altri giovani colpevoli solo di essere nati nel posto sbagliato nel momento sbagliato. La Gruber racconta senza compiacimenti e senza pregiudizi una storia difficile non ancora metabolizzata, un pezzo di storia d'Italia con la quale il Paese stesso non ha ancora del tutto chiuso i conti. “Tempesta” è un viaggio nella memoria dove la finzione si mischia a vicende vere, a testimonianze di persone anziane che hanno vissuto quel periodo buio, a lettere rimaste nascoste per anni in soffitte polverose. Alla fine il romanzo è un lungo viaggio che mette in luce un popolo che ha subito troppo soltanto per la posizione geografica e strategica in cui si trovava. Un popolo onesto di gente semplice, di contadini che amavano la propria terra, di persone costrette a dividersi per cause superiori e forse a loro incomprensibili. Un popolo che ha pagato care colpe non proprie. Un popolo che pensava di poter realizzare i propri normali sogni, cioè quelli di vivere accanto al proprio amore e di essere liberi a casa propria, sulle loro montagne nei loro masi. Un popolo che ha dovuto sacrificare troppe giovani vite. Incontriamo Lilli Gruber che è gentile e disponibile nonostante i tantissimi impegni, che vanno dal ritorno in televisione alla promozione del libro. Un lungo lavoro di due anni tra scrittura, ricerche e interviste. Come è andata? Ha assorbito molto tempo e molte energie. Scrivere “Eredità”, il primo libro sulla storia della mia famiglia, non era stata certo una passeggiata ma con “Tempesta” mi sono impegnata come mai prima anche sulla costruzione della trama di fiction, dei personaggi… È stato un po’ come scrivere due libri in uno, saggio e romanzo. Ma la risposta dei lettori, molto calorosa, mi conferma che l’intuizione sul modo in cui questa storia andava raccontata è stata giusta. Il libro affronta un pezzo di storia italiana che invece i libri di storia hanno dimenticato? La Seconda guerra mondiale è un pezzo di storia europea e, appunto, mondiale così complesso e tragico che non si possono certo biasimare i libri di storia, né i programmi scolastici, se “dimenticano” il Sudtirolo. Credo però che il compito della buona divulgazione, e il privilegio di una certa narrativa, sia accompagnare il lettore in luoghi e tempi che non conosce, per consentirgli di capire meglio quelli in cui vive. È quello che ho cercato di fare. Come si siano sentite allora quelle popolazioni, si capisce molto bene dal suo libro. Come si sentono ora? In una terra di frontiera come il Sudtirolo i problemi di identità non si risolvono: si impara a conviverci. della materia di cui si tratta. Figurarsi quando si scrive una storia familiare. Più che di analisi però parlerei di scoperta e anche di emozione: aggiungere una dimensione di romanzo alla mia scrittura, tradizionalmente più basata sull’inchiesta, mi ha aperto una nuova dimensione. Trovarmi a raccontare una grande storia d’amore e di guerra, seguendo le vicissitudini vere di Hella e quelle inventate del falsario Karl, mi ha costretta a scavare in profondità in emozioni che sono alla base del nostro essere umani, come la passione e la paura, la speranza e la disperazione. In questo senso “Tempesta” mi ha dato molto. l’antifascista Mensile dell’ANPPIA Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti Direttore Responsabile: Luigi Francesco Morrone In Redazione: Maurizio Galli Non è stato facile ai tempi di cui parla “Tempesta”: ingiustizie, violenze, famiglie dilaniate al loro interno. Sono ferite che non si rimarginano e l’elaborazione di questo lutto storico, per molti motivi, non è stata all’altezza di un compito così difficile. Così anche oggi a volte le cicatrici bruciano: la realtà sociale del Sudtirolo è ancora una realtà di divisioni. E la crisi economica non aiuta. Per fortuna molti riescono oggi a riconciliare i due mondi traendone una sintesi felice: chi ha lottato per il riconoscimento dell’autonomia ha lottato per questo. Che cosa sarebbe giusto che l’Italia facesse oggi per il Sudtirolo? Sono purtroppo una delle sudtirolesi meno indicate per rispondere a questa domanda, da molti anni non vivo nella mia Heimat (patria, luogo d'origine ndr). Credo che l’insegnamento della storia, di questa storia, sia che le voci delle minoranze vanno ascoltate: sempre. Non vale certo solo per i sudtirolesi. Scrivere “Tempesta” è stata una specie di analisi di là dall’aver scoperto nuove cose della sua famiglia? Scrivere è sempre un percorso di conoscenza: di se stessi oltre che SEDE: Corsia Agonale, 10 – 00186 Roma Tel 06 6869415 Fax 06 68806431 www.anppia.it [email protected] HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO: Mario Artali, Giulia Bertoluzzi, Paolo Brogi, Roberto Cenati, Arturo Colombo, Fabio Ecca, Saverio Ferrari, Mimmo Franzinelli, Giorgio Galli, Maurizio Galli, Walter Merazzi, Martina Parodi, Filippo Senatore, Costanza Spocci, Carlo Tognoli, Elisabetta Villaggio TIPOGRAFIA Cierre Grafica srl Roma - Via del Mandrione 103A PROGETTO GRAFICO Marco Egizi www.3industries.org Prezzo a copia: 2 euro Abbonamento annuo: 15,00 euro Sostenitore: da 20,00 euro Ccp n. 36323004 intestato a l’antifascista Chiuso in redazione il: 8/01/2015 Finito di stampare il: 15/01/2015 Registrazione al Tribunale di Roma n. 3925 del 13.05.1954