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Istituto MEME: Le madri assassine

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Istituto MEME: Le madri assassine
UNIVERSITE EUROPENNE JEAN MONNET
ASSOCIATION INTERNATIONALE SANS BUT LUCRATIF
BRUXELLES – BELGIQUE
THESE FINALE EN
« SCIENCES CRIMINOLOGIQUES »
LE MADRI ASSASSINE
Il buio della mente
Dott.ssa Maria Paola Rapagnani
Matricola 2147
Bruxelles, Juillet 2008
ISTITUTO MEME S.R.L. - MODENA ASSOCIATO UNIVERSITÉ EUROPÉENNE JEAN MONNET A.I.S.B.L. BRUXELLES
MARIA PAOLA RAPAGNANI – SST IN SCIENZE CRIMINOLOGICHE - TERZO ANNO A.A. 2007 - 2008
INDICE
Introduzione
pag. 4
Capitolo 1
pag. 11
Le differenze psicologiche tra Feticidio, neonaticidio
ed infanticidio
Capitolo 2
pag. 31
Il figlicidio nella mitologia
2.1 Il figlicidio compiuto dalla madre folle
2.2 Il figlicidio compiuto dalla madre come vendetta nei confronti
dei familiari
2.3 La madre abbandonica e il figlio non desiderato
2.4 Il figlicidio compiuto dalla madre per errore
2.5 Il figlicidio compiuto dal padre
pag. 34
pag. 38
pag. 41
pag. 44
pag. 48
Capitolo 3
pag. 50
La donna delinquente
3.1 Introduzione
3.2 La prostituta e la donna normale
pag. 50
pag. 50
Capitolo 4
pag. 71
L’infanticidio e il codice penale
4.1 Aspetti particolari dell’azione penale in caso di infanticidio
pag. 77
Capitolo 5
pag. 81
Gli scenari di fondo in cui avviene il delitto di figlicidio e
la confessione del delitto
5.1 La confessione del delitto
5.2 Il comportamento della madre dopo l’uccisione del figlio
pag. 84
pag. 91
Capitolo 6
pag. 97
Comunicazione e silenzi nella relazione madre-bambino
6.1 Il silenzio nella gravidanza
pag. 101
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Capitolo 7
pag. 107
Le madri di Cstiglione delle Stiviere: il buio della mente
7.1 La storia di M.P.: la messinscena
7.2 La storia di C.R.: il buio della mente
7.3 La storia di R.S.: l’incidente
7.4 la storia di O.C.: la Sindrome di Medea
7.5 La storia di G.A: una vita sbandata
7.6 La storia di A.S.: madre a tutti i costi
7.7 La storia di M.E.: il baratro della depressione
7.8 La storia di L.C.: lo scandalo in OPG
7.9 La storia di N.D.: il grande sbaglio
7.10 La storia di K.J.: la non consapevolezza
7.11 La storia di S.T.M.A.: il gesto fallito
pag. 107
pag. 110
pag. 112
pag. 114
pag. 117
pag. 119
pag. 121
pag. 122
pag. 123
pag. 125
pag. 127
Capitolo 8
pag. 131
Depressione o scarsa attenzione verso le future mamme?
Conclusioni
pag. 135
Bibliografia
pag. 142
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INTRODUZIONE
In questi ultimi anni, in modo maggiore che in passato, la cronaca nera italiana é stata
fortemente caratterizzata da omicidi avvenuti in ambienti familiari.
I mass-media si sono occupati con un interesse ossessivo soltanto di alcuni di loro,
quelli più "particolari" o perché efferati o cruenti o perché sadicamente violenti.
Gli omicidi in famiglia si consumano con notevole frequenza ed hanno ben poco a
che vedere con la spettacolarità mediatica.
Essi sono la manifestazione ultima, finale, del lato orribile, deviato e disturbato dei
rapporti familiari e dei legami di sangue.
Questi eventi per molto tempo sono stati analizzati solo dalla prospettiva psicologica,
ma oggi vengono chiamati in causa per essi molti più elementi.
Si scopre così che c'é una complessità di fondo, molto radicata, che a stento emerge e
che deve essere letta e analizzata alla luce di una complementarità motivazionale che
non é però mai esaustiva.
Da sempre la famiglia rappresenta l’embrione della società, l'articolo 29 della
Costituzione Italiana afferma "La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come
società naturale fondata sul “matrimonio”.
La famiglia é quella istituzione sociale che dovrebbe significare il luogo di sicurezza
e tranquillità per eccellenza, struttura unitaria di riferimento per i vari membri che ivi
interagiscono e che ne determinano il funzionamento.
Una micro società naturale, quindi, ma dai rapporti e dalle funzioni estremamente
complessi.
Attraverso di essa, infatti, si apprende 1a propria cultura, i valori da condividere, le
regole di vita ma nello stesso tempo si acquisiscono ruoli e si assumono funzioni che
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a seconda della vita sociale, al di fuori del proprio nucleo, si declinano in modi e
maniere differenti.
La famiglia, dunque, può influenzare in modo diretto la formazione dei principi e dei
parametri comportamentali di colui che vi cresce.
Nel momento in cui sorgono ostacoli individualmente considerati insormontabili,
scatta l'aggressività che sempre più spesso é veicolata verso i componenti del proprio
nucleo di origine (come testimoniano sempre più spesso gli operatori dei Servizi
Sociali), considerati causa primaria delle frustrazioni; ma 1'atto estremo, l'omicidio,
non é sempre dettato da un impulso immediato e incontrollato, il più delle volte,
infatti, é il frutto di una lenta elaborazione, di una conflittualità interiore che affonda
le sue radici lontano e che è strettamente connesso al cambiamento nel tempo dei
ruoli familiari e sociali dei membri del nucleo di appartenenza.
In questi ultimi tempi sembra essere aumentato il numero degli infanticidi: dai 12 casi
del 1998 ai 14 del 1999, dai 20 del 2000 ai 63 del 2001, anche se di omicidi di minori
e di infanticidi la storia é piena e quindi sarebbe più corretto dire che se ne parla di
più.
Le cifre sugli infanticidi riportate dalle statistiche ufficiali sono però relative, perché
non contemplano le morti avvenute in modo accidentale, ma pur sempre in presenza
di almeno uno dei due genitori, e poi perché quando si parla di infanticidio si intende
un omicidio commesso dalla madre nei confronti di un bambino appena nato, dal
latino infanticidium = infantis-cidium = uccisione dell'infante = uccisione del feto
nato e respirante.
Se si tratta la morte di bambini di età diverse, per essere corretti a livello giuridico,
dovremmo parlare di figlicidio, fenomeno assai più frequente e commesso da figure
anche diverse dalla madre.
II fenomeno di criminalità, qual’é l'infanticidio, - il bambino trovato nei cassonetti
delle nostre civilissime città -, deve essere analizzato in un'ottica psico-sociale e
storica.
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I problemi relativi alla maternità a rischio sociale e più in generale il rapporto tra
norma e devianza nelle relazioni interpersonali sono determinanti in queste situazioni.
In passato il fenomeno della devianza femminile era configurato semplicemente
come un'anomalia biologica o una malattia di tipo psicologico.
Alle donne delinquenti non veniva riconosciuta una veste razionale, come risposta
a specifici problemi o conflitti sia interni che esterni, e per questo erano considerate
come o "da curare" o da allontanare dalla società.
La teoria di Lombroso (1893) tesa ad evidenziare l’inferiorità biologica, mentale,
sociale e culturale della donna, ha determinato il costituirsi di uno schema di
pregiudizi, luoghi comuni, stereotipi, stigmi che sono sopravvissuti per lungo tempo.
Oggi queste teorie ci fanno sorridere, le donne non sono portate a commettere
omicidi perché biologicamente inferiori, ma forse perché vivono una vita "inferiore",
ossia al di sotto delle loro aspettative e dei loro desideri.
Per questo motivo tra le cause di infanticidio ci troviamo a dover passare dalle
motivazioni più inquietanti per la loro banalità, vedi le donne che uccidono il proprio
figlio in quanto colpevole di aver rovinato il loro corpo attraverso la gravidanza, a
quelle più complesse, di donne che ripropongono ai piccoli le violenze che loro stesse
hanno subito, a quelle che dissimulano la gravidanza e fecalizzano il neonato (é il
caso dei bambini abbandonati nelle discariche o nei cassonetti dei rifiuti).
Il binomio normalità-devianza non é una coppia di contrari, ma si riferisce a due
universi di senso legati da un rapporto dinamico che li intreccia.
La norma é un modello di comportamento socialmente appreso, tramite le agenzie di
socializzazione che vanno dalla famiglia e l'istituzione scolastica, fino alle micro e
macro istituzioni con cui l'individuo viene in contatto durante tutto il corso della sua
vita. Si tratta di un processo che pur riferendosi alla costruzione dell'identità
individuale viene tuttavia verificato costantemente a livello interpersonale nei
contesti dove si strutturano atteggiamenti, regole, obiettivi e comportamenti.
Il crimine come atto distruttivo costituisce quello che
pone
più
esigenze
di comprensione, di sanzione e di prevenzione; il dibattito scientifico contemporaneo
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sottolinea fortemente l'aspetto comunicativo dell'azione deviante, riportando lo studio
dei comportamenti criminosi non alle caratteristiche di un individuo, l'assassino, ma
alla sequenza di atti e di significati in cui si inserisce.
«Qualunque azione... contiene tracce rilevanti dell'autore che, nell'agire é impegnato
ad elaborare l'organizzazione de1 proprio sé, della propria identità, dei propri
sistemi... in chiave relazionale, però, l'azione conserva tracce che riguardano non
soltanto il sistema agente, ma il soggetto o i contesti cui l'azione é riferita anche in
fenomeni simbolici...» .
Attualmente l'infanticidio, é normato dalla legge 442 del 1981; l'infanticidio, in tutti i
paesi europei, prevede pene diverse e meno gravi rispetto all'omicidio, oltre che un
maggior ricorso alle misure alternative, in considerazione del momento particolare,
immediatamente dopo il pano, in cui viene commesso.
La nostra vecchia legge lo inseriva tra le attenuanti per motivi d'onore, ipotizzando
che la difficoltà -secondo un atteggiamento sociale tipico dell'epoca, che metteva il
rispetto del pubblico decoro al centro del vivere aggregato- nascesse dallo scandalo
provocato nella comunità di inserimento.
La nostra legge attuale, con elementi che la rendono più corretta scientificamente ed
eticamente anche rispetto ad altre legislazioni, parla invece di “abbandono morale e
materiale”, che pur non negando gli aspetti di disagio psichico scatenati da una
nascita rifiutata, valuta anche le concause di tipo sociale e psicologico che si
originano in una condizione di marginalità e che solitamente aggravano anche le
precarie condizioni psichiche.
In base a questi elementi, si rafforza l'ipotesi di considerare l'infanticidio come “un
crimine di situazione”.
Considerarlo tale non significa negarne gli aspetti inquietanti o giustificarlo in
qualche modo e neppure allargare la punizione a più soggetti, ma piuttosto non
delegare alla donna, oltre alla maternità ed al senso di colpa delle situazioni
socialmente irregolari, anche il peso di essere l'unica interlocutrice della giustizia.
Dietro ad ogni infanticidio possiamo leggere un disagio femminile profondo.
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Ritroviamo, oggi come ieri, l'assenza di reti sociali di sostegno, sia informali
(famiglia, amici, rapporti di vicinato), che formali (servizi socio-sanitari-educativi),
con in più l'emergere di tipologie di marginalità diverse e meno definibili che nel
passato: le infanticide di oggi, oltre ad essere nubili o molto giovani, provengono
spesso dalla popolazione più fragile socialmente, a cui vengono offerte scarse
opportunità e a cui difficilmente vengono riconosciuti i diritti.
L'elemento psicologico ricorrente in questo delitto é il silenzio.
La rimozione del problema di una nascita non voluta proviene da lontano, è
interiorizzata
dalla donna con la cultura che apprende, la segue durante una
gravidanza che tutti negano di aver visto, durante un parto che si consuma in
clandestinità e alla fine il reato chiude simbolicamente il percorso cancellando un
bambino, di cui il mondo ancora prima della donna, aveva decretato l’invisibilità.
Le infanticide subiscono passivamente la gravidanza come una fatalità ineluttabile.
Sentendosi colpevoli non osano annunciarla al compagno, per paura di essere
abbandonate, o ai familiari, per paura della condanna della loro reazione sessuale.
Quando i parenti compaiono é solo per occultare il delitto.
Le donne obbediscono alla regola fondamentale comune: tacere, e per riuscire a
tacere la cosa più facile é non sapere, é non sapendo che si nasconde meglio.
La rottura delle relazioni, la chiusura verso i rapporti di vicinanza, l’incapacità a
verbalizzare, il manifestarsi di un senso di colpa inconscio sono caratteristiche tipiche
dell'infanticidio.
Questo lavoro chiude (speriamo non per sempre) la mia esperienza all’Ospedale
Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere.
Quando sono andata via l’ultima giorno di tirocinio mi sono fermata a guardare
l’edificio: faceva caldo e un sole primaverile rendeva la giornata bellissima.
Alcuni pazienti stazionavano nel giardino e mi sorridevano: pensavo che
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quelle persone avevano commesso delitti orribili, che quelle mani si erano macchiate
di sangue, ma nonostante tutto non mi facevano paura, né orrore.
Era tutto così pacifico, dolce, lieve.
In lontananza sentivo delle grida delle donne ricoverate nel reparto Arcobaleno,
chissà se tra quelle urla c’erano anche le donne che avevo conosciuto, con cui avevo
parlato, quelle madri che tra le lacrime mi hanno raccontato il loro incubo peggiore: il
giorno in cui hanno ucciso il proprio figlio.
I medici a Castiglione dicono che l’istinto materno non è innato: ad amare a volte si
impara o non si impara affatto. Non amare può essere una malattia.
Le chiamano “donne emmhental”, con l’anima bucata, finché sono incinte il bambino
chiude quei “buchi”, quando poi nasce i “buchi” sono più grandi di prima, come una
voragine, e nessuno riesce a colmare quel vuoto, neanche un bambino da accudire, da
amare, da proteggere…nessuno, solo la follia, a volte, ce la può fare: “il vento può
piegare un salice, ma non una quercia.
Eppure il salice, così esile, riesce a recuperare in qualche modo un equilibrio.
La quercia squassata dal vento e dalla pioggia a volte viene giù.
Per questo chi è come una quercia ha timore delle intemperie: alcune donne sono così
anche nella terapia. Sembrano forti, dure, non vogliono guardarsi dentro per paura di
spezzarsi…”, mi ha detto un medico dell’OPG.
L’ultimo rapporto dell’organizzazione mondiale della sanità offre una chiave di
lettura sociologica: le donne uccidono in misura maggiore i figli perché sono più
vulnerabili e sole, vivono lo stress di madri e donne lavoratrici, la svalutazione della
loro condizione sociale da un lato e dall’altro l’esigenza di soddisfare modelli di
perfezione.
Il valore di una donna si misura sull’essere o non essere una buona madre.
Le madri che uccidono sono abbastanza giovani, hanno in media 36 anni, un titolo di
studio non elevato, la licenza media, e in 9 casi su 14 rimangono sole, abbandonate
dal partner che non è riuscito a sostenere psicologicamente le conseguenze
dell’accaduto. Ma la famiglia di origine quasi mai recidono il loro rapporto, restano
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accanto alle figlie che sbagliano, che hanno cancellato per sempre la gioia di essere
nonni, ma non il fardello di essere genitori, il dolore del fallimento, aspettando il
giorno in cui andranno a riprendersi quella figlia ed hanno un po’ paura.
Nel mio lavoro precedente ho descritto l’OPG di Castiglione delle Stiviere e le sue
attività riabilitative, le differenze tra infanticidio e figlicidio nel codice penale e le
tipologie di madri assassine.
Questa volta mi sono soffermata su altri aspetti dell’infanticidio dal punto di vista
storico-sociologico e psicologico, ma soprattutto sulle storie delle 10 madri assassine
ricoverate all’OPG di Castiglione delle Stiviere, la malattia mentale che ha sconvolto
la loro realtà: non dimenticherò mai quei volti, quelle storie, quelle lacrime, una
sofferenza enorme che non si può descrivere, a volte mi chiedo come facciano a
vivere con quel rimorso, quando si rendono conto di ciò che hanno commesso.
Forse un giorno ci sarà un po’ di pace e serenità anche per loro, forse gli incubi della
notte spariranno o forse no, ma rimarrà per sempre il ricordo dei loro bambini morti:
baceranno le loro foto tra le lacrime e penseranno a quando erano felici…un tempo
troppo lontano…cercheranno di guardare avanti anche con un macigno nell’anima.
Non potrò mai dimenticare neanche io…
Come terapeuta concludo con una frase attribuita a Pericle: “Dio, dacci la forza di
cambiare le cose che possono essere cambiate, la tolleranza per sopportare le cose
che non possono essere cambiate e l’intelligenza per distinguere le une dalle altre”.
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CAPITOLO 1
Le differenze psicologiche tra feticidio,
neonaticidio ed infanticidio
Il figlicidio è sicuramente considerato uno dei delitti di sangue che più suscita orrore
ed incredulità: in una società come quella attuale, sempre più attenta alla difesa della
vita e protesa alla tutela dei diritti dei minori, il comportamento di una madre che
uccide il proprio figlio non può che generare sgomento e risultare per tutti
francamente ripugnante.
Pur tuttavia, è sufficiente un’indagine dei rapporti tra gli individui delle specie
animali e un’indagine di alcune relazioni sociali umane per spiegare come, sin dal
passato, il figlicidio sia stato non solo frequente, ma addirittura tutelato e incentivato.
L’etologia e l’antropologia ci spiegano, infatti, come tale gesto abbia alla base
motivazioni biologiche e valori sociali e culturali.
Giuridicamente parlando, secondo l’art. 578 del nostro codice penale — così come
riformulato dalla L. 442 del 1981 — per infanticidio si intende «la procurata morte
del neonato immediatamente dopo il parto o del feto durante il parto da parte della
propria madre, quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale e
morale connesse al parto ed è punito con la reclusione da quattro a dodici anni».
Il codice penale italiano non prevede circostanze attenuanti speciali per l’omicidio
doloso, ma ne codifica forme attenuate considerate come fattispecie autonome di
delitto.
Nella
normativa
vigente,
dunque,
si
contempla
il
reato
di
infanticidio
caratterizzandolo in base alle seguenti specifiche: l’attore del gesto è la madre, l’atto
è compiuto ai danni di un neonato nell’immediatezza del parto e fondamentale è la
condizione di abbandono materiale e morale da parte dell’autore del delitto.
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L’infanticidio è, dunque, secondo il codice penale, un crimine soltanto “materno”.
Inoltre, la restrizione temporale, relativa agli istanti subito dopo il parto o addirittura
durante lo stesso, è una condizione specifica per questo tipo di reato.
In altre parole, la madri e i padri che pure uccidono i propri figli, ma non alla
presenza congiunta di queste tre condizioni (durante il parto, immediatamente dopo il
parto, condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto), per il vigente
codice penale saranno imputati di omicidio.
Il nostro ordinamento penale punisce il reato di infanticidio in condizioni di
abbandono materiale e morale, ma considera tale gesto meno grave dell’omicidio,
poiché commesso nei confronti di un neonato, in circostanze difficili e sotto la spinta
di pressioni emotive di vario genere.
L’ infanticidio ha sempre suscitato emozioni e giudizi contrastanti: dapprima, è
ferocemente condannato poiché considerato palese violazione di quel rapporto da
tutti vissuto particolarmente affettuoso e naturalmente coinvolgente, ma nel momento
in cui la cronaca racconta dell’esistenza di condizioni sociali drammatiche che hanno
impedito per problematiche degne di particolare attenzione alla madre di fornire le
giuste cure al proprio figlio, l’infanticidio stesso dalla opinione pubblica viene
emozionalmente
sottaciuto,
in
quanto
accomunato
a
peculiari
limitazioni
intrapsichiche, sociali ed interpersonali della stessa madre sfortunata (“pietas
emozionale sociale”).
Il fattore temporale, come già accennato, è fondamentale nella valutazione della
tipologia di reato con diversificate motivazioni intrapsichiche.
A tal proposito, una differenziazione può essere effettuata tra neonaticidio,
infanticidio
e
figlicidio:
queste
tre
categorie
di
delitti
sono
diverse
sotto il profilo giuridico, sotto quello della eventuale psicopatologia dell’autore e,
soprattutto, sotto il profilo della relazione fra autore e vittima.
Ovverossia, considerando il fattore temporale e quello relativo al grado di parentela
fra autore e vittima, possiamo, non già per il codice penale, così schematizzare:
— Per neonaticidio si intende l’uccisione del nuovo nato entro ventiquattro ore dalla
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nascita; addirittura ne esiste una variante definita feticidio quando l’uccisione
interviene durante il parto. In entrambi i casi, il reato è detto tale se a commetterlo è
la madre.
— Per infanticidio si intende l’uccisione del piccolo immediatamente dopo il parto o
comunque in un arco di tempo che, come considerato da più autori, si colloca tra i sei
mesi e il primo anno di vita. In realtà, molto dibattuto è il limite temporale che fissa il
reato di infanticidio: è infatti nota la controversia esistente tra i diversi sistemi
legislativi dei vari paesi.
In Italia, dottrina e giurisprudenza concordano nell’attribuire alla condotta infanticida
il limite temporale all’interno di quello stato di turbamento emotivo che segue al
parto. Diversamente, una volta trascorso questo “termine breve”, si applicheranno le
norme comuni sull’ omicidio doloso.
Come già specificato, anche in questa fattispecie di reato l’autore è la madre.
— Per figlicidio si intende l’uccisione della prole al di là del primo anno
di vita, ma ancora minore. Anche in questo caso, per determinare i limiti entro i quali
far ricadere questo reato si è fatto riferimento a quel particolare legame affettivo e di
dipendenza che si sarebbe dovuto instaurare tra i genitori e i figli.
Di fatto, uccidere il figlio appena nato è psicologicamente diverso dall’ucciderlo
quando già si sono instaurati i legami di convivenza: la ben nota “maturazione
affettiva” sviluppata dalla madre nei confronti del neonato, infatti, presuppone che sia
già trascorso un periodo di tempo. Come se, per estrinsecarsi pienamente, l’amore
materno abbia bisogno di svilupparsi in base alla “familiarità” della comunione
affettiva.
Esso viene contemplato come fattispecie penale di omicidio aggravato dal legame di
parentela. A differenza dei precedenti, questo reato vede indifferentemente come
potenziali autori entrambi i genitori.
Come già visto, la definizione di infanticidio in uso oggi nel nostro codice penale è di
gran lunga successiva al corpus originario risalente al 1930 e sottoposto a continui
lavori di rielaborazione.
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Nella terminologia abituale onnicomprensiva del “sentire emozionale”, per figlicidio
si intende sia l‘infanticidio sia, accomunato, il figlicidio
vero e proprio.
La giurisprudenza accumulata in materia non si è limitata semplicemente a registrare
l’evento e la colpa, ma si è impegnata inoltre nel cercare le motivazioni di un atto
così incomprensibile.
E’ necessaria però una puntualizzazione nella ricerca delle basi motivazionali non già
mirata ad attenuanti che coinvolgono la malattia mentale.
Quando lo si fa, infatti, si ricorre ad un altro articolo del codice penale che giustifica
l’irresponsabilità di quello o di qualsiasi altro reato se compiuto in stato di infermità
mentale (artt. 88 e 89 c.p.).
Nello specifico caso qui affrontato, si presume invece che una donna colpevole di
infanticidio l’abbia commesso in uno stato sì del tutto particolare, ma non
configurabile come malattia mentale (a meno che non si riesca a dimostrare che sia
stato compiuto in un momento di palese compromissione delle funzioni dell’Io:
funzioni cognitive — organizzativo-mentali — previsionali decisionali
—
esecutive).
La concezione dell’ ”onore”, contemplata nel codice del 1930 cessa di esistere nel
1981, allorquando la legge 442 fa decadere la valenza penale della motivazione
dell’onore, che riguarda vari reati, incluso l’omicidio.
Ma vediamo prima quali variazioni sono intercorse dalle precedenti formulazioni
giuridiche, a partire dai codici preunitari, e quali mutamenti nella mentalità, nella
concezione comune di infanzia e di maternità.
Analizzando, infatti, il trattamento dell’infanticidio attraverso i tempi e nei diversi
ordinamenti giuridici si constata che prima di essere un crimine era socialmente
tollerato, giungendo ad essere finanche giustificato, e a seconda del singolo caso
diventava “un diritto”, “un obbligo” o “un dovere”.
Già nel XVIII secolo insorsero filosofi del diritto
con
l’argomentazione
che questo crimine non esisteva per perversità ma per gli imperativi dell’onore che si
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cercava di salvare.
In decorrenza del criterio psicologico dell’occultamento del disonore difeso da
Beccaria (1764), da Feuerbach e altri, si ebbero importanti conseguenze nella
legislazione che portarono all’abolizione della pena di morte, inizialmente in Austria
nel 1803, e successivamente in Baviera (Germania) nel 1813.
Solamente il Codice Napoleonico (Francia) del 1810, la legge inglese e il Codice
Penale Sardo del 1852 continuarono a conservare nel caso specifico la pena di morte.
Nel corso dell’ 800, gli ordinamenti giuridici iniziarono a considerare l’infanticidio
alla stessa stregua di un omicidio privilegiato praticato per motivo di onore dalla
madre o da qualche parente prossimo, stabilendo quindi una diminuzione
significativa del quantum della pena.
In quel periodo storico, infatti, si attua uno sdoppiamento di valutazione: da un lato,
la colpa veniva attenuata nel caso in cui la donna era divenuta madre al di fuori del
matrimonio, dall’altro, rimaneva invece gravissima per la madre legittima.
Attenuandone la pena, la madre illegittima veniva in qualche modo “giustificata” nel
suo gesto, sottolineando le difficoltà della sua peculiare condizione.
Viceversa, in un caso di maternità legittima non venivano ammesse giustificazioni o
difficoltà quali attenuanti generiche.
Da tale periodo in poi, il trattamento dell’infanticidio si è strutturato sul criterio
psicologico della concessione del privilegio, ovverossia che la madre agisse per
motivi di onore (honoris causa) occultando la gravidanza illegittima al di fuori del
matrimonio. Si verifica allora che il criterio psicologico si relaziona al “concetto di
onore” con la gravidanza illegittima, pretendendo di conservare la morale soltanto per
l’aspetto sessuale.
Il Codice Zanardelli (art. 369) configurava l’infanticidio come circostanza attenuante
dell’omicidio, e non come autonoma figura di reato.
Fra i requisiti per configurarsi vi era: la non avvenuta iscrizione nei registri dello
stato civile dell’infante e l’honoris causa.
Il Codice Rocco mantiene la “causa d’onore”, mutando l‘infanticidio in titolo
15
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speciale di reato per: «Chiunque cagiona la morte di un neonato immediatamente
dopo il parto, ovvero di un feto durante il parto, per salvare l’onore proprio o di un
prossimo congiunto (omissis)» (Merzagora Betsos, 2003).
Come si può notare, fino ad oggi il fattore temporale del crimine “durante” o “subito
dopo il parto” è rimasto invariato.
Numerosi sono i concetti di onore e della sua salvaguardia relativamente sia alle
caratteristiche fisiche quali la sanità mentale e la forza fisica, sia morali come
l’onestà, la lealtà e l’altruismo e sia intellettuali come l’intelligenza e la cultura che
concorrono a determinare il valore comune della persona nei confronti di se stessa e
della società (Leitao da Silveira, 1968).
Il succitato Autore considera quindi che l’onore può essere analizzato sotto due
aspetti principali: il primo è l’onore oggettivo, ossia quello che gli altri pensano del
soggetto, quindi il sentimento che il gruppo sociale chiede rispetto agli attributi fisici,
morali ed intellettuali di qualcuno; il secondo si riferisce al sentimento che ognuno ha
di se stesso, con le caratteristiche individuali e trattasi dell’onore soggettivo,
ovverossia del giudizio verso se stessi, dell’amor proprio, della propria autostima.
Il concetto di onore comporta un’idea di patrimonio morale che da un lato,
oggettivamente, consiste nella considerazione o rispettabilità sociale che un individuo
ha conquistato attraverso gli anni e dall’altro, soggettivamente, consiste nella propria
autostima.
In qualsiasi modo, tanto l’onore oggettivo quanto quello soggettivo può estrinsecarsi
sotto i più diversi aspetti e pertanto si potrà parlare di onore sociale, familiare,
professionale, patriottico, sportivo, sessuale ecc.
I difensori del criterio psicologico relazionano il concetto di onore con la lato,
gravidanza illegittima conservando la morale per l’aspetto esclusivamente al fine di
sessuale, al fine di collocare l’infanticidio in situazione di privilegio
rispetto
all’omicidio.
L’onore sessuale per Octavio Leitao da Silveira (1968) consiste «nell’opinione che la
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generalità della popolazione professa circa i requisiti che qualificano una persona
come moralmente incensurabile sotto l’aspetto sessuale».
Tommaso Pedio (1954) è della stessa linea di pensiero e ritiene che la volontà di
uccidere il bambino durante il parto o subito dopo la sua nascita risiede unicamente
ed esclusivamente nell’intenzione di evitare che la gravidanza illegittima giunga a
conoscenza di coloro che fino a quel momento hanno considerato incensurabile
quella donna.
Pedio effettua quindi la sua peculiare osservazione nel dichiarare che la minore
riprovazione della condotta dell’agente infanticida non risiede nel riferito criterio
psicologico, bensì nella necessità del reo di evitare il pericolo del disonore.
In tale linea di pensiero si colloca Gleispach, che teorizzando l’infanticidio ha messo
in risalto il particolare momento che attraversa la madre durante il parto sotto la
peculiare influenza perturbatrice dello stesso e che, se si trova ripudiata o
abbandonata, agisce per necessità, nel senso più generale del termine.
Per i giuristi dell’epoca esisteva un reale stato di necessità, un vero e proprio conflitto
di beni giuridici (l’onore della donna e la vita del nascituro o del neonato).
Tale disagevole conflitto è in grado di determinare nella donna un peculiare contrasto
intrapsichico.
Altri Autori, poi, preferivano depenalizzare l’infanticidio considerandolo soltanto un
delitto morale; conclusione questa alla quale giunse anche Jeremias Benthan, il quale
intendeva non meritevole di pena l’infanticidio commesso dalle madri proprio grazie
alla spiegazione relativa ai motivi di onore.
Di conseguenza, il beneficio non può essere concesso per nessun’altra ragione, come
ad esempio nel caso di una malattia grave del neonato che e viene a compromettere la
vitalità del bambino, il quale per “pietas” viene ucciso dalla madre per evitare che da
grande possa soffrire, oppure anche per compassione allorquando la famiglia non ha
le condizioni finanziarie per mantenerlo.
In questi casi l’agente risponde di omicidio e non di infanticidio.
In questo senso già Dirceu de Mello aggiungeva: «La donna sposata che concepisce
17
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legittimamente ma poi viene abbandonata dallo sposo, senza risorse finanziarie alla
vigilia del parto, non può invocare l’honoris causa se uccide il neonato spinta dalla
disperazione e dai disturbi fisici e psichici con seguenti al puerperio».
Nel momento in cui però la prevalente motivazione che si attribuiva all’infanticida —
come appena visto — appariva dipendere dal senso dell’onore l’unica prevenzione
possibile avrebbe riguardato la limitazione della sessualità al solo ambito del
matrimonio, tenendo conto anche del fatto che contraccezione e aborto sono stati a
lungo considerati illegali (Guarnieri 2005).
Per poter avere un quadro generale del panorama legislativo mondiale, qui di seguito
è riportato l’elenco relativo alle diverse normative in materia di infanticidio vigenti in
alcuni paesi europei e del resto del mondo:
— ITALIA, art. 578 c.p.: «La madre che cagiona la morte del neonato dopo il parto o
del feto durante il parto, quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono re
materiale e morale connesse al parto, è punita con la reclusione da 4 a 12 anni. A
coloro che concorrono nel fatto di cui al primo comma si applica la reclusione non
inferiore ad anni 21. Tuttavia se essi hanno agito al solo scopo di favorire la madre, la
pena può essere diminuita da un terzo a due terzi».
— SPAGNA. La figura criminis prevista dall’art. 410 c.p. spagnolo, quella
tradizionale dell’infanticidio per causa d’onore, è stata abolita dal nuovo codice
penale spagnolo del novembre 1995.
—GRECIA. art. 303 c.p. greco del 951: «La madre che con intenzionalità cagiona la
morte del proprio figlio durante il parto, o dopo il parto, mentre si trova in stato di
turbamento e di sgomento dovuto al parto, è punita con la reclusione fino a 10 anni».
E’ considerata forma autonoma di delitto punito con pene minori per la condizione
fisica e psicologica particolare della madre, dovuta a stress e a turbamento organico
causati dal parto con la conseguente perdita della forza di resistere alle cause che la le
conducono al reato.
— PORTOGALLO. L’art. 137 c.p. portoghese contempla l”infanticidio privilegiato”:
la madre che uccide il figlio durante o subito dopo il parto, essendo ancora sotto il
18
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«suo influsso perturbatore» o per nascondere il disonore, è punita con la reclusione
da 1 a 5 anni.
— AUSTRIA. Il codice penale austriaco prevede che la madre che uccide durante il
parto oppure «fino a quando è sotto gli effetti del parto» sia punita con la pena
detentiva da 1 a 5 anni.
— INGHILTERRA. La disciplina penale in tema di infanticidio è regolata
dall’Infanicide Act del 1938: stabilisce che se una donna con un atto intenzionale o
un’omissione causa la morte del figlio minore di 12 mesi, può essere condannata per
manslaughter, che può essere paragonabile all’omicidio preterintenzionale del nostro
ordinamento penale, se al momento del fatto il suo equilibrio mentale sia turbato
dal parto o dall’allattamento.
— SCOZIA. Quello scozzese è l’unico codice penale europeo che non prevede
l ‘infanticidio come figura autonoma di reato. Una madre scozzese che uccide suo
figlio è infatti rinviata a giudizio per omicidio volontario ed eventuali attenuanti,
quali il suo stato mentale nel momento in cui cagiona l’atto criminale, sono tenute in
considerazione dal giudice come lo sono per qualunque altro omicidio, senza alcun
trattamento di favore.
— FRANCIA. La figura dell’infanticidio prevista dall’ art. 300 c .p. è stata abrogata
dal codice penale del 1992. L’omicidio di un bambino minore di anni 5, art. 221-4, è
omicidio aggravato e quindi punito con la pena della reclusione da 5 anni fino alla
reclusione a vita.
— GERMANIA. Secondo la legge tedesca una madre che uccide il proprio figlio
naturale, durante o subito dopo il parto, è punita con la pena detentiva non inferiore
ad anni 3. Nei casi di minor gravità si applica la pena detentiva da 6 mesi a 5 anni.
— SVIZZERA. art. 116 c.p. in vigore dal primo gennaio 1990: «La madre che,
durante il parto o finché si trova sotto l’influenza del puerperio, uccide l’infante, è
punita con la detenzione».
— STATI UNITI. Nei numerosi codici degli Stati Uniti l’infanticidio è considerato
come un “abuso su minore” ed è lasciata alla discrezione del giudice e della giuria la
19
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pena da infliggere alla madre, che può andare da un minimo di 10 annidi carcere fino
alla pena capitale, nei casi di particolare efferatezza.
— VENEZUELA. L’art. 413 c.p. stabilisce che, quando il reato di omicidio previsto
dopo il parto dall’art. 407è commesso ai danni di un bambino appena nato, non
ancora iscritto nel registro dello stato civile, allo scopo di preservare l’onore di chi lo
ha commesso o del coniuge, la pena è diminuita di un quarto.
— ARGENTINA. art. 81 del codice penale argentino: prigione da 6 mesi a 2 anni alla
madre che, per nascondere il disonore, uccide il suo bambino durante il parto o
comunque sotto l’influenza dello stato puerperale.
— MESSICO. Nel codice penale messicano la figura criminis dell’infanticidio è
prevista all’art. 325 c.p. (morte causata ad un bambino entro le 72 ore dalla nascita da
parte dei suoi ascendenti consanguinei).
—COSTA RICA. L. 4573 del 4 maggio 1970, art.113 c.p.: pena da l a 6 anni di
prigione alla madre di buona famiglia che, per evitare il disonore, uccide il suo
bambino entro i 3 giorni che seguono la sua nascita.
— ECUADOR. art. 453: la madre che, per nascondere il disonore, uccide il suo
bambino recentemente nato, sarà punita con la pena della reclusione da 3 a 6 anni.
Uguale pena sarà applicata ai nonni materni che commetteranno questo delitto con la
medesima
motivazione.
— BRASILE. D.L. 2848 del dicembre 1940, art. 123 c.p.: la madre che uccide il suo
bambino sotto l’influenza dello stato puerperale, o immediatamente dopo il parto, è
punita con la detenzione da 2 a 6 anni.
— BOLIVIA. DL. 10426 del 23 agosto 1972, art. 258 c.p.: la madre che per
nascondere la propria inferiorità o il disonore uccide il suo bambino durante il parto,
o entro
3 giorni dalla nascita, è punita con il carcere dal a 3 anni.
— COLOMBIA. L’art. 616 c.p. prevede che sia punita con la pena dal a 3 anni di
carcere la madre che, per evitare il disonore, uccide il suo bambino che non ha ancora
compiuto i 3 anni. I nonni materni, se complici, sono puniti con la prigione da 3 a 6
anni.
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Tabella 1. Indicatori del fenomeno dell’omicidio in famiglia in Italia.
2004
2005
Omicidi in famiglia
187
174
Omicidi totali
701
598
Tabella 2. Vittime degli omicidi in famiglia in base alla regione e all’area geografica
(anni 2004-2005). Valori assoluti,percentuali e indici per 100.000 abitanti.
2004
2005
REGIONI
V.A.
%
INDICE PER
100.000
ABITANTI
V.A.
%
Lombardia
Piemonte
Emilia Romagna
Veneto
Friuli V. G.
Liguria
Trentino A. A.
Valled’Aosta
Totale Nord
26
14
13
15
7
5
1
2
83
13,9
7,5
7,0
8,0
3,7
2,7
0,5
1,1
44,4
0,3
0,3
0,3
0,3
0,6
0,3
0,1
1,6
0,3
34
12
17
13
3
4
2
19,5
6,9
9,8
7,5
1,7
2,3
1,1
Lazio
Toscana
Marche
Umbria
Totale Centro
19
16
3
2
40
10,2
8,6
1,6
1,1
21,4
0,4
0,5
0,2
0,2
0,4
19
13
2
3
37
10,9
7,5
1,1
1,7
21,3
0,4
0,4
0,1
0,3
0,3
Sicilia
Campania
Calabria
Puglia
Sardegna
Molise
Abruzzo
Basilicata
Totale Sudelsole
15
15
9
12
5
4
3
1
64
8,0
8,0
4,8
6,4
2,7
2,1
1,6
0,5
34,2
0,3
0,3
0,5
0,3
0,3
1,2
0,2
0,2
0,3
18
9
6
8
3
1
4
3
52
10,3
5,2
3,4
4,6
1,7
0,6
2,3
1,7
29,9
0,4
0,2
0,3
0,2
0,2
0,3
0,3
0,5
0,3
100,0
0,3
174
100,0
0,3
—
48,9
INDICE PER
100.000
ABITANTI
0,4
0,3
0,4
0,3
0,2
0,3
0,2
0,3
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— CILE. Commettono infanticidio, secondo l’art. 394 c.p., il padre, la madre o gli
ascendenti legittimi oppure illegittimi che, entro le 48 ore dal parto, uccidono il loro
bambino o un discendente.
— PARAGUAY. L’art. 214 c.p. punisce con 2 anni di prigione la madre che, per
nascondere il disonore, uccide il suo bambino appena nato, intendendo con ciò il fatto
lo stesso non abbia ancora 3 giorni completi. La pena è elevata a 3 anni per i nonni
materni che commettono il medesimo reato.
— URUGUAY. Sono puniti con la pena da 6 mesi a 4 anni di carcere, la madre, il
padre o un parente che commette il reato previsto dall’ art. 310, omicidio, ai danni di
un bambino di un’età massima di 3 giorni, al fine di preservare l’onore.
— CUBA. L. 62 del dicembre 1987, art. 264 c .p. La madre che entro le 72 ore dopo
il parto ammazza il suo bambino, al fine di nascondere la vergogna di averlo
concepito, incorre nella sanzione della privazione della libertà da un minimo di 2 ad
un massimo di 10 anni.
—PERU’. art. 110 c.p. (1991): la madre che uccide il suo bambino durante il parto o
sotto l’influenza dello stato puerperale, sarà punita con la reclusione da i a 4 anni o
con l’obbligo della prestazione del servizio comunitario da 50 giorni a 104 giorni.
(Dati 2001; Bramante, 2005 da www.ambito-juridico.com).
Gli accenni forniti in relazione alla dimensione temporale e al grado di parentela
esistente tra autore e vittima sono utili perché ci permettono di comprendere come
l’attuale normativa penale sia il frutto di numerose modificazioni intervenute nel
corso dei secoli e nelle differenti società.
Prima di passare all’ analisi degli studi etologici ed antropologici, è necessario
fornire, seppur a grandi linee, qualche dato statistico riguardante l’incidenza e la
frequenza, almeno per il nostro paese, del fenomeno delle madri omicide.
I dati riguardanti il fenomeno dell’omicidio volontario in Italia provengono dal
Rapporto 2006 sviluppato dalla Banca Dati dell’EURES.
Sono stati presi in esame i dati registrati durante il corso del 2005, e per alcuni di
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questi dati viene presentato anche un confronto con ì rispettivi indici registrati nel
2004, per comprendere l’andamento e la loro incidenza. Negli omicidi che avvengono
in ambiente domestico, l’analisi delle relazioni e delle dinamiche familiari diviene
fattore primario di lettura e di interpretazione, vista la diretta e prevalente incidenza
ditale contesto sulla formazione della personalità, nonché sulla struttura psicologica,
affettiva e valoriale dei soggetti.
Le indagini statistiche dimostrano che la famiglia è il luogo dove si consumano il
maggior numero di atti violenti (il rapporto tra omicidi in famiglia e omicidi totali dal
punto di vista degli eventi è di 174 su 598; vedi tab. 1), causando il 29,1% di vittime
in famiglia sul totale di tutte quelle censite durante il 2005, in tutti i contesti
criminosi, in tutto il territorio nazionale.
Tabella 3. Graduatoria provinciale in base al numero delle vittime di omicidio in
famiglia (anno 2005). Valori assoluti e percentuali.
POSIZiONE NELLA
GRADUATORIA
PROViNCiA
V.A.
%
I
Roma
14
8,0
i
Milano
14
8,0
2
Torino
10
5,7
3
Bologna
6
3,4
3
Enna
6
3,4
4
Firenze
5
2,9
4
Varese
5
2,9
5
Frosinone
4
2,3
5
Lucca
4
2,3
5
Venezia
4
2,3
6
Bari
3
1,7
6
Bergamo
3
1,7
6
Brescia
3
1,7
6
Caserta
3
1,7
23
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6
Genova
3
1,7
6
Modena
3
1,7
6
Napoli
3
1,7
6
Ravenna
3
1,7
6
Reggio Calabria
3
1,7
6
Treviso
3
1,7
Tabella 4. Vittime di omicidio in famiglia in Italia in base al sesso.
2004
2005
SESSO
V.A.
%
VA.
%
Maschio
Femmina
59
128
187
31,6
68,4
100,0
76
98
174
43,7
56,3
100,0
Totale
Un ‘indicazione particolarmente interessante è fornita dall’analisi del contesto
territoriale in cui si consuma l’evento omicidiario.
Facendo una distinzione in base all’ampiezza demografica in cui si è consumato
l’omicidio, si rileva una sostanziale coerenza con quanto emerso relativamente al
complesso degli omicidi, con un “indice di rischio” maggiore nei comuni di 1550.000 abitanti (0,39 omicidi ogni 100.000 abitanti) e in quelli con oltre 250.000
abitanti (0,42), e il valore più basso nei comuni di minore densità demografica (0,25
nei comuni con meno di 5000 abitanti e 0,19 in quelli di 5-15.000 abitanti).
Il dato relativo agli omicidi familiari nelle regioni del Nord assume grande rilevanza
in valori assoluti e in termini di peso relativo delle diverse aree geografiche.
A livello regionale (vedi tab. 2), conseguentemente a quanto appena affermato, sono
le grandi regioni del Nord a presentare i valori più alti; in generale, la Lombardia si
conferma quale prima regione per numero di omicidi in famiglia: circa un omicidio
ogni 5 (19,5%) è stato infatti commesso nella regione lombarda, che ha inoltre
registrato un significativo incremento rispetto al 2004 sia del numero degli eventi (da
24
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26 a 34), sia della loro incidenza percentuale sul totale di quelli commessi in Italia
(dal 13,9% al 19,5%).
Anche altre grandi regioni del Nord, come l’Emilia Romagna (17 casi), il Piemonte
(12) e il Veneto (13) tendono a presentare valori consistenti.
A quanto detto c’è da aggiungere che in relazione, invece, alla densità di popolazione
(ampiezza demografica del comune), il valore più elevato risulta al Centro (con 0,34
omicidi ogni 100.000 abitanti), immediatamente seguito dal Nord (con 0,33 omicidi
ogni 100.000 abitanti) e dal Sud con 0,25 omicidi ogni 100.000 abitanti.
Tabella 5. Autori di omicidio in famiglia in Italia in base al sesso.
.
2004
2005
SESSO
VA.
%
v..
%
Maschio
Femmina
Totale
144
35
179
80,4
19,6
100,0
144
22
166
84,7
13,3
100,0
Tabella 6. Vittime di omicidio in famiglia in Italia in base all’età (anno 2005). Valori
assoluti e percentuali.
ETÀ
V.A.
%
Fino a un anno
6
3,4
1-5 anni
4
2,3
6-10 anni
1
0,6
11-13 anni
1
0,6
14-18 anni
2
1,1
19-24 anni
12
6,9
25
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25-34 anni
32
18,4
35-44 anni
31
17,8
45-54 anni
28
16,1
55-64 anni
17
9,8
Oltre 64 anni
34
19,5
Informazione non disponibile
6
3,4
Totale
174
100,0
Tabella 7. Autori di omicidio in famiglia in Italia in base all’età.
2004
2005
ETÀ
V.A.
%
V.A.
%
Finoal8 anni
19-24 anni
25-34 anni
35-44 anni
45-54 anni
55-64 anni
Oltre 64 anni
Non disponibile
Totale
1
16
36
37
32
23
21
13
179
0,6
8,9
20,1
20,7
17,9
12,8
11,7
7,3
100,0
1
6
40
37
34
22
22
4
166
0,6
3,6
24,1
22,3
20,5
13,3
13,3
2,4
100,0
Tabella 8. Vittime di omicidio in famiglia in base alla relazione con l’autore.
2005
2004
TIPODIRELAZIONE
V.A.
%
V.A.
%
Coniuge/convivente
72
38,5
45
25,9
Genitore
33
17 6
17
9,8
1
0,6
18
10,3
2
1,1
Genitore “acquisito”
Figlio/a
25
13 4
Figlio/a “acquisito”
Exconiuge/expartner
20
10,7
22
12,6
Rivale
12
6,4
9
5,2
26
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Partner/Amante
7
3,7
13
7,5
Altri parenti/affini
5
2,7
23
13,2
Fratello/Sorella
5
2,7
10
5,7
Pretendente/Spasimante
1
0,5
—
—
Suocero/a
1
0,5
3
1,7
Nipote (nonno)
1
0,5
1
0,6
Nonno/a
1
0,5
2
1,1
Altro
4
2,1
2
1,1
Presenza casuale
—
—
2
1,1
Non rilevato
—
—
4
2,3
Totale
187
100,0
174
100,0
Seguendo il medesimo ragionamento sopra proposto, a livello provinciale (vedi tab.
3) sono Roma e Milano a posizionarsi in cima alla graduatoria per numero di omicidi
familiari, con 14 vittime, pari all’8% del totale. Seguono Torino, con 10 vittime (pari
al 5,7%), Bologna ed Enna (entrambe con 6 vittime, pari al 3,4%).
In quarta posizione si collocano Firenze e Varese (5 vittime), seguite da Frosinone,
Lucca e Venezia (4 vittime). Infine è pari a 3 vittime il bilancio degli omicidi in
famiglia nelle seguenti province: Bari, Bergamo, Brescia, Caserta, Genova, Modena,
Napoli, Ravenna, Reggio Calabria e Treviso.
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Tabella 9. Ambito/movente prevalente degli omicidi in famiglia.
2004
AMBITO/MOVENTE
%
VA.
%
Passionali
Liti/Dissapori
Disturbipsichiciautore
Futili motivi
Raptus
Disagio vittima
Interesse/Denaro
Infanticidio
Affidamento figli
Riscatto da violenze
Difesa vittima principale
Presenza casuale
Nonrilevato
Totale
43
43
24
18
16
12
11
6
4
2
1
1
6
187
23,0
23,0
12,8
9,6
8,6
6,4
5,9
3,2
2,1
1,1
0,5
0,5
3,2
100,0
45
38
28
3
13
11
14
4
1
4
2
2
9
174
25,9
21,8
16,1
1,7
7,5
6,3
8,0
2,3
0,6
2,3
1,1
1,1
5,2
100,0
Anche la fascia di età e il sesso delle vittime e degli autori (vedi tabb. 4-7) costituisce
un’informazione importante nell’inquadramento e nella comprensione dell’omicidio
in famiglia, in quanto direttamente correlate alla tipologia di relazione ed ai ruoli
interpretati da ciascun individuo coinvolto negli episodi osservati.
In particolare, approfondendo la relazione genitori/figli, all’ interno della quale, nelle
due direzioni, si consuma in media oltre un omicidio familiare ogni cinque (il
21,8%), seppure in tale contesto si rilevi una significativa flessione del dato: era
infatti pari al 31% l’incidenza degli omicidi tra genitori e figli nel 2004 e al 27,4%
nel 2000; anche in termini quantitativi, considerando congiuntamente i due
sottogruppi (“genitori” e “figli”; vedi tab. 8), i dati disponibili evidenziano un
consistente calo nel numero dei casi, con 38 vittime nel 2005, a fronte delle 58 nel
2004, delle 52 nel 2003 e delle 62 nel 2000.
Per quanto riguarda la relazione genitoriale, se da una parte il soggetto più colpito
risulta la madre, con 11 casi contro i 6 che vedono coinvolti i padri, nella direzione
opposta gli omicidi ad opera dei genitori colpiscono in misura superiore i figli maschi
(13 contro 5 vittime tra le figlie femmine); un dato, questo, da attribuire
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esclusivamente al più alto numero di figli maschi uccisi in fase adolescenziale e
adulta.
Tabella 10.Ambito/movente prevalente degli omicidi in famiglia in base all’area
geografica (anno 2005). Valori assoluti e percentuali.
NORD
CENTRO
SUD EISOLE
TOTALE
AMBITO/MOVENTE
V.A.
%
VA.
%
v..
%
V.A.
%
Passionali
25
29,4
8
21,6
12
23,1
45
25,9
Interesse/Denaro
6
7,1
—
—
8
15,4
14
8,0
Liti/Dissapori
16
18,8
7
18,9
15
28,8
38
21,8
Affidamentofigli
1
1,2
—
—
—
—
1
0,6
Disturbi
14
16,5
9
24,3
5
9,6
28
16,1
6
7,1
2
5,4
3
5,8
11
6,3
1
1,2
—
—
3
5,8
4
2,3
Infanticidio
2
2,4
1
2,7
1
1,9
4
2,3
Presenzacasuale
1
1,2
1
2,7
—
2
1,1
Difesa vittima
—
—
1
2,7
1
1,9
2
1,1
Raptus
6
7,1
5
13,5
2
3,8
13
7,5
Futili motivi
2
2,4
—
—
1
1,9
3
1,7
Non rilevato
5
5,9
3
8,1
1
1,9
9
5,2
Totale
85
100,0
37
100,0
52
100,0
174
100,0
psichici autore
Disagio vittima
(malattia,
handicap)
Riscatto da
violenze
principale
Passando, infine, ad analizzare i dati relativi al movente degli omicidi in famiglia
(vedi tab. 9), 1’infanticidio nel 2005 è rappresentato da una percentuale del 2,3%.
29
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Per quanto riguarda invece l’ambito geografico (vedi tab. 10), nel 2005
l’infanticidio si è verificato in misura maggiore nel Centro Italia (2,7%).
A conclusione dell’analisi sul movente degli omicidi in famiglia, di particolare
interesse risulta il rapporto tra vittima e autore, in quanto rende possibile una più
attenta interpretazione del significato dei fattori di carattere motivazionale all’interno
di una più dettagliata e specifica organizzazione delle informazioni disponibili.
Nell’omicidio che investe la relazione genitore/figlio risulta elevata l’incidenza delle
situazioni di malattia o disturbo mentale dell’autore sia nel caso dei “genitoricidi” (11
vittime, pari al 64,7%), sia in quello dei “figlicidi” (5 vittime, pari al 27,8%).
Tra questi ultimi ugualmente frequente è il movente della malattia fisica che colpisce
il figlio stesso (5 vittime, pari al 27,8%) (EURES - ANSA 2006).
30
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CAPITOLO 2
Il figlicidio nella mitologia
L’etimologia di mito è riconducibile al termine greco mythos che Omero aveva
definito come “parola, discorso, progetto” ovverossia ciò che riporta alla metodologia
di costruzione del significato.
Considerando che esistono diverse interpretazioni del mito, riferite a varie correnti
teoriche antropologiche e filosofiche, va precisato che la nostra ricerca si focalizza
esclusivamente sulla mitologia classica (miti panellenici e miti locali) e le tematiche
da essa affrontate: la Cosmogonia, la Cosmologia, il soprannaturale, il religioso
(politeismo), ossia la molteplicità degli elementi che nella concettualizzazione greca
erano ritenuti determinanti nell’esistenza dell’uomo (legge organica della natura delle
cose).
Nel Fedro di Socrate (469-399 a.C.) i sofisti (i maestri della Sapienza) elaborano
un’interpretazione di tipo razionalista secondo la quale il mito esprime la
ricostruzione in maniera fantastica e prosaica di fatti realmente accaduti.
Tale interpretazione viene in seguito ripresa dalla dottrina conosciuta come
evemerismo (dal nome dello scrittore greco Evemero) secondo la quale gli dèi
rappresenterebbero
eroi
e
antichi
regnanti
che
sono
stati
idealizzati.
Intorno al V secolo a.C., si diffonde la tesi secondo la quale nella mitologia si celano
insegnamenti morali su base vendica ma in forma puramente allegorica, come
testimoniano gli scritti di Acusilao di Argo e di Ferecide.
In questo modo, la relazione tra gli accadimenti umani e il divino viene analizzata
mediante ricostruzioni e interpretazioni che hanno come obiettivo l’approfondimento
dell’ ”ordine del mondo” ancor prima dell’ordine corrente.
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Attese tali considerazioni, non può stupire più di tanto che perfino nell’antichità
classica
siano
state
scritte
opere
in
cui
sono
presenti
gesta
figlicide.
Nelle Metamorfosi, come ricorda Charles Segal (2005), «Ovidio circonda di un orrore
particolare i crimini commessi dai genitori ai danni dei figli o viceversa (come nel
caso di Scilla e Niso nel libro VIII e di Mirra e Cinira nel X).
Quando i genitori uccidono i propri figli, lo fanno a causa di una follia mandata dagli
dèi (Agave nel libro III, Atamante ed Ino nel IV), o di una costrizione da parte degli
dèi (Agamennone ed Ifigenia).
Tra i mitografi più conosciuti che trattarono il figlicidio ricordiamo Euripide
tragediografo greco nato il 480 a.C.
Nelle sue opere traspare il notevole interesse per il movimento filosofico dei sofisti,
un ruolo di cittadino partecipe, il tentativo di analisi dei conflitti e dei bisogni
dell’uomo, l’interesse all’indagine psicologica dei suoi personaggi che appaiono
spogli dell’invincibilità dell’eroe: essi sono umani, profondamente emotivi e
consumati da scelte difficili, rimorsi e colpe.
L’irrazionalità e l’aggressività dei suoi personaggi femminili esprime la fine capacità
di questo tragediografo greco nel saper cogliere e anticipare i mutamenti di ruolo
della donna all’interno della pòlis (città).
Nelle varie opere mitologiche greche che trattano del figlicidio traspare il tentativo di
spiegare e dare un senso a comportamenti umani ritenuti inammissibili all’interno del
gruppo sociale, espressioni di condotte contro-natura, potenzialmente distruttive per
la
sopravvivenza
dell’uomo,
quale
l’uccisione
del
proprio
discendente.
Riconosciuta dagli studiosi la notevole probabilità che le tragedie descritte fossero la
trasposizione in chiave poetica di verità storiche romanzate, non va sottovalutato il
profondo rapporto esistente con la condizione femminile in Grecia.
Buona parte delle tragedie trovano una giustificazione a queste gesta nei rituali
dionisiaci (o del dio Bacco), limitati esclusivamente alle donne: essi erano
l’espressione dei culti orgiastici presenziati dalle Baccanti (le Baccanti divine
facevano parte del seguito di Dioniso ed erano da considerarsi espressione terrena
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delle Menadi).
Il culto di Dioniso (culto elettivo) era radicato principalmente in Attica e Beozia e la
celebrazione dei Baccanali prevedeva il seguente rito: le Baccanti, che
rappresentavano
la
personificazione
dello
spirito
orgiastico
della
natura,
raggiungevano i boschi dove, cingendosi il capo di edera e agitando il tirso (un’asta
addobbata con pampini ed edera), eccitate fino all’eretismo psichico dal vino e dal
succo dell’edera, ballavano suonando flauti e tamburelli in un rituale circo scritto e
ben definito che culminava con l’uccisione per smembramento (sparagmòs) di un
animale: questi rappresentava l’incarnazione del dio stesso, per cui il cibarsene
rappresentava la comunione con esso.
Quando col tempo i Baccanali persero l’originaria connotazione religiosa e divennero
occasione per esprimere comportamenti lascivi e intrighi politici, finirono con
l’essere aboliti dal Senato romano con il senatus consultum de Bacchanalibus nel 186
a. C.
La condizione della donna nella Grecia era subordinata all’uomo: perfino nella
procreazione il ruolo femminile appariva marginale, in quanto considerata una specie
di contenitore del seme e l’interesse prevalente femminile trovava espressione nella
cura della casa.
In generale alle donne era richiesto un comportamento riguardoso e silenzioso, privo
di esibizionismo.
La frequentazione maschile al di fuori delle mura domestiche era destinata a pratiche
di meretricio oppure alla partecipazione come musiciste a simposi che spesso
avevano connotazioni puramente orgiastiche (confinanti con la violenza sessuale).
In un clima simile, la diffusione dei culti orgiastici dionisiaci può essere interpretata
come legittimazione del gruppo nei confronti della manifestazione di modalità
catartiche circoscritte a contesti geografici delimitati (i boschi) che consentissero
l’espressione di impulsi femminili e la liberazione dalle frustrazioni che in nessun
altro modo sarebbero state accettate nella vita di tutti i giorni.
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2.1 Il figlicidio compiuto dalla madre folle
Numerose opere greche hanno descritto i figlicidi causati dalla «follia che
sconvolgeva la ragione delle donne» che presenziavano i rituali di Dioniso: Baccanti
di Iofonte, Baccanti di Senocle, Baccanti di Euripide, Metamorfosi di Ovidio (III
libro), le tetralogie di Eschilo e altre ancora andate perdute.
Mentre in Ovidio l’attenzione è prevalentemente rivolta al corpo maschile dilaniato
dalla propria genitrice e dell’Io che soccombe, nella tragedia greca di Euripide
Baccanti (che fu rappresentata dopo il 406 a.C., anno della morte dell’autore) si dà
maggior alle dinamiche psicologiche dell’infanticidio stesso.
In Euripide il protagonista assoluto è lo stesso dio Dioniso (figlio di Zeus) che
riferisce la vicenda (Prologo, vv. 1-63) motivando la vendetta da lui compiuta ai
danni delle sorelle della propria madre Semele (Agave, Autonoe, Ino), colpevoli di
aver osato negare le sue origini divine.
Dioniso dichiara di aver offuscato la loro ragione con il «morbo della Follia»,
spingendole a compiere il gesto inconsulto sullo sventurato Penteo (figlio di Agave).
Agave
Figlia di Cadmo (re di Tebe) e di Armonia, Agave aveva tre sorelle: Autonoe, Ino e
Semele (quest’ultima era la madre dio Dioniso).
Agave sposò Echione — uno degli Sparti — la cui nascita aveva del miracoloso,
poiché era stato generato dai denti di drago che Cadmo aveva seminato ai tempi della
fondazione della città di Tebe.
Dalla unione di Agave col marito nacque un figlio maschio di nome Penteo.
Subentrato come regnante al padre Cadmo, Penteo si dichiarava contrario ai culti di
Dioniso, ostacolando di fatto che fossero introdotti a Tebe: così quando Agave mancò
di rispetto alla memoria della madre di Dioniso (raccontando che Semele aveva
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amato un comune mortale e non Zeus, padre di Dioniso) il dio decise di vendicarsi al
suo ritorno dalla conquista dell’Asia.
Penteo, considerando il cugino semplicemente come un vile impostore, ne ordinò la
cattura, ignorando le esortazioni di Cadmo e Tiresia alla prudenza.
Ma Dioniso riuscì a liberarsi, persuase Penteo ad assistere al rito — dove avrebbe
potuto constatare in prima persona la partecipazione consenziente delle donne — e
comandò alle donne di Tebe di recarsi nel bosco, in cima al Citerone, per presenziare
al rito.
Ma Agave e le sorelle, esaltate e fuori di sé, dopo che ebbero scorto il nascondiglio di
Penteo in cima ad un pino, catturarono lo sventurato.
La prima ad accanirsi sul corpo di Penteo fu la propria madre Agave.
Nel quarto stasimo il coro recita:
... La madre lo vedrà per prima appostato su una rupe scoscesa
o sulla cima di un albero
e griderà alle Menadi:
«Chi è costui che è venuto sul monte
A spiare la corsa sul monte delle figlie di Cadmo?
Chi è venuto quassù, o Baccanti? Chi lo ha partorito?
Non è nato da sangue
di donna; una leonessa
lo ha generato o una gorgone libica».
Descrivendo le emozioni di Agave, nel momento di compiere il figlicidio, Euripide
scriverà:
Folle è il Suo cuore,
e il suo pensiero insano.
Con la violenza vuoi dominare l’invincibile...
e nel quinto episodio il secondo messaggero riferirà i seguenti fatti:
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Allora Agave disse: «Forza, mettetevi tutte in cerchio e afferrate il tronco, Menadi:
catturiamo la belva arrampicata lassù, perché non sveli le danze segrete del dio...».
Penteo capiva, oramai, di essere vicino alla morte.
Per Prima avanzò la madre, sacerdotessa del delitto, e si avventò sudi lui.
Egli si strappò la mitra dai capelli, perché l’infelice Agave lo riconoscesse e non
l’uccidesse e le diceva accarezzandole
la guancia: «Madre, sono io, tuo figlio
Penteo, il figlio che hai partorito nella casa di Echione.
Abbi pietà di me, madre: non uccidere
tuo figlio per i miei errori».
Ma quella aveva la schiuma alla bocca e roteava le pupille
stravolte: non pensava i pensieri clic avrebbe dovuto pensare,
era posseduta da Bacco. Egli non riuscì a convincerla...
In principio, le sorelle furono certe di aver ucciso una bestia feroce, tanto che Agave
di ritorno alla dimora esibirà il trofeo (la testa) con fierezza. ma ravveduta dalle
parole di Cadmo, Agave comprenderà di aver ucciso il proprio figlio.
Nell’esodo si legge:
CADMO: Di chi è la testa che tieni tra le braccia?
AGAVE: Di un leone: così dicevano le cacciatrici.
CAOMO: Osservalo attentamente: non è grande fatica il guardare.
AGAVE: Ah, cosa vedo? Cos’è questo che porto nelle mani?
CADMO: Fissa lo sguardo con più attenzione e lo saprai...
(Riconosciuto il figlio Penteo, Agave domanderà al proprio padre:)
AGAVE: Chi lo ha ucciso? Com’è arrivato tra le mie mani?
CADMO: Triste verità, arrivi ormai fuori tempo!...
AGAVE: Ora portatemi dalle mie sorelle, che avrò compagne nel mio triste esilio.
Io voglio andare dove l’immondo Citerone non mi veda né io più veda l’immondo
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Citerone, e dove neanche più esista il ricordo del tirso: ad altre Baccanti lascio tutto
questo...
Leucotea, la Dea Bianca
Figlia di Cadmo e di Armonia, seconda moglie di Atamante e madre di Melicerte e
Learco, Ino persuase il marito ad accogliere in casa Dioniso, divenuto orfano di
madre.
Era (la più potente dea dell’Olimpo), furibonda perché Atamante ed lno avevano
osato ospitare sotto il proprio tetto uno dei figli illegittimi di Zeus, decise di
vendicare il torto subito “inducendo pazzia” nelle menti di Ino e del marito: mentre
Atamante provocherà la morte accidentale del figlio Learco scambiato per un cervo,
Ino ucciderà intenzionalmente il piccolo Melicerte gettandolo nell’acqua bollente.
Alla morte del figlioletto, la madre disgustata per il delitto compiuto si gettò nelle
profondità marine, tuffandosi dalla cima delle scogliere nei pressi di Megara.
Gli abitanti del luogo raccontarono che mentre il corpo di Ino era sepolto dalle figlie
di Clesone, il cadavere di Melicerte veniva trasportato da un delfino verso l’istmo di
Corinto.
Le divinità, mosse a compassione per la tragedia, la restituiranno ad una nuova vita:
Ino diventerà una Nereide (Leucotea), la Dea Bianca dei mari, in grado di controllare
le maree e benevola protettrice dei marinai, mentre il piccolo Melicerte diventerà il
piccolo dio Palemone (conosciuto a Roma come il dio Portunno).
La vicenda di Ino viene narrata da Pindaro in Hypothesis ad Isthmia, mentre la
tragedia omonima scritta da Euripide è andata perduta.
Aura
Nel quarantottesimo canto de Le Dionisiache si narrano le vicende di questa
fanciulla, figlia di Peribea (una Frigia) e del Titano Lelanto, di cui si innamorò
Dioniso.
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Aura possedeva il dono di essere veloce come il vento, attributo che le consentiva di
sfuggire a Dioniso che incessantemente la inseguiva con lo scopo di poterla amare.
Un giorno, per intercessione della dea Afrodite, Aura non fuggì più, sottomettendosi
a
Dioniso,
completamente
soggiogata
dalla
follia
indottale
dalla
dea.
Diventò madre di due gemelli (tra cui Inaco), ma sconvolta dalla follia li uccise
sezionandoli a pezzi e gettandoli nel fiume Sangario; dopo l’accaduto, Zeus la
tramutò in sorgente.
Leucippe
Figlia di Minia, re di Orcomeno, aveva due sorelle,Arsippe e Alcatoe. Esse
costituivano le figure mitologiche dedite al culto del dio Dioniso, le Miniadi.
Un giorno con la complicità delle sorelle (in preda al folle rituale dionisiaco),
Leucippe uccise il proprio figlio Ippaso, scambiato per cerbiatto, a cui seguì la
punizione che le mutò per sempre in pipistrelli. (Metamrfosi di Antoninus Liberalis).
2.2 Il figlicidio compiuto dalla madre come vendetta nei confronti dei
familiari
Medea
Di questa tragedia esistono principalmente due versioni, quella di Euripide
(rappresentata nel 431 a.C.) e quella di Seneca, ma in tempi più recenti le vicende di
Medea sono state riproposte con alcune varianti anche da Corrado Alvaro e Franz
Grillparzer.
Medea (sacerdotessa di Artemide-Ecate), figlia di Eete, re della Colchi de (regione
del Caucaso), e dell’oceanina Idia, si innamorò di uno straniero giunto nel suo regno:
Giasone.
38
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La discendenza di Medea che riconduceva al Sole (Elio) ed alla maga Circe la
caratterizzava come un essere magico capace di incantesimi e di raggiri, che
impossessatasi del Vello d’oro fuggì con Giasone e gli Argonauti, al prezzo del
tradimento verso il proprio padre e del rapimento di suo fratello Apsirto, che verrà
ucciso
e
ridotto
a
pezzi
allo
scopo
di
far
desistere
gli
inseguitori.
Nell’opera di Seneca — che si presenta densa di concezioni moralistiche — Medea è,
sin dal principio, un personaggio diabolico ed empio che non può essere giustificato
in alcun modo (uccise poi per vendetta i suoi figlioli per essere stata abbandonata da
Giasone), mentre in Euripide l’infanticidio di cui si macchia è iscritto in una
dimensione mistico-religiosa, in seguito al quale Medea fonda il culto dei figli
assassinati.
Dalla Medea di Seneca:
MEDEA: Se una sola uccisione potesse saziare questa mano, non ne avrei perpetrata
nessuna. Anche uccidendone due, è un numero troppo piccolo per il mio odio. Se
qualche creatura si nasconde ancora nel mio grembo mi frugherò le viscere con la
spada e la estrarrò col ferro.
GIASONE: Porta a termine ciò che hai cominciato, non ti rivolgo altre preghiere:
risparmia almeno indugi al mio supplizio.
MEDEA: Goditi lentamente il tuo delitto, non aver fretta, odio: il giorno è tutto mio;
così approfitto del tempo accordato.
GIASONE: Crudele, uccidi me.
MEDEA: Sarebbe aver pietà. (Uccide l’altro figlio.) Bene, è finita. Non avevo altre
vittime da sacrificarti, odio. Alza gli occhi gonfi, ingrato Giasone, guarda qui:
riconosci la tua donna? Questo è il mio modo di fuggire. Si è aperta una via al cielo:
una coppia di draghi piega al giogo il collo squamoso. Tieniti i tuoi figli, padre.
(Getta i cadaveri.) Io andrò per l’aria sopra un cocchio alato.
GIASONE: Va’ per gli alti spazi del cielo ad attestare che non ci sono dèi lassù dove
tu passi.
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Dalla Medea di Euripide:
GIASONE: Che madre crudele vi è toccata, figli!
MEDEA: Per la follia di vostro padre siete morti, figli!
GIASONE: Non è mia la mano che li ha uccisi.
MEDEA: Li ha uccisi l’oltraggio delle tue nuove nozze...
GIASONE: Lascia che seppellisca e pianga questi morti.
MEDEA: No. Io li voglio seppellire, con queste mani; li porterò nel tempio di Era
Acraia, perché nessuno dei miei nemici possa recare loro oltraggio, profanare la
loro tomba. E qui, nella terra di Sisifo, per i tempi a venire istituirò feste solenni e
riti, ad espiazione di questo empio assassinio. Io invece me ne andrò nel paese di
Eretteo per vivere con Egeo, figlio di Pandione. Tu morirai di mala morte, com’è
giusto, colpito al capo da un rottame della nave Argo...
GIASONE: Perché li hai uccisi...?
MEDEA: Per farti soffrire...
Procne
I tragici narravano di una leggenda antica che ebbe per protagonista Procne, fliglia di
Pandione re di Atene, che andò sposa al tracio Tereo come merito per aver vinto la
guerra contro il tebano Labdaco, e dalla cui unione nacque il figlio Iti.
Ma ben presto Tereo si invaghì della sorella di Procne, Filomela, su cui fece violenza
e
a
cui
in
seguito,
per
timore
delle
conseguenze,
tagliò
la
lingua.
Filomela, non potendo più parlare con la sorella, decise di rivelare il triste segreto
ricamandolo sulla trama di un tessuto.
Procne meditò la vendetta, uccidendo il figlio Iti, che si premurò di cucinare come
pietanza per Tereo. Questi ignaro, mangiò del proprio figlio. Procne fuggì con
Filomela a Dauli (nella Focide) ma fu prontamente raggiunta dal marito che, nel
frattempo, aveva scoperto tutto.
Impaurite e senza via d’uscita, le due donne invocarono gli dèi affinché concedessero
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loro di mettersi in salvo. La loro preghiera fu esaudita e immediatamente furono
trasformate in uccelli: Procne divenne un usignolo mentre la sorella Filomela fu
trasformata in una splendida rondine e Tereo diventò un’upupa.
Sofocle scrisse una tragedia sulla vita di Tereo, che però è andata perduta.
Altea
Figlia di Testio, sposa Eneo (sovrano di Calidone) che la renderà madre di due figli,
Meleagro e Deianira. Alla nascita del figlio maschio Meleagro, le Fate del Destino
(le Moire) le predissero che il figlio sarebbe morto nel momento in cui il ceppo —
che
bruciava
nel
suo
focolare
in
quell’istante
—
fosse
stato
arso.
Assalita dall’orrore per un’eventualità così tragica, Altea corse a togliere il tizzone
dal fuoco e lo nascose, ma quando diversi anni dopo per una serie di orrende
circostanze Meleagro causò la morte dei fratelli e degli zii di sua madre Altea, ella in
un eccesso di profonda rabbia si ricordò della profezia: fece ardere il ceppo che aveva
conservato e il figlio immediatamente moti.
Riconquistata la ragione, assillata dal rimorso per l’azione compiuta, si impiccò.
2.3 La madre abbandonica e il figlio non desiderato
Creusa
Creusa (figlia di Eretteo e di Prassitea) era la madre protagonista della tragedia di
Euripide Ione; l’azione, ambientata nel tempio di Delfi, è incentrata sul triangolo
Apollo-Ione-Creusa.
La leggenda narra che allo scoppiare della guerra contro Eumolpo, Creusa decise di
fuggire per sottrarsi alla morte.
Ma il destino perverso non le concedette tregua: fu violentata in una grotta
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dell’Acropoli di Atene dal dio Apollo con cui concepì Ione, che fu partorito nella
grotta stessa teatro del misfatto. Da subito Creusa si rifiutò di allevarlo, per poi
abbandonano al proprio destino sulle rocce.
Nel prologo, Ermes racconterà la vicenda:
C’è in Grecia una città non oscura, che prende il nome da Atena, la dea dalla lancia
d’oro. Lì Apollo fece violenza a Creusa figlia di Eretteo sotto l’Acropoli, presso
quelle rocce che volgono a settentrione e che gli abitanti dell’Attica chiamano Rocce
Grandi. Senza dire nulla al padre — questo era il volere di Apollo — Creusa portò il
peso del ventre; quando giunse il momento, partorì in casa un bambino e lo portò
nella stessa grotta in cui si era congiunta al dio. Lo abbandonò lì, a morire, dentro
una cesta rotonda, imitando un uso in famiglia, quello di Erittonio nato dalla terra.
Portato a Delfi da Ermes, Ione venne affidato alla sacerdotessa del Tempio, mentre
Creusa si sposò con Suto (eroe nella guerra contro i discendenti di Calcodonte). Ma
poiché non riuscivano ad avere figli, la coppia decise di rivolgersi all’oracolo
che, senza rivelare l’identità di Ione, li convinse ad adottare il bambino.
Nel terzo episodio Creusa confessa al Vecchio di aver partorito un figlio che ha poi
abbandonato alla nascita:
CREUSA: Ho avuto un figlio.., ascolta il resto, vecchio.
VECCHIO: Dove? E chi ti ha assistito? Hai fatto da sola?
CREUSA: Sola nella grotta che vide le mie nozze.
VECCHIO: E il figlio, dov’è? Se vivesse, tu non saresti senza discendenza.
CREUSA: E’ morto, vecchio, in pasto agli animali...
VECCHIO: E chi lo ha abbandonato? Certo, non tu.
CREUSA: Io, sì, di notte, dopo averlo fasciato nel mio peplo.
VECCHIO: Nessuno ti ha vista?
CREUSA: Solo la sventura e il silenzio.
VECCHIO: E come hai potuto lasciare il tuo bambino in una grotta?
CREUSA: Balbettavo parole di dolore...
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CREUSA: Cercava me, e io l’ho abbandonato: è stata un’ingiustizia...
Suto adempie a quanto stabilito dall’oracolo e adotta Ione, che si stabilisce nella casa
di Creusa e Suto, ma ancora una volta Creusa rifiuta il bambino e trama di
avvelenarlo, come raccontato dal Servo nel quarto episodio:
Ma nel vino aveva mescolato, così dissero, un possente veleno che gli aveva dato la
padrona per sbarazzarsi di lui: questo però nessuno lo sapeva. E già il ragazzo
teneva tra le mani la coppa per libare insieme agli altri, quando uno dei servi si
lasciò sfuggire una parola di malaugurio; e lui, che era cresciuto nel tempio tra
perfetti indovini, la considerò un presagio sinistro e volle un’altra coppa... Tutte le
colombe bevvero il vino senza danno, ma una, che si era posata vicino al figlio
ritrovato, come ebbe toccato la bevanda subito cominciò a scrollare le ali e a
muoversi forsennatamente, e si mise a stridere gemendo in modo terribile... Allora il
ragazzo, il Figlio dell’oracolo scavalca la tavola d’un balzo e grida: «Chi ha tentato
di uccidermi? Confessa, vecchio: l’iniziativa è stata tua, è dalle tue mani che mi è
arrivata la coppa!».
Scoperta Creusa viene condannata, come lei stessa racconta nell’esodo:
«Schiave, mi inseguono per lapidarmi! Così ha sentenziato il tribunale di Delfi, mi
consegneranno alla morte», fino al momento intenso e profondo in cui l’uno di fronte
all’altra, non ancora consapevoli della verità, Ione sfida la propria matrigna e Creusa
con ripicca ribatte: «Questi ordini dalli a tua madre, se sai dov’è».
Deciso ad uccidere Creusa. soltanto l’intervento misericordioso ed amorevole della
Profetessa, che consegnerà a Ione le fasce e la cesta in cui fu ritrovato, consentirà a
Creusa
di
riconoscere
il
figlio
partorito
ed
abbandonato
nella
grotta:
CREUSA: ... vedo il canestro in cui ti esposi allora... esposi te, figlio mio, nella
grotta di Cecrope, presso le Rocce Grandi. Ecco lascio l’altare, a costo di morire ...
Sei mio figlio, la cosa più bella per una madre.
Finalmente la diade è ricomposta, questa volta senza lacrime.
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2.4 Il figlicidio compiuto dalla madre per errore
Edona
Edona, regina di Tebe, aveva sposato Zeto, fratello di Anfione e figlio di Zeus e
Antiope, dalla cui unione era nato Itilo.
La frustrazione per essere stata madre soltanto una volta era accresciuta dal paragone
con Niobe (la cognata) che andava fiera della propria fecondità che riteneva,
personalmente di gran lunga superiore perfino alle dee. Edona decise, allora, di
punire Niobe uccidendole il figlio primogenito Amaleo mentre riposava nel proprio
letto; ma per una tragica fatalità infierì sul proprio figlio Itilo, causandone la morte.
Quando comprese di aver sbagliato bambino e di aver ucciso l’unico figlio che aveva
generato, sconvolta e affranta chiese perdono agli dèi che mossi a compassione la
tramutarono in un usignolo (da cui il nome greci Aedon, che significa usignolo).
Le vicende di Edona sono narrate da Esiodo (Opere).
Temisto
Figlia d’lpseo e terza moglie di Atamante. Temisto era madre di Orcomeno e Sfingio.
Quando Atamante scoprì che Ino (la sua seconda moglie) non era morta, decise di
portarla nel suo palazzo come serva.
Nel frattempo, Temisto aveva scoperto che la rivale era viva, ma non conosceva il
luogo in cui viveva. Decise allora di uccidere i figli di Ino che vivevano in casa con
lei: comandò alla nuova serva (che a sua insaputa era la sua rivale) di far indossare
vesti scure ai figli di Ino e bianche ai suoi, così che potesse distinguerli nella
penombra della stanza.
Ino, naturalmente, non obbedì ma scambiò le vesti e quando giunse la notte Temisto
si scagliò contro i propri figli uccidendoli. Scoperto l’errore si tolse la vita.
(Dalla tragedia di Euripide Ino, andata perduta).
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2.5 Il figlicidio compiuto dal padre
Agamennone
Eroe dell’Iliade, nella variante più famosa del mito era marito di Clitennestra, da cui
aveva avuto alcune figlie, tra cui Ifigenia.
Agamennone, vittima di una sorte avversa che bloccava la sua flotta achea in Aulide,
dietro consiglio dell’indovino Calcante decise di sacrificare la propria figlia Ifigenia
ad Artemide, allo scopo di placare l’ira della dea e proseguire il viaggio.
Nonostante i dubbi, infine Agamennone si decise ad ordinare il sacrificio di Ifigenia
in risposta alle continue insistenze di Ulisse e Menelao; condotta la giovane in cima
all’altare mentre Calcante armava la propria mano, ecco che prontamente intervenne
la dea Artemide che, mossa a compassione, decise di scambiare la fanciulla con un
cerbiatto.
Artemide, dopo averla salvata, la condusse nella Tauride (l’odierna penisola di
Crimea) per consacrarla sua sacerdotessa.
Da Ifigenia in Aulide e Ifigenia in Tauride di Euripide)
Eumelo
Figlio di Admeto ed Alcesti, fu uno degli eroi della guerra contro Troia. Egli
onorava il dio Apollo a cui era solito offrire sacrifici in cui era assistito dal figlio
Botre.
Un giorno, Botre non eseguì i preliminari del rito secondo la prescrizione e il padre
Eumelo si irritò e si indignò profondamente, tanto da afferrare un carbone acceso e
scagliarlo contro il proprio figlio che, colpito violentemente al capo, morirà
all’istante.
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Apollo che provò pietà per la vicenda, tramutò l’innocente Botre in un uccello,
l’Eropo, il cui significato è “uccello dalla sguardo tenebroso”.
(Metamorfòsi di Antoninus Liberailis).
Copreo
Figlio di Pelope, era padre di Perifete (che secondo quanto narrava Omero superava il
padre per qualità e capacità) e di Ifito, che uccise.
Dopo il delitto fu costretto a lasciare la patria.
Copreo è spesso descritto con tratti negativi: arrogante, spregevole, ruffiano, e il
delitto è in definitiva da ricondurre a tali sue caratteristiche.
(Biblioteca di Apollodoro).
Idomeneo
Figlio di Deucalione e leggendario re di Creta, fu tra i pretendenti di Elena ed eroe
della guerra di Troia.
Durante il viaggio da Troia a Creta, fu sopraffatto dalla furia della tempesta: invocò
allora l’aiuto di Poseidone a cui promise in sacrificio la vita della prima creatura su
cui si fossero posati i suoi occhi al rientro in patria. La sorte volle che la persona
fosse il proprio figlio Orsiloco.
Successivamente al figlicidio, una terribile malattia incominciò a seminare vittime in
tutta Creta.
Certo che gli dèi avessero provocato questa malattia, Idorneneo decise di trasferirsi in
un altro luogo, nel Salento, dove fece costruire un tempio in onore della dea Atena.
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Crono
In quanto figlio di Urano (Cielo) e di Gea (Terra), Crono apparteneva alla
generazione divina precedente agli Olimpi.
Crono — il più giovane dei Titani — rappresenta il genitore figlicida per
antonomasia; dopo aver aiutato la propria madre Gea a detronizzare ed evirare Urano,
generò e divorò i propri figli Poseidone, Estia, Demetra, Era ed Ade, in quanto una
profezia aveva predetto che i suoi figli, un giorno, lo avrebbe spodestato.
Quando nacque Zeus, partorito segretamente a Ditteo, la moglie Rea decise con uno
stratagemma di salvare la vita del neonato, offrendo a Crono una pietra avvolta nelle
fasciature che Crono divorò senza pensare all’inganno. (Dalla Teogonia di Esiodo).
Eracle ( gloria di Era, chiamato dai Latini Ercole)
Era figlio di Alcmena e Zeus e divenne marito di Megara (figlia del re Creonte, che la
diede in sposa ad Ercole come premio per la vittoria contro i Mini d’Orcomeno).
I mitografi forniscono informazioni discordanti sul numero dei figli di rade: secondo
Apollodoro erano tre (Creontiade, Deicoonte, Terimaco), mentre Pindaro sosteneva
fossero addirittura otto.
Le leggende sul figlicidio di Ercole sono diverse sia come attribuzione di causa che
per modalità esecutive: per alcuni autori, egli gettò i propri figli nel fuoco (tradizione
antica), per altri li trafisse con delle frecce (Euripide) insieme ai figli di Ificle (il
fratello
gemello
umano
di
Ercole,
più
giovane
di
una
sola
notte).
Nella tragedia di Euripide si narra che mentre Ercole si trovava negli Inferi un
usurpatore di nome Lico uccise il re Creonte e si impadronì della città di Tebe.
Immediatamente, Ercole vendicò il suocero e, per ringraziare gli dèi della vittoria
ottenuta sui nemici, si premurò di offrire loro un sacrificio sull’altare di Giove.
Ma Era — gelosa della potenza di Ercole e della sua natura divina che Zeus aveva
preannunciato come dominante sulle divinità tutte — fece «scendere su di lui la
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Pazzia» che lo trasse in inganno, inducendolo a scambiare i propri figli per quelli di
Euristeo (discendente di Perseo).
Il furore di Ercole fu dirompente, al punto da indurlo a scambiare anche il proprio
padre con quello di Euristeo: ma ecco che mentre si accingeva a colpirlo, Atena gli
infuse
un
sonno
profondo
che
gli
impedì
di
compiere
il
delitto.
Come punizione per aver ucciso i propri figli, Ercole fu condannato all’esilio presso
lo stesso re Euristeo di Tirinto dalla sacerdotessa di Apollo (Pizia).
Tantalo
Pindaro nella prima ode olimpica narra le vicissitudini di Tantalo, re della Frigia e
figlio di Zeus e di Pluto.
Fu padre di Niobe e di Pelope (da cui discendono Tieste e Atreo — i Tantalidi — e
Menelao ed Agamennone), ma probabilmente anche di Dascilo e Brotea.
Gli si attribuiscono diverse mogli, come la Pleiade Dione, Eurianassa (figlia del dio
Pattolo o Xanto), ma anche Sterope e Clizia.
Tantalo uccise il proprio figlio Pelope, con cui cucinò una pietanza da offrire agli dèi
che inorriditi la rifiutarono, ad eccezione di Demetra che affamata assaggiò una
spalla.
Addolorati per la sorte di Pelope, gli dèi ne ricomposero il corpo per ridargli nuova
vita e sostituirono la spalla mancante con una d’avorio (che successivamente fu
esposta come una reliquia).
Per il delitto di cui si macchiò, Tantalo fu condannato alla sete ed alla fame eterne.
Le interpretazioni mitografiche del figlicidio di Tantalo sono discordi: per alcuni
autori esso è espressione di un profondo sentimento religioso osservante, mentre per
altri tale delitto andrebbe considerato solo come un gesto di sfida che mirava a
verificare l’onniscienza divina.
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Licurgo
Le vicende di questo re di Tracia sono descritte nell’Iliade e nelle opere di Eschilo.
Egli — “colpito dalla Follia” indottagli dal dio Dioniso — uccise a colpi d’accetta il
proprio figlio Driante scambiandolo per un tronco di vite. Anche in questo caso,
Dioniso aveva agito allo scopo di vendicare un torto subito, che non è certo sapere se
dovuto alla cacciata dalla Tracia (Iliade) oppure se riferito al diniego di Licurgo di
autorizzare Dioniso ad attraversare il suo territorio per marciare verso gli Indiani,
culminato
nella
cattura
del
seguito
di
Satiri
Baccanti
(Eschilo).
Dopo la follia che lo colse, tornò in sé, ma la terra su cui aveva compiuto il delitto
divenne sterile; così gli Edoni consultarono l’oracolo, che suggerì loro di uccidere
Licurgo per scongiurare il perpetuarsi della carestia.
Licurgo fu catturato e condotto in cima al monte Pangeo, dove fu squartato dopo
essere stato legato ai quattro cavalli.
Pimandro
Figlio di Stratonice e di Chìresiho e fondatore della città conosciuta come Pimandria,
aveva sposato la figlia del dio-fiume Asopo, Tanagra. Quando rifiutò ad Achille il
proprio sostegno nella guerra contro Troia, questi gli uccise un nipote e g1i rapì la
madre.
Pimandro, allora, comandò che la città fosse recinta da alte mura che la proteggessero
dagli assalti stranieri.
Fu così che durante tale edificazione, in seguito ad un diverbio con il muratore
Policrito, Pimandro adirato scagliò una pietra che colpì involontariamente il proprio
figli, Leucippo, causandone la morte. Pimandro — grazie all’intercessione di Achille
— fu purificato da Elefenore (a Calcide).
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CAPITOLO 3
LA DONNA DELINQUENTE
(Cesare Lombroso - Guglielmo Ferrero)
3.1 Introduzione
Ho voluto inserire un capitolo del libro di Cesare Lombroso, padre della
criminologia, per far vedere cosa, all’epoca, lo studioso pensasse della donna
deviante, come commentava per tentare di trovare corrispondenza e relazioni tra la
pazzia e il crimine nei volti: “Donna omicida, labbra tumide, fisionomia virile.
Donna parricida, archi sopraccigliari e seni frontali assai sviluppati, rughe strane,
fronte sfuggente, zigomi e mascelle molto sviluppate, labbra sottili…”. Lombroso
diceva che una donna che uccide il figlio non è più una madre, ma uno scherzo
maligno della natura e maligno doveva essere il suo aspetto. Ecco riportato
integralmente come descriveva la donna prostituta.
3.2 La prostituta e la donna normale
Tribaditismo. Resta unico prevalente il tribadismo, che è veramente uno dei
fenomeni speciali alle donne prostitute. Parlando di queste, Parent-Duchatelet osserva
che alcuni pretendono che tutte le prostitute o quasi, vi si abbandonino; altri che il
loro numero sia ristrettissimo; secondo lui, questa contraddizione dipende dalle niune
o poche confessioni di questo vizio, rispondendo a chi le richiede con vivacità ed
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impazienza: o lo sono prostituta per uomini e non per femmine. Altre che
interrogammo, vi aggiungono: “Lo facciamo, ma è brutto”. Moll, da uno studio che
pare sicuro, ricavò che le tribadi, a Berlino, salgono al 25 % di tutte le prostitute.
In generale, le prostitute conservano a questo riguardo un certo riservo nelle loro
risse, ove si ingiuriano con i termini i più grossolani, ma non toccano di questo vizio
anche quando se ne sanno affette.
E’ verso l’età di 25 a 30 anni che le prostitute vi si abbandonano (secondo ParentDuchatelet), e dopo che esse hanno esercitato il loro mestiere per otto o dieci anni: a
meno che esse non siano state nelle prigioni.
Se ve ne hanno fra le giovani e le novizie, sono vittime di quelle che le hanno sedotte.
Parent-Duchatelet giustamente nota come fenomeno importantissimo la sproporzione
notevole d’età e di bellezza fra le due femmine che così si uniscono; e ciò che deve
sorprendere si è che una volta l’intimità stabilita, è ordinariamente quella che eccelle
per giovinezza e bellezza che sente per l’altra l’amore più appassionato e tenace. “So
da molti ispettori e da alcune guardie delle prigioni che le gravidanze si notano più
frequentemente presso le tribadi che presso le altre prostitute. Ciò si comprende, e
sino ad un certo punto si può spiegare.
Le stesse persone hanno notato che la gravidanza in quella circostanza diventava il
soggetto di facezie e di risse nella prigione, e che non si aveva quella pietà, quei
riguardi e quelle cure tutte particolari che le detenute usano prodigare alle loro
compagne che si trovano in questo stato”.
Fin qui Parant-Duchatelet. Pare che i costumi di queste tribadi differiscano secondo i
paesi. Nelle coppie tribadi di Berlino che vivono insieme in concubinato, almeno una,
scrive Moll, è prostituta. Le parti attive e passive sono sempre distinte. La prima, la
più attiva, spetta a quella che chiamano il padre o lo zio, al quale, come si concede
nei matrimoni al maschio, si lascia molta libertà nei rapporti col maschio, e queste
sono più frequentemente le prostitute. La parte passiva è rappresentata dalla madre, e
guai a lei se tradisce. Ve ne hanno che diventano tribadi, tutto ad un tratto, ma
confessano che fino da bambine avevano passioni pei giuochi maschili, per vestirsi da
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uomo, per ballare con donne, per fumare sigari forti, ubbriacarsi, cavalcare, battersi;
ve n’ebbero che cominciarono a fumare a 5 anni, che amavano costruire macchine,
che avevano ribrezzo pei lavori d’ago; però non assumono l’aria maschile che quando
sanno di non essere sorvegliate. Si riconoscono, pare, a certi segni degli occhi e della
bocca; in genere simpatizzano solo per date categorie, ora per le bionde, ora per le
brune, e non cambiano mai.
Molte sono fedeli per anni; ve ne ebbero perfino che rimasero fedeli 17 anni; ma la
maggior parte cambia di mese in mese, e quasi di giorno in giorno.
Costumi simili affatto notavansi in antico.
Le auletridi greche permettevansi anche tra di loro frequentemente intimi legami. Nei
dicterion, presso le etarie rinchiuse, questo controamore (anteros) regnava con
intensità anche maggiore. Una cortigiana che avesse tal gusto contro natura (trizas),
nascondeva con cura un vizio che trovava più indulgenza fra le compagne che fra gli
uomini.
L’intera vita delle tribadi era uno studio assiduo della bellezza; a forza di guardare la
propria nudità e di confrontarla con quella delle compagne, esse si creavano dei
piaceri ardenti, senza il soccorso dei loro amanti, che sovente le lasciavano fredde ed
insensibili (Luciano). Le passioni che per tal modo si accendevano fra le auletridi,
erano violenti, implacabili.
Nei Dialoghi di Luciano, la bella Charmida si lagna perchè la sua amante Filematium,
vecchia ed imbellettata, ch’essa da sette anni ama e colma di presenti, l’abbia
abbandonata per un uomo. Charmida, per soffocare questo amore che la divora, provò
a scegliere un’altra amante; dà cinque dramme a Trifene perchè venga a dividere il
suo letto dopo un festino dove non ha toccato cibo, né vuotata una sola tazza; ma
appena Trifene le si corica ai fianchi, Charmida la respinge e sembra evitare il
contatto della novella amica. Molte fra esse riunivansi sovente in festini ove nessun
uomo era ammesso, e là si abbandonavano alle lascivie sotto l’invocazione di Venere
Peribasia.
Luciano, in uno de’ Dialoghi delle Cortigiane, ci dimostra che qualcuna, poteva alle
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volte condurre due affezioni eterogenee e spasimare per un uomo e per una femmina.
Nature e cause del tribadismo - Il Parent-Ducfatelet, che non sempre è felice
nelle sue spiegazioni, quanto è preciso ed esatto nelle informazioni, spiega il
tribadismo coll’astinenza forzata dall’uomo e colla dimora in comune nelle carceri e
nei postriboli; ma non ha pensato all’estensione di questo vizio nel gran mondo, che
colle carceri e coi postriboli ha pochi rapporti: basterebbe a dimostrarlo, ben nota
Sighele, il numero grande di romanzi che vi alludono). “Vi sono in Parigi, scrive
Taxil, nella grande società, delle vere assemblee lesbiche, dei gruppi di donne abitanti
alcuni grandi quartieri e che s’intitolano da queste, e si rubano e invidiano l’una con
l’altra le vittime patiche loro fornite dà speciali mediane” (Corruptaon du siècle,
1891). “Sono lesbiche, continua Taxil, quelle kellerine che si vedono nella stessa
birrania vestite degli stessi abiti, che gli studenti chiamano petìtes socurs; quelle
attrici che fanno vita assieme; quelle donne maritate, di 40 anni, la cui assidua e
giovane amica rinuncia ad ogni partito e non si allontana mai da lei.
Hanno, secondo Taxil, per distintivo, il portarsi dietro un cagnolino tutto ricco di
nastri, ecc.”. Si riconoscono per le vie e si segnalano collo sporgere della lingua; io
ne distinsi alcune per lo stringersi continuo e convulso delle mani, per
l’atteggiamento e pel vestiario maschile d’una delle due. Qui le cause sono di varia
natura.
a) La prima e più importante causa è la libidine eccessiva in alcune di costoro che,
per sfogarsi, cercano tutte le direzioni, anche le più innaturali. Così vedemmo la
Thomas gettarsi alle donne dopo avere usato e abusato dei maschi; ed è noto il detto
di Caterina II, anche essa poi tribade : “Perchè la natura non ci diede un sesto senso?”
Anche fra i maschi ciò capita; e il Caylus, il prototipo degli urningi, confessava di
aver abusato delle donne fino a 33 anni; e siccome le delinquenti-nate sono più
lascive, si spiega quello che aveva osservato Parent-Duchatelet, che quelle le quali,
sotto il rapporto di questo vizio, si facevano notare per la loro tendenza a pervertire le
altre, avevano tutte soggiornato nelle prigioni per anni.
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b) La seconda causa è l’influenza della dimora; uno di noi verificava che in carcere
alcune appunto non potendo più soddisfarsi con l’uomo, si gettavano sulle donne e
diventavano un centro di corruzione, che dalle detenute si diffondeva sino alle suore.
Ecco perchè, malgrado le criminali non siano in massa, essendo criminaloidi che,
poco portate alla Venere, diventano spesso tribadiche per influenza delle ree-nate che
sono lascivissime.
Il Parent-Duchatelet notò che la prigione era la grande scuola del tribadismo; e che la
più riluttante delle carcerate finiva sempre per cedere al vizio, se vi rimaneva per 18 o
20 mesi.
Foeldes nota: se poche donne condannate stanno vicino, la loro impudicizia, anche se
sorvegliate, si eleva al cubo; se poi sono molte le chiuse insieme, ne seguono scene
che sorpassano ogni immaginazione (Llszt, Archiv., 1891).
E in questo si avvicinano agli animali, che non potendo soddisfare, i bisogni sessuali
sull’altro sesso, lo tentano col proprio.
La stesso fatto si verificò nei manicomi, in cui l’entrata di una sola tribade bastò ad
infettare tutto il manicomio, in cui prima non ve n’era la più lontana tendenza
(Lombroso, Il tribadismo nei manicomi, 1888).
c) La riunione di molte donne, specie se fra queste vi siano delle prostitute e delle
lascive, provoca per fermento imitativo nella comunità, per moltiplicarsi dei vizi di
ciascuno, un vizio collettivo maggiore. Ora le prostitute vivono spesso nude, in
contatto continuo fra loro, spesso due, tre nello stesso letto; nel gran mondo ciò si
ripete nei collegi, nelle orgie carnovalesche e anche religiose. Ricordiamo le scene
descritte da Giovenale.
“Quando invitate alla danza dalla tibia, eccitate dalla musica e dalle libazioni, le
Menadi sciolgono le lunghe treccie, esalano appassionati sospiri; allora a quanto
ardore d’unirsi fra loro sono esse in preda! Qual timbro imprime alle loro voci la
passione d’amore e la danza frenetica! Nulla, più rattiene il torrente divino che
lasciano scorrere lungo le coscie. Allora Lansella le provoca e le sfida alla gara della
corona, premio che essa riceve con i moti più lascivi sulle prostitute più corrotte.
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Eppure essa, stessa deve ammirare Medullina e i suoi gesti lascivi. Ambo le grandi
dame hanno una gloria eguale. Nulla di simulato in questi giuochi, cosicchè un figlio
di Sparta, insensibile e gelida sin dalla culla, e il vecchio Nestore con la sua ernia,
non potrebbero sopportarne la vista senza esserne infiammati”.
Simili orgie collettive si rinnovano colla partecipazione di dame del gran mondo in
certi grandi postriboli di Parigi (Fiaux, Les maisons de tolérance, 1892); il che ci
ricorda le orgie pederastiche in comune dei maschi che diedero luogo ai processi di
Padova, di Pavia, ecc. Pare che il piacere proibito non si goda dai degenerati se non
riflettendosi e quasi raddoppiandosi nella complicità più rumorosa e più scandalosa.
Fiaux (op. cit.) dà altre,ragioni finora affatto ignote dell’influenza del postribolo sul
tribadismo.
Le padrone dei postriboli lo favoriscono per avere una maggior quiete nella casa, per
escludere i souteneurs, che portano sempre un danno, perchè, dicono esse: ‘Quando le
nostre donne hanno un ganzo, vanno fuori di casa i giorni d’uscita e spendono fuori il
denaro guadagnato; mentre invece le tribadi si chiudono in camera e si regalano fra di
loro i dolci e i liquori comperati nella casa”. E perciò esse vanno a reclutarne negli
ospedali ove si formano i preliminari di queste coppie.
Qualche volta sono le padrone che sono saffiche: vestono e mantengono con speciali
riguardi le loro pratiche, oppure le violentano esse stesse tutto ad un tratto, sino a
costringerle a ricorrere alla Questura (Id.)
Più spesso ancora, esse mantengono l’uso infame per un altro triste scopo, per farne
dei quadri plastici o delle scene di orgie, a cui aggiungono l’accoppiamento canino
delle donne, la cui vista è un’altra fonte di guadagno. Finalmente lo favoriscono pure
perchè qualche volta hanno bisogno di fornire, come toccammo, la clientela
femminile del mondo ricco.
Carlier confessa che a Parigi vi sono quattro o cinque postriboli ove accorrono donne
dell’alta società o mantenute, sia per orgie collettive, sia per abbandonarsi al
saffismo; qui è notevole che le prostitute, così facili al saffismo reciproco, lo sono
assai meno verso le visitatrici esterne, sicché vi si devono obbligare per patti speciali
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segnati nei contratti e devono essere compensate con molto maggiori retribuzioni.
Nei postriboli poi, le donne fanno delle scommesse, dei concorsi e degli esami sulle
proprie bellezze intime, che naturalmente devono finire per cadere nel tribadismo.
Spesso vi sono delle ragazze che resistono sulle prime, che mostrano un certo
ribrezzo a questo vizio; che non sono dunque saffiche-nate, ma le più soccombono
nello stato di ebbrezza o vi si famigliarizzano a poco a poco, e diventano saffiche
d’occasione.
Un rito curioso segnala anzi la prima notte di queste nozze femminili. La donna che
sedusse la compagna, il padre, diremo, acquista e fa collocare al primo pranzo
comune una bottiglia di champagne davanti a sé ed una davanti alla compagna; così
nessuno ignora il nuovo maritaggio, e ciascuna è obbligata a rispettarlo (Fiaux).
d) La maturità e la vecchiaia, invertendo molti dei caratteri del sesso, favoriscono
anche nelle femmine le inversioni sessuali. Anche qui la storia naturale ci ha
insegnato (vedi sopra) che negli animali si nota questa tendenza delle femmine
invecchiate ad abitudini sessuali maschili; e le tribadi infatti, secondo ParentDuchatelet, hanno quasi tutte passata l’età media.
Quella principessa, di cui fra poco riporteremo una lettera violenta d’amore tribadico,
divenne a 60 anni tribade, da donna eccessivamente galante cogli uomini che era da
giovane.
La vecchiaia infatti è di per se stessa una specie di degenerazione. È vero che il
saffismo si verifica in molte giovinette, ma queste sono per lo più nei postriboli; e vi
furono suggestionate, costrette dalle compagne provocatrici e sono succube.
e) Nelle prostitute, e anche in alcune donne galanti, si aggiunge l’apatia e lo schifo
prodotto dall’abuso del maschio; ora, quando sia viva la passione venerea, non
potendo più soddisfarsi col maschio, prende un’altra direzione. E noto che i pescatori
non mangiano pesci, ecc.
Le une vi vengono (scrive Martineau) per odio del souteneur, che le martirizza, pel
disgusto di quella lunga fila di maschi cui dovettero soddisfare: ne sono sazie fino al
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vomito”.
A questo contribuiscono le disillusioni continue, anche dei veri amori che hanno col
ganzo; appassionate e volubili, ogni tanto subiscono nuove prove del maltrattamento
dei maschi, e allora si danno alle femmine, da cui sperano maggior fedeltà e certo più
mite trattamento.
Così Nanà si getta alle donne e per lo schifo degli uomini dagli amori sozzi, e per
l’abbandono dei volubili amanti del cuore. Si je n’aime rien, l’e ne sutis rien (Fiaux),
diceva con meravigliosa verità una povera ragazza per spiegare l’amore al soufeneur.
E questo bisogno d’amore per uno più forte, od anche solo per un altro che non la un
mercante d’amore, che spiega quasi tutti gli amori per gli Alfonsi, anche in quelle
grandi case di prostituzione ove essi non hanno a proteggerle contro nessuna
prepotenza, dove essi sono non sostenitori, ma mantenuti. “Une delle ragioni (scrive
Sighele, Coppia Criminale, nell’Archivio i psichiatria, XII, p. 533) del saffismo è
senza alcun dubbio il pervertimento sessuale degli uomini, I sadisti (e riassumo in
questa sola parola tutte le varie specie di voluttà antinaturali in cui si è trasformato
l’amore maschile), esigendo dalle prostitute degli atti ripugnanti, debbono finire per
stancarle e nausearle. Queste donne, che non sono quasi più femmine, non possono
provare che ribrezzo per quegli uomini e non sono quasi più maschi. E da ciò nasce conseguenza logica e naturale - il saffismo. Per sfuggire da un’infamia le prostitute
cadono in un’altra”.
E questo non accade solo alle prostitute.
Irma, di 29 anni, che ebbe padre alcoolista e suicida, e alcoolisti o isterici i fratelli e
le sorelle, lo zio materno pazzo, mestruata a 18 anni: a 14 ebbe clorosi e poi più tardi
grave isteria; a 18 ebbe rapporti sessuali con un giovane dì cui era innamorata, e più
tardi in memoria d’esso si masturba. Per continuare il romanzo con lui, si vestì da
uomo, divenne maggiordomo, e in quell’occasione innamorò di sè la padrona; poi
divenne impiegato, e coi compagni dovette frequentare i postriboli, sinchè ne venne a
noia e riprese gli abiti femminili; fu carcerata par furto e, riconosciuta isterica, fu
ricoverata in un ‘ospedale, dove si prese d’amore fortissimo per le infermiere. Fu
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detto dal medici che quella tendenza fosse congenita; però essa protestava: “lo sento
come la donna; fu la società dei colleghi maschili che mi fece venire schifo del
maschio. E siccome sono di natura appassionata e ho bisogno di legarmi ad una
persona, a poco a poco mi sentii tratta a legarmi con donne é ragazze con cui me la
intendevo di più”.
Qui appare che ad una latente e non forte causa congenita si innestava una
occasionale simile a quella delle prostitute, precisamente come nei reati dei
criminaloidi. “Una seconda causa del tribadismo - che s’intreccia e si confonde colla
prima - è (scrive Sighele) l’assenza nei postriboli signorili di souteneur. La prostituta
ha bisogno di un’affezione un pò stabile, meno effimera di quella che il suo mestiere
le procura ogni giorno; e non potendo trovarla in un uomo, la cerca in una delle sue
compagne.
La vita in comune con queste, l’intimità stessa delle loro oscenità, è facile declivio
sul
quale
si
scende,
senza
avvedersene,
fino
all’amore
lesbico.
“Dai lupanari di lusso, il saffismo si è esteso anche al di fuori, in ambienti, se non
meno depravati, certo meno sfacciatamente volgari. Qualche mantenuta in voga,
qualche cocotte del gran mondo, ha udito parlare di queste turpitudini dai suoi amici,
dopo
una
cena
ha
voluto
vedere,
poi
ha
voluto
provare.
“D’altra parte, alcune ragazze dei postriboli signorili, quelle che trovano facilmente
un protettore entusiasta che le conduce con sé, hanno comunicato le loro abitudini
infami alle donne che hanno conosciuto. Infine, a poco a poco, il tribadismo è
diventato un’eccezione molto frequente anche fra le donne maritate. Dice Taxil che a
Parigi il numero delle signore tribadi è incalcolabile”.
Degenerazione. L’influenza della degenerazione tende sempre più a ravvicinare e
a confondere i due sessi, per cui si ha nei crimini l’infantilità femminile nel maschio
che lo mena alla pederastia, a corrisponde la mascolinità delle donne, per una
tendenza al ritorno atavistico verso il periodo dell’ermafroditismo. La prova ne è che
in molte questa tendenza ha preceduto fino la pubertà: che molte si compiacevano a
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vestirsi da maschio (vedi sopra di Irma), godevano a vede organi femminili,
sfuggivano i lavori femminili.
Difatti, secondo Schuele nella pazzia morale e nella epilessia, si riscontrano frequenti
i casi di perversioni sessuali. “L’urningo maschio ama, deifica l’uomo amato, come
l’uomo normale l’amata. Egli è per esso capace dei più grandi sacrifizi, sente ì
tormenti di un amore infelice, delle infedeltà amorose, della gelosia. “Egli cerca di
piacere all’amato con gli stessi modi che la donna istintivamente mette in opera per
piacere all’uomo che ama: nell’apparente pudicizia, nel sentimento estetico,
nell’amore per l’arte, perfino nel passo, nel portamento, nelle vesti, non può a meno
di avvicinarsi all’uso femminile.
Egli inclina specialmente ad occupazioni donnesche, nelle quali può dimostrare
anche una certa attitudine. Per ciò che si riferisce all’arte e all’estetica, solo il
ballerino, l’attore, l’atleta, la statua maschile richiamano la sua attenzione. La vista di
femminili bellezze gli è indifferente, se non gradevole: una donna nuda gli desta
schifo, mentre la vista di genitali, di cosce maschili, lo fa tremare di voluttà.
“Ora, nella donna che ama la donna, i rapporti, mutatis mutandis, sono gli stessi:
l’urningo femmina sessualmente si sente come un uomo: si compiace nel dimostrare
coraggio ed energia virile, perché queste doti alle donne piacciono. Ama quindi di
portare i capelli e gli abiti secondo le foggie maschili, e la sua massima felicità è
quella di comparire in certe occasioni vestita da uomo.
Ha inclinazione solo per giuochi, occupazioni e piaceri maschili, vagheggia con la
mente ideali di personalità femminili: nel circo e nel teatro solamente, le attrici
destano il suo interesse, e similmente nelle esposizioni artistiche soltanto quadri e
statue di donne risvegliano il sentimento estetico e la sua sensualità”.
Essa ha spesso figura, oltre che vestiario, di maschio.
“Le tribadi (scrive Taxil) sono da 25 a 30 anni con capelli corti, vestiti semimaschili,
che portano con gran disinvoltura; alcune si appiccicano una barba intera che
completa la loro figura”. Inutile aggiungere che anche nella Grecia antica le tribadi
avevano, come hanno oggi, l’abitudine di vestirsi da uomo, di tagliarsi i capelli, ecc.
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Vedi su ciò il famoso dialogo di Clotario e Leena nelle opere di Luciano da
Samosato.
E la violenza speciale agli impulsivi, il fatto che molte sono insieme criminali-nate ed
epilettiche, aiuta (cogli altri fatti che sopra. esponemmo) a spiegare la straordinaria
virulenza di questi amori, che contrasta colla volubilità dei soliti loro amori che sono
meno stabili,, meno sentiti, perché meno organici. “Sono tragicommedie (scrive
Martineau), di cui l’idea degli amori solo cogli uomini non danno un’idea; si
scrivono, si spiano: si studiano fino ìl pigiamento delle palpebre alla discesa dalla
camera del cliente; si battono, si minacciano e si feriscono.
Una scrive e persuade un’amica a farsi iscrivere nei registri ed entrare in un bordello
per trovarsi così insieme; altre si feriscono per potersi far curare all’ospedale ov’è
l’amica”.
X, principessa, di 50 anni, già lascivissima con uomini, aveva conosciuto, anni fa, un
certo colonnello M., che le affidò, morendo, la figlia Carlotta, giovane di 23 anni,
squilibrata, isterica, ma dotata d’una coltura non comune. In breve spazio di tempo
Carlotta divenne l’amica intima, la compagna inseparabile, l’uomo d’affari, il
factotum della principessa, là quale non sapeva staccarsene nemmeno la notte, e non
le permetteva di dormire altrove che nel suo letto. E quando la fanciulla faceva
qualche tentativo di ribellione, quando le due amiche che, malgrado il sesso e la
disparità d’età, vivevano come due amanti, non andavano d’accordo, la principessa la
richiamava all’ordine con frustate e schiaffi.
Del resto, questi piccoli tentativi di ribellione erano compensati da una devozione
immensa, furiosa, servile. Un giorno Carlotta salvò una delle figlie della principessa
da un cane arrabbiato che le si era precipitato sopra, e che essa trattenne afferrando
per la gola. Un altro giorno la stessa bimba ha un attacco di difterite.
Carlotta, spontaneamente, succhia le mucosità che soffocano la piccina e la salva una
seconda volta. La principessa chiamava Carlotta col nome infame di Gabriella
Bompard.
La Bompard disse un giorno di Eyraud: “Lo seguivo come il cane segue il suo
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padrone: mi faceva ribrezzo, e non potevo staccarmi da lui”. Carlotta era per la
principessa quello che Gabriella era per Eyraud. Una volta la principessa le aveva
fatto firmare un biglietto, in cui dichiarava che se l’avessero trovata morta non
accusassero alcuno, giacché aveva voluto por fine ai suoi giorni.
Carlotta, non avendo potuto riavere questo biglietto, malgrado le vive preghiere, e
temendo quindi che le minacce fossero serie, scriveva nell’Aprile 1891 al Procuratore
della Repubblica una lettera in cui l’avvertiva che se le fosse accaduta qualche
disgrazia non dovevasi prestar fede a quel biglietto, ma lasciare che la giustizia
seguisse liberamente il suo corso.
Quindici giorni dopo ella doveva rimanere vittima infatti di un tentato omicidio,
eseguito da suo marito per mandato della principessa, onde vendicarsi
dell’abbandono.
Ma
la
violenza.
ultramaschile
di
costoro
si
vede
nelle
loro
lettere.
“La corrispondenza, scrive Parent, delle tribadi indica la più grande, esaltazione
dell’immaginazione.
“Ciò che ho trovato di più curioso a questo riguardò, si fu un seguito di lettere scritte
dalla medesima persona ad un’altra detenuta; la prima di queste lettere conteneva una
dichiarazione d’amore; ma di uno stile velato, coperto e dei più riservati; la seconda
era più espansiva; l’ultima. esprimeva in termini ardenti la, passione più violenta”.
Per parte nostra, basterà che diamo questa lettera della principessa X,
summenzionata, che fu prodotta nel processo:
“Ti scrivo invece di riposarmi, ingrata; ah! quanto ti amerei se tu non potessi vedere
che me nell’orizzonte della tua vita, tutta mia, esclusivamente mia, con Messalina e
Nanà per sole amiche! Ciò era a troppo, senza dubbio! E ti tengo il broncio,
birichina, più per le mie illusioni perdute che per tutto il resto. Perché non hai mai
voluto comprendere che io ero la più sciocca delle donne di spirito, e che «la mia più
grande seduzione - forse ti confido il mio segreto - è la mia sublime scempiaggine! È
evidente che ho sperato molte cose a che spesso devono averti fatto ridere. Niun
dubbio, anche, che io le abbia sinceramente credute e che tu devi averne ben riso.
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Ma, birichina, io ti amo. Questa parola riassume tutta la mia lettera, tutte le mie
idee. lo ti ucciderò, senza dubbio; io ti martirizzerò, è probabile; io ti sventrerò forse
in un momento di collera. Ma io ti a amo, tutto è detto.
MARIA”
Strane parole, sopratutto le ultime, dove si sente vibrare il despotico, crudele amore
di questa donna, che unisce nel pensiero il sangue alla lascivia e la minaccia di morte
al grido della passione e che la porta fino all’omicidio.
Strana lettera, ove troviamo quei due nomi Messalina e Nanà che - per confessione
della principessa - indicavano i due piedi. Ciò che conferma l’esistenza di una specie
di gergo sulle parti predilette in uso in costoro (Sighele).
Qui entra anche quella smania epistolare che ho veduto speciale in tutte le criminali,
ma più nelle saffiche; ricordo di una cocotte feritrice che, entrata in un carcere
cellulare, mentre mostrava ai guardiani, quando poteva, la vulva, e mentre entrava in
rapporti saffici con guardiane e con detenute, spargeva lettere, fino 5 a 6 al dì,
sovente di amore carnale, a detenute rinchiuse in cella, che pure non poteva, vedere
se non di sfuggita all’ora del passeggio ed alla santissima messa: la stessa intensità e
violenza notarono Taxil e Parent-Duchatelet.
“Ordinariamente il difetto di educazione non permette qui i mezzi di approccio che si
usano nelle altre classi; ed è solo a forza di carezze, di cure, di attenzioni, di cortesie
e di belle maniere che le anziane, e qualche volta le vecchie, seducono le giovani e
giungono ad appassionarle in modo straordinario.
E si vedono queste vecchie a lavorare con ardore per aumentare i guadagni per fare
doni a quelle che vogliono sedurre; in una parola, esse adoperano tutto ciò che può
inventare l’arte per compensare con qualità particolari e artifiziali ciò che loro manca,
e ciò che potrebbe allontanarle da esse o (Taxil). “Una volta stabiliti questi vincoli,
essi offrono all’osservatore delle particolarità curiose.
Esse adoperano, come vedemmo, una specie di gergo intimo, in cui chiamano coi
nomi più dolci le parti che loro più piacquero. Esse sono estremamente gelose; cosi,
nelle prostitute, l’abbandono dell’amante del loro sesso non si sopporta cosi
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facilmente come quello dell’amante maschio; in quest’ultimo caso esse si consolano
presto e trovano modo pronto d’obliano.
Ma ben altrimenti va da cosa per l’abbandono delle tribadi. Il loro affetto sa piuttosto
della frenesia che dell’amore; la gelosia che le divora e il timore di essere soppiantate
e di perdere l’oggetto della loro affezione fanno si che esse non si lasciano mai, che si
seguono passo per passo, che vengono arrestate per le stesse colpe, e che trovano il
mezzo di uscire assieme dalla casa di detenzione” (Parent-Duchatelet).
“Allorché esse arrivano nella prigione, ed allorché ad arte si mettono in due dormitori
separati, sorgono delle osservazioni senza fine, e soventi grida e urli; esse mettono in
campo una serie di stratagemmi per raggiungersi: si fingono malate per essere messe
nell’infermeria; sonvi di quelle che perciò si fanno delle piaghe e delle ferite
gravissime.
Alcune, più consumate nell’arte, applicano alle parti genitali dei piccoli pezzi di
potassa caustica, e si procurano cosi delle ulcerazioni che simulano le ulceri veneree.
“Esso hanno per la più parte un talento meraviglioso per simulare la tigna, pare,
pungendosi con un ago arroventato”.
“L’abbandono di una tribade dall’amica (continua Parent) diventa nella prigione una
circostanza che merita da parta dei guardiani una attenzione particolare; bisogna che
quella che è stata abbandonata tragga una vendetta rumorosa di quella che l’ha
lasciata e di quella che l’ha soppiantata: da ciò nascono dei veri duelli, nei quali si
battono coi vasi che servono a mangiare, e qualche volta anche col coltello; ma
l’istrumento il più usato per questa sorta di sfide è il pettine del capo.
Ne risultano delle ferite qualche volta gravi e perfino mortali. “Un caso poi che
reclama una vendetta immediata è quando una prostituta ne lasci un’altra per
attaccarsi ad un uomo. Guai alla donna che se ne rende colpevole! Poichè, se non è
più che forte, è sicura di essere battuta ogni volta che essa incontrerà quella che si
crede in diritto di rimproverarle il più sanguinoso affronto che una prostituta possa
ricevere.
“Questa vendetta di una tribade abbandonata, nelle circostanze di cui è qui parola,
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offre una particolarità notevole, ed è che in questo caso non si vedranno giammai le
altre prostitute interporre i loro buoni uffici e cercare di separare le combattenti, ciò
che esse, per contro, fanno nelle dispute ordinarie” (Parent).
Per comprendere quanto la virilità, la trasformazione del sesso e quindi l’azione
organica, abbia la maggior influenza in proposito, ricordiamo che qui, allo stesso
modo come nella pederastia, Moll trova che le occasioni non sono che un pretesto, un
modo di rivelare all’individuo stesso le proprie tendenze o di farle sbocciare, mentre
esse esistevanvi latenti.
Così accadde molte volte nei nostri casi; ne siano esempio quella principessa sopra
nominata, che già anni prima di divenir tribade maneggiava armi, si vestiva da uomo,
politicava come un uomo: e l’Irma, a cui abbiamo accennato, che sarebbe divenuta
urninga per causa morale, per ribrezzo della mala condotta degli uomini, ma pure
aveva anch’essa, molto tempo prima di diventare tale, usato vestiario maschile e s’era
perfino impiegata come un uomo nelle guardie daziarie e come maggiordomo, e
aveva destato, senza parteciparle, passioni femminili.
Del resto, per mostrare quanto qui influisca la virilità; basterebbe questa fotografia di
una coppia che ho sorpreso in un carcere, in cui la vestita da maschio aveva il
massimo dei caratteri maschili è dei criminali insieme, sicché si stenta a crederla
donna.
E che siano queste donne-uomini criminali il centro di cristallizzazione, lo accennava
Parent-Duchatelet anche quando diceva come spesso vi è una sproporzione di
bellezza e d’età fra queste donne, e che generalmente è la più bella e la più giovane
che dimostra all’altra il più grande affetto.
Ma la prova ancora migliore è data dai casi seguenti, in cui si può ritrovare
nell’urninga il carattere maschio fin dalla prima età, precisamente come si trova
l’inverso, il femmineo, nell’urningo dell’altro sesso e con risultati paralleli.
R., una donna di 31 anni, artista, ha i lineamenti e voce maschili, capelli corti, abiti
molto simili ai virili e andatura da uomo; ha però bacino femminile, sviluppo
notevole delle mammelle, mancanza di peli sul viso.
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Fin da bambina amava molto giuocare con fanciulli e far la parte di soldato, di
brigante; non amava invece le bambole e i lavori femminili.
La Tarnowsky studiò un’omicida ermafrodita, che fece parte di una banda di briganti.
In iscuola s’interessava sopratutto per le matematiche e per la chimica: divenuta
artista, provava interesse per la bellezza maschile, ma senza lasciarsene sedurre. Non
poteva soffrire le smancerie femminili, mentre preferiva tutti gli oggetti maschili.
Il discorrere con donne le andava a noia; tutte le conversazioni sulle totilettes, sugli
ornamenti, sugli amoreggiamenti non avevano significato per lei. Invece amava
abbracciare e baciare le donne, passeggiare sotto le loro finestre, e provava i tormenti
della gelosia se le vedeva con uomini.
Generalmente non provava nessuna attrazione pel maschio, benché confessi che due
volte nella vita gli uomini le hanno fatto impressione, tanto che se l’avessero cercata,
li avrebbe sposati, anche perché essa ama la vita di famiglia e l’aver bambini. Trova
che la donna è più bella, più ideale; quando ha delle immagini erotiche, esse si
riferiscono sempre soltanto a donne.
Crede che non avrebbe mai potuto amare profondamente un uomo.
Il padre era nevropatico e la madre pazza, e, quando era giovinetta, amò furiosamente
il proprio fratello e tentò fuggire con lui in America.
C..., domestica, di 26 anni, fu, fin dall’età dello sviluppo, paranoica ed isterica; non
ebbe mai inclinazione per persone dell’altro sesso; non aveva mai potuto capire come
mai le sue amiche potessero interessarsi per la bellezza maschile e come una donna
potesse lasciarsi baciare da un uomo: amava invece le donne; aveva un’amante che
baciava appassionatamente e per la quale avrebbe volentieri sacrificata la vita.
Fin da bambina ascoltava con passione la musica militare; caccia e guerra erano i
suoi ideali; in teatro s’interessava soltanto per le parti femminili; andare vestita da
uomo sarebbe stato per lei un gran piacere; e come aveva delle idee di persecuzione,
così, per sfuggire ai supposti persecutori, avrebbe voluto vestirsi da uomo e fare la
parte di un maschio.
Nel 1884 si vestì per lungo tempo con abiti maschili, alle volte coll’uniforme di
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luogotenente; fuggì così vestita in svizzera, dove trovò lavoro come domestica, in una
famiglia di commercianti, e dove s’innamorò della a bella Anna”, figlia dei suoi
padroni, la quale, non dubitando che la C’. non fosse un uomo, pure se ne innamorò;
la C. chiamava la sua amante coi nomi di” fiore meraviglioso, sole del mio cuore,
tormento della mia anima”. Scopertasi la cosa, la C. fu rinchiusa in un manicomio, e
quando una volta Anna andò a trovarla, gli abbracci ed i baci non finivano più.
La C. è grande, di bello e svelto aspetto, di forme femminili, alle quali essa dà
movenze maschili. L’amore con Anna non trascendeva all’immoralità.
La C. cade facilmente, durante lo stato ipnotico, in sonnambulismo, e in questo stato
è assai suscettibile di suggestione.
Un ispettore forestale aveva concesso la propria figlia Maria in isposa ad un sedicente
conte Sandor O., che si scoperse presto essere una donna, la contessa Carlotta V., rea
di truffa e falso, discendente da un’illustre famiglia ungherese, ricca d’eccentrici.
Una sorella della nonna e una zia materna, isteriche, rimasero a, letto molti anni per
malattie immaginarie; una terza zia si credeva perseguitata da un console; una quarta
zia per due anni non volle che scopassero la sua camera, e non si pettinò nè lavò; le
altre donne da lato materno erano molto intelligenti, istruite ed amabili.
La madre della V. era. nevropatica: non poteva soffrire il chiaro di luna.
Quanto alla famiglia del padre, alcuni facevano pratiche spiritiche, altri erano suicidi;
il maggior numero ha un ingegno eccezionale; il padre aveva un’alta posizione
sociale, che dovette lasciare per le sue eccentricità e per prodigalità (dilapidò una
sostanza di mezzo milione).
Essa aveva fin da bimba vestito abiti maschili per volontà del padre, che l’allevava
come un maschio, la lasciava cavalcare, la conduceva a caccia e le diceva:
“Queste cose si confanno colla tua energia, perché tu sei un uomo”.
A 13 anni essa s’innamorò in un collegio di una sua compagna. Uscitane, si emancipò
ben presto; fece grandi viaggi col padre, sempre vestita da uomo; frequentò i caffè, e
qualche volta i postriboli: era spesso ubriaca, sempre appassionata per lo sport,
grande schermitrice. Si fece anche attrice comica, ma non volle mai fare parti
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femminili.
Essa assicura che non sentì mai inclinazione per gli uomini, contro cui, anzi, di anno
in anno le crebbe sempre l’avversione, mentre andò - sempre aumentando la simpatia
pel sesso femminile, benché i suoi amori durassero poco.
Soltanto uno durò 3 anni: innamoratasi di una donna più vecchia di lei di 10 anni,
fece con essa un contratto di matrimonio, e fece vita comune con lei per 3 anni nella
capitale come fossero marito e moglie; ma un nuovo amore fu causa che la V. volesse
rompere questo legame, ed è curioso che era la sua compagna che non voleva essere
abbandonata, essendo abituata a farsi chiamare contessa V., e fu soltanto con gravi
sacrifizi che la V. poté ricuperare la sua libertà. Mortole il padre, essa si fa scrittrice e
collabora in due reputati giornali della capitale.
Nel 1881 fece conoscenza colla famiglia di Maria, della quale s’innamorò
perdutamente, benché la madre e la cugina cercassero di opporsi a quest’amore. I suoi
manoscritti mostrano a qual punto giungesse la grande passione della sua vita; per
es.: “Mio bene, pensaci; ti lascio per qualche tempo; ma se non mi ami, mi uccido,
perché ho riposta tutta la mia vita in te”.
Essa seppe ingannare completamente la famiglia di Maria, che non dubitò mai del
suo sesso. Per simulare lo scroto, essa poneva nei pantaloni un sacchetto di panno o
un guanto. E lo suocero le vide una volta qualcosa simile ad un membro in erezione.
E poiché la cameriera trovava nella biancheria tracce di sangue mestruo, essa
pretestava che si trattava di emorroidi.
Ma una volta, la famiglia, insospettita, la spiò mentre stava facendo un bagno, e
riconobbe il suo vero sesso.
L’aspetto della V. è maschile, ed essa ne esagera di proposito le apparenze virili.
Statura 1,13; bacino poco sviluppato; tronco maschile; cranio piccolo e leggermente
òxicefalo (capacità complessiva 1430; circonferenza 570; curva trasversale 330;
curva longitudinale 300; diametro antero-posteriore 170; diametro trasversale 130,
cosicché tutte le misure. sono inferiori d’un cm. alla media del cranio femminile).
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La voce è profonda e aspra. I genitali hanno completamente il tipo femmineo: la
vagina è stretta e così sensibile al toccamento, che non si può giungere all’utero senza
narcosi; gli organi genitali sono allo stato infantile, e si può escludere che abbia
subito il coito.
La V. ha una corporatura delicata, magra, salvo al petto e alle cosce, che sono
abbastanza muscolose; quando ha indosso abiti femminili, cammina in modo
malagevole. I suoi movimenti sono forti, aggraziati, ma, diventano rigidi e sgradevoli
quando vuole accentuare il carattere maschile.
Ha uno sguardo intelligente, una fisionomia un po’ triste: si presenta senza timidezza,
salutando con un energico movimento della mano.
I piedi e le mani sono notevolmente piccoli: sembrano rimasti allo stato infantile. Una
parte delle estremità è coperta di peli, ma la barba, malgrado che essa, finga di raderla
spesso, manca completamente, e non è sostituita neppure da lanuggine.
Il tronco non ha nulla di femminile; il bacino è così stretto e così poco prominente,
che una linea tirata, dal cavo ascellare al ginocchio, non passa pel bacino.
La bocca è piccola,, le orecchie un pò ad ansa, il lobulo aderente si perde nella cute
delle guancie. Il palato è stretto ed alto. Le ghiandole mammarie sono abbastanza
sviluppate, ma molli, senza secrezione. Il mons veneris è coperto di densi peli scuri.
Essa stessa confessa ché non sente per l’uomo alcuna inclinazione.
Ad un fratellino disse: “Come ti amerei se fossi una bambina”. Non pratica onanismo
solitario ne reciproco, e ne prova nausea. soltanto alla idea, perché ciò non conviene
alla sua dignità d’uomo. È invece straordinaria la sua inclinazione per la donna, ed è
probabile che quando si trova vicino all’amata, all’ipertrofia sessuale concorra una
certa sensazione olfattiva; così infatti essa sceglie volentieri quella parte del canapè
sulla quale Maria tiene appoggiato il capo, e con voluttà ne aspira l’odore dei capelli.
L’intelligenza o le altre facoltà della psiche sono normali; non ha allucinazioni nè
illusioni; la memoria è mirabile, senza una lacuna.
Di
a normale,
quanto, all’intelligenza, si nota soltanto la grande leggerezza e la
inettitudine all’amministrazione dei beni propri.
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Gli scritti della V. sono d’una calligrafia ferma e sicura, schiettamente maschile; essi
sono zeppi di citazioni di poeti e prosatori classici in parecchie lingue.
Un volto piacevole e intelligente, una certa grazia e piccolezza del viso, ma con una
maschera di mascolinità, la caratterizzano, i suoi modi risoluti, espansivi, liberi, la
fanno facilmente prendere per un uomo.
Non si lasciò mai sedurre da uomini; è pienamente felice quando è innamorata d’una
donna, e anzi l’idea di rapporti sessuali coi maschi le dà nausea e ne ritiene
impossibile l’esecuzione.
Non le importa che le donne siano belle, o procaci, o molto giovani: comunque siano,
purché abbiano da 24 a 30 anni, essa si sente attratta ad esse come da una calamita. Il
piacere sessuale si esternava sul corpo di una donna, non sul proprio, in forma di
masturbazione o cunnilingio; qualche volta si serviva anche di una calza riempita di
stoppa. Confessa ciò mal volentieri e con una certa vergogna; mai nelle sue parole, nè
nei suoi scritti appare vero cinismo. È molto religiosa; si interessa per tutte le cose
nobili e belle, gli uomini eccettuati; è suscettibile alle dichiarazioni di stima che le si
facciano.
Sono evidentemente casi di ermafroditismo femmineo in cui, con organi
essenzialmente femminili, si hanno le tendenze congenite del maschio, che formano
intorno a loro il nucleo di gruppi saffici, specialmente se si manifestano in mezzo alla
prostituzione, che, come ha notato il Moll, dà sempre uno dei membri di queste
coppie.
Però il fatto che si possano raccogliere solo pochi di questi casi in confronto alle
centinaia di maschi, mostra che anche da questo lato le tendenze erotiche sono meno
spiccate; é lo dimostra ancor più la scarsissima quantità delle altre psicopatie sessuali
(vedi più oltre); ciò che spiegasi perché nella donna vi ha molto minore variabilità,
minore differenziazione; perché il centro corticale vi ha molto meno influenza
nell’erotismo e subisce meno occasioni di eccitarsi, e quindi di pervertirsi.
Viceversa, le circostanze favorendo assai più nella donna il tribadismo, per causa
della prostituzione che non nel maschio la pederastia, il maggior numero delle tribadi
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sono non tribadi-nate ma tribadi d’occasione, a cui prestano sopratutto ansa i
maggiori caratteri virili che sono propri delle ree e delle prostitute, e così si spiega
come esse possano sopportare, dissimulare ed anche provocare gli amori cogli
uomini, fino a farne un’esclusiva professione; il che sarebbe impossibile alla vera
tribade-nata, che ha ribrezzo del maschio, come, il pederasta ha ribrezzo della
femmina.
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CAPITOLO 4
L’Infanticidio e il Codice Penale
Giuridicamente l’abbandono di un minore o di un incapace da parte di chi ne deve
avere cura è un reato; va da sé che l'infanticidio è un reato ben più grave ed entrambi
sono punibili con pene proporzionate alla gravità del fatto secondo le norme dettate in
materia dal codice penale.
Va sottolineato il concetto civilistico dell'abbandono: la legge consente di
abbandonare un figlio rinunciando a1 suo riconoscimento nel pieno anonimato, senza
che si configuri un reato punibile nei termini di legge, lasciandolo in luogo sicuro,
consentendo 1’adozione e garantendogli cosi un futuro di sopravvivenza in un
ambiente familiare idoneo.
Spesso il termine infanticidio viene utilizzato dal linguaggio comune e da quello
giornalistico in modo indifferenziato quando si nominano delitti in cui le vittime sono
dei bambini piccoli.
II linguaggio giuridico distingue però l'infanticidio dal figlicidio e tale differenza è
rilevante soprattutto a livello penale.
Prendendo in considerazione tale punto, ci si chiede: come venivano, e vengono
tuttora punite le donne che non rispettavano il modello femminile posto dai codici
civili, cioè la sposa fedele e sottomessa, divenuto il modello considerato "normale” e
che arrivavano ad uccidere il proprio figlio?
II termine "Infanticidio" nel linguaggio giuridico indica la soppressione di un
bambino appena nato esclusivamente da parte della madre; il "Figlicidio" è il termine
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con cui si definisce il delitto la cui vittima è un bambino di qualsiasi età, ucciso da
uno dei due genitori.
Oggi l'infanticidio è normato dall'articolo n. 578 contenuto nella legge 442 del codice
penale del 1981, secondo cui l'infanticidio è riferito all'uccisione di un bambino da
parte della madre e da parte sua soltanto.
Solo la madre quindi e non il padre, a differenza del figlicidio che è un delitto
indifferentemente genitoriale, mentre l'infanticidio e un crimine esclusivamente
materno.
Il bambino di cui si parla è un figlio, non un bambino qualsiasi, un figlio neonato.
Inoltre il codice penale prevede un tempo nel quale l'atto deve realizzarsi per essere
considerato infanticidio, ovvero durante o immediatamente dopo il parto.
Altra caratteristica necessaria è che l'infanticidio deve essere commesso in condizioni
di abbandono materiale e morale.
Questi aspetti sono fondamentali per definire le conseguenze penali dell'infanticida.
La pena per questo reato, infatti, é ridotta rispetto al comune omicidio in quanto si
cerca di comprendere le ragioni che hanno portato la madre ad uccidere la propria
creatura.
Di conseguenza l'infanticidio diviene una figura giuridica speciale, con pena
attenuata, va infatti dai quattro ai dodici anni di reclusione, mentre il figlicidio é
considerato un aggravante dell'omicidio.
Nel corso dei secoli però non c'é sempre stata una ricerca delle attenuanti, anzi
l'uccisione di un neonato é stata considerata per un periodo di tempo più grave di un
omicidio perché commesso nei confronti di una vittima indifesa da parte della madre,
ovvero la figura che più di ogni altra ha il compito di proteggerla.
Le eccezioni sono sempre state socialmente ammesse, si pensi ad esempio alla nascita
di bambini malformati o alle figlie femmine nate in famiglie povere in Cina, in questi
casi sopprimere il neonato era approvato in quanto permetteva di liberarsi da una
creatura non desiderata.
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Con 1'illuminismo si inizia a considerare l'infanticidio come una donna particolare
di delitto e cioè l'uccisione di un bambino nascente o nato da poco, commessa con
atto positivo o negativo dalla madre illegittimamente fecondata, con lo scopo di
"salvare il proprio onore" o di "evitare sovrastanti sevizie".
Si cerca quindi di attenuare la gravità dell'atto spostando il fuoco dell'attenzione dalla
condizione del bambino come figura inerte, debole ed indifesa all'attenzione rivolta
verso la madre, colei che commette il delitto, in particolare la madre illegittima.
Questa condizione di illegittimità permette di capire il comportamento della donna,
attenuandone la pena, dato che si sottolineano le condizioni di difficoltà materiale e
morale in cui essa si viene a trovare; da questo momento le donne non vengono più
seppellite vive o gettate nel fiume dentro ad un sacco, ora ci si "limita" ad impiccarle
o a decapitarle direttamente.
Oltre all'aspetto dell'illegittimità il codice penale richiamava il motivo d'onore.
Onore, perduto o da tutelare, che però non riguardava principalmente la donna ma la
famiglia in generale e quindi la morale familiare.
La definizione di infanticidio inteso come atto allo scopo di "salvare il proprio onore"
ed "evitare sovrastanti sevizie" venne accettato dalla maggior parte dei codici penali
europei che, a partire dall'ottocento, sostituirono la pena di morte con la detenzione
spesso temporanea.
La madre infanticida venne considerata più come vittima che criminale.
Di conseguenza, nonostante si uccida un essere vivente indifeso e non colpevole, si
tende a trovare nella figura delle madri infanticide tutte le attenuanti per arrivare ad
imporre condanne più miti.
La “difesa dell'onore" e la paura di “sovrastanti sevizie" vengono considerate
motivazioni importanti per attenuare la colpevolezza; per quasi un secolo, infatti, la
legge italiana ha contemplato "l'omicidio d'onore" di nubili ed adultere.
Il primo codice penale, il codice Zanardelli del 1889, in vigore a partire dall’anno
successivo, attenuava la colpa di infanticidio, considerandolo un attenuante
dell'omicidio volontario "se commesso su un infante non ancora iscritto nei registri
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dello stato civile e nei primi cinque giorni dalla nascita, per salvare il proprio onore o
per evitare sovrastanti sevizie "; la pena in questo caso era la detenzione dai tre ai
dodici anni.
L'onore diviene quindi la giustificazione a questo tipo di delitto riconfermando la
normalità della maternità solo se all'interno del matrimonio.
Rispetto al primo codice penale, il codice Rocco del 1930, rafforzava ulteriormente il
motivo d'onore e le possibili sevizie, di conseguenza ridusse ulteriormente il periodo
di reclusione, estendendo la pena ridotta non solo alla madre, bensì a chiunque -per
motivi d'onore- uccidesse un neonato.
"Chiunque cagiona la morte di un neonato immediatamente dopo il parto, ovvero di
un feto durante il parto, per salvare l'onore proprio o di un prossimo congiunto, è
punito con la reclusione dai tre ai dieci anni. Alla stessa pena soggiacciono coloro
che concorrono nel fatto al solo scopo di favorire taluna delle persone indicate nella
disposizione precedente. In ogni altro caso, a coloro che concorrono nel fatto, si
applica la reclusione non inferiore ai dieci anni".
Per "causa d'onore" significa evitare il "disonore" dovuto ad una gravidanza
illegittima, è un atto creato dunque per difendere la maternità "onorevole" e non per
tutelare la capacità di dare la vita.
L'onore e il disonore delle nubili e la loro reputazione sociale vengono definiti in base
ai loro comportamenti sessuali, per questo nei processi viene esclusa la possibilità di
applicare questo articolo agli infanticidi commessi per evitare il disonore derivante
dalla nascita di un essere deforme, alle prostitute o alle ragazze già madri di un figlio
illegittimo, che cioè si sono già venute a trovare in una condizione di gravidanza
illegittima senza essersi sentite particolarmente umiliate o pregiudicate nelle relazioni
sociali.
Anche nel 1930 quando, il concetto di onore conferma il valore della verginità e
l'immoralità della trasgressione sessuale prima del matrimonio, difendendo cosi
la famiglia legittima e il modello di maternità possibile solo per le donne coniugate.
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Sempre all'interno del codice Rocco vengono giustificati per causa d'onore anche altri
delitti come l’aborto e l'abbandono di un neonato.
La situazione si è andata modificando in modo radicale. con l'articolo n.1 della legge
442 del cinque agosto 1981, quando la causa d'onore e stata abolita da tutti i reati che
la contemplavano e si è tornati ad identificare nella madre la principale agente
dell'infanticidio.
L'articolo è stato riscritto introducendo nuovi requisiti.
Innanzitutto non è più prevista la condizione di illegittimità, da questo momento,
infatti, qualsiasi madre viene contemplata dalla legge, indipendentemente dalla
presenza o meno di un marito che le conferirebbe la legittimità di sposa e madre; in
questo modo si dichiara che anche la madre sposata può uccidere il suo bambino.
Rimane pero inalterata la condizione temporale, l'atto deve compiersi comunque
durante o immediatamente dopo il parto.
L'aspetto innovativo è dato dall'introduzione delle "condizioni di abbandono
materiale e morale " in cui la madre può trovarsi m quel momento.
L'abbandono morale può essere considerato la conseguenza dell'abbandono materiale
inteso come, ad esempio, la mancata assistenza durante o subito dopo il parto, che
potrebbe spiegare lo sconforto in cui la neomamma si viene a trovare e che la spinge
ad uccidere il piccolo.
L'indulgenza verso l'infanticida viene oggi fortemente motivata, dunque, risalendo a
queste particolari condizioni di disagio che la madre vive al momento del parto.
Si valuta cioè il comportamento della donna in relazione al contesto nel quale essa ha
vissuto la sua maternità.
E’ necessario un rapporto causale tra le particolari circostanze di abbandono
materiale e morale e l'evento morte. Ci si riconduce ad una situazione economica
gravemente deficitaria per la madre, ovvero
all'assenza
di
una
qualsivoglia
assistenza, pubblica o privata, oppure ad una situazione affettiva gravemente carente
per la madre.
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L'espressione "immediatamente dopo il parto" va riferita alla situazione di
perturbamento psichico conseguente al parto che interessa la madre che si trova in
condizioni di complessivo abbandono tali da uccidere significativamente sulla sua
condotta.
Il delitto descritto dall’art. 573 del c.p. e configurabile solo se l’evento letale avviene
immediatamente dopo il parto e cioè in quella situazione di agitazione interiore che
costituisce la ragione del diverso trattamento rispetto all’omicidio volontario (art. 575
c.p).
Non si ha l’immediatezza quando la morte sia cagionata oltre i due giorni dal parto.
Gli individui sono ritenuti responsabili dei loro atti, ma l’ attuale società ha il dovere
di garantire tutte le condizioni affinché si realizzino i diritti individuali.
Per questo motivo le condizioni di abbandono materiale e morale vengono intese
considerando lo stato di miseria, clandestinità, solitudine, mancanza di aiuto e di
solidarietà in cui il parto si è realizzato.
Il delitto viene di conseguenza interpretato tenendo in considerazione gli aspetti
economici, sociali e psicologici del soggetto.
Nel dibattito del 1981 si discuteva anche della condizione psichica della donna legata
al parto, considerazione che però non venne fatta rientrare nel nuovo articolo.
L’idea di una condizione psichica alterata della donna al momento del parto venne
respinta, in nome della donna, in quanto lesiva della sua dignità; la condizione
psichica venne vissuta come una concezione maschilista di inferiorità psichica, fisica
e morale della donna.
Ma è davvero corretto pensare m questi termini?
Alla luce del materiale studiato relativo al periodo pre e post parto vissuto da una
donna, i1 bisogno di aiuto e sostegno che segna 1’esperienza del parto e della
maternità, con tutti i possibili turbamenti, non deve essere considerato uno stato di
inferiorità, tanto meno deve essere nascosto, ma anzi deve essere esplicitato dalla
neomamma e colto da chi le sta attorno.
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A differenza dei due codici, precedenti, la legge 442 dell’1981, ritiene che solo la
madre possa avere un trattamento differenziato in caso di infanticidio e non i familiari
o chi altro partecipa al delitto, accusati, invece, di omicidio colposo.
L’articolo n 578 del c.p., tuttora vigente, che punisce i1 reato di infanticidio recita:
“La madre che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto,
o del feto durante i1 parto, quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono
morale e materiale connesse al parto, è punita con la reclusione da quattro a dodici
anni. A coloro che concorrono al fatto di cui al primo comma, si applica la
reclusione non inferiore ad anni 21. Tuttavia, se essi hanno agito al solo scopo di
favorire la madre, la pena può essere diminuita da un terzo a due terzi”.
La madre che uccide il proprio figlio, al di fuori dell’immediatezza del parto, sarà
ritenuta colpevole di omicidio, secondo l'articolo 575 del c.p., che afferma "Chiunque
cagiona la morte di un nomo è punito con la reclusione non inferiore ai ventuno
anni".
Diverse pene quindi, per simili delitti, la cui unica sottile differenza si basa sull'età
della vittima.
Oggi chiaramente si vive nel rispetto dell'infanzia, ma la cultura del bambino con
molta difficoltà riesce ad affermarsi. Giuridicamente parlando qualcosa viene fatto
attraverso le norme per tutelare l'infanzia ma nonostante tutto viviamo continuamente
episodi cruenti di violenza e di morte.
4.1 Aspetti particolari dell'azione penale in caso di infanticidio
La valutazione dell’imputabilità
Spesso durante i processi si invoca, da parte della difesa, l'incapacità di intendere e di
volere dell'imputato.
L'art. 85 del codice penale afferma:
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"Nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato, se, al
momento
in cui lo ha commesso, non era imputabile. E' imputabile chi ha la capacità di
intendere e di volere ".
Con questo articolo si definisce la nozione di imputabilità vista come la capacità di
intendere, ossia l’idoneità del soggetto a comprendere il significato e gli effetti della
propria condotta, e come la capacità di volere, ossia ad assumere delle scelte
autonome e libere di comportamento in relazione ai normali impulsi che motivano
l'azione umana.
Entrambi questi requisiti defíniscono la responsabilità giuridica del soggetto e devono
essere presenti in esso affinché sia imputabile agli effetti del diritto penale, poiché, se
ne mancasse anche uno soltanto saremmo in presenza di un soggetto non imputabile.
In caso di infanticidio, quindi, devono essere tenuti m considerazione questi due
requisiti per una giusta valutazione di ciò che é stato commesso.
Sarà lo psichiatra a giudicare lo stato di normalità o di infermità mentale del soggetto
e da questo dipenderà anche il tipo di detenzione a cui l’omicida sarà sottoposta.
Se l'imputata sarà dichiarata sana di mente sarà rinchiusa in un carcere comune, se
invece verrà considerata incapace e nello stesso tempo socialmente pericolosa, due
pesanti stigma, entrerà nell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario, dalla forte caratterizzazione carceraria.
“E’ socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o punibile, che
ha commesso un reato, quando è probabile che commetta nuovi fatti previsti dalla
legge come reati" (art. 203 c.p.).
La qualità di persona
socialmente pericolosa si ha, quindi, con l’analisi della
personalità del soggetto e con la formulazione della prognosi criminale.
L’attribuzione di pericolosità sociale comporta l’applicazione delle misure di
sicurezza. Alla scadenza del periodo minimo di esecuzione della misura di sicurezza,
il magistrato di sorveglianza provvede ad un riesame della pericolosità che può
concludersi con la revoca della misura ove si accerti la cessazione della pericolosità,
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oppure, nel caso contrario, con la fissazione di un nuovo termine, che può anche
essere inferiore a quello stabilito dalla legge, alla scadenza del quale si dovrà
procedere ad un nuovo riesame.
I soggetti che hanno superato la maggiore età normalmente si presumono imputabili,
salvo specifiche condizioni particolari.
Il legislatore definisce le cause di esclusione o limitazione dell’imputabilità, per la cui
identificazione, sono fondamentali gli articoli 88 e 89 del c.p.
L’art 88 (Vizio totale di mente) recita:
“Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto,era, per infermità, in
tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere ".
L'art 89 (Vizio parziale di mente) recita:
“Chi nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di
mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere e di
volere, risponde del reato commesso, ma la pena è diminuita" .
Non è quindi sufficiente accertare una malattia mentale per dedurre automaticamente
la non imputabilità del soggetto, ma occorre anche appurare se, ed in quale misura, la
malattia stessa ne abbia compromesso la capacità di intendere e di volere.
La perizia è uno strumento insostituibile di ausilio tecnico qualificato per il giudice: il
pento e chiamato ad accertare la causa idonea ad escludere o limitare la capacità
di intendere e di volere, mentre al giudice compete di valutare se, considerata la
potenzialità del fattore descritto dall'esperto, il soggetto fosse da ritenere al momento
del fatto imputabile oppure no.
"La perizia può anche essere disposta dal giudice al fine di accertare la capacità di
intendere e di volere dell'imputata nel momento del processo, in quanto deve essere
in grado di comprendere l’iter processuale e la pena ad essa irrogata " (art. 70 c.p).
La difficoltà a trovare un movente o anche solo un interesse a commettere il gesto,
crea uno spazio perché la difesa possa far riconoscere la malattia mentale.
Ciò afferma il principio che un crimine possa essere punito se può essere in qualche
modo reso intelligibile.
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La perdita della moral agency, la dichiarazione di malattia mentale a posteriori, dopo
che il gesto folle é stato compiuto, salva molte persone coinvolte in queste situazioni.
Sempre più spesso, infatti, le "Medee" usufruiscono delle attenuanti: criminalità al
femminile,
personalità,
comportamenti
e
struttura
affettiva
in
prospettiva
psicodinamica, fanno si che l'infanticidio diventi un tipo di reato particolare tale che,
gli ordinamenti penali di quasi tutti i paesi del mondo, limitano la pena per la madre
considerandolo "meno grave" rispetto al figlicidio.
Come già detto l'infanticidio in Italia é tale se avvenuto immediatamente dopo il
parto, (per altri paesi i tempi sono più lunghi, come ad esempio il codice penale
canadese che lo considera fino ai 12 mesi dopo il parto), in una condizione fisica e
psichica alterata da parte della donna, in cui viene dato particolare risalto alla
situazione psicopatologica temporanea delle funzioni mentali, relativa appunto alla
fase post-parto.
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CAPITOLO 5
Gli scenari di fondo in cui avviene il delitto di
figlicidio e la confessione del delitto
Vi sono numerosi altri elementi clinici che influiscono sulle motivazioni sociali e
personali a commettere il figlicidio. Tra queste numerose variabili concausali cioè
elementi che non costituiscono la causa unica, diretta e sufficiente a provocare il
delitto), ricordiamo un sentimento inadeguato della maternità, la presenza di
psicopatologie acute, l’abuso di sostanze voluttuarie e la presenza frustrante di
situazioni emotive problematiche.
Il sentimento inadeguato della maternità
Ricordiamo la necessità per ogni essere umano di poter usufruire di una “madre
sufficientemente buona” (good enough mothers) che badi alle esigenze primarie di
quando un soggetto è piccolo, indifeso, dipendente, e di poter altresì beneficiare di un
“ambiente favorevole ed accudente” (holding environment) tale da permettere le fasi
corrette
e
adeguate
di
separazione
e
individuazione,
di
imitazione,
di
internalizzazione nei confronti delle buone qualità dei genitori.
Una “buona madre” potrà permettere alla figlia di divenire anche lei un’altra “buona
madre” attraverso almeno due grandi direttive, e cioè, in primo luogo, il ricordarsi
della primitiva e gratificante relazione figlia-madre ed, in secondo luogo, il ricordarsi
di essere stata ella stessa un bimbo trattato bene e felice.
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Se le cure della madre verso la figlia (che diventerà madre a sua volta) sono state
adeguate e corrette, quest’ultima potrà avere un atteggiamento positivo nei confronti
del mondo e nei confronti del proprio ruolo di madre e dei propri figli.
Se invece la donna ha avuto una “madre cattiva”, potrà percepire il mondo alla luce
del dubbio, della diffidenza, di una cronica immaturità, della perdita della stima di se
stessa, della dipendenza e della indipendenza conflittuali, della paura di essere
aggrediti ecc. Spesso le madri che hanno compiuto un figlicidio hanno avuto grossi
problemi nella famiglia di origine con una “madre cattiva” che non ha saputo
insegnare e trasmettere un sentimento adeguato di maternità.
La presenza di psicopatologie acute
Ricordiamo che, pur non essendo la malattia mentale l’unica causa e diretta
responsabile del figlicidio, può agevolare e precipitare l’agito omicidiario.
Tra le psicopatologie acute di cui può soffrire la madre al momento dei fatti
omicidiari si può segnalare la depressione, con i progetti di suicidio allargato le
patologie su registro paranoideo e schizofrenicoparanoideo, ove il figlio è percepito
come un persecutore ovvero deve essere protetto a tutti i costi da un mondo maligno,
intrusivo, invadente; le patologie borderline con difficoltà a separare se stessa dal
figlio; i disturbi di personalità in cui vi è maggior facilità al passaggio all’azione
impulsiva ecc.
Da segnalare inoltre tutte le varie patologie mentali di cui può soffrire una. madre nel
periodo immediatamente successivo alla nascita di un figlio. Molte madri, infatti,
dopo il parto dimostrano chiari segni di sofferenza e di disagio psichico.
A questo proposito ricordiamo le manifestazioni del baby blues o maternity blues (Di
Bello, Merignolo, 2001), un disagio psichico a carattere prevalentemente depressivo
con instabilità emotiva, crisi di pianto, ansia e irritabilità, e la depressione postpartum (compresa la variante con elementi psicotici) prevalentemente caratterizzata
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da vissuti e comportamenti depressivi e che anch’essa può comportare il rischio di
suicidio e di infanticidio.
L’abuso di sostanze voluttuarie
L’abuso di sostanze voluttuarie (in particolare eroina, cocaina, ecc.) può esercitare
una duplice azione nel favorire il figlicidio. Da un lato la loro assunzione od eventuali
sindromi da astinenza posso no portare a fenomeni di irritabilità, eccitazione,
disinibizione, stati depressivi e/o disforici ecc., che possono favorire il passaggio
all’atto omicidiario. D’altro lato l’abuso di sostanze voluttuarie può.
Favorire la slatentizzazione di sintomi psicotici in madri che presentano una doppia
diagnosi, e cioè una malattia mentale e contemporaneamente una tossicofilia
(tendenza all’abuso di sostanze voluttuarie).
Nelle madri con doppia diagnosi, l’abuso della sostanza voluttuaria può scatenare,
riaccendere, scompensare sintomi psicotici, quali stati di eccitazione maniacale,
deliri, allucinazioni, confusione ecc., che possono favorire il passaggio all’atto
omicidiario.
Ricordiamo però che accanto a madri che uccidono i figli che hanno un lungo passato
di tossicomani e di malate mentali, vi sono anche altre madri che uccidono i figli e
presentano solamente una struttura di personalità fragile, insicura ecc., senza
grossolani precedenti psichiatrici o cronico uso di sostanze stupefacenti.
La presenza di situazioni problematiche
Alcune madri uccidono il loro figlio in coincidenza, seppur non in rapporto causale
diretto, con situazioni altamente problematiche e stressanti che sopravvengono mesi o
anche pochi giorni prima del delitto.
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In genere si tratta di situazioni di crisi in cui vi è soprattutto rappresentata la perdita
e/o la separazione: per esempio si sono verificati allontanamenti di persone
significative, decessi in famiglia, problemi finanziari con perdita di sicurezza
economica, mutamenti di vita non voluti, separazioni da persone amate, insorgenza di
malattie personali ecc.
Si tratta di disagi fortemente stressanti, nella realtà e soprattutto nella percezione
delle madri, che possono aver generato situazioni di crisi emotiva difficilmente
gestibile. È ancora da sottolineare che queste varie situazioni descritte non sono di
per se stesse sufficienti a causare il delitto di omicidio, ma, unitamente ad altri fattori
ed a motivazioni specifiche, possono essere uno degli elementi della costellazione
concausale, si rendono responsabili del passaggio all’azione omicidiaria da parte
della madre.
5.1 La confessione del delitto
La confessione spontanea e veritiera dei fatti concernenti il delitto da parte delle
madri che uccidono i loro figli dipende da molte variabili; tra queste ultime
ricordiamo le motivazioni al delitto, i processi psicologici di trasformazione
dell’immagine dell’aggressore e della vittima, le influenze esterne ai fini difensivi, le
amnesie di competenza psichiatrica.
Si tratta di una serie di variabili tra loro spesso associate, che possono riguardare
tanto la psicologia della persona “sana di mente” quanto gravi patologie psichiatriche.
La relazione con le motivazioni del delitto
Per quanto riguarda la prima variabile, e cioè le motivazioni al delitto, vi sono alcuni
casi in cui le madri che hanno ucciso il proprio figlio tendono facilmente e
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nell’immediatezza del delitto ad una confessione completa, chiara e veritiera, ed altri
casi in cui le madri non confessano, né in tempi brevi né in tempi lunghi, ma
continuano a protestare vivacemente la loro estraneità al fatto delittuoso.
Ad esempio le madri che hanno ucciso in contesti di suicidio allargato, dopo
l’uccisione del figlio, se sono sopravvissute al tentativo di uccidersi, in genere
raccontano con facilità e notevole sofferenza personale il loro progetto omicidiario, i
mezzi che hanno usato per sopprimere il figlio, le loro intenzioni future: «Ho ucciso
mio figlio ed io non sono riuscita ad uccidermi.
Appena potrò farlo mi ucciderò e così raggiungerò mio figlio, e finalmente potremo
vivere in un mondo più felice».
Le madri invece che uccidono i figli nel caso della Sindrome di Munchausen per
procura (somministrando al figlio in modo subdolo e nascosto piccole dosi di farmaci
che fungono da veleno ecc.) sono solite non confessare il loro agire criminale
nemmeno quando le prove a loro carico sono evidenti ed indiscutibili: «Non è vero
quello che dicono, è falso... non so perché i medici affermano il falso... come potrei
mai far del male al figlio che io amo?».
Le madri che uccidono i loro figli in un contesto di abuso tendono spesso a
contrabbandare il delitto come se fosse un incidente: «Mio figlio è scivolato ed ha
urtato il capo a terra, è stato un incidente... non ci sono responsabilità da parte mia...».
Infine le madri che uccidono i figli non desiderati possono frequentemente negare
con forza, almeno a breve termine, la loro responsabilità per attribuirla invece ad altre
persone:
«Si è trattato di una rapina, di una vendetta, di un assassino impunito che uccide i
bimbi ecc.».
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I processi psicologici di trasformazione dell’immagine dell’aggressore
e della vittima
Tali processi consistono nel fatto ben conosciuto che dopo qualsiasi omicidio l’autore
del delitto tende a trasformare, in modo non sempre cosciente e per una personale
difesa psicologica (differente da un’attenta e cosciente difesa mirata ai fini
processuali), la propria immagine e quella della vittima (come se la madre
raccontasse, solo per se stessa, delle pietose bugie per alleviare le proprie sofferenze).
Ad esempio la madre che uccide i figli per vendicarsi del compagno (Sindrome di
Medea) può confessare nell’immediatezza del delitto: «Ho ucciso mio figlio, così il
mio compagno impara anche lui a soffrire, ho voluto vendicarmi di lui».
Dopo un intervallo di tempo, anche solo di poche ore, può affermare: «Io non volevo
uccidere mio figlio, ero fuori di me dalla rabbia e dal rancore; quando ho gettato mio
figlio dalla finestra non mi rendevo conto di quello che stavo facendo».
In questo modo la madre cerca di trasformare l’immagine che ha di se stessa, una
madre crudele, spietata e vendicativa, in una madre disperata, ferita e sofferente:
questa seconda immagine è perla madre più accettabile e più tranquillizzante detta
precedente per poter mantenere una sufficiente autostima ed accettazione di se stessa.
Le madri che uccidono i figli perché ritenuti “figli cattivi” possono trasformare
l’immagine delta vittima, rendendola o ancora più “cattiva” o particolarmente
“buona”. In questo modo, a livello psicologico personale, la madre può trovare delle
“giustificazioni” per aver ucciso il figlio («Era un vero e proprio demonio,
irrispettoso, aggressivo, minacciava la mia vita, non potevo far altro») o cercare in
qualche modo di placare i suoi sentimenti di colpa, richiamando su se stessa una
punizione («Io sono la sola colpevole dell’uccisione di mio figlio.., mio figlio era un
angelo di bontà, sono io cattiva, l’ho ucciso senza motivo, ed ora non posso che
chiedere di essere punita per l’orrendo crimine che ho compiuto»).
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Le influenze esterne ai fini difensivi
Tra le influenze del mondo esterno, sulla confessione della madre che uccide il
proprio figlio, possiamo ricordare l’adozione di tutte le misure difensive per eludere
la giustizia o per lo meno attenuare e ridurre la pena prevista per il reato di omicidio.
Come la maggior parte delle persone che uccidono, anche la maggior parte delle
madri che uccidono, confrontate con la realtà della giustizia, cerca di uscire dal
processo con il minor danno possibile in termini di pena e d’immagine.
In quest’opera di difesa rappresentano, per la madre, fonti importanti d’informazioni
e di tecniche difensive da adottare i colloqui con gli avvocati, con i parenti, con gli
amici e le stesse notizie che provengono dai mezzi di comunicazione, quali la stampa,
la televisione ecc.
Le madri che hanno ucciso possono essere particolarmente sensibili a tutte le
informazioni utili alla loro difesa che provengono dal mondo esterno.
A volte i loro meccanismi di difesa personale, di trasformazione dell’immagine di se
stessa e della vittima, bene si associano ai mezzi di difesa psicologici che usano, ad
esempio, le persone vicine a loro, o alle modalità di difesa dei sentimenti popolari di
fronte all’incapacità di accettare che l’opera di un delitto così crudele, efferato e
apparentemente immotivato sia compiuto da una madre per lo più sana di mente”.
In questo senso meccanismi psicologici di difesa della madre, dei parenti, degli amici,
della popolazione ecc. («Una madre che uccide un figlio non può essere normale»
ecc.) possono associarsi, mescolarsi ed essere “contrabbandati” ed “avvalorati” (non
sempre con adeguatezza) da spiegazioni scientifiche.
Può trovare così spazio emotivo l‘idea che una persona sana di mente
improvvisamente impazzisca, compia il delitto e poi ritorni ad essere sana di mente.
Questa convinzione può trovare spiegazione scientifica nella presenza di
“micropsicosi” o di “infermità momentanee” (una sorta di pazzia subitanea che, come
un fulmine, interviene a ciel sereno per poi scomparire senza lasciare traccia).
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Oppure può essere invocata la presenza “dell’angelo e della bestia” (e cioè la parte
buona e cattiva) che esiste (la famosa presenza di Mr. Hyde e del Dottor Jekyll) in
ogni persona, che può trovare una giustificazione scientifica nelle “personalità
multiple” (e cioè la presenza in uno stesso soggetto di personalità assai differenti,
come una madre buona e timorosa, una madre fedele, un’amante sfrenata, una
pericolosa assassina ecc.).
Da considerare ancora l’adozione dell’idea del contagio della malattia mentale, che
può trovare anch’esso una spiegazione scientifica nella “follia a due”, “follia a tre”,
“follia a quattro” ecc. (e cioè la madre era sana di mente, ma un’altra persona le ha
trasmesso la sua follia ed allora la madre, contagiata dalla follia, ha ucciso il figlio).
È ancora possibile far leva sul problema del “non ricordo” («Non ricordo il delitto,
quindi non ero capace di intendere e di volere quando ho ucciso mio figlio»), che può
trovare una giustificazione nei numerosi casi clinici dovuti ad “amnesie per cause
patologiche”.
È ovviamente da precisare che sotto il profilo scientifico e clinico esistono tanto gli
stati di infermità temporanea, le personalità multiple, il contagio della patologia
mentale, vari tipi di amnesia patologica ecc.
Questi dati scientifici obiettivi non sono in contrasto con il possibile utilizzo, a scopo
defensionale, che ne può fare la madre che ha ucciso il proprio figlio. In questi casi
poi è da considerare con particolare attenzione il processo della “simulazione conscia
che si trasforma in simulazione inconscia”.
Nel pensiero, e pregiudizio comune, si ritiene che una persona o simula o non simula
una determinata affezione mentale.
Cioè in genere si sostiene che una persona o dica una “verità” o dica una “falsità” ben
cosciente di dire una falsità.
Nella pratica clinica invece una persona può cominciare a dire una falsità sapendo di
dire una falsità, ma poco per volta convincersi di dire la verità, e così al termine di un
lungo processo di autoconvincimento la persona diventa persuasa in modo acritico di
affermare la verità.
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In questi casi le madri che uccidono possono inizialmente utilizzare, per meccanismi
personali o per callida tecnica defensionale o per ambedue le eventualità, delle
versioni false per poi, dopo molto tempo, cadere vittima delle stesse e credere
fermamente a quanto affermato (sino a veri e propri “deliri di innocentazione”).
Le amnesie di competenza psichiatrica
Le difficoltà della rievocazione del ricordo consistono nell’osservazione che tutte le
persone hanno difficoltà a ricordare un fatto spiacevole e tribolante, ed alcune
persone in particolare, a causa di loro specifiche psicopatologie, possono presentare
una grande difficoltà se non impossibilità a ricordare dei fatti specifici della loro vita
(incapacità a ricordare prima, durante e dopo l’atto criminale; incapacità a ricordare
per qualche tempo, qualche ora, qualche mese ecc.).
La difficoltà alla rievocazione del ricordo in certe madri è facilmente comprensibile e
loro stesse sono in grado di verbalizzarlo con chiarezza: «Non fatemi parlare della
morte di mio figlio: se ne parlo, io soffro, mi sento in colpa, non mi sento un essere
umano, mi sento un mostro, non ne voglio parlare», in questi casi la madre “sa, ma
non vuole ricordare”.
In altri casi di madri che hanno ucciso il figlio compaiono, singolarmente od
associati, vari meccanismi psicologici di difesa per potersi tutelare dall’ansia,
dall’umiliazione, dai sentimenti di colpa per aver compiuto un simile efferato e
crudele delitto.
Sono esempi di questi meccanismi di difesa “la razionalizzazione” («Ho ucciso mio
figlio per non farlo più soffrire, perché sarebbe vissuto ammalato» ecc.), “le fantasie
compensatorie” («io non ho voluto uccidere mio figlio, io ben presto mi riunirò in
cielo con mio figlio ed allora insieme potremo vivere felici»), “le proiezioni”, e cioè
l’attribuzione delle proprie colpe ad altre persone («Non sono stata io a voler uccidere
mio figlio, è stato mio marito a con- vincermi, la colpa è sono sua»), “l’isolamento”
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dei sentimenti dal fatto («lo so di aver ucciso mio figlio, ma non provo più alcun
sentimento») ecc.
In altri casi i meccanismi psicologici di difesa sono usati in modo più esasperato e
totalmente fuori dalla coscienza della madre, configurando veri e propri quadri
psicopatologici concernenti patologie psichiatriche gravi in tema di alterazioni della
“normale reazione da lutto” (e cioè i processi psicologici di quando si deve affrontare
la perdita di una persona cara), o delle “amnesie patologiche” (il grande capitolo
psichiatrico che riguarda Le patologie psichiatriche che non permettono di rievocare
il ricordo).
Ad esempio il meccanismo di negazione («Mio figlio non è morto») può spingersi in
certe madri sino al punto che esse inviano dal carcere lettere e regali al proprio figlio,
che continuano a ritenere vivente, a casa, in attesa del loro ritorno dopo l’ingiusta
carcerazione (reazione da lutto delirante).
Oppure possono, in certe personalità (stati dissociativi, personalità isteriche, turbe
psicorganiche cerebrali, stati confuso-onirici, personalità borderline, disturbi posttraumatici da stress ecc.), verificarsi delle amnesie patologiche in cui la madre non è
più in grado di rievocare il fatto (come se la madre avesse cancellato, rimosso e
gettato via il fatto dalla sua coscienza, oppure non fosse più in grado di utilizzare i
meccanismi fisiologici per far tornare il ricordo allo stato di coscienza).
In conclusione, la confessione delle madri che uccidono riveste importanza non solo
ai fini dell’accertamento della verità in sede giudiziaria, ma anche e soprattutto ai fini
dell’intervento terapeutico per una più completa riabilitazione della persona, e per
evitare che questa vada incontro a rischio di suicidio o alla reiterazione del delitto.
Data l’alta complessità e variabilità nel tempo delle dinamiche psicologiche che sono
alla base della confessione, è utile, sotto questo profilo, che le madri che hanno
ucciso possano essere avvicinate il più precocemente possibile da persone esperte del
comportamento umano per una diagnosi e terapia le più adeguate possibili.
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5.2 Il comportamento della madre dopo l’uccisione del
figlio
Non è possibile tracciare uno schema di comportamento, dopo l’uccisione del figlio,
che sia valido per tutte le madri. Ogni caso clinico deve essere considerato come un
caso unico. Il percorso comportamentale seguito dalla madre figlicida dopo il delitto
può dipendere da molte variabili, tra cui la presenza e il tipo di una malattia mentale;
il rapporto con la famiglia di origine della famiglia acquisita; la capacità di
introspezione e di accettazione in relazione all’omicidio; il tipo e la qualità di vita nel
contesto penitenziario; l’accettazione e la sensibilità a trattamenti psicoterapici e
farmacoterapici ecc. Pur con dette limitazione, è possibile mettere in luce almeno
quattro fasi distinte che possono caratterizzare il comportamento della madre figlicida
dopo il delitto.
La fase immediatamente seguente all’arresto
Dopo l’arresto, le madri che hanno compiuto l’uccisione del loro figlio presentano un
alto rischio suicidario.
In particolare quelle madri depresse, sconsolate, incapaci di vivere, che hanno ucciso
il loro figlio in un contesto di suicidio allargato, possono, immediatamente dopo
l’omicidio del figlio, cercare di uccidersi con più o meno successo.
Altre volte queste madri non mettono in atto il suicidio perché, dopo aver cercato di
uccidere il figlio, cercano di salvarlo (a volte senza successo) e chiedono l’aiuto dei
genitori, dei medici, della polizia ecc. e quindi sono impedite, da queste persone
accorse, nel gesto autolesivo.
Il comportamento della madre, allorquando le motivazioni ad uccidere il figlio non
sono legate ad un piano di suicidio allargato, può manifestarsi con meccanismi di
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negazione, mancanza del ricordo, tendenza a nascondere il delitto come se fosse
compiuto da un estraneo o il figlio fosse stato rapito ecc.
Sostanzialmente la fase immediatamente dopo l’arresto rimane sempre pericolosa per
la possibilità del suicidio.
Alcune madri verbalizzano chiaramente che avevano fatto un “chiaro patto di
suicidio” con il loro bimbo e quindi si dovranno uccidere al più presto appena “sarà
possibile” essendo, al momento, sotto stretta sorveglianza.
Altre madri parlano di una “promessa vaga di uccidersi” senza precisare la
dimensione temporale, ad esempio in occasione di date ritenute importanti (la
ricorrenza della morte del bimbo ecc).
Nella fase immediatamente successiva all’arresto è da segnalare che i membri
familiari in genere prestano aiuto alle madri che hanno ucciso il figlio.
I familiari cercano spesso, in un processo velato di negazione, di attribuire la colpa dì
quanto è successo non alla madre ma a terze persone, oppure a stati temporanei di
malattia: tutto ciò allo scopo di proteggere e continuare una relazione ed un rapporto
con la madre che pur rimane autrice di un omicidio.
La fase prima della conclusione del processo
La madre prima della conclusione del processo risulta particolarmente a disagio,
tribolata, ansiosa, per almeno tre ragioni.
La prima è dovuta all’inizio della reazione di lutto verso il bimbo ucciso di cui la
madre percepisce la mancanza ed intravede, in modo più o meno chiaro, le proprie
responsabilità.
La seconda è dovuta allo stato di detenzione in prigione, con tutti i problemi legati
alla perdita della libertà, all’etichettamento attraverso i mezzi stampa, alla difficoltà a
parlare, muoversi e gestirsi in un ambiente così difficile come quello di un’istituzione
penitenziaria chiusa.
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Infine è da segnalare l’azione di turbamento a causa di tutte le procedure legali, i
colloqui col giudice, gli avvocati, le dichiarazioni ed i commenti dei mezzi di stampa
e di comunicazione ecc., che portano le madri a doversi confrontare con il delitto
appena consumato e con tutti gli stati emotivi che questo confronto solleva.
Vi sono, in questo periodo, momenti pericolosi che possono stimolare il passaggio
all’atto suicidario della madre figlicida.
Tra questi momenti pericolosi per le possibilità di suicidio della madre, possiamo
ricordare le “intrusioni emotive del ricordo del bimbo” e la “presa di coscienza
emotiva delle prove di colpevolezza”. Ogni ricordo del bimbo come le fotografie
della vittima o di altri bimbi che lo possono ricordare può sollevare profondi
problemi emotivi.
Assumono molta importanza alcune ricorrenze e festività come l’anniversario della
nascita del bimbo, il festeggia- mento del suo onomastico, le festività del Natale, la
festa della mamma ecc. Si tratta di momenti in cui è più vivo, pregnante, intrusivo il
ricordo del figlio ucciso che può sollevare problemi di colpa, desideri di punizione
che possono esitare in suicidi tentati od attuati.
Molte madri nutrono per lungo tempo dopo il delitto la speranza che non esistano
delle prove concrete per poterle accusare («Non hanno prove quindi io sono
innocente; dal carcere mi manderanno a casa chiedendomi scusa»).
Quando però le indagini si fanno più pressanti ed incisive e la madre percepisce
anche emotivamente che sarà condannata, abbandona questo “scudo protettivo” della
speranza di impunità e di assoluzione («Purtroppo hanno le prove, mi condanneranno,
dovrò trascorrere la mia vita in carcere, non ce la farò a sopravvivere in carcere. . . »).
La coscienza di essere condannata ad un destino di detenzione e di infamia può
scatenare il passaggio all’azione suicidaria.
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La fase dopo la conclusione del processo
In linea generale, le madri che hanno ucciso il proprio figlio, dopo che il processo si è
completato, vanno incontro ad una fase temporanea e molto variabile come tempo, di
apparente relativa tranquillità e riduzione dell’ansia.
In particolare viene usato, in questo periodo, il meccanismo della negazione dei fatti
per cui le madri presentano poca disponibilità ad usare l’introspezione sulla morte del
figlio, a rendersi conto della sua scomparsa definitiva dalla vita, all’accettazione della
propria responsabilità nell’aver commesso il delitto.
Le madri estendono la loro negazione sull’omicidio al non ammettere i loro sintomi
depressivi, ansiosi, i loro sentimenti di colpa e tendono con la fantasia a costruirsi un
futuro immaginario assai differente da soggetto a soggetto.
Alcune di queste madri pensano, con una fantasia sganciata dalla realtà, di tornare
presto libere all’esterno del carcere.
Altre madri, pur senza una partecipazione emotiva adeguata e profonda, si sentono
sollevate dall’ansia e dai sentimenti di colpa, a causa della pena ricevuta come se
fosse una “moneta con la quale pagano il delitto compiuto”.
Altre ancora ritengono la pena “troppo piccola e corta” perché meriterebbero, dopo
l’orrendo delitto compiuto, di “restare in prigione per l’eternità”.
Dopo questa fase di negazione irrompe il reale, e cioè il fatto che diventa sempre più
chiaro alla loro coscienza che il bimbo non c’è più, che è stato ucciso da loro e che
loro sono le uniche responsabili della morte del proprio figlio innocente. In questa
fase di contatto duro e penoso con la realtà aumentano i rischi suicidari che non
sempre sono facilmente rilevati.
Ad esempio molte di queste madri, in ambito carcerario, pur coltivando nel loro
interno desideri suicidari, in realtà manifestano nella vita organizzata, stereotipata e
.rigida del carcere, un buon adattamento mostrandosi attente, riguardose, premurose,
curando l’igiene personale, partecipando alla vita sociale e mascherando la loro
depressione, la loro ansia e le loro intenzioni suicidarie.
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Un comportamento “troppo tranquillo”, “troppo normale”, “troppo poco ansioso” in
questi periodi immediatamente dopo il processo, da parte delle madri figlicide, non
può che essere attentamente vagliato ed approfondito in ragione di un possibile
rischio suicidario.
La fase del reinserimento sociale è assai varia, come del resto le fasi precedenti, a
seconda del caso clinico.
Nella madre che ha ucciso il figlio, non è ad esempio raro incominciare ad assistere a
dei meccanismi psicologici di riparazione, attraverso il desiderio di avere un altro
figlio e di badare a lui con grande affetto.
Questo desiderio di riparare il delitto compiuto, soprattutto nei casi di infanticidio,
può farsi luce anche a distanza di anni allorquando la madre riesce a trovare una
relazione affettiva stabile con un nuovo compagno.
Questo desiderio di riparare può essere un segnale terapeutico di un adattamento
creativo alla penosa situazione che in passato si era verificata. Il desiderio della
madre figlicida di avere un altro figlio deve essere attentamente valutato dai terapeuti
perché può nascondere la possibilità di una recidiva e cioè l’uccisione di un altro
figlio.
Fare una previsione su questa tipologia di madre non è sempre facile e pone ansia e
inquietudine presso tutti gli operatori della salute mentale che sono responsabili della
terapia della madre figlicida.
È infatti in questi casi da valutare molto attentamente che le dinamiche che hanno
portato al primo caso di figlicidio si siano esaurite, siano state adeguatamente oggetto
di terapia e non siano ancora presenti e possano determinare una recidiva.
Esistono infatti madri che uccidono un figlio ed a distanza di tempo un altro figlio.
Nella fase di reinserimento sociale i membri della famiglia, che di solito nella fase
immediatamente successiva all’arresto erano attenti, partecipanti e collaboranti,
possono mutare atteggiamento e diventare diffidenti, sospettosi, ostili verso la madre
che ha ucciso il figlio. In questo senso il marito e gli altri figli possono presentare
difficoltà ad accettare al proprio domicilio la madre figlicida.
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Inoltre al momento del reinserimento sociale, possono verificarsi, soprattutto in madri
che avevano già precedenti psichiatrici, degli scompensi di tipo psicotico, cioè
aggravamenti acuti della sintomatologia psicotica (con deliri, allucinazioni, stati di
eccitamento maniacale, stati dissociativi ecc.) che debbono essere sempre
attentamente valutati ed oggetto di continuo monitoraggio da parte degli operatori
della salute mentale che seguono terapeuticamente la paziente.
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CAPITOLO 6
Comunicazione e silenzi nella relazione
madre-bambino
Molte delle ipotesi che tentano di spiegare le motivazioni di un gesto cosi
drammatico come l'abbandono o l'omicidio del proprio figlio sembrano legate a
ragioni socio- economiche e/o a stati depressivi e/o a patologie psichiatriche.
Ma la causa che spinge una donna ad un tale gesto non può essere singola e
semplicemente associabile all'evento.
La motivazione di un dramma cosi innaturale é da ricondurre ad una sequenza esatta
di situazioni che hanno come evento conclusivo la negazione della gravidanza.
Nei colloqui con donne che hanno commesso un infanticidio o violenze verso il
proprio figlio, si evidenzia che esse prendono coscienza e letteralmente "scoprono" la
propria gravidanza tra il quinto e il nono mese proprio a causa del rifiuto del proprio
stato; il non riconoscimento della gravidanza però non é dovuto solo a fattori socioeconomici, molto spesso siamo in presenza di donne che hanno subito abusi (sessuali,
fisici, psicologici) durante l'infanzia, oppure donne il cui concepimento é spesso la
conseguenza di uno stupro.
Sono donne che nella quasi totalità si trovano in situazioni di emarginazione,
abbandono e solitudine.
Molte missioni umanitarie m Croazia e in Ruanda, tra il 1993 e il 1995, con il
compito di formare gli operatori che accolgono donne incinte vittime di stupri di
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guerra, hanno confermato nelle donne che hanno perso i riferimenti familiari e che
hanno subito violenza durante i periodi bellici, la negazione della gravidanza, il
manifestarsi di comportamenti dissimulatori, la ricerca dell'anonimato, l'infanticidio,
l'abbandono, ecc.
Nel 1996, a Parigi é stata aperta un'unità di cura per prevenire la violenza e l’incuria
prenatale.
Sono state ascoltate donne responsabili di incurie, abbandoni o di violenze e i due
terzi hanno confermato la negazione della gravidanza, la dissimulazione delle loro
condizioni, fantasie infanticide, infanticidi e abbandoni per strada.
Il processo di questo dramma si può quindi riassumere in un percorso che vede
l'intrecciarsi di fenomeni quali la violenza, l'isolamento e la negazione della
gravidanza.
Tale percorso può concludersi con l'atto estremo dell'infanticidio.
La negazione della gravidanza é vista come un grave sintomo psichiatrico che espone
la donna ed il feto a rischi di complicanze, parto precipitoso e non assistito, mancanza
di cure prenatali, disturbi emotivi nel post partum.
La scoperta della gravidanza, da parte delle donne, può avvenire accidentalmente
prima del parto, le reazioni a tale scoperta sono diverse, possono esserci casi di
pazienti psicotiche che mostrano un acuirsi dei sintomi con allucinazioni, altre
evidenziano ansia o sintomi depressivi.
Quando poi la rivelazione avviene al momento del parto, si hanno momenti di grave
sconcerto.
E' difficile pensare che un atto criminoso possa spezzare il legame fondante ogni
rapporto interpersonale ed è importante quindi chiedersi se, effettivamente. i rapporti
più intimi siano legati all'istinto come ritiene il senso comune e parte non irrilevante
della letteratura giuridica.
L'attaccamento tra madre e figlio sembrerebbe essere il legame affettivo che più si
radica nella matrice biologica degli umani.
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Sappiamo però anche che cultura e necessità economiche spesso
prevalgono
sull'istinto biologico, a dimostrazione di ciò si possono notare i comportamenti
maggiormente in uso nelle culture occidentali riguardo alle pratiche ostetriche di
conduzione del parto, il ritmo delle poppate e il contatto fisico con il bambino che
non sono in linea con le esigenze biologiche; ciò dimostra che gli imperativi sociali
hanno prevalso sul biologico.
Per il bambino però il contatto fisico é rassicurante, da questo infatti derivano due
conseguenze:
- é nell'interesse del bambino evitare gli individui non familiari.
La paura dell'estraneo, che nella nostra specie compare con la capacità di movimento
indipendente, é quindi un tratto che favorisce la sopravvivenza;
- se gli estranei sono potenzialmente pericolosi, la formazione di uno stretto legame
con la madre sarebbe evoluzionisticamente favorevole;
Questo spiega comportamenti, come il gioco e il sorriso tra madre e bambino, che
apparentemente non sembrerebbero utili, ma sono inclinazioni universali e
contribuiscono al rafforzamento delle relazioni, molte madri infatti dichiarano di
iniziare a sentire il neonato come una "vera persona" solo quando comincia a
sorridere.
Il fascino dell'essere vivente appena nato, piccolo, delicato,
dalle forme
rotondeggianti, morbido al tatto, ispira sentimenti di amore e tenerezza, desideri di
protezione e di accudimento nell'essere umano.
Il bambino alla nascita possiede infatti delle caratteristiche anatomiche (testa grossa,
fronte prominente, occhi grandi collocati più in basso rispetto all'adulto, guance tonde
e movimenti non coordinati) che forniscono al genitore e agli adulti in generale gli
stimoli per prendersi cura di lui.
Tra questi il sorriso sembra avere la funzione principale di suscitare una risposta
affettiva da parte della madre o dell’adulto che si occupa di lui, dando cosi inizio ad
una relazione.
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Non è quindi la nascita biologica a determinare la relazione, ma essa è data dal
riconoscimento reciproco dell’esistenza del rapporto.
L’esperienza fisiologica, quindi, a differenza della competenza comunicativa, non
stabilisce il legame di attaccamento.
Il primo processo di comunicazione e compartecipazione affettiva avviene con i1
riconoscimento e 1’accoglimento della gravidanza da parte della donna.
Nel momento in cui si verificano crimini, come l’infanticidio, si pensa
immediatamente alla naturalità della religione madre-figlio e si cerca nella psicologia
un'interpretazione che possa spiegare il senso di questa azione cosi sconvolgente.
Questo senso quasi sempre viene rintracciato nella patologia individuale.
Nel passato si indicava, infatti, una tipologia ben precisa di donna infanticida ovvero
la nubile, povera, non scolarizzata, tuttora i dati più salienti richiamano alla
marginalità e alle scarse opportunità socio-economiche e culturali.
Oggi la fascia più a rischio della popolazione è quella costituita dalle donne
immigrate. che magari temono di entrare in contatto con le istituzioni perché non in
regola col permesso di soggiorno, per il timore di perdere il posto di lavoro o ancora
per altri motivi legati allo sfruttamento e alla prostituzione.
Ciò che voglio sottolineare è che solo una minima parte di donne che commettono un
delitto nei confronti del loro figlio è affetta esclusivamente da malattia mentale, in
questi casi la patologia può essere legata a fenomeni depressivi ma si possono
rilevare anche forme di paranoia e di disturbi della personalità.
Il disagio psichico però, non deve mai essere considerato in modo isolato ma sempre
in relazione ad uno stato di deprivazione ambientale profonda che la donna vive in
quel momento e che pur essendo presente spesso non viene colto da chi le sta
accanto.
La cronaca inoltre ci offre numerosi casi di abbandono ed infanticidio che maturano
in ambienti definiti dall’immaginario comune "socialmente sani”, in cui sono presenti
donne dall’apparente vita regolare, capaci di esprimere i propri sentimenti, di
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evidenziare una spiritualità religiosa e con un percorso autobiografico costellato da
soddisfazioni personali.
6.1 Il silenzio nella gravidanza
II silenzio è l’elemento che in forme diverse ritorna in questo tipo di delitto, è un
silenzio assoluto che impedisce alla futura madre di ammettere anche a se stessa la
gravidanza, manifestazione plateale di una relazione sconveniente, o nel caso delle
coniugate povere, una situazione impossibile da far convivere con quella esistente,
già ai limiti della sopravvivenza.
Questo silenzio non viene rotto nemmeno dai familiari o dalle figure vicine alla
donna nei momenti in cui si può trovare una soluzione meno distruttiva, ma non si
interrompe neanche al momento del parto e dilaga fino a soffocare la voce del
bambino.
Le prime parole che in questi casi vengono pronunciate sono quelle della prassi
giuridica, infatti, il processo è l'unica occasione in cui le imputate cercano di prendere
coscienza di se stesse e delle loro azioni, azioni che nel delitto hanno sostituito le
parole e l'elaborazione consapevole.
Per queste donne il passaggio all’atto viene vissuto come 1’unica possibile via di
uscita da una situazione ritenuta intollerabile.
Il silenzio sociale sulla colpa precede e riconferma il silenzio estremo prodotto dalla
madre infanticida.
Le infanticide riescono a mascherare cosi bene l'evento perché lo nascondono anche a
sé stesse, inoltre non essendoci stato nessun tipo di investimento affettivo é come se il
bambino non esistesse.
In molte occasioni gli stessi familiari dichiarano di non essersi accorti che la ragazza
era incinta, rivelando sia un ridotto investimento affettivo nei suoi riguardi o
comunque una scarsa attenzione verso di lei, sia una sorta di connivenza con l'obbligo
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di tacere che si è data. Le famiglie in questo senso partecipano all'infanticidio, a
livello simbolico sempre, a livello di azione solo in alcuni casi.
Il reato quindi non può strettamente definirsi come un atto riguardante
la
responsabilità di una singola persona, ma piuttosto come un crimine di situazione.
Essere madre, oggi, ha perso la sua naturale ovvietà e si propone come un inquietante
interrogativo.
La valorizzazione del femminile a livello di società e di cultura e la percezione dello
scarso valore attribuito alla riproduzione fa si che non esistano rappresentazioni
sociali forti della maternità che facciano da esse ereditario in modo da strutturare
questa esperienza nel tempo e da consolidarla nel corso della vita.
Fa scalpore il caso di donne per lo più giovanissime che partoriscono, a loro dire, un
bambino che non si erano accorte di attendere.
In questo caso il parto non é stato preceduto da nessuna gestazione, si tratta in genere
di ragazze ancora dipendenti dai genitori, per le quali la gravidanza costituisce un
avvenimento indesiderato e pericoloso, un trauma inaffrontabile.
Scatta allora una rimozione che riguarda soprattutto i mutamenti esterni, perché quelli
interni rimangono inavvertiti da molte donne, senza che per questo ignorino ciò che
sta loro accadendo.
Basta un sovrappiù di rimozione perché il processo vitale della gestazione resti
sconosciuto, isolato.
Tuttavia il reato deve essere inserito in una particolare situazione, senza la quale
probabilmente si sarebbero potute trovare altre soluzioni per sé e per il bambino, ma
questa condizione di fragilità porta a tradurre l'impulso distruttivo in un atto violento
piuttosto che elaborarlo.
Le madri che abbandonano i loro neonati sono donne disperate che spesso non
sanno di avere un'alternativa, sono donne che non hanno nessuna possibilità di
prendersi cura della loro creatura a causa degli aspetti sociali, sanitari e psicologici
nelle quali sono coinvolte.
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Spesso arrivano in pronto soccorso a causa di emorragie o per la comparsa
di complicanze durante il travaglio che permettono alle strutture sanitarie di
rilevare il problema e di salvare il neonato.
Queste donne generalmente condividono un disagio sociale ed economico
pesantissimo. In un anno é difficile quantificare il numero dei casi di abbandono
anche per il grande sommerso alla base del fenomeno ma da varie statistiche si evince
che il 50% di questi neonati abbandonati muore quasi subito, soltanto uno su dieci
viene ritrovato e una volta su tre la madre, per commettere il gesto, ha un complice.
Una donna diventa madre solo riconoscendo il proprio bambino, non operare questa
presa in carico nella realtà comporta diverse conseguenze, di cui l'infanticidio é
quella estrema, a cui seguono l'abbandono, il rifiuto nella vita quotidiana, oppure
inversamente, un atteggiamento iper-protettivo che nega al bambino un'esistenza
separata dalla madre.
Il non riconoscimento del figlio nella gravidanza é una sorta di "aborto psichico" per
cui viene espulso e distrutto qualcosa a cui la madre non riesce ad attribuire lo status
di neonato. L'uccisione come passaggio all'atto é l'esito del suo mutismo estremo.
Il silenzio é quindi un tratto delle infanticide contemporanee che si rintraccia anche in
contesti situazionali di epoche diverse.
Sulla scena del parto si gioca poi un'invisibile conflittualità psichica dovuta
all'incontro-scontro
tra
il
bambino
immaginario
presente
fin
dall'infanzia
nell'inconscio della bambina e il figlio reale che viene visto come un rivale.
Il bambino reale viene quindi sempre pensato come quello immaginario e al
momento del parto la madre cerca in ogni modo di far coincidere le due figure filiali
plasmando il bambino vero a immagine e somiglianza dell'altro e disinvestendo
affettivamente in quello immaginario.
Se si instaura un rapporto positivo sarà poi il neonato a conquistare la madre,
aiutandola ad uscire da una situazione che potrebbe essere fatale per entrambi, poiché
l’esperienza del parto porta con sé fantasmi di annientamento e di morte.
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La coralità con cui veniva vissuto tradizionalmente il momento del parto offriva
un contenitore rituale e simbolico alle ansie e consentiva l'elaborazione degli
aspetti inquietanti.
Con la sua medicalizzazione, invece, qualsiasi aspetto simbolico rituale è scomparso,
e la nuova rete di sostegno per le partorienti (costituita da medici, infermieri ed
ostetriche) non offre calore e protezione a livello umano sufficienti.
Mentre nel passato il parto era molto rischioso sia per le donne che per i nascituri,
oggi partorire è un lieto evento, ma prendersi cura dei bambini che crescono è assai
più complicato di prima, la responsabilità materna verso anche un solo figlio oggi è
di fatto assai ampliata, è richiesta e pretesa, inesauribile; il carico della maternità in
questa situazione può diventare insostenibile per una donna.
In passato l'esperienza assai diffusa della morte puerperale e neonatale rendeva
evidente a tutti che rischio, sofferenza e fatica accompagnano il divenire madre, oggi
questa esperienza viene rappresentata in modo artificiosamente roseo negando questi
rischi e rendendoli inimmaginabili anche ai familiari più stretti.
In questo modo le inadeguatezze vengono vissute in modo colpevole ed inaccettabile,
molte madri pur di fronte a normali situazioni di difficoltà e fragilità si sentono e
sono più sole di prima.
Nelle infanticide di oggi e di ieri oltre allo stato di deprivazione sociale si deve
aggiungere uno stato di deprivazione affettiva, relazione che é alla. base del rapporto
madre-figlio; questa mancanza affettiva impedisce alla donna di sviluppare una
coscienza di sé come individuo autonomo, e quindi la possibilità di far emergere le
proprie sensazioni e i propri bisogni e a richiedere l'aiuto in caso di difficoltà.
Gli studi svolti sulle famiglie maltrattanti sono una dimostrazione chiarissima di
come l’esperienza dell'infanzia svolga un ruolo importantissimo nel determinare,
negli anni successivi il modo in cui il genitore tratterà suo figlio; molto spesso,
infatti, i genitori maltrattanti sono stati a loro volta vittime durante l'infanzia.
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Dato che la carenza affettiva e di cure da parte dei genitori compare in quasi
tutte le storie che si
ricavano dalle sentenze giuridiche, possiamo
dunque
considerare l'infanticidio una forma estrema di maltrattamento infantile.
Solo se si è riusciti a creare un legame solido con i propri genitori sarà possibile far
fronte alle difficoltà ed essere capaci di attivare aiuto nel momento del bisogno.
Da questo punto di vista la frequenza scolastica sembra essere fondamentale perché
oltre alla mancanza d'istruzione, comporta l'impossibilità di confrontarsi con figure
adulte di riferimento diverse che possono costituire un aiuto per apprendere relazioni
positive o comunque intervenire, facendo da primo filtro, per l’individuazione dei
disturbi che necessitano di un intervento più specifico.
La paura dell'individuo è di non essere accettato ed amato da chi gli sta intorno e
questo porta le infanticide a pensare che l'unico modo per non essere emarginate sia
eliminare il "sintomo scomodo", quello che loro non riescono a chiamare bambino.
Dietro ad ogni infanticidio si legge un disagio femminile profondo, è innegabile però
che le condizioni in cui le donne oggi possono vivere la maternità siano, almeno nella
nostra società, assai migliorate rispetto al passato, su tanti livelli.
I delitti degli ultimi tempi però ci impongono di vedere che, anche fuori dalle
condizioni di svantaggio riconosciute dai codici (l'illegittimità, la miseria,
l'abbandono e la solitudine) e malgrado la protezione accordata dalla legge, una
madre riesce ancora ad abbandonare o uccidere il proprio bambino.
Anche nella normalità familiare le tragedie vengono covate ed esplodono.
Il fatto che questi omicidi maturino in ambienti che tutti definiscono "normali" genera
una condizione di "sorpresa" perché il mostruoso, l'abominevole, non diviene
esclusivo appannaggio dell'insanità mentale o della deprivazione economica.
Ciò comporta che, dopo il delitto, il comportamento della donna, giudicato fino a
quel momento normale o ammirevole, assuma un carattere inquietante, per questo
uno dei motivi legati alla ridotta severità della pena è ricercato nelle particolari
condizioni culturali, sodali ed economiche in cui la donna viene a trovarsi, con tutto
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ISTITUTO MEME S.R.L. - MODENA ASSOCIATO UNIVERSITÉ EUROPÉENNE JEAN MONNET A.I.S.B.L. BRUXELLES
MARIA PAOLA RAPAGNANI – SST IN SCIENZE CRIMINOLOGICHE - TERZO ANNO A.A. 2007 - 2008
ciò che ne consegue rispetto all'illegittimità dell'atto, in un contesto di massicce
pressioni, consce ed inconsce, e forti condizionamenti sociali.
Negli anni settanta nasce il modello di donna autonoma che non ha bisogno di aiuto e
che porta alla luce l’immagine della madre "positiva", sempre in grado di affrontare
le difficoltà, di agire in base alle proprie scelte, insomma una sorta di “wonder
woman”, come la definisce la storica Patrizia Guarnieri.
E’ un modello questo che oggi ci ha intrappolate e che non riconosce alla donna il
bisogno psicologico di essere aiutata e sostenuta nelle fasi critiche della vita.
Questa immagine di donna affermata, autonoma, libera e consapevole ha portato
giustificare la scarsa partecipazione dell’uomo davanti al disagio coniugale e
materno.
Il mancato riconoscimento maschile del malessere lo incontriamo spesso nelle
tragedie familiari della madre che uccide il proprio bambino senza che il padremarito si accorga di nulla. Queste tragedie sono quindi spesso legate alle difficoltà
materne non viste, al bisogno di aiuto non percepito, non solo nelle situazioni di
degrado, ma anche in quelle di assoluta normalità.
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ISTITUTO MEME S.R.L. - MODENA ASSOCIATO UNIVERSITÉ EUROPÉENNE JEAN MONNET A.I.S.B.L. BRUXELLES
MARIA PAOLA RAPAGNANI – SST IN SCIENZE CRIMINOLOGICHE - TERZO ANNO A.A. 2007 - 2008
CAPITOLO 7
Le madri di Castiglione delle Stiviere:
il buio della mente
7.1 La storia di M. P.: la messinscena
Nata il 29/06/1976, coniugata, commessa panettiera vicino Milano. Accusata di
omicidio del figlio di 5 mesi Mirko e di simulazione di reato.
Il fatto è avvenuto il 18/05/2005; entra in Ospedale Psichiatrico Giudiziario il
2/06/2005.
Il suocero la mattina della tragedia aveva trovato la porta di casa del figlio aperta.
Entrando aveva trovato tutto a soqquadro e non riusciva a trovare né la nuora, né il
nipotino. Avverte immediatamente il figlio che si trovava al lavoro, il quale
precipitatosi a casa trova la porta del bagno chiusa a chiave e dopo averla sfondata si
trova davanti una scena agghiacciante: la moglie M. è svenuta in terra, legata mani e
piedi con nastro da pacchi ed con del nastro anche sulla bocca.
Il figlioletto di 5 mesi, Mirko, giace a faccia in giù nella vaschetta da bagno, morto.
La donna, una volta rinvenutasi, disperata, racconterà che quella mattina mentre stava
preparando il bagnetto per il bambino ha sentito dei passi: improvvisamente qualcuno
l’ha afferrata alle spalle e trascinata fuori dal bagno, nel fare questo lei ha lasciato
cadere il bambino nella vaschetta piena d’acqua.
Racconta, inoltre, di aver gridato, implorato di salvare il bambino che stava
annegando, ma questa persona l’ha legata con del nastro adesivo e rinchiusa a chiave
nel bagno.
Una storia drammatica, perfetta per un giallo, per gettare nel panico ogni mamma
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ISTITUTO MEME S.R.L. - MODENA ASSOCIATO UNIVERSITÉ EUROPÉENNE JEAN MONNET A.I.S.B.L. BRUXELLES
MARIA PAOLA RAPAGNANI – SST IN SCIENZE CRIMINOLOGICHE - TERZO ANNO A.A. 2007 - 2008
sola in casa con il proprio figlioletto.
Nel paese scoppia la caccia all’uomo: sicuramente era un balordo in cerca di soldi.
Il marito giura che quando lo troverà si farà giustizia da solo: odia la persona che ha
distrutto la sua famiglia felice.
Gli inquirenti intuiscono immediatamente che c’erano delle falle ed incongruenze nel
racconto della donna. Innanzitutto era legata con le mani sul davanti ed in modo poco
preciso, quindi poteva benissimo liberarsi dal nastro adesivo per salvare il bambino,
non sono state rilevate tracce di persone estranee, la perizia medico-legale sulla
donna ha rilevato solo escoriazioni di lieve entità a scopo di simulazione di una
colluttazione, infine la prova schiacciante: la saliva sul nastro adesivo era di M.
Il 25 maggio la donna crolla e confessa l’omicidio del piccolo Mirko, suo figlio ed è
una confessione atroce dinanzi ai magistrati di Lecco: racconta, nella più totale
disperazione, che quella mattina aveva preparato il bagnetto al figlio e di averlo
lasciato nella vaschetta allontanandosi. Ritornata si era accorta che il bambino era
morto ed ha inscenato l’aggressione.
Ha detto: “… ho sclerato, non ho capito più niente, allora ho inscenato la
messinscena per giustificarmi con i miei, con mio marito….mi sono rivista fare
questo: mi sono vista come in un film mettere la testa del bambino sott’acqua e
tenerla giù…”.
Nonostante la tragedia il marito l’ha perdonata, cercando di capirla e di non
abbandonarla mai.
Secondo la psicologa dell’Ospedale Psichiatrico la paziente dichiarava da aver
incontrato grandi difficoltà ad accettare i cambiamenti della sua vita dopo la nascita
del bambino, dato che si recava due volte a settimana a Milano per fare delle
comparse in programmi televisivi: il bambino aveva minato la sua libertà, la stava
facendo ingrassare, odiava il bambino.
Cade in depressione post-partum, infatti a marzo si rivolge ad un medico che
prescrive degli antidepressivi, ma che lei assume solo per poco tempo.
Ma lei diceva: “ non sono capace…ho paura di non essere capace…”.
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La perizia psichiatrica dice che: la donna afferma di aver avuto “una cattiva mamma”
che non le aveva dato affetto e calore.
L’adolescenza ed il matrimonio sono stati momenti bellissimi e quando aveva saputo
di essere incinta era al settimo cielo e avevano fatto una grande festa in famiglia.
La gravidanza procede in maniera tranquilla, quasi come in un sogno.
Tutti si prendono cura di lei, si preoccupano e la fanno sentire al centro
dell’attenzione.
Il parto segna lo spartiacque: da questo momento inizia un forte senso di incapacità,
dolore, sofferenza.
E’ una donna-bambina che non ha mai sperimentato le cure materne e l’accudimento.
Si sente stanca, inadeguata e non trova aiuto in nessuno.
Emerge da questo quadro una personalità immatura, dipendente, insicura,
impreparata ad affrontare il compito di essere madre, attribuibile al difficile rapporto
avuto con la propria madre. La gravidanza era stata una bella favola che sfocia nel
dramma del parto e nella depressione, che non è né psicotica, né maggiore (criteri
DSM-IV-TR).
Non riusciva a far fronte ai compiti materni: “...era un compito troppo grande per me,
la testa mi diceva non sarai mai una brava mamma…”.
Non emerge una psicopatologia delirante: la paziente è adeguata dopo la nascita del
bambino, accudisce lui e la casa, ha una progettualità futura tanto che due giorni
prima dell’omicidio va a comprare il vestitino per il Battesimo; non ha
compromissione dello stato di coscienza e dopo il delitto pensa alla SUA salvezza e
NON ad UCCIDERSI: infatti aveva paura che tornasse il marito e che vedesse quello
che aveva fatto, in un vissuto e paure infantili.
Tutto si può ricondurre ad un drammatico stato emotivo di poche ore, essendo in
grado di intendere e di volere al momento del fatto, da qui la lucida determinazione
di ingannare i familiari per salvarsi. Forse nessuno aveva capito, forse nessuno
aveva voluto vedere, forse nessuno pensava che si arrivasse a questo, né familiari, né
medici, né lei stessa, ma è successo e nessuno riesca a capire il perché.
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7.2 La storia di C. R .: il buio della mente
Nata a Chermes il 1/06/1966, coniugata, tre figli di 7, 4 e 2 anni, cameriera con
licenza media inferiore. Accusata di aver ucciso il figlio di 4 anni Julian (art. 206
c.p.) delitto cui agli artt. 575, 577, n°1 e 61 n° 5, per aver colpito 11 volte il figlio con
un coltello da cucina al collo e al torace, con le aggravanti di aver commesso il fatto
contro il figlio ed approfittando di minore forza fisica e della minore età della persona
offesa, il 9/09/2005.
Ammessa all’OPG di Castiglione delle Stiviere il 18/09/2006: all’ingresso la diagnosi
è stata “depressione maggiore grave con sintomi psicotici”.
Quella mattina alle 9.30 arrivano due telefonate al 118 in una sequenza da brivido.
Nella prima una donna grida: “venite, ho ucciso il mio bambino!”; nella seconda,
disperata: “fate presto!”.
All’arrivo il medico del 118 può solo constatare il decesso del bambino, colpito al
collo e all’addome da diverse, profonde coltellate.
Gli operatori di Polizia trovano la madre accasciata su una sedia, incapace di parlare.
Il fratellino più grande sul divano scioccato, il più piccolo giocava in camera.
La donna dice solo: “ l’ho ucciso io”, indicando due coltelli insanguinati nel
lavandino.
Viene trasportata in stato confusionale nel commissariato di Merano, pur ammettendo
l’omicidio.
Agli inquirenti disse che quel giorno il bambino gli aveva risposto male, l’aveva
offesa ed una voce le aveva detto “UCCIDILO” ed ha obbedito.
Al commissariato disse: “non so perché l’ho fatto, ho avuto un black out, sono
diverse notti che non dormo”.
Non ha accettato tranquillanti, diceva di sentirsi bene, ma dopo otto ore di
interrogatorio ad un tratto apre la finestra e si getta nel vuoto, davanti agli occhi
increduli degli assistenti e dei medici che non sono riusciti a fermarla.
Un volo di sette metri per cancellare un rimorso; riporta un politrauma gravissimo
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che la mettono in serio pericolo di vita, ma si salva: vive immobile per mesi, ma poi
ricomincia a camminare.
Il marito riferisce che la moglie soffriva di depressione da circa un anno, da quando
era morta la madre a cui era molto legata.
L’aveva vista morire sotto i suoi occhi, stramazzando al suolo in terra e lo shock era
stato fortissimo.
Stava prendendo dei farmaci per la depressione e per una diagnosi di schizofrenia
effettuato al Pronto Soccorso di Merano e non aveva mai dato segni di aggressività
nei confronti dei figli che diceva di amare tantissimo.
La perizia psichiatrica la dichiarerà incapace di intendere e di volere al momento del
fatto e pericolosa socialmente, dato che aveva programmato di uccidere tutti e tre i
suoi figli.
La paziente raccontò che i tre figli erano posseduti dal demonio, da Satana, erano
sempre agitati, distruggevano tutto. Quel giorno avevano distrutto il lampadario, la
libreria, in particolare Julian aveva bruciato il pane, che il fratello più grande lo aveva
inciso con un coltello, che Julian aveva fatto a metà tutti i fichi, che gli piacevano
solo cose rosse, nere o scure, che lei si era guardata allo specchio ed aveva la lingua
nera.
A quel punto aveva sentito la voce della madre morta che le aveva detto di uccidere il
figlio, perché non voleva che diventasse un assassino e che nel momento che in cui
l’aveva colpito gemeva come se dal suo corpo stesse uscendo un demone.
La diagnosi è stata di “psicosi schizofrenico-depressiva delirante a sfondo misticodemoniaco, con allucinazioni uditive e fenomeni di derealizzazione”.
L’unica possibilità di salvare il bambino dal male era quello di ucciderlo: non c’era
alternativa nella mente della donna, in quel mondo popolato di demoni e di dolore, in
quel momento così vivido.
Disse: “ho ucciso mio figlio perché in lui vedevo il demonio, poi ho sentito la
mamma che mi chiamava, così mi sono buttata dalla finestra. Prego sempre mia
madre perché aiuti il mio bambino, ma non me perché non me lo merito”.
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Il marito non l’ha perdonata, la chiama assassina e non crede ai suoi deliri: è convinto
che sia frutto della sua fantasia.
Nessuno aveva mai pensato che potesse accadere tutto questo, che potesse far del
male ai quei figli che lei amava tanto.
7.3 La storia di R. S.: l’incidente
Nata in Francia il 3/06/1965. Licenza superiore di ragioneria, viveva a Torino. Entra
in OPG il 7/5/2005 accusata di aver ucciso la figlia di 4 anni Nausicaa il 1/12/2004.
A 30 anni soffre di una profonda depressione per la morte della madre per un cancro
ai polmoni: “quando tornavo a casa sapevo che l’avrei trovata a letto con il suo
dolore”. Assume dei farmaci e va da uno psicologo.
Dopo qualche tempo si sente meglio, fa un lavoro che le piace e a 32 anni conosce il
marito con il quale è felice fino al momento della nascita della figlia, quando si
trasferiscono in un paese poco fuori Torino.
Per R. è un colpo: una distanza troppo grande dalla città, un vuoto incolmabile.
Continua ad assumere farmaci antidepressivi, ma la situazione sembra sotto controllo.
Ad un anno iscrive la bambina all’asilo nido per tornare a lavorare in ufficio: lei
viveva quelle ore lontane dalla figlia come lunghissime, angoscianti.
Giorno, dopo giorno quel tragitto per il lavoro dovendo lasciare la figlia a scuola
diventano un ossessione. Aveva implorato il marito di ritornare in città per poter
stare più vicino alla figlia, perché ormai non riesce più a colmare quel vuoto
immenso, è disposta anche a lasciare il marito, che sente ostile e distaccato.
Ritorna la depressione: dal 2002 era in cura per psicosi ansioso-depressiva, i rapporti
con i familiari e il marito diventano sempre più distanti, nella mente di R. tutti sono
contro di lei.
Già nel 1999 c’erano state avvisaglie di una sintomatologia grave: vide un piccione
morto sul balcone di casa e pensò che fosse un avvertimento della mafia, dato che il
marito aveva la passione per gli aerei pensò che fosse una spia.
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Nel 2003 insorgono spunti deliranti di persecuzione, aveva il terrore che il marito
potesse rapire la figlia, con ruminazioni pseudo-ossessive di tipo paranoideo: la
diagnosi della perizia psichiatrica fu di “disturbo schizoaffettivo di tipo depressivo
con sintomi psicotici”: incapace di intendere e di volere al momento del fatto e
pericolosa socialmente.
La paziente racconta durante l’interrogatorio il 12/12/2005 che il giorno prima della
tragedia stava facendo il bagnetto alla bambina e ad un tratto avrebbe detto:
“mamma, mi brucia tanto la patatina”. Lei le mette del Tantum Rosa e la bambina le
diceva: “un po’ più in qua, mi guidava la mano e poi sospirava gemendo.
Mi si è bloccato il respiro. Allora ho chiesto alla bambina perché gemesse e lei mi ha
risposto perché sono venuta. Ho capito che qualcuno l’aveva violentata, le avevano
fatto del male.
La bambina mi diceva che era andata al parco giochi con le sue gemelle e che
avevano attraversato al tunnel. Ero sicura che le avessero fatto del male!”.
E’ questa l’intuizione delirante che permea in quel momento tutta l’esistenza di R.
Riferisce che quella sera aveva cercato di parlare con il marito, ma lui non l’aveva
ascoltata: così aveva capito che era in atto un complotto tra il marito e i suoi dirigenti
del lavoro per portarle via la bambina: non poteva fidarsi di lui. Tutto era chiaro.
Quella notte non ha dormito, tenne la bambina stretta a sé nel lettone, come una parte
non scindibile da sé. Era giunta ad una conclusione: “ti porterò con me, non ti lascerò
mai sola”. Il giorno dopo c’era lo sciopero dei treni, quindi non si è recata al lavoro e
la bambina non voleva andare a scuola. Non poteva mandarla a scuola dove c’erano i
suoi violentatori, dove l’avrebbero rapita e portata lontano da lei.
Disse al marito che l’avrebbe accompagnata lei a scuola, ma non fu così: “ero sicura
che le avrebbero fatto del male, che l’avrebbero violentata, che l’avrebbero rapita
così ho preso un coltello e l’ho uccisa.
Poi volevo uccidermi, non volevo sopravvivere, mi dispiace di essere viva”.
Emergono dal racconto alterazioni formali del pensiero con deragliamento dei nessi
associativi.
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Tornando a casa il marito trova la bambina morta con 5 coltellata e la moglie in un
lago di sangue, ma viva: si era accoltellata al torace e tagliata i polsi.
Rimase un mese ricoverata in chirurgia toracica.
Ritorna al senso di realtà molto lentamente, accompagnata dagli psichiatri e dalle
cure farmacologiche. Le condizioni psichiche della donna erano molto critiche.
Ora dice: “non so se riuscirò a perdonarmi…i medici mi dicono che la mia bambina è
un angelo che mi guarda da lassù…ma quando l’ho fatto non avevo scelta”.
Il marito l’ha perdonata, ma non vuole più vederla: non vuole una spiegazione, dice
che il Signore a volte dà e a volte toglie, è molto religioso e trova conforto nella fede.
Si poteva fare di più per R. e la sua bambina?
7.4 La storia di O. C.: la Sindrome di Medea
Coniugata, licenza media inferiore. Accusata di aver annegato i due figli di 4 anni e
20 giorni, Matteo e Davide per annegamento il 24/06/2002.
Le madri uccidono anche per vendicarsi come, nella tragedia di Euripide, fa Medea
tradita da Giasone, quando nel loro delirio il figlio che hanno partorito finisce per
perdere qualsiasi significato e diventa cosa.
“E così li hai uccisi” dice Giasone e Medea si limita a replicare: “si, per farti
soffrire”. La menta di Medea non può concepire altra possibilità.
Racconta che si è sposata con un uomo più grande di lei di 10 anni e che sono stati
felici solo il periodo del viaggio di nozze: “il giorno che mi ha presentato ai suoi
familiari, la madre mi ha squadrata da capo a piedi. Diceva che ero troppo giovane e
bella. E’ chiaro erano gelosi di me, lo sono sempre stati”.
Il marito va sempre di fretta, lavora come operaio e nei campi di famiglia: si sentiva
molto sola, anche dopo la nascita del primo figlio.
Il marito era molto legato alla famiglia di origine tanto che ogni domenica andava a
Messa con loro lasciandola a casa con i bambini.
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Piano, piano in O. cresce la gelosia per il marito, non andando d’accordo con la
suocera e per il suo carattere chiuso e molto permaloso.
Vive in un mondo persecutorio, di diffidenza e sospettosità, tutti i contatti gli sono
ostili, soprattutto con la suocera e la zia del marito: rifiuto e critiche pesanti.
In questi conflitti lei si sente sola, abbandonata dal marito che non prende le sue
difese, anzi schierandosi dalla parte dei parenti: “mio marito non poteva capire niente
dei miei desideri”. La perizia psichiatrica parlerà di “disturbo paranoide di
personalità più disturbo delirante di persecuzione e di gelosia patologica”: incapace
di intendere e di volere al momento del fatto e pericolosa socialmente.
Così decide di mettere in atto la sua vendetta, di punire il marito: uccidere i bambini.
Il giorno prima della tragedia è domenica, come al solito il marito va a Messa da solo
lasciandola con i figli. Lei gli aveva chiesto di aiutarla, è stanca, non ce la fa più, ma
lui se ne va con i genitori: è la solitudine più assoluta.
Il giorno dopo nel pomeriggio porta i bambini a fare un giro intorno al lago; aveva
deciso di non tornare più a casa, di portare con sé i bambini: era la liberazione alla
sofferenza.
Entra in acqua con i figli, tiene per mano il più grande e in braccio il piccolo…lei
comincia a nuotare mentre i figli annegano: il piccolo le scivola dalle braccia e si
inabissa, il grande è a faccia in giù e lei lo tiene ancora per mano, poi piano, piano gli
lascia la mano e va giù insieme al fratellino.
Dopo qualche tempo passa di lì un uomo che porta a spasso il cane e vede una donna
che sta nuotando, galleggiando, molto tranquillamente nel laghetto, che non urla, non
dice niente, nuota e basta. L’uomo si tuffa per portarla a riva e chiama i soccorsi.
La donna è in stato confusionale e in un primo momento racconta che era in acqua
perché era andata a soccorrere il figlio più grande che era caduto in acqua mentre
giocava e stava annegando ed era entrata in acqua con in braccio il figlio appena nato
senza pensare e che le era scivolato dalle braccia: un drammatico incidente, una
tragedia, il DEPISTAGGIO.
I bambini vengono recuperati ancora con i vestiti in perfetto ordine.
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Gli inquirenti capiscono subito che il racconto della donna non può essere veritiero,
prima di tutto per le molte contraddizioni nel racconto stesso, poi per un biglietto
trovato nella stanza da letto e indirizzato al marito: “Per Pietro. Le donne alla
Balteadisk non ti mancano, ne hai tante. Tanti auguri. Voglio essere cremata. Addio”.
Nessun accenno ai figli che aveva deciso di trascinare con sé.
Nessun rimpianto.
Solo la voglia di spezzare le catene che la legano alla vita.
Il giorno dopo la tragedia, O. crolla e confessa: “sono stata io ad uccidere i miei
bambini, ma io volevo morire, non pensavo che sarei sopravvissuta, mentre ero in
acqua credevo di essere morta”.
Il racconto dei fatti: “quel giorno abbiamo costeggiato la riva, faceva caldo.
Ho detto a Matteo di fare il bagno, siamo saliti sul pontile e l’ho fatto scendere in
acqua. Poi mi sono calata anche io con il piccolo in braccio, che è scivolato dalle mie
braccia e non ho fatto nulla per trattenerlo. Matteo è andato a fondo ed è riemerso
privo di sensi, l’ho ripreso per un polso e mi sono messa a fare il morto.
Credevo di morire, ma ero serena…”.
Il GIP scriverà: “è tuttora animata da un concreto risentimento e astio nei confronti
del marito e dei suoceri”.
Senza perdono: il marito non la perdonerà mai per quello che ha fatto, una rabbia che
non trova conforto.
“Mio marito non riusciva a capire, mi continuava a gridare 'perché i bambini? Perché
non sei morta?' Ma io ero così sicura di morire con loro che tutto i sembra una
beffa…perché quel signore non mi ha lasciati lì? Perché devo vivere e i miei bambini
sono morti? Maledetto quello che mi ha salvata”.
E’ come una quercia: nasconde le radici della sua sofferenza per paura di spezzarsi.
Cos’altro dire di più?
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7.5 La storia di G. A.: una vita sbandata
Nata il 29/03/1975 a Napoli, fidanzata con un uomo di 54 anni. Licenza superiore
classica, prossima alla Laurea in lettere. Accusata di aver ucciso il figlio Vincenzo di
6 mesi per defenestrazione, il 17/09/2002.
Entra a Castiglione delle Stiviere il
7/11/2002.
Nata a termine da parto cesareo; all’età di 12 anni soffre di bulimia.
Dal 1994 al 1999 è in terapia da uno psicologo per difficoltà relazionali.
Viene diagnosticato un disturbo schizotipico di personalità.
Presenta deliri di persecuzione e idee di riferimento, con pensieri magici, sentimenti
di inadeguatezza e di incapacità.
E’ eccessivamente sensibile alla critica e al giudizio degli altri.
Riferisce di essere stata abusata da piccola dal padre accusando la madre di assoluta
indifferenza: è la famiglia il nucleo centrale della sua costituzione delirante.
A 20 anni cominciano pensieri bizzarri e deliranti: è sempre ritirata in casa e in sé
stessa. Si iscrive alla facoltà di filosofia, ma la situazione psicopatologica è sempre
più grave: si sente perseguitata, isolata da tutti, pensava che alcune sue foto fossero
state vendute in internet, a Bin Laden.
Nella sua mente sempre più deviata pensava di dover fare la prostituta, di doversi
mettere alla prova: comincia una vita fatta di sesso promiscuo.
Si sente spiata da web-cam, ogni momento è osservata.
Arrivava al piacere mettendosi un cuscino sulla faccia tentando di soffocarsi.
Tutta la città è ostile, tutti parlano male di lei, fino a che diventa aggressiva con
persone che non conosce.
I deliri sono sempre più presenti a sfondo religioso e magico.
Gli incontri promiscui si fanno sempre più intensi. Ha un totale appiattimento
affettivo e una vita sconclusionata.
Fa un viaggio a Praga, sperando di rimanere incinta: “mi toccavo continuamente il
ventre e pregavo”.
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Nel 2001 incontra il compagno e rimane incinta. Dopo il parto piange per due giorni
consecutivi: depressione post-partum con sintomi psicotici.
Era sicura che qualcuno abbia sostituito il bambino in culla, si rifiuta di allattare il
bambino dato che lei non sente una buona madre, che facessero esperimenti con il
latte per il bambino e che non lo nutrissero: “da quando mi hanno staccata dal
bambino con il parto cesareo”.
Pensava che il compagno la tradisse, che andasse in barca con altre donne, che anche
lui facesse parte del complotto contro di lei.
Da quel momento tenta diverse volte il suicidio: “amavo il mio bambino quando era
in grembo. Doveva riempire i vuoti affettivi di una vita, ma pensavo che fosse il
figlio del diavolo e che le malattie destinate a lui potessero essere destinate agli altri
bambini dato che lui era il maligno.
Quel giorno volevo fare del male a me, ma quando l’ho visto ho polarizzato contro di
lui l’odio verso il mondo”.
Lo chiamava “Signor amorucci, Signor pasticcetti”.
E’ decisa a morire, ma coloro che la spiano non la fanno morire e così decide di
“seppellirsi in carcere”.
Quel giorno vuole morire, prende in braccio il bambino e si reca al balcone.
Lo guarda e lo vede Down. Lascia cadere il bambino pensando che lui non potesse
morire dato che è un angelo ed ha poteri sovrannaturali.
Chiama la polizia dicendo di aver ucciso il figlio. Agli agenti dice solamente: “sono
morta”.
La perizia psichiatrica parla di “disturbo delirante con aspetti persecutori e ideazioni
di riferimento”. Il bambino ormai per lei era diventato un bambolotto, una cosa: con
la sua eliminazione avrebbe eliminato il complotto contro di lei, coloro che la
spiavano, dato che l’avrebbero arrestata.
Ora in OPG si sente come una “morta legale”.
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7.6 La storia di A. S.: madre a tutti i costi
Nata il Romania l’8/11/1977. Licenza superiore, coniugata. Viveva in Valpolicella
(Verona). Entra in OPG il 6/12/2007, accusata dell’omicidio del figlio di due anni
Fabio il 20/02/2007, con un coltello da cucina (artt. 575-577 n°1 c.p.).
Quel giorno ai carabinieri di Caprino Veronese arriva una telefonata dal suocero della
donna: lei aveva chiamato il marito dicendo che aveva ucciso il figlio di due anni e
che si stava suicidando.
All’arrivo i carabinieri trovano il bambino morto per le ferite inferte con un coltello
da cucina di 35 cm.
Emerge una vita di solitudine e di abbandoni: viene abbandonata ripetutamente dalla
madre e permane per lunghi periodi in orfanotrofio.
Conosce il padre solo tre anni fa ormai alcolizzato.
Arrivata in Italia ha cominciato a lavorare nei campi: era una vita molto dura.
Dopo tante sofferenze incontra il marito con il quale vuole avere una famiglia felice.
Era tranquilla: la vita in Italia era andata bene, ma lei presenta una personalità rigida,
anale, sospettosa, ipersensibile e vulnerabile, non riuscendo a plasmarsi rispetto le
sfide della vita coniugale e della maternità.
Questo si accentua quando comincia ad intromettersi nella vita coniugale il suocero,
quando l’uomo comincia a prendere in mano le redini della situazione familiare.
Comincia ad interpretare in maniera delirante ogni avvenimento: è questo il segno
patognomonico del tratto paranoideo.
Pensa che il marito la minacci, che non era contento di un figlio maschio, ma avrebbe
preferito una femmina, che non giochi abbastanza con lui, che lo volesse estromettere
dalla sua vita: “forse lui pensa che si attacchi troppo a me”.
Ormai non vedeva più un futuro per il bambino.
Il delirio paranoideo si accentua con l’entrata in scena del suocero Dario: dice al
figlio che la moglie se ne potrebbe andare via con il bambino, gli dice di non intestare
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anche a lei l’appartamento. Si reca da un avvocato per il tribunale dei minori
per l’affidamento del bambino.
Aurora si sente tagliata fuori, estranea nella sua stessa famiglia: tutto è ostile. Si sente
sfruttata solo come contenitore materno, solo per dare corpo ai sogni della famiglia
del marito, per avere un bambino-erede.
Il disturbo di personalità paranoideo aumenta, parla con il bambino e gli dice: “io non
sono come mia madre, non ti abbandonerò senza poter determinare il corso della tua
vita”.
Il labirinto di angoscia e depressione le impediscono di essere moglie-madre-donna:
ormai è finita. Tutti i suoi sentimenti cupi si proiettano sui suoi persecutori.
Quella mattina il marito la chiama per dirle che chiederà la separazione e l’affido del
bambino.
Così aumenta la conflittualità intrapsichica, la vulnerabilità, il vissuto di perdita di
ruolo di madre, insieme al conflitto dell’abbandono in orfanotrofio.
La perizia psichiatrica parla di disturbo psicotico breve, con disforia, angoscia,
ideazione paranoidea, frammentazione dell’Io e disorganizzazione.
Questo porta ad un restringimento del campo di coscienza con acting-out omicidasuicida.
Come in trance dopo aver commesso il delitto e dopo essersi accoltellata il torace
entra nella fase di STUPOR PSICOTICO: blocco motorio e perdita dei processi
intrapsichici.
Dopo il delitto dice: “non è possibile, non può essere vero”, mentre si guarda le
cicatrici. Non crede che il figlio sia veramente morto: ”voglio andare al cimitero a far
aprire la tomba, voglio vedere mio figlio ha dei segni di riconoscimento per me
inconfondibili, solo allora ci crederò”.
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7.7 La storia di M. E.: il baratro della depressione
Nata ad Enna il 14/06/1963. Licenza media, operaia, coniugata. Entra in OPG il
5/02/2001 accusata di aver ucciso la figlia di 7 anni (art. 222 c.p.) il 27/10/2001.
Quel giorno il marito della donna accompagna la figlia più grande di 15 anni a
scuola; la figlia più piccola viene accompagnata dalla mamma.
Nella mattinata la donna chiama il marito, ma non emergono particolari problemi.
Nel pomeriggio verrà chiamato dai familiari perché la figlia più piccola è morta
soffocata.
La bambina presentava vistosi segni al collo come da strozzamento, ustioni ed
ecchimosi sulle braccia, gambe, volto e capo. Verrà rinvenuta nella camera da letto
matrimoniale.
La paziente aveva una storia di diversi tentati suicidi, soffriva da molto tempo da crisi
depressive ricorrenti dal 1986 dopo la nascita della prima figlia.
I rapporti tra i coniugi erano stati molto tesi tempo fa dato che lui l’aveva tradita una
volta.
Il giorno del delitto la paziente non si sentiva bene, ma accompagna la figlia a scuola
e poi la prepara il pranzo.
Dopo aver mangiato insieme la donna dice di aver sentito la figlia fare discorsi strani:
“il papà non torna a casa” e si mette a ridere. “Tutto questo non mi è piaciuto”, disse.
Poi la bambina si era messa a fare due barchette di carta mettendole in modo
sbagliato, alla fine la bambina si era messa a guardare i compiti sul quadernone di
religione.
La paziente disse che lei stava leggendo una cosa che le interessava, ma la figlia
voleva a tutti i costi che guardasse con lei i compiti, non le permetteva di leggere.
Poi la bambina è andata in bagno ed ha chiesto alla mamma di aiutarla a pulirsi:
“sono andata in camera per cambiarla, per prendere delle mutandine, invece ho preso
una calza e l’ho strangolata in camera. Poi ho cercato di soccorrerla portandola in
garage, tagliando la calza; ho preso una sega elettrica per tagliarle i piedi, ma non ce
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l’ho fatta. Ho preso i morsetti della batteria, li ho attaccati ai polsi e alle caviglie, ma
non ho dato la carica”.
Nella storia della paziente emerge la morte del padre nel 1970; la madre muore per
suicidio poco dopo la sua nascita, ed è nata di parto prematuro.
Ha subito diversi ricoveri in psichiatria per depressione maggiore e tentati suicidi:
aveva un vissuto costante di inadeguatezza e sensi di colpa.
Nel 1996 avvertiva una voce che la colpevolizzava, la denigrava, la faceva stare
molto male.
Nella perizia psichiatrica viene scritto che durante l’omicidio c’è stata una
disgregazione e dissociazione: DEPRESSIONE MAGGIORE PSICOTICA periodica
e ciclica. C’è stato un distacco della realtà progressiva e la chiusura delle relazioni
interpersonali. Erano presenti idee deliranti con autoattacchi di indegnità e di colpa,
episodi in cui si può essere aggressivi ed attuare un omicidio-suicidio.
In questo caso la paziente è affetta da un EPISODIO DEPRESSIVO MAGGIORE
per il quale c’era un incapacità ad effettuare un corretto giudizio di realtà, mancanza
di controllo della sfera emotiva, alterazioni della struttura del pensiero: OMICIDIO
COME RAPTUS PSICHICO MELANCONICO.
7.8 La storia di L. C.: lo scandalo in OPG
Nata a Torino il 23/04/1976, licenza media. Accusata di aver ucciso la figlia di tre
anni nel 1999. Diagnosi all’ingresso in OPG di depressione maggiore in comorbidità
di disturbo di personalità borderline.
Nel 2003 durante un permesso fuori dall’OPG per un corso di parrucchiera scappa
per qualche giorno, ma viene ritrovata a casa di alcuni extracomunitari e sono state
trovate alcune dosi di hashish.
Il 26/ 12/2004 scappa di nuovo dall’OPG. Quella mattina la paziente non si presenta
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per la colazione, in camera non c’era e nel letto aveva lasciato alcuni cuscini ed una
parrucca. Appoggiata alla recinzione viene trovata una scala a chiocciola.
Si presenta spontaneamente il 30/7/2007 perché è incinta e vuole abortire, lo farà e
passerà alcuni mesi fuori dall’OPG.
A 15 anni aveva cominciato a far uso di sostanze stupefacenti ed era stata seguita per
molto tempo dal Sert di Torino. A 18 anni rimane incinta per la prima volta, si sposa
ed iniziano i disturbi depressivi per litigi con il marito.
Nel 1996 nasce la figlia Noemi. Del giorno dell’omicidio dice di non ricordare nulla:
riferisce di litigare spesso con il marito a causa della suocera che trattava la bambina
come se fosse stata lei la madre.
Nel 1999 dopo pochi mesi dall’ingresso in OPG ha una storia con un infermiere
dell’Ospedale: vengono trovate alcune lettere dell’uomo in camera sua con alcune
dosi di sostanze stupefacenti.
L’infermiere verrà trasferito e la paziente andrà a Sollicciano per un periodo.
Nella perizia psichiatrica si parla di grandiosità e necessità di onnipotenza con
tendenza a manipolare le persone. Marcata freddezza emotiva anche nel descrivere
l’omicidio: il racconto del reato assumeva le caratteristiche di “recita teatrale”, fino a
sfociare in un disturbo istrionico di personalità.
7.9 La storia di N. D.: il grande sbaglio
Nata ad Udine il 5/12/1966, odontotecnica. Entra in OPG il 26/1/2008 accusata di
aver ucciso il figlio di 7 anni il 15/12/2007 (omicidio volontario aggravato, artt. 575,
577 n°1) con un coltello da cucina di 20 cm (“da macellaio”) con 20 coltellate al
collo e al corpo sviscerandolo, colpendolo alle mani mentre si difendeva e sbattendo
la testa reiterate volte contro lo spigolo del tavolo da cucina.
Tentato omicidio della figlia di 9 anni intervenuta per difendere il fratellino.
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E’ stata dapprima trattenuta nell’SPDC di Udine, poi trasferita in OPG per
detenzione in luogo di cura e vigilanza. L’OPG è ritenuto luogo sia di cura che
custodia e di “isolamento” dall’ambiente in cui è maturato il delitto (srt. 112 DRP n°
230/2000).
La paziente aveva sofferto in passato di crisi depressive ricorrenti per le quali aveva
assunto una terapia farmacologica: pensava che lei provocasse tutte le sciagure del
mondo, tutti i vestititi di colore nero li metteva in cantina perché rappresentavano il
male, guardava le scadenze dei medicinali dove lavorava pensando che quel giorno ci
sarebbe stata la fine del mondo.
Il padre l’ha abbandonata a 2 mesi ed è stata in collegio fino a 9 anni.
A 12 anni è morto il suo patrigno. Riferisce di una madre intromissiva, quasi che
“dovevo chiederle in prestito i miei figli”.
Dopo alcuni litigi, riferisce che vanno via di casa lei e il marito cacciati dalla madre
che non andava più d’accordo con il genero: “mia madre caccia sempre tutte le figure
maschili”.
Da diversi anni stava bene e non assumeva terapia.
Pochi giorni prima del delitto, circa 20, aveva cominciato a pensare che ormai il
mondo fosse alla fine, che stesse arrivando l’Apocalisse, che tutta l’Italia sarebbe
stata invasa dai rifiuti tossici a partire da Napoli e saremmo morti tutti, che ci
avrebbero attaccato i paesi a cui abbiamo chiesto aiuto per motivi politico od
economici,che ci avrebbero tolto gas ed elettricità. Tutti saremmo morti dopo atroci
sofferenze.
Accompagnando a scuola i figli si era accorta che alcuni bambini non erano a scuola,
quindi pensava che già alcune mamme avessero iniziato ad uccidere i figli per salvarli
dalla sofferenza: era tutto chiaro doveva uccidere i propri figli, tutte le madri
l’avrebbero fatto, si sarebbero suicidate e gli uomini si sarebbero uccisi a vicenda
crocifiggendosi.
Era terrorizzata, non sapeva cosa fare, non voleva uccidere i bambini, ma doveva
farlo per loro, se non l’avesse fatto sarebbe stata una vigliacca.
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Aveva progettato di uccidere il piccolo da sola, mentre la figli più grande insieme alla
cognata che lei paragonava ad una “santa”.
Di tutto questo non aveva parlato al marito, gli aveva solo detto di non dormire bene
da qualche giorno e la mattina prima del delitto prendono un appuntamento al Centro
di Salute Mentale per il pomeriggio dopo: sarà troppo tardi.
Il giorno prima del delitto era convinta di aver mandato sul lastrico i vicini: ormai era
ora. La notte decide di uccidere i figli per poi suicidarsi.
Non va al lavoro perché dice di non sentirsi bene, ha aspettato che il marito si
allontanasse momentaneamente e uccide il figlio più piccolo sotto gli occhi disperati
della figlia che tenta di fermare la madre mentre accoltella a morte il fratellino:
depressione maggiore con sintomi psicotici, deliri di rovina ed omicidio salvifico.
La paziente pensava che quando fossero arrivati i poliziotto e il 118 le avrebbero
detto: “brava, finalmente hai capito, finalmente hai trovato il coraggio di farlo”.
Attualmente il marito va trovarla in OPG e dice che non l’abbandonerà mai. Ha
rivisto anche sua figlia che ora è seguita da una psicologa per il forte shock subito.
Ora ha capito che è stato un delirio, solo pensieri nella sua testa, che non era vero
niente, che è stato tutto uno sbaglio.
Vive per sua figlia e suo marito pensando che un giorno ritorneranno tutti insieme.
7.10 La storia di K. J.: la non consapevolezza
Nata il 7/5/1965 in Macedonia, sposata, casalinga, diplomata in ragioneria ed iscritta
all’università del turismo. Entra in OPG il 2/10/2001 per aver ucciso i due figli di 7 e
5 anni con trenta coltellate e con l’aggravamento delle sevizie il 29/6/2001.
Il padre era alcolista, la madre schizofrenica. Tra i 22 e i 24 anni soffre di depressione
con sintomi psicotici con deliri paranoidei e mistici.
Nel 1994 sposa un italiano a Roma e vanno a vivere lì vicino: hanno due figli.
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Da subito nascono tensioni molto forti con il marito e con la suocera: era già presenta
un delirio paranoideo di tipo persecutorio nei confronti della suocera con tematiche
sessuali. Dice: mia suocera non merita di vivere dopo quello che ha fatto ai miei
bambini, li faceva accoppiare anche con i cani, mio marito non mi ha mai creduto.
Si scatena una forte carica aggressiva contro il marito e la suocera: “è loro la colpa se
sono qui; gli avevo detto di non cercare di togliermi i figli, che la madre faceva delle
cose orribili: era una pedofila, li faceva accoppiare con i cani, li ha portati anche in
ospedale per curarli dalle malattie che si erano presi”.
Il giorno della tragedia il marito, barista, torna a casa e trova i figli straziati in un lago
di sangue, il più piccolo respirava ancora, la moglie rannicchiata in un angolo, tutto
taceva: la corsa disperata all’ospedale, ma per il bambino non c’è niente da fare
La perizia parla di schizofrenia paranoie dove la critica è completamente assente:
”mio marito non mi ha mai capita e aiutata, è colpa sua se sono morti i bambini”.
Era presente anche un delirio di complotto tra la suocera e medico di base, dato che
era scorretto e faceva certificati falsi. E’ presente un DELIRIO NON SCALFIBILE
che ora è presente solo nei confronti della suocera, che recentemente ha avuto
un’ictus ed è su una sedia a rotelle: “sta pagando per tutti gli orrori che ha
commesso”; “Volevo salvare i miei figli, non volevo farli soffrire”.
Ora è separata dal marito, ha deciso di non vederlo più.
Scrive poesie in OPG, la sua raccolta si intitola “Mordere il tempo restando”:
“Ho diviso le gioie con te
Nelle stagioni
Della nostra bellezza
Vardare di Macedonia
Fonte di vita
Prosegui la vita
Prosegui”.
E’ una poesia dedicata al fiume che scorre nella sua terra di origine.
Eccone un’altra sul coraggio:
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“Vivo giorno per giorno
Goccia per goccia
A pezzi
In questo mondo pieno di trappole”.
7.11 La storia di S. T. M. A.: il gesto fallito
Nata in Belgio il 17/04/1983. Entra il 22/02/2007 per il tentato omicidio del figlio di
pochi mesi il 18/02/2007 (artt. 575, 576 c.p.).
La diagnosi all’ingresso è schizofrenia paranoie.
La paziente aveva i genitori divorziati ed inizia ad abusare di sostanze stupefacenti in
adolescenza. Giunge in Italia nel 2005 e rimane incinta di un tunisino con cui compie
una rapina. Si separano dopo poco.
Al momento del reato conviveva con un uomo italiano in Sicilia; quel giorno viene
chiamata la polizia che trova in strada un uomo con un neonato avvolto in una
coperta.
Arriva il medico del 118 che constata uno shock ipovolemico da ferita penetrante al
collo.
Il bambino era stato soccorso anche da un vicino di casa, lui avverte la polizia, dato
che il convivente della donna stava urlando in strada: “me lo ha sgozzato”.
Il bambino presentava una profonda ferita al collo a brandelli.
Dalla casa dove era uscito l’uomo urlando la polizia trova una donna completamente
nuda che diceva: “è un demonio”. Era in stato di agitazione psicomotoria ed urlava:
“l’ho dovuto fare, me lo ha ordinato il mio Dio, troverete il coltello sul tavolo”.
Il convivente aveva deciso quel giorno di lasciarla dato che dopo il parto nel 2006 era
molto aggressiva, non si occupava del bambino ed usciva di notte verosimilmente a
prostituirsi e a drogarsi.
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Quella mattina era andato a prendere delle cose a casa per andarsene, la donna era a
casa e gli aveva detto: “pigliati u’ diavulu tuo”. Riferisce che il bambino stesso le
aveva chiesto di ucciderlo.
La perizia parla di deliri a contenuto mistico con allucinazioni uditive.
“Mio figlio aveva il diavolo dentro di sé, gli angeli mi hanno ordinato di fare uscire il
demonio”.
All’arrivo dei medici mima ossessivamente il gesto dello sgozzamento.
Attualmente è contenta che il suo bambino sia vivo e prega per lui.
Come medico e futura psichiatra dopo aver letto le pagine delle perizie psichiatriche e
medico-legali certe parolone mi sono cadute nell’anima come sassi: depressione,
psicosi, allucinazioni uditive, fatuità, schizofrenia. Parole che hanno diritto
all'esistenza perché designano fatti clinici ben noti.
Nel mio lavoro, di solito, la pazzia non è espressione di malvagità. Non è segno del
male neppure quando porta a compiere il più inconcepibile dei delitti, l'uccisione dei
propri figli piccoli.
E’ malattia, una malattia che gli psichiatri chiamano psicosi e che comporta la perdita
totale del rapporto con la realtà, cioè la perdita del senso della vita, del valore della
vita umana.
Dal male bisogna difendersi, qualcuno dice va punito, mentre la malattia riguarda
unicamente la medicina. Le malattie vanno comprese nel loro originarsi.
Si tratta di curarle, guarirle, prevenire.
Sappiamo che non sono malattie che si creano da un giorno all'altro.
La dicitura "raptus" che i giornalisti usano sempre e sbagliata e fuorviante.
Ci sono, in ognuna delle storie riportate, lunghi periodi in cui il rapporto con la realtà,
e in particolare con quella del proprio bambino, pian piano s'alterava, fino a un punto
di non ritorno raggiunto il quale bisognava uccidere "per non farlo soffrire" o perché
"non andava bene, era il diavolo” .
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E’ agghiacciante sentire come a volte le uniche ad accorgersi del cambiamento
catastrofico in atto fossero le future assassine che facevano sforzi disperati per
chiedere aiuto.
Perché le risposte non ci siano state é un lungo discorso.
Le persone non specializzate sanno troppo poco di questi problemi: non c'è
informazione sulle malattie della mente tranne i soliti luoghi comuni: "il raptus" o
"era in cura per depressione".
A tutto questo fa riscontro una miriade di luoghi comuni sulla "mamma che è sempre
la mamma". Un ipotetico senso innato della maternità, come se il rapporto con la
nascita, con la realtà del neonato e del bambino piccolo fosse un fatto ovvio e non
una delle situazioni certamente più belle ma anche più complesse e impegnative di
tutta l'esistenza.
Da parte degli addetti ai lavori, poi, s'incontra una strana scissione.
Ci sono quelli che dicono chiaro e tondo, angosciando tutti, che purtroppo c'è un
assassino potenziale in ciascuno di noi.
Il male, appunto - dicono – è dentro di noi e non c'é niente da fare.
Altri sostengono che la pazzia non c'é, al massimo é una stranezza, e comunque i
matti non sono mai pericolosi.
Ed é vero che muoiono molte più persone nel traffico che per mani di persone
psicotiche. Tuttavia i delitti per psicosi accadono e la gente non si capacita: come può
accadere che? ...
Per questo esiste un legittimo interesse della società affinché si faccia ricerca
psichiatrica.
Ho appreso che in Italia avviene poco per il malfunzionamento delle Università e per
via della riforma psichiatrica del 1978 che da un lato ha avuto il grande merito di
pretendere modi civili nel rapporto con i malati ma - purtroppo - ha anche affermato
che la malattia mentale in fondo non esiste. E non si può fare ricerca su quello che
non esiste.
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Si cercano nuovi farmaci per gestire meglio la psicosi e se alcuni placano la mente
cosciente si deduce che è la mancanza di queste molecole a causare la pazzia.
“Assenza”, “abbandono” sono forse le parole chiave che può aprire le porte a una
ricerca che non ha bisogno di postulare malattie geneticamente determinate.
Nei casi peggiori, dentro, scompare l'immagine della persona che non c'é e viene
annullato tutto l'amore e tutto l'odio che si avéva per lei.
Il rimedio é ancora più violento dell'aggressione subita. Tu per me non sei mai
esistito.
Può essere assente anche chi materialmente c'é.
Questo accade quando non dà le risposte giuste, o quando, per esempio, non coglie le
esigenze del bambino che non vuole solo pasti nutrienti e tutine morbide ma pretende
lo spessore umano degli altri.
Quando questo spessore non c'é - negli adulti attorno, nella società, nel
pensiero dominante - gli psichiatri parliamo di anaffettività e dissociazione nascoste
in persone perfettamente funzionanti. Ed é lì che nasce la malattia mentale: quando il
bambino per difendersi dal disumano negli esseri umani, s'annulla dentro. Buio,
vuoto, cocci scomposti. Poi, una volta grandi, non sarà facile affrontare i propri figli
che chiedono a loro volta un'umanità perduta da tempo.
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CAPITOLO 8
Depressione o scarsa attenzione verso le future
mamme?
Si è sempre ritenuto che il periodo più difficile per una neomamma sia quello
successivo al parto, soprattutto nel primo mese dopo la nascita del bambino, quando
si é più vulnerabili nei confronti delle malattie di natura psichica.
Questo pregiudizio viene però smentito da uno studio apparso sulle pagine del British
Medical Journal, che si ripropone di indagare in modo esauriente le origini del
malessere registrato cosi spesso in chi ha appena messo al mondo un pargolo.
“La depressione delle mamme inizia già durante i mesi della gravidanza e questo
potrebbe essere alla base dei disturbi successivi, a dispetto dell’idea sostenuta da
taluni, che in tale periodo si avrebbe una sorta di protezione contro i sintomi
depressivi" sottolinea Jonathan Evans dell'Università britannica di Bristol, alla guida
della ricerca.
Già nel 1982 alcune ricerche hanno cominciato ad indagare il periodo pre-parto,
mettendo in luce che, in un un'alta percentuale dei casi, i sintomi depressivi
denunciati dopo la nascita del bambino, erano in effetti cominciati nei mesi
precedenti, cosa che si esprimeva nella scarsa partecipazione delle donne ai corsi di
preparazione al parto o nell’abuso di sostanze nocive, con conseguenti parti prematuri
o nascita di neonati sottopeso.
Nel periodo tra l'Aprile 1991 e il Dicembre 1992 sono state selezionate
quattordicimila donne agli inizi della gravidanza, a cui è stato chiesto di compilare
una serie di questionari che sono stati utilizzati per valutare lo stato depressivo prima
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e dopo il parto. I dati sono stati raccolti il quarto e 1’ottavo mese di gravidanza e due
e otto mesi dopo il parto.
L'analisi dei dati ha rilevato un picco nei parametri che indicano uno stato depressivo
proprio durante la gravidanza, in particolare all’ottavo mese, mentre i valori più bassi
si sono registrati a otto mesi dal parto.
Si può quindi concludere che la depressione può comparire con alta probabilità gia
durante la gravidanza, il parto, infatti, per le donne che hanno denunciato sintomi
depressivi, sembra essere l’evento che segna l'inizio di un netto miglioramento
(www.zadigmedicina.it).
Oltre alla difficoltà della depressione si possono individuare molti altri fattori di crisi,
durante la maternità, ad esempio le difficoltà, di coppia, le diverse responsabilità da
concordare con l’arrivo del bambino e le difficoltà a disporre del proprio tempo che
pare non esistere più.
La mobilità e i contatti con l'esterno si riducono quando si é in attesa di un bambino e
ci si trova rinchiuse in una sfera domestica oggi più isolata di prima, senza aiuti e
nella quale le donne di oggi sono meno costrette e perciò meno abituate, fino a che
diventano madri.
Quando nascono dei problemi in questa delicata fase della vita le risorse individuali
per affrontarli sono senz'altro minori e la donna può sentirsi estremamente fragile ed
ha bisogno di essere aiutata ad affrontare le difficoltà che incontra, di essere
sostenuta, di non sentirsi perdente o delusa.
Oggi ci troviamo, sempre più spesso, di fronte a casi di bambini abbandonati,
maltrattati o uccisi da colei che li ha portati in grembo, li ha sentiti formarsi dentro di
sé, li ha chiamati alla vita.
“Quale male oscuro può spingere una mamma a sopprimere o a maltrattare una vita
che lei ha contribuito a procreare? Cosa passa nella mente di queste madri? Si
rendono conto di ciò che fanno?" Sono domande angosciose che ci vengono in mente
quando leggiamo di questi casi sui giornali o quando ne veniamo a conoscenza
tramite la televisione.
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E’ solo un problema di depressione o di una scarsa attenzione da pane della nostra
società verso le neomamme?
Il figlio può anche non essere il primo dei progetti di una donna, anzi a volte é
addirittura l'ultimo.
Prima, infatti, si pensa a diventare indipendenti, a realizzarsi, a costruirsi una vita e
un figlio può, sotto questo punto di vista, essere un ostacolo nella via della carriera e
del successo.
Aspettare un figlio rimette in discussione il senso della propria esistenza e attraverso
la maternità si sperimenta una mancanza di senso alla propria vita e ci si accorge di
quanto sia difficile diventare madri.
Per questo motivo molte donne durante i nove mesi di gravidanza, periodo
particolarmente delicato della vita che coinvolge i sentimenti, le emozioni, le paure
per il futuro della neomamma nei confronti del bambino che nascerà, hanno bisogno
di sostegno, di aiuto e di conforto.
La depressione pre-parto purtroppo viene da molti sottovalutata a cominciare dai
familiari più stretti tra cui il marito che, pur vivendo una forte esperienza comune,
spesso non si rende conto di ciò che sta accadendo alla propria compagna.
Questa poca attenzione verso il fenomeno non é dovuta alla cattiva volontà delle
persone che vivono accanto alla futura mamma, ma é da ricercarsi in una scarsa
informazione sulle condizioni psicologiche particolari che possono interessare una
donna in attesa.
I primi segnali del disagio psico-emotivo della madre che possono portare ad uno
stato d'ansia che trova la sua origine nella mancanza di autostima e nel non sentirsi
adeguata al ruolo di madre, si manifestano con stati di inappetenza, insonnia o
eccessiva sonnolenza e difficoltà di concentrazione.
Questi stati d'animo devono essere colti e non sottovalutati, poiché se si protraggono
a causa di condizioni interiori della madre o per disagi esteriori possono generare
una condizione di rifiuto ad accudire il figlio, in particolare se si tratta di donne sole,
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prive di appoggi in famiglia o che vivono situazioni di violenza, di conflitti gravi o
difficoltà economiche.
In altri casi la donna può sentirsi impreparata al ruolo di madre ed é spaventata dalle
responsabilità che l'attendono nei confronti del figlio, creatura dipendente in tutto da
lei e che assorbirà in maniera forte tutto il suo tempo, fino a sentirsene espropriata.
La donna entra in uno stato d'ansia con la paura di sbagliare, con la sensazione di non
essere all'altezza di questo ruolo, di non potersi più riappropriare della sua vita: tutto
diventa più complicato, anche le cose più semplici ed i piccoli lavori quotidiani
sembrano pesanti ed insostenibili.
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CONCLUSIONI
Non si dovrebbe mai dimenticare quanto previsto nel preambolo della Dichiarazione
universale dei Diritti del Fanciullo: "L'umanità ha il dovere di dare al fanciullo il
meglio di se stessa" inoltre “Tutti i bambini hanno diritto, fin dalla nascita, alla
famiglia”.
La protezione del neonato e dei giovani fanciulli diventa un valore sempre più
avvertito nella coscienza individuale e collettiva, in una situazione in cui molti dei
diritti dei bambini appaiono labili e scarsamente esigibili, cosi come sempre più
avvertita é la necessità di non consegnare quel valore alla retorica dei buoni
sentimenti o ad iniziative di facciata ma di dargli la corposa sostanza di una tutela
efféttiva di cui lo Stato, o meglio ancora gli Enti locali, devono dare garanzia al fine
di evitare gli infanticidi e gli abbandoni che mettono a repentaglio la sopravvivenza
dei bambini, fornendo maggiore informazione alle donne sulle vigenti disposizioni di
legge che attribuiscono la garanzia del segreto del parto, la scelta se riconoscere o
meno il proprio nato e la possibilità di un periodo di riflessione prima di decidere sul
riconoscimento.
Gli uomini di oggi, pur vivendo accanto, sono incapaci di comunicare e pur
di sopravvivere si accordano sulla base di convenzioni che dovrebbero garantire un
diritto
naturale minimo rappresentativo della moderna morale occidentale.
Questa morale esige il rispetto di norme spesso differenti a seconda dei gruppi
sociali, dei periodi storici e delle diverse zone geografiche.
L'etica, che studia la morale da una prospettiva umana, comporta la riflessione
fino a contrastare la moralità del gruppo sociale, difendendo in certi casi persino
i soggetti immorali.
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L'etica si esercita nel momento in cui l'individuo mette in atto la sua capacità di
pensare per chiedersi se seguire o meno una determinata regola e ci dice che la
sacralità della persona non può essere annullata, quantunque essa troppo spesso
venga disprezzata e violata: avendo il suo incrollabile fondamento in Dio Creatore e
Padre, la sacralità della persona torna ad imporsi, sempre e di nuovo.
Di qui il diffondersi sempre più vasto e l'affermarsi sempre più forte del senso della
dignità personale di ogni essere umano.
L'uomo e soprattutto il proprio figlio non é affatto una «cosa» o un «oggetto» di
cui servirsi o sbarazzarsi ma é sempre e solo un «soggetto», dotato di coscienza e di
libertà, chiamato a vivere responsabilmente nella società e nella storia, ordinato ai
valori spirituali e religiosi.
Viviamo nel mondo dell'informazione totale e globale e non siamo capaci di far
conoscere una norma fondamentale come quella definita dalla Legge 396 del 2000,
alla base del "Diritto alla salute e alla vita sia della partoriente che del neonato".
La normativa
italiana
in questa materia é avanzata ma purtroppo poco
conosciuta, soprattutto dalle fasce più a rischio della popolazione.
La legge italiana protegge i minori e le madri e consente che qualsiasi donna che si
rechi in una struttura pubblica in prossimità del parto sia seguita e curata senza alcun
obbligo di fornire le proprie generalità o altre informazioni sulla propria identità.
E' una normativa di civiltà che punta in primo luogo a proteggere la salute del
bambino e quella della madre. Ed é una normativa che deve essere conosciuta.
E' inaccettabile che nel nostro paese si continuino a lasciare neonati nei cassonetti o
nelle stazioni.
I delitti di cui oggi discutiamo, come dimostrano i casi di cronaca, non sempre
maturano in ambienti socialmente compromessi o economicamente difficili.
I mass-media hanno una particolare predilezione per gli avvenimenti che scaturiscono
in situazioni di normalità, parlare infatti di delitti in ambienti già fortemente
problematici non fa tanta notizia, anzi per tutta una serie di pregiudizi culturali il fatto
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che un bambino possa essere ucciso in una famiglia in cui ci sono problemi
economici, psicologici e sociali è "abbastanza normale".
Un aspetto caratteristico del nostro mondo tecnologico e mediatico é la
spettacolarizzazione delle tragedie familiari, dovuta all'invadenza di un giornalismo
televisivo deteriore e pettegolo.
I mezzi di comunicazione di massa non solo fanno cronaca per informare, ma sempre
più spesso descrivono gli avvenimenti con dovizia di particolari agghiaccianti e
incuranti della legge sulla tutela della privacy, per vendere di più il prodotto:
semplicemente si fa mercato del dolore umano.
Si specula per mero guadagno sulla sofferenza, come se fosse una finzione, come se i
personaggi del dramma fossero semplici attori che recitano una parte.
L'interesse ossessivo del pubblico, spesso, non lascia spazio al rispetto del dramma,
ma cerca di sapere sempre di più, scavando nella vita privata dei protagonisti e nel
piccolo mondo in cui le azioni tragiche hanno avuto luogo.
La notizia prima di tutto, che fa di un avvenimento doloroso e strettamente personale,
un fatto pubblico, per un pubblico sempre più bramoso e affamato, che spesso giudica
sulla base di non-conoscenze.
Parlare di infanticidio in una "famiglia bene", é clamoroso.
Basta poi ascoltare le testimonianze dei vicini e conoscenti che sono tutti pronti a
giurare sulla sanità mentale della madre, sulla devozione verso la famiglia, sulle cure
amorose verso il bambino, sul carattere affettuoso e premuroso, per farsi un'idea di
quanto possa essere "accattivante" una situazione come questa.
Vengono, infatti, messi in moto i sentimenti comuni di solidarietà sociale, la
coscienza collettiva, la capacità culturale di lavorare ed elaborare il delitto e si viene
quindi a creare una empatia di sentimenti, una "simpatia" del dolore.
Sulla scena però non c'é solo Medea che "recita" o il coro che dispensa giudizi, ci
sono anche altri attori, parliamo dei familiari dell'omicida.
Che fine fanno queste mamme assassine? E' possibile un loro recupero?
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Molto dipende dalla presenza o meno di una malattia mentale, dal loro
comportamento dopo il delitto, dalle modalità della confessione, dal contesto sociale
e familiare in cui si trovano, dalla capacità di introspezione e di accettazione m
relazione all'omicidio.
Spesso gli stessi familiari tendono, in genere, a proteggere la madre.
Nella fase successiva all'arresto della donna i familiari in genere prestano aiuto alla
madre che ha ucciso il figlio.
Cercano spesso di attribuire la colpa di quanto é successo non alla donna ma a terze
persone, oppure a stati temporanei di malattia, tutto ciò allo scopo di proteggere e
continuare una relazione ed un rapporto con lei che pur rimane autrice della morte di
un innocente.
Non esiste però legge e non esiste supporto psicologico che li possa tutelare dai
loro demoni interiori che si scatenano all'indomani del fatto sanguinoso e la
situazione "si complica" nel momento in cui le donne ritornano in seno alla famiglia.
Dopo un primo atteggiamento di protezione e collaborazione incondizionata, spesso
comincia infatti a serpeggiare la diffidenza e la paura che la madre possa essere
recidiva.
Il reinserimento sociale é infatti estremamente difficile e lo stigma che caratterizza la
donna sarà tale fino alla sua morte.
Quando avvengono fatti delittuosi, come la morte di un bambino, si spezzano i
legami familiari, si frantuma il concetto stesso di famiglia come ricovero, protezione,
si radica il senso comune del vivere quotidiano che viene dalla famiglia e si annulla il
significato culturale della socializzazione primaria.
Semplicemente essa perde il ruolo fondamentale di guida e di contenitore umorale e
appare in tutta la sua fragilità, nella sua incapacità di svolgere un compito che é
quello di lenire le ferite provocate da una vita non al passo con i ritmi, sempre più
vorticosi, di una società che muta continuamente pelle.
Non é raro, in una madre che ha ucciso il suo bambino, assistere a meccanismi
psicologici di riparazione, anche a distanza di alcuni anni.
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Questi si manifestano tramite l’acceso desiderio da parte della donna di avere un altro
bambino e di badare a lui con grande affetto.
Tale desiderio può essere "sano" qualora la madre lo metta in atto dopo anni, nel
contesto di una nuova relazione affettiva stabile.
Risulta invece molto più sospetto e rischioso in altri casi perché può nascondere la
possibilità di una recidiva e cioè l'uccisione di un altro figlio.
Questo desiderio deve perciò essere attentamente valutato dai terapeuti che seguono
le infanticide.
In questi casi é di fondamentale importanza assicurarsi che le dinamiche che hanno
portato al primo infanticidio non siano più presenti.
La negazione della gravidanza abbiamo visto essere una delle principali cause di
rischio infanticidio.
Se perdura fino al parto, infatti, vi é il pericolo che la donna a causa di questa
negazione non riconosca il travaglio, il parto e la nascita del figlio stesso.
Presa dal panico. può allora abbandonare il neonato sulla strada o commettere atti
violenti.
Il bambino può quindi morire per incuria o per infanticidio.
L'allarme di una situazione a rischio potrebbe partire da una segnalazione telefonica,
anche anonima, secondo sistemi simili già attivi per l'aiuto dei bambini e degli
anziani.
L'aiuto prenatale alle donne in difficoltà deve essere dato da un'équipe pluridisciplinare formata da un assistente sociale, con il compito di aiutare la donna in
merito ai problemi relativi all'alloggio, al lavoro e alle risorse economiche, da uno
psichiatra e da uno psicologo per comprendere i motivi del rifiuto della gravidanza, al
fine di affrontare e risolvere il problema.
E' necessaria anche la partecipazione di un giurista per aiutare la donna a riflettere e
sui diritti e su quelli del neonato, nonché in merito alla scelta del parto in condizioni
di anonimato, alla protezione del bambino e alle conseguenze giudiziarie nei casi di
violenza.
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Se il rifiuto della gravidanza non viene risolto adeguatamente potrebbe essere un
motivo per porre il neonato in regime di adottabilità prima che la madre commetta
azioni irreparabili per se stessa e per suo figlio.
Sia che un bambino sia ucciso o abbandonato vivo, la cronaca viene fortemente
interessata da vicende di questo genere e porta prepotentemente alla luce e alla
discussione dell’opinione pubblica, drammi che nella storia del genere umano, in
ogni latitudine e luogo, sono sempre stati.
Da sempre molti bambini non sono venuti alla luce, molti non sono stati registrati
all'anagrafe, molti sono stati abbandonati o uccisi.
Rimane il fatto che per gran parte di loro si é persa ogni traccia non avendo, in
qualche modo, identità.
Aldilà di tutto questo che rientra nel discorso più ampio del disconoscimento dei
diritti elementari del bambino, sarebbe importante chiedersi come sia possibile che in
una società come la nostra, fortemente sviluppata, tecnicizzata cosmopolita, di
protezione giuridica più avanzata che nei passato, ci siano sempre casi di abbandono.
Manca forse una sensibilizzazione capillare, o i messaggi rimangono asettici,
scarsamente recepiti, poco diffusi nella popolazione femminile immigrata cosi piena
di paure c costrizioni dovute a educazioni tanto diverse dalla nostra?
O a ragazze tanto giovani incapaci di gestire la propria vita?
Sono tragedie umane toccanti fatte di paura, vergogna, smarrimento, situazioni
personali inconfessabili ed inimmaginabili.
L'uccisione di un bambino rimane un delitto che suscita allarme sociale e mette in
subbuglio la coscienza di ognuno di noi e che, malgrado gli sforzi delle scienze del
comportamento umano, nasconde ancora tanti lati oscuri e misteriosi ma nonostante
ciò non tutti gli omicidi delle mamme assassine sono ineluttabili, anzi molti di essi
sarebbero evitabili se solo ci si ponesse con più attenzione e soprattutto con più
amore nei confronti di chi manifesta difficoltà o disagi all'interno delle famiglie
cosiddette "normali”
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In conclusione possiamo dire che risulta molto importante, in determinati momenti, il
comportamento della famiglia di origine e di quella acquisita. Ma la famiglia odierna,
specialmente nella società urbana industrializzata, é una famiglia ristretta e in crisi.
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