La globalizzazione aumenta o riduce diseguaglianze e povertà?
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La globalizzazione aumenta o riduce diseguaglianze e povertà?
131 Fabrizio Onida La globalizzazione aumenta o riduce diseguaglianze e povertà? Diseguaglianze e sviluppo, globalizzazione e povertà, apertura verso l’estero e crisi finanziarie, profitti delle imprese multinazionali e sfruttamento del lavoro, integrazione ed emarginazione, ricchezza dei creditori e povertà dei debitori: queste e altre contraddizioni affiorano e si mescolano confusamente nel dibattito sul movimento dei «noglobal» dalla contestazione di Seattle del dicembre ’99 in poi. Ma quali argomenti ci offrono le teorie economiche ed i riscontri empirici per tentare di rispondere alle domande di fondo: la globalizzazione dei mercati e del progresso tecnologico, che favorisce la prosperità delle fasce agiate della popolazione mondiale, è forse «causa» della povertà degli altri? L’apertura dell’economia verso l’estero aiuta a combattere la povertà o tende a peggiorare gli squilibri e le ingiustizie? Quanto segue non è naturalmente un contributo di rassegna sulla letteratura scientifica, ma vuole ugualmente tentare di fare il punto su ciò che gli economisti «addetti ai lavori» riescono a dire, con gli strumenti della teoria e delle analisi econometriche, su un tema di così grande portata. Povertà e diseguaglianze nella storia recente Fino agli inizi del XIX secolo le distanze tra Paesi ricchi e poveri erano limitate, comprese tra i 500 dollari di Cina e Asia meridionale e i 1.000-1.500 dollari dei Paesi europei più progrediti. Circa tre quarti della popolazione mondiale viveva sotto la soglia della povertà. Nei due secoli trascorsi tra metà Settecento e metà Novecento – inclusa la prima grande onda di globalizzazione (18701910) trainata da una forte caduta dei costi di trasporto e dalle emigrazioni di massa (60 milioni di europei emigranti, forse altrettanti stimati in Asia) – il reddito pro capite dei Paesi europei più ricchi è cresciuto più di 10 volte, quello della Cina più di 4 volte, quello dell’Asia sud-orientale circa 3 volte. Come conseguenza, nei Paesi europei avanzati la povertà (definita come per- osservatorio internazionale Prima di addossare alla globalizzazione la responsabilità per le grandi diseguaglianze che segnano il pianeta, è bene analizzare i dati provenienti dalle ricerche che hanno cercato di indagare le conseguenze per la povertà dell’integrazione internazionale dell’economia. Né l’agenda per lo sviluppo né la lotta alla povertà e alle diseguaglianze, infatti, lasciano spazio a facili soluzioni e a comodi alibi. osservatorio internazionale 132 centuale della popolazione che vive con meno di un dollaro al giorno a potere d’acquisto costante) si è pressoché azzerata, in Cina è scesa al 20%, mentre nella più arretrata Asia meridionale si è fermata al 40%. Nel secondo dopoguerra, tra il 1960 e il 2000 la distanza tra i 20 Paesi più ricchi e i 20 Paesi più poveri, misurata in termini di reddito pro capite a parità dei poteri d’acquisto, è aumentata da 18 a 40 volte. Circa 1,2 miliardi di popolazione mondiale (un quinto del totale) vive oggi con meno di un dollaro al giorno, e 2,3 miliardi con meno di due dollari al giorno. La mortalità infantile (prima dei 5 anni) arriva al 20% nei Paesi più poveri, contro l’1% nei Paesi ricchi. Il tasso di malnutrizione dei bambini sotto i 5 anni arriva al 50%, contro meno del 5% nei Paesi ricchi. Meno della metà dei 900 milioni di persone che vivono in 51 Paesi ha accesso all’acqua potabile1. Ma, come sempre, i numeri vanno maneggiati con grande cautela: e dunque sarebbe scorretto desumere da questi e da altri dati che la globalizzazione tenda ad accrescere le diseguaglianze. Infatti: a) la dimensione assoluta della popolazione con reddito inferiore a un dollaro al giorno, cresciuta dal 1820 fino circa al 1980, con un picco di 1,4 miliardi, è calata negli ultimi due decenni ed è proiettata in ulteriore calo al 2015 (900 milioni, ovvero meno del 13% su 7,1 miliardi); b) un indice sintetico di diseguaglianza calcolato su un grande numero di Paesi, dopo essere cresciuto negli anni Quaranta, è rimasto pressoché stabile per trent’anni, e dagli anni Ottanta in poi risulta significativamente diminuito, fino a tornare a livelli inferiori a quelli del 19502; c) usando dati recenti sulla distribuzione del reddito per quintili di popolazione di 80 Paesi, si può osservare che negli ultimi 40 anni il tasso di crescita del Pil pro capite del quintile più povero non è stato inferiore alla media generale: il che consente di escludere che la crescita per sé comporti maggiori diseguaglianze all’interno dei Paesi, anzi di concludere che «growth is good for the poor»3. d) la riduzione della povertà è largamente correlata al tasso di crescita dell’economia: si confrontino casi opposti come Cina, India, Vietnam da un lato (Paesi che hanno sperimentato crescita assai superiore alla media negli ultimi due decenni e forte caduta della dimensione assoluta e relativa di popolazione povera) e dall’altro lato Paesi che hanno registrato crescita lenta o addirittura calo del livello di reddito reale e aumento o stagnazione della povertà (Russia e Paesi della Csi, gran parte dei Paesi dell’Africa sub-sahariana). Globalizzazione, divari di crescita e distribuzione del reddito tra Paesi Le consolidate teorie degli scambi internazionali e dello sviluppo suggeriscono alcuni punti fermi. Primo, nella misura in cui la specializzazione internazionale dei Paesi riflette la relativa abbondanza-scarsità dei fattori produttivi (attraverso l’exportimport di beni e servizi ogni Paese realizza una «esportazione netta» dei propri fattori abbondanti relativamente meno costosi, il cui reddito relativo per ciò stesso tenderà a salire), ci si può attendere che il fattore lavoro non qualificato sia avvantaggiato dalla globalizzazione nei Paesi poveri, dove è chiara- mente fattore abbondante, e semmai sia svantaggiata la manodopera meno qualificata all’interno dei Paesi ricchi, in cui questo fattore è relativamente scarso e compete sia con le importazioni che con i flussi immigratori provenienti dai Paesi a più basso reddito. L’integrazione produce comunque vincenti e perdenti all’interno di ogni Paese, con probabile divergenza fra livelli di reddito e di produttività tra chi riesce a entrare nel processo di integrazione medesimo e chi ne viene escluso o resta ai margini. Secondo, al di là di questi effetti distributivi molto semplificati, la specializzazione dei Paesi riflette ancor più fenomeni di «economie di scala» (statiche e dinamiche) ed «economie esterne» di agglomerazione geografica. Sotto questo profilo la globalizzazione non ha effetti chiaramente identificabili sulle diseguaglianze all’interno dei Paesi, mentre si può dire che essa accresce le distanze tra Paesi che riescono di più e Paesi che riescono di meno a coltivare il circolo virtuoso della produttività, dei redditi e della ricchezza. Ma proprio in un mondo di vantaggi competitivi dinamici (non statici) un Paese che parte in ritardo, da livelli maggiori di povertà, se investe con decisione in risorse umane e modernizzazione delle proprie strutture civili e coglie le opportunità di una sempre più rapida diffusione internazionale delle tecnologie, anche avvalendosi di produzioni su licenza e attraendo investimenti diretti dall’estero, può cambiare abbastanza rapidamente il proprio modello di specializzazione internazionale, inseguire e perfino superare i livelli di competitività dei Paesi storicamente più avanzati. Di ciò si sono visti esempi eloquenti in casi come i «quattro draghi asiatici» (Hong Kong, Taiwan, Sud Corea e Singapore) e più recentemente in Paesi come Cina, Malesia, India, Messico, Brasile. Terzo, i capitali e le tecnologie delle imprese multinazionali si dirigono assai più verso altri Paesi ricchi e, all’interno del mondo dei Paesi poveri, verso un ristretto numero di Paesi emergenti meglio dotati già in partenza di capitale umano (manodopera relativamente istruita) e di infrastrutture di base, oltre che di risorse naturali4. Ciò concorre ad allargare i divari all’interno del gruppo dei Paesi in via di sviluppo. Quarto, storia e teoria indicano chiaramente alcune circostanze che tendono ad allargare le diseguaglianze tra Paesi ricchi e poveri in un mondo di crescente interdipendenza: a) declino tendenziale delle «ragioni di scambio», ovvero del proprio potere d’acquisto internazionale, dei Paesi esportatori di prodotti primari caratterizzati da alta elasticità dell’offerta e bassa elasticità-reddito della domanda mondiale, se questi Paesi non riescono a diversificare le proprie produzioni esportate verso prodotti manufatturieri (cosiddetta «crescita immiserente») 5; b) condizioni geo-strutturali sfavorevoli che riducono l’elasticità dell’offerta di risorse in risposta alle occasioni di sviluppo e di esportazione: siccità e disastri naturali, malattie endemiche, lontananza dal mare e connessi alti costi di trasporto: è il caso di molti Paesi dell’Africa sub-sahariana e dell’Asia centrale; c) scarsa disponibilità di credito alle famiglie e alle unità produttive minori, in presenza di elevati fattori di rischio; d) fragilità o totale assenza di un quadro giuridico-istituzionale fondante osservatorio internazionale 133 134 dei diritti proprietari e delle regole dello scambio di mercato, che impedisce o disincentiva i meccanismi di base dell’accumulazione della ricchezza e ratifica il dominio dell’arbitrio e dell’economia informale con bassissimi livelli di produttività; quest’ultimo aspetto sta finalmente ricevendo crescente attenzione nelle analisi su sviluppo e sottosviluppo, incluse quelle della Banca mondiale nel suo Rapporto annuale sullo sviluppo6. osservatorio internazionale Più in generale possiamo dire, guardando all’economia di un singolo Paese a prescindere dal suo grado di apertura verso l’estero, che – in assenza di esplicite politiche redistributive – lo sviluppo economico lasciato alle regole spontanee del mercato tende ad aumentare, non a ridurre, le distanze tra ricchi e poveri, tra chi è in grado e chi è meno in grado di cogliere le opportunità di guadagno e di accumulazione della ricchezza. Ciò vale a maggior ragione nel paragone fra Paesi che si confrontano nello scenario economico mondiale partendo da ben diverse condizioni geografiche, storiche, umane e tecnologiche. Non esiste a livello mondiale un «dittatore benevolo» o un «governo democratico universale» responsabile di svolgere quelle funzioni redistributive ed equitative di cui possono disporre governi nazionali, capaci di ridurre i meccanismi di emarginazione, favorire la mobilità sociale, promuovere uno Stato del benessere, garantire all’intera popolazione l’accesso ai beni pubblici e alle infrastrutture essenziali. Solo in un mondo perfettamente statico a sviluppo zero le diseguaglianze di partenza, grandi o piccole che siano, tenderebbero per sé a mantenersi inalterate (altro che uscita dalla povertà!). Globalizzazione, crescita e diseguaglianze tra Paesi e allinterno dei Paesi Fermo restando che la riduzione e la progressiva eliminazione della povertà presuppongono un circolo virtuoso di crescita del prodotto pro capite e della produttività (cioè una crescita sostenibile anche sotto il profilo del vincolo finanziario esterno che ha pesato in modo determinante negli episodi recenti di crisi asiatica, russa e latino-americana), moltissime analisi storiche ed econometriche sono state indirizzate negli ultimi anni ad esplorare le relazioni tra distribuzione del reddito, crescita e integrazione internazionale dell’economia e della società. Come spesso accade, le conclusioni sono ben raramente incontrovertibili, alla luce di dati diversi per gruppi di Paesi e periodi di tempo, nonché soprattutto di diverse specificazioni empiriche delle variabili che si ritengono in gioco. Crescita e diseguaglianze distributive. In base a dati sempre più disponibili sulla distribuzione dei redditi in vari Paesi e sui decenni recenti, non appare confermata l’esistenza di una sistematica «curva di Kuznets» secondo la quale l’ineguaglianza nella distribuzione del reddito di un Paese aumenta nelle fasi iniziali del suo sviluppo, per poi ridursi quando il Paese raggiunge un certo livello medio di benessere. Alcuni lavori econometrici ispirati a modelli di «political economy» – secondo cui in regimi democratici o semi-democratici la politica dello sviluppo del governo riflette le domande dell’elettore mediano – usando sia serie stori- che lunghe di Paesi Ocse, sia serie storiche più brevi sul secondo dopoguerra di un numero elevato di Paesi trovano una correlazione alquanto significativa tra crescita nei vari sottoperiodi e minore disuguaglianza di partenza all’inizio di ogni sottoperiodo7. Questi risultati sembrano robusti, alla luce di varie prove econometriche alternative che considerano la presenza di altre variabili rilevanti per la crescita (ad es. tasso di scolarità, struttura demografica, distorsioni da eccessiva interferenza dello Stato nell’economia, ecc.), nonché l’eventuale relazione di causalità inversa e altri problemi. Altri autori accolgono con un certo scetticismo questi risultati, limitandosi a concludere che non vi è certamente prova di una relazione opposta (maggiore diseguaglianza che favorisca la crescita), ma l’interpretazione dei dati richiede molte cautele8. Come in molti casi di analisi «cross section» su diversi Paesi, i dubbi nascono innanzi tutto dai possibili effetti di variabili omesse nel modello ma potenzialmente influenti sullo sviluppo del Paese: ad esempio, condizioni geofisiche più o meno favorevoli, tasso di criminalità9, presenza o meno di riforme agrarie che accrescano la produttività delle zone rurali sostituendo al latifondo una struttura di «small farming», politiche che favoriscono la mobilità evitando il degrado dovuto all’inurbamento selvaggio, sussidi alle famiglie per incoraggiare la scolarità dei minori, quadro legale dei diritti di proprietà e via dicendo. Più in generale si fa notare che, se resta vero che condizioni iniziali di diseguaglianza non favoriscono la crescita (e non solo perché il governo democratico è più indotto a usare strumenti fiscali redistributivi che distorcono il mercato e disincentivano investimenti e risparmio), l’efficacia delle politiche fiscali e creditizie redistributive e delle altre politiche che esercitano presumibili effetti non secondari sul tasso di investimento e di sviluppo andrebbe esaminata più in profondità, con ricorso ad analisi micro-istituzionali. Integrazione (apertura) e diseguaglianze distributive all’interno dei Paesi. Come già richiamato, i processi di specializzazione di un Paese nel commercio internazionale comportano effetti distributivi tra fattori favoriti nella crescita delle esportazioni e fattori penalizzati dalla concorrenza delle importazioni. Ma da questa constatazione di base non discendono conseguenze automatiche e univoche sulla distribuzione del reddito delle famiglie, collegabili alla crescente proiezione internazionale del Paese. La contestazione noglobal di Seattle nasceva in misura non trascurabile dal timore delle forze sindacali nei Paesi ricchi (Sindacato Afl-Cio statunitense in testa) di essere costretti ad accettare condizioni retributive del lavoro ordinario sempre più sfavorevoli, sotto la spinta delle importazioni dai Paesi a bassi salari (Asia e America Latina), oltre che dei continui flussi immigratori («race to the bottom»). Paradossalmente, e in parte inconsapevolmente, nella medesima occasione altre parti del movimento noglobal esprimevano la propria protesta contro lo sfruttamento del lavoro nei Paesi meno sviluppati da parte dei profitti delle imprese multinazionali. I dati disponibili non danno molto sostegno alla tesi della «race to the bottom», per cui il calo assoluto e relativo dei salari reali della manodopera meno qualificata nei Paesi ricchi (fenomeno certamente registratosi negli Stati osservatorio internazionale 135 osservatorio internazionale 136 Uniti negli ultimi due decenni, mentre in Europa la maggiore rigidità verso il basso dei salari si è scaricata su una maggiore disoccupazione) sarebbe imputabile alla concorrenza delle importazioni da Paesi a bassi salari. Sul mercato del lavoro, la caduta della domanda relativa (e quindi dei salari relativi) della manodopera meno qualificata è causata prevalentemente dal progresso tecnologico «risparmiatore di lavoro», dalle innovazioni di prodotto e di processo che richiedono quote crescenti di manodopera istruita e qualificata, sia nella produzione manifatturiera vera e propria che nella quantità crescente di servizi incorporati nei prodotti («skill biased technical change»). Questi spostamenti nella domanda relativa di lavoro si registrano peraltro anche nei Paesi del Sud, dove le imprese del Nord delocalizzano intere produzioni: fenomeno che – si noti – da un lato accentua lo spiazzamento della manodopera meno qualificata nel Nord (secondo gli standard del Nord) ma, dall’altro lato, genera una domanda aggiuntiva di manodopera relativamente più qualificata nel Sud secondo gli standard di partenza del Sud. Si calcola che la delocalizzazione di produzioni dagli Stati Uniti al Messico negli anni Ottanta, anche prima della costituzione del Nafta, abbia generato un aumento del 15-20% nella domanda di lavoro qualificato (rispetto alle qualifiche medie prevalenti) negli Stati Uniti, ma contemporaneamente un aumento del 45% nella domanda di lavoro qualificato in Messico (rispetto alle qualifiche medie prevalenti nel Paese)10. Restano irrisolti, come spesso accade, problemi interpretativi dei risultati, data la specificazione delle stime econometriche. Ad esempio, Adrian Wood è assai più convinto dell’effetto «race to the bottom» nei Paesi ricchi, perché l’effetto di minor domanda relativa di lavoro non qualificato sarebbe assai maggiore di quanto appaia dalle statistiche disponibili 11. Le stime econometriche usuali adottano infatti nel calcolo i coefficienti di manodopera rilevati statisticamente nelle poche produzioni nazionali che di fatto sono sopravvissute alla perdita di competitività, anziché i coefficienti (più elevati) che la stessa manodopera avrebbe nelle produzioni ormai cancellate dalla concorrenza delle importazioni. Ma, come notano molti autori12, troppe sono le variabili in gioco, tra cui anche le politiche fiscali compensative e i sussidi a sostegno dei redditi bassi, per poter desumere con certezza quale direzione di causalità vi sia fra maggiore integrazione internazionale del Paese e maggiori diseguaglianze dei redditi all’interno del Paese. Integrazione, crescita e povertà. A fronte di una certa apologetica della globalizzazione e del libero mercato, non mancano voci di storici economici e di economisti a ricordare che molte esperienze di crescita rapida e di successo competitivo di Paesi oggi ricchi o rapidamente emergenti sono state costruite sulla base di forti elementi di intervento pubblico nell’economia, se non di vero e proprio protezionismo13. Si pensi alla storia di Paesi come Usa, Germania, e Giappone prima del 1914 e in tempi più recenti di Cina, Corea, India, Vietnam, Brasile. Si fa inoltre osservare che molti Paesi emergenti oggi additati come «successful globalizers» hanno puntato su un’apertura verso l’estero fatta più di promozione delle esportazioni (anche con forti investimenti pubblici e impiego massiccio di sussidi statali) che di liberalizzazione delle importazioni. Non a caso ciò ha provocato e ripetutamente provoca reazioni difensive da parte dei Paesi ricchi, la cui struttura di dazi e contingentamenti all’import e le cui azioni anti-dumping sono particolarmente discriminanti proprio contro produzioni in cui i Paesi emergenti a basso salario hanno forti potenzialità esportative (principalmente produzioni agricole, tessile-abbigliamento, prodotti in pelle, acciaio). Quanto alla lotta contro la povertà nei Paesi emergenti di grande dimensione (come Cina, India, Indonesia, Brasile, Messico), una crescita sostenuta del Pil e dell’occupazione è condizione necessaria ma non sufficiente ad evitare sacche di povertà rurale come nelle regioni svantaggiate dalla lontananza dalle zone costiere. Per intaccare efficacemente questi fenomeni di povertà endemica non basta evidentemente liberalizzare e de-regolare il mercato interno, occorrono politiche specifiche per la diffusione di beni pubblici quali sanità, scuola, istruzione professionale, trasporti, ecc. Certo è incontrovertibile, come risulta da ripetute analisi della Banca mondiale e di economisti indipendenti, che negli ultimi due decenni le migliori performance di crescita del reddito pro capite e della produttività si sono registrate in Paesi complessivamente più orientati a politiche di sviluppo del proprio interscambio con l’estero e di attrazione degli investimenti diretti dall’estero. Un gruppo di 24 Paesi emergenti che negli anni Ottanta e Novanta hanno significativamente accresciuto il proprio grado di apertura verso l’estero (sia come peso dell’interscambio sul Pil sia come velocità di abbattimento delle barriere all’importazione), ove abitano 3 miliardi di popolazione mondiale, ha registrato in questo periodo una netta accelerazione nella crescita rispetto ai due decenni precedenti, fino a realizzare una crescita del Pil pro capite superiore al 5% negli anni Novanta, mentre un gruppo di 49 Paesi «non globalizers» (un miliardo di abitanti) ha registrato una netta decelerazione14. Alcuni tra i più popolosi «globalizers» come Cina, India e Vietnam hanno inoltre ridotto sensibilmente la dimensione assoluta della loro povertà. Naturalmente non è possibile discriminare, tra le variabili che possono spiegare queste diverse performance di sviluppo, quanto peso hanno avuto, accanto alle politiche di apertura verso l’estero, altre importanti politiche come moneta-fisco, liberalizzazione del mercato interno dei beni e dei fattori, sostegno agli investimenti produttivi, credito alle Pmi, diffusione della scolarità, sviluppo urbano, miglioramento degli standard sanitari, progressi nel quadro legale a diffusione e difesa dei diritti proprietari. Questa evidenza empirica porta dunque a concludere che l’integrazione internazionale dell’economia e del tessuto istituzionale tende sempre più ad accompagnarsi a condizioni favorevoli per la crescita e la riduzione della povertà, senza generare per sé alcun effetto socialmente dannoso in termini di diseguaglianza, salvo naturalmente squilibri tra particolari regioni e particolari categorie di popolazione rurale e urbana che stentano a fruire dei vantaggi della globalizzazione, categorie che tuttavia non godrebbero di condizioni migliori in un contesto di politiche «anti-globali». Una recente rassegna stori- osservatorio internazionale 137 138 co-economica su globalizzazione e diseguaglianze riassume con un equilibrato giudizio. «Il processo di globalizzazione probabilmente attenua la disuguaglianza crescente tra le nazioni. Quelle che hanno ottenuto i maggiori benefici da tale processo sono le nazioni povere che hanno saputo cambiare le proprie politiche in modo da trarne vantaggio, mentre quelle che hanno ottenuto i benefici minori o non l’hanno fatto, o sono troppo isolate per farlo» 15. Aggiungerei una considerazione di sociologia politica: l’apertura verso l’estero e l’integrazione internazionale dell’economia e della società sono probabilmente condizioni necessarie, o almeno molto favorevoli nel medio periodo, perché nel Paese cresca una cultura di democrazia e di mercato, perché quindi la stessa classe dirigente e di governo sia spinta ad effettuare quelle politiche distributive e di investimento pubblico e a ricercare quelle regole di convivenza civile (inclusi diritti umani e standard sociali del lavoro) che possano assicurare un’ampia diffusione nel tessuto sociale dei vantaggi della globalizzazione16. osservatorio internazionale Conclusioni Dalla rivoluzione industriale in poi, il mondo ha conosciuto due grandi fasi di globalizzazione: la prima coincidente con l’affermazione degli Stati Uniti e del Giappone accanto alla vecchia Europa (1870-1910), la seconda nel recente dopoguerra. Che a sua volta secondo alcuni va scomposto nel periodo di massimo sviluppo dei Paesi ricchi dell’Ocse (1950-80), e nel ventennio 1980-2000 che ha visto il prepotente affermarsi dei nuovi Paesi concorrenti asiatici e latino-americani. Per i Paesi in transizione dall’economia pianificata all’economia di mercato vale una periodizzazione a sé. Mentre resta alquanto dubbio qualsiasi giudizio generale sul ruolo che politiche di apertura verso l’estero hanno avuto durante la prima fase storica, rispetto all’impiego di strumenti di protezione e sussidio, nel promuovere investimenti, produttività e ricchezza, vi sono meno dubbi sulle affermazioni che seguono. a) Sia nella prima sia nella seconda fase storica di globalizzazione dell’economia mondiale, più elevati tassi di crescita dei redditi e della ricchezza non sono stati accompagnati da crescenti diseguaglianze nella distribuzione del reddito, anzi Paesi con condizioni di minore diseguaglianza distributiva hanno man mano mediamente realizzato migliori performance di crescita. b) Nella fase storica del recente dopoguerra, una crescente apertura verso gli scambi commerciali e gli investimenti esteri si è tendenzialmente associata a migliori performance di crescita e di riduzione della povertà; pertanto i Paesi che si sono maggiormente avvantaggiati dal diffondersi della globalizzazione dei mercati sono quelli che hanno adottato politiche più orientate a cogliere le opportunità di integrarsi col resto del mondo. c) Ciò ha comportato una crescente diseguaglianza tra livelli di reddito e ricchezza tra Paesi, con una dinamica demografica che ha accentuato le distanze tra Paesi rapidamente emergenti e Paesi rimasti in condizioni di estrema arretratezza. d) Nella prima fase storica della globalizzazione, i massicci flussi migratori hanno in qualche modo concorso a innalzare il reddito medio pro capite dei Paesi più poveri (di origine) e ad accentuare le disuguaglianze tra ricchi proprietari e assai meno ricchi immigrati (nei Paesi di destinazione). Nella più recente fase storica hanno avuto un peso relativo nettamente minore i flussi migratori di lavoro e invece un peso crescente i movimenti internazionali di capitali, che hanno accentuato le distanze tra Paesi, dal momento che (almeno per gli investimenti diretti manifatturieri) si sono concentrati e continuano a concentrarsi su un numero relativamente limitato di Paesi ricchi e di Paesi emergenti meglio dotati di capitale umano e di infrastrutture. e) Un ampio e recente riesame delle teorie economiche e delle politiche di sviluppo realizzate in questo dopoguerra ha portato a sottolineare il fallimento di politiche di aiuto pubblico allo sviluppo e di lotta alla povertà se le politiche tradizionali di aggiustamento degli squilibri macroeconomici (da cui anche il nodo del debito estero via via insostenibile) non sono guidate da istituzioni e regole di «governance» che frenano la cattiva allocazione delle risorse, creano incentivi di mercato, promuovono l’investimento in capitale umano (che diventa «capitale sociale»), favoriscono l’importazione e la diffusione di innovazioni e tecnologie. f) Come ben sintetizzato nei due ultimi World Development Report della Banca mondiale, un’efficace lotta alla povertà presuppone un quadruplice impegno per 1) diffondere le opportunità dello sviluppo anche facendo leva sulla tendenziale apertura competitiva del sistema e sul più ampio accesso alle tecnologie dell’informazione («opportunities»); 2) ridurre la vulnerabilità a shock economici, disastri naturali, malattie, conflitti e violenza («security»); 3) accrescere la partecipazione, integrazione e diffusione di responsabilità delle varie componenti della società (dalle famiglie alle amministrazioni locali agli organismi non governativi) alle azioni intraprese per emergere dall’arretratezza («empowerment»); 4) realizzare un quadro istituzionale capace di promuovere rispetto dei diritti, pluralismo dei mezzi di informazione, regole di concorrenza, accesso al credito, lotta alla corruzione («building institutions for markets»). L’agenda per lo sviluppo, la lotta alla povertà e alle diseguaglianze non lascia spazio a illusioni, né a comodi alibi. Di tutto questo non sono forse pienamente consapevoli i vari esponenti del movimento noglobal quando criticano (giustamente) lo sviluppo diseguale e difendono (giustamente) i diritti dei soggetti più deboli perdenti nel grande gioco della globalizzazione, ma poi protestano contro le uniche istituzioni internazionali che prefigurano qualche forma di governo benigno della stessa globalizzazione. Già a Seattle si sono attirati, tra gli altri, quella battuta del primo ministro di un importante Paese emergente «Questi dimostranti in realtà vogliono difenderci dallo sviluppo!». note 1 Dati tratti da World Bank, World Development Report 2000-2001 - Attacking Poverty, Washington, D.C., 2000; Undp (United Nations Development Program), Human Development Report, Genève, 2000. 2 A. Boltho e G. Toniolo, The Assessment: The Twentieth Century – Achievements, Failures, Lessons, osservatorio internazionale 139 osservatorio internazionale 140 «Oxford Review of Economic Policy», 15, 1999, pp. 1-17. 3 D. Dollar e A. Kraay, Growth Is Good For The Poor, «World Bank Policy Research Sworking Paper», 2587, 2001. 4 R. Lucas, Why Doesn’t Capital Flow To The Poor Countries?, «American Economic Review», May 1990, pp. 92-96. Si vedano anche i rapporti annuali Unctad (United Nations Conference on Trade and Development), World Investment Report, Genève. A fine 2000, la Triade (Europa, Usa, Giappone) pesava quasi l’80% sullo stock degli Ide (investimenti diretti all’estero) mondiali in uscita e per il 60% degli Ide in entrata. Sullo stock degli Ide in entrata nei Paesi emergenti (1.979 miliardi di dollari su 6.314) quattro Paesi da soli (Cina, Hong Kong, Singapore, Brasile) pesavano per il 60%, mentre altri sette (Argentina, Cile, Bermuda, Corea, Indonesia, Malesia, Polonia) pesavano per un altro 18% (Unctad, World Investment Report 2001 - Promoting Linkages, Genève, 2001). 5 Contrariamente a quanto sostenuto da una certa letteratura terzomondista, non vi è evidenza di un declino secolare delle ragioni di scambio dei Paesi in via di sviluppo, anche a prescindere da petroliogas. I prezzi dei prodotti primari presentano invece una assai elevata volatilità nel tempo, a causa di maggior rigidità dell’offerta a fronte di cicli della domanda, nonché di frequenti shock di offerta. 6 H. de Soto, Il mistero del capitale. Perché il capitalismo ha trionfato in Occidente e ha fallito nel resto del mondo, Milano, Garzanti, 2001. 7 Si vedano, tra gli altri T. Persson e G. Tabellini, Is Inequality Harmful For Growth?, «American Economic Review», 3, 1994, pp. 600-662; M. Barbanti-Brodano e A. Rendina, What Is The Relationship Between Inequality And Growth? An Empirical Investigation With A New Data Set, «Indian Journal of Applied Economics», January 2000. 8 F. Bourguignon, Can Redistribution Accelerate Growth And Development?, First draft of Paper presented for the Abcde della Banca Mondiale, Paris, 26-28 giugno 2000; R. Barro, Inequality, Growth and Investment, Nber Working Paper 7038, 1999. 9 Secondo stime di Bourguignon, Can Redistribution Accelerate, cit., la criminalità diffusa genera costi pari al 7,5% del Pil in America Latina. 10 G. Hanson e A. Harrison, Trade Liberalization and Wage Inequality in Mexico, «Industrial and Labor Relations Review», 52, 1999, pp. 271-288. 11 A. Wood, North-South Trade , Employment and Inequality, Oxford, Clarendon Press, 1994. 12 R.Z. Lawrence e M.J. Slaughter, International Trade and American Wages in the 1980s: Giant Sucking Sound or Small Hiccup?, «Brookings Papers on Economic Analysis: Microeconomics», 2, 1993, pp. 161-226; P.H. Lindert e J.G. Williamson, Does Globalization Make the World More Unequal?, Nber Working Paper 8228, April 2001. 13 P. Bairoch, European Trade Policy, 1815-1914, in P. Mathias e S. Pollard, The Cambridge Economic History of Europe, vol. VIII, Cambridge, Cambridge University Press, 1999. 14 Dollar e Kraay, Growth Is Good For The Poor, cit. 15 Lindert e Williamson, Does Globalization Make the World More Unequal?, cit. 16 L’integrazione internazionale comporta non solo arbitraggio fra mercati dei beni, servizi e capitali, ma anche una qualche tendenza all’arbitraggio di standard e norme sociali: cfr. D. Rodrik, Has Globalization Gone Too Far?, Washington, D.C., Institute of International Economics, 1997.