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Revoca della rinunzia all`eredita` e diritto di accrescimento

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Revoca della rinunzia all`eredita` e diritto di accrescimento
H:/LINOTIPO_H/06-WKI/Utet_Riviste_cod_Civ/Fps_2011/0777_11_FPS_12_2011/impa_def/FPS_810_824.3d 29/11/2011 15:38 pagina 810
IL COMMENTO
» Accrescimento
Revoca della rinunzia all’eredità
e diritto di accrescimento
Vincenzo Barba
Professore straordinario di Istituzioni di diritto privato
»
SOMMARIO
1. Il tema – 2. La rinunzia e la revoca della rinunzia all’eredità – 3. Acquisto automatico della quota devoluta e limite al potere di revoca – 4. Presupposti
dell’accrescimento tra co-chiamati testamentari – 5. Segue: la cosı̀ detta coniunctio verbis e la cosı̀ detta coniunctio re – 6. Presupposti dell’accrescimento
tra co-chiamati legittimi: il chiamato che non voglia accettare – 7. Segue: coloro che avrebbero concorso – 8. Modalità di accrescimento in favore di più
soggetti e revoca della rinunzia all’eredità
1. Il tema
L
Poiché soltanto il mero svolgimento e la piena
applicazione dei principı̂ che orientano queste
due discipline possono consentire di offrire
soluzione a tutti i possibili casi che la realtà è
capace di profilare.
a revoca della rinunzia all’eredità, nei casi in cui l’autore
avrebbe concorso con altri chiamati e nelle ipotesi in cui
non possano operare prevalenti meccanismi devolutorı̂, profila
difficili momenti di collegamento e singolari intersezioni di
discipline con la materia dell’accrescimento. Non soltanto perché a essa il legislatore riserva una precisa disciplina per il solo
caso di successione testamentaria, affidando, nel caso di successione legittima, l’operatività del meccanismo alla sola norma di cui all’art. 522 c.c., la quale solleva il problema della sua
stessa ammissibilità e dei suoi presupposti, ma soprattutto perché l’eventuale accettazione da parte del chiamato o di uno dei
chiamati, che con il rinunziante concorre, potrebbe fungere da
fatto impeditivo all’esercizio del potere di revoca.
Il tema, poi, parrebbe destinato a ulteriormente intricarsi se,
come nel caso(1) che origina queste variazioni in tema di revoca della rinunzia all’eredità e accrescimento, i chiamati, che
avrebbero concorso con il rinunziante, sono più d’uno e uno
di essi sia minore e soggetto alla potestà dell’altro genitore, che,
pur chiamato all’eredità, concorre con gli altri, ma in quota
differente rispetto a quella spettante, complessivamente, ai figli.
Stabilire, in difetto dell’operare di altri prevalenti meccanismi
devolutorı̂, quando l’accrescimento, nel suo chiudere il procedimento successorio e, con esso, nell’esaurire tutti i poteri procedimentali del chiamato, non consenta a colui che abbia rinunziato di revocare la propria rinunzia, impone di chiarire in
cosa consista il potere di revoca e soprattutto di verificare a
quali presupposti si realizzi l’accrescimento della quota.
Con l’ovvia precisazione che, nell’ipotesi in cui uno dei soggetti
chiamati sia minore di età, la di lui accettazione dell’eredità, la
quale può essere fatta soltanto con beneficio d’inventario, a
norma degli artt. 471 e 472 c.c., cosı̀ come la di lui rinunzia e,
probabilmente, anche la di lui revoca della rinunzia, debbono,
di là della stessa qualificazione che di questi atti si voglia offrire(2), essere previamente autorizzate da parte del giudice tutelare, a norma dell’art. 320, 3º co., c.c., nel caso di minori
soggetti a potestà genitoria, e dell’art. 374, 1º co., n. 1, c.c.,
nel caso di minori soggetti a potestà di un tutore.
Nella difficile intersezione di tutti questi temi, credo che soltanto un preciso regolamento dei confini applicativi dell’accrescimento avrebbe consentito una piana soluzione anche all’intricato caso che origina queste riflessioni.
Esso può cosı̀ sintetizzarsi: Tizio muore ab intestato e lascia
dietro di sé la moglie, Caia, e quattro figli, A, B, C, e D, di cui
D minore d’età. I tre figli maggiorenni rinunziano all’eredità e,
dopo appena ventinove giorni dal compimento dell’atto di rinunzia, revocano la rinunzia medesima. Si apre, quindi, una
controversia tra, da una parte, i figli che hanno rinunziato all’eredità e, successivamente, revocato la propria rinunzia, i
quali assumono di essere eredi del di loro padre e, dall’altra
parte, il figlio D, il quale assume di essere, tra i figli, l’unico
erede.
(1) Trib. Roma, sez. VIII, decisa il 10.1.2011, inedita, la cui massima
potrebbe suonare cosı̀: «Se vi sono più chiamati in concorso con il rinunziante con diritto di accrescimento, i quali abbiano già accettata l’eredità,
non sarà più possibile, per il rinunziante di accettare l’eredità. La sua
quota, infatti, si sarà automaticamente accresciuta a quella dei coeredi
senza bisogno di ulteriore accettazione da parte di questi ultimi. In conseguenza, perché si abbia perdita del diritto di accettare da parte del
rinunziante è sufficiente che anche uno solo dei chiamati congiuntamente
con lui abbia già acquistato la propria quota, che si intende ab origine
determinata indirettamente in funzione del concorso tra i chiamati ex art.
522 c.c.».
(2) La dottrina maggioritaria afferma che accettazione e rinunzia all’eredità siano atti di natura negoziale. In senso contrario, anche per un più
ampio riferimento di letteratura, il mio La rinunzia all’eredità, Milano,
2008, nel quale, movendo dall’idea che l’essenza del negozio giuridico è
nella corrispondenza degli effetti alla fattispecie divisata dalle parti, ho
cercato di dimostrare che si tratta, con tutti i corolları̂ che da ciò derivano,
di atti giuridici in senso stretto.
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IL COMMENTO
Nella decisione, il Giudice precisa che i figli, i quali domandano
che sia accertata la loro qualità di eredi, mentre hanno provato
che, nel tempo intercorrente tra l’atto di rinunzia e quello di
revoca, l’altro fratello, poiché minore, non avrebbe accettata
l’eredità, essendo mancata qualunque attività della madre
orientata alla richiesta dell’autorizzazione al giudice tutelare,
non hanno, invece, offerta la prova che in quell’intervallo temporale la madre non abbia accettato.
Il Giudice conclude, quindi, nel senso che di Tizio sono eredi
Caia e D, ciascuno per ½. Postulando, dunque, per un verso,
che l’accrescimento operi sia a vantaggio del fratello, sia a
vantaggio della madre, sebbene l’ultima fosse chiamata in quota diversa da quella dei figli, e, per altro verso, che l’accrescimento operi a vantaggio di D, pur in difetto di una sua accettazione nel tempo intercorrente tra la rinunzia dell’eredità formulata da parte dei fratelli e la revoca(3). Assumendo, dunque,
per acquisiti nella soluzione del problema applicativo dell’accrescimento in caso di rinunzia all’eredità e successiva revoca
della rinunzia, principı̂ interpretativi che attendono una accorta verifica normativa e la fissazione rigorosa dei difficili momenti di collegamento con le discipline con le quali, inevitabilmente, si intersecano.
2. La rinunzia e la revoca della rinunzia all’eredità
Q
ueste riflessioni, benché abbiano ad oggetto il tema del
rapporto tra rinunzia all’eredità e accrescimento e, quindi, trovino il loro momento più importante e significativo nella
disciplina dello specifico istituto devolutorio, non possono che
muovere da un inquadramento, seppure rapido e sommario,
della rinunzia all’eredità e della sua revoca.
Non soltanto perché da esse dipende la verifica circa l’esistenza
di una vocazione a favore dei soggetti interessati nel procedimento successorio, ma, soprattutto, perché tutti quegli istituti
che a diverso titolo concorrono verso il risultato ultimo consistente nell’acquisto dell’eredità, credo che debbano, necessariamente, essere calati nella logica del procedimento successorio che, sola, riesce a giustificare il perché di struttura e funzione degli atti che vi concorrono e soprattutto la natura, la rilevanza e la singolare stabilità degli effetti, ossia delle vicende di
rapporti giuridici, di cui quelli sono capaci(4).
Nel complesso procedimento successorio, che s’apre con la
morte del de cuius e chiude con l’accettazione dell’eredità, gli
atti di rinunzia e di eventuale revoca vi si calano con tratto di
assoluta eventualità, trattandosi di atti mai necessarı̂, ma solo
episodici, e con carattere di mera strumentalità, essendo atti
dai quali non dipende né l’apertura né la chiusura, ma soltanto
un diverso svolgimento di quel dato procedimento, che l’uno
apre a nuovi possibili scenarı̂ conclusivi e l’altro traduce in
quello scenario che il primo sembrava aver precluso.
Il tratto eventuale e il carattere strumentale della rinunzia al-
(3) Scrive il giudice: «Insomma, nella situazione di chiamata congiuntiva,
la delazione a favore del rinunziante cade per effetto dell’accettazione
anche di uno solo dei più chiamati solidalmente con il rinunziante medesimo, poiché il diritto di ognuno si estende potenzialmente a tutta l’eredità». La decisione, certamente condivisibile nel principio di diritto applicato, attende, come risulterà chiaro dalla esposizione seguente, una attenta verifica dei casi e dei modi nei quali si possa dare accrescimento. Anticipando l’esito finale dell’indagine, credo che, nel caso di specie, la quota
vacante dei figli non potesse accrescere la quota del coniuge, mancando
nelle loro chiamate i presupposti per l’accrescimento, al pari di come non
credo che la quota dei figli vacanti possa aver accresciuto quella del figlio
minorenne, non essendovi prova e, anzi, gravi indizi di segno contrario, in
l’eredità credo si possano apprezzare soltanto avendo riguardo
al rapporto giuridico sul quale l’atto incide.
Il chiamato che rinunzia all’eredità, infatti, non si limita a rifiutare l’acquisizione dell’eredità, che sarebbe soltanto l’effetto
della accettazione, o, ancor peggio, la stessa eredità, la quale,
prima dell’accettazione, non può essere nella titolarità del
chiamato, bensı̀ si chiama fuori dal procedimento successorio,
spogliandosi di tutti poteri che qualificano la sua posizione
giuridica in termini di chiamato.
La rinunzia all’eredità incide, principalmente, sul potere di accettare l’eredità, il quale a cagione di questo atto viene perduto
da parte del suo originario titolare, che, spogliato di tale potere,
perde la qualità di chiamato e assume, nel procedimento successorio, il minor importante ruolo di vocato all’eredità(5).
Contestualmente l’ordinamento giuridico, non potendo tollerare un procedimento che sia privo di un protagonista plenipotenziario, promuove, individuandoli secondo rigorosi meccanismi devolutorı̂, soggetti che in quel procedimento vestivano un ruolo secondario e di attesa, nei nuovi protagonisti. I
quali acquistano i poteri perduti dal rinunziante e, tra essi,
anche il fondamentale potere di accettare l’eredità.
Al vecchio chiamato, fuoriuscito dal procedimento successorio
in ragione del suo atto di rinunzia all’eredità, l’ordinamento
sostituisce un nuovo chiamato, che prende il ruolo del precedente e che la legge individua sulla base dei precisi, rigorosi e
gerarchici meccanismi devolutorı̂ sinteticamente indicati, per il
caso di successioni legittime, all’art. 522 c.c., e, per il caso di
successioni testamentarie, all’art. 523 c.c.
Quale relazione esista tra la perdita dei poteri del chiamato
rinunziante e l’acquisto dei poteri da parte del chiamato a favore del quale si è compiuta la devoluzione, benché la questione abbia una ricaduta soltanto eventuale, ma, nondimeno, non
irrilevante e astratta rispetto al tema indagato, credo si debba e
possa rispondere soltanto all’esito di una puntuale verifica che
tenga conto non soltanto della storia del potere perduto dal
primo e acquistato dal secondo, onde se ne possa chiarire il
difetto o la presenza di una soluzione di continuità che sola
spieghi se si tratti di vicenda di modificazione soggettiva o
doppia vicenda di estinzione costituzione, non soltanto della
efficacia delle norme devolutorie, onde se ne possa indagare il
loro carattere di mero indirizzo soggettivo o la loro efficacia
costitutiva, ma soprattutto il non sempre facile svolgimento
del rapporto normativo tra fattispecie ed effetto, affinché si
possa stabilire se l’atto produca perdita o acquisto o, insieme,
perdita e acquisto(6).
La disciplina sulla prescrizione del c.d. diritto di accettare l’eredità, in uno con un’indagine sulla efficacia delle norme devolutorie, la quale riesca a chiarire che la loro funzione è soltanto di indirizzo soggettivo e non di rango costitutivo della
vicenda del rapporto giuridico, in uno con una serrata analisi
che stringa in rapporto il caso del chiamato che non voglia
ordine alla sua accettazione anteriormente alla revoca della rinunzia all’eredità formulata dai fratelli.
(4) Sul procedimento successorio e sulla rinunzia all’eredità, sia consentito il riferimento al mio La rinunzia all’eredità, cit., al quale, sul tema
rinvio non soltanto per una più ragionata e pensata giustificazione alla
soluzione proposta, ma soprattutto per adeguati riferimenti alla importante e profonda letteratura.
(5) V. BARBA, La rinunzia all’eredità, cit., ca I, e ivi più ampi riferimenti di
dottrina e giurisprudenza.
(6) Su questi temi, e per un’ipotesi di soluzione, V. BARBA, La rinunzia
all’eredità, cit., ca II, sezz. 1 e 2.
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IL COMMENTO
accettare (rectius: la rinunzia) con l’alternativa ipotesi, anch’essa presupposto fattuale del c.d. effetto devolutorio, del chiamato che non possa accettare, inducono il convincimento che la
perdita e l’acquisto del potere non mettano capo a una doppia
vicenda di estinzione e costituzione, bensı̀ a un’unitaria vicenda di modificazione soggettiva, in forza della quale il potere
perduto dal rinunziante si trasferisce in capo al soggetto a favore del quale si compie la devoluzione(7).
Ciò con l’evidente implicazione logica di dover considerare la
rinunzia all’eredità un atto capace di generare un effetto c.d.
ultra partem, ossia un risultato giuridico che non si esaurisce
nella sfera giuridico-patrimoniale del suo autore, ma che si
espande a quella del terzo, al quale l’effetto acquisitivo non è
imposto, ma soltanto offerto e proposto, avendo quegli, a propria volta, il potere di rinunziare all’eredità e rifiutare (rectius:
ri-trasferire) il potere acquistato. Confermando, quindi, che la
rinunzia è atto unilaterale soggetto a rinunzia(8).
La rinunzia all’eredità, importando, rispetto al suo autore, la
perdita dei poteri connessi alla sua posizione giuridica di chiamato e, in particolare, la perdita del potere di accettare l’eredità, traduce il rinunziante fuori del procedimento successorio,
trasformandolo da soggetto protagonista a mero dante causa.
Gli è, però, che l’estromissione del soggetto rinunziante dal
procedimento successorio non è, come potrebbe apparire a
prima vista, definitiva e totale. Per avvedersene credo sia necessario muovere proprio dalla norma sulla revoca della rinunzia all’eredità.
La lettura della quale, non dopo aver tradito l’infedeltà della
sua rubrica rispetto al testo, consente di avvertire che il legislatore continua a riservare al rinunziante, benché a talune
condizioni e secondo limiti ben segnati, poteri di carattere strumentale rispetto al procedimento dal quale quegli sembrava
essersi tratto fuori mercé la rinunzia(9).
Con disciplina, senz’altro, singolare, il legislatore consente a
colui che per aver rinunziato all’eredità sembrava essersi tratto
fuori dal procedimento successorio, il potere di accettarla. Un
potere, diverso da quello originario, se non altro per l’ovvia
considerazione che esso non ha carattere primario, ma soltanto
secondario ed eventuale, subordinato com’è alla mancata accettazione da parte degli altri o dei nuovi chiamati ma, soprattutto, un potere che dimostra come l’atto del rinunziante sia
del tutto incompatibile con una revoca in senso proprio.
Il rinunziante, infatti, per effetto della c.d. revoca alla rinunzia
all’eredità non viene ri-collocato nella medesima posizione
giuridica nella quale versava precedentemente al compimento
ell’arduo gioco procedimentale tra chiamati rinunzianti
che intendano revocare e chiamati a favore dei quali si è
compiuta la devoluzione assume un ruolo fondamentale l’accettazione proveniente da chiunque abbia, a qualsivoglia titolo,
il potere di acquistare l’eredità.
Essa, importando la chiusura del procedimento successorio a
vantaggio di colui che l’abbia compiuta(13), determina la contestuale estinzione di tutte le situazioni giuridiche soggettive
strumentali a quel procedimento, esaurendo l’ultimo e non
lasciando più alcuno spazio ad altri esiti, preclusi logicamente,
prima ancora che giuridicamente.
Il fatto impeditivo all’esercizio del potere di revoca della rinunzia è normativamente fissato, dall’art. 525 c.c., nel «se [l’eredità]
è già stata acquistata da altro dei chiamati» e non già nel «se
l’eredità è già stata accettata da altro dei chiamati»(14).
La discrasia, soltanto apparente, si spiega se solo si considera
che, nell’ipotesi in cui il soggetto a favore del quale si compie la
devoluzione fosse chiamato, a diverso titolo, a quella stessa eredità e avesse già accettata e acquistata la medesima, la devoluzione a suo favore dell’ulteriore quota importerebbe un immediato acquisto, senza necessità di un ulteriore atto di accettazione e, soprattutto, senza possibilità di impedire che un tale effetto
espansivo dell’acquisto possa verificarsi e realizzarsi(15).
(7) Cosı̀, V. BARBA, La rinunzia all’eredità, cit., 165 ss., nel quale ho cercato di meglio motivare di quanto non risulti, sinteticamente, nel testo.
(8) Cosı̀, V. BARBA, La rinunzia all’eredità, cit., 239 ss. e spec. 245 s.
(9) Cosı̀, V. BARBA, La rinunzia all’eredità, cit., 55 ss.
(10) Nel caso di ragionevole negazione dogmatica della categoria, alla
quale è soltanto affidata funzione di semplificazione didattica, il c.d. diritto si risolve nella consueta dinamica del rapporto tra fattispecie ed
effetto. Cosı̀, N. IRTI, Introduzione allo studio del diritto privato, Padova,
1990, 43.
(11) Cosı̀, V. BARBA, La rinunzia all’eredità, cit., 60 ss.
(12) La tesi evita il problema, talvolta posto in dottrina, di dover considerare l’esistenza di due chiamate concorrenti: quella rinunziante e quella di
colui che sia subentrato. Problema avvertito, criticamente, da L. COVIELLO JR.,
Appunti di diritto successorio, cit., 79 s., «È invero da domandarsi: quid, nel
caso che tanto il rinunziante che il chiamato in subordine siano nel possesso
dei beni ereditari, e i termini, di cui all’art. 485, vengano per entrambi a
scadere contemporaneamente? E quid, nel caso che entrambi abbiano nascosto o sottratto beni ereditari, e per avventura il fatto dell’uno sia seguito
nel momento del compimento dello stesso fatto da parte dell’altro?».
(13) Sempreché, beninteso, l’eredità sia interamente devoluta a quel
soggetto. Diversamente, se al soggetto fosse devoluta soltanto una quota
dell’eredità, la di lui accettazione varrebbe a chiudere il procedimento
successorio limitatamente alla quota attribuitagli, impregiudicato il procedimento rispetto alla restante quota o alle restanti quote in attesa di
essere acquistate. Il che non modifica affatto i termini dell’indagine, se
soltanto si considera che rispetto alla quota resa vacante dal rinunziante e
acquistata dal c.d. devoluto, il procedimento è chiuso e colui che ha rinunziato, pur aperto ancora il procedimento rispetto ad altre quote, non
potrebbe, in ogni caso, accettare l’eredità. Perché il suo potere si sarebbe
esaurito con l’acquisto della quota a quegli precedentemente offerta, che
sola, consentiva di considerarlo prima chiamato e, successivamente alla
rinunzia, mero vocato.
(14) In questo senso R. SCOGNAMIGLIO, Il diritto d’accrescimento nella successione a causa di morte, Milano, 1953, 171.
(15) Sul punto la dottrina è unanime e costante. G. BONILINI, Manuale di
diritto ereditario e delle donazioni, Torino, 2010, 5ª ed., 72, precisa che il
coerede titolare dello jus accrescendi, non può rinunziare a quanto gli
competa in virtù dello stesso, «giacché diviene parte integrante della quota, alla quale si accresce. La rinunzia al solo accrescimento, assumerebbe
le vesti di rinunzia parziale». R. CALVO, L’accrescimento, in AA. VV., Diritto
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Famiglia, Persone e Successioni 12
dell’atto di rinunzia, bensı̀ viene considerato erede. Assumendo, quindi, che, uno actu, la c.d. revoca alla rinunzia importi,
immediatamente, il ri-acquisto del potere e l’accettazione dell’eredità.
Ragione per la quale credo che l’ordinamento giuridico costituisca in capo al rinunziante non già un potere di accettare in
senso proprio, equivalente o di contenuto simile a quello precedente, quanto piuttosto un diverso e nuovo diritto, che consente al titolare, purché esista ancora sia il potere di accettare
(rectius: non sia prescritto) che il procedimento successorio
(rectius: non sia stato già chiuso per effetto dell’altrui accettazione), di realizzare l’acquisto dell’eredità rinunziata.
Un diritto potestativo(10), dunque, il cui esercizio, mediante
l’emissione di una propria dichiarazione, consente al rinunziante che revoca di realizzare, uno actu, il ri-acquisto del potere di accettare e il conseguente acquisto dell’eredità(11), senza che il neo-chiamato possa dire o fare alcunché per impedirne la verificazione(12).
3. Acquisto automatico della quota devoluta e limite
al potere di revoca
N
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IL COMMENTO
Il che, come è ovvio, si collega, da un punto di vista dottrinale e
culturale, a quello che tradizionalmente viene definito il tema
dell’unicità della vocazione o della delazione(16) e, da un punto
di vista più propriamente positivo, all’analisi e al significato
delle norme che fanno divieto al chiamato di accettare o rinunziare l’eredità soltanto parzialmente.
Di là, infatti, del più complesso tema connesso alla possibilità
di accettare l’eredità devoluta per legge, rinunziando, contestualmente, a quella devoluta per testamento, non credo che
si possa dubitare, proprio avendo riguardo al sistema positivo
del procedimento successorio, alle precise norme che regolano
l’accettazione e la rinunzia dell’eredità, all’automatismo dell’acquisto per accrescimento e, soprattutto, alla posizione giu-
ridica del successore a titolo universale e al suo essenziale statuto disciplinare, che la devoluzione realizzata a favore di chiamato che abbia già accettato l’eredità importi l’acquisto immediato ed automatico anche della quota successivamente
devoluta(17).
Con l’evidente conseguenza che, in un caso del genere, il rinunziante perde immediatamente il potere di revocare la rinunzia(18), perché nell’istante stesso in cui rinunzia, pur in
assenza di una successiva accettazione dell’eredità, il procedimento successorio si chiude, esaurendo tutte le situazioni giuridiche procedimentali e, tra esse, anche il diritto potestativo
all’acquisto del rinunziante(19).
L’ipotesi descritta assume un significato particolarmente ri-
delle successioni a cura di Calvo e Perlingieri, Napoli, 2008, 161, precisa che
l’automatismo dell’acquisto proprio dell’accrescimento ne segna il distacco dalla sostituzione. La quale presuppone l’accettazione. F. S. AZZARITI, G.
MARTINEZ , GIU. AZZARITI, Successioni per causa di morte e donazione, Padova, 1973, 6ª ed., 588 s.; G. GAZZARA, Contributo ad una teoria generale
dell’accrescimento, cit., 156 s., precisa che i coeredi che hanno già accettato
non soltanto non sono tenuti a una nuova dichiarazione per acquistare la
quota vacante, ma non hanno neppure la facoltà di rinunziarvi. A. MASI,
Del diritto di accrescimento. Artt. 674-678, in Comm. Scialoja e Branca,
Bologna - Roma, 2005, 50 s., il quale cosı̀ spiega l’automatismo dell’acquisto: «si deve concludere che l’acquisto della quota vacante si verifichi
quale effetto ulteriore –previsto dalla legge- della delazione originaria e
che l’accrescimento abbia luogo con efficacia retroattiva, in quanto la
parte che si accresce si deve considerare acquistata fin dal momento dell’apertura della successione unitamente alla quota originaria». G. DI GIANDOMENICO, Fondamento, applicazione e limiti del diritto di accrescimento, in
Riv. dir. civ., 1991, I, 272, «ulteriore conseguenza dell’automaticità dell’acquisto (ipso iure) è la inammissibilità della rinunzia all’accrescimento,
ostandovi il disposto dell’art. 520».
Sebbene esista questa consentaneità di opinioni deve segnalarsi la posizione
di R. SCOGNAMIGLIO, Il diritto d’accrescimento nella successione a causa di morte,
cit., 225, il quale, movendo dall’idea che quello di accrescimento sia un diritto al
diritto, ammette che il chiamato possa rinunziare all’accrescimento, non vedendosi ragioni per le quali «chi ha conseguito non debba poter rinunziare». Già in
questo senso, con ampia motivazione, U. ROBBE, Accrescimento (diritto civile), in
Noviss. Dig. It., I, 1, Torino, 1957, 166 s., secondo il quale la circostanza che
l’accrescimento opera di diritto non significa, anche, che esso sia necessario,
«perché: i due concetti dell’automaticità e della necessarietà sono, giuridicamente, fra loro molto distinti e diversi , e pertanto il primo specialmente non
implica in sé senz’altro il secondo». In senso contrario e a tutto voler concedere
a questa ricostruzione concettuale, mi pare che non si tratti di una rinunzia in
senso proprio, ossia un rifiuto impeditivo, quanto piuttosto di un rifiuto eliminativo. Il quale lascerebbe presumere la consumazione dell’acquisto e, dunque,
l’inammissibilità logica di una rinunzia impeditiva e la riconducibilità del caso a
una c.d. rinunzia a favore di taluni, sebbene costoro non sia espressamente
designati dal rinunziante, ma da quegli determinati per relazionem alla legge.
In senso contrario, A. MASI, Del diritto di accrescimento. Art. 674-678, cit., 54.
(16) L’idea dell’unicità della delazione, largamente condivisa in dottrina e
in giurisprudenza, importa, quale conseguenza, che in caso di concorso
tra due delazioni a favore dello stesso soggetto (per essere costui chiamato
sia in forza di un testamento che in forza di successione legittima) si deve
considerare esistente una sola delazione complessa, per cui unica dovrà
essere anche l’accettazione o la rinunzia. Cosı̀ G. GROSSO e A. BURDESE, Le
successioni. Parte generale, in Tratt. dir. civ. italiano, diretto da F. Vassalli,
vol. XII, 1, Torino, 1977, 97; F. SANTORO-PASSARELLI, Vocazione legale e vocazione testamentaria, in Riv. dir. civ., 1942, 202; L. FERRI, Disposizioni generali sulle successioni, cit., 87. A. PALAZZO, Le successioni, 1, Introduzione al
diritto successorio. Istituti comuni alle categorie successorie. Successione
legale, in Tratt. dir. priv., a cura di Iudice e Zatti, Milano, 2000, 2ª ed.,
191 riferisce il principale dibattito legato a questo problema e cioè se in
caso di coincidenza tra vocazione testamentaria e vocazione legale debba
prevalere l’una o l’altra. Ciò può verificarsi quando «[...] vengano chiamati
per testamento tutti gli eredi legittimi nelle quote che a loro sarebbero
attribuite per legge, e anche quando il testatore, disponendo parzialmente
delle proprie sostanze, istituisca erede uno dei successori legittimi nella
quota legale». Di opinione contraria è, invece, C. GIANNATTASIO, Delle successioni. Disposizioni generali – Successioni legittime, cit., 213, il quale,
anche in base a una diversa lettura della norma di cui all’art. 520 c.c.,
ha affermato che «mancando un esplicito impedimento legislativo, e
non urtando la soluzione in alcun principio inderogabile è stato ritenuto
che l’erede istituito possa rinunziare alla qualità di erede testamentario e
accettare ugualmente l’eredità nella sua qualità di successore ex lege». L’A.
conferma la propria idea, quando a 214, si misura con la norma sulla
rinunzia parziale, precisando che la nullità di essa «[...] si riferisce soltanto
all’ipotesi che si tratta di un medesimo titolo di vocazione». L’A. ha creduto
di poter trovare conferme nella soluzione proposta anche nelle norme
contenute negli artt. 551 e 521, 2º co., c.c. Mi pare tuttavia, senza voler
entrare nel tema, che tanto l’una quanto l’altra norma invocata non consentano di conseguire il risultato. Non la prima, in quanto si riferisce
esclusivamente al legato, che è ben diverso dall’eredità, perché differente
è il genere stesso di successione che determina, cosı̀ come diverso è il
procedimento di acquisto e l’incidenza sul regime patrimoniale di colui
che consegue l’uno o l’altra. Non la seconda, la quale, all’esatto contrario,
manifesta l’alternatività tra un legato in sostituzione di legittima e la quota
legittima, precisando, per l’appunto, che l’uno e l’altro determinano conseguenze opposte in capo al destinatario della disposizione. La particolarità del legato non consente di estendere risultati che su esso sono tagliati
a una chiamata a titolo di erede in forza di legge o testamento. Il primo ha
sempre una vita autonoma e parallela alle seconde e con esse si trova a
misurarsi soltanto nel limitato caso in cui il de cuius abbia leso i diritti di
un legittimario. Meritano attenzione le acute osservazioni di L. CARIOTA
FERRARA, Le successioni per causa di morte. I. Parte generale. 2 Le specie. I
soggetti, Napoli, 1958, 55 ss., il quale propone una serie di ipotesi nelle
quali è data scorgere in capo a un medesimo soggetto l’esistenza di più
vocazioni concorrenti. Il pensiero dell’A. e le soluzioni che mano a mano
offre si svolgono, non già sul principio dell’unicità della delazione, quanto
sul problema del rapporto tra le due specie di successioni: quella legittima
e quella testamentaria. È l’affermazione della prevalenza della seconda
sulla prima che spesso consente la soluzione dei singoli casi che vengono
proposti. L’A. osserva, infatti, che le norme contenute negli artt. 521 e 522
c.c. non risolvono il problema degli effetti della rinunzia a una specie di
successione rispetto ad altra. Essi si riferiscono alla rinunzia in genere,
«sicché il problema resta insoluto. Occorre, pertanto, rifarsi agli argomenti
precedentemente esposti». La soluzione del problema riposa dunque sulla
coesistenza e prevalenza tra vocazioni concorrenti, in quanto «[...] è inderogabile la norma fondamentale che fissa il rapporto e le graduazioni tra le
varie vocazioni, e, quindi, tra le varie specie di successioni (art. 457 c.c.).
Sicché, di regola, la rinunzia non è operante nel senso nel senso di far
risorgere una vocazione eliminata ab origine da quella prevalente (poi
rinunciata). Sostenere che è vero il contrario, e proprio in linea di massima, significherebbe ammettere che il successibile possa, per la via della
rinuncia, capovolgere o mutare l’ordine delle varie specie di successioni
tra loro».
(17) M. TERZI, Accrescimento, in Successioni e donazioni, a cura di P. Rescigno, I, Padova, 1994, 1182.
(18) Risalente nel tempo, ma puntuale, la decisione di Cass., 19.10.1966,
n. 2549, in Mass. Giur. it., 1966, nella cui massima si legge: «L’irrevocabilità
della rinuncia all’eredità, una volta intervenuta l’accettazione degli altri
chiamati – accettazione che, peraltro, nel caso di concorso di eredi che
abbiano già accettato, non ha bisogno di una specifica manifestazione di
volontà, operandosi ipso iure, per diritto di accrescimento, l’acquisto della
quota del rinunziante da parte dei coeredi che avrebbero concorso con lui
–, non si ricollega all’interesse di coloro che si avvantaggiano della rinunzia, bensı̀ al carattere indisponibile della delazione, la quale, una volta
caduta, non può essere fatta rivivere per volontà privata. Conseguentemente, l’assenso, prestato alla revoca della rinuncia da parte dei coeredi
che hanno acquistato la quota di eredità del rinunciante, non può far
rivivere in quest’ultimo la qualità di erede, ormai definitivamente perduta».
(19) R. SCOGNAMIGLIO, Il diritto d’accrescimento nella successione a causa di
morte, cit., 171, spiega il fenomeno, giocando sulla prevalenza di un atto
rispetto all’altro e ponendo l’accento sul diritto di accrescere, il quale
«facendo conseguire al coerede la quota vacante, non può che prevalere,
tenuto conto della ratio di quest’ultimo istituto, sulla revoca della rinunzia». Si discute, poi, in dottrina del problema della c.d. rinunzia collettiva,
ossia del caso in cui più chiamati rinunzino alla medesima eredità in
modo collettivo. Secondo parte della dottrina, in un tale caso, non sarebbe
possibile l’accrescimento, essendosi esaurita la vocazione. In senso contrario e con argomento convincente, il quale credo che possa essere ulteriormente rafforzato ragionando nell’ottica del procedimento successorio,
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IL COMMENTO
marchevole nei casi in cui il meccanismo di devoluzione sia
proprio quello dell’accrescimento(20).
Il quale, più della sostituzione, della rappresentazione e della
devoluzione secondo le norme sulla successione legittima, si
presta a realizzare in capo al soggetto la cui quota si accresce il
singolare fenomeno, essendo la circostanza che il devoluto sia
già chiamato alla successione non già un’ipotesi eventuale ed
episodica, come in tutti gli altri casi di devoluzione, bensı̀ un
presupposto necessario e costante, non potendosi dare accrescimento che tra coeredi o, più precisamente, tra co-chiamati.
Di qui, semplicemente svolgendo in sintesi quanto precisato,
ne segue che
colui che rinunzia all’eredità non può mai revocare
la propria rinunzia se la parte di eredità del
rinunziante si accresce a coloro che con lui
R. SCOGNAMIGLIO, op. ult., cit., 172, osserva «ma deve ribattersi che il coerede, in virtù della revoca, riacquista con la sua quota anche il diritto di
accrescere e quindi tutte le altre quote vacanti, paralizzando cosı̀, secondo
quanto in generale si è stabilito, il diritto alla revoca degli altri coeredi».
(20) Note le principali ricostruzioni che la dottrina ha offerte dell’istituto.
Secondo R. SCOGNAMIGLIO, Il diritto d’accrescimento nella successione a causa di morte, cit., 43 ss. e spec. 79, 81, 87 e 90; R. SCOGNAMIGLIO, Il diritto di
accrescimento nei negozi tra vivi, Milano, 1951, 30 ss., il diritto di accrescimento, da collocare nella sfera degli effetti e non della fattispecie, è un
vero e proprio diritto soggettivo che si pone quale effetto eventuale della
vocazione di più eredi e, più precisamente «un diritto al diritto» che si
risolve nella possibilità offerta ai con-chiamati di acquistare la quota rimasta vacante a causa della impossibilità o mancanza di volontà di accettare l’eredità. Non molto diversa, l’idea di U. ROBBE, Accrescimento (diritto
civile), cit., 162 ss., secondo il quale l’accrescimento è un diritto soggettivo
autonomo che attribuisce al suo titolare il diritto ad acquistare la quota
rimasta vacante. «L’espansione materiale del diritto di accrescimento avviene in concreto per forza intrinseca, quasi all’interno di un’individuata
sfera». E. GIUSIANA, Appunti sull’accrescimento ereditario, in Riv. dir. priv.,
1951, II, 51 ss. considera l’accrescimento un effetto legale che il legislatore
connette allo status di erede. G. GAZZARA, Accrescimento, c) Diritto civile, in
Enc. dir., I, Milano, 1958, 325 e ID., Contributo ad una teoria generale
dell’accrescimento, Milano, 1956, 94, 97 e 115 ss., considera il diritto di
accrescimento come un «diritto di non decrescimento». L’A., movendo
dal presupposto che a ciascun contitolare è sempre attribuito un diritto
sull’intero «o, meglio, un intero diritto», osserva che esso trova una limitazione pro quota nel concorrente diritto di altri contitolari. Ciò significa
che, quando viene meno il diritto di uno dei contitolari, venendo meno la
incidentale limitazione, il diritto degli altri si espande automaticamente e
senza necessità di un nuovo acquisto. L. CARIOTA FERRARA, Le successioni per
causa di morte, I, Parte generale, 2, Le specie – I soggetti, cit., 96 s., spiega il
fenomeno in base al tipo di chiamata. «Per aversi ciò, devono concorrere le
due caratteristiche della simultaneità e della influenza reciproca. Se vi è
simultaneità, e manca la reciproca influenza, si hanno più vocazioni simultanee, ma autonome; se manca la simultaneità, si hanno più vocazioni
successive di cui la posteriore può dipendere dall’altra, anteriore, e non
viceversa». L’A. chiarisce che l’accrescimento è l’unica eccezionale ipotesi
della interdipendenza, perché, al di fuori di questa ipotesi, si possono dare
dei casi di influenza tra le vocazioni, ma non reciproche. Cosı̀ se le vocazioni non sono simultanee, si hanno più vocazioni successive, di cui la
seconda potrebbe anche dipendere dalla prima, ma non potrebbe essere il
contrario. Se le vocazioni non fossero solidali, si hanno più vocazioni autonome l’una dall’altra. L’idea trova conferma nella 98, in cui si legge: «poiché l’accrescimento, come si è visto, è intimamente e indissolubilmente
legato alle vocazioni che sono simultanee ed, in più, interdipendenti o
solidali, cioè ad una specie di vocazioni, se ne può e se ne deve discorrere
in questo tomo». L’accrescimento, allora, non è, nell’idea dell’A., un istituto legato alla successione o dipendente dal funzionamento di essa, ma
legato alla specie di chiamata o, meglio, alla ricorrenza dei due ricordati
caratteri (simultaneità e solidarietà) di essa. M. ALLARA, La successione familiare suppletiva, Torino, 1954, 57 s., riprendendo il pensiero di Gazzara,
ritrova il fondamento del c.d. diritto di accrescimento nell’esistenza di una
vocazione solidale e precisa che l’utilizzo del termine è improprio «[...] in
quanto non vi sono due successive determinazioni della parte di ciascuno
dei chiamati, ma una sola ab initio e per relationem; si è pertanto detto che
in luogo di un «diritto di accrescimento» si dovrebbe, più esattamente
parlare di un «diritto di non decrescimento». G. DI GIANDOMENICO, Fondamento, applicazione e limiti del diritto di accrescimento, cit., 261 ss. e spec.
264, reputa l’accrescimento un mero meccanismo legale, comune alla
successione legittima e testamentaria, con funzione di individuazione
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concorrono o avrebbero concorso e costoro
abbiano già accettata la quota loro devoluta.
L’automaticità dell’acquisto per accrescimento(21) costituisce,
nella prospettiva del chiamato che abbia rinunziato all’eredità,
un fatto impeditivo all’esercizio del suo potere di revoca(22) e
rinvia, onde si possa verificare quando il medesimo sia effettivamente consumato, all’analisi dei presupposti dell’accrescimento medesimo.
Il quale, gerarchicamente subordinato alla sostituzione e alla
rappresentazione, impone un distinguo a seconda che esso sia
chiamato a funzionare nella successione legittima(23) o in quella testamentaria, dal momento che nell’ultima esiste una precisa disciplina, contenuta gli artt. 674 ss. c.c., la quale ne segna i
presupposti di funzionamento e le connesse conseguenze,
mentre nella prima il suo operare parrebbe esclusivamente
legato al più snello rinvio recato nell’art. 522 c.c.(24).
dei successori e delle quote, il cui fondamento è esclusivamente nella
legge. L’A. esclude che si possa qualificare in termini di diritto soggettivo,
rilevando peraltro, che nell’accrescimento non v’ha né espansione dell’oggetto del diritto, né espansione della quota. A. MASI, Del diritto di accrescimento. Artt. 674-678, cit., 8, considera l’accrescimento un criterio legale
per l’attribuzione di una quota vacante dell’eredità ed un effetto legale
dipendente dal verificarsi di determinati presupposti oggettivi. F. MESSINEO,
Manuale di diritto civile e commerciale, VI, Diritto delle successioni per
causa di morte, Milano, 1962, 9ª ed., 557 s., trova il fondamento dell’istituto
nella virtù espansiva della nozione di quota, nella comunione in genere;
ragione per la quale l’A. colloca, nel suo trattato, questa disciplina non già
nella sezione dedicata agli istituti comuni alla successione legittima e
testamentaria, bensı̀ nella sezione dedicata alla comunione di eredità.
(21) R. SCOGNAMIGLIO, Il diritto d’accrescimento nella successione a causa di
morte, cit., 215 ss., movendo dal convincimento che l’accrescimento debba collocarsi sul piano degli effetti e che esso costituisca c.d. diritto al
diritto posto a disposizione del chiamato per effetto della vocazione e
destinato a essere acquistato insieme alla quota, giunge alla conclusione
che esso possa essere rinunziato; che il chiamato possa, cioè, evitare l’effetto dell’accrescimento. L’A., però, mitiga questa conclusione, avvertendo
che tale rinunzia incontra un limite nella garanzia dei creditori. In segno
contrario, movendo dall’idea del procedimento successorio e avuto riguardo all’automaticità dell’acquisto per accrescimento, non credo che sia
possibile ammettere una rinunzia al diritto di accrescimento. Questa considerazione, pur non escludendo, in via di principio, che l’erede possa
evitare di avvantaggiarsi dell’acquisto per accrescimento, induce il convincimento che un eventuale atto di rinunzia al diritto di accrescimento vale,
secondo l’ordine giuridico, quale atto di disposizione della quota vacante a
favore di tutti coloro che, altrimenti, ne trarrebbero beneficio, nel caso in
cui l’erede nulla disponga al riguardo, ovvero a beneficio di coloro che
siano espressamente designati dall’erede, nel caso in cui abbia rinunziato
al diritto a favore di taluni soggetti determinati. Credo, cioè, che l’atto di
rinunzia al diritto di accrescere costituisca, con tutti i corolları̂ che da ciò
debbono conseguire, non già un atto impeditivo dell’acquisto, essendo
tale effetto precluso dalla norma di cui all’art. 676 c.c., bensı̀ un atto di
disposizione inter vivos della quota vacante.
(22) M. TERZI, Accrescimento, cit., 1182, «se dopo la rinunzia di un chiamato vi è l’accettazione di un altro, vocato solidalmente con il primo, non
sarà più possibile per il rinunciante la revoca di cui all’art. 525 c.c., essendosi già verificato l’accrescimento a favore dell’accettante».
(23) Il problema viene avvertito da L. CARRARO, La vocazione legittima alla
successione, cit., 80, il quale si chiede se l’accrescimento previsto per il caso
di successione legittima sia il medesimo di quello previsto nella successione testamentaria. Tuttavia, precisa l’A. nella pagina successiva, che la
questione aveva un valore specifico nel vecchio codice e per quanti negassero che i figli naturali potessero o dovessero considerarsi coeredi dei
figli legittimi, mentre in quello attuale, anche all’esito delle modifiche
apportate dalla riforma di diritto di famiglia, essa ha perso parte della
sua importanza.
(24) Vale la pena di segnalare che, ove pure si considerasse operante
l’accrescimento nelle successioni legittime in forza della norma di cui
all’art. 522 c.c., nondimeno non potrebbe affermarsi una sua latitudine
corrispondente a quella dell’accrescimento nelle successioni testamentarie. Mentre in queste ultime il fenomeno è destinato a svolgersi in tutti i
casi in cui il chiamato non possa o non voglia accettare, in materia di
successioni legittime sarebbe destinato a funzionare nel solo caso in cui
il chiamato non volesse accettare, mentre resterebbe escluso nel caso in
cui non potesse accettare, dal momento che solo al caso di rinunzia si
riferisce l’art. 522 c.c.
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IL COMMENTO
Entrambi, però, sollevano numerose difficoltà, perché il concetto di «stesso testamento» non è sempre facile da rendere e,
soprattutto, perché è arduo stabilire con esattezza cosa sia la
parte dell’eredità, se essa sia altro dalla quota, della quale, per
altro, il legislatore discorre nel medesimo articolo, al comma
immediatamente successivo, nella regola secondo cui «più eredi [...] istituiti in una stessa quota» e, infine, cosa il legislatore
abbia inteso per quote uguali.
Il grado di complessità si coglie, sotto una diversa prospettiva,
di carattere più generale, se si considera che proprio ragionando intorno a questi presupposti si è agitata la nota querelle
sull’esistenza di un fondamento volontaristico dell’accrescimento(29). Difficile querelle, la quale, essendo foriera di conseguenze applicative di non breve momento, impone, pur senza
possibilità di prendere parte al difficile dibattito, il quale reclamerebbe una riflessione di ben più ampio e profondo respiro,
di preferire una delle due soluzioni.
La quale, se non altro nell’orizzonte schiettamente normativo
che più mi convince, induce a privilegiare, proprio ragionando
sulle norme e, in special modo, su quella che esclude l’accrescimento in caso di sostituzione e su quella che stabilisce che
l’acquisto per accrescimento ha luogo di diritto, la concezione
c.d. oggettiva. La concezione, cioè, che non soltanto consegna
il fenomeno dell’accrescimento a null’altro che a un meccanico, ma straordinariamente razionale, dinamismo normativo,
capace di sciogliersi nell’arbitrario collegamento positivo tra
fattispecie ed effetto, ma che, soprattutto, esclude, come la
lettera della legge tradisce, credo in modo inequivoco, la rilevanza nella fattispecie dell’intenzione del testatore, sia essa
riguardata quale atto a rilievo positivo, che quale atto a rilievo
negativo.
Né in senso contrario, mi pare convincente l’osservazione che
la c.d. chiamata congiuntiva, presupposto dell’accrescimento,
implichi, di necessità, una volontà del testatore dispiegata lungo questa direzione(30). Cosı̀ ragionando, infatti, per un verso, si
confonde o si sovrappone la mera volontà istitutiva con quella
(25) Conviene nell’idea che il punto nodale dell’accrescimento è nella
determinazione della sua fattispecie, S. FERRARI, L’accrescimento, in AA. VV.,
Trattato di diritto privato diretto da Rescigno, VI, Successioni, 2ª ed., Torino, 1997, 280.
(26) Per una sintesi sulla storia dell’istituto nel suo passaggio dal vecchio
all’attuale codice, F. S. AZZARITI, G. MARTINEZ , GIU. AZZARITI, Successioni per
causa di morte e donazione, cit., 581-584 e G. DI GIANDOMENICO, Fondamento, applicazione e limiti del diritto di accrescimento, cit. 257-261. Per un’analisi più compiuta A. MASI, Del diritto di accrescimento. Artt. 674-678, cit.,
3-8 e R. SCOGNAMIGLIO, Il diritto d’accrescimento nella successione a causa di
morte, cit., 17-41.
(27) Di limite negativo discorre R. SCOGNAMIGLIO, Il diritto d’accrescimento
nella successione a causa di morte, cit., 178 s., il quale precisa che in questi
casi vi è soltanto una differente collocazione della quota vacante.
(28) Per una sintesi dei casi in cui il chiamato non possa o non voglia
accettare A. MASI, Del diritto di accrescimento. Artt. 674-678, cit., 25-34. R.
SCOGNAMIGLIO, Il diritto d’accrescimento nella successione a causa di morte,
cit., 147, movendo dall’idea che non si può dare accrescimento in difetto
di tale presupposto, considera la vacanza della quota una condizione implicita dello stesso contenuto del diritto, G. GAZZARA, Contributo ad una
teoria generale dell’accrescimento, cit., 168, considera, invece, la vacanza
un fatto estraneo alla fattispecie «che vale soltanto ad eliminare, con carattere di defintività, il concorso potenziale (quando si verifica prima dell’acquisto) o attuale (quando si verifica dopo l’acquisto, come nel legato di
usufrutto) del coerede, la cui quota si è resa vacante», mentre U. ROBBE,
Accrescimento (diritto civile), cit., 163, afferma che non si tratta di una
condizione, ma di un presupposto logico.
(29) Muovono dall’idea che il fondamento dell’accrescimento sia una volontà presunta o implicita del testatore: R. SCOGNAMIGLIO, Il diritto d’accrescimento nella successione a causa di morte, cit., 45; ID., Il diritto di accrescimento nei negozi tra vivi, cit., 43 ss., secondo cui il diritto di accrescimento è un diritto al diritto, G. GAZZARA, Accrescimento, c) Diritto civile, in
Enc. dir., I, Milano, 1958, 325 e ID., Contributo ad una teoria generale dell’accrescimento, Milano, 1956, 131 ss. secondo cui il fondamento dell’accrescimento è nella vocazione e, quindi, nella volontà del testatore e U. ROBBE,
Accrescimento (diritto civile), cit., 164, secondo cui l’accrescimento è un
diritto soggettivo il cui fondamento sta nella volontà presunta del testatore
ed espressa del donante. L’A., 170, giunge a questa conclusione, movendo
dal convincimento, già di Scognamiglio, che la norma recata al 3º co. dell’art. 674 c.c. pone una presunzione iuris tantum della volontà del testatore
diretta a conseguire l’accrescimento. Precisa, quindi, alla 170, che la funzione dell’accrescimento non è né impedire il frazionamento della proprietà,
né che la liberalità rimanga nell’ambito dei beneficiati, ma, e a conferma del
suo fondamento nella presunta volontà del disponente, nell’aiuto che il
legislatore intende offrirgli, supplendo a una volontà inespressa. Anche F.
S. AZZARITI, G. MARTINEZ , GIU. AZZARITI, Successioni per causa di morte e
donazione, cit., 581 s. e spec. 586, non dubitano che la vera base dell’accrescimento debba ricercarsi nella volontà del testatore.
La dottrina più recente, pur con diversità di sfumature e toni, è orientata verso
soluzioni di carattere oggettivistiche. R. CALVO, L’accrescimento, cit., 159 s., segnala
che l’istituto affonda le proprie radici giustificative nei canoni di ragionevolezza,
volendo evitare eccessive frantumazioni della proprietà e garantire il mantenimento del dominio entro i confini della cerchia di persone individuate dal testatore. Convincente A. MASI, Del diritto di accrescimento. Artt. 674-678, cit., 8, il
quale dice che «si deve, allo stato, ritenere che il fondamento dell’istituto sia
rappresentato dalla legge e che l’accrescimento sia da configurare come un effetto che, sulla base della legge, si verifica in relazione alla sussistenza di determinati presupposti al fine di attribuire una quota vacante». L’ipotetica o la presunta volontà del de cuius, continua l’A., è soltanto servita a motivare la scelta del
legislatore di conservare l’istituto e di recarne una precisa disciplina.
(30) Arduo il significato della norma segnata nel 3º co. dell’art. 674 c.c., la
quale stabilisce che l’accrescimento non ha luogo quando dal testamento
risulta una diversa volontà del testatore. Indubbiamente l’accrescimento è
gerarchicamente subordinato alla sostituzione: la presenza dell’ultima
esclude l’operatività del primo. Credo, però, che alla richiamata disposizione di legge non si possa attribuire il pleonastico ruolo del ribadire la
subordinazione dell’accrescimento alla sostituzione. Se non altro per l’ovvia considerazione che la volontà escludente l’accrescimento non deve
essere espressa in modo diretto e inequivoco, potendo anche risultare,
ossia ricavarsi dalla complessiva interpretazione del testamento. Ne deriverebbe che il legislatore, come ha potere di prevedere una sostituzione,
individuando egli stesso il soggetto a favore del quale debba essere devoluta la quota dell’«erede mancante», potrebbe anche limitarsi a escludere
che la individuazione del soggetto debba avvenire secondo le norme sul-
Soltanto una precisa consapevolezza in ordine ai presupposti
dell’accrescimento(25), in uno con la considerazione in tema di
efficacia dell’acquisto, credo che possano consentire di risolvere i casi, come quello che origina queste variazioni, trattandosi
di accertare se la revoca della rinunzia sia efficace e, in caso
negativo, a favore di chi la quota rinunziata si sia accresciuta.
4. Presupposti dell’accrescimento tra co-chiamati
testamentari
L
a disciplina recata all’art. 674 c.c., benché la rubrica discorra non del tutto propriamente di coeredi, traccia il
principale dei fatti che compongono la complessa e, se vogliamo, progressivamente distesa nel tempo, fattispecie dell’accrescimento(26). Tralasciando i fatti alternativi, a rilievo, rispettivamente, positivo o negativo(27), offerti dal chiamato che non
voglia o non possa accettare l’eredità(28) e dai fatti necessariamente concorrenti, a rilievo negativo, consistenti nelle mancanze di una sostituzione testamentaria e dei presupposti perché si possa dare rappresentazione, la norma in parola si preoccupa, principalmente, di precisare quali requisiti debba avere la chiamata a titolo universale perché, al verificarsi di tutti gli
altri co-elementi della fattispecie, si possa dare accrescimento.
Tali requisiti sono presto tracciati: che più
soggetti siano istituiti eredi con uno «stesso
testamento» e che costoro siano chiamati «senza
determinazioni di parti o in parti uguali, anche se
determinate».
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IL COMMENTO
sostitutiva e, per altro e più importante verso, si finisce per
elevare, a fondamento dell’istituto con dubbio procedimento
di induzione soggettiva, un tratto volontaristico presuntivo(31),
non necessariamente intenzionale, che potrebbe costituire, al
più, una giustificazione della scelta positiva(32) o l’occasione
della disposizione testamentaria(33), ma non di certo una costante e ineludibile volontà implicita del testatore, strenuamente ricercata soprattutto da parte di coloro che attribuiscono al negozio un valore originario(34).
l’accrescimento. Gli è, però, che in un caso del genere, la sola volontà
impeditiva al funzionamento dell’accrescimento non risolve il problema
della devoluzione della quota dell’«erede mancante». La quale, non essendovi una sostituzione, né rappresentazione, la operatività della quale
avrebbe escluso a priori il problema della fruibilità dell’accrescimento,
induce, di necessità, la conclusione che la individuazione del soggetto a
favore del quale debba devolversi la quota dell’«erede mancante» non può
che avvenire secondo le norme sulla successione legittima. Ciò significa
che, perché l’accrescimento non abbia luogo, dal testamento deve risultare
la volontà del testatore di devolvere la quota dell’«erede mancante» non
già secondo le norme sull’accrescimento, bensı̀ secondo le norme sulla
successione legittima. Una tale volontà, però, ove pure essa non sia esplicita, ma soltanto risulti dal testamento, finisce inevitabilmente per tradursi
o in una sostituzione ovvero in una precisa scelta istitutiva, ove pure essa
abbia un contenuto, per relationem, determinato in ragione delle norme
sulla successione legittima. Diversamente, non vi sarebbe, né altrimenti,
risulterebbe dal testamento, una volontà che possa impedire il funzionamento dell’accrescimento. Non dissimile la posizione di F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, VI, Diritto delle successioni per causa
di morte, cit., 557, secondo cui poiché l’accrescimento determinato dal
testatore non potrebbe «determinare, una seconda volta, un effetto che
viene già dalla legge, va concepito come sostituzione volgare reciproca, fra i
soggetti che siano chiamati congiuntamente». In segno contrario, R. SCOGNAMIGLIO, Il diritto d’accrescimento nella successione a causa di morte, cit.,
122 ss., secondo il quale la norma, per un verso, porrebbe una presunzione
legale iuris tantum e, per altro verso, si atteggerebbe non già a norma
dispositiva, bensı̀ a norma interpretativo-integrativa. Non diversamente,
G. GAZZARA, Contributo ad una teoria generale dell’accrescimento, cit., 131
ss., reputa che le norme sull’accrescimento pongano un problema di interpretazione e che per questa ragione esse meritino di essere annoverate
tra le norme di interpretazione-integrativa o presuntive. Stabiliscono, infatti, i presupposti in base ai quali, pur in difetto di una precisa manifestazione di volontà (espressa o tacita) del testatore, si debba presumere la
di lui intenzione di far luogo all’accrescimento. Negando che il fondamento dell’accrescimento possa essere la presunta volontà dell’ereditando, F.
MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, VI, Diritto delle successioni per causa di morte, cit., 557, considera la volontà del testatore solo
quale efficace «strumento di deroga rispetto al disposto dei primi due
commi dell’art. 674». In senso contrario, U. ROBBE, Accrescimento (diritto
civile), cit., 164 s., secondo cui la norma pone una presunzione iuris tantum, tale da collocarla tra le quelle dispositive: «non v’è, dunque, nulla da
interpretare e da integrare, ma resta soltanto l’applicazione della disposizione legislativa, la quale stabilisce una presunzione semplice della volontà del testatore».
(31) Chiaramente G. BONILINI, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., 71, il quale precisa che l’accrescimento «ha valore di criterio
legale di preferenza dei coeredi concorrenti sulla quota del delato, che non
abbia potuto, o voluto, accettare l’eredità». L’accrescimento è giustificato
da ragioni di ordine economico: è preferibile che la proprietà, in luogo di
essere frazionata, venga concentrata in un numero minore di eredi. Anche,
S. FERRARI, L’accrescimento, cit., 281, il quale argomenta sulla base delle
norme di cui agli artt. 520 e 674, 4º co.
(32) Scrive G. DI GIANDOMENICO, Fondamento, applicazione e limiti del
diritto di accrescimento, cit., 270, «si può dunque affermare che la presumibile volontà del testatore (ma non anche del de cuius intestato) sia la
ratio della disciplina dell’accrescimento nella successione testamentaria
ed in quella legittima, ma non la sua causa efficiente. Questa, nell’una e
nell’altra ipotesi di successione, è direttamente la legge».
(33) R. CALVO, L’accrescimento, cit., 160 s., in una prospettiva in cui il
diritto sembra sopraggiungere e non, come credo, conformare le cose
del giurista, dice, in riferimento a una presunta volontà del de cuius, che
non c’è alcuna finzione, «ma solo l’elevazione a norma impersonale, suscettibile di deroga da parte dei poteri dell’autonomia privata, di un canone naturalistico tratto dalla conoscenza diretta delle cose».
(34) Si tratta di problemi legati all’essenza del negozio giuridico e al
riconoscimento del suo valore. Per una sintesi delle opposte posizioni utile
il rinvio al saggio di A. PASSERIN D’ENTRÈVES, Il negozio giuridico. Saggio di
filosofia del diritto, Torino, 1934, 28-30: il quale «Se dunque il problema
della costruzione dogmatica del negozio non è altro che il problema delle
determinazione della natura della norma negoziale, e se d’altro canto una
costruzione dogmatica rigorosamente formale può e deve prescindere dal-
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Famiglia, Persone e Successioni 12
L’accrescimento, in altri termini, mi pare prescindere non
soltanto dalla volontà del de cuius(35), ma anche dalla volontà
del c.d. devoluto(36), ritraendo, soltanto, uno dei diversi, razionali e operosi strumenti con i quali il legislatore, al verificarsi dei presupposti, vòlta a vòlta, domandati, assegna le
parti o le quote di eredità di colui che non vuole o non può
accettarla, evitando un dannoso fenomeno di infruttuosa giacenza.
la considerazione della determinata relazione empirica in cui tale norma
vien posta in essere [...] sembra che l’unica via che rimanga aperta sia
quella che, prescindendo sia dalla natura del soggetto da cui la norma è
posta in essere, sia dall’oggetto cui essa si riferisce, abbia riguardo esclusivamente alla qualificazione giuridica della norma stessa: se cioè l’attributo della giuridicità ad essa derivi dalla volontà o dalle volontà che la
pongono in essere, o se viceversa tale attributo sia ad essa derivato da una
norma superiore, estranea alla volontà del soggetto o del soggetto del
negozio».
(35) Coloro i quali leggono il fondamento dell’accrescimento nella presunta volontà del de cuius finiscono per l’ammettere non soltanto che il
testatore possa evitare l’accrescimento, ma altresı̀ che il testatore, pur in
difetto dei presupposti, possa consentirne l’effettività. Esemplare, in questo senso, R. SCOGNAMIGLIO, Il diritto d’accrescimento nella successione a
causa di morte, cit., 128 ss., il quale, movendo dall’idea che il 3º co. dell’art.
774 c.c. pone una presunzione legale, conclude, di necessità, nel senso che
si possa dare accrescimento anche in difetto dei presupposti. Secondo l’A.,
infatti, al verificarsi dei presupposti stabiliti dalla legge, l’interprete presume che esista una volontà del de cuius dispiegata in questa direzione. In
caso di assenza dei presupposti, invece, manca soltanto la presunzione
che una tale volontà sussista. Tale difetto, tuttavia, non significa che una
volontà in tal senso non esista, ben essendo possibile che l’interprete
l’accerti. In tali casi, poiché il fondamento dell’istituto è nella volontà
del de cuius, deve concludersi che si possa dare accrescimento anche in
difetto dei presupposti di legge. Sebbene giunga a questa conclusione, l’A.,
alle 186 ss., precisa, però, che l’accrescimento non può, comunque, prevalere sulla rappresentazione, neppure nel caso in cui lo stesso testatore lo
abbia espressamente disposto. «Questa circostanza» scrive l’A., «non può
certo alterare l’efficacia dell’accrescimento ed i suoi limiti». Conclusione
non dissimile l’A. toglie, alle 188 s., rispetto alla sostituzione, precisando
che possano coesistere, senza doversi considerare inefficaci per intima
contradditorietà, disposizioni testamentarie che prevedono, insieme e
per i medesimi chiamati, la sostituzione e l’accrescimento. In tale caso,
infatti la volontà di accrescimento deve considerarsi «successiva ed alternativa, rispetto a quella principale che in linea di massima deve operare
non appena si apra la vacanza». Allo stesso risultato, pur movendo dall’idea che l’accrescimento si debba spiegare in base alla vocazione, nel presupposto che esso trovi fondamento nella volontà del testatore, G. GAZZARA, Contributo ad una teoria generale dell’accrescimento, cit., 138, ammette
che si possa dare accrescimento anche in mancanza dei predetti indici
formali, qualora vi sia una espressa manifestazione di volontà del testatore. Pur non individuando il fondamento dell’accrescimento nella presunta
volontà del testatore, e preferendo la tesi secondo cui si tratterebbe di una
norma dispositiva (cosı̀, U. ROBBE, Accrescimento (diritto civile), cit., 164 s.,
contra R. SCOGNAMIGLIO, Il diritto d’accrescimento nella successione a causa
di morte, cit., 127) liberamente derogabile dai poteri dell’autonomia privata, R. CALVO, L’accrescimento, cit., 158 s., ammette che si possa dare
accrescimento anche fuori «delle ipotesi positivamente sancite senza dover necessariamente ricorrere all’istituto della sostituzione ordinaria».
In senso contrario, la dottrina maggioritaria: S. FERRARI, L’accrescimento, cit.,
281; U. ROBBE, Accrescimento (diritto civile), cit., 165; S. PATTI, Volontà del testatore ed effetti ex lege nella disciplina dell’accrescimento, in Scritti in onore di
Auletta, III, Milano, 1988, 625; M. TERZI, Accrescimento, cit., 1187 s., al quale si
rinvia, anche per una breve sintesi, ma già L. BARASSI, Le successioni per causa di
morte, Milano, 1941, 302. Singolare la posizione di F. MESSINEO, Manuale di
diritto civile e commerciale, VI, Diritto delle successioni per causa di morte,
cit., 559, secondo cui il testatore mentre non potrebbe consentire l’accrescimento fuori dai casi previsti dalla legge, «potrebbe regolare l’accrescimento, diversamente dal modo in cui fa la legge». ; In giurisprudenza si registra una sola
risalente decisione, Cass., 28.6.1954, n. 2237, in Foro it., 1955, I, cc. 50 ss., la
quale esclude che si possa dare accrescimento in difetto dei presupposti stabiliti
dalla legge, ove pure ciò sia stato espressamente dichiarato dal testatore
(36) R. CALVO, L’accrescimento, cit., 161, scrive «si può fissare questa conclusione intermedia: il diritto del coerede s’incrementa, inglobando [...] la
porzione lasciata vacante dal coerede. L’espansione avviene pertanto non
solo in assenza della volontà del conchiamato, ma anche contro la sua
determinazione». A conferma dell’irrilevanza della volontà del soggetto a
favore del quale si compie la devoluzione, A. MASI, Del diritto di accrescimento. Artt. 674-678, cit., 50, precisa che l’accrescimento potrebbe operare
anche nel caso dopo che il devoluto, purché abbia già accettata la eredità,
sia successivamente mancato ai vivi.
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IL COMMENTO
5. Segue: la cosı̀ detta coniunctio verbis e la cosı̀ detta
coniunctio re
M
ovendo da questa prospettiva, occorre chiarire quale
chiamata a titolo universale possa, ricorrendone gli altri
co-elementi della fattispecie, dar luogo ad accrescimento.
In primo luogo, necessita la c.d. coniuncio verbis, ossia che le
disposizioni testamentarie siano contenute in uno «stesso testamento»(37).
Il legislatore, accompagnando la parola testamento al pronome
dimostrativo, non reclama l’unità del documento, la quale più
semplicemente avrebbe risolto il caso, bensı̀ l’unità dell’atto(38).
Quest’ultima impone di far chiarezza sul rapporto tra queste
due grandezze; rapporto storicamente difficile(39), complicato,
nella materia indagata, dal carattere rigorosamente formale del
testamento. V’è, infatti, tra atto e documento, lo stesso iato che
v’è tra il faciendum e il factum(40), tra il produrre e il prodotto.
Altro è la carta sulla quale sono impressi, nel rispetto delle
formalità prescritte dal legislatore, i segni grafici, altro è l’emissione stessa della dichiarazione con l’osservanza di quelle formalità. La prima è il documento, la seconda l’atto. Ciò spiega
perché il testo raccolto in una pluralità di fogli (rectius: documenti) potrebbe contenere un unico atto e perché i segni raccolti in un medesimo foglio (rectius: documento) potrebbero
esprimere una pluralità di atti.
L’unità dell’atto prescinde dall’unità del documento(41).
quanto soltanto l’interpretazione normativa del
testo, alla stregua dei criterı̂ sull’interpretazione
del testamento, consente di affermare o negare
l’unità o la pluralità del testamento stesso.
Essa non è frutto di un’indagine empirica
condotta sul prodotto, bensı̀ di una valutazione
strettamente giuridica condotta sul produrre, in
Questa considerazione parrebbe, però, aprire l’indagine a un
problema ben più grave. La distinzione tra atto e documento e
la considerazione meramente ermeneutica dell’unità del testamento potrebbe, infatti, ingenerare il dubbio che disposizioni
testamentarie redatte in tempi successivi, ove fossero non incompatibili l’una con l’altra, potrebbero costituire un unico
testamento. L’unità dell’atto parrebbe, cosı̀, dilatarsi sino al
momento di rottura concettuale tra le diverse disposizioni,
espandendo nel tempo e sine die il concetto di testamento. Il
quale parrebbe un concetto aperto nel tempo e interrotto, soltanto, dalla frattura concettuale tra disposizioni totalmente incompatibili le une con le altre.
La preoccupazione credo, però, sia soltanto apparente, perché,
quale che sia il testamento che il legislatore disciplina, impone
sempre, tra le altre, una formalità di tipo cronologico: l’emissione della dichiarazione deve sempre avvenire in un unitario
contesto temporale(42). Ciò significa che disposizioni testamentarie rese in tempi diversi, ove pure non siano incompatibili le une con le altre, non potrebbero essere considerate disposizioni contenute in uno stesso testamento o disposizioni di
uno «stesso testamento», bensı̀ disposizioni di diversi e successivi testamenti(43). L’unità del testamento impone la contestualità cronologica, l’assenza della quale frattura le disposizioni,
legando ciascuna di esse all’atto collocato in un dato contesto
cronologico(44).
Rimane da chiarire il secondo dei requisiti, tradizionalmente
(37) R. SCOGNAMIGLIO, Il diritto d’accrescimento nella successione a causa di
morte, cit., 117, movendo da una concezione volontaristica del fenomeno,
spiega questa previsione, precisando che in caso di più testamenti «può
apparire poco probabile o ingiustificata la presunzione dio una volontà del
testatore favorevole all’accrescimento».
(38) Non convince la diversa opinione di R. CALVO, L’accrescimento, cit.,
163, secondo cui rileva l’unicità del documento o della scheda testamentaria. La lettura della pagina dell’A. sembra lasciar trasparire che a dispetto
dell’espressione usata, si intenda riferire all’atto e non al documento.
(39) Ma chiaro già in una esemplare pagina di F. CARNELUTTI, Lezioni di
diritto processuale civile, II, Padova, 1923, 549 s., il quale scrive: «Può
anche essere che la formazione di un documento della dichiarazione sia
posta dalla legge come condizione della efficacia (validità) della dichiarazione stessa, es. art. 1314 c.c.: ma neppure in questo caso è autorizzata
la confusione tra documento e dichiarazione in quanto il requisito di
forma di quest’ultimo è, in tal caso, la formazione del documento, non
il documento medesimo: in altri termini ciò che importa per la efficacia
della dichiarazione è lo scrivere ciò che importa per la prova è lo scritto, o
ancora ciò che decide per l’efficacia della dichiarazione è l’esistenza del
documento al momento della dichiarazione, mentre ciò che decide per la
prova è l’esistenza del documento al momento del processo. La scissione
tra i due termini si presenta in piena luce nei casi in cui la prova della
dichiarazione venga data con mezzi diversi dal documento (es. articolo
1348 c.c.): il requisito di forma sta nello scrivere il requisito di prova sta
nello scritto; ora il fatto dell’aver scritto non è dimostrabile solo col documento, ma anche con prove diverse (per es. per testimoni)». ID., Distruzione o destinazione alla distruzione della scheda del testamento olografo,
cit., c. 98, precisa il proprio pensiero, distinguendo tra scrittura eterografa
e scrittura autografa. «Quando la dichiarazione si fa per documento eterografo la documentazione è una condizione della dichiarazione quando,
invece, si fa per documento autografo, ne è un presupposto». «Pertanto la
dichiarazione per documento autografo risulta non solo dalla formazione,
ma altresı̀ dalla emissione del documento e il rapporto tra documentazione e dichiarazione si precisa in questi termini: la documentazione è un
atto necessario ma non sufficiente a costituire la dichiarazione». Traslando il ragionamento al testamento olografo alla c. 99 scrive: «il suo presupposto è dunque la formazione del documento, non la sua esistenza; in
altri termini la esistenza del documento al momento in cui la dichiarazione è sorta, non al momento in cui deve valere». Nello stesso senso
Anche L. CARRARO, Distruzione della scheda dell’olografo e revoca del testamento, cit., c. 259.
(40) N. IRTI, Il contratto tra faciendum e factum, in Rass. dir. civ., 1984,
938-955, e in ID., Idola liberatis, Milano, 1985 e ora in ID., Studi sul formalismo negoziale, Padova, 1997, da cui le citazioni, 97 ss. e spec. 103.
(41) L’unità del testamento non implica, come accadeva secondo la disciplina del previgente codice, l’unità della disposizione testamentaria. F.
S. AZZARITI, G. MARTINEZ , GIU. AZZARITI, Successioni per causa di morte e
donazione, cit., 587. M. TERZI, Accrescimento, cit., 1179, «l’istituzione nello
stesso testamento [...] non significa necessariamente chiamata con la stessa disposizione».
(42) Cfr. art. 602, 3º co., c.c., art. 603, 2º co., c.c., art. 604 c.c.
(43) Taluni autori, nel riflettere sul tema dell’unicità del testamento, indagano il caso di testamento successivo che, non soltanto non abroghi, per
difetto di compatibilità contenutistica, il precedente, ma che, addirittura, al
contenuto di quello faccia espresso riferimento. Ci si domanda se, in questi
casi, in presenza di chiamate in quote uguali, pur se contenute in diversi
testamenti, si possa dare, ricorrendone gli altri presupposti, accrescimento.
Viene tendenzialmente offerta una risposta di segno affermativo. Credo,
però, che la questione non possa considerarsi capace di aprire a un accrescimento tra coeredi chiamati con testamenti successivi. Perché il richiamo
al contenuto di un precedente testamento finisce, inevitabilmente, per sciogliere la dualità in unità. Il tema, quindi, meriterebbe di essere indagato nella
prospettiva del testamento per relationem (sul quale tema, senza necessità di
dover evocare i fondamentali contributi di Giordano-Mondello e Di Pace, si
veda, M. ALLARA, Il testamento, Padova, 1936, 252 ss., e, di recente, V. PESCATORE, Il negozio testamentario. Sezione II Il testamento per relationem, in
Tratt. dir. successioni e donazioni, diretto da Bonilini, II, La successione testamentaria, Milano, 2009, 47 ss.), ossia del testamento il cui contenuto sia
determinato per relazione a un precedente documento. Non credo si possa
dubitare che in questi casi vi sia unità del testamento; il precedente testamento viene in rilievo non quale autonomo testamento, ma quale mero
contenitore di un contenuto al quale l’unico, successivo, testamento rinvia.
(44) Ammettono invece che si possa dare accrescimento anche in caso di
disposizioni non incompatibili tra loro contenute in testamenti l’uno successivo all’altro, BIGLIAZZI GERI, BRECCIA, BUSNELLI, NATOLI, Diritto civile, 4, t.
2, Le successioni a causa di morte, Torino, 1996, 198 s. In questo stesso
senso, A. PALAZZO, Accrescimento, in Digesto civ., I, Torino, 1987, 50; C.
GANCI, La successione testamentaria, II, Milano, 1952, 452.
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IL COMMENTO
segnato con la formula coniuctio re(45): che gli istituiti siano
chiamati «senza determinazioni di parti o in parti uguali, anche
se determinate».
Il problema, come è ovvio, non si pone per la prima ipotesi,
ossia per il caso in cui il testatore chiami alla propria successione più soggetti senza determinazioni di parti o di quote,
come nel caso in cui il testatore scriva «istituisco miei eredi
Tizio, Caio e Sempronio» o con formula equivalente «Lascio
tutti i miei beni a Tizio, Caio e Sempronio» o «Voglio che mi
succedano Tizio, Caio e Sempronio», quanto soprattutto nella
seconda ipotesi. La quale impone di precisare cosa sia la parte,
che relazione abbia con la quota e quando più parti si possano
dire uguali.
Difficile stabilire se il legislatore abbia usate nell’art. 674 c.c. la
parola «parte» e la parola «quota» siccome sinonimi. Benché la
tentazione appianante, volta a omologare il significato dei due
lemmi, sia forte, credo che una distinzione meriti di essere
conservata, se non altro perché consente un utile risultato.
La parola quota, dal latino quotus, indica la parte di un tutto,
ossia un concetto di relazione, o, più esattamente, la valutazione di un rapporto, il quale, non essendovi limiti matematici o
logici per designarne la misura, può essere espresso, purché si
traduca sempre in un valore numerico(46), nel modo più vario(47). Può rendersi, infatti, attraverso la frazione, ossia un
quoziente di due numeri interi, o attraverso una percentuale,
intesa come lo strumento matematico che descrive la grandezza di una quantità rispetto a un’altra(48).
Diversamente, la parola parte, pur esprimendo, anch’essa, il
medesimo concetto di relazione reso dalla prima, non si esplicita, necessariamente e in via immediata e diretta, attraverso
un valore numerico. Il quale, ove non esplicitato, può essere
soltanto ricavato attraverso un processo inferenziale, più o meno complesso.
In altri termini e tentando una semplificazione, si potrebbe dire
che mentre le disposizioni con le quali il testatore scrivesse
«lascio 1/3 della mia eredità a Tizio» o «lascio il 30% della
mia eredità a Tizio» sono disposizioni a titolo universale attributive di quote, le disposizioni con le quali il testatore scrivesse
«lascio il mio appartamento a Tizio» o «lascio tutti i beni mobili
a Caio e gli immobili a Sempronio», nel presupposto che non
siano legati, sono disposizioni a titolo universale attributive
non già di quote, bensı̀ di parti.
Se si condivide questo ragionamento, si apprezza l’importanza
della scelta del legislatore consumata nell’art. 674 c.c. Il riferimento al più generico concetto di parte, rispetto a quello più
tecnico di quota, consente di attrarre nella fattispecie dell’accrescimento non soltanto i casi in cui i soggetti siano chiamati
in quote espresse, ma anche i noti casi di istituzione ex re
certa(49). Nei quali la tecnica logico linguistica consistente nell’indicazione di un bene o un complesso di beni determinato(50), purché risulti che il testatore ha inteso assegnare quel
bene o quel complesso di beni come quota del proprio patrimonio, suggerisce di preferire la più generica espressione di
«parte» a quella più precisa di «quota»(51).
Questa idea credo che possa trovare conferma nel frammento
della disposizione di legge in cui il legislatore precisa che, ai fini
della uguaglianza delle quote, non è rilevante che le parti dell’eredità siano determinate. Il legislatore scrive, infatti, con formula che in questa prospettiva pare assumere un valore meramente pleonastico, che l’accrescimento opera quando più
chiamati sono istituiti «in parti eguali, anche se determinate».
Sicché la determinatezza della parte, ossia l’indicazione precisa
dei beni che la compongono, non esclude che quella parte sia
uguale ad altra e che, in tal caso, possa, ricorrendone gli altri
presupposti, darsi accrescimento(52).
Chiarito il significato nel quale è assunto il termine di parte
dell’eredità, occorre precisare quando sia possibile affermare
che più parti sono uguali.
(45) Contrario all’idea che nell’accrescimento moderno possa ancora
discorrersi di coniuctio U. ROBBE, Accrescimento (diritto civile), cit., 162
ss., secondo il quale occorre soltanto l’unitarietà dell’oggetto e la pluralità
dei soggetti. La prima intesa quale solidarietà, totalità o comunione, bensı̀
quale unità «cioè: la medesima eredità o quota, il medesimo oggetto legato
o donato». La seconda significa «soltanto il puro e semplice essere assieme
di più persone nella medesima cosa o nel medesimo diritto. Però, nessuna
minima relazione, nessun rapporto o legame di qualsiasi specie esiste fra i
più soggetti: uno è indipendente dall’altro, ognuno sta per suo conto».
(46) Ma, L. MENGONI, L’istituzione di erede «ex certa re» secondo l’art. 588,
2º co., c.c., cit., 756, precisa che la legge non richiede che la quota sia
indicata mediante un preciso linguaggio matematico, indi non v’è ragione
per escludere la compatibilità logica della institutio ex re certa.
(47) Su questo argomento anche la dottrina sul testo del codice previgente. Almeno, L. COVIELLO, L’istituzione di erede ed il lascito di beni determinati, in Foro it., 1931, I, 1, cc. 1157 ss. e, ivi, riferimenti di dottrina e
giurisprudenza del regno. In giurisprudenza, almeno, Cass., 14.7.1926, in
Corte di Cassazione, 1927, 6 ss.; Cass., 9.1.1929, in Giur. it., 1929, I, 1, cc.
386 ss. e, in senso contrario, Cass., 11.3.1931, in Giur. it., I, 1, cc. 691 ss.
(48) C. GANGI, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, I,
cit., 374 s.
(49) Movendo da un’idea profondamente diversa e, in particolare, dal
convincimento che il fondamento dell’accrescimento è nella volontà del
de cuius, la quale deve presumersi quando ricorrano i presupposti a cui la
legge ricollega l’effetto devolutorio, R. SCOGNAMIGLIO, Il diritto d’accrescimento nella successione a causa di morte, cit., 143 s., ammette che nel caso
di assegni divisionali qualificati non può affermarsi esistente una presunzione legale della volontà di accrescimento, essendo «un segno inequivocabile del suo [testatore] intento di attribuire a ciascun coerede solo una
quota» (145). Ciò, tuttavia, non impedisce all’A. di escludere che si possa
dare accrescimento, dovendosi al caso, applicare i principı̂ generali (143).
Precisa, infatti, l’A. a tal proposito che «costituendo i lotti assegnati ai
divisionari il simbolo [...] delle quote, una siffatta distribuzione sussiste
nella ipotesi sempre, se mai, si tratta solo di stabilire se l’accrescimento si
verifichi qualora le quote cosı̀ descritte siano eguali» (144).
(50) Sul tema, anche avuto riguardo ai difficili momenti di collegamento
di questa disciplina con quella sulla divisione fatta dal testatore, almeno,
G. AMADIO, La divisione del testatore senza predeterminazione di quote, in
Riv. dir. civ., 1986, I, 243 ss., ID., La divisione del testatore, in Successioni e
donazioni a cura di Rescigno, II, Padova, 1994, 73 ss., spec. 104-107, e L.
MENGONI, L’istituzione di erede «ex certa re» secondo l’art. 588, 2º co., c.c., in
Riv. trim. dir. e proc. civ., 1948, 762 e ID., La divisione testamentaria, Milano,
1950, 70; A. CICU, Successioni per causa di morte. Parte generale. Divisione
ereditaria, in Tratt. Cicu e Messineo, XLII, 2, Milano, 1958, 432. Negano un
collegamento, G. BOMBARDA, Osservazioni in tema di norme date dal testatore per la divisione, divisione fatta dal testatore e disposizione dei conguagli, in Giur. it., 1975, IV, 109 ss. e spec. 117-119; G. CAPOZZI, Successioni e
donazioni, I, Milano, 1983, 49 e ID., Successioni e donazioni, II, Milano,
1982, 765 s., G. PERLINGIERI, Heredis institutio ex re certa, acquisto di beni
non contemplati nel testamento e l’art. 686 codice civile, in Studi in onore di
Giovanni Gabrielli, anche in Le corti Salernitane, 2010, e in Riv. trim. dir. e
proc. civ., 2011, 6. Sul tema, anche per più ampi riferimenti di letteratura e
giurisprudenza, il mio Istituzione ex re certa e divisione fatta dal testatore,
in Riv. dir. civ., in corso di pubblicazione.
(51) In senso difforme, M. TERZI, Accrescimento, cit., 1180, secondo il
quale l’accrescimento non si può verificare nel caso di pluralità di istituzioni ex re certa, dal momento che «la chiamata in re certa non può per
definizione, essere considerata solidale con altre chiamate della stessa
natura, né è ragionevole ritenere che il testatore avrebbe voluto ,l’accrescimento ove avesse saputo che le quote ereditarie dei chiamati si fossero
rivelate uguali». Ai due rilievi svolti dell’A. si può replicare osservando, sul
primo, che le chiamate in re certa pur non essendo solidali, potrebbero
essere uguali e, sul secondo, denunziando l’irrilevanza della volontà del de
cuius nel meccanismo dell’accrescimento. In questo senso, seppur la tesi
non risulta argomentata, già F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, VI, Diritto delle successioni per causa di morte, cit., 560.
(52) S. FERRARI, L’accrescimento, cit., 282, osserva che l’indicazione delle
parti non può essere considerata come un limite alla partecipazione all’eredità di ciascuno dei chiamati, «bensı̀ quale criterio per la divisione ove
si verifichi il concorso».
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IL COMMENTO
Può esser utile muovere da una prima considerazione: due
parti uguali non sono e non possono essere una stessa parte.
La eguaglianza impone, infatti, almeno una duplicità che, invece, è ripudiata, per il suo evocare l’unità e l’unicità, dal concetto espresso dall’aggettivo dimostrativo. Il rilievo non è privo
di importanza se soltanto si consideri che nell’art. 674 c.c. il
legislatore discorre, al 1º co., di parti uguali e, al 2º co., di stessa
quota.
Sembra, allora, possibile affermare che due soggetti siano chiamati in parti uguali quando il testatore abbia riservato a ciascuno di essi porzioni di eredità, che raffrontate l’una rispetto
all’altra e ciascuna in relazione all’intero, esprimano grandezze
quantitative, caratterizzate dalla proprietà transitiva, simmetrica e riflessiva; quando, cioè, a ciascuno dei chiamati, indipendentemente dalla tecnica logico linguistica adoperata dal testatore per istituirli eredi, ossia indipendentemente dal fatto che li
abbia istituti in quota o che abbia loro assegnato un bene o un
complesso di beni determinati, siano riservate parti dell’eredità
capaci di esprimere, tradotte in termini matematici, una medesima grandezza. Sicché saranno uguali le parti di eredità,
quando esse, indipendentemente dalla loro astratta o concreta
composizione, abbiano un medesimo valore(53).
Nel caso in cui Tizio abbia istituito Mevio erede nella metà del
proprio patrimonio e in un quarto del patrimonio ciascuno
Caio e Sempronio, si potrà dare accrescimento solo tra Caio e
Sempronio, ma non tra Mevio e Caio o tra Mevio e Sempronio(54); ancora, nel caso in cui Tizio abbia istituito Mevio in un
sesto del proprio patrimonio e lasciato ex re certa a Caio l’immobile x e a Sempronio l’immobile y, qualora risulti che immobile x e l’immobile y siano pari, ciascuno, a una quota di ¼
del patrimonio ereditario, si potrà dare accrescimento solo tra
Caio e Sempronio, ma non tra Mevio e Caio o tra Mevio e
Sempronio; infine, nel caso in cui Tizio abbia istituito erede
Mevio in un sesto del proprio patrimonio, lasciato ex re certa
a Caio l’immobile x e istituito erede Sempronio in un quarto
dell’eredità, qualora risulti che l’immobile x esprima una quota
di ¼ del patrimonio ereditario, si potrà dare accrescimento solo
tra Caio e Sempronio, ma non tra Mevio e Caio o tra Mevio e
Sempronio.
In questi casi le parti di eredità assegnate a Caio e Sempronio
sono uguali tra loro; ricorrendone gli altri presupposti, può
darsi accrescimento. Escluderei, però, che in casi del genere
si possa discorrere di chiamata solidale(55), espressione con la
quale credo preferibile indicare non già il caso in parola, ossia il
caso in cui più soggetti siano istituiti eredi in parti diverse,
seppur uguali, ma il caso in cui più soggetti siano istituiti eredi
nell’intero e il caso, più singolare, descritto al 2º co. dell’art. 674
c.c., in cui più soggetti siano istituiti eredi in una stessa quota.
Il vincolo di solidarietà, infatti, ove pure venisse mutuato dal
campo del diritto delle obbligazioni nel quale par avere una
lla sola disposizione di legge recata all’art. 522 c.c. è affidata la disciplina del c.d. accrescimento nella successione
legittima: un meccanismo di devoluzione, gerarchicamente subordinato alla rappresentazione, in forza del quale «la parte di
colui che rinunzia si accresce a coloro che avrebbero concorso
col rinunziante».
La richiamata disposizione di legge, in uno con il suo inciso
finale, nel quale è stabilito che l’eredità, per l’ipotesi in cui il
rinunziante fosse solo, si devolve a coloro ai quali spetterebbe
nel caso che egli mancasse, in luogo di risolvere problemi teorici e pratici, popola il tema di domande e dubbii che rendono
difficile l’intelligenza dell’istituto e insinuano persino il sospetto che esso possa essere assimilato o, anche soltanto accomunato, all’accrescimento previsto in materia testamentaria(56).
Con l’aspirazione di svolgere qualche considerazione sulla natura dell’istituto all’esito di un chiarimento in merito alla fattispecie, credo che occorra verificare, in via preliminare, se di là
del presupposto inerente al tipo di chiamata, tale meccanismo
devolutorio operi soltanto nel caso in cui uno dei co-chiamati
rinunzi all’eredità, ossia non voglia accettare, ovvero anche nel
diverso caso in cui uno dei chiamati non possa accettare l’eredità.
Il dubbio è legittimo se soltanto si considera che, diversamente
da quanto non accada per la rappresentazione (cfr. art. 467, 1º
co., c.c.), istituto comune alla successione legittima e testa-
(53) R. SCOGNAMIGLIO, Il diritto d’accrescimento nella successione a causa di
morte, cit., 120, movendo da una concezione volontaristica del fenomeno
e intendendo la coniuctio nel significato nel quale essa era intesa nel
diritto romano, per un verso contesta che presupposto dell’accrescimento
sia una coniuctio in senso proprio e, per altro verso, segnala che la formula
scelta dal codice per indicare le ipotesi di chiamata in cui possa darsi
accrescimento serve soltanto a indicare quei casi nei quali «sia possibile
ravvisare una presunzione di volontà dell’accrescimento».
(54) Una ricca casistica di ipotesi è offerta da G. GAZZARA, Contributo ad
una teoria generale dell’accrescimento, cit., 166-169. Preme, soltanto, segnalare che tra le numerose ipotesi talune risultano di difficile intelligenza
quelle nelle quali l’A. ipotizza che il testatore dopo aver chiamato due
soggetti ciascuno rispettivamente nella metà dell’eredità, separatamente
chiami un terzo nell’intero. Credo che la difficoltà dipenda dal rischio che
tali disposizioni risultino antinomiche tra di loro e la seconda capace di
revocare le precedenti. Quando il testatore con una chiamata solidale o
con più chiamate istituisca eredi più soggetti nell’intero o in più quote
idonee a coprire l’unità, difficile par trovar spazio per una nuova istituzione in altra quota. Risultando possibile soltanto l’istituzione del nuovo
soggetto in una quota già assegnata ad altri istituti.
(55) In questo senso G. BONILINI, Manuale di diritto ereditario e delle
donazioni, cit., 70.
(56) F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, VI, Diritto delle
successioni per causa di morte, cit., 561 s., non dubita che anche nella
successione legittima si possa e debba dare accrescimento in senso tecnico.
delle più feconde applicazioni, parrebbe presupporre l’unità
del rapporto giuridico di riferimento, ossia, traducendo al tema
indagato, che più soggetti siano chiamati in una medesima
quota, la quale mentre abbia all’esterno il tratto di unità, riservi
e conservi, invece, il tratto di parziarietà nei soli ed esclusivi
rapporti interni tra i con-chiamati.
Diversamente, la chiamata mi parrebbe parziale non soltanto
nei casi in cui più soggetti vengano istituiti eredi in quote differenti, ma anche nei casi in cui più soggetti vengano istituiti
eredi in quote uguali. Perché, pur nell’uguaglianza delle quote,
la quale è uno soltanto dei presupposti, perché si possa dare
accrescimento, non mi pare che si possa dire esistente tra loro
un vincolo di solidarietà, non mi pare, cioè, che si possa affermare l’esistenza di un’unità del rapporto giuridico di riferimento.
Chiamando a raccolta le considerazioni svolte, l’accrescimento
può darsi, ove sussistano tutti gli altri co-elementi della fattispecie, quando in uno «stesso testamento» più soggetti siano
«chiamati solidalmente», ossia nell’intero o in una medesima
quota, oppure quanto più soggetti siano «chiamati parzialmente ma in parti uguali».
6. Presupposti dell’accrescimento tra co-chiamati
legittimi: il chiamato che non voglia accettare
A
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IL COMMENTO
mentaria, e da quanto non accada per la sostituzione (cfr. art.
688, 1º co., c.c.) e per l’accrescimento (cfr. art. 674, 1º co., c.c.)
nella successione testamentaria, il legislatore stabilisce che
l’accrescimento in parola opera nel solo caso in cui il chiamato
non voglia accettare, nulla stabilendo per il caso in cui il chiamato non possa accettare(57).
Questo rilievo, che apparentemente sembra segnare una frattura irreversibile, è, però, destinato a poca fortuna non appena
si consideri che nella successione legittima i casi in cui il chiamato non possa accettare hanno un rilievo straordinariamente
minore rispetto a quello che i medesimi assumono in materia
testamentaria, dal momento che l’impossibilità dipendente
dalla morte e dagli atti e fatti a essa equiparati, al pari dell’impossibilità dipendente dai casi di indegnità abitano usualmente
soltanto la prima ipotesi, ma non anche la seconda(58).
Per avvedersene è sufficiente considerare la conformazione
strutturale dei due diversi procedimenti successorı̂. È palese,
infatti, proprio in ragione dell’imprevedibile sorte della vita
umana, che la vacanza di quote dipendente dalla premorienza
del chiamato o da altri fatti e atti a quella equiparati, mentre
rischia di essere consueta e ripetuta nella successione testamentaria, in cui i chiamati all’eredità sono individuati dal testatore nel tempo in cui quegli confeziona il testamento, ossia
in un tempo che potrebbe anche essere assai precedente rispetto a quello in cui la morte del suo autore consentirà all’atto
di svolgere la sua efficacia, è poco o punto rilevante nella successione legittima, in cui i chiamati sono designati direttamente dalla legge e sulla base della fotografia famigliare che l’ordi-
ne giuridico pretende venga scattata al tempo della morte dell’ereditando(59).
Il ritmo delle norme sulla successione legittima è scandito dall’incalzante verifica di chi, colui che sia stato tolto ai vivi, abbia
lasciato dietro di sé: in un puntuale processo di progressivo
allontanamento dalla cerchia dei famigliari più prossimi, mano
a mano che se ne accerti la loro assenza. Con il necessario
corollario che, di tutti quei famigliari che siano premorti al de
cuius, gli unici di cui l’ordine giuridico tiene conto sono soltanto coloro che, per loro discendenza o fratellanza con il de
cuius, consentono la successione per rappresentazione dei loro
discendenti.
Considerazioni di carattere logico non dissimili da quelle appena svolte possono essere ripetute anche per il caso di vacanza della quota dipendente da indegnità a succedere, atteso che
i fatti e gli atti ai quali il legislatore collega questa particolare
forma di incapacità a succedere risultano essere, quale che sia
l’eventuale tempo in cui ciò venga giudizialmente accertato,
anteriori o coevi rispetto alla morte del de cuius.
Questi rilevi, pur riducendo nella successione legittima la rilevanza delle ipotesi di chiamato che non possa accettare l’eredità, non valgono, tuttavia, a escluderne in via decisiva la verificabilità, residuando, infatti, il caso del chiamato che decade
dal potere di accettare l’eredità quando, esposto ad actio interrogatoria, ometta di dichiarare se intende accettare o rinunziare, il caso di prescrizione del diritto di accettare e il caso di
istituzione sottoposta a condizione(60).
Per quanto esso possa apparire di poca rilevanza pratica, sol-
(57) L’osservazione è svolta con acutezza da L. CARIOTA FERRARA, Le successioni per causa di morte, I, Parte generale, 2, Le specie – I soggetti, cit., 99.
L’A., tuttavia, non si sente di condividere questo risultato e, anche in considerazione del fondamento del fenomeno, da quegli rinvenuto nella simultanea e solidale chiamata, conclude nel senso che nelle successioni
legittime l’accrescimento è destinato a operare non soltanto quando il
chiamato non voglia accettare, ma anche quando non possa accettare.
L’osservazione, come è evidente, sembra confermare l’idea che l’accrescimento si sarebbe potuto ipotizzare anche in assenza della norma di cui
all’art. 522 c.c. Seguendo la linea di pensiero dell’A., se cosı̀ non fosse e se,
quindi l’accrescimento nelle successioni legittime in tanto funziona in
quanto esiste la norma dell’art. 522 c.c., sarebbe obbligata la conclusione
che ne volesse una operatività limitata al solo caso di rinunzia. Viceversa
l’estensione anche al caso di impossibilità ad accettare sgancia, inesorabilmente, l’operatività e il funzionamento dello strumento dalla norma in
parola, la quale cessa di avere un contenuto di necessità.
(58) Cosı̀, pur movendo da una prospettiva molto diversa da quella suggerita nel testo, R. SCOGNAMIGLIO, Il diritto d’accrescimento nella successione
a causa di morte, cit., 284.
(59) S. FERRARI, L’accrescimento, cit., 293.
(60) M. TERZI, Accrescimento, cit., 1181, aggiunge, anche i casi di invalidità
della disposizione testamentaria, risoluzione della disposizione testamentaria per inadempimento dell’onere, mancato verificarsi della condizione
sospensiva o avveramento della condizione risolutiva. A. MASI, Del diritto
di accrescimento. Artt. 674-678, cit., 25-34, R. SCOGNAMIGLIO, Il diritto d’accrescimento nella successione a causa di morte, cit., 151-176, G. GAZZARA,
Contributo ad una teoria generale dell’accrescimento, cit., 70, e U. ROBBE,
Accrescimento (diritto civile), cit., 164, tra gli altri, considerano anche i casi
di prescrizione del diritto di accettare l’eredità, di invalidità della disposizione testamentaria, di risoluzione della disposizione testamentaria per
inadempimento dell’onere e di revoca della disposizione testamentaria.
Al riguardo credo che non possano considerarsi ipotesi di chiamato che non
possa accettare l’eredità quelli che si legano all’invalidità o alla revoca della
disposizione testamentaria. Nel caso di invalidità, soprattutto se si tratti di nullità, e in quello di revoca della disposizione testamentaria non sarebbe giuridicamente pensabile una vacanza della quota per impossibilità del chiamato ad
accettarla, quanto piuttosto l’assenza stessa della vocazione a vantaggio di quel
soggetto. La disposizione invalida, cosı̀ come quella efficacemente revocata, non
sono per loro natura idonee, indipendentemente dalla iniziale, provvisoria e
approssimativa valutazione giuridica che sia stata compiuta prima di avvedersi
dell’invalidità o della revoca, a produrre alcun effetto e, in particolare, a vocare
alla successione il soggetto in esse designato. In senso contrario, R. SCOGNAMIGLIO, Il diritto d’accrescimento nella successione a causa di morte, cit., 150 s. e 165
ss., scrive «quello che qui conta non è l’acquisto (o il mancato acquisto), anche
temporaneo, come sarebbe, ad es., se dovesse aversi riguardo principalmente ad
un comportamento dell’erede, ma piuttosto, la condizione definitiva della quota».
Solo apparentemente più complessa è la questione connessa alla prescrizione
del c.d. diritto di accettare, discutendosi se importi una vacanza. Credo che si
possa dare a questa domanda una risposta di segno positivo, perché la prescrizione del diritto, in uno con la decadenza, determina, salvo il caso eccezionale
espressamente previsto, un’impossibilità giuridica del chiamato ad acquistare
l’eredità e, probabilmente la stessa perdita dello status di chiamato. Né, come
nel caso di invalidità o di revoca è possibile affermare che in questo caso manchi la vocazione. La quale esisteva ed era perfettamente valida ed efficace e,
anteriormente al suo consumarsi, avrebbe consentito al vocato di acquistare la
qualità di erede. Se, però, in tali casi si possa dare accrescimento dipende dall’esistenza di altro chiamato a favore del quale l’accrescimento possa operare, il
quale, cioè, abbia già acquistata la quota a quegli devoluta o contro il quale, pur
non avendo ancora acquistata la quota, non si sia prescritto, contestualmente, il
di lui potere di accettare l’eredità. Ove cosı̀ fosse, non si potrebbe dare accrescimento per difetto del soggetto la cui quota si possa accrescere e non perché la
prescrizione del diritto di accettare esclude la configurabilità di una vacanza.
Infine, qualche breve notazione sulle ipotesi di disposizioni condizionali. Rispetto alle quali credo si possa affermare la loro idoneità a essere ricondotte nel
più generico caso di chiamato che non possa accettare l’eredità. Benché l’efficacia della disposizione testamentaria sia sospensivamente o risolutivamente
condizionata al verificarsi dell’accadimento futuro e incerto dal quale dipende
la produzione o la cessazione dell’effetto, non mi pare che si possa dire, al pari
dei casi di revoca o invalidità della disposizione testamentaria, che la vocazione
manchi. Piuttosto è vero l’esatto contrario. Nel caso di istituzione sottoposta a
condizione risolutiva, la chiamata esiste ed è efficace. Il problema si pone nel
caso in cui si verifichi l’evento dedotto in condizione. In questo caso, non viene
meno la vocazione o la chiamata del soggetto, il quale potrebbe, addirittura,
aver medio tempore acquistato i diritti successori, ma viene meno proprio l’acquisto, con la conseguenza che esiste una quota vacante o, più esattamente, una
quota divenuta, successivamente, vacante. Parzialmente diverso il caso di istituzione sottoposta a condizione sospensiva. In questa ipotesi la vocazione non è
in essere, destinata, com’è, a venire nel suo tempo di giuridica efficacia, nel
momento in cui si verifichi l’evento dedotto in condizione. Ciò soltanto, però,
non consente di affermare che la quota sia vacante. Tale conclusione, infatti,
può seguire soltanto al definitivo e irrevocabile accertamento che l’evento dedotto in condizione non si è verificato e non si possa più verificare. Prima di
quel momento, non è dato discorrere di vacanza della quota, ma soltanto di
attesa vòlta a definire se una vacanza vi possa essere, o meno. Prima di quell’accertamento, il chiamato sospensivamente condizionato sebbene non possa
acquistare l’eredità, nondimeno non è possibile affermare la vacanza della quota.
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IL COMMENTO
leva un grave problema teorico, trattandosi di accertare se, in
tal caso, si possa dare o si debba negare accrescimento.
La risposta credo che non possa che ricercarsi nella norma di
cui all’art. 522 c.c., il cui tenore letterale e ordine sistematico
non mi paiono muti di accento e pensiero, né aprire alla possibilità di considerare applicabile il meccanismo di accrescimento descritto anche al caso di chiamato che non possa accettare l’eredità. Sicché una risposta che volesse muovere verso
tale soluzione, non potrebbe che passare dalle norme e dalla
disciplina della decadenza dal potere di accettare, mercé la
riconducibilità o l’equiparazione di quest’ultima ipotesi al caso
di rinunzia all’eredità(61).
Pur nella consapevolezza che il naufragio di
questa ipotesi reca con sé anche il segno della
irreparabile frattura tra l’accrescimento nella
successione testamentaria e l’accrescimento nella
successione legittima, non credo che la paventata
riconducibilità o equiparazione possa essere
compiuta e adeguatamente svolta.
Sebbene in entrambe le ipotesi, nella prima in modo espresso e
inequivoco, mentre nella seconda in modo mediato e riflesso,
parrebbe possibile scorgere un’intenzione rinunziativa, non
v’ha dubbio che sia molto diverso il comportamento di colui
che si esprima e rinunzi, dal comportamento di colui che,
espressamente interrogato, taccia. Alla diversità dei due atti, il
legislatore collega disuguali statuti disciplinari. Entrambi i
chiamati si restringono fuori dal procedimento: l’uno per decisione propria, l’altro per scelta dell’ordinamento giuridico; all’uno è, però, conservato un potere procedimentale (revoca
della rinunzia), all’altro, invece, è tutto precluso, tradotto in
sincero estraneo. Una diversità di comportamenti e una diversità di effetti che non tollera l’equiparazione dell’uno all’altra,
né, ancor meno, la conclusione che la decadenza dal potere di
accettare possa considerarsi un caso di rinunzia implicita.
In questa direzione non giova, neppure, l’argomento che volesse fare leva su un’interpretazione estensiva o analogica. Pur
(61) Cosı̀ un’antica, ma precisa decisione di App. Trieste, 20.5.1964, in
Foro padano, 1965, I, 800 s., nella quale si legge: «Posto che il difetto di
accettazione nel termine prefissato dal giudice ex art. 481 c.c. non costituisce una ipotesi di rinunzia all’eredità, ma di decadenza dal diritto di
accettare, non sono applicabili a detta ipotesi né le norme relative alla
possibilità di revoca o di annullamento da parte del chiamato all’eredità,
né quelle sulla revocabilità della rinunzia da parte dei creditori».
(62) L. MENGONI, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione legittima, 5, in Tratt. Cicu e Messineo e continuato da Mengoni, XLIII, 1,
Milano, 1993, 102 s., considera, opportunamente, la regola posta nell’art.
571 c.c. un’eccezione al funzionamento della norma di cui all’art. 522 c.c.
(63) Cosı̀, BIGLIAZZI GERI, BRECCIA, BUSNELLI, NATOLI, Diritto civile, IV, t. 2,
Le successioni a causa di morte, cit., 202 e già U. ROBBE, Accrescimento
(diritto civile), cit., 169, il quale, pur rilevando che l’accrescimento nelle
successioni legittime opera nel solo caso di vacanza della quota dipendente da rinunzia all’eredità, non esclude che esso abbia la medesima
natura dell’accrescimento previsto nelle successioni testamentarie. L’A.
scrive infatti, «è assurdo voler pretendere per l’accrescimento nelle successioni legittime gli stessi presupposti e gli stessi caratteri che si hanno
per quello delle successioni testamentarie. Com’è oltremodo esagerato e
fuori luogo impressionarsi delle eventuali e inevitabili coincidenze, con
le regole della successione intestata, del diritto di accrescimento ad essa
applicato». In senso contrario, sembrerebbe orientato G. DI GIANDOMENICO, Fondamento, applicazione e limiti del diritto di accrescimento, cit.,
270, il quale reputando l’accrescimento comune alla successione legittima e testamentaria, individua, tra i suoi presupposti, senza distinguere
l’un caso dall’altro, il fatto che il chiamato non possa o non voglia accettare l’eredità.
(64) Non convincono la decisione di Trib. Marsala, 14.6.2004, la cui mas-
astrattamente plausibili, dovrebbero lasciar posto all’idea che
il legislatore nel non disciplinare espressamente all’art. 522 c.c.
il caso di chiamato che non possa accettare abbia semplicemente dimenticato e non deliberatamente scelto, senza considerare, poi, che la norma in parola rinvia all’art. 571 c.c.(62), il
cui 3º co. torna a regolare sia il caso di chi non voglia che il caso
di chi non possa accettare l’eredità.
Le considerazioni svolte lasciano traccia di profonda diversità:
per quanto nella successione legittima l’etichetta di chiamato
che non possa accettare vesta il solo caso, statisticamente non
determinante, del decaduto, nondimeno esso par tratto fuori
dall’accrescimento di cui all’art. 522 c.c., destinato a valere nei
soli casi di chiamato che rinunzi all’eredità(63).
Con l’ovvia conseguenza che la quota di eredità rimasta vacante a causa della decadenza dal potere di accettarla, apre, quando non si possa dare né rappresentazione né applicazione della
norma di cui all’art. 571 c.c., il problema della devoluzione. Il
quale non può essere che risolto, negata la possibilità di far
luogo all’accrescimento, mercé la ri-espansione della disciplina
generale e comune, ossia devolvendo la porzione dell’erede
mancante agli eredi legittimi(64) e ingenerando, cosı̀, il singolare convincimento che nella successione legittima la porzione
dell’erede mancante si devolva diversamente a seconda che la
mancanza dell’erede sia dipesa da rinunzia o da decadenza dal
potere di accettare e che il fondamentale presupposto dell’accrescimento sia diverso a seconda che la successione sia retta
dalla legge o dal testamento. Perché nell’ultima occorre, con
fattispecie alternativa, che il chiamato non voglia o non possa
accettare, mentre nella prima, con fattispecie semplice, che il
chiamato rinunzi all’eredità, espandendosi in tutti gli altri casi
la disciplina della successione famigliare suppletiva(65).
7. Segue: coloro che avrebbero concorso
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soggetti a favore dei quali si compie l’accrescimento nella
successione legittima sono designati dal legislatore all’art.
522 c.c. con la proposizione linguistica «coloro che avrebbero
concorso col rinunziante», facendo impiego, cioè, di una enunciazione più snella di quella impiegata nell’art. 674 c.c., che pur
sima redazionale suona cosı̀: «Nel caso di disposizione mortis causa riguardante l’attribuzione della qualità di erede ad un’erigenda fondazione,
la morte dell’esecutore testamentario incaricato di provvedere alla istituzione della stessa estingue il rapporto di mandato, cosı̀ determinando
l’inefficacia della disposizione testamentaria. In tal caso, in applicazione
dell’art. 522 c.c., non potendo operare l’accrescimento in difetto di nomina di altri eredi né far luogo alla rappresentazione, deve ritenersi automaticamente operante la delazione legittima» e quella del Trib. Partanna,
14.6.2004, in Guida dir., 2005, 89 ss., con massima analoga a quella del
Tribunale marsalese. In casi del genere, infatti, crediamo piuttosto che la
devoluzione della eredità secondo le norme sulla successione legittima
non possa dipendere dall’accertamento della vacanza della quota, presupposto perché possa operare uno qualunque dei meccanismi devolutori,
bensı̀ dalla più generale norma, di cui all’art. 457, 2º co., c.c., la quale
impone di far luogo alla successione legittima quando manchi in tutto
in parte quella testamentaria. Convince U. ROBBE, Accrescimento (diritto
civile), cit., 164 e 169, il quale, dopo aver rilevato che potrebbe darsi completa coincidenza nei risultati delle regole della successione legittima col
diritto di accrescimento e anche identità di persone, non esclude la rilevanza della distinzione. Perché «una medesima persona può avere contemporaneamente diversi diritti, concorrenti fra loro o escludentesi a vicenda, e può conseguire pure la stessa cosa attraverso i diversi diritti
anzidetti». Ciò non esclude però che si debba con la massima precisione
«quale diritto effettivamente abbia nel singolo caso in esame». Fermo,
invece, il dissenso sull’idea, sostenuta dall’A., che la successione legittima
sia fondata su una presupposta o implicita volontà dell’ereditando e che
l’accrescimento ha, per l’appunto, la funzione di sopperire a una mancata
volontà del de cuius.
(65) M. ALLARA, La successione familiare suppletiva, cit.
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IL COMMENTO
utilizzando il concetto di parte dell’eredità, non si premura di
stabilire se il concorso debba implicare una chiamata solidale,
cioè una chiamata di più soggetti nell’intero o in una medesima quota, ovvero una «chiamata in parti uguali», ossia in quote
che raffrontante l’una rispetto all’altra e ciascuna in relazione
all’intero esprimano grandezze quantitative caratterizzate dalla
proprietà transitiva, simmetrica e riflessiva, ovvero, infine, una
«chiamata anche in parti diseguali».
A tacer del fatto che il riferimento alla parte piuttosto che alla
quota di eredità nel caso della successione legittima non ha, né
si può pretendere che abbia, la medesima rilevanza che esso
acquista nel caso della successione testamentaria, nella quale
serve per abbracciare i casi di istituzione ex re certa, non v’ha
dubbio che l’indefinito riferimento al «concorso» lascia aperto
il problema dell’esatta determinazione della fattispecie di chiamata idonea a consentire il c.d. accrescimento.
La parola «concorso» e, in conseguenza, la formula linguistica
che di quella si giova, nel suo evocare, come l’etimo tradisce, il
mero affluire o convergere da più parti in uno stesso luogo, è
necessariamente più sommaria rispetto a quella usata nell’art.
674 c.c. e, a meno di non voler provvedere a un’interpretazione
ortopedica, che male si concilia con il dato letterale, parrebbe
comprendere non soltanto il caso della chiamata solidale e
della chiamata in parti eguali, bensı̀ anche quello della chiamata in parti diseguali(66).
Parrebbe derivarne, marcando, cosı̀, ulteriormente, la linea di
distinguo tra le due forme di accrescimento, che, a differenza di
quanto non accada nella successione testamentaria, in quella
legittima si possa dare accrescimento anche quando più soggetti siano contestualmente chiamati in quote diverse. Il riferimento al concorso, infatti, scivola l’esatta definizione dei chiamati a favore dei quali si compie tale devoluzione dalle modalità della chiamata a quello della loro contestuale ammissione a
quella successione: rileva, infatti, che più soggetti, indipendentemente dalla circostanza che siano chiamati nell’universalità
dei beni o in una medesima quota o in quote eguali o in quote
differenti, siano contestualmente ammessi alla medesima successione. Questo, peraltro, mi pare l’esatto significato in cui la
parola «concorso» è assunta nella disciplina della successione
legittima, nella quale, da un lato, serve a placare il serrato rigore del principio che include il parente più prossimo, escludendo tutti gli altri e, dall’altro, ha consentito, senza straordinarı̂ stravolgimenti, anche l’inclusione del coniuge alla successione.
momento che non esisterebbe altro soggetto, già
chiamato, la cui quota potrebbe accrescersi.
La frontiera dell’accrescimento nella successione
legittima non valicabile è il non essere colui che
rinunzia all’eredità l’unico ammesso a quella
successione. In caso di unicità, infatti,
l’accrescimento sarebbe precluso logicamente, dal
Ciò spiega l’inciso finale dell’art. 522 c.c.: se il rinunziante è
solo, ossia non concorre con altri, la vacanza della quota deve
essere colmata mediante la devoluzione agli eredi legittimi,
ossia mediante l’ultimo, per grado, dei meccanismi devolutori(67). Il quale, si badi, mentre in caso di rinunzia all’eredità vale
se il chiamato sia solo; nel caso in cui il chiamato non possa
accettare, stante l’inoperosità dell’accrescimento, vale non soltanto se «l’erede mancante» sia solo, ma anche se concorra con
altri.
L’indifferenziata ammissione all’accrescimento di tutti coloro i
quali concorrono col rinunziante esige di stabilire in che modo
si debba dare accrescimento.
Il problema, estraneo alla successione testamentaria, per la
quale il legislatore prescrive che in caso di chiamata solidale
l’accrescimento ha luogo soltanto a favore degli istituiti nella
medesima quota e che in caso di chiamata in quote diseguali
non ha luogo, si pone con durezza nella successione legittima,
non già nei casi in cui i concorrenti siano tutti chiamati nella
medesima quota o in quote eguali, ma quando siano chiamati
in quote diverse e, soprattutto, quando più ipotesi si combinino tra loro.
Mettendo a parte i casi in cui alla successione siano chiamati
soltanto i figli(68) o i genitori(69) o gli ascendenti(70) o i fratelli e
le sorelle(71) o i parenti(72), nei quali sono previste chiamate,
tutte, in quote uguali, i casi di concorso del coniuge, con il
figlio(73) o con i figli(74), i casi di concorso dei genitori(75) con
i fratelli(76) e il caso di concorso degli ascendenti con il coniuge
e/o i fratelli(77), pongono il problema di più cerchie di famigliari chiamati, ciascuna, in quote diverse.
Si tratta, quindi, di stabilire se la quota dell’erede mancante
debba apaticamente accrescere la quota di tutti gli altri chiamati che con quello concorrono o se, invece, debba, nell’ordine, accrescere prima la quota dei chiamati in solido (ossia nella
medesima quota), poi, la quota dei chiamati in quote uguali e,
infine, la quota dei chiamati in quote diverse.
Un esempio chiarisce i termini del problema: ipotizzando che
Tizio sia stato tolto ai vivi, che la sua successione non sia regolata da testamento, che egli abbia lasciato dietro di sé il
coniuge e tre figli, che al coniuge spetti 1/3 e a ciascuno dei
figli 2/9 dell’eredità, che uno dei figli rinunzi all’eredità, occorre
verificare se i 2/9 rimasti vacanti debbano accrescere indifferentemente la quota di tutti gli altri chiamati che con quello
concorrono, ossia il coniuge e i due figli, attribuendo a ciascuno 2/27 dell’eredità, o se, invece, l’accrescimento non debba
valere a vantaggio del coniuge, il quale concorre in quota diseguale, ma, soltanto a vantaggio degli altri figli, attribuendo a
ciascuno 1/9 dell’eredità.
(66) F. S. AZZARITI, G. MARTINEZ , GIU. AZZARITI, Successioni per causa di
morte e donazione, cit., 584, individua il fondamento dell’accrescimento
nella chiamata congiuntiva, la quale ricorre nel caso in cui più «persone
siano eredi nello stesso grado».
(67) Segnala, efficacemente, la differenza tra l’uno e l’altro e l’impossibilità di accomunarli M. TERZI, Accrescimento, cit., 1189. «Nel caso di eredità devoluta a gruppi di persone per quote variabili in funzione del numero dei soggetti, soltanto il meccanismo dell’accrescimento può far sı̀
che la quota di colui che rinunzia si devolva agli altri chiamati del medesimo gruppo e non anche, in parte, a quelli dell’altro gruppo concorrente,
come invece dovrebbe avvenire sulla base dell’applicazione delle norme
sulla successione legittima».
(68) Cfr. artt. 566 e 567 c.c.
(69) Cfr. art. 568 c.c.
(70) Cfr. art. 569 c.c.
(71) Cfr. art. 570 c.c.
(72) Cfr. art. 572 c.c.
(73) Cfr. art. 581 c.c.
(74) Cfr. art. 581 c.c.
(75) Si consideri che nel caso in cui i genitori non possano o non vogliano
accettare il legislatore, derogando il meccanismo dell’accrescimento, il
quale imporrebbe che la quota di costoro dovrebbe accrescere quella dei
figli che con loro concorrono, al 3º co. dell’art. 571 c.c. stabilisce che la
quota dei genitori deve essere devoluta a favore degli ascendenti.
(76) Cfr. art. 571 c.c.
(77) Cfr. art. 582 c.c.
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IL COMMENTO
L’assenza, nella disposizione di legge, di una precisa indicazione al riguardo, suggerisce e, quasi, impone, di aprire ai principı̂
generali, ai quali bisogna attingere per provarsi in una risposta.
La quale non credo che possa tralasciare l’incalzante ritmo e la
funzione suppletiva della successione legittima. Senza, infatti,
voler accedere a barocche ricostruzioni che sogliono ipotizzare
che le norme sulla designazione dei successibili legittimi interpretano, sempre e costantemente, la volontà del de cuius, al
punto che nell’ultima si pretenderebbe di rinvenire il fondamento stesso di quella vocazione e nel convincimento che
quelle norme debbano di necessità prescindere da una volontà
presunta o ipotetica del de cuius, la quale spesso, anche in
assenza di un testamento, potrebbe essere orizzontata in senso
largamente differente, non si può tralasciare di considerare il
rigoroso ordine che domina l’ammissione alla successione medesima.
Credo, perciò, che, nel caso di concorso tra più successibili,
taluni chiamati in solido, altri in quote uguali e altri in quote
diverse, l’accrescimento debba svolgersi ordinatamente e per
gradi. In conseguenza, la quota dell’erede che abbia rinunziato
deve accrescere, in primo luogo, la quota di coloro che siano
chiamati in solido con il rinunziante, in difetto, la quota di
coloro che siano chiamati in quote uguali e, in ulteriore difetto,
la quota di coloro che siano chiamati in quote disuguali(78).
Sostenere che l’accrescimento debba operare a indistinto beneficio di tutti coloro che concorrono, senza differenziare il
modo col quale costoro concorrano con il rinunziante, finirebbe con l’alterare il sistema e l’ordine dei successibili, adulterando i difficili equilibri che il legislatore ha composto e risolto.
Le considerazioni svolte in tema di accrescimento nella successione legittima lasciano traccia di un istituto significativamente
diverso da quello previsto nella successione testamentaria, non
soltanto per la fattispecie, ma anche negli effetti(79).
Li accomuna il loro essere postergati alla rappresentazione e il
loro precedere la devoluzione secondo le norme sulla successione legittima; li distingue la fattispecie, perché l’uno presuppone che il chiamato non possa o non voglia accettare, mentre
(78) In questo senso, motivando però soltanto con il senso dell’ovvietà,
anche M. TERZI, Accrescimento, cit., 1189, il quale scrive: «quando l’eredità
si devolve a gruppi di soggetti è ovvio che il ‘‘concorso’’ prima è fra i
membri del medesimo gruppo e, solo dopo che un gruppo si sia ridotto
ad un solo soggetto, con i membri dell’altro gruppo». Già ROBBE, Accrescimento (diritto civile), cit., 170 s.
(79) In senso contrario, L. CARIOTA FERRARA, Le successioni per causa di
morte. I. Parte generale. 2 Le specie. I soggetti, cit., 98 s., secondo cui «l’accrescimento è operante sia nella successione legittima, sia nella successione testamentaria e con la stessa ampiezza». L’A., pur denunziando che
la norma di cui all’art. 522 c.c. si riferisce espressamente al solo caso di
rinunzia, conclude, per vero senza offrire un preciso argomento all’opinione sostenuta, che «pure nel campo delle successioni legittime, l’accrescimento opera non solo nel caso in cui il chiamato non voglia, ma anche
in quelli in cui non possa accettare».
(80) Non nego la comunanza di funzione dei due diversi tipi di accrescimento, i quali esprimono un medesimo fenomeno devoluto rio, ma la
sola comunanza dei presupposti. Nego, invece, che l’accrescimento nella
successione legittima sia sovrapponibile o corrispondente alla devoluzione secondo le norme sulla successione legittima. Efficace in tal senso
questo esempio: nel concorso del coniuge con un figlio, qualora quest’ultimo rinunziasse e non si possa dare rappresentazione, per effetto dell’accrescimento, l’intera eredità sarebbe acquistata da parte del coniuge. Diversamente, se la devoluzione dovesse avvenire secondo le norme sulla
successione legittima, la quota del figlio rinunziante si sarebbe dovuta
devolvere ai fratelli e agli ascendenti, a’ norma dell’art. 582 c.c. L’esempio
per un’evidente ragione cronologica della norma di riferimento non è,
ovviamente, proposto da R. SCOGNAMIGLIO, Il diritto d’accrescimento nella
successione a causa di morte, cit., 292-294, il quale, pure, propone numerosi altri casi.
Rimane fermo, quindi, il dissenso con quegli autori (G. GAZZARA, Accrescimen-
l’altro che il chiamato abbia rinunziato, perché l’uno presuppone una chiamata in solido o una chiamata in quote uguali,
mentre l’altro si apre anche al caso di chiamata in quote diverse.
Rimangono, dunque, accomunati nel loro essere istituti devolutorı̂ con funzione di indirizzo soggettivo, ossia strumenti attraverso i quali il legislatore provvede a individuare i soggetti a
favore dei quali si deve svolgere la vicenda di modificazione
soggettiva del potere di accettare l’eredità, ma, a dispetto dell’identico nome, pur nel condividere il comune fondamento,
risultano non esattamente sovrapponibili l’uno all’altro(80).
8. Modalità di accrescimento in favore di più soggetti
e revoca della rinunzia all’eredità
I
l testo dell’art. 674 c.c. nella parte in cui prevede che, al
ricorrere dei presupposti ivi segnati, la parte di colui che
non possa o non voglia accettare «si accresce agli altri» e la
norma di cui all’art. 522 c.c., nella parte in cui prevede che,
al ricorrere dei presupposti ivi segnati, la parte di colui che
non voglia accettare «si accresce a coloro che avrebbero concorso col rinunziante», lascia presagire che il fenomeno dell’accrescimento come potrebbe inerire a rapporti tra due soli chiamati, quello che non vuole o non può accettare l’eredità e
quello la cui quota si accresce, potrebbe anche inerire a rapporti tra più di due chiamati, quello che non vuole o non può
accettare l’eredità e quelli, almeno due, la cui quota si accresce.
In casi di tal sorta, in difetto di una norma che
espressamente si preoccupi di governare il caso e
in presenza di una regola che si limita a stabilire
che l’acquisto per accrescimento ha luogo di
diritto, occorre indagare se l’efficacia
dell’accrescimento sia parziale o solidale, ossia se
la quota di colui che non voglia o non possa
accettare l’eredità accresca le altre soltanto in
to, c) Diritto civile, cit., 325 e ID., Contributo ad una teoria generale dell’accrescimento, cit., 200 ss.; R. SCOGNAMIGLIO, Il diritto d’accrescimento nella successione
a causa di morte, cit., 291 ss.; L. MENGONI, Successioni per causa di morte. Parte
speciale. Successione legittima, 5, cit., 107 s.,) i quali negano che nella successione legittima si possa dare accrescimento in senso tecnico. Non convince il
rilievo di R. SCOGNAMIGLIO, op. ult. cit., 285 e 290, secondo il quale, nell’art. 522
c.c., il legislatore abbia usata la parola accrescimento nel senso empirico di un
puro e semplice incremento, né la conclusione che la differenza sul piano della
disciplina tra incremento e accrescimento è nulla. La tesi dell’A. è coerente con
la premessa metodologica sulla quale costruisce il diritto di accrescimento.
Trattandosi di istituto fondato sulla volontà, presunta o implicita, dell’ereditando, non potrebbe avere legittimazione nella successione legittima, nella quale
neppure una finzione consente di ipotizzare esistente una tale volontà. Nella
prospettiva che, invece, ho cercato di suggerire nel testo, la quale scioglie il
fondamento dell’istituto devolutorio dalla volontà presunta o implicita dell’ereditando, segnandolo come razionale strumento con funzione di selezione soggettiva dei soggetti a favore dei quali la quota vacante debba essere attribuita,
l’argomento di Scognamiglio non può assumere valore decisivo. Convince ancor
meno l’osservazione di G. GAZZARA, Contributo ad una teoria generale dell’accrescimento, cit., 201, secondo il quale non si può dare accrescimento nella successione legittima perché «non si riscontra una vocazione solidale a favore di un
gruppo di persone, alle quali, unitariamente, venga attribuita l’eredità o una
quota». Movendo dall’idea che l’accrescimento sia soltanto un meccanismo
devolutorio, avente la finalità di individuazione dei soggetti a favore dei quali
debba devolversi la quota di eredità vacante per rinunzia, e il cui fondamento
non riposi né nella vocazione né, tanto meno, nella presunta o implicita volontà
dell’ereditando, non crediamo che il rilievo colga nel segno. Soprattutto se si
considerano le norme sulla successione legittima e l’incalzante ritmo con il
quale il legislatore, raccogliendoli in gruppi omogenei, li ordini secondo i concorrenti criterı̂ di esclusione e concorso degli uni agli altri.
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IL COMMENTO
Il tema, nel prisma della revoca della rinunzia all’eredità, assume un rilievo di non breve momento e si interseca con quello
dell’accettazione e della rinunzia all’eredità parziale, profilando la stessa possibilità di configurare una revoca della rinunzia
all’eredità parziale e la ammissibilità di un fatto soltanto parzialmente impeditivo all’esercizio del potere di revoca.
Il che accade nei casi in cui tra i soggetti a favore dei quali si
compie la devoluzione della quota rifiutata per accrescimento
soltanto uno di costoro abbia già accettata l’eredità.
L’intelligenza del fenomeno può risultare in chiarezza da un
caso: ipotizziamo che a Tizio siano chiamati a succedere, ciascuno nella quota di ¼ del patrimonio ereditario, A, B, C, e D e
supponiamo che, in ordinato succedersi del tempo, occorrano i
seguenti accadimenti: A accetti l’eredità; B e C tacciano; D
rinunzi all’eredità; D revochi la rinunzia all’eredità.
Bisogna chiedersi, nel presupposto che non si possa dare né
sostituzione né rappresentazione, se la revoca della rinunzia
all’eredità formulata da D sia efficace e, in caso positivo, quale
quota di eredità D abbia acquistata per effetto della revoca alla
rinunzia all’eredità.
La soluzione, come risulta facilmente intelligente, dipende,
quasi esclusivamente, dalla risposta che si voglia destinare al
tema dell’efficacia parziale o solidale dell’accrescimento.
Ove si ipotizzasse che l’efficacia dell’accrescimento fosse solidale, la revoca della rinunzia dovrebbe considerarsi inefficace,
in quanto la quota rifiutata da D risulterebbe interamente acquistata da parte di D; il procedimento successorio definitivamente chiuso e, con esso, smarriti ed esauriti tutti i poteri
procedimentali e, tra essi, anche quello di revocare la rinunzia
all’eredità.
Ove, invece, si ipotizzasse che l’efficacia dell’accrescimento
fosse parziale, la revoca della rinunzia dovrebbe considerarsi
efficace, ma soltanto in parte, o meglio, soltanto per la parte di
eredità non direttamente acquistata da A.
Tra le due soluzioni, è da preferire la seconda(81). Non soltanto
perché è quella che consente di realizzare quell’equilibrio distributivo che pare costituire la logica che sorregge la disposizione in tema di accrescimento, ma soprattutto perché, ragionando diversamente, si finirebbe per espropriare gli altri soggetti, a favore dei quali è previsto che la devoluzione per accrescimento debba operare, della quota loro spettante(82).
Una reductio per absurdum agevola la comprensione: se ipotizzassimo un’efficacia solidale e cumulativa, la quota rifiutata
da D dovrebbe essere immediatamente acquistata da parte di
A, con la conseguenza ulteriore che ove B o C, successivamente
e prima dell’eventuale revoca della rinunzia da parte di D, dovessero accettare l’eredità, costoro potrebbero acquistare soltanto una quota di eredità pari alla quarta parte loro attribuita,
senza possibilità di giovarsi dell’accrescimento che, in astratto,
in loro favore si sarebbe dovuto verificare. In senso contrario,
non credo sia ragionevole o plausibile pensare che, per effetto
della successiva accettazione di B o di C, la quota di A, originariamente accresciutasi per intero, possa ridursi a vantaggio
di B o di C.
La serrata unità logica che stringe il procedimento successorio
non credo, infatti, possa consentire codesta soluzione. Ne segue che l’efficacia dell’accrescimento deve essere parziale.
Postulare un’efficacia parziale dell’accrescimento significa ipotizzare che la quota rifiutata da parte del chiamato è destinata
ad accrescere, in misura eguale, tutte le quote dei soggetti a
favore dei quali si compie quella devoluzione.
Nel caso che mi sono stretto a osservare, la quota di ¼ rifiutata
da D è, dunque, destinata ad accrescere, dividendosi in tre subquote eguali di 1/12 ciascuna, le tre restanti quote di ¼ degli
altri co-chiamati, A, B e C. Con la conseguenza ulteriore che,
successivamente alla rinunzia di D, la quota degli altri co-chiamati A B e C è pari a 1/3 (risultato di ¼ + 1/12). Poiché A aveva
già accettata l’eredità e poiché l’accrescimento ha luogo di diritto, deve desumersi che A abbia contestualmente alla rinunzia
pronunziata da D acquistata la porzione destinata ad accrescere la sua quota.
L’eventuale revoca della rinunzia all’eredità, successivamente
formulata da D, consente a quest’ultimo di acquistare non già
la quota originaria dell’eredità a lui devoluta, ossia ¼, bensı̀ la
quota a lui devoluta al netto di quella perduta per effetto dell’accrescimento. D, allora, pur rinunziando a una quota di eredità pari a ¼ del complessivo patrimonio, per effetto della revoca della rinunzia all’eredità, acquista, successivamente, soltanto una quota di eredità pari a 1/6 del complessivo patrimonio, avendo perduto 1/12 dell’eredità, acquistato per
accrescimento da parte di A.
L’accrescimento della quota del co-chiamato che abbia già accettata l’eredità non consente all’autore della revoca della rinunzia di acquistare una quota del patrimonio ereditario corrispondente a quella a lui originariamente devoluta, bensı̀ una
minor porzione, corrispondente a ciò che residua dell’originaria quota una volta che essa sia mondata di quanto altri abbiano già acquistato per accrescimento. Confermando, quindi, che
l’acquisto per accrescimento totale è un limite assolutamente
impeditivo all’esercizio del potere di revoca della rinunzia all’eredità e che l’acquisto per accrescimento parziale è un limite
relativamente impeditivo all’esercizio del potere di revoca della
rinunzia all’eredità.
Tale considerazione, tuttavia, non credo possa risultare in contrasto o violare le norme che fanno divieto al chiamato di accettare o rifiutare parzialmente l’eredità.
L’eventuale parziarietà dell’acquisto non è, infatti, il frutto di
una deliberata scelta del soggetto, che decide di accettare o
rifiutare solo per parte all’eredità lui devoluta, bensı̀ un’inevitabile conseguenza del razionale e inarrestabile procedimento
successorio, la cui conclusione, ove pure essa debba realizzarsi
per effetto dell’automatismo dell’accrescimento, esautora tutte
le possibili situazioni procedimentali.
&
(81) In questo senso, anche BIGLIAZZI GERI, BRECCIA, BUSNELLI, NATOLI, Diritto civile, IV, t. 2, Le successioni a causa di morte, cit., 199; F. MESSINEO,
Manuale di diritto civile e commerciale, VI, Diritto delle successioni per
causa di morte, cit., 560, secondo cui in caso di più coeredi, la quota
dell’erede mancante si divide in «altrettante sottoquote, quanti sono gli
altri coeredi».
(82) R. SCOGNAMIGLIO, Il diritto d’accrescimento nella successione a causa di
morte, cit., 218 s., conviene nell’idea che ciascun coerede debba espandere
proporzionalmente la propria quota, in modo tale che tutti possano profittare alo stesso modo della porzione vacante. Coerentemente alla teoria
sostenuta, l’A. spiega che tale conclusione non può collegarsi al rilievo che
a ciascun coerede spetta un diritto all’intero limitato soltanto dall’altrui
concorrenza, bensı̀ «considerando che qui si verifica un concorso di diritti
che si limitano in tal guisa l’uno con l’altro».
modo proporzionale e parziario, ovvero in modo
complessivo e totale.
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