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L`ingiustizia del danno - Facoltà di Giurisprudenza
Zanichelli Lex Aquilia Zanichelli Curatore Giovanni Pascuzzi Opera didattica sulla responsabilità civile Anno 2005 - Numero 1 - L’ingiustizia del danno - parte I REDAZIONE: Mara Bertotti Carlo Bona Roberto Caso L’ingiustizia del danno CARLO BONA L a dottrina e la giurisprudenza degli anni ’50 offrivano un’interpretazione dell’ “ingiustizia” del danno ex art. 2043 c.c. profondamente diversa rispetto a quella oggi radicata. L’ingiustizia veniva riferita al fatto e veniva letta come illiceità, come violazione di un comando o di un divieto. Da ciò due conseguenze: una prima, che all’illecito civile si attribuiva una funzione essenzialmente sanzionatoria, in quanto volto a sanzionare un illecito; una seconda, che risultavano risarcibili i soli danni da lesione di un diritto soggettivo, come situazione giuridica favorevole scaturente per l’appunto da norme che ponevano comandi o divieti. A questa rigorosa impostazione si accompagnava la netta ostilità mostrata dalla giurisprudenza verso la tutela dei diritti di credito. Ostilità che si riteneva trovasse fondamento in due principi. Anzitutto, nella massima per la quale i diritti di credito conferiscono solo una pretesa da far valere nei confronti del debitore e non attribuiscono pretese da far valere nei confronti di terzi. In secondo luogo, nell’osservazione che, normalmente, nell’ipotesi di lesione del credito, il danno subito dal creditore non può essere considerato conseguenza immediata e diretta dell’illecito perché mediato dal danno subito dal debitore, donde l’assenza di un valido nesso causale. Tale rigorosa impostazione presentava dei limiti evidenti. In primo luogo, ricostruendo la norma di cui all’art. 2043 c.c. come norma sanzionatoria -- destinata a sanzionare illeciti configurati da altre norme -- e non come clausola generale, si ostacolava gravemente l’evoluzione del sistema e l’adeguamento dell’illecito aquiliano ad una società in costante mutamento. Poi, ponendo alla riparazione l’ostacolo invalicabile della lesione di un diritto soggettivo assoluto, si lasciavano sfornite di tutela svariate situazioni dotate di un sicuro rilievo economico. Fulvio Cortese Paolo Guarda Giorgia Guerra Giulia M. Lugoboni Matteo Macilotti Matteo Marcolin Franco Ronconi Anna Rossato VIGNETTISTI: Massimiliano Cecchini Patrizia Divina Roberta Piazza Benedetto Sieff Stefano Talassi Silvia Winkler Nel 1999 la svolta tanto attesa La Cassazione: risarcibili anche i danni da lesione di situazioni diverse dai diritti soggettivi Dopo trent’anni piena adesione alle proposte dottrinali ROMA — Il signor Giorgio Vitali, da Fiesole, deve essere quel che si suol dire una persona tenace. Stipulata nell’ormai lontanissimo 1964 una convenzione di lottizzazione col Comune, nel 1971 se l’è vista porre nel nulla. Una fila di giudizi, ma non s’è intimorito. Ha voluto arrivare per forza di cose al 1999, ed è entrato nella storia. Anche l’avvocato del signor Vitali deve essere quel che si suol dire un avvocato tenace. Occorreva parecchia tenacia per chiedere il risarcimento del danno da lesione di un interesse legittimo, e per portare avanti la questione, di fronte ad una giurisprudenza a dir poco cristallizzata. Da queste due persone – o quantomeno grazie anche a queste due persone – è scaturita la monumentale sentenza 22 luglio 1999, n. 500 con cui la Corte di Cassazione ha ammesso la risarcibilità dei danni da lesione di interessi legittimi pretensivi, passando per una completa risistemazione dell’ “ingiustizia” del danno. La Corte è chiamata a decidere su un regolamento preventivo di giurisdizione, promosso dal Comune di Fiesole nel giudizio risarcitorio instaurato dal Vitali. Assume L’ALLEGATO il Comune che non essendo la domanda risarcitoria da lesione di interessi legittimi pretensivi prevista dall’ordinamento va dichiarata improponibile per difetto assoluto di giurisdizione. La Cassazione ha gioco facile nel dichiarare inammis- sibile il ricorso per essere la questione di merito e non di giurisdizione. In breve, osserva che con la domanda risarcitoria il Vitali ha fatto valere un diritto (contemplato dall’art. 2043 c.c.) pacificamente previsto dall’ordinamento. Tutto, ovviamente, consiste nel valutare se il danno subito per effetto del contegno della P.a. sia “ingiusto”. Ma questa è, per l’appunto, questione di merito, che nulla ha a che fare con la giurisdizione o le condizioni dell’azione. Ma la Cassazione non si ferma a ciò, ed affronta nello specifico il tema della risarcibilità dei danni da lesione di interessi legittimi pretensivi. SEGUE A PAGINA 2 Negl i a n n i ’60 i pr i m i seg n i d i u na r ivolu z ione e pocale La dottrina della svolta: dall’ingiustizia del fatto all’ingiustizia del danno Le principali sentenze richiamate in questo numero sono contenute nel CdRom allegato 1.1 Cass. 2085-1953 Si fa largo la regola che ammette la risarcibilità di ogni interesse meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento 1.2 Cass. 174-1971 A PAGINA 3 Solo 1.3 Cass. 500-1999 nel 1971 u n pa r z iale accogl i mento del l’evolu z ione dot t r i nale Quando la Cassazione ammise la tutela del diritto di credito L’opinione L’ingiustizia ed il problema dell’atipicità dell’illecito D etto semplicisticamente, il problema della tipicità od atipicità dell’illecito consiste nell’accertare se il sistema giuridico conosca norme che consentono il risarcimento in una serie aperta di casi (nel qual caso quel sistema si dirà atipico) o se piuttosto il risarcimento venga ammesso nei soli casi espressamente previsti da norme specifiche (nel qual caso l’illecito sarà tipico). Accogliendo questa distinzione, è d’uso affermare che il sistema italiano della responsabilità civile è atipico, vista l’ampia formulazione dell’art. 2043 c.c., che ammette la risarcibilità di ogni danno ingiusto. E’ parimenti d’uso affermare che sono atipici il sistema francese (cfr. artt. 1382 e 1383 c.c.: tout fait quelconque de l’homme, qui cause à autrui un dommage, oblige celui par la faute duquel il est arrivé, à le réparer), il sistema greco (art. 914 del codice), il sistema austriaco (§ 1295 ABGB), i quali tutti presentano norme analoghe a quella di cui all’art. 2043 c.c., tali cioè da ammettere una serie aperta di casi di responsabilità. Con la sentenza Meroni il revirement che tutti aspettavano L’opinione di un pratico sull’ingiustizia Tra Guglielmo di Ockham e gli Stati Uniti d’America: cenni ad una possibile sistemazione alternativa dell’ “ingiustizia” Verso criteri extralegali per la selezione dei danni risarcibili? A PAGINA 6 SEGUE A PAGINA 5 A PAGINA 2 La dottrina italiana Alcune indicazioni bibliografiche per iniziare PASCUZZI, La responsabilità civile - Percorsi giurisprudenziali, in Quaderni del Dipartimento di Scienze Giuridiche, Trento, 2001 RODOTÀ, Modelli e funzioni della responsabilità civile, in Riv. crit. dir priv., 1984, 595 BUSNELLI, La lesione del credito da parte di terzi, Milano, 1964 TRIMARCHI, voce Illecito, in Enc. Dir., Milano, 1970, 90 ss. RODOTÀ, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964 SACCO, L’ingiustizia di cui all’art. 2043 c.c., in Foro pad., 1960, I, 1421 ss. SCHLESINGER, La “ingiustizia” del danno nell’illecito civile, in Jus, 1960, 338 VISINTINI, Itinerario dottrinale sulla ingiustizia del danno, in Contratto e imp., 1987, 73 SCOGNAMIGLIO, Ingiustizia del danno [voce nuova - 1996] in Enc. Giur. Treccani, Roma, vol. XVII SEGUE A PAGINA 4 Lex Aquilia - prima pagina 2 LEX AQUILIA — - cronaca italiana- L’INGIUSTIZIA DEL DANNO I NUMERO 1 — ANNO 2005 Nel 1999 la svolta tanto attesa La Cassazione: risarcibili anche i danni da lesione di situazioni diverse dai diritti soggettivi Dopo trent’anni piena adesione alle proposte dottrinali (segue dalla prima pagina) E’noto che la giurisprudenza sino a quel momento pressoché univoca escludeva la tutela. L’argomento, seppur espresso per sommi capi, era questo: l’ ingiustizia di cui all’art. 2043 c.c. sussiste in quanto si possa rilevare la lesione di un diritto soggettivo. L’interesse legittimo pretensivo sorge come tale (e non dall’affievolimento del diritto soggettivo) e tale è destinato a rimanere anche dopo l’eventuale annullamento del provvedimento lesivo (normalmente di diniego su un’istanza del privato). Ne segue che non potrà mai trovare tutela risarcitoria, non assumendo mai la consistenza di diritto soggettivo perfetto. A questo punto, per affermare la tutelabilità in via aquiliana degli interessi legittimi era necessario rivedere a fondo la sistemazione dell’ingiustizia. Era in particolare necessario rimeditare cinquant’anni di giu- L a giurisprudenza si è sempre mostrata estremamente cauta ad intervenire sull’ingiustizia. Basti considerare che la nuova impostazione del problema offerta dalla dottrina nella prima metà degli anni ’60 – volta a ritenere ingiusta la lesione di qualsiasi interesse meritevole di tutela, a prescindere dalla sua qualificazione come diritto soggettivo assoluto – è rimasta lettera morta per un decennio, fino a quando la Suprema Corte, con un’apertura tutto sommato timida rispetto all’estensione delle nuove proposte dottrinali, ha quantomeno riconosciuto la tutelabilità in via aquiliana del credito. Questo con la notissima sentenza Meroni. Busnelli, nel commentare la sentenza per Il Foro Italiano, ha parlato di un “clamoroso revirement” confrontando l’arresto con un’altra notissima sentenza della Cassazione, quella pronuncia 4 luglio 1953, n. 2058 con la quale la Suprema Corte aveva deciso il caso Superga. Il 4 maggio 1949 l’intera squadra del Torino calcio periva in un disastro aereo per essersi il velivolo che la trasportava schiantato contro la collina di Superga. L’Associazione chiedeva le venisse riconosciuto il diritto al risarcimento del danno da lesione del credito, non potendo più godere delle prestazioni dei propri calciatori, e la Corte lo negava. Osservava la Cassazione come i giocatori non potessero considerarsi elementi del patrimonio aziendale, in ordine ai quali poter predicare l’esistenza di un diritto reale risarcibile. Osservava altresì che, pur non dovendosi escludere che il diritto al risarcimento risprudenza e finalmente aprire le porte a quella dottrina che già negli anni ’60 aveva concluso che risarcibile è ogni danno da lesione di una situazione meritevole di tutela, a prescindere dalla sua qualificazione in termini di diritto soggettivo. E questo è quanto fa la Cassazione. Osserva la Suprema Corte che l’opinione tradizionale della risarcibilità dei soli danni da lesione di diritti soggettivi muoveva dalla asserita funzione sanzionatoria dell’art. 2043 c.c. La norma, si diceva, sanziona la commissione di un illecito. Ed un illecito in tanto si dà in quanto vi sia la violazione di una norma che pone comandi o divieti, e quindi che faccia scaturire diritti soggettivi. In quest’ottica, “ingiusto” si riteneva il fatto (come fatto illecito) e non il danno. Già da tempo (diciamo noi, almeno dai primi anni ’60) la dottrina aveva osservato come la suddetta interpretazione muovesse da una forzatura del tenore letterale dell’art. 2043 c.c., laddove l’ “ingiustizia” è riferita al danno e non al fatto, e non v’è elemento alcuno dal quale si possa o debba inferire la tutelabilità dei soli diritti soggettivi. In realtà, osserva la Cassazione aderendo a questa dottrina, l’art. 2043 c.c. non è una norma meramente secondaria, volta a sanzionare la violazione di altre norme che pongano comandi o divieti e quindi costituiscano diritti soggettivi, ma piuttosto una clausola generale, volta ad apprestare una riparazione del danno ingiustamente sofferto. Quali siano poi, gli interessi la cui lesione importa un danno “ingiusto” dovrà accertarlo il giudice, procedendo ad una comparazione tra gli interessi in conflitto (quello del danneggiante e quello del danneggiato), comparazione che non sarà rimessa alla discrezionalità del giudice, ma andrà condotta alla stregua del diritto positivo. In conclusione, si approda agli stessi risultati della dottrina degli anni ’60: ingiusto è il danno da lesione di un interesse meritevole di tutela in quanto direttamente o indirettamente contemplato e protetto da norme positive: interesse legittimo compreso, dunque. Ma perché la giurisprudenza approda a questo risultato proprio alla fine degli anni ’90? I motivi sono vari, ed in parte traspaiono dalla motivazione. Il progressivo adeguamento dell’ordinamento italiano agli ordinamenti comunitari, con direttive che hanno imposto allo Stato di offrire tutela anche a veri e propri interessi, seppur in settori limitati (cfr., ad esempio, l’art. 13 l. 19 febbraio 1992, n. 142 sulla lesione degli interessi legittimi nelle procedure di aggiudicazione di appalti comunitari). La Corte di Giustizia CE, che ha ammesso la risarcibilità dei danni da mancata o tardata attuazione di una direttiva, così tutelando una situazione manifestamente riconducibile all’interesse legittimo. Più in generale, il sempre maggior raffronto, per effetto dell’integrazione comunitaria, con ordinamenti che non conoscono la limitazione che passa per il concetto di diritto soggettivo. Poi, motivi socio-economici, come la perdita di sacralità della Pubblica Amministrazione e la conseguente avversione verso l’ “immunità” aquiliana degli enti pubblici; come ancora la sempre maggior forza delle associazioni dei consumatori ed altre associazioni di tutela di interessi collettivi (o addirittura diffusi), che ha spostato l’attenzione sulla tutela di interessi che nulla hanno a che fare col diritto soggettivo. Ancora, la giurisprudenza che ormai da tempo aveva privato di significato operazionale la regola della risarcibilità dei danni da lesione dei soli diritti soggettivi, offrendo tutela alle situazioni più variegate. Ecco quindi l’abbandono della vecchia regola dell’irrisarcibilità Solo nel 1971 un parziale accoglimento dell’evoluzione dottrinale Quando la Cassazione ammise la tutela del diritto di credito Con la sentenza Meroni il revirement che tutti aspettavano potesse sorgere anche dalla lesione di un diritto relativo, nel caso di specie difettava un “nesso di immediata e diretta dipendenza del fatto lesivo” perché i danni lamentati dal Torino “si ricollegano alla lesione di un diritto che a sua volta è conseguenza della lesione di altro diritto su quello prevalente e preminente”. In altre parole, il fatto che la lesione del credito fosse “mediata” dalla morte dei giocatori impediva di ritenere la sussistenza di un valido nesso causale. Nel 1971 la Suprema Corte si trova ad affrontare un caso non molto dissimile. Un minore, tale Romero, provoca nel 1967 un incidente stradale nel quale perde la vita Luigi Meroni, calciatore titolare nella squadra del Torino. Il Torino Calcio, parimenti a quanto fatto nel 1949, chiede il risarcimento del danno da lesione del credito. La Cassazione, con la sentenza delle Sezioni Unite 26 gennaio 1971 n. 174, conferma la sentenza d’appello con riguardo all’inconfigurabilità di un diritto reale assoluto della società sportiva sui propri giocatori, ma passa alla storia per la soluzione offerta al problema della tutelabilità in via aquiliana del credito. Osserva la Suprema Corte che il giudice d’appello s’è attenuto in modo rigoroso al principio dell’irrisarcibilità della lesione del credito muovendo dai due tradizionali argomenti della relatività degli effetti del contratto (secondo l’art. 1372 c.c.) e dell’assenza di un valido nesso causale. Ma in tal modo si è anzitutto attribuito all’art. 1372 c.c. un significato che certamente non ha. La norma, infatti, vale solo ad escludere l’indebita proiezione degli effetti propri del contratto nella sfera giuridica dei terzi. Ma ciò non significa che i terzi possano liberamente interferire nel rapporto contrattuale impedendo al creditore di ottenere l’adempimento. Orbene, osserva la Corte, l’ingiustizia contemplata dall’art. 2043 c.c. sussiste in quanto il danno sia arrecato contra ius e non iure. Il danno può dirsi contra ius quando venga a ledere una situazione giuridica tutelata dall’ordinamento nella forma del diritto soggettivo. Questa interpretazione, largamente condivisa, porta ad escludere la tutelabilità in via aquiliana delle situazioni giuridiche che non assurgano al rango di diritti soggettivi, ma non consente in nessun modo di operare indebite distinzioni tra diritti tutelabili, come quella che ammette la tutela dei diritti assoluti e non quella dei diritti di credito. D’altra parte, continua la Corte, nel senso dell’irrilevanza della distinzione tra diritti assoluti e relativi opera anche il richiamo al precedente del 1953 (la Corte, abbiamo visto, in quell’occasione non aveva escluso in via di principio la tutelabilità di un diritto relativo) e, soprattutto, giocano gli indirizzi giurispru- denziali che hanno ammesso la tutelabilità del credito alimentare e sanzionato in via aquiliana il comportamento del terzo estraneo al rapporto contrattuale che abbia partecipato alla violazione di obblighi da parte del contraente. Ribadire l’esclusione della tutela aquiliana del credito significherebbe, quindi, fare un passo indietro rispetto a posizioni giurisprudenziali ormai acquisite e, soprattutto, si rivelerebbe socialmente ed economicamente antistorico. Quindi, conclude la Corte, l’art. 2043 c.c. offre tutela anche ai diritti soggettivi di credito, restando del tutto irrilevante la distinzione rispetto ai diritti soggettivi assoluti. Precisato questo la Corte affronta il secondo argomento addotto sia nel 1953, sia dalla Corte d’Appello di Torino per escludere la risarcibilità dei danni subiti dal Torino, ossia quello dell’assenza di un valido nesso causale. In breve, si affermava che il danno subito dalla società per la morte dei propri giocatori non fosse conseguenza immediata e diretta dell’illecito che direttamente ed immediatamente aveva inciso solo sul preminente diritto delle vittime alla vita ed all’integrità personale. In ordine a questo punto osserva la Corte come anzitutto non si debba confondere il problema della causalità con quello della correlazione tra il bene leso e la norma di protezione. Dire, come la Corte d’Appello, che manca un rapporto di immediatezza ogniqualvolta il portatore dell’interesse (come il Torino Calcio) sia un soggetto diverso da quello primariamente contemplato dalla norma invocata a tutela (ossia, nell’omicidio colposo, la vittima), significa far questione di correlazione tra norma e bene, e non certo questione di causalità. E la questione del rapporto tra norma ed interesse leso può essere agevolmente risolta richiamando l’indirizzo consolidato in tema di costituzione di parte civile, laddove l’azione civile nel processo penale è consentita non già alle sole persone offese dal reato (ossia ai soggetti verso i quali è diretta l’azione criminosa contemplata dalla norma), ma più in generale a chiunque abbia risentito un danno dal reato. Evidentemente, quindi, non è necessario che ad invocare la tutela risarcitoria sia proprio la persona contemplata dalla norma primaria. Ciò, tra l’altro, emerge anche dalla giurisprudenza civilistica in tema di danno subito dai prossimi congiunti della vittima dell’illecito, laddove il prossimo congiunto può pacificamente chiedere ed ottenere iure proprio il risarcimento pur non essendo direttamente contemplato dalla norma primaria di protezione. Il discorso, quindi, non deve impostarsi sulla correlazione tra norma ed interesse leso, quanto piuttosto sulla causalità propriamente intesa. E sotto questo profilo la Corte dei danni da lesione di interessi, ormai non più sostenibile né sul piano giuridico né su quello socio - economico. D’altra parte, la Suprema Corte s’avvede dei possibili rischi di overcompensation, visto che con la caduta del criterio selettivo del diritto soggettivo le maglie della responsabilità aquiliana si fanno indubbiamente più ampie. E non è un caso che la stessa sentenza 500/’99 cerchi di recuperare in selettività affermando (in contrasto con la giurisprudenza a quel tempo univoca) la necessità di provare volta per volta la colpa della P.a., che non potrà mai dirsi presunta per la semplice adozione di un atto illegittimo. Così come non è un caso che a distanza di pochi anni la stessa Cassazione affermi, con la sentenza 27 marzo 2003, n. 4538, la c.d. pregiudizialità amministrativa, ossia la necessità, per proporre la domanda risarcitoria, della previa impugnazione dell’atto. ritiene che il nesso immediato e diretto previsto dall’art. 1223 c.c. “non può aprioristicamente escludersi per il solo fatto che l’unico evento lesivo attinga il diritto del creditore per il tramite della lesione del diritto del debitore alla propria vita. Se così fosse (…) si opererebbe, ancora una volta, la già rilevata trasposizione del problema della causalità sul diverso piano dell’esistenza di una situazione giuridica tutelabile ex art. 2043 c.c. Si tratta piuttosto di stabilire in quali casi, e nel concorso di quali condizioni, l’esistenza del credito strettamente dipenda dalla permanenza in vita dell’obbligato”. La Corte ritiene necessario accertare che la morte determini l’estinzione dell’obbligazione senza possibilità di trasmissione agli eredi e che la perdita sia definitiva ed irreparabile per insostituibilità del debitore, ossia che il creditore non possa procurarsi da altri le stesse prestazioni. Nel concorso di queste condizioni si potrà dire che il danno è conseguenza immediata e diretta dell’illecito e quindi sarà pienamente risarcibile. Un clamoroso revirement, pertanto, che non va peraltro ad incidere sulla rigorosa impostazione giurisprudenziale nel senso della risarcibilità del solo danno da lesione di diritti soggettivi. Per la risarcibilità di ogni danno da lesione di interessi meritevoli di tutela occorrerà attendere il 1999. Il che, come s’anticipava, è perfettamente spiegabile in chiave storica col timore della giurisprudenza di un eccessivo allargamento dell’area dei danni risarcibili. - cultura - ANNO 2005 — NUMERO 1 L’INGIUSTIZIA DEL DANNO I — 3 LEX AQUILIA Negli anni ’60 i primi segni di una rivoluzione epocale La dottrina della svolta: dall’ingiustizia del fatto all’ingiustizia del danno Si fa largo la regola che ammette la risarcibilità di ogni interesse meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento L ’impostazione tradizionale, che ammetteva la risarcibilità dei soli danni da lesione di diritti soggettivi, e con esclusione della tutela dei diritti di credito, viene messa in discussione a partire dalla prima metà degli anni ’60. Ad aprire le danze è Francesco Donato Busnelli, con La lesione del credito da parte di terzi, Milano, 1964. L’opera parte da valutazioni sulla configurabilità teorica della lesione del credito da parte di terzi. Si inizia esponendo la tesi tradizionale, quella per cui “la rilevanza dei diritti di credito si esaurisce nel rapporto obbligatorio tra creditore e debitore, e quindi una lesione può configurarsi unicamente ad opera di quest’ultimo” (pag. 3) Per Busnelli tale impostazione va radicalmente superata: “l’equivoco sta nel fatto di aver ritenuto a guisa di postulato che tale diritto esaurisca la propria rilevanza giuridica all’interno del rapporto obbligatorio (pag. 30), il che non è vero se solo si tiene conto della possibilità di adempimento da parte del terzo; occorre quindi distinguere tra un profilo “che diremo statico e che rappresenta il diritto di credito non già in considerazione della possibilità di esercizio da parte del suo titolare (nei confronti del debitore e secondo le regole che disciplinano l’attuazione del rapporto obbligatorio), bensì in considerazione della sua appartenenza (in termini di valore da conseguire e realizzare) alla sfera giuridica del creditore e, quindi, della sua rilevanza giuridica erga omnes, ed un profilo dinamico (o potenzialmente dinamico) che s’incentra, appunto, nella pretesa, profilo sotto il quale, indubbiamente, il diritto del creditore si pone in stretta correlazione con l’obbligo del debitore all’interno del rapporto obbligatorio” (pag. 35). Quindi, secondo Busnelli, occorre distinguere tra un aspetto interno del diritto di credito, che attribuisce una pretesa all’adempimento del debitore, ed un aspetto esterno, che attribuisce una pretesa all’astensione da parte di qualsiasi terzo dal ledere il diritto di credito. Detto questo, osservato quindi come una lesione del diritto di credito ad opera di terzi sia pienamente configurabile, si tratta di accertare “se una tale lesione debba o meno considerarsi come una fonte di responsabilità (extracontrattuale, ovviamente) per il terzo che ne è l’autore. A questo punto, quindi, il campo dell’indagine si sposta sul piano del diritto positivo” (pag. 49). Osserva quindi l’Autore come vi sia una certa tendenza a ravvisare nell’art. 2043 c.c. una norma meramente sanzionatoria, destinata ad operare a fronte di lesioni arrecate a diritti tipici (quelli soggettivi assoluti), tendenza questa da deprecare, dovendosi configurare l’art. 2043 c.c. alla stregua di una clausola generale, “a questo punto - afferma - sembra che vi siano già elementi sufficienti per negare che nella disposizione dell’art. 2043cc sia ravvisabile una sorta di necessario rinvio a presunti doveri specifici (di non ledere) imposti da altre norme” (pag. 65). Ma come leggere tale clausola generale senza da una parte farne una norma meramente sanzionatoria, né dall’altra lasciare il campo all’arbitrio del giudice? Secondo Busnelli occorre svolgere una “doppia indagine (...) vertente da un lato sulla posizione del danneggiante (onde accertare se costui ha agito, senza essere autorizzato, al di fuori della sfera dei propri diritti soggettivi), e, dall’altro, sulla posizione del danneggiato (onde accertare se costui è stato leso, per comportamento del danneggiante, in una propria situazione giuridica soggettiva)” (pag. 71). Insomma, si tratta di accertare che la lesione sia non iure e contra ius. I problemi maggiori si pongono ovviamente nello stabilire quando il comportamento possa essere considerato contra ius, quando cioè esista una situazione giuridica soggettiva meritevole di tutela. Busnelli richiede un doppio requisito: un interesse giuridicamente protetto, protezione giuridica che può essere diretta, ma può essere anche implicita in una o più norme, poi la cosiddetta “correlatività”: “si tratta di accertare se la protezione di un interesse, quale risulti dal dettato di una o più norme, risulti in rapporto di “correlatività” con il comportamento dei terzi, nel senso che la protezione giuridica di cui gode l’interesse leso si dimostri effettivamente destinata a quel tipo d’interessi, in conformità di quel tipo di comportamento” (pag. 88). Una formulazione un po’ complessa per dire che la regola dalla quale si desume l’ingiustizia deve tutelare direttamente l’interesse leso, e non un altro interesse a questo collegato solo in forza della coesistenza nel particolare caso concreto. Risolto in questo modo il problema della configurabilità di una lesione del credito ad opera di terzi, e della possibilità di qualificare il relativo danno come ingiusto, si passa all’altro argomento che veniva addotto per escludere la tutela aquiliana del credito, ossia il difetto di un valido nesso causale. nione tradizionale si ammette che una lesione del diritto di credito possa provenire anche dal terzo; poi, nell’analisi dell’art. 2043 c.c. che ne segue, si perviene anzitutto a qualificare l’art. 2043 c.c. come una clausola generale, e poi a stabilire che il danno è ingiusto (altra novità: ingiusto è il danno e non il fatto) allorquando ci si trovi di fronte alla lesione non già di un diritto soggettivo, ma di un qualsiasi interesse giuridicamente protetto. Agli stessi risultati, seppur sulla base di argomenti diversi, qualche anno dopo giunge anche Pietro Trimarchi, nella voce Illecito per l’Enciclopedia del Diritto, Milano, 1970. Osserva Trimarchi che “secondo una formula un tempo prevalente in dottrina e che ancor oggi riecheggia frequentemente nelle motivazioni delle sentenze (senza peraltro determinare le decisioni), il divieto e la sanzione operano solo quando vi è la Osserva Busnelli che, a parte le ipotesi in cui è fuor di discussione la sussistenza del nesso causale per cadere il danno solo in capo al creditore (ad esempio, nel caso di uccisione del debitore da parte del terzo, quando il debitore non abbia congiunti) e per l’impossibilità quindi di predicare un danno che si frapponga tra il fatto ed il pregiudizio subito dal creditore, ed a parte anche l’evoluzione giurisprudenziale che aveva mostrato di intendere in modo estensivo il concetto di conseguenza “immediata e diretta”, a parte ciò “non è esatto individuare nell’evento...una sorta di danno (-evento) che si interponga tra fatto del terzo e danno subito dal creditore (…) Quest’ultimo danno deriva dal fatto del terzo alla stessa stregua di danni pacificamente qualificati come conseguenze immediate e dirette del fatto stesso (...), non si vede perché la stessa qualifica non dovrebbe spettare anche al danno sofferto dal creditore” (pag. 136). Così compendiato il testo, risultano in tutta evidenza i punti di frattura con la tradizionale impostazione dell’illecito. In primo luogo, contro l’opi- lesione di un diritto soggettivo. La formula non è determinata, poiché dipende dal significato di un termine (“diritto soggettivo”) che non è definito dalla legge e il cui uso nella letteratura giuridica presenta oscillazioni talora notevoli. Certo è che la formula ha un senso limitativo, poiché tende a coprire solo le ipotesi di lesione di diritti reali o di beni quali la vita, l’integrità fisica, la libertà di movimento, l’onore (…) L’elenco dei “diritti soggettivi” tutelabili può essere esteso a comprendere il diritto al nome ed il diritto all’immagine, ed inoltre i cosiddetti “diritti sui beni immateriali” (opere dell’ingegno, invenzioni industriali, marchi d’impresa); ma è chiaro che ogni ulteriore estensione svuoterebbe la formula di ogni significato” (pag. 94). Ma allora, osserva l’Autore, varie situazioni giuridiche pur tutelate non possono essere ricondotte alla categoria del diritto soggettivo (ad esempio, quelle lese dalla concorrenza sleale, o da false informazioni), salvo concludere che ad ogni atto illecito corrisponda un diritto soggettivo, il che priva la categoria di ogni concreta utilità operati- va. Scartata quindi la validità della tesi tradizionale, Trimarchi si interroga se quantomeno si possa conservare l’altra teoria, che vede comunque nell’art. 2043 c.c. una norma sanzionatoria di atti dannosi compiuti in violazione di doveri o comandi posti da altre norme di legge. Per concludere che “L’interpretazione che rinvia a doveri risultanti da altre norme mortifica la forza espansiva della regola generale contenuta nell’art. 2043 c.c. Si è sostenuto perciò che tale articolo debba essere inteso non già come norma secondaria, meramente sanzionatoria, bensì come norma primaria, che pone essa stessa un dovere giuridico amplissimo: quello di astenersi da ogni comportamento che possa recar danno ad altri, salvo che il comportamento stesso sia giustificato. L’ingiustizia, si è scritto, va intesa non come violazione di una regola di condotta posta a protezione di un interesse specifico, bensì come violazione del dovere generale dell’alterum non laedere”, in assenza di un diritto del danneggiante al compimento dell’atto che ha causato il danno: diritto che non va inteso come agere licere e la cui attribuzione non può pertanto essere riconosciuta ogniqualvolta manchi una norma proibitiva, bensì soltanto quando risulti, attraverso sicuri indici normativi, che l’attività dannosa è fra quelle che l’ordinamento ritiene siano da incoraggiare e proteggere” (pag. 96). Ma anche quest’ultima tesi, riconducibile a Schlesinger, -per la quale l’art. 2043 c.c. vieta qualsiasi attività dannosa salvo che sia lecita perché giustificata dall’ordinamento alla luce di sicuri indici normativi -- viene criticata da Trimarchi come troppo restrittiva, in quanto non considera la possibilità che un’attività debba considerarsi giustificata a prescindere da chiari indici nor- proposizione, infatti, trascura la complessità delle valutazioni che contribuiscono a determinare un sistema di responsabilità per atto illecito” (pag. 96). Precisato questo passa ad esporre la sua impostazione del problema: “Il problema dell’illecito civile consiste principalmente (ma, è bene sottolinearlo fin d’ora, non esclusivamente), nella valutazione comparativa di due interessi contrapposti, l’interesse altrui minacciato da un certo tipo di condotta da un lato, e l’interesse che l’agente con quella condotta realizza o tende a realizzare. Tale valutazione ha gran peso quando si tratta di disciplinare legislativamente delle figure di illecito; altrettanta importanza le compete nell’ambito delle operazioni che l’interprete deve compiere allo scopo di integrare la disciplina legislativa dove questa è incompleta o generica. Vi sono campi in cui questo intervento integrativo della legge è necessario più spesso: così là dove si tratta di fissare i limiti alla lotta economica tra imprenditori in concorrenza (…). Altrove il conflitto tra le esigenze contrapposte viene risolto legislativamente attraverso la regolazione di particolari tipi di illecito e, in particolare, attraverso la configurazione di diritti soggettivi (…). Ciò non esclude tuttavia che anche qui il giudice sia chiamato ad operare valutazioni comparative di interessi” (pag. 98) Premesso ciò si tratta di chiedersi secondo quale criterio risolvere questi conflitti, e per Trimarchi il criterio va individuato nella pubblica utilità: “abbiamo detto che la soluzione del problema dell’illecito civile dipende in gran parte dalla valutazione comparativa degli interessi dell’agente da una parte e del danneggiato dall’altra. A questo punto occorre aggiungere un chiarimento di estrema importanza, e cioè che mativi (e fa l’esempio dei danni cagionati dalle informazioni commerciali bancarie): “non sembra sostenibile che l’illiceità venga meno solo nelle ipotesi in cui l’attività dannosa sia incoraggiata e protetta. Questa il criterio, in base al quale gli interessi in gioco vengono comparati, è un criterio di pubblica utilità” (pag. 100). Anche in questo caso è palese SEGUE A PAGINA 4 4 LEX AQUILIA — - cultura - L’INGIUSTIZIA DEL DANNO I NUMERO 1 — ANNO 2005 La dottrina della svolta: dall’ingiustizia del fatto all’ingiustizia del danno data alla pubblica utilità, ma al contempo precisando che la novità rispetto alla concezione “a sua volta il criterio della tradizionale, data dalla rottura pubblica utilità verrà detercon quella sorta di tipicità legata minato dall’interprete in base al diritto soggettivo assoluto che ai valori desunti da leggi che era stata costruita da dottrina e regolano materie analoghe o giurisprudenza. dai principi generali dell’orNella posizione di Trimar- dinamento giuridico” (pag. chi si rinviene peraltro qualche 129). Con ciò approdando ad ambiguità. Un po’ perché nei una soluzione non molto dissuoi articoli non si capisce bene simile da quella di Busnelli, fin dove arrivi il distacco dal- il quale ammetteva la risarcil’orientamento tradizionale, un bilità del danno da lesione di po’ perché non chiarisce sempre ogni interesse meritevole di in modo evidente cosa si debba tutela in quanto direttamente intendere per “pubblica utilità”, o indirettamente protetto da meglio, come questa debba es- norme positive. sere circoscritta. Vere o presunte ambiguità Basti osservare che se nel- a parte, l’opera di Trimarchi l’intervento per l’Enciclopedia resta essenziale, anche (e fordel diritto la rottura con la tesi se soprattutto) per aver fatto tradizionale sembra assoluta, conoscere agli italiani l’imcol ricorso per la determinazio- portanza dell’analisi econone degli interessi protetti ad un mica nello studio del diritto criterio extralegale di stampo civile. essenzialmente economicistiNello stesso torno di anni co come la “pubblica utilità”, Stefano Rodotà dà alle stamqualche anno dopo nel suo ma- pe Il problema della responnuale istituzionale (Istituzioni sabilità civile, Milano, 1964. di diritto privato, Milano, l991) Rodotà affronta il tema da lo stesso Trimarchi tornerà (o un’ulteriore prospettiva, dando Osserva l’Autore come il nosembrerà tornare) sulle proprie inizio ad una feconda serie di stro ordinamento sia improntato posizioni ribadendo sì che la studi sulla “costituzionalizzazio- dal principio di solidarietà, che selezione degli interessi è affi- ne” della responsabilità civile. impone di comportarsi in modo da non ledere l’interesse altrui. Tale principio trova referente sia nella normativa costituzionale (artt. 2 e 41 Cost.), sia in quella ordinaria: “non si può FRANCIA negare, infatti, che il codice vigente costituisca, proprio in questa direzione, un notevole CODE CIVIL progresso rispetto alla codificaArticle 1382 zione civile del 1865: basta por Tout fait quelconque de l’homme, qui cause à autrui un mente a norme del tutto nuove dommage, oblige celui par la faute duquel il est arrivé, à le in esso contenute, quali sono, réparer. ad esempio, quelle relative agli atti emulativi (art. 883), al Article 1383 comportamento secondo corretChacun est responsable du dommage qu’il a causé non tezza (art. 1175), alle trattative seulement par son fait, mais encore par sa négligence ou precontrattuali (art. 1337). In par son imprudence. proposito, le parole adoperate (segue da pagina 3) l’angolo normativo nella Relazione sono significative: “la correttezza che impone l’art. 1175 (…) non è soltanto un generico dovere di condotta morale; è un dovere giuridico qualificato dall’osservanza dei principi di solidarietà corporativa a cui il codice, nell’articolo richiamato, espressamente rinvia. Questo dovere di solidarietà (…) non è che il dovere di comportarsi in modo da non ledere l’interesse altrui fuori dei limiti della legittima tutela dell’interesse proprio, in maniera che, non soltanto l’atto di emulazione ne risulti vietato (art. 883), ma ogni atto che non implica il rispetto equanime dell’interesse dei terzi” (pag. 90). Portato sul terreno della responsabilità civile, questo prin- cipio implica la necessità di leggere la clausola dell’ingiustizia come clausola generale, idonea a consentire la riparazione di ogni danno arrecato in violazione della solidarietà e senza la necessità di far luogo ad una tipizzazione legislativa di ogni comportamento dannoso. Aperte in tal modo le porte alla tutela di situazioni giuridiche diverse dai diritti soggettivi, Rodotà affronta il consequenziale problema di evitare che l’atipicità dell’illecito si traduca in arbitrio dell’interprete: “non si tratterà (…) di una serie aperta di casi di responsabilità civile nel senso che il giudice potrà, secondo il modo in cui riterrà opportuno considerare la coscienza collettiva in un determinato momento storico, ammettere l’esistenza di un qualsiasi dovere; bensì nel senso che il limite della solidarietà deve ritenersi operante in tutte le situazioni per le quali è prevista una qualsiasi forma di protezione legislativa” (pag. 112). “Introdurre in un sistema una o più clausole generali non vuol dire che il giudice, nelle materie da queste regolate, possa decidere secondo il suo particolare modo di sentire le esigenze della società e del tempo in cui vive: ché, infatti, la sua decisione dovrà sempre essere fondata sui criteri indicati dalla legge, anche quando la concreta definizione della loro fisionomia abbisognerà di una ricostruzione che tenga conto dei dati della realtà effettuale. Si è ben lontani, dunque, da quel rifiuto di trovare il criterio di decisione nella legge, per attingerlo direttamente alla realtà sociale, di cui faceva parola la dottrina del diritto libero” (pag. 138). Anche in Rodotà si distinguo- no pertanto i tratti caratteristici della “rivoluzionaria” dottrina degli anni ’60. Anzitutto, la netta opposizione a riconoscere carattere meramente tipico e sanzionatorio all’illecito civile. L’illecito ha funzione essenzialmente compensativa e, per il tramite di una clausola generale (l’art. 2043 c.c.), offre riparazione ad ogni occasione di danno giuridicamente rilevante. In secondo luogo, anche Rodotà mostra la preoccupazione che l’allargamento delle maglie della responsabilità si traduca nell’attribuzione all’interprete di una libertà idonea a sfociare in arbitrio. Sente in altre parole l’esigenza di mantenere precisi criteri di selezione del danno, anche a livello dell’ingiustizia. Infine, tali criteri vengono comunque individuati nel diritto positivo: è meritevole di tutela ciò che risulti direttamente o indirettamente protetto dall’ordinamento positivo. Sicché, se volessimo compendiare in una massima l’orientamento della dottrina negli anni ’60 dovremmo concludere che “l’illecito civile ha funzione compensativa e per tramite della clausola generale dell’ingiustizia offre riparazione ad ogni danno da lesione di interessi giuridicamente rilevanti in quanto direttamente o indirettamente contemplati da norme positive”. Questo mentre prima degli anni ’60 operava la diversa massima per la quale “l’illecito civile è volto a sanzionare la violazione di norme primarie che pongono divieti o comandi facendo scaturire diritti soggettivi assoluti”. La svolta degli anni ’60 e la recente “ingiustizia” del danno Le nuove frontiere dell’ingiustizia Dall’eccesso di selezione ad un eccesso di riparazione? CARLO BONA (segue dalla prima pagina) Basti considerare i danni da lesione del possesso, o i c.d. danni da lesione dell’integrità patrimoniale (o da lesione della libertà contrattuale). Ancora, oltre a condurre a risultati discutibili sul piano pratico, questa impostazione mal s’attagliava al diritto positivo, muovendo da una interpretazione dell’art. 2043 c.c. che ne sconvolgeva la lettera (laddove l’ingiustizia è chiaramente riferita al danno e non al fatto). Infine, sovente creava clamorose dissonanze tra regole declamatorie e regole operazionali, essendo spesso la giurisprudenza costretta a vere e proprie acrobazie concettuali per giustificare la tutela di situazioni che in senso proprio non potevano essere qualificate alla stregua di diritti soggettivi assoluti. Agli inizi degli anni ’60 la dottrina evidenzia con forza questi limiti e propone una sistemazio- ne alternativa dell’illecito. Anzitutto precisa che la tutela non può essere limitata ai soli diritti soggettivi assoluti, giacché è errato ritenere che i diritti di credito attribuiscano pretese da far valere nei soli confronti del debitore. Ad un aspetto per così dire dinamico del credito (consistente nella pretesa verso il debitore) va infatti aggiunto un aspetto statico, consistente nella pretesa attribuita al creditore nei confronti di terzi, che si astengano dal ledere il diritto di credito. La lesione di tale pretesa si traduce in un danno ingiusto. Ma la dottrina non si ferma a ciò, ritenendo che si debba completamente rivedere lo stesso concetto di ingiustizia. L’art. 2043 c.c., si dice, non è una norma meramente sanzionatoria destinata ad operare unicamente a fronte della violazione di norme che pongono comandi o divieti e che quindi costituiscono diritti soggettivi. E’invece una norma che, per il tramite della clausola generale dell’ingiustizia, offre riparazione ad ogni danno da lesione di un interesse rilevante. Precisato che si tratta di una clausola generale, occorrerà escludere la necessità di un rinvio a norme preesistenti che individuino illeciti tipici, ma al contempo occorrerà fare attenzione a porre dei limiti alla risarcibilità, sì da evitare possibili arbìtri. E, seppur in vari modi, tutti gli esponenti della dottrina di questo periodo sono d’accordo nel ritenere che la selezione vada operata mediante un rinvio al diritto positivo. E’ riparabile qualunque danno da lesione di una situazione meritevole di tutela perché direttamente o indirettamente protetta dall’ordinamento positivo. Il sistema quindi, nella prospettiva della dottrina, cambia radicalmente: dalla funzione sanzionatoria e dalla tutela dei soli diritti soggettivi alla funzio- ne compensativa ed alla tutela di ogni interesse meritevole di protezione. Ma la giurisprudenza tarda ad accogliere le proposte dottrinali. Si dovranno attendere i primi anni ’70, con la nota sentenza Meroni, per vedere superato il primo scoglio, ossia quello della risarcibilità dei soli diritti assoluti e non dei diritti di credito. Quanto al secondo, ben più rilevante ostacolo, ossia quello costituito dalla risarcibilità dei soli danni da lesione di un diritto soggettivo, la giurisprudenza si mostra intransigente a conservare la regola a livello declamatorio. Ma al contempo mostra sempre più di abbandonarla a livello operazionale, con un florilegio di sentenze che, con vari espedienti concettuali, “mascherano” da diritti soggettivi dei veri e propri interessi. Tale atteggiamento, se letto in una prospettiva storica, appare molto più giustificato di quanto a prima vista non sembri. Il timore della giurisprudenza è quello di allargare troppo le maglie della risarcibilità, a fronte di proposte dottrinali che pur condivisibili nell’impostazione di fondo, diventano oscure quando si tratta di precisare secondo quali criteri selezionare gli interessi (ed infatti, non v’è chi non veda che il richiamo ad ogni interesse direttamente o indirettamente meritevole di tutela presenta ben scarsa capacità selettiva). Anche queste remore vengono meno quando nel 1999 le Sezioni Unite della Suprema Corte, con la nota sentenza n. 500, aderiscono in pieno alle proposte dottrinali: da questo momento in poi l’art. 2043 c.c. offre tutela ad ogni interesse meritevole di tutela in quanto direttamente o indirettamente protetto dall’ordinamento positivo. Il tema ben presto scema di interesse, assorbito da questioni ormai più rilevanti. Sembra che, più o meno consapevolmente, la dottrina abbandoni l’ingiustizia per buttarsi a capofitto alla ricerca di altri criteri selettivi. Ecco allora accesi dibattiti sul nesso di causalità e sul danno riflesso, sulla nuova figura del danno esistenziale e sulla teorica del “danno evento”, etc. Ma il sistema è veramente in grado di reggersi in mancanza di una valida selezione a livello d’ingiustizia? E, domanda ancor più significativa, siamo proprio sicuri che la selezione avvenga alla stregua di un criterio normativo e non di un criterio sociale, ossia che vangano risarciti i danni a seconda della protezione loro accordata dall’ordinamento e non a seconda delle valutazioni sociali? Non è forse opportuno rivedere il tutto? - cultura - ANNO 2005 — NUMERO 1 L’INGIUSTIZIA DEL DANNO I — 5 LEX AQUILIA L’opinione Uno spunto critico sulla distinzione tra tipicità ed atipicità L’ingiustizia ed il problema dell’atipicità dell’illecito E’corretto ritenere atipico il nostro sistema e tipico quello di common law? (segue dalla prima pagina) Di converso, è d’uso affermare che era tipico il sistema dell’illecito romano, che conosceva le sole figure del furto, della rapina, dell’iniuria, del damnum iniuria datum e che sono oggi tipici i sistemi di common law, in quanto basati su precedenti specifici. Tipico sarebbe anche il sistema tedesco, visti i §§ 823 ss. BGB che fanno riferimento alla lesione di diritti specificamente indicati (in particolare, il § 823 I comma fa riferimento alla lesione colposa della vita, della persona, della salute, della libertà, della proprietà o di un “diverso diritto”, il § 823 II comma ha riguardo alla violazione colpevole di una norma che mira alla tutela dell’interesse di un soggetto; il § 826 disciplina i danni arrecati intenzionalmente ad altri agendo in difformità dal buon costume). La distinzione è peraltro del tutto semplicistica. Prendiamo anzitutto il sistema italiano dell’illecito. L’ “ingiustizia” di cui all’art. 2043 c.c. è in un primo momento stata intesa come ingiustizia del fatto, ossia come illiceità. Dal che il principio che la sanzione civile potesse operare solo a fronte della violazione di norme che ponevano comandi o divieti, costituendo o riconoscendo diritti. Come ben osservato dalla dottrina, il sistema (se così interpretato) doveva dirsi tipico. L’art. 2043 c.c. valeva solo a sanzionare la violazione di altre norme, specifiche. Il sistema era quindi sostanzialmente analogo a quello delineato dal § 823 I comma BGB per il quale, si è detto, è tra l’altro risarcibile la lesione di un “diverso diritto” (“sonstiges Recht”). In entrambi i casi la tutela risarcitoria poteva ammettersi solo a fronte della lesione di diritti specificamente individuati dall’ordinamento positivo. D’altra parte, se la regola declamata era quella della risarcibilità dei soli danni da lesione dei diritti soggettivi, la giurisprudenza aveva gioco facile ad “inventare” dei diritti soggettivi quando riteneva necessario offrire tutela a semplici interessi (ad esempio il caso, eclatante, del c.d. diritto all’integrità del patrimonio: Cass., 4 maggio 1982, n. 2675). Quindi la “tipicità” operante a livello declamatorio veniva già sconfessata a livello operazionale, offrendo la giurisprudenza tutela ad una serie aperta di possibili situazioni giuridiche soggettive (cfr. FRANZONI, Dei fatti illeciti, in Commentario Scialoja - Branca, Bologna - Roma, 1993, 191). Sul piano operazionale il sistema poteva pertanto dirsi a tutti gli effetti atipico. Una vicenda non molto diversa ha caratterizzato la responsabilità civile tedesca. La tipicità affermata e ribadita sul piano declamatorio, è stata nel tempo fortemente corretta dalla giurisprudenza sul piano operazionale, mediante interpretazioni sempre più elastiche del concetto di “diverso diritto” ex § 823 BGB. E proprio sul piano del danno economico il Reichsgericht ha riconosciuto un “diritto al rispetto dell’attività imprenditoriale” difficilmente compatibile con le norme del BGB, se intese secondo uno stretto principio di tipicità (ZWEIGERT - KOTZ, Introduzione al diritto comparato, Milano, 1992, 284). Quindi, i due sistemi, tedesco ed italiano, seppur formalmente l’uno tipico e l’altro atipico, hanno vissuto esperienze per molti versi simili, con in entrambi i casi una chiara dissociazione tra regole operanti a livello declamatorio e regole operazionali. Tornando in Italia, a partire dalla recente sentenza delle Sezioni Unite 500/’99 si è ammessa la risarcibilità del danno da lesione di ogni interesse meritevole di tutela, a prescindere dalla sua qualificazione in termini di diritto soggettivo. Sembrerebbe quindi di poter dire che il nostro sistema è ormai a tutti gli effetti atipico, tanto sul piano declamatorio, quanto su quello operazionale. Non fosse che la Cassazione ha precisato, conformemente alla dottrina, che un interesse può dirsi meritevole di tutela in quanto sia direttamente o indirettamente contemplato dall’ordinamento positivo. Sicché, se è pur sempre necessario individuare una norma che contempli l’interesse leso, non è poi così semplice parlare di atipicità, rinvenendosi comunque degli elementi, forti, di tipicità. Tutto sarà vedere, peraltro, come si comporterà la giurisprudenza quando concretamente dovrà operare il giudizio di meritevolezza dell’interesse. Ricorrerà veramente all’ordinamento positivo? E’da immaginare che la regola operazionale non sarà dissimile rispetto a quella seguita prima degli anni ’90. Sul piano declamatorio, si affermerà la stretta necessità di un richiamo al diritto positivo, così dando vita ad un sistema che, a parte i vari proclami, presenterà ancora varie affinità con i sistemi “tipici”. Sul piano pratico è invece da prevedere che la giurisprudenza, conformemente a quanto fatto finora, utilizzerà il diritto positivo più per giustificare, ex post, scelte già previamente operate, che non come base effettiva per operare l’autentica selezione degli interessi. E’ quindi da ritenere che si perpetuerà la dissociazione tra una regola declamatoria che vira verso la tipicità, ed una operazionale che procede diretta verso la piena atipicità. Passiamo ora ai sistemi di common law. Questi, si dice, sono tipici, in quanto offrono tutela a casi già contemplati in precedenti. Ma se manca un precedente, o se il caso risulta diverso da quello trattato nel precedente, si potrà ancora parlare di tipicità? No, perché in tali casi nulla osterà al riconoscimento di una tutela fino ad allora inedita. Per dirla con le parole di René David: “gli ordinamenti della famiglia romano-germanica costituiscono insiemi coerenti, “sistemi chiusi” (…) il diritto inglese è, invece, un “sistema aperto”; possiede cioè un metodo che permette di risolvere ogni tipo di problema, e non possiede invece norme sostanziali da applicare indifferentemente in tutti i casi. La tecnica del diritto inglese (…) consiste nello scoprire, partendo dalle legal rules già formatesi, la legal rule, magari del tutto nuova, che dovrà essere applicata nel caso di specie (…). Ad una situazione nuova corrisponde (deve corrispondere, secondo il giurista inglese) una regola nuova” (DAVID, I grandi sistemi giuridici contemporanei, Padova, 1980, 319). Ecco quindi che, a complicare ulteriormente il quadro, nei sistemi di common law sarà necessario distinguere tra il caso già deciso, con riferimento al quale si potrà parlare di tipicità, ed il caso ancora non approdato davanti alle corti, per il quale i sistemi anglosassoni e nordamericani si rivelano decisamente più aperti e quindi meno “tipici” di quelli continentali. Ed a dimostrazione di ciò sta il fatto che i sistemi di common law si rivelano più ricettivi verso le novità di quanto non lo siano i nostri sistemi a base legislativa. Un discorso analogo può e deve essere fatto con riguardo al sistema romano. E’ben vero che il pretore poteva concedere tutela sulla base di actiones tipiche, ma è pur vero che nulla gli precludeva di innovare l’ordinamento quando ciò si rivelasse necessario. E difatti, già nel corso dell’età classica Il problema della atipicità secondo Trimarchi Pur non pervenendo alla nostra conclusione -- lo confessiamo, anche volutamente provocatoria -- di abolire la distinzione tra sistemi tipici ed atipici, Trimarchi già nel 1970 metteva in guardia contro ogni rigida schematizzazione in materia. Nel suo intervento per l’Enciclopedia del Diritto, alla voce Illecito, osservava come “la differenza tra i sistemi fondati sull’enumerazione di figure tipiche e quelli fondati su un’amplissima regola generale è però meno spiccata di quanto si possa credere”. Anzitutto, perché nei sistemi “tipici”, le figure espressamente contemplate possono essere così numerose e ampie da permettere la riparazione di ogni danno socialmente e giuridicamente rilevante. Di converso, nei sistemi “atipici” la regola generale non può essere intesa nel senso che ogni fatto dannoso sia illecito. Operano infatti svariate limitazioni, che possono anche condurre a risultati restrittivi. Di fatto, osservava Trimarchi, la comparazione tra gli ordinamenti occidentali mo- stra come, a prescindere dalla loro tipicità od atipicità, “i risultati ultimi presentano per lo più svariate coincidenze e, nelle zone residue, notevoli somiglianze: il che può stupire solo chi creda che l’attività interpretativa consista nello sviluppo sistematico di complessi di proposizioni immersi nel vuoto”. Al più, osservava, la differenza tra sistemi riguarda il diverso ruolo del giudice, che in quelli atipici è incaricato di porre volta per volta le necessarie limitazioni, in quelli tipici trova questo compito già svolto dalla legge. Ma anche a questo riguardo, osservava Trimarchi, le differenze sono tutt’altro che nette. Ed infatti, spesso i sistemi tipici contemplano delle figure tipiche sufficientemente indeterminate da lasciar spazio per l’interprete, e di converso quelli atipici finiscono con l’affiancare alla norma generale delle norme specifiche che costituiscono “delle indicazioni di massima per l’ulteriore determinazione e specificazione ad opera del giudice”. si è assistito a varie estensioni del concetto di damnum iniuria datum, nonché alla concessione da parte del pretore di svariate actiones in factum (ad exemplum legis aquiliae) genericamente dette utiles (cfr. BURDESE, Diritto Privato Romano, Torino, 1993, 530 s.). Sia per il giudice anglosassone, sia per il pretore romano non opera il limite legislativo, sicché per molti aspetti il loro sistema è molto meno “tipico” di quello italiano. Quindi, la distinzione tra tipicità ed atipicità dell’illecito è molto meno pacifica di quanto a prima vista non sembri. Dal che due conseguenze. La prima conseguenza è quella dell’impossibilità di trarre dalla qualificazione del sistema come tipico o atipico delle previsioni in ordine alla sua capacità di seguire l’evoluzione sociale. Gli studi di diritto comparato hanno ampiamente dimostrato che sistemi tipici come quello nordamericano hanno una capacità di adattamento notevolmente superiore rispetto a quella propria del sistema italiano, che pure dovrebbe essere atipico. E da studi ancor più approfonditi è emerso come le regole operazionali, a medio termine, non differiscano in modo significativo, quale che sia il sistema preso in considerazione. La seconda conseguenza, che si potrebbe trarre è, allora, quella della sostanziale inutilità dei concetti di tipicità od atipicità, ove applicati alla responsabilità civile. Il concetto di tipicità può avere infatti (ed ovviamente) due sole funzioni: una descrittiva, quando si limiti a “fotografare” l’ordinamento, od una prescrittiva, quando se ne vogliano trarre delle precise direttive. La funzione descrittiva si è visto, è assolta così malamente che ci si può chiedere che utilità possa connettersi al qua- lificare i nostri sistemi come tipici e quelli di common law come atipici. Una descrizione di questo tipo, infatti, rischia di produrre più equivoci di quanti non riesca a risolverne (dall’equivoco della maggior capacità di adattamento dei sistemi atipici di civil law, a quello della necessaria diversità delle regole operazionali). Quanto alla funzione prescrittiva, l’inutilità della distinzione salta ancor più agli occhi. Da una parte, infatti, l’asserita atipicità del nostro sistema non ha mai ostacolato l’affermazione, da parte di dottrina e giurisprudenza, della necessità del ricorso a norme positive per definire il contenuto della clausola generale dell’ingiustizia, con ovvia contaminazione da parte di elementi propri di un sistema tipico. D’altra parte, è ovvio che anche nei sistemi tipici non si potrà mai immaginare una tipicità analoga a quella, ad esempio, operante in tema di diritti reali, o di azioni a cognizione sommaria nella procedura civile. E ciò per l’ovvio motivo che anche i sistemi “tipici” devono presentare delle valvole di sfogo che consentano di adeguare l’ordinamento alla costante evoluzione sociale, particolarmente impetuosa in tema di responsabilità. Ma sono proprio queste valvole di sfogo ad annullare sul piano operazionale le differenze tra sistemi, e quindi a privare di ogni portata prescrittiva il concetto di tipicità. In conclusione, in mancanza di una reale efficacia descrittiva o prescrittiva, ed anzi per la almeno tendenziale idoneità a creare equivoci di non poco conto, la distinzione tra sistemi tipici ed atipici di responsabilità civile andrebbe semplicemente abolita. l’angolo normativo GERMANIA BGB (Codice civile) § 823 Schadensersatzpflicht (1) Wer vorsätzlich oder fahrlässig das Leben, den Körper, die Gesundheit, die Freiheit, das Eigentum oder ein sonstiges Recht eines anderen widerrechtlich verletzt, ist dem anderen zum Ersatz des daraus entstehenden Schadens verpflichtet. (2) Die gleiche Verpflichtung trifft denjenigen, welcher gegen ein den Schutz eines anderen bezweckendes Gesetz verstößt. Ist nach dem Inhalt des Gesetzes ein Verstoß gegen dieses auch ohne Verschulden möglich, so tritt die Ersatzpflicht nur im Falle des Verschuldens ein. 6 LEX AQUILIA — - cultura - L’INGIUSTIZIA DEL DANNO I NUMERO 1 — ANNO 2005 L’opinione personale di un pratico sull’ingiustizia Tra Guglielmo di Ockham e gli Stati Uniti d’America: cenni ad una possibile sistemazione alternativa dell’ “ingiustizia” G uglielmo di Ockham è passato alla storia come il filosofo che riuscì ad affondare la corazzata della Scolastica, chiudendo definitivamente con più di cinquecento anni di pensiero occidentale. E quest’impresa gli riuscì formulando un principio che a noi, oggi, sembra banale, ossia quello per il quale in ogni ragionamento occorre partire dalla realtà naturale ed evitare le moltiplicazioni di enti. Se una cosa è spiegabile semplicemente, inutile complicarsi la vita creando nozioni su nozioni in un crescendo di concettualismo. Fu una pugnalata mortale per il pensiero occidentale di quel periodo, che era abituato a discutere (seriamente, beninteso, ma in modo logicamente scorretto) sul sesso degli angeli. Il pensiero di Ockham da quei tempi -- eravamo nella prima metà del trecento -- ad oggi ne ha fatta di strada, tanto che a nessuno tra i tanti che oggi si occupano seriamente di scienza verrebbe mai in mente di arzigogolare su concetti che non trovano un preciso riscontro empirico o, peggio ancora, di fornire spiegazioni complesse e sovrabbondanti per fenomeni semplici o addirittura banali. Verrebbe semplicemente messo ai margini dalla comunità scientifica. La scienza è, soprattutto, ricerca della semplicità ed aderenza ai fenomeni. Questa direttiva metodologica, ormai univoca in ambito scientifico, tarda non poco a trovare riconoscimento nell’ambiente giuridico. A volte, sommersi dal fragore dei concetti, i giuristi non sentono la sottile voce della realtà. E sì che la realtà è spesso spiegabile in due parole, senza bisogno di fiumi di teorie. Prendiamo quindi la nostra responsabilità civile, ed in particolare il nostro tema, quello dell’ingiustizia. Quando un danno è “ingiusto”? Per la dottrina di quarant’anni fa e la giurisprudenza di cinque - dieci anni fa, un danno poteva dirsi ingiusto quando veniva a ledere un diritto soggettivo. Stando a simili conclusioni, ogni volta il giudice avrebbe dovuto: a) individuare con precisione quale fosse la situazione giuridica lesa e provvedere a qualificarla in termini giuridici; b) valutare se fosse direttamente protetta dall’ordinamento come diritto soggettivo, ossia se sussistesse una norma tale da vietare espressamente di lederla o da comandare di proteggerla. Come si comportava concretamente il giudice? E’stato osservato dalla dottrina pressoché concorde che il giudice se riteneva di rigettare la domanda, allora richiamava la regola e negava la sussistenza di un diritto soggettivo (è stato Verso criteri extralegali per la selezione dei danni risarcibili? così, ad esempio, per il risarcimento dei danni da lesione di interessi legittimi pretensivi), se invece riteneva che si dovesse concedere tutela, si “inventava” diritti soggettivi in realtà inesistenti mediante varie acrobazie concettuali (si consideri il noto diritto all’integrità del patrimonio). In tal modo, grazie alla regola della risarcibilità dei soli diritti soggettivi, che poteva venire in ogni momento disattesa, il giudice riusciva a seguire, ed in parte anche a dirigere, l’evolu- richiamare solo indici normativi. Più della metà della comparsa conclusionale sarà destinata ad una minuziosa elencazione delle ragioni economiche, sociali ed equitative che giustificano l’adozione della scelta suggerita da quegli indici normativi. Perché l’avvocato si comporta in questo modo? Perché sa perfettamente che i giudici non introducono nuove voci di danno a cuor leggero, solo perché un avvocato è stato in grado di trovare un paio di norme che sembrano fondarle, — Battute celebri — Dal film “Il cavaliere della valle solitaria” Regia di Gorge Stevens, USA, 1953 Quando parli di diritti, tu intendi dire che hai il diritto di non riconoscere quelli degli altri. (Il contadino Van Heflin all’allevatore Emile Meyer) zione sociale ed economica. La società chiedeva a gran voce nuove forme di tutela? Il giudice faceva quattro conti (così è avvenuto sia per il danno biologico, sia per la lesione degli interessi legittimi), ed a seconda che la tutela si rivelasse compatibile o meno con le ragioni dell’economia, la riconosceva o la negava. Nessun ostacolo sul piano normativo, ovviamente, visto che -- e lo si è dimostrato -- creare nuovi diritti soggettivi ai quali riconoscere tutela era un gioco da ragazzi. Ma allora, ciò che dirigeva le scelte dei giudici non erano le valutazioni normative, ma valutazioni sociali ed economiche. Il giudice agiva sulla base di un crittotipo, una regola non espressa, che affondava le sue radici nel contesto sociale. Oggigiorno, per la dottrina e la giurisprudenza pressoché univoche, il danno è ingiusto quando leda una situazione meritevole di tutela in quanto direttamente o indirettamente protetta dall’ordinamento giuridico. Ciò farebbe pensare che ogni avvocato che si rispetti, quando propone una domanda risarcitoria, curi di allegare le norme che offrono protezione diretta od indiretta all’interesse asseritamente leso. Chiunque abbia avuto la ventura di frequentare le aule dei nostri tribunali sa che le cose vanno in modo ben diverso. L’avvocato, almeno quello dotato di un minimo di furbizia, se esistono precedenti, specie se di quel tribunale, si aggrappa ai precedenti. Se precedenti non ne esistono, richiama sì degli indici normativi, ma si guarda bene dal ma, nell’ovvia considerazione di interessi pratici e della funzione pratica del diritto, valutano se la scelta ermeneutica sia o meno compatibile con la realtà socio-economica. L’avvocato, a volte inconsciamente, avverte che i giudici decidono sulla base di un crittotipo, sulla base di valutazioni sociali od economiche, provvedendo solo in seguito a dare giustificazione normativa alle loro innovazioni. D’altra parte, che alla base di tutto stia il crittotipo appena descritto, emerge da una serie di considerazioni finanche banali. Prima considerazione. Perché se tutto dipende dall’ordinamento positivo la responsabilità civile è in costante evoluzione quando l’ordinamento resta sovente immutato? La figura del danno biologico, ad esempio, è stata creata a prescindere dall’innovazione dell’ordinamento. Se il giudice effettivamente si fosse avvalso di criteri normativi, non avremmo assistito alla costante evoluzione dell’ultimo quarantennio. Seconda considerazione. Perché i giudici quando decidono di introdurre nuove voci di danno si dilungano nella considerazione della loro rilevanza sociale ed economica? Se tutto dipendesse dall’ordinamento positivo, basterebbe rifarsi all’ordinamento. Terza considerazione. Il concetto di interesse direttamente o indirettamente protetto dall’ordinamento, utilizzato dalla nostra dottrina per dire quando un danno è ingiusto, è manifestamente generico. Di per sé, stando a questo concetto, qualsiasi giudice o avvocato dotato di un minimo di fantasia è in grado di creare qualsiasi nuova voce di danno. Tutto, o almeno, tutto quel che non è espressamente vietato, può dirsi protetto. Perché allora la responsabilità civile non concede tutela a tutto? Verosimilmente perché il criterio di selezione è da individuare al di fuori dell’ordinamento positivo. Quarta considerazione. Le regole di responsabilità civile dei paesi occidentali, almeno sul piano operazionale, sono per gran parte sovrapponibili, a prescindere dal fatto che si tratti di sistemi di common o civil law. Come è possibile tutto questo attesa la significativa differenza tra gli ordinamenti? Se stiamo a guardare le norme tedesche sulla responsabilità civile, sono profondamente diverse da quelle italiane. Non stiamo a parlare dei sistemi di common law, che neppure conoscono il nostro concetto di norma. Eppure le soluzioni sono le stesse. Perché? Forse perché le società ed i bisogni sono gli stessi, ed è sulla base di questi che si decide. Quinta considerazione. Facciamo un passo oltre il mondo dei giuristi. Solo noi siamo abituati a credere che il diritto sia un’entità a sé, in grado di autosostenersi. A parte le conclusioni, forse esagerate, della critica marxista che vede nel diritto una mera sovrastruttura, è fuor di discussione che di norma è la realtà a piegare il diritto, e non il diritto a piegare la realtà. Perché allora ritenere che nel mondo della responsabilità civile operino delle regole diverse, e che il riconoscimento di una nuova voce risarcitoria dipenda da al- Gran parte della dottrina ritiene che il richiamo alle norme positive sia utile, perché permette di prevenire possibili arbitri dell’interprete. Come a dire: sappiamo che si decide in virtù di considerazioni più socio-economiche che strettamente normative, ma siccome noi non ci fidiamo più di tanto dei giudici, e tantomeno degli avvocati, vale la pena porre qualche paletto, e dire che risarcibili sono solo i danni più o meno direttamente contemplati dall’ordinamento. Ma un simile ragionamento reggerebbe, ed escluderebbe un’inutile moltiplicazione dei concetti se veramente questo paletto fosse indispensabile e se valesse a delimitare l’area del risarcibile. Però, questo è il problema, il nostro paletto normativo non è indispensabile e tanto meno ha una vera efficacia selettiva. Che non sia indispensabile per selezionare i danni lo si avverte già avendo riguardo al nostro ordinamento. Perché non ci si avvede una volta per tutte che l’art. 2043 c.c. individua una vera clausola generale, che come tutte le clausole generali (buona fede, equità, correttezza, etc.) esige di essere riempita di contenuti mediante il ricorso a criteri extralegali? Se ci fidiamo dei giudici quando si tratta di definire quando un comportamento sia corretto, senza pretendere che si rifacciano ad indici normativi, perché non fidarsi di loro quando si tratta di definire se un danno è ingiusto? Invero, il richiamo all’ordinamento positivo per riempire La citazione Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia Fra gli eruditi i giuristi rivendicano senz’altro per sé il primo posto e nessun altro riesce a compiacersi di sé come loro mentre rotolano assiduamente il macigno di Sisifo e mettono assieme seicento leggi senza prendere fiato – la coerenza alla causa è l’ultima cosa che importa – e ammucchiando glosse su glosse, opinioni su opinioni, fanno sembrare quella disciplina la più difficile di tutte. Infatti credono che tutto ciò che costa fatica sia senz’altro nobile e meritorio. chimie concettuali anziché dalla spinta della vita di tutti i giorni? Ma se alla base di tutto sta un crittotipo, restando il richiamo alle norme positive come mera regola declamatoria, non è che noi giuristi siamo incorsi proprio in quell’errore logico - metodologico sul quale implacabile si sarebbe abbattuto il rasoio di Ockham? Non è che abbiamo creato degli enti -- il richiamo, diretto od indiretto, a norme positive nella determinazione dell’ingiustizia -- assolutamente inutili? di contenuti l’ingiustizia è sovrabbondante, contrasta con la prassi seguita nell’interpretazione di altre clausole generali e, soprattutto, contrasta con la stessa funzione delle clausole generali. Ma che il nostro “paletto” normativo non sia indispensabile lo si comprende con ancor maggior evidenza varcando i confini della provincia italica ed approdando in uno dei paesi di common law, gli Stati Uniti, ad esempio. Questi paesi non conoscono nulla di simile al nostro ordinamento positivo, eppure si rivelano perfettamente adeguati a fronteggiare i problemi di selezione dei danni risarcibili. Anzi, sovente i loro ordinamenti si rivelano ancor più pronti del nostro ad affrontare eventuali problemi di overcompensation, e ciò in virtù di un’indiscutibile maggior elasticità. I giudici non impazziscono, e gli arbìtri non sono molti più, né molti meno di quelli ai quali si assiste nei nostri ordinamenti. Il richiamo a norme positive che tutelino direttamente o indirettamente l’interesse leso non è quindi indispensabile per selezionare i danni. Ma non è nemmeno un criterio dotato di un’autentica efficacia selettiva. Abbiamo già visto come, con un minimo di fantasia e conoscenza dell’ordinamento, chiunque riesca a creare interessi almeno indirettamente protetti. In altre parole, non solo il nostro criterio non appare necessario, ma non è nemmeno idoneo ad assolvere una funzione selettiva. Evidente, pertanto, come il richiamo alle norme positive si traduca in una mera, diseconomica, moltiplicazione di enti. Quindi: si è detto che il giudice, nel selezionare gli interessi riparabili in via aquiliana, fa ricorso ad un crittotipo, ossia applica criteri extralegali di natura socio-economica, sebbene sul piano declamatorio affermi la regola della risarcibilità dei soli interessi direttamente o indirettamente tutelati dall’ordinamento positivo. Questa scissione tra regole declamatorie e regole operazionali (quelle fondate sul crittotipo) è a prima vista diseconomica, in quanto si traduce in un’inutile moltiplicazione degli enti. Si viene a creare cioè un ente intermedio -- il necessario richiamo alle norme positive - che è privo di peso concreto, rimanendo la selezione affidata alla rilevanza socio-economica dell’interesse leso e, soprattutto, che sarebbe comunque privo, per la sua genericità, di qualunque valenza selettiva. Ed allora, partendo da Guglielmo di Ockham e passando per gli Stati Uniti, il modesto consiglio che questo pratico si sente di dare è quello di riconoscere che decidiamo perché abbiamo in mente la vita, e non le vuote formule normative. Sveliamo il crittotipo, ammettiamo che il danno è ingiusto quando tale appare sul piano sociale ed economico. Così potremo ragionare molto più sui reali effetti delle nostre scelte, e la responsabilità civile sarà ancora più adeguata a rispondere sia alle esigenze di compensation che alle esigenze selettive.