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è possibile rallentare la progressione della malattia di parkinson?

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è possibile rallentare la progressione della malattia di parkinson?
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È POSSIBILE RALLENTARE LA PROGRESSIONE DELLA MALATTIA DI
PARKINSON?
Giovanni Abbruzzese
Dipartimento di Neuroscienze, Oftalmologia e Genetica – Università di Genova
Introduzione
La malattia di Parkinson (MP) è sostenuta da un processo neurodegenerativo ad evoluzione progressiva: la degenerazione dei neuroni dopaminergici compromette la
funzionalità della via nigro-striatale e la carenza di dopamina genera i principali sintomi motori della malattia. Il trattamento attualmente disponibile della MP si avvale d’interventi sintomatici basati sull’impiego di farmaci dopaminergici o sul ricorso alla chirurgia stereotassica funzionale (stimolazione cerebrale profonda). Non vi
è dubbio che tali interventi, inizialmente assai efficaci nel controllo della sintomatologia motoria, tendono con tempo a perdere parte della loro efficacia, possono
indurre complicanze motorie e non-motorie, e non appaiono in grado di arrestare la
progressione naturale della malattia.
L’identificazione di strategie farmacologiche indirizzate a modificare l’evoluzione
di malattia (“disease modifying strategies”) costituisce da tempo un obiettivo primario della ricerca scientifica ed un bisogno fondamentale nella gestione dei pazienti
con MP, poiché è noto che le principali manifestazioni motorie della malattia si
manifestano quando il depauperamento dei neuroni dopaminergici nigro-striatali ha
già superato il 60% [1-2].
I trials clinici sulla prevenzione secondaria nella MP
La sperimentazione di terapie farmacologiche potenzialmente “neuroprotettive” si è
sviluppata tramite l’identificazione di composti in grado d’interferire con alcuni dei
meccanismi coinvolti nel processo che conduce alla morte cellulare e, quindi, probabilmente nella patogenesi della MP: stress ossidativo, disfunzione mitocondriale, eccitossicità, infiammazione, autofagia, alterata fosforilazione e ripiegamento proteico,
apoptosi [3-4]. Ciò ha comportato lo studio, dapprima su modelli sperimentali e successivamente tramite trials clinici nell’uomo, di numerose sostanze con proprietà
antiossidanti, bioenergetiche, antinfiammatorie, antieccitotossiche, antiapoptotiche.
Tuttavia, la grande maggioranza degli studi clinici ha dato un esito negativo (in
quanto gli agenti testati non hanno confermato in vivo gli effetti evidenziati nei
modelli sperimentali) o non conclusivo, poiché le modificazioni cliniche indotte dal
trattamento potevano essere attribuite ad un effetto sintomatico [5] (Tabella 1).
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Alcuni studi sono attualmente ancora in corso di svolgimento (pramipexolo, CoQ10,
creatina, inosina, isradipina).
Particolare attenzione è stata riservata a due classi di agenti farmacologici (comunemente utilizzati nel trattamento sintomatico della MP): dopamino-agonisti e inibitori delle MAO tipo B.
I dopamino-agonisti dimostrano in vitro la capacità di proteggere i neuroni dopaminergici grazie a proprietà antiossidanti ed antiapoptotiche [4]. Per evitare l’effetto sintomatico confondente, gli studi clinici disegnati per testare i potenziali effetti “neuroprotettivi” dei farmaci dopamino-agonisti hanno utilizzato come obiettivo primario il tasso di
decremento di biomarcatori surrogati (“neuroimaging”) della funzione nigro-striatale,
quali Beta-CIT e fluorodopa. Sia lo studio CALM-PD-CIT (pramipexolo) [6] che lo
studio REAL-PET (ropinirolo) [7] hanno evidenziato una riduzione del 30-40% nel
tasso di decremento del marcatore nei pazienti trattati con dopamino-agonisti rispetto
al gruppo trattato con levodopa. Questi risultati suggestivi di un putativo effetto “neuroprotettivo” sono, tuttavia, condizionati dalle incertezze relative ad un possibile effetto confondente diretto dei farmaci dopamino-agonisti sui biomarcatori [8]. Una spiegazione alternativa potrebbe chiamare in causa la presupposta “tossicità” della levodopa;
lo studio ELLEDOPA [9] ha in effetti documentato un maggiore tasso di declino del
trasportatore di dopamina (DAT) nei pazienti trattati con levodopa rispetto al placebo.
Il risultato appare, tuttavia, inconclusivo alla luce del persistente beneficio clinico
osservato anche dopo 2 settimane di wash out nei pazienti trattati con levodopa.
Gli inibitori MAO-B sono in grado d’interferire con il metabolismo ossidativo della
dopamina ed esercitano un effetto antiapoptotico sia in vitro che in vivo bloccando
la traslocazione nucleare del GAPDH e la conseguente inibizione di molecole protettive [4]. Lo studio DATATOP [10] (confronto tra selegilina e placebo in pazienti
parkinsoniani de novo) ha dimostrato un ritardo di circa 9 mesi nella progressione
clinica dei pazienti trattati con l’inibitore MAO-B; tale risultato appariva però ascrivibile ad un effetto di tipo sintomatico. Tuttavia, studi successivi [4] suggeriscono
che la selegilina potrebbe essere in grado esercitare un effetto addizionale a quello
sintomatico, verosimilmente in relazione alle sue proprietà antiapoptotiche In effetti, anche i risultati preliminari dello studio ADAGIO (rasagilina vs. placebo con
“delayed start design”) [11] sembrano dimostrare che l’impiego precoce di rasagilina (1 mg/die) è in grado di ridurre la progressione dei sintomi motori [12] e nonmotori [13]. Tale effetto, d’entità relativamente modesta, potrebbe essere posto in
relazione all’esaltazione o al mantenimento di meccanismi compensatori che riducono la gravità dei sintomi od il tasso di progressione [14].
Conclusioni e prospettive future
Lo sviluppo di un trattamento “neuroprotettivo” che interrompa o rallenti la progressione del processo neurodegnerativo nella MP rimane al momento ancora un biso-
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gno insoddisfatto [4,5,15]. Diverse ragioni giustificano il fallimento o l’inconclusività dei principali trials clinici: 1. i modelli sperimentali (acuti-subacuti) utilizzati
presentano differenze rilevanti rispetto alle caratteristiche clinico-biologiche della
MP; 2. permane ancora una grande incertezza sui meccanismi patogenetici responsabili della MP; 2. molti dei trials clinici sono risultati inadeguati nel loro disegno
(criteri d’inclusione e selezione dei pazienti, scelta delle misure d’outcome, dosi utilizzate e timing della somministrazione, mancata esclusione di effetti sintomatici).
Inoltre, deve essere considerato che l’evoluzione della MP si caratterizza per l’emergere progressivo di sintomi non-dopaminergici (turbe del cammino e freezing, alterazioni della stabilità posturale e cadute, disautonomia, turbe della deglutizione,
alterazioni del sonno, alterazioni del tono timico e demenza) che costituiscono la
principale causa di disabilità [16].
Le future direzioni della ricerca in ambito di “neuroprotezione” dovranno, quindi,
tenere in considerazione la necessità di studi più ampi e con adeguato follow up, utilizzando protocolli criticamente rivisitati ed indirizzati anche ai meccanismi nondopaminergici.
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