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Il gioco della Caverna: (a)i confini della narrazione analitica

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Il gioco della Caverna: (a)i confini della narrazione analitica
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Il gioco della Caverna:
(a)i confini della narrazione analitica
Dio ci giudica mai dalle apparenze?
Ho il sospetto di sì.
W. H. Auden
1.
La sindrome di Siracusa: Platone e la filosofia politica
Venticinque secoli fa la filosofia sperimentò con insuccesso la sua capacità di agire la politica e di
governare la città. Il fallimento avvenne a Siracusa, Platone la presunta vittima: nel periodo che va
dal 388 al 361 a.C., sotto il regno di Dionisio il vecchio, poi Dionisio il giovane, per tre volte
successive Platone cercò di dar forma ad un governo. Fu, invece, arrestato, venduto come schiavo
sull’isola di Egina, riscattato grazie all’intervento di un allievo, accusato infine di alto tradimento e
sollecitato a fuggire.
Ricordare questo dato fattuale può essere utile per rilevare come in Platone l’intreccio tra interesse
teorico e interesse politico sia, contrariamente all’opinione comune, una presenza costante1. Per
quanto riguarda l’interesse politico, si vedrà come il dilemma del filosofo al servizio della città
lacerò Platone, facendolo cadere in una insolubile contraddizione: se il fine del vero saggio non è il
potere ma vivere una “vita buona per un essere umano” – o eudaimonia - perché egli deve volgersi al
governo della città? E’ possibile governare bene la polis sapendo che ci sono questioni superiori che
meritano le nostre energie e la nostra attenzione? E’ possibile usare con saggezza e mantenere con
fermezza il potere, pur non nutrendo alcuna vera passione per il potere, ma anzi un sottile disprezzo?
Si può insomma costringere il filosofo a governare la città suo malgrado, o perlomeno a consigliare
chi governa? Queste sono, in linea generale, alcune delle questioni politiche affrontate da Platone.
L’interesse teorico di Platone si lega, invece, esplicitamente a quella che si potrebbe definire la
questione dello stupore: è su questa esperienza - lo stupore per ciò che è in quanto è - che si fonda,
infatti, la sua filosofia. Lo stupore senza parole: il thaumazein, infatti, comincia con lo stupore e
finisce con l’assenza di parole. Lo stupore platonico subisce, tuttavia, una trasformazione: in un
primo tempo, esso si ritira dal mondo dei fenomeni, e trova nel mutismo una caratteristica cruciale,
al punto che il filosofo decide di fare dello stupore il suo “soggiorno”, e quello che non dovrebbe
essere se non un momento fuggitivo, prima di tornare nell’agorà, viene convertito in modo di vita. A
questa prima fase dello stupore filosofico, lo stupore immobile derivante dalla pura attività del
pensiero, segue il passaggio alle pratiche, esemplificato dal rientro del filosofo nella caverna,
descritto da Platone.
La trasformazione è però pericolosa: se, per un verso, il thaumazein, da cui parte ogni ‘curiosità’
filosofica, si definisce come un’esperienza di pensiero senza parola e senza possibilità di presa di
posizione che non sia nella solitudine, lo stesso thaumazein è, tuttavia, una posizione difficile da
tenere nella città, soprattutto se confrontata con la più ragionevole argomentazione kantiana di una
“compagnia indispensabile al pensatore”, secondo la quale il bisogno di pensare non sarebbe un
bisogno riservato esclusivamente al filosofo, ma si configurerebbe piuttosto come un bisogno
1
Platone, Lettera VII: “E così partii, per essere il più possibile dalla parte della ragione e del giusto, almeno
per quanto a un uomo è dato di esserlo, lasciando per questo motivo le mie occupazioni, che pur non sono
trascurabili, per una tirannide la quale non aveva certo l’aria di essere in sintonia né con le mie idee né con il
mio carattere. E tuttavia, con questo mio viaggio io mi sdebitai con Zeus protettore degli ospiti, e onorai la
parte del filosofo che, invece, sarebbe stata esposta a rimproveri, se per neghittosità e codardia mi fossi
guadagnato una cattiva fama”. La VII Lettera costituisce uno sguardo retrospettivo di Platone al significato ed
al valore della propria filosofia, e nello stesso tempo una giustificazione del proprio impegno e della propria
attività politica.
comune, che si tradurrebbe in una sorta di impiego “pubblico” del pensiero, ad esempio nelle
deliberazioni pratiche quotidiane2: il pensiero, in altri termini, ha delle implicazioni politiche. In
politica, come in estetica, secondo Kant è necessario superare l’auto-interesse e il ripiegamento su se
stessi: non è a noi stessi che siamo interessati, ma a noi stessi nel mondo, secondo una logica che
passa da una soggettività unilaterale a una prospettiva intersoggettiva, in cui il rischio di pregiudizio
è evitato grazie al viaggio nelle prospettive di vite altrui.
Ora, se è vero, come indicato più sopra, che il pensiero di Platone si muove su più piani (e i piani che
qui rilevano sono quello teorico e quello pratico3), e che la riflessione sul senso dello stupore si pone
quale atto fondativo della filosofia, sembra plausibile cominciare a definire quale sia il “posto” della
filosofia rispetto alla città: il posto della filosofia è nel punto di incontro di teorie e pratiche, di
conoscenza e azione. Conoscere, nell’esperienza greca in generale, implica sempre anche fare. E, se
una delle questioni fondamentali della filosofia è scoprire come si deve vivere se si vuole vivere
secondo il bene, è ancora filosofica la consapevolezza che nessuno vive da solo sulla terra: questo è
il problema della polis.
Allora, qual è la vocazione originaria, ovvero pre-platonica, della filosofia? La relazione con la
contingenza4, e dunque con l’esperienza della politica, è decisiva per rispondere a questa domanda.
L’evento determinante nella relazione tra filosofia e contingenza, e che permette di decostruire la
tensione tra filosofia e città in “prima” e “dopo”, è la morte di Socrate, maestro di Platone.
Prima della condanna a morte di Socrate da parte di Atene, nel 399 a.C., la relazione tra filosofia e
politica era una relazione biunivoca, ambigua e conflittuale, ma necessaria: la filosofia senza la
politica, senza la tensione con la città, si riduceva al semplice monologare del pensiero, e la politica
senza la filosofia rischiava di diventare un degenerante gioco di forze contrapposte. La sfida costante
dell’apartitico Socrate alla faziosa città di Atene consisteva precisamente in questo: nell’utilizzo del
2
Seguendo la riflessione sul sensus communis kantiano, si potrebbe sostenere che ognuno di noi possiede una
esperienza filosofica: ogni volta che ci troviamo nella necessità di prendere una decisione, ci interroghiamo in
modo filosofico: in altri termini, ognuno di noi nutre una particolare visione sul mondo delle scelte, e si tratta
di una visione tesa a prevenire i conflitti pratici più gravi; ciascuno ha un modello deliberativo, semplice o
complesso, e su di esso sviluppa un insieme di interessi chiaramente (o non chiaramente) ordinati. Sul tema
cfr. Nussbaum (1996). Nussbaum considera nel suo saggio il conflitto tragico come l’esemplificazione più
opportuna del conflitto pratico-deliberativo, centrale nel pensiero greco: “Questo libro intende analizzare
l’aspirazione all’autosufficienza razionale all’interno del pensiero etico greco: l’aspirazione a liberare
dall’influsso della fortuna la bontà della vita virtuosa usando il controllo ed il potere della ragione”. Si veda,
in particolare, il cap. III.
3
Le molteplici e, spesso, divergenti, interpretazioni del pensiero di Platone costringono chi scrive ad una
mossa di “sottrazione” (con i rischi di reticenza ad essa connessi), il cui esito si traduce nella scelta di non
considerare, in questa sede, le interpretazioni di Platone à la Simone Weil, le quali riconoscono in Platone
uno dei fondatori della mistica occidentale, e di avvicinarsi, invece, alle critiche della tradizione platonica
che rilevano sia la svalutazione, in essa contenuta, del mondo delle apparenze, sia la svolta politica
autoritaria che in essa si annuncia.
4
Per uno studio delle tensioni tra teoria politica e contingenza, cfr. Besussi (2003): “Contingenza, nel
dizionario filosofico, si contrappone a necessità. Contingente è qualcosa che non deve essere, non deve
verificarsi, non deve essere vero ecc. In quanto non-necessario, il contingente è accidentale, terreno e storico,
è quello che ci accade e ci tocca imprevedibilmente, che segnala la nostra sovranità imperfetta sulle cose e su
noi stessi. Se le teorie potrebbero facilmente essere pensate come artifici umani per il contenimento della
contingenza, dalla modernità in poi la teoria politica sembra caratterizzata da un rapporto particolarmente
difficile e estremo con questo compito. Varie e divergenti diagnosi del moderno, da Tocqueville a Schmitt,
segnalano che la perdita di efficacia politica da parte della trascendenza coincide con una situazione di
contingenza radicale cui la teoria politica risponde con un impegno all’ordine”. Cfr., in particolare, la parte III
del saggio.
dialogo – dialogo filosofico5 – come paradigma dell’azione politica, nell’offerta di una modalità di
decisione pubblica, ovvero di un paradigma parificante per lo scambio politico. Scopo del dialogo
socratico è perfezionare opinioni, non scoprire verità. Attraverso il dialogo, Socrate cerca di portare
ognuno dei suoi interlocutori a rintracciare la verità della propria opinione: in questo senso, Socrate
“tira fuori”, estrae da ciascuno/a l’opinione al suo meglio: ecco perché il dialogo non è per Socrate,
come sarà per Platone, una forma specifica di discorso filosofico che deve garantire il
conseguimento di certezze. Il dialogo non può garantire il conseguimento di certezze, può solo
garantire che le opinioni vengano espresse nella migliore delle condizioni possibili: non si discute, in
altri termini, per raggiungere una verità su cui essere tutti d’accordo. Il fatto che una opinione non
abbia pretese di validità universale, non rende tuttavia, dal punto di vista socratico, tale opinione
arbitraria: l’opinione non è il blabla. In questo senso, filosofia e politica, prima di Platone, erano
attività analoghe: in primo luogo, sia la filosofia che la politica erano attività in grado di mettere in
luce la parzialità degli individui, la loro insufficienza, il loro bisogno della presenza di altri. Sia per
fare filosofia sia per fare politica, gli ateniesi non potevano essere soli: il dialogo filosofico, in
questo simile alla deliberazione politica, richiedeva loro di uscire dalla solitudine. Inoltre, tanto la
filosofia quanto la politica avevano bisogno che esistesse una comunità di discorso, che vi fossero
parole condivise all’interno di un vocabolario di discorso pubblico. Sia la filosofia sia la politica,
poi, necessitavano di una pluralità di voci6.
280 voti contro 220: Socrate viene condannato a morte. Al divorzio tra filosofia e politica, prima
registrato e poi perfezionato da Platone, segue un cambiamento di attitudine della filosofia, che da
politica e polemica in senso letterale, si fa autodifensiva e medica7, ma nei confronti del solo
filosofo. La filosofia sembra uscire dalla città, diventando così apolide e apolitica, in quanto ormai
logos e polis sono stranieri l’uno all’altra, e la filosofia ha perso la sua forma e la sua forza
persuasiva.
Progetto della filosofia, dopo il trauma platonico della morte di Socrate, sarebbe quello di espellere
da sé il “malinteso” rappresentato dalla politica, ormai impura e scandalosa, da tenere, quindi, al di
fuori dello spazio filosofico. La storia della filosofia, da Platone in poi, potrebbe così essere letta
come la storia dei rischi “professionali” legati al suo esercizio: quando l’attività del pensiero divora
tutte le altre, l’intelligenza superiore del mondo delle idee si paga con un’assenza di giudizio in
quello degli affari umani. Le strade della città non sono più sicure per i filosofi, e l’evidenza di una
filosofia politica, sulla base di queste considerazioni, diventa, dal 399 a.C. in poi, del tutto
problematica.
5
La caratteristica principale del dialogo socratico è la forma persuasiva del discorso: il dialogo è inteso come
arte dell’interrogare e del rispondere. Il dia-logos è un luogo in cui gli argomenti attraversano interlocutori
diversi, e i suoi aspetti qualificanti sono:
- l’implicazione di una condivisione di regole discorsive. Il dialogo, cioè, non è un libero scambio di opinioni,
ma ha delle regole, che servono a favorire la possibilità per ciascuno di esprimere la sua opinione;
- la funzione politica, perché esso coincide con l’attivazione di uno spazio pubblico. Ciò che condiziona il
dialogo filosofico non è quindi tanto il contenuto, quanto piuttosto il metodo. Il dialogo non è uno scambio
intimo, nè uno scambio di confidenze: oggetto del dialogo sono sempre questioni sugli stati del mondo. Il
dialogo è la ‘traversata’ di qualcosa con la parola; il dialogo, inoltre, permette di considerare più punti di
vista, più prospettive, più sguardi: anche questo è un contenuto politico del dialogo. Sarà, precisamente, la
forma dialogica della filosofia ad essere messa in questione dalla morte di Socrate, e sostituita dalla forma
dialettica.
6
Pluralità, non pluralismo: pluralità è termine molto più radicale, perché implica che ciascuno di noi è
portatore di un punto di vista separato sul mondo, indica che noi siamo individui singolari e distinti, separati.
Senza pluralità non vi sarebbero potute essere, ad Atene, né filosofia né politica. Sul termine, cfr. Arendt
(1989) cap. IV.
7
Tra le definizioni platoniche di filosofia vi è quella della filosofia come pharmakon, ovvero veleno e cura
nel medesimo tempo.
Se, a questo punto del ragionamento, si accredita l’opinione diffusa, secondo la quale Platone è il
padre della filosofia e il pensatore della conoscenza per mezzo delle idee - eterne, semplici, assolute, se l’allegoria della caverna offre la sintesi più densa del suo pensiero, se è vero che ancora oggi,
dopo duemila anni, le si attribuisce un valore pressoché iniziatico, diventa interessante interrogarsi
sulla portata dei suoi significati.
Il principale motivo per cui abbiamo deciso di riaprire l’abusato dossier platonico della Caverna, si
traduce dunque nel tentativo, tramite un metodo filosoficamente atipico, di capire se, in definitiva,
la filosofia politica non giudichi, oggi, la politica soltanto in termini utilitari, non disponendo quindi
di categorie per apprezzare i suoi aspetti vari, quali ad esempio gli aspetti espressivistici; per capire,
in altri termini, se, dopo Platone, conciliare filosofia e contingenza sia ancora possibile, o se,
invece, la “deformazione professionale” conseguente all’uscita dalla caverna platonica non abbia
avvalorato il rapporto tra profondità filosofica e cecità politica.
2.
Giocare per spiegare
Perché utilizzare la teoria dei giochi per interpretare una allegoria, per giunta così complessa e
controversa, come quella platonica della Caverna? Quale è il valore aggiunto? La nostra
giustificazione si fonda su una serie di punti, che partono da una premessa generale. Comprendere
richiede, infatti, una organizzazione del pensiero e una disciplina che può essere offerta solo da una
teoria. L’ambizione, in questo senso, è quella di scoprire punti di vista non affatto scontati senza il
chiarimento intellettuale della teoria in questione. La nostra scelta, come detto, è caduta sulla teoria
dei giochi, e quindi su un tipo di narrazione che è stata recentemente definita come “analitica”
(Bates e altri 1998).
Impiegare la teoria dei giochi permette, in particolare, di integrare aspetti idiografici con aspetti
nomotetici (de Mesquita 1996). Una narrazione analitica richiede, infatti, che il ricercatore
identifichi chiaramente gli attori chiave, le loro considerazioni strategiche e i vincoli più rilevanti
che affrontano. A sua volta, tali specificazioni dipendono da una dettagliata conoscenza dell’oggetto
di studio8. In questo senso, una storia possiede uno sfondo, un inizio, una sequenza di scene e un
finale. Contiene, in altri termini, gli elementi cruciali di un dramma. Ma come tutti i drammi, anche
le storie possono essere elusive e numerose spiegazioni delle stesse possono esistere fianco a fianco.
Come valutare il merito di ognuna di queste diventa quindi un compito difficile, ma al tempo stesso
ineludibile.
Il passo successivo consiste nel costruire un modello specifico che indichi i legami tra variabili
indipendenti e dipendenti, e che conduca ad un resoconto dei meccanismi causali. Quali sono i
valori dei parametri del gioco (preferenze, sequenza di mosse, informazioni, aspettative, vincoli)
che permettono di ottenere, come equilibrio, una soluzione che coincide con ciò che ci racconta la
storia? La logica della teoria pone, in questo senso, dei vincoli sulla narrazione. Ma proprio perché
le implicazioni della teoria devono trovare conferma in quanto raccontato, la teoria è essa stessa
influenzata dalla storia. Il nostro uso della teoria formale è, da questo punto di vista, “problem
driven”: siamo cioè motivati dal desiderio di offrire una spiegazione relativa a particolari eventi, e
nel fare ciò, cerchiamo di controllare, sulla base delle assunzioni che facciamo nel gioco, la
plausibilità o la non plausibilità di interpretazioni alternative per una medesima conclusione.
8
L’applicazione della teoria dei giochi a fenomeni letterari, compreso storie, novelle, opere, sceneggiature,
poemi, è ancora ai suoi inizi, anche se in crescita. Per una eccellente rassegna, si veda: Brams (1994). Per
uno dei primi lavori a questo riguardo, applicato allo studio della Bibbia: Brams (1981).
In questo modo, anche il gioco (e la semplificata ricostruzione che noi diamo, nel gioco,
all’allegoria della Caverna) è oggetto di una normale (e salutare) discussione. Le nostre assunzioni
sull’ordinamento di preferenze dei giocatori, corrispondono a quello che è conosciuto? Oppure
esistono delle (ragionevoli) alternative? La forza euristica di un gioco consiste proprio nel rendere
tali assunzioni esplicite: chi non è d’accordo, può sempre decidere di cambiarle e controllare in che
modo, di conseguenza, gli equilibri varino.
Come si avrà modo di vedere, questa è una strada che anche noi percorriamo, quando, ad esempio,
introduciamo un controfattuale in riferimento alle scelte compiute dal “filosofo” nella caverna. Fare
inferenze controfattuali è, d’altra parte, inevitabile in qualunque campo in cui i ricercatori vogliono
arrivare a delle conclusioni relative ad una relazione causa-effetto, ma dove non si può ricorrere ad
esperimenti di laboratorio o ad una analisi comparata (Tetlock – Belkin 1996). E se questo è vero in
molti episodi storici, nel caso di una allegoria è davvero l’unica scelta che rimane disponibile nel
cassetto degli attrezzi.
La teoria dei giochi è decisamente bene attrezzata a questo riguardo. Quello che un gioco permette
infatti di fare, è di manipolare le condizioni che definiscono l’equilibrio del modello, in modo da
poter osservare come delle variazioni nelle variabili esogene siano in grado di generare dei
cambiamenti nel risultato finale, e, in particolare, di alterare le strategie scelte in equilibrio dai
protagonisti (Weingast 1996)9. Sotto quali circostanze (e in particolare, per quali valori dei
parametri del gioco) sarebbero stati possibili differenti finali della storia in questione? Per rivolgerci
a queste questioni, è tuttavia necessario tornare a Platone.
3.
Essere degni di Atene: Pericle e Platone
Prima di entrare nella Caverna, e mettere così alla prova l’assunto generale della teoria dei giochi,
può essere utile un confronto con un’altra prospettiva sulla città, contemporanea e speculare a quella
platonica: la prospettiva di Pericle.
Nell’inverno del 430 a.C., allo stratega più apprezzato dall’intero mondo greco venne affidato un
compito difficile e solenne: pronunciare il discorso funebre per i caduti nel primo anno della Guerra
del Peloponneso:
“La fede nei meriti di un gruppo numeroso di uomini non dovrebbe dipendere dall’eloquenza più o meno
abile di uno solo. Poiché gli accenti di un discorso pronunciato in questa circostanza, in cui tanto fluida e
varia è nel pubblico attento l’impressione della verità, devono vibrare in misurato equilibrio” 10.
Pericle inizia così il suo discorso, ammettendo, fin dalle prime battute, davanti a coloro che lo
ascoltano la difficoltà che si trova ad affrontare: il problema di Pericle, infatti (e che Pericle stesso si
pone) è come usare il logos, ovvero come fare un discorso che sia all’altezza dei fatti, delle azioni di
uomini tanto illustri. Rendere una lode evidente per mezzo di prove, parlare in maniera adeguata
all’agire: Pericle distinguerà, nel suo discorso, tra onori dimostrati con i fatti (to ergo) e onori
espressi con un discorso (to lógo), conferendo senza incertezze il primato agli onori conferiti con i
fatti. In altri termini, in Pericle la verità fattuale supera lo “splendore delle parole”11.
Anche in guerra, dal punto di vista di Pericle, quello che conta non sono gli astuti preparativi, ma
l’azione. Affrontare con il proprio corpo l’azione, questo è tipico dell’individuo greco, per il quale
la terra è la tomba (“la terra intera è la tomba per gli uomini illustri”). Lo spostamento del fuoco dal
9
In questo senso, noi deriviamo delle implicazioni dalla teoria; ma quando la storia non conferma le nostre
aspettative, non rigettiamo il modello. Al contrario, rispondiamo a questa sfida riformulandolo.
10
Tucidide (1992) pp.112-120.
11
Cfr. Arendt (1995) e Tucidide (1992; 40).
piano del logos al piano dell’azione, implica nel discorso di Pericle uno spostamento dall’uomo al
singolare agli uomini al plurale. In Platone, il processo è inverso: il punto di vista platonico, più
complesso e meno “civico”, osa mettere in gioco l’unicità senza appartenenze, e affidare ad essa il
senso della relazione. I due autori hanno un elemento in comune, il medesimo scopo: essere degni
della città di Atene12, ma divergono profondamente sulle modalità relazionali nei confronti della
città, e sulle semplificazioni adottate per risolvere i conflitti di valori presenti in essa: la tesi
platonica, come vedremo più avanti, è quella di riuscire a pensare la filosofia in maniera nuova,
come una filosofia senza territorio, una prospettiva deterritorializzata sulla filosofia. La filosofia di
cui ha bisogno lo spazio della politica, dal punto di vista di Platone, non è tribale nè comunitaria. E’
piuttosto un luogo, senza alcuna sostanza omogenea o territoriale, che può sorgere e scomparire in
qualsiasi parte della terra. Lo scopo principale di Platone (Platone post-socratico13) è la creazione di
un ordine, laddove il progetto della “tollerante urbanità” periclea si traduce nel richiamo degli
ateniesi ai principi primi della città: ricordatevi di quello che siete stati, di quello che siete, di quello
che dovete essere, questo è il monito di Pericle agli ateniesi. Un richiamo, in altri termini, agli
standard fondativi di Atene, gli standard di eccellenza cui la città di Atene si è ispirata, vale a dire le
premesse e le promesse all’origine della città. Il conflitto tra valori, suggerisce il discorso di Pericle,
non è uno stato patologico, un problema da eludere o neutralizzare. E’ l’esito della libera capacità
valutativa degli umani, che procede in direzioni diverse. A volte, è possibile trovare un minimo
comune denominatore, ma non si tratta di un esito obbligato.
La revisione del vocabolario etico messa in atto da Pericle (in un periodo particolare della vita di
Atene) corrisponde ad un resoconto pluralistico della moralità, un resoconto che accetta:
• che non tutti i valori e i fini perseguiti dagli esseri umani, oggi come ieri e domani, siano tra
loro necessariamente compatibili;
• che i fini ultimi, i valori intrinseci degli individui non sono riducibili ad alcuna sorta di
“sintesi finale”;
• che i valori o i fini in sé, entro la stessa comunità – o versione morale del mondo –
configgono tra loro.
Se, dal punto di vista di Pericle, i conflitti tra valori fanno parte di ciò che i valori sono per noi e, in
ultima istanza, di ciò che noi stessi siamo, la visione normativa di Platone è una visione di monismo
radicale, secondo la quale:
a)
tutte le domande su come vivere devono avere una e una sola risposta vera – in caso contrario,
le domande non sono domande genuine;
b)
deve esserci da qualche parte, a disposizione di soggetti agenti attivi, una via di accesso alla
verità;
c)
le risposte vere alle differenti domande devono essere tutte compatibili fra loro e formare un
insieme armonico e coerente.
12
Quella che si potrebbe definire la “questione della cittadinanza”: non a caso, il titolo originale della
Repubblica è, più correttamente, Politeia, cittadinanza.
13
L’ambivalenza di Socrate, figura storica e attore di dialoghi, spiega lo sdoppiamento della sua persona
messo in atto dall’allievo: esiste il Socrate dei dialoghi socratici, nei quali si dialoga per dialogare (da cui le
critiche di inconcludenza); e il Socrate dei dialoghi platonici, nei quali si dialoga per trovare un punto fermo
(es. La Repubblica). Tale sdoppiamento di personalità porta, comunemente a riconoscere un Platone
socratico/antisocratico, laddove il presente lavoro si situa lungo la linea di Platone ante-socratico/postsocratico.
4.
“Fare cose con parole”: l’allegoria della caverna.
“Se potessero mettere le mani su un tale uomo, lo ucciderebbero”14. In questo modo termina
l’allegoria platonica della caverna. Il condannato a morte in potenza è il filosofo: tuttavia, nella
storia di Platone non viene menzionato alcun nemico; nella loro caverna i molti vivono
pacificamente, semplici spettatori di immagini, non coinvolti in alcuna azione e dunque non
minacciati da nessuno. Cerchiamo di comprendere la singolare topografia platonica.
La Caverna, in primo luogo, non è un mito, ma un’allegoria, un testo cioè fortemente strutturato in
cui ogni immagine implica un répondant concettuale, in generale chiaramente definito. In realtà,
oggetto dell’allegoria non è esporre la teoria platonica della conoscenza, ma applicare questa teoria,
i cui elementi sono, Platone presuppone, già noti a colui che legge. Per questo motivo, essa non
costituisce una enclave nel testo principale, al contrario si lega direttamente alle discussioni iniziate
nei libri precedenti15. L’allegoria descrive un’ascensione, un progresso, il cui termine superiore, il
consenso è su questo punto unanime, è la conoscenza per mezzo delle Idee. Ciò che è significativo e
distintivo, e quindi luogo di controversie, è l’interpretazione del punto da cui il progresso parte, la
condizione drammatica dei prigionieri, votati allo spettacolo delle ombre.
La scena: una profonda caverna, in fondo alla quale sono incatenati – al collo e ai piedi - degli
uomini (che quindi sono prigionieri), con il volto girato verso il muro. Alle loro spalle corre un
sentiero, su cui sfilano altri uomini e oggetti vari. Dietro il sentiero brucia un fuoco, e ancora più
lontano si trova l’entrata della caverna, illuminata all’esterno dal sole. I prigionieri non possono
girare la testa: l’unica cosa che possono vedere è il muro in fondo alla caverna, sul quale osservano
il passaggio delle ombre proiettate da coloro che sfilano continuamente sul sentiero (ma vedono
anche le ombre di loro stessi, e degli altri prigionieri, dal momento che il cono d’ombra proiettato
dal fuoco non passa al di sopra delle loro teste, ma li illumina, e proietta le loro ombre sul muro di
fondo, come in una sala cinematografica in cui il proiettore fosse mal regolato). Poichè non possono
percepire nient’altro che queste ombre, i prigionieri le scambiano per la realtà e concentrano tutta la
loro attenzione sull’ordine in cui si susseguono. Alcuni diventano molto abili e, scoprendo certe
regolarità nel passaggio delle ombre, riescono a prevedere il ritorno dell’una o dell’altra.
Un giorno uno dei prigionieri si libera dalle catene: si alza a fatica, si volta con un grande sforzo,
scopre il sentiero, gli uomini che passano, gli oggetti e il fuoco. Si trascina fino all’uscita della
14
Platone (1970). Per i riferimenti specifici alla allegoria della Caverna, vedi Appendice letteraria. Sito
internet: http://www.filosofico.net/.
15
Sembra opportuno, a questo punto del ragionamento, fare un breve cenno alla struttura specifica del
dialogo: la Caverna fa parte di quelle che gli inglesi chiamano “le tre figure” (Sun, Line and Cave) del
movimento dell’allegoria: il sole è la figura chiave, simbolo del Bene; permette la vista ed è visto grazie ad
essa. Esso è nel mondo visibile quello che il Bene è nel mondo intelligibile: è il riflesso del Bene, poiché dà
agli oggetti visibili quello che il Bene dà agli oggetti intelligibili, non solo la facoltà di essere conosciuti, ma
la loro essenza. La linea è presentata, nel libro che precede la caverna, come un complemento di
specificazione della successiva caverna: in essa sono rappresentati i quattro livelli platonici della conoscenza:
l’eikasia, o capacità di cogliere le immagini, la pistis, comunemente tradotta con “credenza”, la dianoia, che
corrisponde alla conoscenza matematica, e infine la noesis, o conoscenza delle idee.
Lo schema concettuale sotteso al paragone della caverna è l’analogia A:B = B:C. Il mondo della caverna (A)
sta al mondo dei sensi (B) come il mondo dei sensi (B) sta al mondo delle idee (C). Il fuoco nella caverna sta
al sole come il sole sta all’idea del bene. Nell’analogia A:B=B:C, B costituisce il medio geometrico: il
campo medio del paragone, il mondo sensoriale, da una parte è sovraordinato al mondo della caverna,
dall’altra è subordinato al mondo delle idee. Il mondo in cui ci troviamo viene dunque definito, per così dire,
da entrambi i lati. La funzione principale dell’analogia consiste nel fatto che essa aiuta a comprendere
qualcosa che prima di essa era sconosciuto (il mondo delle idee). L’analogia fa apprendere ciò che va oltre la
capacità di immaginazione.
caverna: finalmente è fuori. La luce del giorno lo acceca al punto che non vede più niente: egli deve
abituarsi alla sua nuova situazione, al suo nuovo ambiente, contemplando dapprima non le cose
illuminate, ma le loro ombre, oppure i loro riflessi nell’acqua. A poco a poco si abitua alla luce del
giorno, riesce a vedere anche il sole. Il prigioniero non può tenere per sè questa scoperta, scrive
Platone: dopo il viaggio nell’iperuranio, il cielo delle idee, decide di ridiscendere nella caverna.
Nella caverna però è così buio che l’uomo non distingue più niente: egli ha perso l’abitudine al
mondo delle ombre, qui è impacciato e più ignorante degli altri, e diventa lo zimbello di tutti.
Un presupposto più generale sembra ispirare tutti i commentatori dell’allegoria. Essi trattano questo
frammento della Repubblica come se Platone si fosse proposto di includervi tutta la sua dottrina, una
dottrina propriamente speculativa, riguardante “i rapporti dell’essere e della conoscenza”, o,
seguendo Jaspers, “la condizione umana”. E, in effetti, è la complessità stessa del testo di Platone a
spiegare la presenza di molteplici interpretazioni unilaterali (cui seguono talvolta controversie
sterili), che hanno spesso ragione in ciò che affermano, e torto in ciò che negano: ma sono proprio
tali interpretazioni che permettono di attirare l’attenzione su questa complessità, senza gettare la
spugna, nè accusare Platone di avere, volontariamente oppure no, truccato le carte.
La caverna contiene, dunque, tutta la filosofia di Platone: gli aspetti principali del pensiero platonico
sono qui presentati in forma concentrata. Nella caverna viene rappresentata la condizione umana, la
situazione dell’uomo nel mondo. La caverna descrive un processo educativo, una paideia intesa
come continuo scioglimento (o riconversione dello sguardo - educare, significa per Platone orientare
come si deve l’occhio) e liberazione: la liberazione conduce, in un secondo momento, a un legame
volontario che si basa sulla comprensione. Il mondo della caverna, per certi versi, come il mondo dei
litigi politici: qui si può guadagnare onore e riconoscimento, ma anche essere perseguitati e uccisi. Il
dialogo è orientato da alcune questioni, introdotte in successione, e che divengono preoccupazioni
costanti e ricorrenti:
è possibile la politeia?
quali sono i veri filosofi?
come scegliere i veri filosofi?
saranno capaci?
non si corromperanno?
saranno accettati?
accetteranno il loro incarico?
Il frammento dell’allegoria è come incastrato e incastonato in una inchiesta più generale sulla città e
sul suo governo: nessun problema di governo sarà trattato a fondo, scrive Platone, finchè non sarà
affrontata la questione del Bene, principio delle virtù, e fine ultimo dei guardiani della città.
La tecnica rappresentativa adottata da Platone nell’allegoria rende evidente, in primo luogo, quale
sia l’attività predominante all’interno della caverna, prima dell’uscita di uno dei prigionieri: se,
infatti, il particolare meccanismo di proiezione fa in modo che i prigionieri siano, nello stesso tempo,
soggetti e oggetti della rappresentazione, il fatto che gli uomini seduti siano legati in modo che non
possano muovere neanche la testa, li costringe a una sola attività: il vedere16. “Catturati in un
meccanismo rappresentativo di cui nulla sanno, i prigionieri vedono ombre mobili sulla parete della
caverna che sta loro di fronte. Vedono l’ombra dei simulacri e la propria. Quel che è certo è che essi
sono spettatori coatti”. Altrettanto certo è il fatto che l’occhio platonico è turbato due volte: per il
16
Sulla relazione tra “visione” e caverna, cfr. Cavarero (1999), pp. 205-225: “Senza la grammatica del vedere,
il mito della caverna non tiene. A partire dal lessico che chiama “le cose che sono” idee (cfr. il verbo orao in
greco), Platone non può parlare di filosofia se non in termini di visione”. Una questione interessante potrebbe
allora essere se la vista del filosofo sia una vista “migliore” rispetto a quella degli altri individui, e, se sì, per
quale motivo.
passaggio dall’oscurità alla luce, e per il passaggio inverso. Il racconto della caverna, in un certo
senso, costruisce il suo asse sul rivolgimento dello sguardo. E’ il rovesciamento dello sguardo del
filosofo a creare la struttura (dietro a lui, le ombre, davanti a lui, le idee), che si pone quindi nei
termini di una opposizione, di un rovesciamento, e di una doppia inversione: la prima, dal mondo
sotterraneo al mondo esterno, la seconda, dal mondo esterno al mondo sotterraneo. Il prigionierofuturo filosofo fa due mezzi giri su se stesso, e si produce la distinzione tra due mondi: nell’ambito
di questa inversione dello sguardo, scrive Cavarero, “la maggiore sofferenza tocca agli occhi, ma
quello che qui interessa non è il transito ontologico da un regno di parvenze materiali, visibili con gli
occhi del corpo, a un regno di essenze immateriali, contemplabili con gli occhi dell’anima. La
metafora platonica dello sguardo mette fuori gioco, magicamente, la facoltà corporea che la ospita: il
corpo scompare quasi subito, nella caverna”17. L’esatto contrario, come si diceva più sopra, di ciò
che avviene nello spazio abitato da Pericle. Tuttavia, non è solo il corpo a perdere di peso: prima
dell’uscita, anche la voce sembra non assumere rilevanza degna di nota. In altri termini, Platone si
dimostra , fino al punto in cui ci troviamo, un buon tecnico delle luci, e un cattivo tecnico del suono:
l’allegoria è, infatti, tutta proiettata verso il sole18.
Ma la storia non è così lineare, dal momento che Platone non si limita a inventare una storia che
narra di una strana sala di proiezione, in cui siedono ancor più strani spettatori: egli è anche, in un
certo senso, il primo a entrare nel gioco da lui inaugurato, e vi entra vestendo i panni di almeno due
personaggi: prima Socrate, poi Platone19.
Il primo nodo da sciogliere è, quindi, rappresentato dai prigionieri e dalle ombre, e la prima
questione cui trovare risposta riguarda il significato delle ombre. Nella letteratura si contrappongono,
a questo proposito, due tesi: secondo la tesi cosiddetta “fenomenista” (o tesi “francese”), le ombre
rappresentano il “sensibile”, il mondo naturale, quello che noi percepiamo, gli esseri e le cose
concrete. Per Platone, questi oggetti dell’esperienza non avrebbero altra realtà che quella di
un’ombra, non sarebbero, cioè, che mere apparenze. Il primo senso della caverna, sulla base di
questa prima interpretazione mistico-fenomenistica, si risolverebbe nella conclusione che ciò che ci
circonda non è reale, e il mondo esterno non esiste. Le idee appartengono al mondo della
trascendenza, situate in un indefinito “aldilà”: tra un universo di fantasmi e il mondo delle Idee,
17
Autorizzando, così, la prima delle due interpretazioni della caverna di Cavarero: “La caverna è il mondo
ordinario della percezione sensibile che, per Platone, non coglie che apparenze, mere parvenze, ombre. In tal
senso, essa rappresenta il mondo della sensibilità corporea che il filosofo abbandona per andare ad abitare nel
mondo vero delle idee che si contempla con il puro pensiero. Già annunciata da Parmenide, l’inversione di
realtà che consegue a questo gesto pone come vero e reale il mondo del puro pensiero e come falso e irreale
il mondo in cui gli uomini vivono in carne e ossa. Propriamente parlando, infatti, i contemplatori di idee non
hanno carne e ossa: essi se li lasciano alle spalle, insieme a quel mondo di parvenze che non abitano più con
la mente ma solo con il corpo. Si spiega così quella celebre identificazione della filosofia con la morte che
Platone descrive più volte… il filosofo è morto per il mondo, e tale appare agli altri, proprio perché è andato
ad abitare altrove, nel regno del pensiero, in un altro mondo. Egli è un morto in vita”.
18
Cavarero (1999): “Qui, la filosofia consiste per Platone nella contemplazione delle idee, un ultramondano
contemplare. Il guaio è, come sottolinea Arendt, che il filosofo non si limita a identificarsi nei suoi esercizi
contemplativi di essenze immutabili ed eterne. Egli decide che la contemplazione è l’attività umana per
eccellenza e la adotta come misura politica (corsivo mio). Vedere, piuttosto che agire, è ciò che, per Platone,
rende umani gli uomini”. In altri termini, i problemi cominciano, nell’opinione di Arendt e di chi scrive,
quando il filosofo decide di rientrare nella caverna. Cfr. ancora Cavarero su questo punto: “… bizzarra è
l’idea di sostituire l’orizzonte dell’ascolto con quello della visione, trasportando gli effetti di una pratica di
ordine fonetico entro una pratica di ordine visivo. Il filosofo non può ovviamente farne a meno, visto che la
contemplazione è la sua specialità. Né può fare a meno di misurare l’umanità degli umani sul vedere, se non
sul contemplare. Sennonché la cosa non funziona senza artifici. Per tenere immobili i prigionieri, con gli
occhi fissi sulle loro visioni, il filosofo ha bisogno di trucchi e marchingegni.
19
Sulla playfulness al centro dei dialoghi platonici, cfr. Freydberg (1997).
filosofare diventa “imparare a morire”20. Si tratterebbe, però, di una conclusione assai singolare, da
parte di uno dei filosofi del mondo greco più preoccupati dell’azione politica. Questa prima
conclusione ha, del resto, il merito di individuare nelle “immagini” (registrate da Platone come
illusioni) una delle principali ossessioni di Platone, su cui sarà opportuno tornare21.
Alla tesi fenomenista segue la cosiddetta tesi della “linea”, o tesi “inglese”: la “linea”, cui Platone fa
riferimento nei capitoli precedenti l’allegoria, traccia anticipatamente la mappa della regione in cui si
svolge il viaggio descritto nella Caverna: essa enumera i quattro gradi, le quattro tappe che lo spirito
umano deve attraversare per accedere alla conoscenza perfetta22. In questo caso, l’itinerario del
prigioniero rappresenta una sorta di genesi ideale della conoscenza, di cui le ombre
rappresenterebbero il grado zero, e le idee il principale criterio di orientamento nel mondo.
Ma la caverna, per come viene descritta, è reale, non ideale: “La caverna è un luogo preciso del
mondo: Atene, il cui tribunale ha mandato a morte Socrate. In tal senso, più che rappresentare il
mondo della percezione sensibile, essa rappresenta un determinato mondo politico: il mondo della
polis democratica, che Platone disprezza”23. Un mondo dove tornare, tuttalpiù, per farvi ordine: in
altri termini, seguendo la seconda tesi, Platone imbastirebbe una requisitoria severa contro le
pratiche della democrazia ateniese, e farebbe tornare il filosofo nella caverna, ma per imporvi il
proprio criterio.
In tal senso, si potrebbe anche sostenere, parafrasando Austin, che la caverna è una situazione in cui
dire è fare24. Nella caverna le parole fanno cose, e parlare è fare: se la caverna è la città ingiusta,
20
Tra misticismo e dottrina dell’evasione, il primo esito sembrerebbe l’evasione. Cfr. N. Loraux, “Donc
Socrate est immortel”, in Le temps de la réflexion, III, 1982,
21
I prigionieri non hanno alcun sospetto di un’altra realtà rispetto a quella che vedono; e, se fanno delle
ipotesi, le fanno sulla sfilata delle ombre, e non su ciò che essa potrebbe significare o rappresentare.
Un’immagine, in senso platonico, conserva qualcosa dell’originale (altrimenti non sarebbe un’immagine), ma
essa si situa a un livello di verità inferiore. Il mondo della caverna, così come Platone lo rappresenta, è un
mondo degradato, illusorio: immagini di immagini, simulacri di simulacri.
22
Cfr. nota 15.
23
Cavarero (1999), pp. 212-213.
24
Austin (1955). “Fare cose con le parole”: potrebbe essere interessante mettere la questione platonica in
risonanza con le analisi di Austin sull’atto performativo: in altri termini, l’atto del filosofo è locutorio,
perlocutorio, o illocutorio? Si può affermare che il filosofo non è quello che dice, ma quello che fa?
Chi performa l’atto linguistico, si trova di solito in una posizione di autorità: si può affermare lo stesso nel
caso del filosofo? Se si considera il linguaggio del filosofo come il linguaggio di una minoranza, e, come tale,
vulnerabile alle minacce dei prigionieri nella caverna, si cercherà di proteggere tale minoranza; se, al
contrario, si considera il discorso del filosofo come un discorso dominante, ci si pone il problema dell’autorità
che esso può contenere. Questa è la grande differenza tra le due prospettive: il discorso filosofico come
discorso di un gruppo dominante (ipotesi a), il discorso filosofico come discorso di un gruppo perseguitato
(ipotesi b). Se è vera l’ipotesi a, il ragionamento sull’autorità e sull’autorevolezza diventa dominante: quello
che conta, nel discorso filosofico, è la sua autorevolezza in un ambito ben preciso: la caverna-città. Il filosofo
dice ai suoi ascoltatori quanto valgono, li classifica, prescrive quali mosse sono appropriate nel gioco della
caverna, come si vedrà successivamente. Accettare il rientro del filosofo, da questo punto di vista,
legittimerebbe un comportamento discriminatorio, in cui si toglie all’altro il potere, mettendolo in una
posizione di inferiorità. Il discorso filosofico avrebbe il risultato di zittire tutti gli individui. Le implicazioni di
subordinazione del discorso filosofico vanno oltre l’ambito dello stesso filosofo: si tratta di un addestramento
su come trattare gli individui nella caverna.
Se si accetta questo esperimento di confronto con le tesi di Austin, si profila un conflitto molto forte tra la
libertà del filosofo, e l’eguaglianza dei prigionieri nella caverna. La libertà di parola del filosofo
coinciderebbe così con il silenzio dei prigionieri. Non sarebbero cioè, per usare una felice espressione di
Katharine MacKinnon, soltanto parole: poiché la parola del filosofo avrebbe il luogo illocutorio di produrre
disuguaglianze. Diseguaglianza di status, e quindi diseguaglianza di potere. “La tua parola dipende dal mio
perversa o pervertita, in cui tutto è falso, i prigionieri non desiderano nulla, non hanno alcuna idea di
cosa sia una verità che li libererebbe dalla finzione: l’oppressione che subiscono è tanto più tirannica
in quanto anonima e indolore.
La svolta del filosofo diventa, a questo punto, cruciale: il problema non è tanto il fatto che rientri, ma
il modo in cui rientra, poichè è proprio facendo rientrare il filosofo nella caverna, trasportando la
rassicurante stabilità delle idee nel mondo incerto, mobile e rischioso della politica, che il filosofo
platonico diventa uomo di pensiero invece che di azione, e fonda l’eccellenza umana sul vedere
invece che sull’agire, sovvertendo lo statuto stesso della politica. Ci si potrebbe chiedere, a questo
punto: il gesto del filosofo che rientra nella caverna, è un gesto paternalistico? E la caverna, sarebbe
un caso illegittimo basato su una prospettiva di paternalismo forte della filosofia, il primo caso di
paternalismo forte filosofico? L’allegoria, tuttavia, risponde a tali questioni con una conclusione
tragica: “Il suo ritorno nel mondo di sotto si rivela tuttavia un insuccesso. Gli abitatori della caverna
non gli prestano ascolto, anzi, lo deridono. Intenti a contemplare ombre da tutta una vita, essi non
possono credere al mondo di luce di cui racconta… Qualcosa, dunque, nel ritorno, non funziona:
l’opera filosofico-politica è inapplicabile al mondo della caverna”. Cerchiamo di capire perché.
5.
politica, non Metafisica: la tensione tra verità e opinione
La forza con cui Platone impone il progetto di una riforma radicale dell’individuo, riforma tesa a
rendere quest’ultimo indipendente e non esposto a quello che Nussbaum definirebbe il potere
instabile di un’illimitata contingenza25, contribuisce ad escludere dalla nostra interpretazione il punto
di vista “mistico”, di conversione: quello che a noi interessa è il lato politico della questione, ovvero
il ritorno dell’individuo nella caverna. Il ritorno è il ritorno del filosofo-politico, il quale se seguisse
il suo solo desiderio, resterebbe a contemplare il vero, laddove egli scende di nuovo nella caverna
per cercare di salvare anche gli altri. Il rischio è quello di non essere creduto (a tale rischio la teoria
dei giochi apporterà un interessante contributo, nella seconda parte).
Platone è, dunque, interessato a trovare uno spazio per la singolarità all’interno della pluralità
umana: questo è il suo focus, e per mettere alla prova la posizione platonica diventa necessario
sperimentare differenti posizionamenti nella caverna. Michael Walzer, un filosofo americano
contemporaneo, si è a lungo occupato di questi possibili posizionamenti della filosofia politica,
facendo esplicito riferimento all’argomento platonico nell’ambito di una riflessione sul senso
dell’attività critica: la domanda iniziale che Walzer si pone è da dove si vuole partire per criticare.
Ma cosa significa “criticare”? Criticare significa fare le differenze all’interno di un dato contesto,
distinguendo ciò che in quel contesto è accettabile oppure non lo è. Criticare significa “separare il
grano dall’olio”, tracciare delle linee, avere il senso del limite: quando si parla di critica, è altrettanto
importante stabilire la distanza, la misura, dal contesto che si vuole criticare. Sulla base di tali
silenzio. La mia parola implica una limitazione della tua libertà”. Il silenzio, in questo caso, è un fatto
politico: non si pensa ad un suo coté esistenziale: è una questione di potere, di dominio e subordinazione. Si
tratta del rapporto dei prigionieri con la libertà di parola, che sembra essere riservata a coloro che escono e
rientrano. Il “free speech” di coloro che escono (i filosofi) coincide con l’abuso che essi possono compiere su
coloro che restano dentro la caverna. La caverna diventerebbe, in questo modo, la scena della
rappresentazione di una forma di internalizzazione del dominio attraverso il silenzio.
25
Nussbaum (1996), p. 12 e segg.: “Vi sono oggetti ideali che non soffrono corruzione alcuna; la
contemplazione di tali oggetti è un’attività perfetta, su cui difficilmente può agire il potere instabile della
fortuna. La conclusione è che “la virtù è senza padroni” (arete de adespoton), come attesta l’araldo di Lachesi
nel mito di Er, nell’ultimo libro della Repubblica: ciascuno ne possiede tanta quanta si è dato pena coltivarne.
Si può venir lodati per la propria virtù proprio perchè di essa si è – fino in fondo – responsabili”. Questo è il
cruciale argomento platonico: l’idea di un soggetto agente attivo, teso al controllo della ragione sulle proprie
parti meno razionali (alias corpo) e all’eliminazione del potere delle circostanze esterne sulla vita
dell’individuo, fiducioso soltanto nei beni non vulnerabili e non esposti alla fortuna: cioè stabili e immutabili.
premesse, Walzer ha definito il posizionamento nella caverna, vale a dire nelle strade della polis,
come la “scelta di Socrate”, e il posizionamento fuori dalla caverna come il posizionamento
platonico di colui che mette ordine nella sfera degli affari umani. La scelta di Walzer ricade sul
primo dei due posizionamenti: il filosofo deve abitare la caverna, non può pretendere una posizione
esterna, o superiore, se vuole avere autorevolezza, o, seguendo le parole di Walzer, “non si guarda la
città da una montagna troppo alta”.
La figura di critico che Walzer disegna su queste basi è una figura di critico connected, ovvero
implicato, coinvolto con le pratiche e le forme di vita cui vuole parlare: un critico che si pone on the
ground, ovvero all’altezza della città, delle sue premesse e delle sue promesse, e poi la giudica. La
questione della critica e la questione della distanza sono, quindi, in Walzer estremamente legate: la
critica esige di non essere “impigliati” dallo stato delle cose. Il rischio associato a una critica
connessa è quello di non lasciare al critico sufficiente spazio di manovra, con i rischi di complicità e
apologetica ad esso connessi. Il rischio dell’essere connessi, in sintesi, è l’essere inglobati dallo
status quo (come si vedrà, la relazione tra preferenze e status quo acquista un valore fondamentale
nel dilemma del gioco). Compito del critico è fornire analisi convincenti ed efficaci della situazione.
Il critico è qualcuno che separa. Non è un rivoluzionario. Sa abitare, ma anche stare fuori (tipico,
questo, della figura di Socrate). La critica à la Walzer non possiede alcuna autorevolezza: se il
critico non convince, va a casa. Lo sfondo su cui il critico lavora è il senso comune cui si faceva
cenno a proposito di Kant, ovvero il senso dell’orientamento condiviso in una forma di vita: egli
deve essere capace di lavorare in questo spazio, senza restarne tuttavia prigioniero. Il modello del
critico connesso non è la conversione, è la persuasione, ovvero la capacità di lavorare in uno spazio
che rifiuta di evadere dai luoghi comuni, di distaccarsi della misura necessaria per poter essere in
grado di abitarli in modo soddisfacente, più decentemente, più coerentemente con le
premesse/promesse.
In tal senso, “Considerare la politica dalla prospettiva della verità, come ha fatto Platone
nell’allegoria della caverna, significa collocarsi al di fuori dell’ambito politico”26. Se, dunque, si
assume che la posizione esterna all’ambito politico, ovvero esterna alla comunità alla quale si
appartiene e alla compagnia dei pari, è uno dei vari modi di essere soli, si potrebbe accreditare la tesi
secondo cui chi dice la verità27 perde la sua posizione nel mondo (e, con essa, la validità di ciò che
egli ha da dire)? Ma per definire e argomentare, a questo punto, i due elementi della tensione
platonica messa in scena nell’allegoria, verità e opinione, occorre fare un passo indietro, e incontrare
nuovamente la figura di Socrate. Punto di partenza è l’esito della condanna a morte di Socrate, e le
sue conseguenze su Platone (lo choc platonico). Platone rimane profondamente colpito
dall’incapacità di persuadere i giudici da parte di Socrate, il quale avrebbe, secondo Platone,
sbagliato ad argomentare, sbagliato nel tentativo di persuadere i giudici. Per Platone questo metodo è
un metodo perdente.
Mettersi nell’attitudine di persuadere qualcuno significa proporre argomenti alla ragione
dell’interlocutore: proporre argomenti, ovvero non costringere e non fare pressione. La persuasione
esclude il ricorso alla forza, è una forma di discorso che esclude la manipolazione. La capacità
politica per eccellenza, la conoscenza specificamente politica di Socrate, è la capacità di visitare
punti di vista diversi dal proprio. Il mondo può essere visto da punti di vista plurali: dunque, noi
dobbiamo essere capaci non soltanto di tenere una posizione, ma anche di uscire da questa posizione,
per vederne altre, vedere dal punto di vista dell’altro.
26
Arendt (1990).
Colui che, in altri termini, prova a interferire negli affari umani e a ricorrere al linguaggio della persuasione
o della violenza. Figure esemplari dei modi di “dire la verità” sono: il filosofo, lo scienziato, l’artista, lo
storico, il giudice, il detective, il testimone, il cronista.
27
La morte di Socrate mette in questione, per Platone, la forma dialogica, come già sottolineato: gli
argomenti di Socrate, così convincenti per i suoi allievi, non lo erano stati per i giudici. Socrate non
è riuscito, in altri termini, a dimostrare ai giudici il carattere benefico della filosofia per la città.
Socrate non è, in sostanza, riuscito a convincere Atene del ruolo vitale della filosofia per la città.
Socrate si è basato solo sulla persuasione, è una forma di discorso inconcludente per sua natura: la
persuasione non garantisce risultati certi, e, soprattutto, la persuasione non garantisce il consenso
dell’interlocutore. Quello socratico è un metodo filosofico che si è sempre mosso all’altezza delle
opinioni. Un metodo, dunque, esposto al rischio di condanna.
La colpa di Socrate starebbe nell’aver considerato la doxa l’unica forma di conoscenza politica
potenzialmente conseguibile, laddove Platone, e la filosofia politica tradizionale che lo segue, non
potè non considerare, a partire dalla condanna a morte, la doxa corrotta e inaffidabile, un segno della
debolezza e dell’ignoranza umana. Perché questa diversa valutazione, perché questa diffidenza?
Perché la doxa è un punto di vista mutevole, provvisorio, che non aspira ad essere immediatamente
vero. Ha un carattere instabile, intrinsecamente mutevole, che provoca la diffidenza del filosofo, il
quale pensa che sia proprio sulla prevalenza delle opinioni maggioritarie che Socrate è stato
condannato.
L’opinione è all’origine del disaccordo politico, della divergenza, del conflitto. La filosofia politica
dopo Platone mira alla soluzione del conflitto, e, per farlo, deve neutralizzare le opinioni, la pluralità
di opinioni. Una stessa verità per tutti: la forma di conoscenza superiore, la verità, può essere
conseguita solo superando lo stadio rozzo e primitivo dell’opinione. Sulla dimostrazione, al
contrario, non esiste disaccordo: “la matematica non è un’opinione”. La filosofia politica
tradizionale, post-platonica, non vuole venire a patti con il fatto che gli umani sono in disaccordo tra
di loro. L’opinione, responsabile del disaccordo, è semplicemente una manifestazione della vita
umana che si può correggere.
Ma che cosa è la doxa? La doxa è ciò che dokei moi, “ciò che mi sembra”, ovvero ciò che a ciascuno
di noi appare del mondo. Mostrarsi, apparire, prendere la parola davanti agli altri: Socrate non solo si
muove all’altezza delle opinioni, ma l’opinione non è fantasia soggettiva o arbitraria; non è
capriccio, nè verità universale o assoluta. Non si dialoga su una verità. Lo status ambiguo
dell’opinione consiste proprio nel suo non essere fantasia soggettiva, né verità universale e assoluta.
L’opinione è il modo in cui il mondo si rivela a ciascuno di noi. L’opinione è un punto di vista in
senso letterale, cioè un punto da cui parte il mio ragionamento sul mondo.
Il metodo e la filosofia socratica mirano a portare ciascuno a rendere conto delle sue opinioni in
modo coerente. Le opinioni possono avere un contenuto di verità, ma non è questo che interessa al
maestro di Platone: quello che gli interessa è trovare il modo migliore per guardare al mondo. La
scoperta della verità chiude lo spazio discorsivo, e apre semmai lo spazio della dimostrazione.
Rivalutare la doxa significa, invece, rivalutare la molteplicità degli esseri umani. Politica esiste solo
laddove individui plurali guardano lo stesso mondo da prospettive diverse. La politica non è il luogo
di una pacificazione o di un consenso a tutti i costi, un’unica prospettiva. Anzi. Dove questo accade,
la politica muore. La possibilità di condividere un unico punto di vista sul mondo avviene solo nel
caso di verità dimostrabili, matematiche.
Socrate doveva, agli occhi di Platone, dimostrare la sua innocenza, non persuadere della sua
innocenza: la persuasione non garantisce il consenso dell’interlocutore. Socrate, in qualche modo, è
rimasto intrappolato dalle opinioni.
La doxa è sguardo, apertura al mondo, affacciarsi da una prospettiva su un mondo che condividiamo
con altri. L’opinione non è vaniloquio. Se questo è il modo di ragionare di Socrate, questo è il modo
che Platone considera perdente: la filosofia resta impigliata nell’opinione, ed è da essa messa in
pericolo. La filosofia di Platone potrebbe essere, in ultima istanza, definita come una filosofia di
rivolta contro la doxa: tale filosofia si pone come un modo alternativo alla doxa, che deve garantire
l’assenso dell’interlocutore, come si consente a una verità matematica. Ecco, in sintesi, quali antitesi
sono in gioco nelle due nozioni:
OPINIONE
VERITA’
soggetta a cambiamento
radicata in una prospettiva
provvisoria
ciò che appare (apparenza)
presenza degli altri
pluralità (molteplicità delle prospettive
limitata nel tempo e nello spazio
sul mondo)
immutabile
universalmente valida
certa e dimostrabile
essenza
contemplazione solitaria
uno
eterna
In Socrate c’è un fortissimo “ottimismo” filosofico: l’idea di Socrate è che potenzialmente ciascuno,
se è disposto ad accettare le ragioni discorsive, può acquisire un controllo coerente della sua doxa.
Ciascuno è, potenzialmente, eccellente, un uomo dotato di virtù.
Per Platone, Platone post-choc socratico, la filosofia deve impegnarsi a scoprire e contemplare verità
che sono universali, oggettive, assolute e dimostrabili. Una volta che il filosofo avrà scoperto e
dimostrato queste verità, non potrà mai più correre i rischi cui si è esposto Socrate, perché diventerà
il tramite tra gli uomini e le donne comuni, e la filosofia. Nessuno potrà più minacciare di morte il
filosofo, perché senza di lui le verità superiori non sarebbero conseguibili. Ma a che prezzo la
filosofia guadagna questa immunità? Per Platone, la città diventa sicura per il filosofo a condizione
di diventare un problema filosofico (e di perdere le caratteristiche vitali per uomini e donne), a
condizione di cancellare la pluralità. Il conseguimento della verità richiede, per Platone, il
superamento e la distruzione della doxa: oi polloi, i molti, sono condannati alla loro inferiorità
conoscitiva, laddove per Socrate era l’esatto contrario.
Per Socrate il filosofo non ha alcuna qualifica particolare che lo autorizzi a governare gli altri: per
questo, il filosofo non smette mai di muoversi nel mezzo delle opinioni, praticando esami incrociati,
che permettono di dire quello che si vuole nel modo migliore. Vi sono tante prospettive quante sono
le persone. Per Platone, il filosofo è l’unico adatto a governare la moltitudine; è un educatore, che dà
forma al materiale umano. E la caverna potrebbe essere interpretata come l’esemplificazione di
questa platonica ambizione di plasmare gli individui agenti umani: il suo significato politicamente
oppressivo apparirebbe, dunque, nel passaggio dal primo personaggio interpretato da Platone
(Socrate) al secondo (Platone stesso): il filosofo torna nella caverna, dopo avere contemplato le
verità superiori, che non corrispondono alle apparenze, ma alle essenze delle cose. Proprio perché il
filosofo ha avuto accesso alle verità superiori, negate ai molti che restano prigionieri nella caverna,
la sua relazione con gli altri (i concittadini) si pone come una relazione di autorità.
Il filosofo, uscendo dalla caverna perde il contatto con le cose umane. La caverna è lo spazio
dell’opinione, di ciò che appare ai nostri occhi. A questo livello, la tensione tra verità e opinione si
trasforma nella tensione tra una concezione egualitaria della filosofia che mette al centro l’opinione,
e una concezione autoritaria della filosofia che mette al centro la verità.
Ma è giunto, ora, il momento di giocare28.
6.
Il gioco di Platone
Come rappresentare l’allegoria della Caverna attraverso un gioco? Dato che vogliamo cercare di
esplorare degli eventi particolari, il nostro obbiettivo, come detto in precedenza, è quello di
rintracciare la sequenza delle azioni, delle decisioni e delle risposte che generano eventi e risultati.
Occorre, in altri termini, esaminare le scelte di protagonisti racchiusi in una interdipendenza
strategica che presentano delle preferenze e delle aspettative. In questo senso, utilizzare un gioco in
forma estesa permette di ben illuminare questi punti. In un gioco in forma estesa, infatti, si prende
esplicitamente in considerazione la successione delle mosse; così facendo, si illumina il significato
di tale successione per i possibili esiti di equilibrio. Viene per questa via catturata l’importanza
dell’incertezza, la capacità delle persone di manipolare e di comportarsi in modo strategico, così
come i loro limiti nel fare ciò. La struttura di un gioco in forma estesa accomoda, quindi, in modo
elegante, la forma narrativa (Bates e altri 1998).
Un modo, in questo senso, è offerto dalla figura 1, in cui sono presenti due giocatori: il filosofo e il
cittadino. La successione delle mosse è la seguente. La prima mossa tocca al filosofo: quest’ultimo
deve innanzitutto decidere se parlare (sostenendo un costo per farlo: su questo punto, cruciale, si
tornerà successivamente) o tacere. Se sceglie di tacere, il gioco finisce e l’esito è il mantenimento
dello status quo. Se, viceversa, sceglie di parlare, può proporre verbalmente una alternativa (rispetto
allo status quo) al cittadino. Nella mossa finale, il cittadino, dopo aver ascoltato la comunicazione
verbale del filosofo, sceglie tra mantenere lo status quo (y) o accettare l’alternativa propostagli (x).
In entrambi i casi, il corso dell’azione scelto dal cittadino influenzerà l’utilità di entrambi i
giocatori29.
Figura 1: il gioco della Caverna
è convinto
Cittadino
x = alternativa
parla
Filosofo
non è convinto
non parla
y = status quo
y = status quo
Dal nostro punto di vista, una simile dinamica sembra catturare molti degli aspetti rilevanti della
allegoria della Caverna, fornendo, al tempo stesso, un possibile legame tra le proprietà essenziali
della narrativa e le sue conclusioni. Anche nel mito platonico, infatti, abbiamo un giocatore (il
prigioniero/filosofo uscito dalla caverna e poi, successivamente, rientrato30) che “contende” con chi
28
Si veda Jacobson (1999) per un altro tentativo (non collegato all’allegoria della Caverna) di unire la logica
della teoria dei giochi e Platone.
29
La relazione tra filosofo e cittadino può essere vista alla luce della teoria dell’agenzia, dove l’agente è il
filosofo e il principale è il cittadino (Moe 1988).
30
Il fatto che il filosofo, nel testo platonico, “sia costretto improvvisamente ad alzarsi” per uscire dalla
caverna, non è invece rilevante per il nostro modello e per le sue conclusioni. Dopo tutto il filosofo sceglie (o
è rimasto all’interno della stessa. Chi ascolta (in questo caso, i prigionieri/cittadini31), possono,
dopo aver sentito quello che ha da dire il filosofo, decidere sul da farsi: se continuare a rimanere
nella caverna (mantenendo lo status quo: y) o liberarsi delle catene che li imprigionano (accettando
l’alternativa: x)32.
Un aspetto, come detto, importante nell’interazione tra filosofo e cittadino, è che assumiamo che il
filosofo, per poter parlare, è chiamato a sostenere un costo. L’idea che il parlare sia “gratuito”
appare, in effetti, forzata in molte circostanze: come minimo, gli attori devono sostenere un costo in
termini di risorse emotive per riuscire, come nel presente caso, a convincere qualcuno a fare una
certa cosa. Questo punto diventa ancora più rilevante se consideriamo la situazione in cui si trova
chi rientra nella caverna. Decidendo di parlare, e offrendo la (sua) “verità”, il filosofo sfida infatti
esplicitamente non qualcosa di marginale, ma la stessa “visione del mondo” costruita dal cittadino
nel suo lungo risiedere all’interno della caverna. Solamente per una questione di “coerenza
cognitiva”, la reazione di ostilità di quest’ultimo appare, in questo senso, ovvia, ed è scontata in
partenza sia dal filosofo, quando deve decidere se parlare o meno, che dallo stesso cittadino: “e se
dovesse discernere nuovamente quelle ombre e contendere con coloro che sono rimasti sempre
prigionieri […] non sarebbe egli allora oggetto di riso? e non si direbbe […] che non vale neppure
la pena di tentare di andar su? E chi prendesse a sciogliere e a condurre su quei prigionieri, forse
non l’ucciderebbero, se potessero averlo tra le mani e ammazzarlo? – Certamente”
Per poter determinare i possibili equilibri del gioco esposto nella figura 1, occorre introdurre le
nostre assunzioni relative sia ai pagamenti, che alle informazioni disponibili ai diversi giocatori.
Partiamo dal primo aspetto. Per farlo, è utile assumere un ipotetico spazio di policy unidimensionale
compreso tra 0 e 1. Il cittadino, rispetto a questo spazio, ha un certo punto ideale c ∈ [ 0,1] . In altre
parole, tra tutti i possibili stati contenuti nello spazio (immaginario) di scelta, il cittadino ha un
particolare punto che rappresenta il suo ottimo. Allo stesso modo, il filosofo, ha un punto ideale
f ∈ [ 0,1] . Infine, abbiamo un punto che rappresenta lo status quo y ∈ [ 0,1] .
Il filosofo e il cittadino presentano delle funzioni di utilità simmetriche e ad un solo massimo.
L’utilità di ciascun giocatore, vale a dire, è funzione della distanza tra il suo punto ideale e la
posizione dell’alternativa scelta (lo status quo o la proposta del filosofo)33. Nella situazione dello
status quo, l’utilità per il cittadino è allora uguale a: − y − c , mentre quella del filosofo è uguale a:
− y − f . Quanto più elevato tale valore (con un massimo pari a 0 quando il rispettivo punto ideale
e lo status quo coincidono), tanto più un giocatore ottiene una utilità maggiore. Ad esempio, se
sembra scegliere) di ritornare di sua volontà nella caverna. E sempre di sua volontà, sceglie di contendere
con chi è rimasto. E’ questa ultima situazione che a noi pare più interessante da analizzare alla luce del
gioco.
31
Come è facile notare, nella figura 1 abbiamo un unico cittadino/prigioniero. Questa assunzione
(semplificatrice) è ragionevole in almeno due circostanze (non mutuamente esclusive): 1) i
prigionieri/cittadini hanno preferenze molto simili; oppure 2) il cittadino che consideriamo è quello
pivotale/mediano (vale a dire, quello decisivo in una decisione a maggioranza). Si veda Lupia (1992) per un
caso differente.
32
In realtà, dal testo platonico non emerge con chiarezza se il filosofo voglia che il cittadino scelga di uscire
fuori dalla caverna, o semplicemente cerchi di convincerlo che quello che vede sono soltanto ombre. Se
immaginiamo l’uscire dalla caverna simbolicamente come il passaggio dall’opinione alla verità, la distanza
tra le due opzioni si riduce ampiamente.
33
Questa restrizione è fatta per semplicità espositiva.
assumiamo che il cittadino è particolarmente soddisfatto dallo status quo, allora ci dovremmo
attendere che − y − c assuma un valore basso; l’opposto in caso contrario34.
Il secondo tassello di cui abbiamo bisogno per determinare gli equilibri del gioco, riguarda l’ipotesi
di conoscenza comune: quali informazioni sono a disposizione dei giocatori? Esiste un problema di
asimmetria informativa? C’è qualcuno che sa qualcosa in più? A questo riguardo, prima ancora che
abbia inizio l’interazione tra cittadino e filosofo, ipotizziamo una mossa probabilistica da parte della
Natura (vale a dire, una evenienza del tutto casuale)35. La scelta della Natura, n, determina la
relazione tra gli interessi dei giocatori ( n = f ∈ F ⊆ [ 0,1] ). Il filosofo conosce n (dato che è il suo
punto ideale), mentre il cittadino ha soltanto delle ipotesi soggettive sulle preferenze del filosofo.
Più in dettaglio, il cittadino sa che il punto ideale del filosofo, f ∈ [ 0,1] è estratto da una
distribuzione di probabilità caratterizzata da una certa funzione di densità. La figura 2 rappresenta
graficamente alcune di queste possibili distribuzioni (dove c, come detto, è il punto ideale del
cittadino). In F1 la distribuzione di probabilità del cittadino relativa al punto ideale del filosofo è
uniforme: vale a dire, il cittadino assume che tutti i possibili punti ideali del filosofo possono essere
estratti con la stessa identica probabilità nell’intervallo tra 0 e 1.; in F2 il cittadino ritiene molto
probabile che il filosofo abbia delle preferenze a lui vicine; in F3 le ritiene, invece, con una elevata
probabilità, molto distanti.
Figura 2: distribuzione di probabilità rispetto al punto ideale del filosofo
F2
F3
F1
0
c
1
La distribuzione delle probabilità soggettive del cittadino riguardo la posizione di f è conoscenza
comune36. In secondo luogo, il filosofo conosce il punto ideale del cittadino.
Leggendo il testo platonico, le precedenti assunzioni non sembrano irragionevoli. Dopo tutto, il
filosofo ha vissuto all’interno della caverna, e ha quindi avuto la possibilità di osservare le ombre
proiettate che formano le “intuizioni condivise” tra i prigionieri. In questo senso, ha sufficienti
informazioni per sapere cosa il prigioniero pensa dello status quo e per intuire il suo punto ideale (e
il prigioniero sa che lui lo sa). Allo stesso modo, il cittadino (il prigioniero della caverna) è in grado
di formulare delle ipotesi sulle preferenze del filosofo, proprio perché quest’ultimo non è uno
34
Un aspetto su cui si potrebbe discutere rinvia alla stessa possibilità da parte del cittadino di avere delle
preferenze relative allo status quo, nel momento in cui non è a conoscenza di alcuna alternativa plausibile
con cui eventualmente confrontare la situazione. La nostra assunzione è che ciò risulti comunque possibile.
Sul tema delle “preferenze adattive” (o distorte), ovvero il caso in cui le preferenze di individui, in
circostanze di deprivazione, vengono formate in risposta a tali opzioni ristrette: Elster (2002).
35
In questo senso, nel nostro gioco la Natura fa la prima possa, fornendo ad entrambi i giocatori le
informazioni sul gioco (questa mossa non è tuttavia riportata nella figura 1).
36
Vale a dire, il filosofo sa che il cittadino ha particolari ipotesi di partenza sulla probabilità di incontrare un
certo tipo di filosofo e il cittadino sa che il filosofo lo sa.
“straniero”. Tuttavia, il fatto che il filosofo abbia passato del tempo “fuori” dalla caverna, legittima
l’incertezza del cittadino a proposito delle preferenze del filosofo.
Come detto, il filosofo fa la prima mossa del gioco, scegliendo una strategia che ha due
componenti. La prima componente, s1 ( f ) , riguarda la scelta se parlare o meno. Questa scelta non è
scontata dato che il filosofo, per poter parlare, deve - come detto - sostenere un costo non negativo
(K>0) che è conoscenza comune (vale a dire, tutti sono a conoscenza che il filosofo deve sostenere
un costo per parlare; e l’onerosità di tale costo è risaputo con esattezza37). La decisione se parlare o
meno è allora la seguente: s1 ( f ) ∈ {0,1} , che è uguale a 1 se il filosofo decide di parlare; 0
altrimenti. Se il filosofo decide di non parlare, il gioco finisce è l’esito è lo status quo (y). Se paga,
può a questo punto comunicare verbalmente al cittadino un messaggio. Assumiamo che il
messaggio possa essere di due tipi: s2 ( f ) ∈ {meglio, peggio} . In altri termini, può dire o che x è
meglio di y, o che y è meglio di x38.
Ovviamente, il filosofo decide di parlare solamente quando non è soddisfatto dello status quo (che
può ottenere senza parlare e senza sostenere alcun costo). Una frase che potrebbe allora dire è la
seguente: “scegliere l’alternativa x è conveniente, perché questa è più vicina al tuo punto ideale
rispetto allo status quo”. Il problema è che il cittadino non sa se la proposta è in effetti veramente
migliore per lui39.
Per semplificare l’analisi, assumiamo che l’alternativa proposta dal filosofo (l’andare fuori)
rappresenti il suo punto ideale; vale a dire: f=x40. In altri termini, ipotizziamo che ciò che
massimizza l’utilità per il filosofo sia convincere il cittadino ad uscire (o, e parallelamente,
convincerlo che le ombre che osserva non sono reali). In questo senso, è la distribuzione relativa ad
f che determina, agli occhi del cittadino, quanto x sia meglio, o peggio, per lui. In effetti, al cittadino
conviene accettare l’alternativa quanto più la probabilità di incontrare un filosofo con un punto
ideale vicino al suo cresce; viceversa, accettare la proposta di un filosofo che il cittadino ritiene
quasi certamente avere un punto ideale lontano dal suo, non è mai consigliabile, dato che
significherebbe accettare una alternativa per lui probabilmente peggiore dello status quo41.
Al fatto che il filosofo agisca con l’obbiettivo di massimizzare la sua utilità non dobbiamo, tuttavia,
dare una interpretazione eccessivamente restrittiva. Il filosofo è interessato ai benefici che ottiene
per sé dal raggiungere un certo esito, ma questa concezione del sé può anche essere molto ampia. Il
filosofo – si è scritto nella prima parte del lavoro - non è a sé stesso che è interessato, ma a sé stesso
nel mondo: il suo ridiscendere nella Caverna è infatti quello del filosofo-politico, che non può
tenere per sé solo la sua scoperta, ma che al contrario cerca di “salvare” anche gli altri. In questo
37
Non è difficile, ad ogni modo, estendere i nostri risultati al caso in cui il cittadino non sa, ma può formarsi
delle ipotesi, sulla dimensione del costo richiesto al filosofo per poter parlare.
38
In effetti, il filosofo può proporre una sola alternativa allo status quo: quella di uscire dalla caverna.
39
L’incertezza del cittadino, a questo proposito, è allora interpretabile come l’inevitabile conseguenza di una
conquista di autonomia individuale: è solamente mantenendo lo status quo, infatti, che il cittadino è sempre
certo di che cosa lo aspetti. Questa sicurezza, al contrario, viene persa quando si spezzano le catene per
avventurandosi all’esterno: in questo caso, si entra in un territorio inesplorato, e quindi rischioso, proprio
perché incerto.
40
Un punto interessante, ma non risolto nel testo platonico, rinvia a se gli altri prigionieri della caverna si
rendano o meno conto del fatto che il filosofo sia uscito dalla caverna e che, successivamente, sia rientrato.
Lupia e McCubbins (1998), a questo proposito, mostrano come la capacità di persuasione di chi parla non è
solo influenzata dal grado in cui chi ascolta ritiene di avere preferenze simili con chi parla, ma anche dal
grado in cui chi ascolta ritiene chi parla una persona esperta rispetto a quello che sta dicendo.
41
Assumere che f non coincide con x non cambia, tuttavia, i risultati del gioco.
senso, può anche sinceramente credere che lo stato del mondo che lui reputa il migliore tra quelli
possibili, sia anche quello migliore per il cittadino. Il punto ideale del filosofo è allora legato
indissolubilmente a quello che il cittadino sceglie di fare: non è soddisfatto di uscire di nuovo dalla
caverna da solo, o di sapere che le ombre sono pure finzioni; vuole che anche il cittadino sia
coinvolto in tutto ciò.
E’ in questo quadro che entra in gioco la non “gratuità” del parlare. La necessità, per il filosofo, di
sostenere un certo costo per parlare, invia infatti un segnale importante al cittadino su quanto
l’alternativa proposta (e le preferenze del filosofo) differiscano dallo status quo. In questo senso, il
filosofo segnala qualche cosa al cittadino attraverso le sue azioni, e non soltanto attraverso le sue
parole. Questo contenuto, più in dettaglio, è che il filosofo crede di poter ricuperare i costi del
parlare42. Nella figura 3, è riportato un esempio spaziale di tale dinamica.
Figura 3: l’aggiornamento delle ipotesi del cittadino
Parte a): le ipotesi del cittadino su f prima di osservare
la decisione del filosofo di parlare
0
1
0,5
Parte b): le ipotesi del cittadino su f dopo aver
osservato la decisione del filosofo di parlare
Intervallo del
costo
0
0,3
0,5
0,7
1
Nella parte a) abbiamo disegnato una ipotesi di partenza del cittadino relativa alla probabilità di
incontrare un certo tipo di filosofo: come si può osservare, tale distribuzione di probabilità è
uniforme. Ora, sia lo status quo y=0,5 e sia K=0,2 il costo che il filosofo deve pagare per avere
l’opportunità di dire “meglio” o “peggio” al cittadino in merito alla (unica) alternativa rispetto allo
status quo. Si supponga, inoltre, che il filosofo sappia la vera posizione di x quando decide di pagare
K, che il cittadino sa che il filosofo lo sa, e che quindi solamente un cambiamento rispetto allo
status quo maggiore di 0,2 renda la scelta di pagare un costo per parlare vantaggioso. A questo
punto (parte b), dopo aver osservato il pagamento di K, e conoscendo la funzione di utilità del
42
La logica che soggiace ad una situazione in cui un attore, per parlare, deve incorrere in un costo, rinvia al
fatto che le parole, se accompagnate da azioni, “convincono” di più (Curini 2003). Ad esempio, se un
giocatore è disposto a pagare 100 euro per avere l’opportunità di parlarci, allora possiamo correttamente
inferire che, ai suoi occhi, la differenza nel valore atteso tra che cosa si aspetta che noi facciamo dopo aver
sentito quello che ha da dirci, e quello che si aspetta che noi facciamo se non lo sentiamo, valga almeno 100
euro.
filosofo, il cittadino può correttamente inferire che f (e, di conseguenza, x) non è compreso in una
distanza di 0,2 dallo status quo. Questo fatto, a sua volta, permette al cittadino di aggiornare le sue
precedenti ipotesi. In particolare, il cittadino sa che per tutti i possibili tipi di agenti il cui punto
ideale è localizzato all’interno dell’intervallo f ∈ [ y − K , y + K ] , non parlare rappresenta sempre
una strategia dominante43. Viceversa, quando K>0, e s1 = 1 , il cittadino sa che f ∉ [ y − K , y + K ] 44.
Dopo aver osservato la decisione di parlare, il cittadino può in altri termini trarre delle inferenze più
corrette in relazione alla probabilità di incontrare un certo tipo di filosofo, e quindi rispetto alla vera
localizzazione di x nello spazio tra 0 e 145.
Nel momento in cui il filosofo opta per parlare, sostenendo il relativo costo, il cittadino è chiamato
a scegliere, come mossa finale del gioco, una strategia, t ( c ) ∈ {0,1} , dove 0 corrisponde alla scelta
di mantenere lo status quo e 1 quella di accettare l’alternativa. A questo punto il gioco finisce. Il
payoff di ciascun giocatore è determinato dalla distanza tra l’alternativa che il cittadino sceglie, x o
y, e il punto ideale di ciascun giocatore. Il payoff per il filosofo è ridotto di un ammontare pari a K
se sceglie di parlare.
Più in dettaglio, se il filosofo sceglie di parlare, e il cittadino sceglie x, allora il filosofo ottiene una
utilità pari a − x − f − K . Ovviamente, dato che abbiamo assunto che x=f, allora la precedente si
semplifica in: − K . Se il filosofo parla e il cittadino opta per tenere y, allora il filosofo ottiene
− y − f − K ; se non parla, ottiene − y − f . Il cittadino, a sua volta, è chiamato a fare la mossa
finale del gioco scegliendo tra x e y. Da queste due scelte, ottiene rispettivamente una utilità pari a
− x−c e − y−c .
7.
Gli equilibri del gioco
In questo modello, i giocatori scelgono le rispettive strategie sulla base delle informazioni e delle
strategie degli altri giocatori. In equilibrio, la strategia di ciascun giocatore è la migliore risposta
possibile alla strategia scelta da parte dell’altro, date le sue informazioni. Più in dettaglio, nel
presente gioco possiamo identificare due equilibri (si veda l’appendice matematica 2 per una
trattazione formale):
1. Il filosofo (date alcune condizioni) parla e viene creduto.
2. In tutti gli altri casi, il filosofo non parla e il risultato del gioco è y.
L’intuizione del primo equilibrio è che parlare per il filosofo è vantaggioso, dato il relativo costo,
solo quando: a) il suo punto ideale non è localizzato all’interno dell’intervallo delle alternative non
vantaggiose46; e b) l’aggiornamento delle ipotesi del cittadino relative alla localizzazione del punto
ideale del filosofo, una volta che quest’ultimo parla, conduce il cittadino ad accettare l’alternativa
che gli è stata proposta. In caso contrario, vale a dire quando il punto ideale del filosofo non è molto
43
In queste circostanze, infatti, anche qualora il cittadino scegliesse di accettare l’alternativa proposta, questo
non potrebbe comunque fornire al filosofo un payoff maggiore che accettare, senza pagare alcun costo, lo
status quo.
44
Più formalmente: quando il filosofo decide di parlare, il cittadino usa la Regola di Bayes per incorporare
questa informazione all’interno delle sue ipotesi a proposito della localizzazione di f.
45
Si veda l’appendice matematica (1) per un approfondimento sulle conseguenze che derivano dal far variare
l’onerosità del costo per parlare.
46
Come infatti già detto, quando f ∈ [ y − K , y + K ] , allora non è conveniente per il filosofo cercare di
influenzare la scelta del cittadino.
lontano dallo status quo (o almeno non così distante da rendergli vantaggioso pagare il costo per
parlare), e/o quando l’aggiornamento delle ipotesi del cittadino è tale da incentivare quest’ultimo a
non accettare comunque la proposta del filosofo, allora la migliore risposta per il filosofo è non
parlare, conservando lo status quo.
Fare un semplice esercizio di statica comparata può essere utile a questo riguardo. La teoria dei
giochi produce, infatti, specifiche previsioni su come particolari comportamenti possano (e
debbano) cambiare nel momento in cui alcune delle condizioni soggiacenti si modificano. Allo
stesso modo, i due equilibri riscontrati dipendono dal valore assunto da diversi fattori esogeni
(appendice matematica 2): in particolare, il filosofo è portato a parlare, al diminuire del costo per
farlo (K); quanto più sia lui che il cittadino risultano insoddisfatti dello status quo (al crescere, vale
a dire, della distanza tra y e f e tra y e c); e nel caso di una distribuzione di probabilità del cittadino
a lui particolarmente favorevole (in altri termini, in presenza di un cittadino che ipotizza che il
filosofo abbia, con elevata probabilità, delle preferenze molto vicine alle sue).
8.
Dal gioco all’allegoria
Entrambi gli equilibri riscontrati sono egualmente plausibili da un punto di vista logico. Tuttavia,
nella allegoria della Caverna, c’è una conclusione completamente differente, dato che il filosofo
decide di parlare, ma non viene creduto. Come spiegare questo risultato? Riscoprire il finale della
caverna, può avvenire soltanto se rilassiamo alcune delle nostre precedenti assunzioni, relative o ai
costi che il filosofo sostiene per parlare o alla ipotesi di conoscenza comune.
Partiamo dal primo punto. Se non c’è alcun costo per parlare, e ammesso che, come detto, uscire
dalla caverna sia più vicino al punto ideale del filosofo rispetto allo status quo, allora il filosofo è
portato a dire sempre “meglio”, indipendentemente dalla probabilità che dire “meglio” influenzi
minimamente la scelta del cittadino47. In questo caso, infatti, il peggior risultato possibile che il
filosofo può ottenere è l’utilità legata allo status quo, che è il meglio che può ottenere se decide di
non parlare. Parlare, rappresenta, in altri termini, una strategia dominante. A sua volta, in questa
situazione, la scelta del cittadino è influenzata soltanto da due aspetti: da quanto è soddisfatto nello
status quo (vale a dire, dal grado di vicinanza tra y e c), e dal grado in cui il cittadino ritiene che le
sue preferenze siano vicine a quelle del filosofo.
Data, ad esempio, una distribuzione di probabilità uniforme relativa a f, il cittadino sceglierà
1
− y−c > −
2 (si veda l’appendice matematica 3).
l’alternativa proposta dal filosofo solo quando:
In altri termini, affinché possa essere spinto ad accettare la proposta del filosofo in una situazione in
cui parlare è privo di costo, il cittadino deve essere estremamente insoddisfatto dello status quo (il
fatto che la distanza tra il suo punto ideale e lo status quo debba essere maggiore di 0,5 in uno
spazio di policy che varia tra 0 e 1, è infatti una richiesta decisamente onerosa)48.
L’altro aspetto che “fa differenza” nella scelta del cittadino tra accettare la proposta del filosofo o
rifiutarla, rinvia al grado di comunanza di interessi tra il filosofo e il cittadino ipotizzata da
quest’ultimo. Quanto più, infatti, il cittadino ritiene probabile che il filosofo voglia le stesse cose
47
Al contrario, nel caso in cui deve pagare un costo, ci sono casi in cui non parla anche quando l’alternativa
è migliore per lui dello status quo.
48
Ovviamente, data una differente distribuzione di probabilità relativa al tipo di filosofo che il cittadino si
attende incontrare, la distanza tra y e c potrebbe anche crescere (si guardi, ad esempio, le varie curve nella
figura 2), senza per questo diminuire gli incentivi del cittadino a scegliere l’alternativa proposta rispetto allo
status quo.
che vuole anche lui (abbia cioè un punto ideale vicino al suo), tanto più il parlare, pur privo di costi,
è in grado di incidere sulla scelta del cittadino. Questa, in effetti, è la conclusione standard dei
cosiddetti giochi di cheap talk, in cui parlare per un giocatore non ha alcun costo. La possibilità, in
questi casi, per chi parla di influenzare chi ascolta, è legata principalmente al grado di vicinanza tra
le rispettive preferenze (primitive). Chi ascolta si lascia influenzare da quello che gli viene detto
solamente nel caso in cui si sente “abbastanza vicino” a chi parla (A.Smith 1992).
Quando entrambe le condizioni di cui sopra non si avverano, ci troviamo di fronte ad un cosiddetto
equilibrio balbettante (babbling equilibrium: Farrell – Rabin 1996). In un equilibrio balbettante, le
ipotesi del cittadino non sono infatti minimamente influenzate da quello che il filosofo dice. Dato
che il cittadino ignora quello che il filosofo dice, allora quest’ultimo può decidere di balbettare –
vale a dire, di fare del rumore non correlato con il suo tipo (più formalmente, di inviare segnali non
basati sullo stato del mondo che osserva). A sua volta, il fatto che il filosofo balbetta giustifica la
strategia del cittadino di ignorare quanto il filosofo dice. Il punto è molto generale: è sempre
consistente con la razionalità trattare il cheap talk senza significato. Gli equilibri balbettanti
esistono, in questo senso, assieme a quelli non balbettanti in ogni gioco che coinvolge del parlare
privo di costi. Questi equilibri esistono e sottolineano un punto importante: tu non hai alcun
incentivo a persuadere se sei certo di essere ignorato e tu non hai alcun incentivo ad essere persuaso
se sei certo che la comunicazione che ascolti non può fornirti alcuna conoscenza utile. Se non
sappiamo null’altro di più, questa è la sola scelta ragionevole (e quindi l’unico esito)49.
Questo risultato si può applicare nel caso dell’allegoria platonica della Caverna soltanto laddove
ammettiamo che il filosofo sia in grado di derivare un qualche genere di utilità dal parlare, per il
solo fatto di farlo (al di là di eventuali ragioni strumentali). Il filosofo, in altri termini, deve godere
di una utilità espressiva (Shepsle - Bonchek 1997), in grado di compensare i costi (come visto,
sempre presenti) che incorre quando decide di parlare.
La figura del filosofo oracolare è quella che a questo proposito appare, tra le diverse possibili
interpretazioni, come la più plausibile: un filosofo, cioè, che si immunizza dai rischi di un confronto
con la caverna-città restringendosi nei confini del suo sè superiore50, cui per un verso egli
obbedisce, dopo aver seppellito il suo sè empirico, e che tuttavia lo riconduce paternalisticamente
dentro alla caverna, perchè, è Socrate in persona a dirlo, “quei prigionieri somigliano a noi”. In altre
parole, si potrebbe definire la mossa alla base del rientro del primo tipo di filosofo, come una mossa
espressivo-paternalistica: una ars paideutica del filosofo, che tuttavia si perverte in una forma di
schiavizzazione dei diversi “sè” empirici, e, ciò che è peggio, di una tirannia travestita da
49
Se il parlare comporta un qualunque costo opportunità o di transazione, i giocatori che anticipano un
equilibrio balbettante non dovrebbero fare alcuno sforzo per comunicare verbalmente. In altri termini, in un
gioco con dei costi per parlare, gli equilibri balbettanti sono esclusi.
50
Si tratta di una padronanza a scopi autodifensivi (ormai dovrebbe apparire noto il motivo per cui il filosofo
pensa di doversi difendere): rispetto alle costrizioni esterne presenti all’interno della caverna, il filosofo
oracolare si sente comunque libero internamente, nella berliniana “cittadella interiore” della sua
abnegazione. Se, in altri termini, immaginiamo di strutturare il sé di questo secondo “tipo” di filosofo
secondo la logica di un sè “alto” e un sè “basso”, si può verificare, date le nostre premesse, che il sè alto sia
rappresentato dal sè razionale e il sé basso dal sé empirico: il problema è che i dettami della ragione sono per
chiunque gli stessi, e obbedire a un sè razionale significa ipotizzare che persone diverse possano convergere
in una stessa direzione. Si può pensare alla rousseauiana “volontà generale”: se gli individui condividono
tutti un sè razionale che li porta nella stessa direzione, allora quello che vuole uno deve volere anche un altro,
gli altri, cioè tutti. Ma la volontà generale non è la volontà di tutti. La volontà generale è il sè razionale,
l’operazione tirannica di un sé razionale. Cosa succede, invece, quando ci troviamo di fronte alla vita
politica? Nella vita politica, le volontà particolari entrano in conflitti empirici, segno che esse non hanno
(ancora) avuto accesso al sè razionale: si tratta di modalità di conflitto empirico/illusorio, che non ha ancora
raggiunto il SE’ razionale.
liberazione. Per arrivare a questo risultato, il costo della parola è un costo che il filosofo deve (e
vuole) assumere. E poco importa se riesce a convincere gli altri. Per lui parlare, il parlare, resta
sempre l’opzione preferibile51.
L’esito cui porta questa prima modalità di fare filosofia, è tuttavia una atrofizzazione radicale del
sé, causata dal ritiro. La capacità, seppur innovativa, di tenere a distanza la pressione degli impulsi
più forti, per non essere preda di questi impulsi, crea per il filosofo platonico un nuovo problema: la
confusione tra libertà e coercizione52.
La seconda strada che ci permette di dare conto del finale del mito platonico, e di ricomporre,
quindi, l’apparente frattura tra gioco e allegoria, consiste nel rilassare un particolare aspetto
coinvolto nella ipotesi fatta di conoscenza comune. Può infatti accadere che il filosofo creda di
sapere, sbagliando, quale è il punto ideale del cittadino (come si ricorderà, una delle assunzioni che
avevamo fatto). Non essendo tuttavia cosciente del suo errore, decide di parlare, sostenendo il
relativo costo, proprio perché, sulla base del punto ideale che attribuisce al cittadino, è convinto di
convincerlo ad accettare la sua proposta53; alla prova dei fatti, tuttavia, non ci riesce. Questo “errore
di imputazione” in letteratura va sotto il nome di ipotesi di heterogeneous priors (Colombo –
Merzoni 2003), e permette, ad esempio, di dare conto di situazioni apparentemente paradossali,
come il fatto che nella teoria dei giochi, sulla base dell’aggiornamento bayesiano delle ipotesi
soggettive, gli attori non potrebbero mai accordarsi sull’essere in disaccordo54.
Quando vale l’ipotesi dell’heterogeneous priors, infatti, l’agente attribuisce al principale un modello
decisionale differente da quello che in realtà quest’ultimo effettivamente usa. In poche parole, i due
giocatori hanno una opinione divergente di come il mondo è strutturato. Si noti la differenza rispetto
ad una situazione di asimmetria informativa (ma in presenza di conoscenza comune): in questo
caso, io so che tu sai di più rispetto ad un certo evento, e tu sai che io lo so; su questa base condivisa
possiamo poi interagire. Data questa situazione, sono, ad esempio, in grado di stimare una
distribuzione di probabilità sul tipo di segnale che tu hai osservato e che invece io non conosco. In
presenza dell’ipotesi dell’heterogeneous priors, invece, io non so che tu sai di più. Anzi, può
benissimo essere che io sia certo che tu non sappia nulla, e quindi agire coerentemente su tale
convinzione, quando è vero il contrario55.
Questa possibilità sembra trovare conferma dalla lettura del testo platonico: una volta che “[il
filosofo] si rimettesse a sedere sul medesimo sedile, non avrebbe gli occhi pieni di tenebra, venendo
all’improvviso dal sole?…e se questo periodo in cui rifà l’abitudine fosse piuttosto lungo?”. E’
proprio questo ultimo punto l’aspetto che appare cruciale: proprio perché il filosofo trova arduo
51
E questo punto è riconosciuto dallo stesso cittadino che si trova ad ascoltarlo.
Come si avrà modo di vedere, questa “confusione” è accentuata nel secondo tipo di filosofo.
53
Formalmente, il filosofo è convinto che la condizione (1.2) è soddisfatta, quando in realtà non lo è (si veda
l’appendice matematica 2).
54
Non può infatti mai essere conoscenza comune che due attori razionali, con le stesse ipotesi di partenza,
abbiano delle probabilità a posteriori differenti di un evento (Geanakopols 1992; Morrow 1994). Ad
esempio, si consideri una compravendita di azioni di una SPA, dove entrambi i giocatori iniziano il gioco
con le stesse informazioni sulla SPA in questione. Se un giocatore è pronto a vendere le azioni all’altro,
quest’ultimo dovrebbe sospettare che il primo sa qualche cosa che lui non sa, e aggiustare le sue stime
relative al valore dell’azione verso il basso. Questo processo di aggiustamento (se queste stime sono
conoscenza comune) continua fino a che i due giocatori non si ritrovano con esattamente le stesse stime delle
azioni.
55
Nel nostro caso, quello che è importante è che il filosofo supponga che il cittadino abbia una certa visione
del mondo, sbagliando nella sua certezza. Il fatto che il principale sappia o meno che l’agente si sita
comportando in siffatto modo, è invece superfluo. Può rendersene conto o meno. La sua decisione,
comunque, non cambia in entrambi i casi.
52
abituarsi di nuovo a vedere al buio, ha anche difficoltà a (ri)osservare le ombre proiettate dal fuoco
nella caverna; vale a dire, quelle convinzioni comuni rispetto a cui sono definiti sia lo status quo che
le preferenze del cittadino. Questo fatto, tuttavia, non spinge il filosofo ad essere più cauto: il
filosofo continua ad imputare al cittadino un ben definito punto ideale, su cui successivamente
costruisce la propria strategia (e la sua sconfitta/condanna).
Fuor di metafora, il filosofo, uscendo dalla caverna, si è talmente allontanato dalla polis, da perdere
ogni legame con quest’ultima, al punto di immaginarsi un (tipo di) cittadino che in realtà non esiste,
se non nella testa del filosofo. In questo senso, è così placidamente “immerso” nella sua verità, da
risultarne accecato, senza per questo rendersene conto. In questa situazione trova allora sostegno
una seconda possibile interpretazione: quella del filosofo militante. Se volessimo estendere le
implicazioni di questa seconda tipologia di filosofo, si potrebbe osservare che Platone guarda alla
possibilità (e libertà) della parola come possibilità (e libertà) di agire da sè: paradossalmente, in
questo primo caso, non guarda ad altro. Al filosofo militante non interessa la relazione, e i
prigionieri diventano “dati” che egli, semplicemente, registra nel momento in cui rientra nella
caverna. In questo senso, a Platone interessa il momento in cui il filosofo si sottrae all’interferenza
di quella che potremmo definire una sleeping majority, e gli interessa potere tradurre in azione
questa astrazione: non va oltre, e la parola diventa, così, la principale risorsa a disposizione di
qualcuno che è diventato capace di “pensare da sé”56. “Pensare da sé” significa, in questo caso,
avere il coraggio di servirsi della propria ragione senza la guida di alcuno, per uscire dalla letargia
dei luoghi comuni, da quello che Kant nella sua Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?
chiamò lo “stato di minorità”57. Egli, tuttavia, così facendo, cristallizza il suo stato di “fuori dal
mondo” sulla base della pretesa ad essere assimilato unicamente in quanto filosofo. In questo
risiede la sua ubris, ovvero la sua dis-misura.
9.
Dall’allegoria ai “se”
Avrebbe potuto il filosofo agire in modo differente rispetto a quello che ha in effetti fatto
(“contrario ai fatti”), e grazie a ciò ottenere un esito migliore?
La risposta ovvia è che il filosofo avrebbe potuto scegliere di non parlare: in effetti, questo è un
equilibrio plausibile nel nostro gioco (supra, par. 6) che comporta per il filosofo un risultato
migliore rispetto ad una situazione in cui parla e non viene creduto, dato che nel primo caso non
deve sopportare alcun costo. Questo equilibrio risulta, tuttavia, poco plausibile date le due figure
considerate nel precedente paragrafo: sia il filosofo oracolare, che parla perché gode di una utilità
espressiva nel farlo, che il filosofo militante, che parla perché ha “perso contatto” con la realtà, non
possono, in un certo senso, che essere “condannati” a scegliere di parlare. Per decidere, al contrario,
56
Sindoni (1995): “Ho una metafora che non ho mai pubblicato, ma che ho conservato per me sola, l’ho
definita “pensare senza ringhiere”. In tedesco Denken ohne Geländer: si salgono e si scendono le scale, e si è
sempre trattenuti dalla ringhiera, in modo da non cadere. Ma noi abbiamo perso la ringhiera. Questo mi sono
detta. E questo è quello che cerco di fare”. E’ l’idea dell’infermità della filosofia, di una filosofia
“claudicante” di cui parla M. Merleau-Ponty ne L’éloge de la philosophie, Paris, Gallimard, 1975: “... poiché
è inutile contestare che la filosofia zoppica, e che il filosofo è sempre uno straniero in mezzo a dei fratelli:
anche se non ha mai tradito, si sente potrebbe farlo... la claudicazione è la sua virtù”.
57
Kant, (1991): “Les Lumières si definiscono come l’uscita dell’uomo fuori dallo stato di minorità, dove egli
si mantiene per sua propria colpa. La minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza essere
diretti da altri. Essa è dovuta alla nostra propria colpa quando risulta non da una mancanza di intelletto, ma
da una mancanza di risoluzione e di coraggio per servirsene senza essere diretti da altri. Sapere Aude! Abbi il
coraggio di servirti del tuo intelletto! Ecco la parola d’ordine delle Lumières”.
di non parlare, il filosofo avrebbe dovuto essere più cauto e meno auto-referenziale; in una parola,
avrebbe dovuto essere un filosofo pericleo58.
Per un filosofo pericleo, il mito della caverna può essere rappresentato dal gioco nella figura 5. In
questo caso, e a differenza della figura 1, il filosofo non è più certo di che “tipo” di cittadino sta
affrontando. In particolare, non sa se la posizione del punto ideale del cittadino è tale per cui a
quest’ultimo conviene accettare l’alternativa una volta ascoltato la proposta del filosofo, o
mantenere lo status quo. Più in dettaglio, con probabilità uguale a p, il cittadino è pronto ad
accogliere la proposta del filosofo; con probabilità pari a (1-p), la rifiuta.
Figura 5: la Caverna e il filosofo pericleo
è convinto
x
Cittadino
parla
Filosofo
p
non parla
non è convinto
y = status quo
y = status quo
Natura
è convinto
x
Cittadino
(1-p)
paga e parla
Filosofo
non è convinto
non parla
y = status quo
y = status quo
Anche in questo caso possiamo trarre spunto dal testo di Platone. Come già detto, il filosofo sembra
rendersi conto di avere gli occhi affaticati quando rientra nella caverna. Il filosofo militante,
tuttavia, trascura questo aspetto, proprio perché accecato dalla sua verità. Il filosofo pericleo, al
contrario, è in grado di riconoscere la sua debolezza, proprio perché si muove a partire da una
opinione e non da una verità. Tornando, ancora una volta, sulla contrapposizione tra verità e
opinione (del resto, l’intento che muove il nostro esperimento è un intento di tipo politico, vale a
dire esaminare il contrasto originario tra verità e opinione), sembra plausibile affermare che il
filosofo pericleo riconosce la possibilità di un fallimento.
Tramite questa terza figura, il modello sottolinea e sottoscrive una visione conflittualistica del
discorso pubblico: più un’opinione è in grado di sfidare/tollerare eventuali contestazioni, più ha il
diritto di essere considerata come “vera”. Questo è il metodo più opportuno per raggiungere esiti di
civiltà: quanto meno c’è pacificazione, quanto più c’è società civile. Sapersi rendere disponibile alla
contestazione: questo è la caratteristica principale del terzo filosofo .
58
Nominare questo terzo tipo di filosofo è stata un’operazione controversa: le alternative disponibili erano,
nell’opinione degli autori, filosofo liberale (un filosofo consapevole del senso del limite), critico (con
riferimento a Kant), connesso (vicino, in questo senso, al critico connesso di Walzer), situato (riprendendo
un’espressione di M. Merleau-Ponty).
Se per Platone, la ricerca del vero è più importante dell’eventuale successo della sua teoria, se
preferire il vero al proprio punto di vista è l’esercizio cui mira tutta la filosofia di Platone - e
l’allegoria della caverna è la rappresentazione di questo “esercizio”- , la lezione dell’ipotetico
filosofo pericleo è una lezione di consapevolezza dei limiti e di scetticismo sulle possibilità della
persuasione: il filosofo pericleo non ha, tra i suoi scopi, quello di convertire, ma la consapevolezza
che un pensiero va gettato nel confronto con altri pensieri, e va messo alla prova nel libero
confronto delle opinioni. La libertà di pensiero non è mai muta, né sembra possibile zittire
un’opinione che potrebbe essere vera, che potrebbe essere falsa, che potrebbe essere solo
parzialmente vera: noi dobbiamo lasciare libera voce a tutte le opinioni, poiché mettere alla prova
un’opinione significa accettare che venga contestata; presupporre l’infallibilità di un’opinione
significa sottrarla alla discussione pubblica. Solo così si potrà arrivare a definire un’opinione nuova,
che permetta anche di testare la validità delle vecchie.
Il filosofo pericleo offre, in altre parole, un valido antidoto alla degenerazione platonica, cosicché
non si riproduca il rischio di far diventare l’opinione vera un dogma, un pregiudizio, che ognuno
internalizzerà senza. L’opinione va interpretata, cioè, non alla stregua di un dogma, ma come una
verità vivente (e questa è l’unica verità accettabile), che accetta cioè sempre di essere messa in
discussione: è il conflitto delle opinioni che permette di arrivare, se mai è possibile, alla verità.
Perché il problema non è accettare tutte le opinioni: il problema è accettare che tutte le opinioni si
manifestino, rifiutare che qualcuna di esse venga zittita. Il terzo filosofo è radicalmente
anticensorio, nel momento in cui lascia le opinioni libere di scontrarsi: quale che sia il contenuto di
verità delle opinioni espresse, nessuna opinione deve essere zittita.
In questa ottica, e quando il senso del limite ha la meglio, il filosofo, date certe circostanze, può
riconoscere la scelta di non parlare come la più plausibile, e pertanto tace.
Quali sono queste circostanze? A parità del costo di parlare (K), i due aspetti cruciali rinviano al
relativo grado di soddisfazione da parte del filosofo nei confronti dello status quo (vale a dire, alla
vicinanza tra y e f), e alla sua stima relativa a p (si veda l’appendice matematica 4). Quanto più, in
altre parole, il punto ideale del filosofo non è “troppo” distante dallo status quo rispetto
all’alternativa che propone, e quanto più è ragionevolmente scettico sulla sua capacità di persuadere
(e non convertire) gli altri, tanto più opterà per non parlare. Questo scetticismo, a sua volta, è figlio
della consapevolezza, da parte del filosofo pericleo, che anche il cittadino è relativamente
soddisfatto dello status quo, a tal punto da non volerlo “barattare” con una alternativa che
comunque rimane, ai suoi occhi, per definizione incerta. Entrambi questi punti, data la figura del
filosofo pericleo sopra descritta, appaiono plausibili, così come apparirebbe plausibile la sua scelta
di zittirsi, per lasciar parlare gli altri e per ascoltare quello che gli altri hanno, in fondo, da dire (e da
dirsi).
Conclusioni
Esistono molti modi di fare filosofia, e molti modi di avvicinarsi ai filosofi: in particolare, i grandi
filosofi sono costantemente attaccati, giudicati, soprattutto fraintesi. La storia stessa della filosofia
potrebbe essere considerata come una storia di malintesi: ma i malintesi possono essere sterili o
fecondi, e l’attacco a una filosofia o a un filosofo è un buon attacco solo se diventa mezzo di
espressione, e un tramite per rinnovate reciprocità.
Il presente lavoro si proponeva – tramite l’incontro tra filosofia politica e teoria dei giochi - lo
scopo di rendere conto del fallimento di un obiettivo razionalmente perseguito, esemplificato dal
rientro del filosofo platonico nella caverna: se l’allegoria della caverna è il “mito” più importante
della filosofia, oggetto dei nostri dialoghi e degli esperimenti è stato soprattutto il suo carattere
profondamente divisivo. Nell’esperienza limite della caverna risulta, infatti, evidente più che altrove
la percezione di abitare due mondi completamente separati, qualitativamente differenti, e in
conflitto: la polis, il mondo delle idee.
Sotto l’influsso di quello che abbiamo definito lo choc platonico, si avverte l’urgenza costante, da
parte del filosofo, di un superamento radicale di tutto ciò che rileva dall’opinione. L’allegoria è
politicamente orientata, e cerca una dichiarazione politicamente impegnata di filosofia verso il
futuro: ma essa è orientata verso il rimedio molto più che verso l’analisi. Indipendentemente dai
suoi scopi politici, Platone è preoccupato al più alto grado dal problema della persuasione (leggi
processo a Socrate), e dal problema dell’errore. Come può il filosofo sfidare le apparenze? La verità
filosofica può diventare “pratica” e ispirare l’azione senza violare le regole dell’ambito politico,
senza che gli animatori politici della caverna insorgano? La mossa platonica consiste
nell’accreditare una sorta di “insegnamento attraverso l’esempio”, per cui l’insegnamento si pone
come techne di conversione, nel senso letterale del termine: non si tratta di dare alle persone
informazioni o capacità che non possiedono, ma di indurle a “voltarsi dalla parte giusta”, in modo
da permetter loro di far uso di una facoltà che già possiedono. Tale insegnamento sarebbe l’unica
forma di “persuasione” di cui la verità filosofica è capace senza perversione o distorsione, ma al
prezzo di una separazione drastica dal mondo degli affari umani, e del relazionarsi con esso solo
secondo le modalità della tirannia.
Risultato: il filosofo è diventato straniero in questo mondo, fatto che, da Platone in poi, costituirà la
consolazione della filosofia e la disperazione della filosofia politica. L’alienazione dalla terra è il
pericolo che corre il filosofo, e l’allegoria rappresenta un rivelatore per eccesso di tale pericolo.
Poichè il punto di vista di chi dice la verità, come esemplificato dal terzo tipo di filosofo, non è
necessariamente un punto di vista parlante: “il filosofo cerca di comunicare la sua verità alla
moltitudine, con il risultato che essa scompare nella diversità dei punti di vista, che per lui sono
delle illusioni, è abbassata all’incerto livello dell’opinione, in modo che adesso, di ritorno nella
caverna, la verità stessa assume le sembianze del “dokei moi” (=mi sembra), le doxai stesse che
aveva sperato di lasciarsi dietro una volta per sempre”59. “La verità filosofica, quando entra nella
piazza pubblica, cambia la propria natura e diventa opinione, perchè ha luogo un vero e proprio
“metabasis eis allo genos”, uno spostamento non solo da un tipo di ragionamento a un altro, ma da
un modo di esistenza umana a un altro”. Il filosofo cerca di utilizzare la verità filosofica come se
fosse verità fattuale: “La verità di fatto, al contrario, è sempre connessa agli altri, concerne eventi e
circostanze in cui sono coinvolti in molti, è stabilita da testimoni e conta sulla testimonianza; esiste
soltanto nella misura in cui se ne parla, anche se ciò accade in privato. Essa è politica per natura.
Fatti e opinioni, benchè debbano essere distinti, non sono opposti, appartengono allo stesso ambito.
I fatti informano le opinioni e le opinioni, ispirate da differenti interessi e passioni, possono differire
molto e rimanere legittime fino a quando rispettano le verità di fatto...”60.
Ma la verità contiene sempre un elemento di coercizione (anche la verità fattuale): essa è al di là
dell’accordo, della discussione, dell’opinione o del consenso. La verità filosofica concerne l’uomo
nella sua singolarità: essa è dunque impolitica per natura. “Se, ciò nonostante, il filosofo desidera
che la sua verità prevalga sulle opinioni della moltitudine, egli subirà una sconfitta, ed è probabile
che da questa sconfitta giungerà alla conclusione che la verità è impotente... Egli potrebbe allora
essere tentato, come Platone, di attirare l’attenzione di qualche tiranno con inclinazioni filosofiche
e, nel caso fortunatamente molto improbabile di successo, potrebbe erigere una tirannia della
verità... Nel caso leggermente meno improbabile in cui la sua verità dovesse prevalere senza l’aiuto
della violenza, semplicemente perchè è capitato che degli uomini si siano messi d’accordo su di
59
60
Arendt (1990).
Arendt (1995).
essa, egli avrebbe riportato una vittoria di Pirro. Infatti, la verità dovrebbe allora la sua prevalenza
non alla sua qualità coercitiva, ma all’accordo dei molti, che potrebbero cambiare la loro opinione
da un giorno all’altro e mettersi d’accordo su qualcos’altro; quella che era una verità filosofica
diventerebbe una mera opinione”61. In altri termini, persuasione o dissuasione sono inutili, quando il
contenuto di un’affermazione non è di natura persuasiva ma coercitiva.
In ultima analisi, considerata dal punto di vista della politica, la verità ha un carattere dispotico,
poiché essa esige perentoriamente di essere riconosciuta e preclude il dibattito, il quale costituisce
l’essenza stessa della vita pubblica. All’ideale monistico dei primi due tipi di filosofi, il filosofo
pericleo contrappone l’idea centrale del pluralismo. Accettare il pluralismo, dare un resoconto
pluralistico della nostra moralità e dei compiti della filosofia morale e politica, significa accettare
che: non tutti i valori e i fini perseguiti dagli esseri umani, oggi come ieri e domani, siano tra loro
necessariamente compatibili; i fini ultimi, i valori intrinseci non sono riducibili ad alcuna sorta di
“sintesi finale”; i valori o i fini a sé, entro la stessa cultura – o versione morale del mondo –
configgono tra loro. Significa, in ultima istanza, accettare anche la possibilità del silenzio.
In conclusione, una tesi azzardata potrebbe sostenere che, se in filosofia il contrario di
un’affermazione razionalmente vera è l’errore, alias opinione, in filosofia (e teoria) politica tale
errore diventa la fonte principale di interesse, una risorsa costitutiva. Per la filosofia politica è
l’opinione, e non la verità, a far parte dei requisiti indispensabili di ogni potere.
Il gioco della Caverna ha, in questo senso, svelato, rappresentandoli, i rischi associati all’abitudine
al buio da parte della filosofia. La figura del filosofo pericleo, in particolare, permette di
sottolineare l’insolubile trade-off tra la ricerca della sicurezza da parte del filosofo fuori dalla città e
il rischio del suo fallimento una volta rientrato nella polis: tanto più è sicuro, perché lontano, tanto
più è condannato a fallire. E viceversa. Esistono, in altre parole, degli scambi vietati tra valori:
perché ciò che perdi nella caverna, non lo recuperi nel cielo delle idee. Ogni valore è quel che è, e
niente altro. Tra equilibri “balbuzienti” e filosofie “zoppicanti”, permane allora la consapevolezza
che descrivere una schiavitù e una liberazione, è più facile che immaginare una libertà.
61
Arendt (1990).
Appendice letteraria
Repubblica, 514 a-517 a
1 [514 a] – In séguito, continuai, paragona la nostra natura, per ciò che riguarda educazione e
mancanza di educazione, a un’immagine come questa. Dentro una dimora sotterranea a forma di
caverna, con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna, pensa di
vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, sí da dover
restare fermi e da [b] poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere
attorno il capo. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d’un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri
corra rialzata una strada. Lungo questa pensa di vedere costruito un muricciolo, come quegli
schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini. –
Vedo, rispose. – Immagina di vedere uomini che portano lungo il muricciolo oggetti [c] di ogni
sorta sporgenti dal margine, e statue e altre [515 a] figure di pietra e di legno, in qualunque modo
lavorate; e, come è naturale, alcuni portatori parlano, altri tacciono. – Strana immagine è la tua,
disse, e strani sono quei prigionieri. – Somigliano a noi, risposi; credi che tali persone possano
vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della
caverna che sta loro di fronte? – E come possono, replicò, se sono costretti a tenere immobile il [b]
capo per tutta la vita? – E per gli oggetti trasportati non è lo stesso? – Sicuramente. – Se quei
prigionieri potessero conversare tra loro, non credi che penserebbero di chiamare oggetti reali le
loro visioni? – Per forza. – E se la prigione avesse pure un’eco dalla parete di fronte? Ogni volta che
uno dei passanti facesse sentire la sua voce, credi che la giudicherebbero diversa da quella
dell’ombra che passa? – Io no, per Zeus!, [c] rispose. – Per tali persone insomma, feci io, la verità
non può essere altro che le ombre degli oggetti artificiali. – Per forza, ammise. – Esamina ora,
ripresi, come potrebbero sciogliersi dalle catene e guarire dall’incoscienza. Ammetti che capitasse
loro naturalmente un caso come questo: che uno fosse sciolto, costretto improvvisamente ad alzarsi,
a girare attorno il capo, a camminare e levare lo sguardo alla luce; e che cosí facendo provasse
dolore e il barbaglio lo rendesse incapace di [d] scorgere quegli oggetti di cui prima vedeva le
ombre. Che cosa credi che risponderebbe, se gli si dicesse che prima vedeva vacuità prive di senso,
ma che ora, essendo piú vicino a ciò che è ed essendo rivolto verso oggetti aventi piú essere, può
vedere meglio? e se, mostrandogli anche ciascuno degli oggetti che passano, gli si domandasse e lo
si costringesse a rispondere che cosa è? Non credi che rimarrebbe dubbioso e giudicherebbe piú
vere le cose che vedeva prima di quelle che gli fossero mostrate adesso? – Certo, rispose.
2 [e] – E se lo si costringesse a guardare la luce stessa, non sentirebbe male agli occhi e non
fuggirebbe volgendosi verso gli oggetti di cui può sostenere la vista? e non li giudicherebbe
realmente piú chiari di quelli che gli fossero mostrati? – È cosí, rispose. – Se poi, continuai, lo si
trascinasse via di lí a forza, su per l’ascesa scabra ed erta, e non lo si lasciasse prima di averlo tratto
alla luce del sole, non ne soffrirebbe e non s’irriterebbe [516 a] di essere trascinato? E, giunto alla
luce, essendo i suoi occhi abbagliati, non potrebbe vedere nemmeno una delle cose che ora sono
dette vere. – Non potrebbe, certo, rispose, almeno all’improvviso. – Dovrebbe, credo, abituarvisi, se
vuole vedere il mondo superiore. E prima osserverà, molto facilmente, le ombre e poi le immagini
degli esseri umani e degli altri oggetti nei loro riflessi nell’acqua, e infine gli oggetti stessi; da
questi poi, volgendo lo sguardo alla luce delle stelle e della luna, [b] potrà contemplare di notte i
corpi celesti e il cielo stesso piú facilmente che durante il giorno il sole e la luce del sole. – Come
no? – Alla fine, credo, potrà osservare e contemplare quale è veramente il sole, non le sue immagini
nelle acque o su altra superficie, ma il sole in se stesso, nella regione che gli è propria. – Per forza,
disse. – Dopo di che, parlando del sole, potrebbe già concludere che è esso a produrre le stagioni e
gli anni e a governare tutte le cose del mondo visibile, e ad essere [c] causa, in certo modo, di tutto
quello che egli e i suoi compagni vedevano. – È chiaro, rispose, che con simili esperienze
concluderà cosí. – E ricordandosi della sua prima dimora e della sapienza che aveva colà e di quei
suoi compagni di prigionia, non credi che si sentirebbe felice del mutamento e proverebbe pietà per
loro? – Certo. – Quanto agli onori ed elogi che eventualmente si scambiavano allora, e ai primi
riservati a chi fosse piú acuto nell’osservare gli oggetti che passavano e piú [d] rammentasse quanti
ne solevano sfilare prima e poi e insieme, indovinandone perciò il successivo, credi che li
ambirebbe e che invidierebbe quelli che tra i prigionieri avessero onori e potenza? o che si
troverebbe nella condizione detta da Omero e preferirebbe “altrui per salario servir da contadino,
uomo sia pur senza sostanza”, e patire di tutto piuttosto che avere quelle opinioni e vivere in quel
modo? – Cosí penso anch’io, rispose; [e] accetterebbe di patire di tutto piuttosto che vivere in quel
modo. – Rifletti ora anche su quest’altro punto, feci io. Se il nostro uomo ridiscendesse e si
rimettesse a sedere sul medesimo sedile, non avrebbe gli occhi pieni di tenebra, venendo
all’improvviso dal sole? – Sí, certo, rispose. – E se dovesse discernere nuovamente quelle ombre e
contendere con coloro che sono rimasti sempre prigionieri, nel periodo in cui ha la vista offuscata,
prima [517 a] che gli occhi tornino allo stato normale? e se questo periodo in cui rifà l’abitudine
fosse piuttosto lungo? Non sarebbe egli allora oggetto di riso? e non si direbbe di lui che dalla sua
ascesa torna con gli occhi rovinati e che non vale neppure la pena di tentare di andar su? E chi
prendesse a sciogliere e a condurre su quei prigionieri, forse che non l’ucciderebbero, se potessero
averlo tra le mani e ammazzarlo? – Certamente, rispose. [...] (Platone, Opere, vol. II, Laterza, Bari,
1967, pagg. 339-342)
Appendice matematica (1):
Quanto maggiori sono i costi richiesti per poter parlare, tanto minori sono i tipi di agenti che
troveranno vantaggioso decidere di parlare e quindi più protetto risulterà lo status quo. In questo
senso, ci possono essere situazioni (come quella riportata nella figura 4), in cui le preferenze del
filosofo e del cittadino sono decisamente vicine, anche se non coincidenti; la proposta del filosofo è
in grado di produrre un miglioramento per il cittadino rispetto allo status quo (nell’ipotesi in cui
f=x); ciò nonostante, dato il relativo costo, il filosofo non parla. E questo indipendentemente dalla
particolare distribuzione di probabilità del cittadino relativa al tipo di filosofo che ritiene più
plausibile incontrare.
Figura 4: l’impatto del costo sugli incentivi a parlare
Intervallo del
costo
0
y f c
1
L’altra faccia della medaglia, è che quanto più elevato risulta il costo per parlare, tanto più crescerà
la precisione dell’aggiornamento delle ipotesi del cittadino riguardo il tipo di filosofo e, di
conseguenza, riguardo la posizione di x. Emerge, in questo senso, un interessante trade-off.
Richiedere, infatti, una dimostrazione di buona volontà al filosofo, imponendogli un costo per
parlare, permette al cittadino di discriminare tra i vari agenti, ma al costo di costringere in certe
situazioni il filosofo a non parlare, anche qualora il “parlare” porterebbe un beneficio per entrambi i
giocatori.
Appendice matematica (2):
Nel gioco della figura 1, abbiamo due equilibri:
1) Il filosofo parla, pagando K, e il cittadino opta per l’alternativa proposta dal filosofo, se e
solo se:
− x− f −K >− y− f
(1.1)
e
−
y−K
min(0, y − K )
f − c dF −
1
min( y + K ,1)
f − c dF > − y − c
(1.2)
2) In tutti gli altri casi, il filosofo non parla e il risultato del gioco è y.
La (1.1) ci dice che il filosofo decide di parlare, pagando il relativo costo, se e solo se il suo punto
ideale non è localizzato all’interno dell’intervallo delle alternative non vantaggiose. Quando
assumiamo, come nel nostro caso, che x=f, questo significa che: − K > − y − f , il che equivale a
dire che f ∉ [ y − K , y + K ] ; in caso contrario, ovvero quando f ∈ [ y − K , y + K ] , non è mai
conveniente per il filosofo cercare di influenzare la scelta del cittadino, dato il costo del parlare.
In secondo luogo, il filosofo, per parlare, deve essere convinto di riuscire a convincere il cittadino
ad accettare la sua proposta. Questa condizione si ottiene in due passaggi. Primo: dato che quando
f ∈ [ y − K , y + K ] parlare è una strategia dominata per il filosofo, quando il filosofo paga il costo e
parla, allora il cittadino può aggiornare le sue ipotesi riguarda alla vera posizione di f (e, come
conseguenza, di x); in particolare, il cittadino sa ora che f ∉ [ y − K , y + K ] . Dato il precedente
punto, allora, il cittadino accetta la proposta del filosofo, solamente se:
−
y−K
min(0, y − K )
f − c dF −
1
min( y + K ,1)
f − c dF > − y − c ,
Il primo termine (dove F è la funzione di probabilità cumulata relativa alla distribuzione dei tipi di
filosofo) rappresenta l’utilità attesa di scegliere l’alternativa proposta per il cittadino, sulla base
della distribuzione soggettiva di probabilità che il cittadino presenta nei confronti dei possibili tipi
di agenti, e sulla base delle ipotesi aggiornate riguardo a tale punto (dato che adesso il cittadino sa
che f ∉ [ y − K , y + K ] ). Il secondo termine rappresenta l’utilità (certa) che il cittadino ottiene
mantenendo lo status quo. Quando il primo termine è superiore al secondo, allora accettare la
proposta del filosofo è una strategia dominante per il cittadino, e parlare, stante f ∉ [ y − K , y + K ]
e il costo K, è la migliore risposta per il filosofo. In caso contrario, la strategia dominante è quella di
mantenere lo status quo. Ovviamente, in quest’ultimo caso, la migliore risposta per il filosofo è non
parlare, evitando di pagare il relativo costo62.
Appendice matematica (3):
Il cittadino, data una distribuzione uniforme di probabilità a proposito del tipo di filosofo che parla,
e data l’assenza di costi per parlare, opterà per l’alternativa rispetto allo status quo quando:
−
1
f − c dF > − y − c
0
da cui:
−
(f
− c)
2
2 1
> − y−c
0
ovvero:
− y−c > −
1
.
2
Appendice matematica (4):
Nella figura 5, facciamo le seguenti assunzioni: nel caso di p, la disuguaglianza definita dalla (1.2) è
soddisfatta, e quindi il cittadino accetta l’alternativa proposta dopo che il filosofo ha parlato. Nel
caso (1-p) non è invece soddisfatta. L’utilità attesa per il filosofo di parlare, pagando il costo K,
diventa allora: − p x − f − (1 − p ) y − f − K . L’utilità attesa per il filosofo di non parlare è
− y − f . In questo senso, e ricordando che x=f, l’utilità attesa di parlare meno l’utilità attesa di non
parlare si riduce a: p ( y − f ) − K . Quando questa differenza è positiva, vale a dire, quando:
p>
(
K
y− f
)
(1.3),
il filosofo parla; altrimenti sceglie la strada del silenzio.
62
La presenza di un costo per il filosofo fa sì che la probabilità di una comunanza di interessi tra cittadino e
filosofo non acquisti una rilevanza cruciale per il successo di una comunicazione verbale (Lupia –
McCubbins 1998). In altri termini, è possibile per il cittadino essere convinto dal filosofo anche laddove la
probabilità di una prossimità tra i punti ideali del filosofo e del cittadino, risulti in partenza molto bassa. Ad
esempio, si supponga che y=0,3; che la distribuzione di probabilità del cittadino relativa ai punti ideale del
filosofo sia tale che il 99% della rispettiva massa sia localizzata al punto 0,2 e l’1% al punto 0,9; che K=0,5 e
che c=0,8. Se x=0,2 o f=0,2, allora parlare, pagando K, è una strategia dominata per il filosofo. Al contrario,
quando x=0,9 e f=0,9, allora il filosofo parlerà se crede che il cittadino opti per x. Se il cittadino crede che il
filosofo parlerà, pagando K, solamente quando x=0,9, la sua migliore risposta è scegliere x se il filosofo
decide di parlare. In questo senso, c’è persuasione sebbene la probabilità di una comunanza di interessi tra
filosofo e cittadino è in partenza solamente dell’1%. In un gioco in cui parlare non ha costi, al contrario, tale
aspetto è fondamentale per convincere qualcuno di qualche cosa.
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