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la moglie dei due mariti - Buccheri e la sua storia

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la moglie dei due mariti - Buccheri e la sua storia
1
VINCENZO OTTAVIANO GUARRELLA
2
Biografia dell'autore.
Vincenzo Ottaviano(*) Guarrella nasce a Ragusa il 17
febbraio del 1850 da Francesco Guarrella e da Teresa
Ottaviano(*). Il 30 agosto 1879, quindi all'età di 29 anni sposa
Grazia Maria Catalano Figlia di Tommaso e di Ribera
Carmela di 7 anni più giovane di lui, essendo nata il 25
giugno del 1857.
La loro unione viene allietata dalla venuta al mondo di tre
figli:
...- Francesco Maria – che nasce a Buccheri il 6 gennaio 1891.
Sposerà il 1° settembre del 1906 Grazia DiCorrado.
Sconosciuta la data della sua morte.
...-Tommaso – che nasce a Buccheri il 22 febbraio 1882 che
sposerà Elena Costa e andranno ad abitare in via Bilingeli.
Morirà a Catania il 30 ottobre del 1966, all'età di 84 anni.
...-Maria Teresa – che nasce a Buccheri il 9 ottobre del 1887
che sposerà a Buccheri il 21 dicembre del 1911 certo Pistorio
Giovanni. Morirà a Firenze il 6 gennaio del 1981.
Di Vincenzo Ottaviano non conosciamo, (al momento) la data
della sua morte, che sembra avvenuta a Ragusa, dove pare sia
sepolto nel cimitero di Ibla.
(*) Ottaviano non è dunque un secondo nome, come avevamo
erroneamente pensato, bensì il cognome della madre.
3
Probabilmente proveniente da famiglia nobile, poiché era un
fatto normale che i figli della nobiltà assumessero entrambi i
cognomi, sia della madre che del padre.
In tempi più recenti ci risulta che persino i mariti, figli di
gente benestante che avevano la ventura di sposare una
fanciulla di nobili origini, ne assumevano il di lei cognome,
esattamente come le mogli plebee (nei matrimoni normali)
assumevano il cognome del marito.
Altre notizie biografiche verranno inserite (nelle edizioni
successive) via via che ne verremo a conoscenza.
4
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VINCENZO GUARRELLA OTTAVIANO
LA MOGLIE DI DUE MARITI
Tratto dalla prima edizione
RAGUSA INF.
Tip. Ed. Cappello e F.lli Puglisi
---1889
Libera trascrizione e riedizione dalla copia in possesso dell'autore
con l'aggiunta delle sue note manoscritte
anno MMX
1^ Edizione – Ottobre 2010
2^ Edizione - Luglio 2014
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PROPRIETÀ LETTERARIA
Diritti di riproduzione e di traduzione riserbati all'autore.
Le copie non munite della firma dell'A. si riterranno
come contraffatte.
(Firma V. Guarrella)
7
AD EDMONDO DE AMICIS
CHE NELLE IMMEMORABILI SUE OPERE
CON MIRABILE MAGISTERO
SEPPE TRASFONDERE
LE PIÙ SPLENDIDE E PURE GRAZIE
DELL'ITALICA FAVELLA
PENNELLEGGIANDO
CON AFFASCINANTE STILE
GLI AFFETTI PIÙ SQUISITI E GENTILI
QUESTO POVERO E DISADORNO LAVORO
SEBBENE IMMERITEVOLE DI FREGIARSI
D'UN NOME COTANTO ILLUSTRE
COME SEMPLICE TESTIMONIANZA
DI VENERAZIONE E D'AMORE
DEDICO CONSACRO
8
Note alla presente edizione.
Tutti noi nativi di Buccheri fin da bambini abbiamo sentito parlare
della storia de' du' mariti, tanto è vero che a chiunque vien chiesto qual
è la strada che porta quel nome, nessuno avrà alcun tentennamento ad
indicarvi l'attuale Via Principe Umberto, ovvero la strada che
dipartendosi da piazza Loreto (A'urito, che dà nome a tutto il quartiere)
conduce agli inizi di Via Umberto.
Sia da alcuni brani che da frammenti letti qua e là avevamo saputo che
esisteva a Buccheri una Via Due Mariti, ora ne abbiamo avuto certezza
sia consultando una antica toponomastica sia dalle pagine di questa
storia del Guarrella che ci tramanda in modo un po' romanzato e un po'
falsato come si sono svolti i fatti.
Fatti che gli erano noti perché accaduti durante la sua esistenza e lui
stesso ci conferma di aver conosciuto e addirittura parlato con i suoi
protagonisti.
La vicenda, che vede anche il ferlese Mangiamele condannato
innocente e morto in carcere, suscitò tanta pena e fece tanto scalpore che
gli amministratori dell'epoca pensarono bene di dedicarvi una strada, la
stessa strada dove aveva abitato Maddalena che chiamarono per
l'appunto Via Due Mariti.
Diversi decenni dopo, in pieno servaggio sabaudo, quando tutti
facevano a gara a chi più servilmente sapeva pronarsi in adorazione
quasi divina verso i tiranni, è stato cambiato il nome di quella via per
dedicarlo all'ultimo nato di una famiglia che in seguito avrebbe
confermato la sua vera natura tiranna da padrona.
L'uomo ha bisogno di un padrone esattamente come un pesce può aver
bisogno di una bicicletta, o un agnello del suo macellaio, o meglio per
dirla alla Temistocle, l'uomo che per paura di perdere la sua vita e la sua
sicurezza rinuncia alla sua dignità e alla sua libertà avrà perduto sia la
dignità che la vita.
Per farla breve questo mio sfogo vuol essere una provocazione a ché
noi tutti riflettiamo se non sia più opportuno aver dedicate le strade sia
a uomini illustri come i due sindaci Mazzone per esempio, martiri
9
nei secoli scorsi della tirannia baronale, che a fatti memorabili (Via
Due Mariti, per esempio) anziché a personaggi per niente illustri che
semmai denotano il vil servaggio di certi nostri amministratori del
passato.
Ritornando alla nostra storia, tutti noi ne abbiamo sentito parlare, ma
ciascuno di noi in modo diverso, a tal punto che se provate oggi a
farvela ripetere ne sentirete come minimo tre o quattro versioni diverse,
con varianti più o meno fantasiose alcune delle quali truculente.
Già in altre occasioni avevo espresso questo mio scetticismo sulla
versione che ricordavo io e che mi era stata raccontata da piccolo
(ovvero appena una ottantina d'anni dopo i fatti) e già nessuno, per
esempio, ricordava i nomi dei protagonisti.
Quando molti anni fa lessi per la prima volta il Fu Mattia Pascal di
Pirandello, e mi permisi di dire in un "circolo di letterati" che quella
storia probabilmente (o quasi sicuramente) era tratta dalla nostra
buccherese "storia dei due mariti" mi fu riso in faccia e mi fu fatto
rilevare che probabilmente ogni paese della Sicilia (o persino del
meridione) racconta la stessa storia come avvenuta realmente nelle sue
contrade. Insomma alla fine dovetti ammettere, da quell'animale
iper-razionale quale sono, che il tutto poteva benissimo essere frutto di
leggenda magari mutuata da qualche cantastorie di passaggio, come si
usava un tempo, almeno fino a mezzo secolo fa.
Oggi che possiamo fare un raffronto storico si può affermare e senza
dubbio che una copia della "Moglie dei due mariti" pubblicata nel 1889
possa essere finita in mano al Pirandello o che comunque abbia avuto
contezza degli avvenimenti descritti in questo libro e da questa ha tratto
BEN 15 ANNI DOPO, il suo romanzo: Il Fu Mattia Pascal. Pur
ambientandolo in altri luoghi e facendo muovere altri personaggi,
l'impianto crono-storico è quasi identico alla nostra storia.
Nel trascrivere il testo del Guarrella, ho cercato in tutti i modi di
riportare L'ESATTA impaginazione e l'esatta sintassi, affinché non
avesse a perdere nulla del "parlar forbito" seppur datato, del suo autore
che si rivela una persona colta.
Forse era già nelle intenzioni dell'autore modificarne qualche piccolo
dettaglio tipografico per migliorarne l'effetto grafico-estetico visto che
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nella copia nostra vi abbiamo trovato segnate a mano due "aggiunte" ed
effettivamente qualche miglioramento dell'impaginazione (per esempio
dei dialoghi) sarebbe da rivedere.
In questa "riedizione" da noi approntata ci siamo presi la libertà di
inserire fra le prime pagine la foto scattata al suo ritratto che ancora è
presente nella sua casa di Via Natale Cappello.
Vi abbiamo quindi inserito due note riguardanti le sue "citazioni"
all'interno dell'opera che non sono molto conosciute ai non letterati (ai
non "accutturati" come mi ha definito scherzosamente tempo addietro
un amico), la prima riguardante il primo canto dell'Inferno di Dante, la
seconda tratta da un'opera di Giovanni Prati.
Una considerazione particolare va fatta sulla nota n. [(3)] che troverete
in fondo al libro e che per dovere di correttezza cronologica riportiamo
prima della storia che ci accingiamo a trascrivere.
Il Guarrella non cita la data del primo matrimonio avvenuto fra Maria
Maddalena Marchese e Salvatore Magazzino, mentre riporta, addirittura,
uno stralcio notevole del secondo matrimonio oltre alla sua data
corretta... sbagliando invece il nome del secondo marito: perché?
L'ipotesi che lui non abbia avuto diretto accesso ai documenti del
Comune potrebbe essere valida; probabilmente si è servito di qualche
“informatore” che gli ha fornito solo la parte documentale del secondo
matrimonio e non del primo.
L'unica cosa che del primo evento correttamente lui cita è la primavera
avanzata (o inizio estate) dell'anno 1853 come “momento” dell'incontro
e/o della conoscenza tra il Magazzino e la Marchese, sfociato poi nel
matrimonio tra i due (data che lui non cita) e che noi abbiamo trovato
effettivamente celebrato alcuni mesi dopo, il 28 Agosto dello stesso
anno 1853 (ved. copia fotografica tratta dai registri del Comune di
Buccheri).
Ulteriore nota negativa riguarda la parte fantasiosa dell'esistenza (e
delle azioni) della madre di Maria Maddalena Marchese e della madre di
Salvatore Magazzino, che invece nell'atto di matrimonio originale da noi
ritrovato e consultato risultano inesistenti in quanto entrambi figli di
“ignoti parenti”, di conseguenza, pur ammettendo valida la “gelosia”
11
come causa prima dell'abbandono del primo marito, sicuramente (non
essendo esistenti) nessuna delle due madri avrebbe potuto mai
“influenzare” i figli; né la fantasiosa madre della Maddalena, dai facili
costumi, né la cattiva madre di Salvatore dalla eccessiva gelosia.
A meno che non si fosse trattato di genitori adottivi.
In tal caso il Guarrella avrebbe dovuto darne almeno un cenno, cosa che
non fa, e quindi da un punto di vista rigorosamente storico-aneddotico è
meglio prenderlo con le dovute cautele.
Come conseguenza si può seriamente pensare che nella nostra “storia”
ci siano troppe parti decisamente “inventate” frutto delle “tendenze
letterarie” del nostro autore.
Se così stessero realmente le cose, si potrebbe benissimo capire il
Pirandello che, nel trattare lo stesso tema, non cita alcun riferimento né
riguardo al Guarrella né al fatto realmente accaduto a Buccheri. Tema
che lui tratta decisamente in modo puramente letterario, cambiando e
stravolgendo completamente i fatti reali e prendendo dalla nostra storia
solo “lo spunto” per il suo capolavoro (quello sì) letterario.
Al nostro Guarrella va comunque riconosciuto il merito di averci
tramandato un pezzo della nostra storia, sia pure ammantata di aneddoti
fantastici, che altrimenti si sarebbe irrimediabilmente perduta.
Altro appunto invece merita il secondo matrimonio.
Per una svista o per un errore di trascrizione o per una errata
comunicazione al Guarrella da parte dell'ufficiale d'anagrafe, egli
indica in Salvatore Barrile il nome del secondo marito di
Maddalena, mentre invece nell'atto da noi ritrovato e consultato
questi viene indicato col nome di Salvatore Lombardo.
Nell'appendice è visibile chiaramente questo nome che
riportiamo fotografato dal registro dello Stato Civile di Buccheri.
Le trascrizioni riportate dal Guarrella sulla presunta morte del
Magazzino risultano invece parola per parola nell'atto che
abbiamo fotocopiato.
Una ulteriore ipotetica causa di questo errore di trascrizione del
cognome si può ipotizzare come probabile 'nciuria del Lombardo
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in "varrile" quindi "barrile", e dati i tempi in cui ci troviamo,
ovvero quando ci si conosceva più con le 'nciurie che con i
cognomi, sarebbe stato anche plausibile un tale errore.
Peccato solo che fra le oltre 1200 'nciurie da noi finora registrate
non troviamo traccia di alcun "varrile"; 'nciuria inesistente?
Oppure è magari una 'nciuria esistita in passato e di cui si è
semplicemente persa la memoria?
Ma riflettendoci ancora però bisogna ammettere che queste
giustificazioni non reggono ad una analisi più attenta e quindi mi
sono chiesto e richiesto come mai il Guarrella avesse commesso un
errore così apparentemente pacchiano?
Non sarebbe stato da lui.
Cronista scrupoloso, almeno per quanto riguarda la parte
“storica” che ci ha tramandato, parla del secondo marito come di
uno che viveva ancora al momento della pubblicazione del libro e
che fa di mestiere lo spazzacamino (altro errore del Guarella che
invece alla fine del libro lo descrive come un contadino che stava
arando un campo in quel di Passo Marino).
Una ulteriore e definitiva ipotesi (sostenuta anche da Liliana
Nigro, che abbiamo scoperto essersi occupata di questa vicenda
oltre 10 anni fa e di averne addirittura tratta un'opera teatrale)
potrebbe essere la seguente: dopo questo "fattaccio" il secondo
marito potrebbe non aver avuto vita facile e immaginiamo gli
sberleffi della gente e dei ragazzacci... quindi ulteriore
motivazione:
e se il Guarrella avesse DELIBERATAMENTE cambiato il cognome del
Lombardo in Barrile proprio per non sottoporlo ad ulteriore gogna?
Leggendo fra le righe il trasparire dell'animo gentile del Guarrella
non è da escludere una tale ipotesi, anzi... Comunque sia, ogni ipotesi è plausibile!!!
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Ritornando alla nostra trascrizione abbiamo cercato di renderla
“gradevole”, usando dei caratteri moderni pur lasciando inalterati
lo stile, le parole, la punteggiatura e la stessa impaginazione
dell'opera così come da noi trovata nelle fotocopie.
Per finire... lo abbiamo ricompilato in formato PDF perché sia reso
disponibile per tutti a costo ZERO.
Speriamo di aver fatto cosa gradita a coloro che come noi amano
Buccheri e le sue memorie e se qualcuno ritiene che noi ci sia
"appropriati" di qualcosa, beh sì di qualcosa ci siamo appropriati:
dell'emozione e del piacere di preservare per i nostri figli e per i nostri
posteri ciò che a nostro avviso val la pena essere ricordato e salvato
dall'oblio.
Perdonateci l'eventuale presenza di qualche errore di trascrizione e se ne
trovate segnalateceli. Provvederemo immediatamente a rimuoverli e a
redistribuire la copia corretta, sia nella versione digitale che in quella
cartacea.
La versione elettronica in formato PDF che a noi non costa nulla è a
vostra disposizione gratuitamente.
Ma venendo incontro alle molteplici richieste che tanti ci hanno
rivolto, ovvero di poterne avere a disposizione una copia stampata su
carta, abbiamo provveduto a farla stampare da un editore in USA
(lulu.com) a un costo irrisorio, e con una piccolissima percentuale che
abbiamo ceduto e voluto fosse dirottata verso un Ente benefico che voi
tutti conoscete:
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14
Un prezzo irrisorio che serva soltanto a ripagare i costi di produzione e
delle materie prime, perché:
La conoscenza è come la vita!
Non ha prezzo!
E sarebbe IMPAGABILE se ne avesse uno.
Vito Gambilonghi
15
MADDALENA IMPENITENTE
ossia
LA MOGLIE DEI DUE MARITI
§§§§§§§§§
Riesce difficile, a chi non ha mai osservata
una festicciuola in un borgo montanino, formarsi
un chiaro concetto del misto d'ascetico e di pro­
fano, di baldoria e di penitenza che in quel giorno
si manifesta nel seno del popolo.
Il curioso movimento s'inizia poche settima­
ne prima, ed ovunque è un continuo affaccen­
darsi, un lavorio incessante per fare un po' di
mostra il dì festivo. Qui è una moglie che tiene
il broncio al marito perché non ha pensato an­
cora a comprarle una veste elegante; là una fi­
glia che piange per avere le scarpe rotte, ed il
calzolaio le ha detto che non ha più tempo di
16
fargliene un paio nuove. Un giovine muove
lagno contro i proprii genitori perché tiene i cal­
zoni sbiaditi o logori: Santo Dio, lo si ode escla­
mare,è un anno che lavoro, e sì che ho guadagnato
di bei quattrini, ed ora che viene la festa del
patrono non posso avere un vestito per bene; ­ i
miei compagni faranno miglior figura di me.­ Un
carrettiere dice avere comprato un abito di roba
finissima che è proprio un piacere a guardarsi, ed
una berretta di seta nera con un fiocco pesante
quasi un chilogramma; un padre si lamenta che la
festa viene a consumargli tutti i risparmi del­
l'anno per le spesucce ch'è costretto a fare; e la
pinzocchera, col capo chino e guardando sem­
pre di sbieco la gente che passa, lavora a rica­
mare una tovaglia che dovrà figurare sull'altare
maggiore. Se una giovane canta assai allegramente
innanzi l'uscio od affacciata al balcone, è segno
che le cose le vanno a modo; cuce difatti e se­
duta in modo che possano tutti vederlo, tanto per
darne una mostra anticipata, un abito di mus­
solino a grandi e vivaci colori attaccandoci quan­
to più fronzoli può. I negozi e le botteghe, spe­
cie dei sarti e dei calzolai, sono in movimento
continuo e si lavora al chiaro d'una lucerna fi­
no a notte alta.
17
Ci è poi da sbellicarsi delle risa al dì di festa.
Le case dei contadini hanno avuto la rara fortu­
na di venir pulite: sul letto si colloca la coltre
che la moglie portò in dote; e da tutti i tetti si
sprigiona un po' di fumo in segno che qualcosa
di cotto si prepara nella pentola ed è vergogna
se non se ne scorge.
Si vedono abiti di tutte le forme e di tutti i
colori, cappellacci che ricordano gli anni di Ma­
tusalem, a picco, a larghe tese, schiacciati, pic­
colini e via di seguito; un bellimbusto con ber­
retto rosso, abito di tela giallognola ed un paio
di stivaletti, che mandano nel camminare una spe­
cie di cigolio che si sente da lontano; un dovizio­
so agricoltore con abito di velluto nero, una bella
fascia azzurra attaccata alla cintola e un'andatura
da spavaldo; un contadino con camicia bianchissi­
ma a larghe maniche, la giacchetta abbandonata
sulle spalle ed un fazzoletto attaccato alla testa a
guisa del turbante degli orientali. Le belle fan­
ciulle con vesti tese che sembrano inamidate; le
mamme amabili che vanno dietro le figlie e sen­
tono allargarsi il cuore alla gioia se vedono un bel
tocco di celibe ammiccarle coll'occhio; qual­
che pruriginosa zitellona dannata a starsene in
casa a spulciare il gatto, col viso coperto di pol­
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vere di riso, tanto per nascondere le grinze del­
la sua faccia; un vecchia matrona che tutta im­
pettita indossa l'abito di seta, che cinquant'an­
ni prima le portò il marito pel dì delle nozze;
delle giovanette appartenenti a nobile casato con
cappellini pieni di piume e di grandi nastri, e
coll'abito che un tempo indossava la nonna, ri­
fatto a nuovo per adattarlo al loro corpicino ed
alle esigenze della moda; ed a volte un giovine
che all'andatura, al modo di vestire, rivela ave­
re servito nella milizia o essere stato per qualche
tempo in una città.
Avveniva una di tali festicciole in Bucche­
ri. Il popolo s'era riunito nella madre chiesa,
dove un certo coso mingherlino s'era da un pez­
zo preparato a sciorinare un sermone indigesto
apostrofando, secondo il solito, la perfidia del
secolo.
Era un giorno del morente aprile dell'anno
1853, quello in cui cadeva la festa da noi cennata.
La natura col profumo dei suoi fiori, col lim­
pido suo cielo, col sorriso dei suoi campi
schiudeva i cuori giovanili alle voluttuose ebbrez­
ze di amore e trasportava le loro menti attra­
verso i sereni campi dell'ideale.
Salvatore Magazzino, giovine agricoltore dalle
19
vaghe fattezze, dal corpo erculeo, appoggiato ad
una colonna, gettava i suoi sguardi, lampeggian­
ti d'immenso affetto, su d'una vaga maliarda che
poco lungi sedeva sopra una panchetta, ed ella o­
ra gli faceva l'occhiolino ed ora volgea ansiosi gli
occhi qua e là per la chiesa, come se fosse an­
data in cerca di un altro amante.
Salvatore allora, preso da forte corruccio e da
gelosia, fingeva di non curarla, mentre la fissava
con la coda dell'occhio.
Queste scene si rinnovavano a breve distanza
di tempo e movean le risa di coloro che se ne
accorgevano.
§
In tutte le sere dei dì festivi, Salvatore, di u­
nita ad un crocchio di amici, andava dietro l'u­
scio dell'amante per cantarle in coro, come si
usa in Buccheri, la canzonetta di amore.
Una volta, dopo il solito canto, un giovine av­
volto in una giubba di panno grossolano e che da
un pezzo stava appoggiato allo spigolo di una
vicina casa, chiamò ad alta voce:
­ Salvatore?
­ Chi è là? 20
­Diavolo!... non mi riconosci più?... son
Antonio Bilinceli.
­E che fai lì a quest'ora?
­Aspettavo a te.
­A me?
­Che vuoi?
­Mi sono avvisto da un pezzo che tu baz­
zichi presso l'uscio della Maddalena.
­È vero.
­Saprai certamente che da un anno io fac­
cio con lei all'amore.
­Lo so!
­Quand'è così, ti prego andare altrove in cer­
ca di avventure galanti.
­Non capisco un finocchio ciò che vuoi dirmi. ­Giacché ci godi a farmi l'indiano, ti par­
lerò chiaro. T'ordino con quei brutti arnesi di
mai più avvicinarti a quella casa.
­Ah! ah! ah!... tu mi fai ridere.
­Smetti quel riso da gonzo, se non vuoi
a­vere rotte le costole.
­Quanti bicchieri hai tracannati sta sera?
Vedo che il vino ha dato di volta al tuo cervel­
lo. E proferì queste parole con accento d'amaro
sarcasmo.
Ad Antonio allora montò la senapa al naso
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ed in men che non si dica gli scaraventò un pugno
sulle spalle e lo stramazzò a terra; ma accorsi i
compagni di Salvatore, conciarono in modo il suo
avversario che dovette andarsene a casa bran­
colando.
§ Chi era la donna per cui avvenne quella contesa,
noi già lo sappiamo ma sconosciamo fin qui la
sua indole, le sue tendenze, le sue abitudini.
L'educazione è il fattore più potente della mo­
ralità umana. Chi crede ancora col Ginevrino fi­
losofo che l'uomo nasce colle migliori inclinazio­
ni di questo mondo le quali sono poi guaste
dall'educazione, mostra essere digiuno di buoni
studi e di sconoscere eziandio il naturale svolgi­
mento delle nostre facoltà. È però cosa ormai in­
dubitabile che l'educazione subisce il carattere di
chi la dà e che giammai può riuscire a modo
se una delle condizioni seguenti viene a man­
care: 1. Ove non si san leggere nel cuore del fan­
ciullo i vizi e le virtù che in lui esistono in po­
tenza e che in varia guisa cominciano a sbuc­
ciare in quell'età, tanto da potersi trovare un si­
curo metodo per correggere i primi e svolgere le
seconde; 2. Se chi la dà, guidato da cattive ten­
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denze, mena una vita scapata e non può avva­
lorare il precetto colla virtù dell'esempio. Saggia
dunque è l'osservazione di un filosofo illustre, che
a conoscere il valore morale dei figli è d'uopo
volgere lo sguardo ai loro genitori. Sogliono i co­
stumi dei padri in generale tramandarsi nei loro
nati in guisa da farne stupire.
Esaminiamo dunque cos'era la madre di Mad­
dalena per fare di costei un'esatta conoscenza.
I suoi genitori appartenevano a quella classe
di contadini che vivono meschinamente col la­
voro della giornata. Fanciulla ancora gironzola­
va continuamente per le campagne in cerca di
erbe mangereccie che poi vendeva in paese e
ne ricavava qualche soldo. Una vesticciuola su­
dicia e tutta a brandelli serviva a coprire le
sue tenere membra e pochi fili di paglia sparsi
per terra formavano il suo letticciuolo. I piedi
avea scalzi, i capelli arruffati e la faccia sem­
pre lorda.
Venuta su negli anni si pose ai servizi di un
negoziante, padre di numerosa prole, e dopo qual­
che tempo il vitto migliore ed abbondante e le
vestimenta pulite, fecero parerla quale veramente
si era, cioè una bellissima donna.
Allora il padrone, uomo rotto ad ogni libidi­
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ne, che gli si leggeva in due occhi volpini e
sprofondati immezzo a un'orbita nera, vi fece
su disegno e a furia di lusinghe e di bugiarde
promesse riuscì a sedurla. Però, dominato com'era
dalla volubilità del capriccio, a capo di un anno
la gettò sul lastrico e Gervasa a vece di solle­
varsi dal lezzo in cui era caduta seguì a mena­
re la putrida vita della Venere Pandemia.
Dopo lunghi risparmi, virtù veramente rara a
trovarsi in gente siffatta, mise su un buon gruz­
zoletto e riuscì a trovare un pitocco bietolone
che l'impalmasse. L'essere però andata a mari­
to non valse ad allontanarla dalle sue male abi­
tudini, ché il vizio, una volta messe radici, rie­
sce difficile estirparlo.
Quel matrimonio fruttò due figlie, però la pri­
ma morì pochi giorni dopo nata, la seconda è la
protagonista del nostro racconto.
Piccolina fu costei spettatrice indifferente di tut­
te le laidezze materne, ma quando cogli anni ac­
quistò una sufficiente malizia, il pantano di soz­
zure che l'avvolgeva guastò non poco le sue na­
turali inclinazioni ed i suoi sentimenti pigliaro­
no l'abbrivo del male.
Da ciò vegga il lettore che educazione fu la
24
sua, e se ora la troviamo a fare all'amore
con più giovani, non è da farne meraviglie.
§
Quella contesa mise in corpo di Salvatore una
forte voglia di vincerla sull'avversario, non tan­
to per amore potente che sentiva verso Mad­
dalena, quanto per dispetto e per vanagloria di
superare l'impresa contro Antonio.
Riferì tutto l'accaduto a sua madre, che il pa­
dre da un pezzo gli era morto, e le dichiarò che
nel più breve tempo possibile volea sposare la
Maddalena. Ella osteggiò in sulle prime con
tutta l'autorità che le venia del suo grado quel
matrimonio; ma egli se ne stette duro e dovet­
te consentire a suo malincuore.
S'intavolarono le trattative per le nozze e po­
co dipoi vennero celebrate.
Una delle orgogliose vanità della donna è ri­
posta nell'essere corteggiata e quindi nel tro­
vare chi la faccia presto sua. Andare a nozze
prima delle compagne sue coetanee significa ve­
nire su tutte preferita, il che soddisfa la sua
leggerezza.
Rimanere nubile quando le proprie amiche si
sono accasate, è suprema vergogna. Maddalena
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era fra quest'ultime ed ella sposò alla sua volta
Salvatore non per affetto che verso di lui sentiva,
ma per tema di restare ad invecchiare in casa
zitellona. Agli obblighi che andava a contrarre,
alle conseguenze a cui andava incontro, poco o
nulla ci pensò. Poter dire anche lei che aveva
trovato un marito, ecco il solo fine da cui venne
mossa.
§
Le prime notti della luna di miele passarono
non poco allegre ma ben tosto venn'egli preso
dal demone della gelosia allorché vide l'insi­
stenza con cui Antonio codiava la moglie. Comin­
ciò prima a farle il muso lungo, le dichiarò poi
che non voleva più restare in casa delle suoce­
ra e si trasferì tosto presso la madre.
Costei, che vedeva di mal occhio la nuora, col­
se la palla al balzo e si diede a soffiare sotto la
gelosia nudrita dal figlio con quell'astuzia e quel­
la malignità di cui la donna è sovrana maestra. ­Non te l'ho detto io, prese a dirle un
giorno la madre, non te l'avevo detto io che quel­
la là è una trista megera, e che sarebbe riusci­
ta una pessima moglie. Ma quando una persona
ricorda un po' di bene a voi, scapatelli dalla te­
26
sta calda, la credete nemica della vostra felicità,
e presto vi vien su il moscerino al naso. Tu non
volesti sentirmi a tempo debito ed ora la paghi.
Se sogni poter godere un po' di felicità con
quella baldracca, la sbagli di grosso. Per quanto
savi potranno essere i consigli che le darai, an­
drà sempre per la stessa china ­ il lupo cangia
il pelo non il vizio.
Il figlio, seduto su d'una scranna, colle gambe
a cavalcioni, col gomito del braccio destro pog­
giato sul ginocchio e la testa sulla palma della
mano, ascoltò in silenzio quel discorso.
Appena la madre tacque, mandò egli un lungo
sospiro poi balzò in piedi come se fosse stato
assalito da una forte risoluzione.
In quel mentre la sposa se ne stava in cucina
e preparava da pranzo.
Quel mezzodì per un nonnulla stava Salvatore
per lanciare una forte ceffata alla moglie quan­
do la madre si frappose esclamando: State quieti,
che sono queste porcherie? Invece di amarvi con
sincerità di cuore vi graffiate sempre come cani
e gatti.
Quell'ipocrita suocera con arte sottile rim­
proverava il figlio se lo vedeva a malmenare la
. 27
sposa in sua presenza ma in segreto sputava ca­
tarro ed imprecazioni cotro lei.
§
Un dì ne pensò una delle belle. Si portò in
casa d'uno di quei schicchera fogli, la cui coscien­
za assume forme diverse secondo le varie
circostanze, e lo pregò di farle una letterina.
­Dovete scrivere a qualche amante? Prese a
dirle quell'ometto dalla faccia verdognola con
un affettato riso scherzevole ma da cui traspari­
va la sua indole satanica.
­Parlare di amanti a me, caro Don Andrea,
è tempo sciupato. La neve è caduta sui miei ca­
pelli e nessuno più mi degna d'uno sguardo.
­Io dicevo per celia, sapete del resto l'opi­
nione in cui vi tengo. Perché vi necessita quella
lettera?
­Per disfarmi di quella strega che mio figlio
sposò con suo grave danno.
­In nome del cielo! non mi mischiate nei
vostri imbrogli! Ci va di mezzo la mia reputa­
zione e poi non voglio macchiare la mia coscien­
za di...
A questo punto la vecchia suocera tirò fuori
una gallina che aveva portata seco e che avea
28
tenuta in serbo sotto il mantello, aggiungendo:
Questa qua la mangerà domani; è ben povera co­
sa ma ella, spero, la gradirà per il pensiero di
affetto con cui gliel'offro.
Egli allora compose a riso le sue labbra, si fre­
gò le mani e rispose:
­Troppo disagio, troppo disagio vi siete dato
per un piccolo servigio . . . . che ho l'onore di
rendervi.
­La prego intanto, tolga in mano la penna,
e finga che Antonio Bilinceli... Lo conosce?
­Diamine! chi non lo conosce... quel
giovine spavaldo lungo e stecchito che va sempre
scor­ razzando per le vie come una pecora matta.
­Appunto. Finga dunque ch'egli scrive alla
Maddalena, in risposta ad una lettera ricevuta da
lei e mediante cui gli manifestava di amarlo pro­
fondamente, e che giammai potrà dimenticarlo...
A lei che sa di latino, non mancheranno cose da
dire.
­Per carità!... non dite nulla di quello che
si sta facendo; è solo per l'amicizia che vi pro­
fesso che mi tirate a questo punto. E diè un'oc­
chiata alla gallina.
Inforcò l'occhialino sul naso camuso, e si po­
se a scrivere.
29
Finita la calunniatrice lettera, si mise a leg­
gerla a voce alta tanto per farla sentire alla vec­
chia megera.
Noi qui la riproduciamo per darne una chiara
conoscenza al lettore.
"Cara Maddalena,
"
Ricevetti la lettera che m'inviasti con la
" consueta nostra mediatrice.
"
Quelle tue dolci parole di affetto mi scese­
" ro tanto soavi al cuore, che m'intenerirono fi­
" no alle lagrime.
"
Tu dici di amarmi eternamente ed io t'amo
" del pari. Se un destino, pur troppo tristo, ci
" costrinse a separarci personalmente, le nostre
" anime però vivranno sempre unite da uno scam­
" bievole sentimento di affetto che potenza di
" eventi giammai riuscirà a cancellare.
"
Scrivimi sempre; io non trovo conforto che
" nelle tue parole.
Sempre tuo
" Antonio Bilinceli "
­Che ve ne pare?
­Degna di chi l'ha scritta.
L'acchiuse in una busta e gliela consegnò.
30
La vecchia l'intascò gli fece un profondo in­
chino poi diede un ultimo sguardo alla gallina,
come se avesse voluto dire, quanto mi costa una
lettera ed uscì.
Appena giunta a casa la schiuse tanto per fa­
re conoscere ch'era stata letta, e sedette al fian­
co della nuora.
Si volse a narrarle delle storielle, e le fu
anche larga di carezze. Quando poi si accorse che
era un po' distratta prese la lettera e gliela
mise in tasca, senza che Maddalena se ne fosse
accorta. Tosto andò in una stanza contigua aspet­
tando il ritorno del figlio.
Era presso l'imbrunire ed egli non si fece at­
tendere a lungo. Appena lo vide lo chiamò in
disparte e gli disse:
­Ho da fidarti un segreto e me ne spiace
tanto... ma che abbiamo da farci!?... la for­
tuna vuole così... E cominciò a dondolare il
capo.
­Che è?.. Forse Antonio e quella zozza don­
naccia... Oh!... Ma ho due buone braccia e
saprò ben io valermene.
La madre intese, a queste parole, una stretta
31
al cuore e cercò con ipocrita arte di sedare l'ira
suscitata in seno del figlio. ­Per una donnaccia, figliuol mio, mettere in
rischio la propria pelle è errore imperdonabile. Dimenticala invece per sempre e sii certo che
una buona fanciulla a te non mancheà di posse­
derla. Credi tu che al mondo non ci sia di buo­
no che quella puppattola?
Salvatore si volse a passeggiare per la stanza
piena la mente di pensieri di vendetta e dime­
nando come un forsennato le braccia; ma scorsi
appena pochi minuti rispose:
­Le vostre ragioni mi vanno e ci sto. Qual è
intanto il segreto che volete fidarmi?
­Stamane vidi tua moglie ­ la quale ha anche
il difetto di sapere scarabocchiare sulla carta ­ che
leggeva una lettera e intanto si asciuttava col
dorso della mano le lagrime che le inondavano la
faccia. Poi piegò la lettera, la baciò e la conservò in
tasca.
­Io vo' carpirgliela.
­Adagio, figliuol mio, sai il proverbio che di­
ce: la gatta frettolosa partorì i figli ciechi. Ascol­
ta chi ti vuol bene e non avrai a pentirtene per
la seconda volta. Ella non t'ama, tu nemmeno l'a­
merai e così andrete alla pari. Va dunque, strap­
32
pale la lettera, poi guardala in faccia ridendo,
per mostrarle che poco o nulla la curi, volgile u­
no sputo, e lasciala lì fredda impalata. Ecco un
procedere, come suol dirsi, da uomo di mondo. Il consiglio piacque a Salvatore il quale mal
frenando la collera, e cogli occhi di brace, entrò
nella stanza ove Maddalena lavorava d'ago e le
disse:
­Consegnami quella lettera!
­Di quale lettera mi parli? gli rispose la me­
schina tra sorpresa e meravigliata.
­Trista donna! è vano il tuo mentire, c'è chi
sa bene tenerti a occhio, e la tua amorosa tresca con
quello spiantato di Antonio è scoverta.
Le ficcò le mani in tasca e ne trasse il
foglio.
­Mio Dio!... è questo un terribile mistero!...
Io non sono uscita di casa, io non ho conversa­
to con persona al mondo...
­Un mistero!!!.. ci tieni anche a fare l'inno­
cente? Ma sfacciata che sei, se la tua colpa è qui, a
parlar chiaro, come ardisci negarla?
­Salvatore, ti giuro che quella lettera io non
l'ho mai ricevuta e che... Voleva proseguire an­
cora, ma uno scoppio di pianto le ricacciò le pa­
role in gola.
33
§
Egli rientrò nella stanza ov'era la madre ad
attenderlo e con voce alta si volse a leggere la
lettera. Costei, fingendo ignorare il contenuto,
prestava la più grande attenzione e, ad ogni pa­
rola che sentiva, allungava il muso, contorceva
gli occhi, dondolava la testa in segno di sorpresa.
Appena finì, chinò il capo borbottando:
­Che s'ha da fare? Come può ripararsi questa ver­
gogna che va a piombare su di te e sul nostro casa­
to che, non fo per dire, è stato sempre uno dei
più amati onorati e rispettati di Buccheri? Ma
saprò io trovare il bandolo della matassa.
Mise la punta dell'indice destro sulla bocca,
chinò la testa e dopo un pezzo rispose:
­Ordinale che si vesta con un abito che aveva
celibe, accompagnala da sua madre e le dichiare­
rai: Vi consegno vostra figlia, ella è indegna di
me ed io vo' per sempre dimenticare di averla
sposata.
§
Salvatore ubbidì ciecamente e quasi stupidito
dell'inatteso quanto tristo avvenimento.
Da parte sua Maddalena fu lesta a vestirsi, ché
34
da un pezzo era stanca di vivere in quella casa
e piangendo ritornò da sua madre.
Tralasciamo dal riferire il dialogo seguito tra
la suocera ed il genero e dove, fra le altre cose,
ci fu uno scambio di parolacce che quì meglio è
tacere. L'innocenza della figlia venne ammessa
senza tante discussioni, dopo replicati suoi giu­
ramenti, e si fu anzi lieti di quella separazione.
La madre di Salvatore, a fine di legittimare in
seguito la condotta tenuta dal figlio, rivelò a cer­
te sue comari la faccenda come se fosse stato
vangelo ed in breve la nuova si diffuse pel paese.
Né Antonio fu ultimo a saperlo, ché anzi comin­
ciò a millantare ed esagerare quel fatto come u­
na gloriosa rivincita presa sul suo avversario.
§
Chi si fosse in quei giorni incontrato col Ma­
gazzino, avrebbe certamente insteso per lui un in­
dicibile senso di compassione.
Gli occhi incavati girava continuamente con
agitazione, stava sempre accigliato in modo che
la sua fronte veniva a fare le grinze; il suo
volto cereo manifestava i suoi lunghi patimenti,
i capelli irti annunziavano che un pensiero terri­
bile lo travagliava; andava sempre come un mat­
35
to pel paese parlando a voce bassa, gesticolando,
barcollando la testa, guardando qua e là come
uno spiritato.
Dopo sei mesi circa dall'avvenimento che ab­
biamo poco avanti narrato, egli allocossi ai ser­
vigi di un ricco agricoltore.
Era costui di Ferla, bello e ridente comune li­
mitrofo a Buccheri, e portava nome Michele Man­
giamele. Conoscendo egli la sventura toccata al
povero Magazzino, e lo zelo, l'amore e la sua at­
titudine al lavoro, prese a volergli un gran bene
ed a trattarlo con affettuosa dimestichezza, come
se assieme fossero vissuti sin dall'infanzia.
Era una bella serata di Maggio. Il sole, vol­
gendo al tramonto, indorava cogli ultimi raggi
le cime delle più alte montagne. Pochi momenti
ancora e s'involò allo sguardo di tutti, mentre
la luna saliva in cielo mandando una continua
pioggia di diafana luce.
Il massaro Michele, il magazzino e non pochi
giornalieri, smesso per l'ora tarda il faticoso la­
voro dei campi, si veniano restituendo alle case,
dove seguendo l'abitudine propria dei contadini,
ben presto si misero a cenare.
Lavoravano in quei tempi in un vasto podere
posto accanto a Piedigagi, piccolo villaggio del
36
territorio di Carlentini (1), composto di un centi­
naio di casette e lontano due ore circa da Ferla.
Dopo il pasto uno dei giornalieri cominciò a
suonare il suo flauto di canna, e gli altri si vol­
sero a fare un allegro ballonzolo al chiaro di luna.
Quando l'allegra comitiva si sciolse, ciascuno
ritornò alla propria dimora per godere un po' di
sonno, tra cui alcuni colle proprie mogli.
Il Magazzino provò allora una forte stretta al
cuore. Anch'io, pensò fra sè e sè, potrei essere
lieto colla mia compagna, eppure m'è d'uopo vivere
lontano da lei.
Si avvicinò al suo letticciolo e vi si sdraiò ve­
stito.
§
Scorsero due buone ore; mille strani pensieri
gli si affollavano alla mente. Progetti diversi di
riconciliazione e di vendetta gli si alternavano
ad ogni istante nel pensiero. Un'ansia febbrile
di rivedere sua moglie lo tormentava. Sentiva an­
cora per lei un forte attaccamento, una violenta
passione che mal riusciva a sedare. Nella foga
dell'affetto non vedeva nel passato di lei che il
solo lato buono. Può darsi, andava esclamando,
che ella sia innocente, e poi... avea tutta la ra­
37
gione di ribellarsi ai soverchi ed insoffribili di­
sprezzi a cui era stata sottomessa.
Decise ritornare a vederla.
Aprì l'uscio pianino affinché il cigolar dei
cardini non avesse fatto svegliare i dormenti ed
uscì all'aperto.
Mise il freno ad una mula che pascolava in
un prato, la bardò, vi montò su e via di galop­
po a Buccheri.
Si diresse verso l'abitazione della moglie. Quale
strana sorpresa! La trovò che parlava, quantun­
que la notte era molto avanzata, con un giovine.
Al suo apparire ella lo riconobbe e chiuse su­
bito l'uscio, per nascondersi in casa, mentre l'al­
tro la diede a gambe.
Rimase per qualche istante come muto e pie­
trificato. Bussò fortemente alla porta, nessuno gli
rispose. Provò tutte le furie dell'abisso. Caval­
cò nuovamente la mula e s'avviò verso Piedigagi.
§ Qui d'uopo è l'avvertire che la Maddalena,
dopo la separazione col marito, si diede tutta ad
una vita putrida e licenziosa, né la madre, che
vedeva così riprodotte le sue basse e scollacciate
dissolutezze, pensò di tirarla nella buona via.
38
Invaso il Magazzino d'ira e di gelosia potenti,
nemmeno pensava a guidare la mula. Le abban­
donò le redini sul collo, ma seguendo essa sue
istintive abitudini, tornò alla campagna da cui era
partita.
Smontò da cavallo, e sedette sullo scalino d'in­
gresso della sua casetta.
Un'aura gentil di paradiso spirando lene lene
trasportava su quei colli le pure fragranze invola­
te da lontani giardini; un usignolo scioglieva pel
queto aere le sue note divine, poco lungi s'udi­
va il leggiero gorgheggio di un ruscelletto, la lu­
na vestia di luce limpidissima la terra, e la na­
tura, avvolta in profonda solitudine, presentava
qualcosa di mistico e di venerando.
Una miriade di fantastiche visioni gli popola­
vano la mente. Ad un tratto decise pigliare una
energica risoluzione, persuaso di mai più potere a
lungo restare in quei luoghi senza venirgliene
vergogna. Balzò in piedi, entrò nella sua came­
retta, prese le poche robe che possedeva e si di­
resse alla volta di Catania giurando in cuor suo
mai più ritornare nelle sue contrade.
Camminava bel bello proferendo a voce alta
parole che accompagnava con gesti come se al­
cuno gli fosse stato presente. A quando a quan­
39
do si fermava e con una verga che teneva in
mano descriveva sul suolo una croce, atto con cui
intendeva dire, come da noi è costume: fa conto
ch'io sono morto, mai più ci rivedremo ­ poi ri­
pigliava l'andare.
Camminò un giorno intero senza mai fermar­
si, ma arrivato presso un giardino, intese il bi­
sogno di rinfrescare le labbra riarse dalla sete.
Un limpido canaletto d'acqua scorreva veloce. Va­
licò una siepe, gli si avvicinò, inginocchiossi, poi,
piegata la testa ed allungato il muso fino alla su­
perficie del liquido elemento, bevette. Sentì un
conforto alle sue viscere, e mandò un lunghissimo
ah! di piacere. Volse lo sguardo attorno, nes­
suno si vedeva. Si sdraiò sull'erba, fissò le lan­
guide pupille alla limpida volta azzurrina che si
stendeva sul capo suo, ed assalito da un senti­
mento indefinito di dolore, scoppiò in pianto di­
rotto.
Scorsero due ore e di lì passò un contadino
in corpetto e colla zappa sulla spalla. Al primo
sguardo scambiatosi, si riconobbero, si abbrac­
ciarono, si baciarono. Si erano conosciuti duran­
te la mietitura del precedente anno e s'erano
legati di vera amicizia.
40
­Che vento t'ha menato in questi luoghi,
dimmi, Salvatore.
­Che vuoi caro Vito? vivevo troppo male
nelle mie montagne, dove spesso c'è penuria di
lavoro e vado in cerca di miglior fortuna.
­Anch'io sono stanco di tirare i miei gior­
ni in questi luoghi, dove l'aria è ammorbata
da pestilenziali miasmi palustri che mi met­
tono addosso in ogni autunno la febbre quar­
tana.
Decisero trasferirsi verso Catania dove abbon­
dante era il lavoro e ben remunerato.
Si misero la via fra le gambe e si fermaro­
no a Motta di Sant'Anastasia.
Sorge questo comune poco lungi da Catania,
verso oriente, su di un'alta e precipitosa rupe.
Essa domina la vasta pianura che si stende alle
falde del superbo Mongibello e la sua fortezza,
che s'eleva a picco, ricorda allo studioso le fa­
mose lotte sostenute nell'evo ­ medio. Il suo ter­
ritorio, popolato di ulivi e di vigneti, offre uno
dei più graditi spettacoli all'occhio del viandan­
te. Valli ondulate, estese e fertilissime pianure, e
poi monti sormontati da altri monti ancora riem­
piono l'anima di profonda ammirazione per le
superbe ed eterne bellezze della natura.
41
Quivi ebbero presto occasione di fare fortuna;
ma Vito morì a capo di tre anni, lasciando ere­
de il compagno di tutto quanto possedeva.
§
Il domani della scomparsa del Magazzino fu un
continuo chiedere, un prolungato visitare di luo­
ghi diversi in cerca di lui, ma ricordando poi i
suoi compagni di lavoro le ore di tristezza e di
noia in cui soleva seppellirsi, pensarono che, in
un momento di cattivo umore, sarebbe andato chi
sa dove. Aggiungasi che il fatto avvenne nel 1854,
tempo in cui il colera menava in Sicilia la più
orrenda strage; e, siccome di lui non s'ebbero più
nuove, si credette anche che fosse rimasto vit­
tima del morbo fatale.
§
Trascorso appena un mese, la notizia della
morte del Magazzino si sparse a Buccheri. La
moglie, non sappiamo se per dare alla gente
un po' di polvere negli occhi o per dolore che ve­
ramente intese, corse a Piedigagi e propriamen­
te nella casa del Mangiamele, mandando lamen­
tevoli grida.
42
Era giorno di festa ed egli era andato in pae­
se per godere la compagnia della sua famigliola.
Solo un garzone era rimasto a guardia della ca­
scina, ma nulla seppe egli rispondere alle do­
mande della Maddalena. Allora si avviò in Ferla,
chiese ove abitava la persona di cui andava in
cerca, e le fu subito additata.
Stava egli avanti l'uscio, e cantarellava, tanto
per fare divertire un suo bimbo che teneva sul­
le braccia. Alla prima parola udita capì di tro­
varsi avanti la moglie di Salvatore e le narrò
per filo e per segno, che suo marito era scom­
parso e che senza dubbio veruno era morto di
colera.
A queste parole la Maddalena si diede a pian­
gere, a schiamazzare, a strapparsi i capelli, ma
presto finì col rassegnarsi alla dura fatalità.
Il Mangiamele e sua moglie la menarono in
una stanza contigua, poi la fecero sedere avanti
a un tavolo.
­Mangiate un boccone, egli le disse, siete
stanca dal viaggio e abbattuta dal dolore e un
po' di cibo servirà a rifarvi un pocolino delle
forze perdute.
­Io mangiare in questo momento? Impos­
sibile!.. lo stomaco mi pare si sia chiuso, e che
43
nemmeno una stilla d'acqua può entrarvi. E poi
mi si muterebbe in veleno il...
­Che potete farci, seguì a dire la moglie del
massaro Michele, il mondo è così fatto, ora si
piange e ora si ride; delle perdite ce ne abbiamo
avute tutte, e abbiamo finito col dimenticarle,
ché se ad esse noi volgessimo sempre il pen­
siero, il mondo sarebbe un vero piagnisteo, un
lutto perenne. Acquietatevi e riflettete che an­
che noi siamo destinati a morire. Pigliate intan­
to un boccone, se no, ci perdete la salute.
­Voi dite bene, ma che volete? certe sven­
ture ci vuole un pezzo a dimenticarle.
E si appressò al tavolo, tagliò una fetta di
pane, un po' di cacio e si volse a sbocconcel­
lare non senza un certo gusto.
Qui d'uopo è avvertire che in occasione d'una
lunga malattia di sua madre, aveano sciupato
gran parte di ciò che costituiva una certa agia­
tezza relativamente alla loro meschina condizione
sociale e siccome a Ferla una nobile famiglia an­
dava in cerca di un'abile serva, arrivata questa
notizia al suo orecchio, si offerse per tale servi­
gio, e venne subito accettata.
Chi sconosce quali erano in quei tempi le con­
dizioni della Sicilia, farà certamente le meravi­
44
glie, come non si sia riuscito a conoscere la re­
sidenza del Magazzino.
A poche miglia lontano dal proprio paese natìo,
si era tanto estranei come se si fosse andati in
America o nel centro dell'Africa. Ecco tutto.
Erano scorsi quattro anni dalla scomparsa di
Salvatore, quando il Mangiamele venne in lite, per
ragioni d'interesse, con certi suoi cugini. Con­
vinti costoro di stare dalla parte del torto, e che
perciò ne avrebbero avuto la peggio presso i tri­
bunali civili, pensarono troncare la vertenza col
disfarsi di lui. A tal uopo ordirono una di quel­
le nere infamie che tornano a disonore dell'u­
mana razza e che dimostrano come affetti, rico­
noscenza, vincoli di sangue e di pretesa amicizia
si mettono in non cale, si calpestano anzi da cer­
ta gente dal cuor di macigno che ama di gavazzare
nel putrido, che a nulla aspira all'infuori dei me­
schini godimenti d'una vita puramente brutale ed a­
nimalesca, che non si forma altro Dio all'infuori
di un vile interesse e che pel proprio tornacon­
to dimentica i più puri ideali della vita e sprez­
za quanto v'ha di più morale e di più sacro come
cittadino, come parente e come creatura ra­
gionevole anche.
45
§
Abitava presso la nobile famiglia, ai cui servi­
zi s'era posta la Marchese, un vecchio calzolaio
di condizione miserabile piuttosto che no, la cui
vita era stata spesa tutta quanta nel mal fare, ed
era riconosciuto abilissimo nell'arte di mentire e
della calunnia, riusciva difatti tanto bene a colo­
rire la bugia di un'apparenza di vero, da far­
la ingoiare eziandio ai più scredenti ed alla gen­
te che non andava priva d'una certa furberia.
Fu egli chiamato dai pessimi cugini, i quali gli
manifestarono il loro nefando disegno. Ed egli ri­
dendo, come se si fosse apparecchiato per un ban­
chetto solenne, rispose che tutto avrebbe combi­
nato purché avessero messo a sua disposizione
una buona somma.
§
Un giorno di domenica Maddalena andava sola
in chiesa ad ascoltar messa, egli finse di abbat­
tersi in lei, la salutò cortesemente e dopo un
mondo di cerimonie le disse:
­Non so perché ve ne stiate così indifferente
per la morte di vostro marito. Non foss'altro per
46
fare zittire certo chiacchierio sul conto vostro...
è giusto...
­E che devo io fare? Io non capisco a che
intendete alludere.
­Vendicarlo dell'immeritato insulto ricevuto.
­Vendicarlo!... ma di quale insulto?... spiega­
tevi chiaro...
­Ebbene, sconoscete veramente tutto, o vo­
lete farmi lo gnorri?
­Io vi giuro che nemmeno capisco di che vo­
lete parlarmi.
­Come morì vostro marito?
­Di colera...
­Di colera?... Povera illusa!... ve l'hanno da­
ta a bere grossa... egli fu ucciso.
­Ucciso?! e da chi?
­Dal suo stesso padrone... dal massaro
Michele.
­E chi lo sa?
­Ben dodici persone conoscono il reato.
­Dodici persone?
­Sicuro dodici, pronte tutte a deporre come
testimoni appena ne saranno da voi richieste. Vi
par difficile? Presentate la vostra querela, co­
me parmi che sia obbligo d'una moglie affettuo­
sa, ed io v'indicherò i loro nomi.
47
Maddalena non sel fece dire due volte, e inve­
ce d'andare in chiesa, si avviò alla casa dell'avvo­
cato signor Angelo Motta.
Caso volle che costui fosse intimo del Magaz­
zino. Appena saputo il fatto e l'intenzione del­
la Marchese, conoscendo le triste conseguenze che
poteano derivarne all'amico suo, la consigliò,
colle parole e le maniere più dolci, a desiste­
re da quel proponimento, specie perché niun van­
taggio a lei ne veniva, mentre rovinava un'in­
tera famiglia. Le promise poi farle avere una
buona somma se manteneva il silenzio, ed a que­
sta condizione la Marchese consentì.
Decisero rivedersi il giorno seguente.
L'avvocato Motta fece chiamare subito l'ami­
co, gli espose quanto si buccinava contro di lui,
e il dono proposto per ottenere il silenzio.
Il Mangiamele rimase sbigottito in sulle pri­
me, all'udire l'iniqua menzogna che s'era idea­
ta, ma rifattosi dipoi dall'improvviso turbamen­
to, siccome nessun delitto pesava sulla sua co­
scienza, rispose con energia non avere alcun
torto da riparare. Né valsero le replicate istan­
ze del Motta, egli dichiarò in modo assoluto, che
neanche uno scudo voleva donare, altrimenti si
sarebbe dichiarato reo in opposizione al vero.
48
Il giorno dopo ritornò Maddalena presso l'av­
vocato Motta, ma fu accolta coi modi più aspri
e severi, ed a vece di dono le venne detto che
era una vile calunniatrice, e che il Mangiamele
se ne stava lieto sotto l'usbergo del sentirsi puro.
Così si vide fallita ogni speranza di accomoda­
mento non solo, ma, indispettita ella dalle poco
garbate parole rivolte al suo indirizzo, corse dal­
l'intruso calzolaio, si fece notare i dodici testi­
moni consapevoli del reato, e si trasferì a Len­
tini, dal cui Mandamento dipendeva e dipende
Carlentini, dove propose formale querela.
Il massaro Michele venne subito arrestato, a
costo dei suoi lamenti e di tutte le commoventi
proteste d'innocenza.
Noi tralasciamo dal riferire l'audizione dei te­
stimoni presso il giudice di Circondario e le va­
rie fasi subite dal processo, e ci trasportiamo di
piè pari nella Gran Corte Criminale di Siracusa,
ove fu discussa quella causa, riferendo quel tanto
ch'è necessario alla conoscenza del dramma.
Giova qui solo accennare che il suocero del
Mangiamele, persona non poco agiata, giurò da
parte sua di spendere tutti i suoi averi, pur di ve­
nire conosciuta l'incolpabilità del genero, ma
quando seppe le preliminari deposizioni dei testi­
49
moni, fu preso d'eccessivo sdegno contro di lui,
e l'abbandonò, né più volle sentirne parlare. §
È un giorno piovigginoso e fosco come il triste
dramma che si svolge.
La sala è gremita di gente accorsa ad assistere
al dibattimento. Il Mangiamele siede sullo scanno
dei rei: il volto ha cadaverico, gli occhi incaver­
nati e con un'orrenda espressione di spavento; le
labbra bianche e tumide e da cui pare non esca
alito di vita; le guance contratte e le ossa spor­
genti fan conoscere il suo lungo digiuno e le ore
trascorse fra lotte profonde, dolori acerbi, ansie
indefinite; le sopraciglia ha corrugate, la fronte
rugosa ed i capelli irti.
Ad un tratto il Presidente lo chiama.
Un silenzio sepolcrale si fa nella sala, gli sguar­
di di tutti si volgono verso di lui, tutti pendono dal
suo labbro. Egli sembra non curante di sé stes­
so e come accasciato sotto il peso della sua enor­
me sventura.
Il Presidente della Gran Corte al Mangiamele. ­Voi siete accusato di omicidio volontario
con premeditazione consumato a Piedigagi terri­
torio di Carlentini, in persona di Salvatore Ma­
50
gazzino di Buccheri, allocato ai vostri servigi.
Gli è vero?
L'infelice alza gli occhi al cielo, manda un
lungo e profondo sospiro, ed esclama : Giuro di
essere innocente! Mentre due grosse lagrime gli
scendono giù per le guance illividite e smunte. ­Presidente. Voi ardite negare il vostro de­
litto di fronte a dodici testimoni, che in modo
evidente e senza lasciare dubbio di scorta lo di­
mostrano.
­Mangiamele. Se mi fosse dato penetrare nella
loro coscienza, s'io potessi squarciare il velo
che si frappone alla conoscenza del vero, solo
allora voi vedreste rifulgere la mia innocenza. Io
vel giuro per quanto v'ha di più sacro in terra
e in cielo, sono un'infelice vittima di un'orrenda
calunnia. L'uomo che si dice avere io ucciso, lo
amavo più che figlio, e ne piansi a calde legrime
l'amara perdita.
­Pres. Eppure non vi sembra di vedere il suo
spirito aliante per questa sala, chiedere di voi ven­
detta?
­Mang. E quale vendetta può chiedere un uo­
mo che giammai offesi? Fors'egli invece piange
di lassù sulla cieca e deplorevole fatalità, che pe­
sa sul capo di un povero padre.
51
­Pres. Persistete dunque nel dichiararvi
inno­cente?
­Mang. Signor Presidente, vel giuro sul capo
in­nocente dei miei figli, sono innocente! Oh se
po­tessi farvi penetrare in fondo al mio cuore,
co­noscereste voi subito s'io dico il vero.
Dopo le solite formalità curiali, si passa
all'e­same dei testimoni.
1. Testimone.
Pres. Che sapete voi dell'omicidio del Magaz­
zino?
Test. Passavo un dì per le campagne di Pie­
digage, quando vidi il Mangiamele, distante da
me quasi duecento passi, tagliare con una falce la
testa ad un giovane contadino, il di cui cor­
po seppellì dipoi sotto un mucchio di pietre.
Pres. Conoscevate il giovane che fu ucciso?
Test. Signor no.
Pres. Si accorse di voi il Mangiamele?
Test. No certamente. Io andava a piedi verso
Lentini per vendere del burro, e passavo proprio
sotto una lunga fila di alberi fronzuti, i cui rami
pendevano fino a terra, e che formavano una specie
di boscaglia, talché difficile riusciva il veder­
mi. E appena osservai cadere la testa di quello
infelice, e poi vidi seppellirlo, preso da forte ti­
52
more d'incorrere nella stessa sventura, se fossi
stato visto, la diedi a gambe.
Dopo dieci giorni circa, ripassando lungi quasi
mezzo miglio da quel luogo, vidi in un fosso gli
avanzi di un cadavere di fresco stato mangiato
da cani, e da alcuni brani di vestimenta, mi per­
suasi essere quello del giovane caduto sotto il fu­
rore del Mangiamele.
Pres. Conoscevate voi il massaro Michele?
Test. Sicuro che lo conoscevo, sto in Ferla po­
co lontano da lui.
2. Testimone:
Io mi trovavo ai servigi del massaro Michele,
quando avvenne quell'omicidio. Una notte che me ne
stavo all'angolo di due alte mura per fare certe
bisogne mie, lo vidi avanzarsi con una zap­
pa ed una bisaccia. Stetti a guardarlo per sem­
plice curiosità. Appena arrivato in un punto do­
v'era un mucchio di pietre, volse lo sguardo at­
torno, per assicurarsi che nessuno lo vedeva,
si mise a disseppellire un cadavere, che avvolse
nella bisaccia, e lo portò via.
Pres. Conosceste di chi era il cadavere?
Test. No, solo mi accorsi, che gli abiti somi­
gliavano a quelli del buccherese ucciso.
Pres. Sapete se tra il Mangiamele ed il Magaz­
53
zino, erano antecedentemente sorte quistioni?
Test. Un giorno, ch'io andai a Ferla, tornato
verso l'imbrunire, mi fu riferito da un mio
compagno di lavoro che una grave rissa era sorta
fra
loro, e che il massaro Michele aveva giurato fred­
darlo.
3. Testimone.
Passavo una volta a cavallo ad una mula pres­
so le campagne di Piedigagi, all'improvviso vedo
il mio quadrupede impennare e fiutar fortemen­
te, volgo lo sguardo attorno per vedere se cosa
ci fosse, e scorgo cinque grossi cani mastini che
divoravano un cadavere.
Non conosco altro.
4. Testimone.
Io mi trovavo a Piedigagi, dove avevo un pez­
zo di terra a mezzadria, e vidi il Mangiamele ve­
nire in alterco col giovine buccherese stato ucciso;
dalle parole passarono ai fatti, e ci volle non po­
co per separarli. Però costui giurò a voce alta far­
lo morto, appena gli si presentasse l'occasione.
Dopo pochi dì il Magazzino scomparve, e in quel
tempo istesso, stando io accoccollato sotto un al­
bero, scorsi il massaio Michele che lavava in un
rigagnolo una falce intrisa di sangue.
54
Gli altri testimoni quasi tutti esposero le stes­
se idee degli altri.
Il Mangiamele prestava la più grande atten­
zione, ed in ogni parola che sentiva pronunziare
contro di lui, esclamava: Assassini, voi tradite un
innocente! A volte mostravasi stupidamente di­
stratto. Tra la folla c'era chi osava compiangerlo,
ma la maggioranza credeva alle sue parole, i suoi
movimenti, la più nera, la più sfacciata delle ipo­
crisie, e gli volgea sputi e parole di sprezzo. Quando il Presidente gli chiese se avea ascol­
tato le deposizioni chiarissime dei testimoni, e se
potea addurre argomenti a discolpa: No, egli ri­
spose, volgendogli un tremulo sguardo, la calun­
nia è ordita con tanta avvedutezza, ch'io non so
il come rifarmi, ma giorno verrà in cui voi co­
noscerete la mia innocenza. Poi chinò la testa e
pianse.
Le lagrime, gli atteggiamenti dell'infelice Man­
giamele, produssero nel cuore del Presidente la
migliore delle impressioni. Egli era uomo di va­
sta dottrina ed atto a saper valutare, per lunga
esperienza e per naturale accortezza, l'indole de­
gli accusati, e tra sé e sé fece il seguente dilem­
ma: o egli è innocente come asserisce, o fu tratto
al delitto in un istante di aberrazione ed è ora
55
abbastanza pentito. E quando fu l'ora di pronun­
ciare la sentenza, a costo delle conclusioni del
Procuratore del Re e di un giudice che troppo
simpatia professava al boia, lo condannò a soli
15 anni di carcere duro.
Mangiamele trasalì all'annunzio di quella con­
danna. Si alzò pieno di spavento, fece un passo
indietro, come se fosse stato urtato da un nero
fantasma. S'arrestò poi tremante, scosse la testa
e si abbandonò allo scanno dei rei, preso d'un
forte languore mortale.
Un dolore potente ed inatteso fa perdere bene
spesso l'uso dei sensi, ed offusca la ragione.
Per la folla quell'uomo era un mostro, ma se
si fosse potuto penetrare nella sua coscienza, vi
si sarebbe trovato il martire. Eppure si grida:
Vox populi, vox Dei. Non v'è massima più falsa,
ben dice il più grande storico contemporaneo.
Più che un uomo parea una statua di cera.
Un raggio di sole venne dalla finestra di fronte
a battere sul suo pallido volto, e lo fece brillare
di un'aureola maestosa. L'immobilità pensierosa
della sua persona lo avvolgeva in qualche cosa
di mistico e di divino.
Dopo un pezzo volse adagio adagio la testa
verso la folla, rientrò allora in sé stesso e vide
56
l'abisso che gli s'era schiuso innanzi.
Alzò la testa come se dall'alto avesse cercato
un aiuto o il coraggio di sopportare con rasse­
grazione la non comune sventura, e le lagrime
che andarono lentamente raccogliendosi nelle sue
riarse pupille, scendevano a bagnare le sue plum­
bee guance. Ma appena posò gli occhi sulla mo­
glie che stava di fronte a guardarlo, piangendo
a calde lagrime, mentre fissava con ardore poten­
tissimo i tre cari suoi angioletti, a voce alta e
come un forsennato prese ad esclamare:
Addio, o Maria, e per sempre!... io non potrò
sopravvivere alle mie angosce. Un giorno, che ti
incontrai nel periglioso tramite della vita, i no­
stri cuori palpitarono di amore, ed io sognai po­
terti rendere felice, a te consacrando tutta la mia
esistenza. Ahi! non mi fu conscesso!... oggi una
enorme sventura schiude fra noi un abisso. Te
ne prego, non maledire l'ora in cui ai piedi del­
l'altare a ne ti consacrasti in perpetuo e santo
vincolo, a causa della vergogna che oggi si ri­
flette sul tuo capo e su quello dei figli miei. Se
è vero che un destino sovrasta sul capo di ogni
uomo, oh! perché talmente triste dovette essere
quello a me riserbato! solo una cosa io spero,
che si possa conoscere la mia innocenza, avven­
57
ga poi questo fatto pria di trascorrere quei fa­
tali quindici anni, o quando non mi sarà più con­
cesso di rivedere il mio domestico focolare, o di
godere il fascino delle tue pupille, o la santa
compagnia dei figli miei, che importa? Il mio
nome non sarà almeno maledetto come omicida,
né alcuno sentirà obbrobrio di pronunziarlo co­
me quelli di un vile sanguinario. E voi, signor
presidente, se avete viscere di pietà, se siete pa­
dre, permettetemi ch'io possa baciare per l'estre­
ma volta mia moglie, i miei figli.
Un silenzio sepolcrale dominava nella sala, quel­
le parole erano state ascoltate con un religioso
sentimento di compassione. Ma quando lo si vide
scendere dallo scanno dei rei, e la moglie coi ca­
pelli scarmigliati, col pallore istesso della morte
dipinto sul volto, con un'ansia terribile che si
manifestava nel frequente ed angoscioso sospiro,
avanzarsi come una pazza, e gettarsi nelle sue
braccia, e stringerlo fortemente al suo cuore;
quando si vide quell'infelice padre posare le sue
mani sul capo dei propri figli per benedirli, e
poi, pigliandoli nelle braccia e mostrandoli agli
astanti gridare: o popolo, non chiamare queste
povere creature i figli dell'omicida! nessuno sep­
pe frenare le lagrime, non esclusi gli stessi giu­
58
dici, sebbene avvezzi ad assistere a simili scene
dolorose.
§
Scorsi appena venti giorni da quello della cau­
sa, Maria ricevette la lettera seguente:
Mia buona moglie ­ Oggi non mi è concesso
scriverti che poche parole. Domani partirò per
Messina, ove mi dicono dovrò stare pochi dì, e
poi chi sa dove mi condurranno.
Io non trovo di rassegnarmi al mio tristo de­
stino. Una febbricciola consuma lentamente la
mia salute.
Cerca ogni via affinché si arrivi a conoscere
ch'io non sono un reo. Se è vero che Iddio pro­
tegge gl'innocenti, tu non mancherai di riuscir­
ci. ­La mia riconoscenza verso di te sarà eter­
na, incancellabile.
Se ti fanno difetto denari, vendi tutto il mio,
o mutuati, se meglio credi, una buona somma.
Preferisco le mille volte vivere nella miseria, pur­
ché mi sia concesso rivedere la luce della libertà. Ti abbraccio forte forte al mio cuore in un ai
figli miei, ed ama e ricorda
Il tuo infelice marito
Michele
59
§
Maria ­ Sono finalmente arrivato, dopo un
viaggio che mi è sembrato di secoli, a Messina.
Passai per una via di questa bella e popolosa
città. Avrei preferito non vederla. Oh! se sapessi
quale raccapriccio, qual dolore pesa sull'animo
d'un infelice, che per avere le mani legate e per
essere scortato dai gendarmi è da tutti creduto
un ladro o un omicida!
Io vedevo sfilarmi innanzi mille e mille perso­
ne, e le guardavo, sperando poter leggere sulla
faccia di alcuno un solo raggio di compassione
per me, poi pensavo: chi sa se credono alla mia
innocenza? generalmente però, è d'uopo confes­
sartelo, ci volgevano tutte uno sguardo bieco e
pieno di sprezzo, o dirizzavano, nell'imbattersi
in noi, ad altro punto gli occhi, come se la no­
stra vista fosse loro stata di orrore.
Nella stanza, ove fui posto, siamo in cinque:
uno giammai parla, e ad esso io mi sono affe­
zionato. Ieri gli chiesi spiegazione del suo cat­
tivo umore, e mi rispose che avrebbe lasciato la
moglie con quattro figli, e temendo che i suoi
beni gli venissero confiscati, restando così sul la­
60
strico la sua famigliuola, la quale non si ha al
mondo alcun altro sostegno di sorta, non può
trovare mai requie. Uno mena vanto di avere uc­
ciso tre persone in una forte rissa. Gli altri so­
no fieri ladroni, parlano un gergo difficile a ca­
pirsi, a volte espongono le loro mostruose gesta
con aria da spavaldo, ma quelle tristi millan­
terie, ti assicuro, mi danno ai nervi.
Vedi con che brutti arnesi mi trovo. Fortuna
però che qui staremo per poco tempo, e che fra
giorni dobbiamo dividerci.
Senti, o Maria, il pensiero, che sono condanna­
to a soffrire innocente, è un fantasma triste, che non
mi lascia un'idea sola di conforto.
E tu non trascurare le ricerche più minuziose
sul Magazzino. Il cuore, che spesso tutto presa­
gisce, mi manifesta ch'egli non è ancora morto.
Come stanno i miei angioletti? non chiedono
più di me? non pronunziano il mio nome? O
Maria, Maria, se sapessi qual desiderio ho di ri­
veder te, i miei angioletti... la vostra immagine
mi sta sempre fitta innanzi alla mente; non pas­
sa un istante senza ch'io sogni i dì felici che
trascorrevo con voi, e che mai più, forse, vedrò
ritornare.
M'odia ancora tuo padre? mi crede ancora reo
61
del delitto di cui venni accusato? Oh! Iddio al­
meno non permise il sopravvivere dei miei geni­
tori fino a conoscere le mie sventure. Dall'alto
dei cieli, senza dubbio alcuno, essi pregano per
me.. pel loro povero figlio! Ma perché la loro
preghiera rimane inesaudita? Perché sovente il
malvagio gongola e gode tutte le gioie della
vita, ed il giusto soffre infinite amarezze? Qual
legge misteriosa della natura o quale fatalità do­
mina questo fenomeno, che s'incontra ad ogni
piè sospinto sulla terra?
Maria! Maria! vorrei scriverti mille cose altre,
ma le forze per andare innanzi mi mancano, e
poi, lo vedi, il foglio è terminato, ed avermene
un altro è impossibile; qui tutto è calcolato, com­
passato spesso con una logica curiosa quando non
è addirittura ridicola... o infame.
Ti abbraccio coi miei figli, amami come io ti
amo e non dimenticare
Il tuo aff.mo marito
Michele §
Mia diletta Moglie,
La sera di ier l'altro, dopo una breve chiac­
cherata, ci sdraiammo nei nostri covili.
62
Passai la notte molto agitata, una smania for­
tissima mi aveva preso, e mi fu impossibile tro­
vare un istante solo di riposo.
Alle 2 a. m. un secondino venne ad avvertirmi
che io io ed il signor Cesare Meurthe dovevamo par­
tire all'istante istesso per Favignana, gli altri
per la Spezia.
Il signor Meurthe, quegli stesso ch'io ti scrissi
essere sempre malinconico, è un francese nativo
di Linguadoca, dipartimento dell'Alta­Loira, e da
20 anni domiciliato a Messina. È stato imprigio­
nato per opinioni politiche. Lo vedi, si condan­
na un uomo per una semplice opinione, come se
fosse un malfattore qualunque, e si pretende poi
di vivere in piena civiltà. Ma finché sulla terra
vi saranno perseguitati per un principio; finché
si puntellerà uno stato colla forza a vece della
persuasione; finché il potere sociale o direttivo
non sarà la vera espressione della completa vo­
lontà dei popoli, illuminata però dalla luce del
sapere, non guidata dalla cieca ignoranza; finché la
libertà non si vedrà bene attuata fra gli uo­
mini, e ciascuno non porterà la massima tolle­
ranza e un infinito rispetto per le idee altrui, noi
vedremo sempre congiure e sommosse, discordie
63
e vendette, condanne e dolori, instabilità di go­
verni e poteri abborriti.
Non faccio altre osservazioni in proposito, ché
a te poco o nulla importano.
Ci levammo in fretta, e scortati da un drap­
pello di soldati scendemmo nel porto, ove ci at­
tendeva un burchielletto per trasportarci a bordo
di un piroscafo.
I due ladroni e l'omicida erano allegri come se si
fossero preparati per andare ad una festa da ballo, il
signor Cesare invece, cogli occhi fissi al fondo della
barchetta, versava copiose lagrime. Io ero assorbito
dall'esame che facevo di costui, che vittima di un'idea
forse splendidissima, ma meritevole di pena, pel
semplice fatto che non andava a garbo a chi avea in
mano la mestola del potere, veniva strappato
all'affetto de' suoi più cari, per essere dannato a
soffrire nel fondo di un'orrida prigione,(*)[mentre
ridevano e celiavano i due ladri] come se fosse
stata quella (**)[la meta] a cui si sentivano
destinati, e che quasi quasi costituiva il loro migliore
ideale. L'impressione poi da noi tutti prodotta alle
persone dell'equipaggio, appena fummo in coperta
sul piroscafo, dovette essere punto benevola, poi­
ché ci guardavano di sbieco, e ci facevano certi
visacci da fare spavento.
64
Scorse due ore appena, il piroscafo si mise in
movimento, ma avvolti com'eravamo in una co­
lonna di nero fumo, che un leggiero venticello
portava a noi poveri condannati, e che parea vo­
lere concorrere eziandio ad amareggiare sempre
più il nostro infelice stato, era impossibile vedere
la città. Ma passato appena il forte San Salvato­
re, esso venne spinto in aria, e le vaga Regina
del Peloro si offerse al nostro sguardo col suo
affascinante panorama. Il signor Meurthe congiunse
allora le mani e levò gli occhi al cielo in atto
di preghiera. Io volevo gettargli le braccia al
collo... oh! le catene me l'impedirono.
L'alba intanto veniva a fugare le ultime ombre
mattutine, e l'oriente si vestìa del più bel zaf­
firo, mentre ancora un dolce sereno ornava l'oc­
cidente. le placide acque del mare erano lieve­
mente increspate dagli alizei venticelli, e il va­
pore, solcando rapido quella superficie azzurrina,
lasciava dietro sé una lunga e biancheggiante
striscia.
Io, tel confesso, mi beavo nel contemplare tutto
quel magnifico quadro della natura, e sarei anda­
to lieto di quel viaggio, se, rientrato in me, non
mi fossi ricordato della mia infelice condizione,
e che a vece di avvicinarmi a quel luogo dove
65
tu, i figli miei tirate avanti meschinamente la vi­
ta, me ne scostavo sempre più... e forse per
sempre!...
Il signor Meurthe mi parlò a lungo dello stretto
di Messina, mi narrò che opinano alcuni essere
stato in altri tempi un istmo, sommerso in seguito
da un forte cataclisma, e che valentissimi sto­
rici e geologi pensano invece nessuna traccia di
congiunzione esistere.
Il sole in quel mentre, bello nella maestà del
suo splendore, inalzavasi sull'orizzonte, e saettava
i suoi primi raggi sulle cime dei monti, mentre
la sua obliqua luce riflettevasi sull'ampia solitu­
dine del mare. Il francese allora, fissando la catena
dei monti Pelori, cominciò a ripetere i ver­
si seguenti:
» Guardai in alto e vidi le sue spalle
» Vestite già de' raggi del pianeta,
» Che mena dritto altrui per ogni calle.
» Allor fu la paura un poco queta,
» Che nel lago del cor m'era durata
» La notte ch'io passai con tanta pieta.([1])
A Palermo scesero i tre destinati per l'isola d'I­
schia, noi seguimmo il viaggio per Trapani, da cui
fummo condotti, per mezzo d'una barca pesche­
reccia, a Favignana.
66
Chiesi spiegazione di quest'isola al francese, ed
egli, che di storia se ne intendeva abbastanza, mi
rispose:
È posta a dodici miglia di mare dalla Sicilia,
dirimpetto Trapani e Marsala. Appartiene al grup­
po delle Egadi, e va famosa per la vittoria ri­
portata dal generale romano Caio Lutasio sopra
Amilcare, capitano dei cartaginesi, la quale pose
fine alla prima guerra punica. È posta in luogo
basso, ed è attraversata da una catena di colline,
in cima alle quali sorge il castello di Santa Ca­
terina. Ha una popolazione di 5418 abitanti, ed
appartiene alla provincia e circondariato di Trapani.
Io speravo restare in compagnia del signor Meur­
the, ciò che mi sarebbe stato certamente di su­
premo conforto, ma, poche ore dopo dell'arrivo,
fummo separati, né più di lui m'è stato possibile
avermi nuove di sorta.
Se tu vedessi l'orrida spelonca in cui sono get­
tato! Non un raggio di sole vi penetra, ed è tal­
mente umida, che il muro pare tappezzato di
muschio.
Il Direttore del carcere mi annunziò stamane
che non sarò allontanato da Favignana, puoi dun­
que scrivermi e darmi quelle nuove che da luogo
tempo desidero.
67
Che hai fatto sulla ricerca del Magazzino? Ma­
ria, tu sola mi resti al mondo di aiuto e di con­
forto, te ne prego, non mi abbandonare.
Riceviti un bacio coi nostri angioletti, e con­
servami sempre presente alla tua memoria.
Il tuo affettuoso marito
Michele
Maria ­ M'è impossibile poterti manifestare il
dolore supremo che provai, all'infausta nuova
della morte di mio suocero e tuo padre. Egli sce­
se nel sepolcro pria ancora di conoscere la mia
innocenza, e fors'anco senza che mi avesse per­
donato. Aprimi il tuo cuore, e confessami schiet­
tamente s'egli mi maledisse nelle estreme ore
della sua vita. È terribile la maledizione di un
uomo, che parla a pochi passi dal sepolcro.
Ora però sei libera di fare ogni minuta ricer­
ca sulla scomparsa del Magazzino; tuo padre è
morto, e non può ostegiarti, per quel falso con­
vincimento che s'era fatto della mia sventura, su ciò
che volessi fare pel mio bene.
Maria, un fantasma parmi sorgere continua­
mente a me dinanzi, e tracciare delle linee mi­
steriose sulle muscose pareti di questa spelonca,
e su cui parmi leggere: il Magazzino ancor vive.
Se fosse vero!... oh!... ma ricorda che a volte
68
il cuore difficilmente s'inganna, e coi misteriosi
suoi palpiti indica il vero. E nell'istante in cui
ti scrivo esso è circonfuso d'un dolce profumo
di speranza, e mi fa sognare, ch'io non sarò dan­
nato a finire i giorni miei col marchio dell'in­
famia.
Tu sola, o Maria, puoi adoprarti a diradare le
tenebre che si sono addensate attorno alla mia
esistenza, e ridare la pace e la libertà ad un in­
felice, che pur troppo ne sente vivo il bisogno,
e che tutto si consacrerà per tuo bene, appena
gli sarà concesso.
In nome dell'affetto che porti a quegli angio­
letti che nudristi col tuo latte, e di cui io sento
orgoglio d'essere padre, in nome della venerazio­
ne che professi alla memoria dei tuoi defunti ge­
nitori, te ne prego, te ne supplico, non abban­
donarmi, adoprati affinché si faccia piena la luce. Tuo marito
M. Mangiamele
§
Maria ­ Il mio corpo si va lentamente consu­
mando e l'anima mia è potentemente inaridita.
La vita non ha più conforto veruno per me e
69
m'è divenuta incresciosa, segnatamente dopo a­
avermi tu detto che inutili sono riusciti tutti gli
sforzi possibili fatti, per arrivarsi alla piena co­
noscenza della vera fine o del dove si fosse tra­
sferito il Magazzino.
Sono scorsi pochi mesi dalla nostra separazione,
ma troppo per chi vive lontano d'una moglie e
di tre figliuoletti che adora.
Le ore, per certi infelici, non si contano col­
l'orologio alla mano... no... v'hanno ore per
essi che sembrano secoli... che si avvicinano al­
l'eternità...
Le ricordanze dei giorni in cui venni strappato
all'affetto dei miei, mi si presentano spesso co­
me spettri danzanti una ridda misteriose.
Io odio... odio tutto... odio la natura, la luce
del sole, il chiaro di luna, il limpido del cielo,
gli uomini... tutto, insomma, tutto...
Oh! se mi fosse dato potere annichilire il crea­
to e ripiombarlo nel caos! Ma immezzo all'uni­
versale desolazione ed all'abborrimento che av­
volgono la mia esistenza, non mi resta di conforto
che il pensiero di Dio, di te, dei figli miei.
O Maria, te ne prego, te ne supplico, non per­
derti d'animo per le difficoltà incontrate a co­
noscersi la mia innocenza, lavora, lavora a tal
70
uopo con lena, e son certo che vi riuscirai. O­
vunque allora ti accompagnerà la mia ricono­
scenza, ed io ti amerò come marito, ti servirò
come beneficato, e il mio labbro non cesserà di
manifestarti i miei più caldi sentimenti di gra­
titudine.
Conservami perenne il tuo affetto, o Maria,
e bacia per me i figli miei.
Tuo marito
Michele
§
Mia diletta moglie ­ Io sento una forza pre­
potente che mi trascina ad odiare quella società
che mi ha orribilmente trattato, che m'ha
scacciato innocente dal suo seno, e ch'è respon­
sabile dell'immeritato destino che m'ha creato.
Perché m'ha essa coperto di obbrobrio? For­
se perché un gruppo di luridi e malvagi accusa­
tori, non intesero rimorso di calunniarmi di fronte
alla cieca giustizia umana?... Oh... sì!... E questa
cocietà che si lascia facilmente abbindolare da certe
coscienze da trivio, la pretende a infallibile, a
severa riparatrice del male.
Oh! Non ti meravigli il mio odio. Sotto la pre­
71
potente pressione d'una sventura immeritata, tra­
boccherebbe di sdegno anco il tuo delicato cuore di
donna. Vedersi gettata un'anima innocente fra
gli orrori dell'infamia e delle catene è ben du­
ra cosa.
È un colpevole, grida l'umano consorzio; che
importa poi se innocente? Esso non ha tanti scru­
poli, bada solo alle così dette luminose prove, sen­
za distillarsi il cervello ad esaminare se ab­
biano o no un sicuro fondamento di verità; poi
al grado di condanna, e gli getta subito in faccia
il suo sdegno, lo avvolge nel disonore e gli nega
anche la carità morale, che spesso è più utile della
materiale.
Ebbene credi tu possibile ch'io possa amare
una società simile?
A te la risposta.
Ti mando un bacio coi figli miei, e addio.
Il tuo aff.mo
Michele
Maria ­ Io non so se uomo al mondo può im­
maginare quanto sono infelice, ma oggi ho sof­
ferto più che mai.
Non un lontano orizzonte di felicità più brilla
al mio pensiero: l'avvenire mi è chiuso, profon­
72
damente chiuso. A che si riduce la vita, se non
è allietata dalla speranza? Una tomba, un tor­
mento, un abisso!
Se alcuno potesse scrutare il fondo dell'anima
mia, sarebbe certamente per me preso di un in­
dicibile senso di pietà; tanto io soffro. Ma v'han­
no istanti in cui tutte le potenze del dolore si ri­
destano con impeto maggiore, in cui una specie
di fremito nervoso mi getta una furiosa tempesta
nel seno e mi scuote fino al midollo delle ossa. Io non ho più l'energia dei giorni scorsi per
poter lottare colla posizione dhe m'è stata crea­
ta dalla calunnia e per vincere la piena del do­
lore che d'ogni lato mi opprime. Ma tu vivi, vi­
vi per vegliare sui miei angioletti, gli oggetti più
cari che, assieme a te, io mi possegga al mondo.
Che Iddio ti conceda la forza necessaria a supe­
rare l'affanno che proverai all'annunzio della
mia sicura morte; che ti benedica egli e ti sor­
regga nella vita, affinché abbiano i figli nostri,
sotto la tua savia e materna direzione, quell'edu­
cazione che tante volte, nelle serene ore del no­
stro vivere felice, vagheggiammo assieme dar loro.
Egli che di lassù conosce la mia innocenza, vo­
glia almeno ricompensare la mia famigliuola di
tante grazie, quante sono le pene da me sofferte.
73
Feci ogni sforzo per conservare ai miei figli un
nome caro ed onorato, ma la calunnia venne ben
presto a gettare nella più cupa desolazione la mia
povera esistenza. Un giorno però dirai loro che
non provino rimorso nel proninziare il mio no­
me, ché io morii immacolato d'ogni colpa che mi
si è addebitata, e che la mia innocenza presto o
tardi sarà certamente conosciuta dagli uomini.
Forse nell'istante in cui ti scrivo, mentr'io
languo in quest'orrida muda, i miei nemici sono
rosi dal veleno del rimorso, e si martellano va­
namente a placare i violenti palpiti del loro cuore.
Chi sogna felicità col nuocere agli altri, sogna
l'impossibile.
» ...Chi ingiuria semina
» Miete furor. Chi incesta
» Colla viltate, in triboli
» Posa l'infame testa. ([2]]
E quand'anche la fortuna a costui arridesse,
quand'anche fosse ossequiato, lodato, applaudito
da una turba stupida ed ignorante, inetta a va­
lutare il lercio, il putrido dell'anima sua, o co­
noscendolo non si sentisse il coraggio di sputar­
gli in faccia e di coprirlo di quel fango in cui
gavazza, non per questo potrebbe godere egli fe­
licità vera, ché nelle notti insonni, nelle ore so­
74
litarie sentirebbe un misterioso peso gravargli sul
cuore, una certa smania dominarlo sempre, un
vuoto farsi nell'anima sua, e andrebbe incontro in
ogni istante a qualcosa d'indefinito e d'in­
compreso, e pur affannandosi a mendicare conti­
nui passatempi per dare una certa calma al suo cuo­
re, la felicità vedrebbe sempre sfuggirsi dinanzi,
nel momento istesso in cui gli parrebbe averla
raggiunta.
La sventura che noi seminiamo nel cammino
altrui, si riflette sempre nel nostro, e se manca
persona al mondo che lo sappia, c'è il testimo­
nio della propria coscienza, che ci rimprovera le
azioni fatte; e se anche questa si fosse indurita, in
modo da farsi sorda ad ogni rimorso, c'è una leg­
ge provvidenziale, che presto o tardi ci farà pen­
tire di quanto abbiamo malamente operato.
Maria, io veggo declinare la curva dei giorni
miei nella più desolata e fosca condizione, per
opera di certi uomini che giammai offesi, e che,
forse, vendettero la loro coscienza a qualch'uo­
mo nefando ed abbietto, il quale altro non so­
gna che vili e orride vendette. Quale nauseante
spettacolo è quello dell'uomo che ti tuffa in un
pantano di brutture, che prodiga nel lercio, nel
sordido, nell'abominevole l'anima sua, e che an­
75
negando nel vizio ogni scintilla di rossore, gioi­
sce di aver fatto un male al suo simile, o di ave­
re superato un tristo disegno, calpestando a tal
uopo la moralità e la giustizia. Oh! meritevole è
costui di venire segnato col marchio dell'infamia,
d'essere colpito dell'obbrobrio universale, ma
molto più vile e degno di sprezzo è quella turpe
persona che loda o corteggia queste anime ler­
ciose, o che si presta di vile ausilio per compirsi
una soperchieria, una vendetta, una malvagità,
una calunnia, un'infamia.
Se il battesimo della sventura è spesse volte
riuscito a fare viemmegglio splendere l'aureola del­
la virtù di un uomo, invece non ha per me ef­
ficacia di sorta, sofferente come sono non per una
causa grande e generosa, ma perché accusato di
un delitto che mi copre di vergogna e d'infamia. Gli è vero, sono innocente!... innocente!!.
Ma chi vi presta fede? Chi lo sa? Quando avverrà
la mia riabilitazione morale?
Maria, Maria, il peso enorme di un'immeritata
sventura, che parmi si aggravi sempre più sul ca­
po mio, sento che mi trascina con celerità al se­
polcro.
Oh! Non ti amareggino queste parole, né tac­
ciarmi d'ingrato, perché non ho la necessaria pa­
76
zienza a sopportare la mia sventura fino al dì in
cui mi sarà concesso rivederti.
Ma io sento che le forze mi vengono meno
ogni dì e che non posso più vivere a lungo.
Riceviti un caldo bacio di amore coi figli miei
e ricordati sempre di me.
Tuo aff.mo marito
Michele
Maria ­ Ti scrivo oggi in uno stato di profondo
abbattimento fisico e morale.
Mi addolora sovra tutto il pensiero ch'io sono
per te cagione d'immense sventure. Oh perdona­
mi!... perdonami!... te ne supplico. Tu eri nata
a vivere contenta, ma l'esserti a me congiunta fu
per te sorgente d'infiniti guai. Chi sa quante vol­
te ti sei pentita del primo sguardo che mi vol­
gesti, della prima parola ci amore che m'indiriz­
zasti. Ne hai ragione, o mia buona moglie, veder­
si troncare la felicità e l'avvenire nel più bel fiore
degli anni, quando tutto ancora sorride di rosei
sogni e la vita è piena di dolci speranze, è una
trista... una tristissima cosa. Ma io, tel giuro, non
ne ho colpa. Gli uomini che mi calunniaro­
no, che seminarono le spine là dove crescer do­
veano le rose lungo il cammino della mia vita,
77
io raccomando alla misericordia di Dio. Oh fos­
sero almeno tanto generosi da confessare la mia
innocenza, ti persuaderesti allora che non per mal­
vagità mia, ma per semplice sventura, o meglio
che per semplice cagione d'una menzognera ac­
cusa io ti resi infelice.
Anch'io in questo supremo momento, in cui
vedo la mia vita precipitare verso la fine, in cui
mi vedo circondato dalla desolazione e dal dolore,
penso che meglio per me era il vivere celibe, così
sarei almeno rimasto solo a soffrire. Ma chi pre­
sagir potea i lunghi guai che sovrastavano cul ca­
po mio? Io sognavo renderti lieta e vestire dei
più smaglianti colori dell'iride i giorni tuoi, ma la
pallida stella della sventura, nell'età in cui più
vaghe di lusinghe si presentano alla nostra fan­
tasia le ore future, venne funestamente a getta­
re un'eterna disperazione, un profondo dolore nei
nostri cuori.
Scrivimi, o diletta compagna della mia vita,
scri­ vimi che m'ami, che credi alla mia innocenza,
che non t'è angosciosa la rimembranza dei giorni in
cui a me ti legasti, e questi soli conforti baste­
ranno a rendere men dolorosa la prospettiva del­
le ultime ore del viver mio... Esaudisci questa
calda preghiera, che ti volge un infelice!...
78
Se sapessi quante cose vorrei scriverti, ma il
turbinìo di mille violente passioni, il peso enorme
della sventura che d'ogni lato mi opprime, le for­
ti strette che sento al cuore, in cui tutte le mie
forze vitali pare si siano riconcentrate, generano
una grande confusione nel mio pensiero, ed io
non so quel che vado sgorbiando sulla carta; se­
guo solo un impulso istintivo.
Maria, ho una forte febbre alla testa, tutto il
corpo mi brucia e le forze mi mancano. temo
sarà questa l'ultima lettera che ti rivolgo. Sento
che mi avvicino a grandi passi al sepolcro.
Maria, la tua immagine e quella degli angiolet­
ti di cui sono padre, mi sta sempre innanzi alla
mente, né so staccarmene un istante solo.
Oh! potessi rivederti un'altra volta e abbrac­
ciarti e baciarti... Oh! mi fosse dato poter posare
le mani sul capo dei miei teneri figli per bene­
dirli, come facevo nei giorni lieti del viver mio...
Quando mi beavo del vostro incantevole sorriso,
e la vita mi pareva tanto bella.
Maria, Maria, ogni sera, quando levi la tua
preghiera a Dio, raccomandami a lui... supplicalo af­
finché egli, che tutto può, faccia presto conoscere
agli uomini la mia innocenza. Né smettere, an­
che dopo la mia morte, ogni lavoro affinché la
79
luce si faccia sulla misteriosa scomparsa del Ma­
gazzino: si saprà in tal modo che fui un povero
calunniato, non un vile omicida, e nessuno insul­
terà alle mie incolpate ceneri. E quando un gior­
no, fatti adulti, ti chiederanno i figli miei il no­
me del padre loro, tu allora invece di arrossire,
nel pronunziarlo come quello di un vile assassino,
levando lo sguardo al cielo, potrai con fronte se­
rena rispondere: Egli fu un martire e vive lassù
in seno a Dio.
Maria, Maria, Maria... ho un respiro angoscio­
so, una febbre terribile mi rode financo le ossa,
la testa mi vacilla, le pulsazioni del cuore si fan­
no violentissime, e mi par che si voglia spezzare
nel seno... Sento pur troppo che mi avvicino alla
tomba!... Una tomba dove non avranno le mie ossa
nemmeno il conforto di vedervi su deposta
una corona di fiori colti colle tue candide mani.
­Maria, benedici per me i figli miei dal profondo
del cuore... amali sempre... te ne prego... te ne
supplico... io dal... cielo... ove volerò... fra breve...
per rifugiarmi sotto le grandi ali della misericor­
dia di Dio... veglierò sul loro... capo..
Maria, se l'esistenza tua è stata da me ter­
ribilmente amareggiata... perdonami...te ne sup­
plico... ma ricorda... che... la mia coscienza... è
80
purissima... immacolata senza rimorsi... e che
tu.. perdoni... solo... un innocente!... uno sven­
turato!!..
O Maria... scrivimi che m'ami... dà almeno que­
st'estremo conforto ad un povero sofferente... e­
saudisci questa preghiera... che un infelice tribo­
lato... ti volge cogli... occhi pieni di lagrime...
col cuore martellato d'immensi affanni... d'infini­
ta ambascia.
Maria... Maria... Maria... t'abbraccio... ti strin­
go... forte... al cuo...re coi figli miei... addio... ad­
dio... e... per sempre... a rivederci in cielo!...
Il tuo sventurato marito
M. Mangiamele
§
Il Mangiamele visse poco tempo ancora, domi­
nato sempre da cupo dolore. Egli era trascinato
da una cieca fatalità, da un'irresistibile potenza
misteriosa a soffrire. Tutto contribuiva a tiran­
neggiare il suo cuore, e le grandi sofferenze che
provava, indebolivano in modo incredibile la sua
ragione, e le sue stesse lettere ne sono una prova
luminosa. Gli ultimi giorni della sua vita furono
uno strazio, un'agonia continuata. Non sapea re­
81
sistere sotto la prepotente idea di vedere l'innocenza
punita, e la calunnia gongolare fastosa. Nessuna
potenza avrebbe potuto mai più salvarlo d'una
morte sicura; egli si consumava incessantemente. A volte traboccavain un eccesso di collera, e
si mostrava pallido, fiero, minaccioso; altre fiate
l'anima sua veniva ad essere rischiarata d'un fu­
gace lampo di speranza, e la sua faccia brillava
d'un non so che di celestiale. Era insomma il
misterioso avvicendarsi delle lotte, che si combat­
tevano negli abissi di una coscienza ingiustamente
colpita da un immeritato destino.
Un vecchio custode del carcere, i cui sentimen­
ti faceano troppo alle prese col posto che occu­
pava e che avea spesa in quel luogo la più gran
parte della sua vita esercitandosi in opere di be­
neficienza, ed un cappuccino, che seguiva in tutta
la sua rigidezza la regola imposta dalla splendida
figura del fraticello d'Assisi, lo assisterono con
vivo sentimento di carità e d'amore nelle ore e­
streme della sua vita.
Il frate era d'alta statura ma esile, pochi ca­
pelli bianchi disposti a guisa di corona aveva attor­
no alle tempie, la lunga e nivea barba gli scendea
fino al petto, a faccia e le mani sue erano d'un
bianco diafano, e gli occhi sprofondati nell'or­
82
bita violacea rivelavano i lunghi digiuni e le not­
ti insonni trascorse in penitenza e beandosi nel­
l'estatica contemplazione di Dio. Colla sua paro­
la inspirata e santa non poco contribuì a lenire i
dolori dell'infelice moribondo, il quale volle chiu­
dere per sempre gli occhi, dopo aver ricevuto i
conforti di quella religione che santifica le tre
cose più belle che possegga l'umanità: la culla,
il talamo, la tomba.
Pochi momenti prima di morire, il Mangiamele
strinse forte la destra al vecchio carceriere, vol­
se poi il tremulo sguardo al frate, fermò su lui
con forte ansia la cerula pupilla, e colla sua lan­
guida voce gli disse: ­ Padre, quand'io non sarò
più, inviate queste due ciocche dei miei capelli ai
miei figlioletti Luigi, Cesira ed Amalia, unico
ricordo che da questo luogo io possa loro legare:
mandate a mia molgie quest'anello, santo dono
ch'ella mi fece la prima volta che mi sussurrò la pri­
ma parola di amore, dite loro ch'io li bacio e li
benedico, e che muoio... innocente!!.. Padre... pa­
dre... pregate Dio, ve ne supplico, nel modo mi­
gliore che voi sapete, per me... per mia moglie...
pei figli... miei.
Tosto compose sul petto le sue braccia a gui­
sa di croce, volse la faccia esanime a guardare
83
il lembo di cielo che si vedeva dalla finestra a
lui di fronte, e col rapimento dell'anima innamo­
rata s'immerse nella contemplazione dell'Infinito. Il carceriere ed il frate lo guardavano estatici
e con una certa religiosa venerazione.
È bello, è sublime spettacolo vedere un giusto
che si apparecchia al sonno eterno della morte.
Si prova un dolore indefinito, e l'anima si sol­
leva fino a Dio.
Ma appena essi gli videro chiudere gli occhi e
mandare il respiro estremo, senza punto scompor­
si, presero la sua mano intirizzita e la baciarono.
La faccia dell'estinto brillava d'una luce solen­
ne, divina.
Eglino capirono allora che può spledere un
lembo di paradiso anche al letto d'un prigioniero,
e che non vi è scena più commovente, spettacolo
più sublime d'un giusto che agonizza nella pri­
gione, mentre muove le labbra riarse della sete
della libertà, e coll'anelante pupilla cerca la luce,
lo spazio, l'infinito.
+
Venti giorni dopo veniva annunziato, al giudice
di Ferla, che nelle carceri di Favignana era mor­
84
to il massaio Michele Mangiamele, condannato per
crimine a 15 anni di carcere duro.
Incredibili furono lo strazio e gli affanni prova­
ti a tale annunzio dalla povera moglie, che si strug­
geva pensando alla miseranda fine toccata all'in­
felice suo marito, a cui non valse a salvarlo di
una dolorosa catastrofe la coscienza del sentirsi
puro.
§
Il giorno 13 dicembre del 1865 alla presenza del
Sindaco titolare di Buccheri, e dopo tutte le formalità
di legge, Salvatore Barrile([3]) e Maria Mad­
dalena Marchese, promisero volersi congiungere
in legittimo matrimonio, il quale venne poi cele­
brato secondo le forme prescritte dal Concilio di
Trento, alla presenza del Parroco il 17 dello stes­
so mese (2).
Spuntava un bel giorno del 1870.
I contadini si avviavano lieti alla campagna, e
le povere donnicciuole sedevano innanzi l'uscio,
a riscaldare le membra al sole.
La Marchese fece un fagotto della roba sudicia
che ci avea, e andò a Passo­Marino, piccolo fiu­
me posto a poca distanza da Buccheri, e che se­
­([3]) Trattasi di una svista(?) del Guarrella... il nome dello sposo è Salvatore Lombardo.
Vedere in Appendice la copia fotostatica degli atti di matrimonio. 85
gna in parte il confine fra il territorio di questo
comune e quello di Vizzini, per lavarla.
Scorse appena un paio d'ore, una donna
venne in fretta a chiamarla.
­Venite, venite presto, comare Maddalena, è
già tornato vostro marito.
­Mio marito? ella rispose; volete voi canzonar­
mi?... ma s'egli è la di fronte che ara la terra.
­Ma che arare ed arare, è del primo vostro
marito, di quello che si diceva essere stato ucci­
so, che intendo parlarvi; e se lo vedeste!... vi par
proprio un gran signore, con tanta eleganza è
vestito.
­Lui?!... proprio lui?!... esclamò piena di
meraviglia.
E raccolse le robe e via di ritorno a casa.
Si abbracciarono, si baciarono, si scambiarono
delle dolci parole.
La Maddalena ­ ch'era una di quelle donne a cui
non è ignota l'arte di sedurre e di abbindolare,
e che nell'istante istesso in cui covano in seno
una passione estranea o ci godono a vedersi cor­
teggiate e adocchiate da tutti, hanno poi la fur­
beria o l'ipocrisia che si voglia dire, di sapersi
nascondere e di velare con mentiti e sovente pue­
rili pretesti la loro vana e sozza condotta, ­ si sciol­
86
se in lagrime, per mostrare il contento che pro­
vava pel ritorno del marito, e per far conoscere
che sentiva pentimento e dolore di essere passa­
ta a seconde nozze.
Quel giorno istesso il Magazzino si presentò
in casa del Sindaco, per chiedergli permesso di
condurre seco sua moglie. Costui chiamò a sé la
Maddalena, e le domandò quale dei due mariti
preferiva.
Siccome il Magazzino aveva trovato modo, a
Motta di Sant'Anastasia, di avvantaggiarsi un po­
colino, è facile capire che la scelta cadde su di lui.
Riferì allora il Sindaco ogni cosa al Procura­
tore del Re presso il tribunale di Siracusa, e ne
ebbe la risposta che la moglie spettava di di­
ritto al primo marito, ed in ispecie perché dopo
consultata egli era stato prescelto.
Il ritorno di quell'uomo, da lunghi anni cre­
duto morto, e l'innocente condanna del Man­
giamele si seppero ben presto nelle circostanti
terre.
Venuto intanto all'orecchio dell'infelice Maria,
ella volò in Buccheri. Nel palazzo municipale, ap­
pena vide l'uomo, che, senza volerlo né saperlo,
era stato cagione della sventurata condanna di suo
marito, svenne. Quando riebbe la calma dei sensi,
87
si cacciò le mani ai capelli, appuntò alla volta
gli occhi, e in preda a un disperato dolore, escla­
mò: ­Sorgi, o sventurato marito, o infelice padre,
sorgi da quel desolante sepolcro che ti schiu­
sero uomini senza carità, senza fede, senza amore.
La tua innocenza è oggi conosciuta da tutti, la
riabilitazione morale del tuo nome è oggi un fat­
to compiuto; i tuoi voti, i tuoi desideri estremi
sono stati esauditi; nessuno insulteà più alle tue
ossa, nessuno ti volgerà l'esecranda parola « omi­
cida. » I tuoi figli possono andare orgogliosi del
nome che ereditarono, reso più splendido e bello
dalla gloriosa aureola del martirio. Sì tu fosti un
martire, questo titolo ti volgeranno coloro che eb­
bero agio a conoscere le tue preclare virtù, e gli
affanni che patisti innocente.
Prega per me Iddio, acciocché mi dia forza suf­
ficiente a perdonare coloro che vilmente ti calun­
niarono, che abbeverarono di fiele la nostra santa
unione, che per sempre distrussero la felicità e la
pace in una povera famigliuola. Le tue sofferenze,
o Michele, sono cessate, e l'anima tua riposa in
seno all'Onnipotente, ma a tua moglie, ai figli
tuoi chi sa quale destino è serbato, chi sa quanto
ancora sono destinati a patire?
Fate, o gran Dio, ch'io possa congiungermi
88
presto a mio marito; esaudite questa preghiera che
tante volte ho ripetuto nel pianto! Ma finché vivo,
non cesserò di ringraziarvi d'aver fatto conoscere,
sebbene troppo tardi, l'innocenza del mio Michele­
Io, che tante volte ho avuto vergogna nel rispondere
ai figli miei allorché mi chiedevano come il loro
padre era morto, posso ora rispondere: cinto del­
la corona del martirio!...
A questo punto parve mancarle il respiro, e che
fosse venuta meno ai viventi in un eccesso di do­
lore. Stette in silenzio e col capo chino alquanti
minuti, poi scoppiò in pianto dirotto.
Gli astanti che fino a quel punto erano rimasti
muti, non seppero anch'essi frenare le lagrime
di dolore, né alcuno trovò parole sufficienti a con­
forto di quella povera donna.
§
L'uomo intanto, che aveva ordita quella nera ca­
lunnia, era morto, ed i testimoni, che s'erano pre­
stati all'infame giuoco, dichiararono aver ricevuto
in prezzo della loro iniqua menzogna cinque scu­
di per uno (L. 25, 50).
Furono essi arrestati, ma essendo scorsi dieci
anni e prescritto quindi il diritto a procedere con­
89
tro di loro, dopo un anno di carcere vennero ri­
messi in libertà.
§
Eccoci alla fine di una breve ma desolante isto­
ria, che farà spuntare una lagrima a quante sono
anime gentili, e che a noi ha fatto sanguinare il
cuore nel dettarla. Essa farà rinsavire coloro che
fanno troppo a fidanza colle così dette luminose
prove, e può servire come uno splendido esempio
per combattere quei penalisti, i quali sostengono
doversi la pena capitale applicare almeno nei casi
in cui né al pubblico né al magistrato resti dub­
bio di sorta sulla reità dell'incolpato.
Quale prova più bella e più chiara di quei do­
dici testimoni, che senza menomamente contra­
dirsi e in modo da non poter sorgere dubbio al­
cuno sulla efferata calunnia, espongono con gla­
ciale e mostruoso cinismo di essere stati quasi
tutti testimoni oculari di quel crimine?
E se il Magazzino, a vece di tornare dopo lun­
ghi anni, moriva, sarebbe avvenuta anche la sem­
plice riabilitazione morale dul nome di Mangia­
mele? Nel ricordarlo la gente in qualche circo­
90
stanza non gli avrebbe dato sempre dell'omicida
e dell'infame?
La risposta cogli opportuni commenti la faccia
da sé il lettore.
È QUI D'UOPO FARE UN'AVVERTENZA
Nel descrivere il modo di solennizzare una festa, noi ten­
tammo di delineare certi vecchi usi propri d'alcuni monta­
nini ma per nulla applicabili a Buccheri, specie al dì d'og­
gi ­ In quanto alla Marchese dobbiamo dichiarare, per de­
bito di giustizia, che la sua condotta fu sempre illibata, e che
suo marito andò via da Buccheri mosso dal bisogno, non per
quello che a lei idealmente attribuiamo. Noi volemmo solo
coglier l'occasione a ritrarre un fatto puramente e fedelmen­
te storico avvenuto ad un nostro carissimo amico, la di cui
nobile ed orgogliosa madre nudrì sempre un odio implaca­
bile contro di lui per avere egli sposato una povera conta­
dina. E costei quando si vide ingiustamente abbandonata,
tornò a fare all'amore con un bel giovane suo congiunto, e
finché tutta si tuffò nell'orgia oscena del marcio. E se alcu­
no ci chiederà perché facemmo quella trasposizione, rispon­
deremo: solo per dare una certa forma romantica al lavoro.
Chi può conoscere Ferla potrebbe formarsi un cattivo
concetto di quel comune moralissimo e molto innanzi nella
via del progresso. Oh! dei tristi ce n'è ovunque, e la catti­
va azione di pochi malvagi, non avrà certamente efficacia di
menomare la meritata reputazione d'incivilito, che gode un
comune, il quale ha stigmatizzato in mille modi quella pes­
sima azione. Del resto si badi che noi abbiamo parlato di
tempi che furono.
91
NOTE §
~~~~~~~~~ (1) Piedigagi è nelle campagne di Ferla, da cui è distan­ te 3 o 4 C.m., ma per la curiosa circoscrizione della Sicilia
appartiene al territorio di Carlentini, sebbene da esso lonta­
no 15 o 16 C.m., comune che alla sua volta fa parte del
mandamento di Lentini.
~~~~~~~~~
(2) Il Magazzino e la Marchese vivono ancora a Motta
di Sant'Anastasia, e furono da noi a proposito interrogati a
lungo un dì che vennero in Buccheri.
Salvatore Barrile ([3]) anch'egli vive ed esercita il mestiere
di spazzacamino. Ei nell'anno 1883 chiese al tribunale civile
di Siracusa di venire sciolto d'ogni vincolo coniugale, ma nul­
la potè conseguire per deficienza di mezzi.
Il racconto è quindi puramente storico, avvertiamo però
il lettore, a scanso di equivoci, che noi abbiamo lavorato di
fantasia in tutto ciò che riguarda la forma, e che molte co­
se sono di nostra invenzione, tra cui le lettere e le parole
pronunziate all'udienza. Del resto è facile capire che, se non
tutti, molti di quei sentimenti dovettero agitarsi nel seno
del povero Mangiamele.
Il Municipio di Buccheri, in ricordanza di quel luttuoso
dramma, volle battezzare Via due mariti, quella in cui abi­
tava un tempo la Marchese.
Riportiamo in ultimo un brano dell'atto di matrimonio tra
il Barrile e la Marchese che si legge nei registri dello Stato
civile di Buccheri, il quale fa anche fede della sicura cre­
denza che si avea della morte del magazzino.
« L'atto di notorietà per la morte di Salvatore Magazzi­
no, primo marito della sposa Maddalena Marchese, il quale
disgraziatamente venne ucciso nelle campagne di Ferla, ed
ivi sepolto e rinvenuto sfracellato, dopo un mese circa, nella stagione estiva del 1865­secondodoché risulta dai do­
cumenti a noi esibiti. »
92
NOTE ALL'EDIZIONE DEL 2010­2014
(*) mentre ridevano e celiavano i due ladri
(**) la meta
(* e ** sono due annotazioni a penna dell'autore presenti nel libro)
([1]) Sono versi dell'Inferno di Dante presenti nel 1° Canto a partire dal 16° verso.
([2]) Versi di Giovanni Prati tratti da Canti Politici ­ a Luigi Napoleone a iniziare dal
25° verso.
([3]) Per una svista o per un errore di trascrizione o per una errata comunicazione al
Guarrella da parte dell'ufficiale d'anagrafe, egli indica in Salvatore Barrile il nome del
secondo marito di Maddalena, mentre invece nell'atto da noi consultato questi si chiama
Salvatore Lombardo.
Nell'Appendice è visibile chiaramente questo nome che riportiamo fotografato dal
registro dello stato civile di Buccheri. Vedere la nota completa in prefazione.
93
APPENDICE
Di seguito riproduciamo alcuni stralci degli atti di matrimonio riguardanti
Maria Maddalena Marchese e la copia fotografica delle pagine che li riportano, così
come appaiono nei registri dello Stato Civile di Buccheri
Il primo matrimonio contratto con Salvatore Magazzino fu celebrato il 28 Agosto
del 1853.
Il secondo matrimonio, creduto morto il primo marito, fu contratto con Salvatore
Lombardo il 13 Dicembre 1865.
(Salvatore Lombardo, non Barrile, ved. nota ([3]))
94
95
96
97
ATTO DELLA SOLENNE PROMESSA
di celebrare matrimonio
Num. d'ordine trentesimo quarto
L'anno mille ottocento sessantacinque il dì tredici
del mese di Dicembre
ventidue
alle ore
avanti di noi Giobattista Mallo
ed uffiziale dello Stato Civile del Comune di Buc=
cheri
distretto di Noto
Provin=
cia di Noto sono comparse nella comunale Salv=
atore Lombardo maggiore
di anni ventisei
nato in Buccheri
di professione contadino domiciliato
qui
figlio di Gaetano defunto
di professione contadino domiciliato quie di Maria Maddalena Bonanno
di professione -----
domiciliata qui-
e Maria Maddalena Marchese maggiore
di anni trenta
di professione industrio=
sa
nata in Buccheri
miciliata qui
parenti di professione -------------------------------------------------domiciliato -----------------------------e di ----------------------------------------di professione
---------------domiciliata -------------------------------quali alla presenza de' testimoni, che saran qui appresso indicati, e da essi prodotti, ci han richiesto di
ricevere la loro solenne promessa di celebrare avanti
alla Chiesa secondo le forme prescritte dal sacro Concilio di Trento il matrimonio tra esso loro progettato.
E sotto l'assistenza della genitrice dello
sposo
la quale interviene al presente
atto affin di prestare il di lei apprezzo e
formale consenso secondoche ha dichiarato.
La notificazione di questa promessa è stata affissa sul=
la porta della casa comunale di Buccheri
--------
nel dì diecinove giorno di Domenica
del mese di Novembre anno corrente
Indicazione della seguita celebrazione canonica del matrimonio
Num. d'ord. 34
L'anno milleottocentosessantacinque
il dì diecisette
del mese di Dicembre
Il Parroco di questo Co=
mune ci ha rimessa una
della copie della controscritta promessa; in piè della quale ha certificato , che la celebrazione del
matrimonio è seguita nel giorno dieci
sette del mese di Dicembre
anno Corrente
98
do-
figlia di Ignoti
alla presenza dei testimoni
Maestro Concetto Cataldo
e Maestro Antonio
Giaquinta
In vista di esso, noi abbiamo disteso il presente notamento, e dopo
di averla cifrata, abbiamo disposto,
che fosse la copia anzidetta conservata nel volume dei documenti
al foglio 208.
Abbiamo inoltre accusata al Parroco la ricezione della medesima,
ed abbiamo sottoscritto il presente
atto che è stato iscritto su i due
registri.
Giobattista Mallo
Nella pagina successiva si legge sia quello che ha riportato il Guarrella che altre notiziole inerenti il matrimonio col Lombardo.
99
100
LEGGENDE
SICULE
Di
Vincenzo Guarrella Ottaviano
101
Prefazione alle Leggende Sicule
Le Leggende Sicule sono state pubblicate in appendice alla Moglie di due Mariti e
portano le pagine numerate da 83 a 107.
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LA FONTANA DEL PARADISO
(LEGGENDA SICULA) (1)
~~~~~~~~~~
Quella sera soffiava un tramontanino gelato. Sul­
le tegole e sulle imposte s'udiva il picchiettìo
della pioggia mista a minutissima gragnuola, e la
gente attraversava in fretta le vie, per metter­
si nelle proprie case al riparo di quel tempaccio.
Lo zio Giacomo, fuori del suo consueto, com­
parve sulla soglia molto prima dell'ave. I figliuoli,
appena lo videro, corsero a baciargli la mano e la
moglie prese una scranna e gliel'apprestò per sedersi.
Tutto questo evvenne in men che si dica, poichè
bisogna sapere che lo zio Giacomo pretendeva
essere obbedito in famiglia anche prima di proferir
sillaba, se no, andava sulle furie.
103
Quella sera non fu lui solo ad entrare in casa;
lo seguivano due giornalieri che insieme a lui
aveano quel di zappata la sua vigna.
Sedettero attorno al padrone di casa, uno su
d'una seggiola, l'altro su d'uno sgabello forma­
to d'una piccola ceppaia. Marianna, così
chiamavasi la moglie, corse in cucina, mise un po' di
brace accesa in una conca di creta cotta, e andò a
posarla ai piedi del marito, in quello che gli diceva:
scaldatevi chè con questo tempaccio che non la vuol
finire mai siete tutto umido e affreddato. Poi
aggiunse: la minestra è pronta e sta a voi il decidere
quando volete mangiarla.
­Ora stesso, egli rispose.
Marianna tornò in cucina, riempì tre scodelle di
fave, e servì prima il marito poi i giornalieri. Essi
cominciarono a mangiar con grande appetito quel
legume, che in quell'anno di caro valea tant'oro,
e per un pezzo altro non s'udì che lo strepito
del labbreggiare e del succiar della broda. Dopo
fu passato in giro un fiasco colmo di vino, ne be­
vette ciascuno un buon sorso, e in tal modo finì
la cena.
­Zio Giacomo, perché tanto malinconico siete stato
oggi? gli chiese il vecchio Bernardo, ch'era uno dei
giornalieri.
104
­Ho pensato, ch'è il terzo anniversario del­
la morte del mio povero Sandro. Quando ci penso il
cuore mi si schianta, né so frenare le lagrime.
­Figli come quello là non ne verranno più al
mondo, interloquì la Marianna, i cui occhi co­
minciarono a luccicare a quel discorso. Ma già me
lo dicevano fin da quand'era bambino, che non
poteva vivere a lungo perché troppo in­ telligente,
che però dovea finire a quel modo, è la spina
acutissima che mi punge l'anima.
­La colpa in parte fu sua, riprese Bernardo.
Zio Giacomo alzò il capo che tenea fisso al suo­
lo, a quest'espressione, nei suoi occhi guizzò un
lampo d'ira, e con voce vibrata esclamò: no, no...
a coloro che asseriscono il contrario mentiscono per
la gola. E giacchè m'avete tirato a questo
punto, abbiate un po' di pazienza, ed aspettate
che vi narri la storia della fine infelice del mio
povero figliuolo, tanto per mostrarvi quanto false
sono certe cose, che sul conto suo si vanno di­
cendo.
Io me ne stavo ai servigi di don Michele Gan­
dolfo, in un al mio caro estinto, e quel tanto che
si guadagnava, era sufficiente non solo a tirare
avanti la vita, ma per mettere a risparmio qual­
cosa, mediante cui comprarsi la vigna che abbia­
105
mo zappata oggi. Però gl'invidiosi ce l'abbiamo
tutti, e quel preteso mio compare Anastasio,
sparse la voce ch'io m'ero appropriato una buo­
na quantità di frumento. La notizia passando
di bocca in bocca, giunse alle orecchie del signor
Gandolfo, il quale, da quel credenzone che era,
l'accolse come vangelo, e dopo avermi data una
buona lavata di capo, mi cacciò via, né volle pun­
to sentire ragioni a mia discolpa. Figuratevi
s'io ne intesi dolore, non solo pel danno materiale
che a me ed alla mia famiglia ne veniva, ma ben an­
co e sovra tutto per la vergogna d'esser cre­
duto un ladro.
Dopo sei mesi circa fui preso come castaldo da don
Pietro Mena, uomo testereccio e rotto ad ogni
lordura. In quanto a compenso però ci fu per me non
poco di guadagnato.
Splendeva una sera una luna limpidissima, e si
stava insieme all'aperto in campagna chiacche­
rando alla buona; quando gli saltò in capo di
mandare in Vizzini il mio Sandro onde seco reca­
re in campagna, il mattino del giorno successivo, la
donna sua.
Io rimasi di sasso appena udii quella sua ri­
soluzione, né seppi frenarmi di dirgli: Don Pie­
106
tro, vuole davvero mandare mio figlio di notte a
Vizzini?
­ E che c'è di male?
­ Ma non sa che deve attraversare certi luo­
ghi, ove di notte compariscono le ninfe?
­ Povero sciocco che sei ! Credi anche tu a simili
fandonie?
­ Fandonie!... scioccaggini le mie!... Oh io
non sono una cima d'uomo, ma un po' di cervello
ce l'ho pure in capo, e di certe cose mi persua­
do facilmente.
­ Parli da senno o scherzi?
­ Dico davvero, e con queste orecchie qua ho
mille volte udito dire, da gente molto dotta, che sin
da tempi antichissimi sono vari luoghi, da qui poco
distanti, sede delle ninfe, le quali altro non sono che
spiriti infernali che di notte, appariscono sotto forma
di vaghissime fanciulle, onde ingannare i gonzi.
Egli si mise a sganasciar dalle risa a questo mio
parlare, ma visto ch'io m'ostinavo a non fare partire
Sandro, imbizzì, e mi disse con voce stentorea:
obbedire o andare via al momento istesso. Il pensiero
di vedermi a sì breve distanza di tempo gettato sul
lastrico, mi vinse, e consentii. Oh! non l'avessi mai fatto ! Vidi quella perla
107
di figlio partire, il cuore mi si strinse forte for­
te, ed una tetra malinconia m'assalse. Dopo una
mezz'ora circa mi pentii d'averlo lasciato andare, ma
era troppo tardi.
Venne il domani, trascorse la prima metà del dì,
ma nessuno comparve. Mille timori mi prese ro a
questo punto, mi misi la via fra le gambe, e m'avviai
in cerca del mio Sandro. Andavo in fretta, volgendo
intanto il mio sguardo ansioso per quei luoghi
circostanti, quando lo vidi, con mio grande stupore,
su d'una pietra con tanto d'occhi e pallido come un
cencio lavato. Che hai, gli chiesi abbracciandolo; ma
egli non potè rispondermi. Che far potevo solo? Lo
tolsi di peso sulle spalle, ed a stento riuscii a
portarlo in paese. Si mandò dal medico Loseschi ed
appena udì il mio nome venne, ché mi voleva un
gran bene. Ordinò cavargli presto un po' di
sangue, e parve riaversi perfettamente. Io che mi
morivo di voglia di sapere che mai gli fosse accaduto,
gliel chiesi allora, ed egli mi narrò: Arrivato
presso la fontana del paradiso, vidi una giovane
seduta su d'una pietra, la quale mangiava del
pane con frutta di un colore sorprendente. M'invitò
prima a sedere con lei per mangiare insieme quel
cibo. Grazie, io risposi, e tirai avanti. Mi chiese poi se le facevo cortesia di permetterle di
108
andare in groppa, e spiccato in quel mentre un
salto, me l'ebbi dietro. A questo punto la mula cominciò a fumare, a
saltare, a divenir grinzosa e stecchita ed a
ballonzolare le costole. Stesi istintivamente una
mano per toccare quella fanciulla, la cui par­
lantina si facea sempre più celere, ma nulla trovai.
Assalito da grande spavento, mi parve perdere la
vista ed abbuiarsi la mia ragione. Caddi da ca­
vallo ed a grande stento riuscii a tirarmi avan­
ti, per sedermi su d'una pietra.
Zio Giacomo qui tacque per asciugarsi due gros­
se lagrime che gli venian giù per le guance, poi
riprese:
Proprio quando mi parea avere riacquistato il
figlio, fu egli assalito d'una fortissima febbre, che
lo menò in pochi giorni al sepolcro. Vedete dun­
que che non fu per colpa sua, o meglio per de­
siderio di fare all'amore, come dicono le lingue
serpentine, ch'egli finì di vivere, ma... ­ Perché costretto ad andare in Vizzini da
quell'anima dannata, seguitò il vecchio Bernardo. ­ Sicuro.
­ E che vi disse, appena gli fu manifesta la
vostra sventura?
­ Che mi disse!... che mi disse!... a vece di
109
chiedermi scusa, si cooperò fra i primi a diffon­
dere la trista novella, che Sandro faceva da un pez­
zo all'amore con una ninfa, affinché nessuno a­
vesse dato a lui carico di quella fine infelice, e il
suo disegno in gran parte non andò a vuoto.
Qui il secondo dei giornalieri cominciò a nar­
rare d'aver visi anche lui degli spiriti andar
vagolando sinistramente sui merli di un vecchio
castello, mentre zio Giacomo riprendeva il fiasco, e
vuotava un altro nuon sorso di vino.
~~ ~~ ~~
(1) In questa, come in altre leggende stampate qua e là in
vari periodici, ho cercato sempre ritrarre usi, costumi, opinioni e
credenze ancora vivi presso il popolino di alcune contrade sicule. Il
fatto poi che qui si espone, è ancora ripetuto dal popolo superstizioso
ed ignorante, e viene anche narrato nella curiosa storia di Vizzini
pubblicata in Napoli nel 1730 dal P. Ignazio Noto, ove le verità storiche
sono mescolate a mille incidenti fantastici e superstiziosi.
110
Il popolano, che da Vizzini ritorna a Buccheri,
arrivato di fronte a quella fontana, non senza
provare un panico timore, ricorda la storiella che sua
madre gli narrò fanciullo.
La donnicciuola, che passa da quel luogo, si fa
il segno della croce, e poi recita un'ave alla Ma­
donna. Se il vento fischia o l'aquilone imperversa,
è indizio, pei contadini dei dintorni, che i diavoli
scappati dall'inferno sono in giro per quelle con­
trade, ed umilmente prostrati in ginocchio , reci­
tano compunti la litania, affinché Iddio li ricacci
negli eterni abissi.
Eppure vi fu un tempo in cui in quel luogo
attirava a sé il cuore dei giovani più belli e fre­
111
menti di forte passione, poiché ivi albergavano, in
un'elegantissima palazzina, che dicevasi all'in­
terno essere tutta oro e smeraldi, parecchie
fanciulle, belle quanto le farfalle del Casimiro, leg­
giadre quanto la Venere di Milo e dotate d'una
voce più melodiosa di quella delle sirene, create
dalla fervida fantasia de' padri nostri. Ma dal dì
che avvenne la sventura, che noi qui narriamo, la
campagna brulla – secondo la popolare tradizio­
ne ancora viva – non ha più sorrisi, la luna non
vi piove la sua luce limpidissima, e il raggio i­
stesso del sole o non è lucente, o vi cosparge u­
n'afa soffocante.
Un giorno era di là passato il marchesse Pie­
tro, unico erede di ricchissimo casato. Le donne più
belle di Vizzini e dei limitrofi paesi gli erano state
indicate onde scegliene una come sposa, ma nessuna
gli era andata a genio.
Da un'ampia scala di porfido vide scendere altera
una fanciulla, drappeggiandosi come una matrona in
un magnifico velo di seta. La testa avea bionda, gli
occhi neri fosforicamente scintillanti, la faccia color
di rosa su di un bianco niveo, e le forme scultorie del
corpo erano vagamente delineate in una veste
candidissima.
Parea un occhio di sole.
112
Il Marchese ne raccolse lo sguardo, e intese
elettrizzarsi alla vista di quella slendida bellezza.
Tirò innanzi, ma il suo cuore era rimasto af­
fascinato, e s'inebbriava in un'onda di pulsazioni per
lui nuovissime.
L'immagine di quella fanciulla gli era rimasta fitta
innanzi la mente, in cui assumeva nuove e più
leggiadre sembianze, in guisa che si allonta nava da
quella palazzina.
Arrivò a Vizzini sul tardi.
Varii servi corsero a lui incontro per dargli il
benvenuto, e per menare in istalla la sua focosa
giumenta.
La madre lo baciò in fronte, ma scorse in lui
qualcosa di nuovo. Il padre da un pezzo gli era
morto.
­ Che hai gli chiese?
­ Nulla.
­ Ti senti male?
­ Anzi, benissimo.
­ E perché sei così cupo e pensieroso ? ­ Non è vero.
­ Io non la sbaglio, io avvezza a leggere sulla tua
fronte i segreti pensieri dell'anima tua, son certa che
in qualche sinistro caso tu sei incappato.
94
113
­ Voi la sbagliate stavolta, è solo perché mi sento
stanco dall'aver fatto andare al galoppo la mia
giumenta.
La Marchesa parve acquietarsi a quella di­
chiarazione.
A cena, tanto per non dare nell'occhio, si sforzò
Pietro un po' a sbocconcellare, sebbene il suo corpo
per nulla sentiva bisogno di cibo.
Sopravvenne una notte senza stelle. Pria di
andare a letto guardò il cielo, ma era plumbeo e
nebbioso; chiuse allora le imposte, mentre inviava
un lungo amoroso sospiro alla vaga fanciulla che
l'avea sedotto con lo sguardo fulminante.
Gli fu impossibile pigliare sonno. Il suo pen­
siero aspirava le calde estasi di amore, i dolci
profumi d'un limpido ideale. Attraverso lo splendido
miraggio d'una repentina ma veemente passione, gli
parve di vedere una felicità dolcissima, una gioia
immensa, un Eden perenne.
Era presso nona.
Il marchese uscì di casa, e corse difilato in una
catapecchia annerita, che minacciava far perire
114
schiacciati gl'infelici, che il tiranno bisogno co­
stringeva ad abitarvi.
Lì stava un suo famiglio da cavallo, bruno,
se­galigno e dagli occhi appisolati.
...­ Vieni meco, gli disse, aggrottando le sopraciglia, e
in aria d'aspro comando.
Egli obbedì ciecamente, borbottando a voce
sommessa: marina gonfiata oggi.
Il signor Pietro ordinò bardargli la giumenta, e di
seguirlo a cavallo ad una mula.
Il sole avvolgeva la terra in un'onda di luce; le
vie erano arse, polverose, deserte.
Solo si sentiva il monotono stridìo degli insetti,
e il crepitar delle erbe secche ed arsicce, sotto i piedi
ferrati dei due quadrupedi. Dalla fronte di Pietro e
del suo garzone il sudore venia giù a grossi
goccioloni, e la polvere che si sollevava dall'arrancare
affannoso delle povere bestie, si attaccava agli abiti
ed alla faccia.
Andarono innanzi, per lungo tratto, silenziosi.
Finalmente il Marchese dichiarò al garzone il
luogo a cui si dirigevano e per qual fine.
­ Santi del paradiso! egli esclamò, sconosce
115
forse l'Eccellenza Vostra, come lì sono delle maghe e
delle donne fatate?!...
...­ Ma che maghe! Che donne fatate! E tu presti fede
a siffatte bessaggini?
...­ L'ha predicato don Michele Gandolfo, un santo e
dotto sacerdote.
...­ Anche lui ha spacciato delle fole.
...­ Voglia Dio e Santo Vito martire che voi diciate il
vero!
E profferite queste parole trasse dal seno una
immagine della Madonna e una boccettina d'acqua
benedetta, aggiungendo: Con queste qua io son cer­
to di andare esente d'ogni pericolo del demonio.
In guisa che si avvicinarono al luogo designato,
il marchese sentia maggiormente agitarsi le corde
sensibili del cuore.
Appena fu di fronte alla palazzina, e vide de­
linearsi la stessa fanciulla nel vano d'una finestra,
l'impeto istantaneo della passione di cui fu rpeso,
produsse in lui una specie di angoscioso delirio.
Egli sentiva una sete ardentissima ed insoffribile,
e le chiese da bere. Ella scese subito con una sua
compagna, e nella fontana, che lungi pochi passi
scorreva placisissima, riempì un bicchiere di
argento di freschissima acqua.
116
L'invitò di poi ad entrare, mentre la compagna,
tutta vezzi e moine, s'avvicinava al garzone, ma alla
vista dell'immagine che portava addosso cominciò a
contorcersi ed a rinculare. Costui capì tutto, si fece il
segno della croce, e lanciata contro essa e la
palazzina la boccettina d'acqua benedetta, tutto
scomparve in un nugulo di fiamme e di nerissimo
fumo. A quello spavento il povero garzone cadde a
terra svenuto, e lì rimase in quellos tato per
lunghissime ore.
Quando riebbe la calma dei sensi guardò at­
torno. Regnava una calma profonda, una solitudine
immensa, né altro si vedeva all'infuori della mula
colla testa bassa, e solo si udiva la monotona cadenza
dell'acqua della fontana.
Volse al cielo il tremulo sguardo, e tentò a voce
alta sollevare a Dio una preghiera, ma era divenuto
mutolo.
Tornò a Vizzini colla desolazione nell'animo e con
una febbre di spavento, che gli rodeva altresì le ossa.
Corse in casa della Marchesa. Costei gli chiese
dov'era il figlio, ma non potè proferir sillaba, e solo
con molteplici gesti le fece capire la terribile sventura
piombata sulla casa sua.
Si mandò a chiamare il P. Luigi Lanuzza, che
117
era in reputazione di santo. Egli venne subito in
camice e stola, portando in mano l'aspersorio colmo
d'acqua benedetta. Esorcizzò il garzone, e in nome
di Dio gli ordinò di parlare. E la parola ritornò
allora alle sue labbra, ed espose tutto.
La madre udì esterrefatta la dolorosa fine toc­
cata al proprio figlio. Congiunse le mani, levò lo
sguardo al cielo colla disperazione in cuore, e chiese
di poter morire in quell'istante. Poi si rinchiuse nella
sua stanzetta, né mai più da essa volle uscire finché
la morte la colse da lì ad un anno.
Da quel giorno quella fontana venne chiamata
dell'inferno, e il popolano, che da Vizzini ritorna a
Buccheri, arrivato in quel punto, non senza provare
un panico timore, ricorda la fantastica storiella che
sua madre gli narrò fanciullo; e la donnicciuola che
passa da quel luogo, col cuore colmo di chimerico
timore, si fa il segno della croce e poi recita un'ave
alla Madonna.
118
Due o tre chilometri lungi da Buccheri, tirando
verso levante, si scorge un'angusta valle ora tetra,
spaventevole e minacciosa a vedersi, ed ora bella,
incantevole, sorprendente. Il gruppo dei monti che
la fiancheggiano in certi punti si avvicinano talmente,
che un'agile persona, spiccando un salto, potrebbe
facilmente passare da una cima all'altra. È da questa
speciale configurazione che piglia il nome di Stretta.
In fondo vi scorre un piccolo influente, che
nell'inverno si accresce molto colle acque piovane, e
diviene rapido e impetuoso. Qua e là l'acqua col
suo incessante lavorio ha incavate grandi caverne,
piccoli seni e specie di stanze, dalle cui pareti si
119
vedono pendere gran numero di stalattiti. Corre così
quella valle per pochi chilometri circa serpeggiando,
poi si fa poco profonda e finalmente si perde in una
spianata.
Presso una contrada, detta Costa­balze, forma la
valle una specie di grande politeama circolare. Nel mezzo di esso esiste un gorgo molto profondo,
intorno a cui la vivace fantasia degli abitanti creò la
sua fantastica leggenda. Narrasi infatti esservi nel
centro una campana intrisa di sangue omicida, la
quale attende la mano benefica di un santo frate
cappuccino, che la tolga da quel luogo per
rimetterla nel posto ov'era un tempo.
Su d'un poggio, che s'eleva lungo il pendio orien­
tale del monte che circonda quel luogo sorgeva sullo
scorcio del secolo IV una chiesuola, che raccoglieva
nei dì festivi quei fedeli delle terre circostanti, i quali,
non potendo per qualche loro bisogna trasferirsi in
paese, lì accorrevano a sentir la messa, che andava a
celebrarvi un pietoso frate cappuccino. Erano fra
costoro una vecchia grinzosa, il cui aspetto
annunziava aver ella da lunga pezza valicati i
sessant'anni, ed una sua nipote, orfana d'ambo i
genitori, dai capelli di ebano, dagli occhi scintillanti,
dalla carnagione rosea, dal corpicino esile. Alla
bellezza univa una grazia affascinante.
120
Le sue vesti pulite e ben fatte delineavano con
grazia indicibile i profili del suo seno ricolmo; la sua
andatura era d'un'incantevole semplicità e sveltezza e
lontana d'ogni ritrosia ed affettatezza. Parea una di
quelle fantastiche visioni di odalische che i figli del
Corano sognano giacenti con molle abbandono al
rezzo d'un albero dei profanati giardini del loro
paradiso. Solo la poca modestia veniva a guastare
quella sue belle doti.
Sua nonna era allocata come castalda presso un
signore, e viveva in campagna assieme all'unica sua
nipote, su cui avea riposte le sue più belle speranze, e
che avendo già toccati i sedici anni, anelava vederla
presto bene accasata per tema di lasciarla sola al
mondo.
Ella s'accorse che il sagrestano, giovine sui
trent'anni ma di statura piccola e mingherlina, si era
invaghito di sua nipote, e non cessava un solo istante
di guardarla fisso, e in cuor suo ne gioì
immensamente, ché sapeva egli essere di condi­
zione un po' agiata.
Scorsi due mesi circa, mediante un vecchio co­
lono, suo lontano congiunto, s'ebbe dal sagre­
121
stano richiesta in isposa la nipote. È facile capi­
re quale si fu la risposta. Ma avea ella fatti i conti
senza l'oste.
La nipote, al primo sentirlo, dichiarò che a­
vrebbe le mille volte preferito la morte o anda­
re limosinando, piuttosto che consentire a simile
matrimonio.
Avea ella giurato fedeltà al figlio di un pove­
ro giornaliero lacero e scalzo, ma bello nel volto e
amante del lavoro. La nonna aveva alimentata
quella passione con mille discorsi sibillini, ma o­
ra, che si offriva un matrimonio migliore, preten­
deva l'avesse dimenticato subito. E quando si vide
spiattellato in faccia che il suo cuore avea
promesso a Menico, e ch'era disposta a rinuncia­
re a qualsiasi agiatezza, pur di sposare l'uomo su cui
avea riposto ogni suo affetto, la vecchia, tra
sorpresa e adirata, esclamò: ­Parli tu da senno o
scherzi? Come preferisci un pitocco a compare
Biagio, il quale possiede non so quante prese di
terra, l'impiego di sagrestano che gli rende quat­
trini a iosa, e per giunta guadagna qualcosa col
suo lavoro? ­Senti, tu credi per ora che il mon­
do sia pieno di sorrisi, e che sposando Menico
passerai la vita in una perenne gioia, ma così
non va la faccenda, tutte le fisime di amore svani­
scono quando il tiranno bisogno si affaccia alla tua
122
mente, e allora, tardi uno si pente di non avere
pensato a tempo alla dura realtà della vita. Gli
spasimi e le simpatie di cui, segnatamente noi
donne, siamo vaghe nella primavera degli anni, non
sono che scempiaggini, i veri calcoli si riducono a
trovar la maniera di campar bene la vita. Quando i
quattrini fanno difetto, l'more scappa via di casa e
gli sposi tra loro si accapigliano.
Beppina ascoltò impassibile questa tiritera, guar­
dò poi in faccia la nonna, e con una serietà che facea
troppo contrasto colla sua verde età, dichiarò che
volea a qualunque costo restare ferma nella sua
opinione.
La nonna allora montò sulle furie, e borbottando
tolse in mano la brocca, per attingere l'acqua alla
fonte vicina; ma, arrivata appena avanti l'uscio, si
voltò indietro esclamando: ­ Ti giuro che l'ora in cui
andrai a marito con quel lurido e pezzente che ci
hai in testa, non arriverai a vederla!
Arrivò la domenica, e la nonna sta volta andò
poco prima del consueto ad ascoltar messa.
Alla nipote spiacque tal fatto.
L'astuta vecchia si unì a compare Biagio, e con
123
lui cominciò a combinare un vero piano di battaglia
per riuscire a capo della faccenda, nell'istante istesso
in cui Beppina sorrideva amorevolmente a Menico
e gli narrava tutti i progetti fatti dalla nonna sul
conto suo.
Due giorni dopo era festa di Sant'Ambrogio. La
nonna si finse ammalata, e per quel dì non volle
uscire di casa.
­ Domenica, oltre la messa, a soddisfare il precetto
religioso di oggi, reciteremo in chiesa il rosario.
Beppina chinò il capo malinconica.
Verso il meriggio comparve sulla soglia il vec­
chio colono con un pezzo di carne in mano, ed un
fazzoletto nuovo, a vivaci colori, e disse alla
vecchia: ­Questa qua la mangerete oggi alla salute
di compare Biagio, e il fazzoletto lo metterà in capo
la Beppina.
Costei si fece rossa in viso, e non profferì sillaba,
ma appena il vecchio andò via, piegò il fazzoletto in
due, a foggia di triangolo, lo mise in testa, e si
guardò allo specchio non sensa una certa vanagloria.
Poi corse in cucina e preparò la carne a stufato.
Mangiarono allegramente, parlarono di tante
cose , e questa volta Beppina non fece il visaccio,
124
quando a lungo udì la nonna parlare del sagrestano e
delle trattative di matrimonio.
Venne la domenica successiva, e sta volta la
fanciulla vestiva con più eleganza del solito.
Menico però era pallido e con gli occhi stravolti.
Egli non ricevette il consueto sorriso da Beppina, la
quale invece si volse a far l'occhiolino al sagrestano.
Finita la messa la vecchia nonna colla nipote
cominciarono a recitare il rosario. Il cappuccino
svestì gli abiti sacri, montò a cavallo alla sua mula, e
via per Buccheri, mentre i fedeli si disperdevano qua
e là per ritornare alle proprie case. Solo Menico si
nascose dietro una folta siepe che sorgeva accanto
alla chiesa, aspettando che ne uscissero le donne. Ma
dopo un pezzo, vide compare Biagio che dall'alto
del campanile mostrava loro il bel panorama, che si
godeva da quel punto. Intese allora la sua vista
ottenebrarsi, il sangue salirgli alla testa, ed un
brivido di rabbia nervosa corrergli per le membra.
Siccome dovea quel dì andare per legna al
vicino bosco
125
del Frassino, portava addosso una piccola scu­ re
col manico infilato alla cintola. La brandì in alto
colla destra, salì sul campanile, si avventò pieno di
furore contro Biagio, emettendo un grido da
forsennato, e con due colpi lo freddò, Invano le
donne cercarono rattenerlo, ché il terzo colpo cadde
sulla vecchia, ed allora la Beppina si trasse indietro
spaventata. Menico corse a stringerla fra le braccia,
la guardò coll'ansia vertiginosa di una prepotente
passione, e le disse: ­Gl'infami che a me voleano
rapirti, a furia d'inganni, io mandai all'inferno, ora
sei mia!... mia!!... dimmi se mi ami?!...
Beppina non rispose, era d'un pallore livido, e tre­
mava come una fogliolina mossa dal vento. Volse lo
sguardo alla povera nonna, che si dibatteva fra gli
ultimi aneliti della morte, e svenne. Menico la
credette finita per sempre. La tolse di peso sulle
spalle, scese in fretta le scale, ed a lei abbracciato
andò a gettarsi in un profondo pozzo, scavato nel
centro del piccolo cortile attaccato alla chiesa.
In quell'istante il vento fischiava impetuoso, ed
un crocchio di diavoli danzavano giulivi una ridda
infernale; la chiesa non seppe resistere all'urto del­
126
l'aria agitata da quelle potenze sataniche, e pre­
cipitò dalle fondamenta.
I diavoli volevano portar via la campana intrisa
del sangue spruzzato, ma un angelo dallo sguardo
infocato li respinse, andò poi a deporla nel teatro del
cennato gorgo della Stretta, e lì starà ancora, chi sa
per quanto tempo, finché un santo andrà a pregare
nel luogo del tremendo disastro.
La chiesa allora risorgerà come per incanto, e la
campana suonerà sola e incessantemente a mor­
torio, aspettando che un nuovo frate cappuccino
torni a ribenedirla, ed a lavare con acqua benedetta
tutte le macchie di sangue omicida che vi si trovano e
che il tempo non è bastato ancora a cancellare.
127
128
VINCENZO OTTAVIANO GUARRELLA
MONOGRAFIA
DI
BUCCHERI
1^ Edizione Ottobre 2010
Nuova ed. Lug. 2014
129
La copertina originale dell'opera.
130
PREFAZIONE
Ricordo ancora come fosse ieri la presentazione dell'ultimo libro
di Arminio, frutto delle sue faticose ricerche storiche e ricordo
ancora quella sua “pacata agitazione” nella Biblioteca Comunale
che traspariva appena, lui grande maestro dal volto impassibile al
gioco del poker, quel giorno, forse per una delle rare volte in vita
sua, lasciava trasparire la grande emozione che provava e il suo
vago sorriso che ci rivolgeva sembrava dirci: ecco, vi consegno
una parte grande della vostra storia, fatene buon uso e
soprattutto ricordatela ai vostri figli e fate sì che i vostri figli la
ricordino ai loro discendenti.
Era emozionato.
Io lo so.
C'era una sorta di “feeling” fra noi, prima ancora che amico del
figlio io ero stato ed ero amico del padre, pur con la grande
differenza d'età, lui gigantesco mostro di cultura, io appena
appena in erba ma con una grandissima sete di “sapere”.
Mi lanciò appena uno sguardo, ma in quello sguardo mi disse
tutte queste cose.
Io capii.
Lo salutai calorosamente e lo lasciai ad intrattenere gli altri ospiti
che intanto arrivavano copiosi ad assistere a quella
“presentazione” ma soprattutto ad arraffarsi le copie di quel libro
che si sapeva sarebbe stato distribuito gratuitamente.
Ricordo ancora la catasta di copie messa in bella mostra e ricordo
anche, ahimè, la ressa dei tanti che ne volevano più copie, per sé,
per lo zio, per il fratello, per il cugino, per la sorella...
A distanza di oltre 20 anni d'allora mi chiedo seriamente:
Quanti hanno letto quel libro?
La risposta... ahimè è triste.
Pochissime persone!
E sapete qual è la cosa che aveva fatto scattare la molla e la
131
voglia di appropriarsi di quel libro?
Una sorta di “voglia di possesso” materiale, di qualcosa di fi­
sico come se il “possesso” intellettuale che ne deriva dalla
conoscenza (e dalla sola lettura) non valesse molto di più.
Una volta una persona, che tra l'altro e per altri versi stimo, ha
detto una frase che mi ha lasciato di stucco, a proposito di
qualcosa che comunque anche se solo alla lunga distanza, aveva a
che fare con la “conoscenza” e la cultura:
“che male c'è a volerci guadagnare qualcosa?”
Io non gli ho mai risposto a quella domanda, lasciandola cadere
nel vuoto, ma ho sempre coltivato la segreta speranza che quella
persona si ricreda da sé e che accetti un principio INDEROGABILE
che fa parte della mia natura personale e che lo ritengo un
principio FONDAMENTALE nei rapporti sociali e umani:
LA CULTURA DEVE ESSERE SEMPRE, COMUNQUE E
OVUNQUE DISPONIBILE A TUTTI A COSTO ZERO!!!
E se non lo fa la politica questo, lasciate almeno che siano i
privati, moderni Mecenati a farlo.
Per concludere il discorso precedente e chiarire ulteriormente il
mio pensiero a riguardo: REPUTO IMMORALE guadagnarci
qualcosa, sia pure un semplice caffè, dalla diffusione della
conoscenza e della cultura.
Ecco perché queste piccole fatiche che ci siamo accollate le
mettiamo GRATUITAMENTE a disposizione di tutti.
132
La versione elettronica in formato pdf che a noi non costa nulla è
a vostra disposizione gratuitamente, e sempre lo sarà, nei secoli e
nei millenni a venire, PER TUTTI.
Ma venendo incontro alle molteplici richieste che tanti ci hanno
rivolto, ovvero di poterne avere a disposizione una copia stampata
su carta, abbiamo provveduto a farla pubblicare da un editore in
USA a un costo irrisorio, e con una piccolissima percentuale che
abbiamo ceduto e voluto fosse dirottata verso un Ente benefico
che voi tutti conoscete:
EMERGENCY
via Gerolamo Vida 11
20127 Milano
tel +39 02 881881
fax + 39 02 86316336
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Un prezzo irrisorio che serva soltanto a ripagare i costi di
produzione e delle materie prime, perché:
La conoscenza è come la vita!
Non ha prezzo!
E sarebbe IMPAGABILE se ne avesse uno.
Un feeling, abbiamo detto, che non esiste soltanto fra persone
reali e viventi, ma anche fra l'autore di un libro e chi sa leggere fra
le sue righe. È come un filo sottile che lega colui che l'ha scritto
con colui che lo legge, anche a distanza di decenni o di secoli.
In questo senso, Vincenzo Guarrella Ottaviano non è morto.
Egli vive ancora, come Arminio, fra le righe dei suoi scritti.
133
Fortunato quel lettore che riesce a leggerne fra le righe la vera
anima, perché è quella che lo scrittore ha voluto realmente
consegnarci.
Ero alle prese con la trascrizione di questa Monografia, alle
pagine 15 e 16 e non ce l'ho fatta ad andare avanti.
Mi sono fermato perché voglio descrivere ORA la grandissima emozione che mi ha trasmesso il Guarrella parlando di quello che
ha provato mentre stava seduto in contemplazione «...all'ombra di
una grotta della Stretta, mentre in alto contempla lo spazio, ch'ebbro
di sole sfavilla nei silenziosi meriggi d'oro; quanta sublime
rassegnazione scende nell'animo, come una mistica carezza,
avvicinandosi ad una spelonca tutta avvolta in un'ombra leggera e
soave... ». È vero, le sue opere, dal contenuto e dal dichiarato intento di
essere rigorosamente descrittive (ed aride) opere
storico­geografiche in realtà contengono molto del suo Essere.
E noi non possiamo che dirgli grazie!
Grazie per averci trasmesso e tramandato queste cose.
Ai lettori moderni una sola raccomandazione:
Se abbiamo commesso qualche errore vi chiediamo di essere
indulgenti e di segnalarceli per eliminarli.
Vito Gambilonghi 134
V. GUARRELLA OTTAVIANO
§§§§§
Monografia + + +
Di
+ + + + BUCCHERI
§
Tratto dalla prima edizione
RAGUSA
TIPOGRAFIA DISTEFANO
--1908
Libera trascrizione e riedizione
anno MMX
(30 Ottobre 2010)
135
ALTRI LAVORI LETTERARI PUBBLICATI DAL GUARRELLA
§
­­1. Pensieri sull'istruzione ed educazione dei giovani. ­ Un vol.
Ragusa, Tip. Piccitto e Antoci.
­­2. Osservazioni storico­politiche sul giuoco ­ Palermo, nella rivista:
Il Solunto.
­­3. Povera Nerina! Novella ­ Venezia, Tip. Del Tempo.
­­4. Biografie d'Illustri contemporanei ­ Catania, nella rivista
Archimede e nel Corriere.
­­5. Sulla riforma dell'istruzione pubblica in Italia ­ Ragusa, Piccitto
e Antoci.
­­6. Il Progresso e il popolo ­ Un vol. Ragusa. Piccitto e Antoci.
­­7. Le confessioni di Evaristo ­ Romanzo, in appendice del Corriere
di Catania.
­­8. Eugenio ed Adelina, nell'Illustrazione del Treves di Milano.
­­9. Racconti e leggende ­ Un vol. Ragusa Inferiore. Castello e
Puglisi, Editori.
­­10. Fior di ciola ­ Romanzo, in appendice del Corriere di Catania.
­­11. Compendio di storia Ebraica e Greca – Torino, G. Tarizzo e
figlio, Editori.
­­12. Storia romana e medioevale, per gli alunni delle scuole
primarie ­ Torino, G. Tarizzo e figlio, Editori.
­­13. Il Conte di Carmagnola e la tragedia del Manzoni ­ Studio
storico critico. Un volume estratto dalla grande rivista: La
Rassegna Nazionale di Firenze.
­­14. Antologia per le prime classi ginnasiali, tecniche e
complemen­tari, 3.a edizione ­ Palermo, Nunzio Pisciotta Editore.
SOTTO I TORCHI
­­Sorrisi e lagrime della Patria ­­­ Milano, L. F. Pallestrini, Editore.
DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE
­­1. Vent'anni fra le rupi ! Novelle e panzane.
­­2. Gli usi civici nel demani comunali di Buccheri in base a
sentenze e documenti dei secoli XII, XVIII e dei primordi del XIX.
136
137
== == ==
PROPRIETÀ LETTERARIA
== == ==
138
All'Augusto Umberto I.
EROICO GUERRIERO
SUI CAMPI DI CUSTOZA
EROE DELLA CARITÀ
A POLISENE, AD ISCHIA, A BUSCA, A NAPOLI
PRONTO SEMPRE A SFIDARE IMPAVIDO
SACRIFICI E PERICOLI
PEL BENE DELLA PATRIA E DEL POPOLO
GENEROSO E SUBLIME NEL PERDONARE LE
OFFESE
DELLE COSTITUZIONALI GUERENTIGIE
FEDELISSIMO CUSTODE
TRATTO AL CIELO ANZI TEMPO
CINTO DELL'AUREOLA DEL MARTIRIO
QUEST'UMILE FIORELLINO
DEVOTAMENTE CONSACRO
COL VIVO AUGURIO
CHE IN UMBERTO II SI CONTINUINO
LE SPLENDIDE E MAI SMENTITE VIRTÙ
DELLA MILLENARIA CASA SABAUDA 139
Buccheri
Il viandante, che da Palazzolo Acreide si dirige a nord­
ovest, dopo aver percorsa la parte orientale dell'al­
tipiano di monte Lauro, arrivato nel punto ove la via
rotabile forma un crocicchio colle altre due che vanno
oppostamente per Giarratana e per Ferla, vede
apparir l'alto campanile di Sant'Antonio, e dopo alquanti
passi, in una valle circondata da colline e da poggi a
dolce pendio, che la rendono immagine d'un grande
anfiteatro, scorge ad un tratto Buccheri. Alla sua destra
s'inalza maestoso l'antico monte Tereo, che prese poi
nome di Castello, dal forte che fu eretto sul suo picco. Il
comune era prima nei suoi pressi, e si prolungava per il
dorsale, che dal lato est va fino al cocuzzolo della
Maddalena, ma dopo il tremuoto del 1693, che quasi
totalmente lo distrusse, fu riedificato più in basso.
L'alveo del torrente, che lo taglia quasi in due parti
uguali, alimentato dai molteplici borri e dai rigagni,
che si formano nel verno in quasi tutte le vie,
s'ingrossa sovente e diviene minaccioso, e fu provvida
cosa, se quasi un secolo addietro, per comando dei
cittadini, venne coperto tutto d'un bel ponte, su cui
è l'elegante via, che in ricordo delle infelici vittime
delle barbare orde africane fu battezzata Dogali.
140
Ampie e lastricate di lave basaltiche sono le principali
vie, ma caotiche, scoscese, e sparse di sassi irti e dentati
le secondarie, ed è gran ventura se chi s'arrischia a
transitarle nelle grigie notti invernali, non incespichi ad
ogni piè sospinto. Eppur chi sa quanti secoli sono state
ricalcate da orme umane, senza che alcuno abbia mai
posto intendimento a migliorarle.
Ha quattro piazze, di cui la più vasta è quella dei Ca­
nali. Notevole è anche la Piazzetta, che più di due
secoli or sono costituiva il centro dell'antico comune. Sul
suo lembo occidentale sorge un elegante palazzotto, che
all'esterno ha un color di pattona andata a male, e che fu
un tempo dimora del Signore di Buccheri. Torno torno,
tirando verso ponente, è un dedalo di viuzze, di ronchi
stretti, luridi, sassosi e fiancheggiati di umide e nere ca­
tapecchie, addossate l'una sull'altra, mezzo dirupate e di
desolata apparenza. Questo quartiere è uno schietto
avanzo del feudale comune, in cui lo squallore,
l'abbandono e la più deprimente miseria faceano strano
contrasto collo smodato lusso, l'esagerato fasto e
l'insipiente orgoglio del prepotente Don Rodrigo, che
dall'alto del suo severo balcone degnava a quando a
quando d'un bieco sguardo la lerciosa e pezzente
plebaglia ­­­ costretta da certi obbrobriosi privilegi di
casta, e più ancora dal nero spettro della fame, a
piegarsi umilmente ai suoi assoluti e liberticidi capricci
­­­ o ammiccava l'angelica forosetta, per costringerla
141
sovente fra il dolore e lo sdegno, a spegnere l'aureola
purissima del suo candore fra i suoi lubrichi artigli,
mentre la sua dolce metà ­­­ negli ampi saloni adorni di
splendidi arazzi, di mitologici affreschi, di eleganti
mobiglie, di sontuosi arredi ­­­vezzeggiava colla
Vergine cuccia delle grazie adorna,[1]
o s'esercitava a danzare il minuetto o a dondolarsi nel­
l'alcova col suo cicisbeo, o si sollazzava fra una
pleiade di amanti, dei quali, con delicata cura, chi le
carezzava i ricci dei capelli, e chi le profumava le
nivee spalle o il ricolmo seno.
E intanto in alto, per l'immenso aere, muto, superbo,
cupo, pari a severo e raccapricciante spettro
torreggiava il Castello, vindice custode degli aviti e
intangibili privilegi di quell'aristocratica famiglia.
Posizione astronomica. ­­­ La sua posizione
astronomica è fra il 37 di longitudine e 23 e 30 di
latitudine. Popolazione. ­­­ La sua popolazione era nel 1861
di 3999 abitanti; nel 1871 di 4223, nel 1881 di 4330; nel
1901 di 5221 con 1432 famiglie. Da precedenti sta­
tistiche risulta che nel 1500 contava 2338 abitanti, nel
1600 n. 2551; nel 1713 n. 2093; nel 1760 n. 2340; nel
1798 n. 2840; nel 1831 n. 3158; nel 1852 n. 3075.[2]
Viabilità. ­­­ Buccheri è il centro da cui si diramano
diverse vie rotabili per Ferla, per Palazzolo­Siracusa, per
Giarratana­Ragusa Ibla, per Lentini, per Vizzini. La più
142
vicina stazione ferroviaria è quella di Vizzini, da cui
ogni dì una carrozza postale passando da Buccheri va
per Ferla, mentre un'altra da Buccheri compie lo
stesso cammino per Palazzolo Acreide­Siracusa. Esso
dista: da Siracusa Km 60, da Noto 49, da Ferla 13, da
Ragusa 39, da Pa­ lazzolo Acreide 17, dalla stazione
ferroviaria di Vizzini 20. Emigrazione. ­­­ Proporzioni vastissime ha presa la
emigrazione, che fino a pochi anni or sono era quasi sco­
nosciuta, e il fiore della gioventù porta altrove il bene­
ficio delle più vive e feconde energie. Mossa da quella
eterna ammaliatrice ch'è la speranza, sfida impavida le
ire dell'Atlantico per dirigersi in America, da tutti con­
siderata come la panacea d'ogni male. Sotto alcuni aspet­
ti fu apportatrice di vantaggi molti, e pei cospicui ri­
sparmi quasi giornalmente pervenuti, e perché venne a
stabilire un certo equilibrio tra l'offerta e la ricompensa
della mano d'opera.
Qui, come in tutta Italia, troppo densa per chilometro
quadrato era la popolazione, la terra cominciava a mo­
strarsi insufficiente a produrre il necessario per
l'igienica e completa alimentazione dei figli suoi e il nero
spettro della teoria di Malthus[3] s'affacciava minaccioso
allo sguardo degli studiosi. L'allontanamento di miriadi
di giovani, nel periodo del maggiore sviluppo virile,
giovò cotanto a sminuire i matrimoni e le nascite
eccessive. L'emigrato, trovandosi poi in contatto di civiltà
diverse, ha l'agio di apprendere nuovi usi e costumi, più
143
razionali sistemi di produzione, migliori macchine
industriali ed agricole, e fa conoscere ed apprezzare
altrove i nostri prodotti naturali ed artistici, schiudendo
ad essi novelli mercati.
Quale la causa vera dell'emigrazione? Abbastanza
complesse e svariate ne sono le ragioni. Secondo il Prof.
A. Mosso chi emigra è generalmente un povero
intollerante del suo stato, è un proletario più nobile
degli altri proletari, perché più intraprendente e
vuol vivere meglio. La volontà sua è più forte, come
di chi deve effettuare le sue risoluzioni, dominare gli
eventi, lanciandosi nel vortice dell'ignoto. V'è chi
sostiene, che lasciano la patria, per abbandonarsi ai
volubili capricci della sorte, gli spostati e i pessimi
elementi, ed altri che siano gli avventurieri e gli
ambiziosi d'arricchire. Chi guarda con occhio imparziale,
trova ch'è principalmente il tiranno bisogno e il
sentimento del meglio, omai penetrato in tutti i cuori,
che spinge i poveri diseredati della fortuna, a cercare
lungi del paese natìo più adatti mezzi a soddisfare
gl'imperiosi bisogni della vita. Senza le tristi notizie
della recente crisi americana, non un solo a cui non
sarebbe mancato il mezzo di raggranellare la spesa del
viaggio, sarebbe qui rimasto. Questo doloroso esodo
comincia ora ad impensierire molto gl'industriali e
specialmente gli agricoltori, che, per assoluta deficienza
di braccia, son costretti a limitarsi alla coltura delle sole
terre profonde e lasciar le altre in abbandono.
144
Se sin dall'inizio i grossi possidenti, a vece di tuffarsi in
un insipiente indifferentismo, si fossero data amorevole
cura a rendere meno aspra la vita dei lavoratori, si
sarebbe certo se non impedita attenuata molto
l'emigrazione. Ma è doloroso il confessarlo, alcuni per
nauseante egoismo o pel timore da cui furon presi alla
vista delle agitazioni a cui si diede il proletariato per
uscir dalle sue strettezze economiche, a vece di
trovare un facile e sicuro mezzo a curare il male dalla
radice, salutarono con gioia, anzi usarono ogni melato
artifizio per favorire l'allontanamento dei più forti e
intelligenti operai, ritenuti gli antesignani di quei mo­
vimenti. Non pensarono, che i loro papaverici sogni sva­
niranno presto, perché i più torneranno un giorno più
evoluti, con più libere e indipendenti aspirazioni, e che
per altri s'avrà forse la sventura di vederli guasti
dall'orgia e dalla depravazione morale e intellettiva in
cui si gavazza in certi siti dei popolosi centri, così
divezzandoli dalla paziente fatica e dal culto di Cerere.
Geografia fisica e biologica
Territorio. Esso è tutto alpestre, e in parte allo stato
preistorico: solo qua e là esistono brevi pianure,
vallate a troguolo o piatte, piccoli rialti e altipiani, di
cui il più importante è quello di monte Lauro. Tutto il
territorio è di 5356 ettare di terra, e si estende nel più
curioso modo; a nord arriva poco lungi di
Francofonte, e ad ovest ­­­ a poche centinaia di metri
dall'abitato ­­­ si ha quello di Vizzini, il quale
145
comincia coll'ex feudo Terra di Bovo, che apparteneva
un tempo a quel di Buccheri. ( Veggasi la decisione del
vicere di Sicilia 19 luglio 1608 sul ricorso Vincenzo
Platamone di qui).
Idrografia. Buccheri ha tre ricche fontane pei suoi
bisogni interni: quella del Piano dei Canali, con quattro
copiosi getti d'acqua; quella di Bilinceli con due getti
d'acqua limpidissima e pura e quasi ghiaccia in està; e
quella del Bellimento.
Da monte Lauro sorgono i principali fiumi della pro­
vincia di Siracusa.
1. L'Irminio, Hirminius di Plinio, che passa per
Giarratana e l'antica Ibla Herea, oggi Ragusa
Inferiore, e si scarica presso Donnalucata;
2. L'Anapo, che trae sua origine dalla valle di Gu­
fari, e, dopo bagnati i territori di Buscemi, Ferla e Sor­
tino si versa nel golfo di Siracusa;
3. Il Tereo, cotanto celebrato da Tucidide e da Plinio,
detto anche Passomarino ( 1 ), il quale scorre nella
valle ad ovest del Castello, e il S. Leonardo che ha il suo
principio a Goso, sito a nord­est di questo stesso monte:
entrambi, dopo un certo corso, si uniscono, e vanno a
morire presso Lentini;
(1) Si crede avesse preso tal nome per essere stato in altri tempi
navigabile. Allorché i Fenici vollero avanzarsi in queste contrade colla loro
flotta, passarono pei campi lentinesi, navigando nel Teria; ma temendo i
Sicani la loro invasione, ne nacque una forte battaglia, confermata da Diodoro e
dalle monete trova­ te, che ne esaltano i protagonisti (Alessi, Storia critica di
Sicilia, vol. 1, part. 2.) Secondo il Bocharto la parola Terias è d'origine
cartaginese, e significa: fiume di traffico e del commercio.
146
4. L'Ieria che nasce a Roccalta, all'est dell'altipiano
di monte Lauro, e si avanza nei campi di Lentini;
5. Un ramo del Simeto (Symaethus);
6. Dal lato di Vizzini nasce anche un ramo del Diril­
lo, che si credette l'antico Agate, errore che fu cor­
retto d'alcuni studiosi, specie dal Holm.
Geologia. Monte Lauro è un vulcano estinto, come lo
mostrano ad evidenza le sue lave (1). Nella notte dei
secoli, mentre ancora attorno all'Etna regnava l'abban­
dono e il silenzio, e nulla facea presagire l'emersione di
questo gigante dell'isola, da noi invece, come scriveva
Seneca, l'aere era sovente ingombro a grandi distanze
(involutus est dies pulvere populosque subita nox ter­
ruit), e Vulcano, questo irrequieto dio del fuoco e della
metallurgia, squarciando le rocce calcari dell'epoca ter­
ziaria, facea sentire potenti i suoi boati, e pria ancora
della comparsa dell'uomo sulla scorza terrestre, lanciava
in aria quelle masse basaltiche e cristalline, che ora bril­
lano al fulgido raggio del sole. La continuità,
l'ineguaglianza e la costituzione di queste montagne,
manifestano le convulsioni a cui andarono soggetti, e la
loro ininterrotta comunicazione coi centri ignivomi,
mentre i loro strati, i numerosi dischi e le non rare e
abbondanti colate basaltiche, sono indelebili pagine
lasciate dai secoli per la ricostituzione della teologia
naturale.
­­­­
(1) Gemmellaro. I vulcani estinti in Val di Noto. 1833
147
Questi luoghi hanno una speciale importanza pel geo­
logo, presentando eccezionali e grandi anomalie.
Scordia, Palagonia, Militello, Francofonte sorgono su
breccia conchigliare pliocenica e su basalti, ma « a
Buccheri, scrive il dotto Baldacci nella Descrizione
geologica dell'iso­ la di Sicilia (Vol 1, pag. 289) la
formazione basaltica acquista una grandissima
estensione, e in quest'area il terreno è interamente
basaltico. Da questa vasta superficie basaltica, si
distacca a sud un contrafforte, che forma la cima
dell'elevato monte Lauro (985 m), e si spinge, ma
molto più stretto, fino al monte Canalotto ( 762 m.) a
nord di Giarratana. Oltre il monte Lauro, ch'è il punto
più culminante di questa regione basaltica, vi sono
numerose colline abbastanza elevate. Dal monte Lauro si
stacca uno sperone basaltico, che si dirige prima verso
est, poi verso nord – est, passa presso il paese di Buc­
cheri, e forma ad est di questo paese una serie di alti
poggi, fra i quali il monte Contessa (920 m). Questo
contrafforte basaltico continua a nord verso il monte S.
Venera (869 m.) e si riunisce poi alla massa principale.
Alle falde orientali di monte Lauro, ma più ancora alle
sue falde occidentali, sono largamente sviluppati i tufi
basaltici. Tra la massa principale e il contrafforte ora
citate, sta racchiusa una vasta isola dal calcare caratte­
ristico a fine grana del Siracusano, riferibile all'elvezia­
no[4] ». Ed altrove aggiunge: « I terreni dei quali fa
parte il monte Lauro risalgono all'epoca secondaria ed al
148
terreno cretaceo superiore, con ossatura basaltica;
constano di calcare e vi si rinvengono sferoliti e
spengiarie. A differenza degli Iblei, che sorsero più
quietamente, i monti più pressi al Lauro, appoggiandosi
al centro vulcanico di Buccheri, subirono maggiori
flagelli e sconvolgimenti, e dalle loro viscere si
trovarono gli strati primitivi squar­ ciati e in frantumi,
gettati come massi avventizi fra i prodotti terziari. Si
vede quindi dai fianchi lacerati lo schisto micaceo
alternarsi all'argilla: un filone di silice riposare su un
serpeggiamento gassoso: un geoda nuotare in un banco
cretaceo: sotto le sabbie recenti presentarsi le argille
plioceniche, che spesso s'interrompono per dar posto ad
una colata di basalto ».
Secondo A. F. Ferrara (Vulcanologia geologica, Cata­
nia 1845) «[5]monte Lauro al basso è cretoso, sino a
metà o anche più in su ha grandi banchi di calcare, il
resto, fino alla cima è coperto di ammassi vulcanici
solidi, di scorie e di arene ». Nell'ex feudo Alberi, a
nordest di Buccheri, esistono basalti cristallini per lo
più sferoidali, d'una compattezza e durezza immensa,
il che può derivare dall'epoca antichissima o dalla
speciale natura della materia eruttata dall'estinto
vulcano.
Giacimenti minerali. Il dotto Gemmellaro, nell'opera
citata, notò « esistere in alcuni punti poco discosti di
Buccheri, calcare a grana grosse, carico di conchiglie e
di ossa di pesci, mentre in altri siti vicini n'è privo ».
149
A sud, ad est ed a nord­est sono importanti miniere di
tufo basaltico ed arenario, mentre ad ovest e nord­ovest
se ne hanno di abbondante tufo calcare. In contrada
Mastriedo ve n'è una di pomice, ottima per costruire
le volte delle stanze; nel vallone a ponente si ha un
calcare compatto, ch'è una specie di marmo giallognolo,
ed a Costa­pero un altro a grana finissime, ottimo per
lastre delle stanze, ma superiore a tutti è quello
della Stretta, per la sua candidezza alabastrina e la sua
compattezza, con cui possono farsi lavori d'intaglio
esterni, da sfidare per secoli i forti rigori del gelo.
È la Stretta una valle che principia a Goso, e che
per la sua speciale forma piglia tal nome. Per più di due
chi­ lometri, e propriamente fino al punto denominato
Bausitto, presenta in alto la forma d'una gora
irrigabile, e in certi punti è così angusta che in più
luoghi, specie nell'inverno, i rovi coprono gli opposti
ciglioni e la nascondono all'occhio umano, mentre in
fondo i flutti col loro sciabordìo, spumeggiano e
producono qui un leggiero e dolce murmure, là un forte
ululìo. Dal Bausitto in giù i due defluvi si allargano, ma
dopo 200 m. circa tornan di nuovo per poco a
restringersi, come per darsi un ultimo abbraccio. Son
essi formati da enormi ammassi di calcare siliceo, e
scendono a grandi bassure quasi sempre verticalmente.
Sembrano tagliati da un poderoso colpo di scure del Net­
tuno scandinavo Thorr. L'acqua, col suo lento e continuo
lavorio, ha scavate gran numero di meravigliose ed ele­
150
ganti grotte, vaghe cavità, tetre spelonche, dalle cui
immani e robuste volte pendono miriadi di
stalattiti, e nel fondo ha aperti profondi laghetti, che a
volte ne impediscono il passaggio.
Il cuore s'agita e freme, e prova un turbinio di mol­
teplici e svariate sensazioni, alla vista di quei luoghi
or incantevoli e soavi, or foschi ed orridi, ma sublimi
sempre. Quanta alata poesia s'affolla alla mente, di chi
siede all'ombra d'una di quelle grotte, mentre in alto
contempla lo spazio, ch'ebbro di sole sfavlla nei
silenziosi meriggi d'oro; quanta sublime rassegnazione
scende all'animo, come una mistica carezza,
avvicinandosi ad una spelonca tutta avvolta in un'ombra
leggera e soave; quante lugubri visioni cozzano invece
nel pensiero, di chi s'inoltra nella parte più buia di quella
specie di mondo sotterraneo, che ad arcane lettere
manifesta, come tutto lentamente e inesorabilmente
travolge il tempo nell'inesorabile voragine dell'oblio.
Sottosuolo. Il sottosuolo di Buccheri, secondo
l'illustre prof. Riccò, non presenta grandi cavità, lo
stesso fenomeno notò per monte Lauro. Tal fatto può
attribuirsi all'abbassamento dei soprastanti basalti, a
causa di successivi movimenti nelle viscere sue, o
dell'inumidirsi della materia cretacea, che ne forma la
base.
Flora. Molto diffusa è la coltura del sughero, del
castagno, del nocciolo, del pero, del noce, del fico, del
fico d'India. L'ex feudo Rizzolo e alcuni punti del
151
Frassino son popolati di aranci e di limoni. Abbondano
anche il rovere, la farnia, il pino da pinocchi, il melo,
il nespolo, il mandorlo, l'albicocco, il ceraso, l'ilice, la
canna; né mancano le piante aromatiche e medicinali,
come: l'alloro, il rosmarino, il timo, la mammola, lo
zafferano e molte altre. Estesissima è la seminagione
del frumento, dell'orzo, delle fave, dei ceci, della
lenticchia, del pisello, del cicerchio di cui si fa
scarso commercio. Ma il principale prodotto vegetale
è l'olio, ch'è il migliore di Sicilia, e il solo che possa
gareggiare con quello di Lucca. Quasi ogni anno ne
fanno larghi acquisti i francesi e i genovesi.
Fauna. Allevansi in copia: vacche, pecore, capre,
asini, muli e gallinacei. Clima. Il clima nel'algida bruma è rigidissimo,
sovente
Grandine grossa e acqua tinta e neve
per l'aer tenebroso si riversa,[6]
e il paese presenta qualcosa di tetro. Allora si scorge
appena a una spanna l'accidiosa luce dei fanali a
petrolio, con cui son illuminate le pubbliche vie, mentre
sul fondo si vedono com'ombre nere le melanconiche
case. Nell'està è però una mite ed eterna primavera, l'aria
purissima e saluberrima è imbalsamata di freschissimi
zefiri, e di rado c'è afa calorifera.
152
Storia
La storia di Buccheri è avvolta nell'oscurità dei tempi,
giacché nessuno pensò mai nel passato con intelletto di
amore a spargervi un po' di luce.
Scrive il Fazello essere un castello chiamato così dai
Saraceni da Buker loro re, successo a Fatlo nel
dominio di Sicilia, ma non dice, se il comune sia
stato o no da loro fabbricato, e nemmeno da quali
documenti derivò la sua convinzione. Gli altri storici
che se ne sono occupati, han ripetuta, quasi tutti, la
stessa leggenda (1), mentre un accurato esame mostra
invece antichissima essere la sua origine.
Che i monti Erei (2) descritti da Diodoro siano quelli
di cui monte Lauro è il nocciolo principale, e da cui si
diramano diverse catene per tutta la provincia di
Siracusa, la migliore critica storica lo ha chiaramente e
concordemente dimostrato (3).
­­­
(1) Volersi inferire l'origine d'un comune dalla semplice somiglianza del suo
nome a quello d'un capitano, senza tener conto d'altre ciscostanze è un non
senso. Trovansi spesso luoghi aventi la stessa denominazione, pur essendo
diversa la loro origine. E nel caso in ispecie troviamo: un'antica città egizia,
chiamata Bocalir o Bicheri; Buccari, un comune di Croazia; Buccheria, paese
del mar Caspio; Bructeri, antichi popoli presso il Reno germanico; Boccori,
sapiente legislatore egiziano vissuto 912 anni pria di Cristo; bucchero
chiamavasi anche un vaso di balo odoroso, tanto comune nell'India e nel
Portogallo.
(2) Erei hanno opinato alcuni significare sacri ad Era, divinità greca; in basco,
secondo Cantù, vuol dire città; altri scrittori di­cono meglio indicare: luogo
difeso, città fortificata.
(3) All'uopo si consulti anche la memoria presentata all'Accademia dei Lincei
di Roma dal Prof. P. Orsi, Nuove esplorazioni nella necropoli d'Ibla Heraea
153
I suoi fianchi e i circostanti luoghi mutansi con rapida
alternativa in dolci declivi, chine scoscese, onduleggianti
piani, scabrose creste, ombrose gole, leggere sinuosità; a
volte van giù a picco, e destano la vertigine degli abissi.
Nel verno vi imperversano di continuo il nevischio e
l'aquilone, ma in està pel suo ciel di zaffiro, per la
dolcezza del suo clima, specie chi vi sale nelle ore del
morente dì, crede trovarsi in uno di quei paradisiaci
luoghi, sognati spesso dalle belle figlie del corano,
mentre sotto le moschee volgono il pensiero ad Allah. I
suoi d'intorni son tutti cosparsi d'amenissimi siti, di
fresca acqua abbondanti, e dove prosperano in modo
meraviglioso virenti frassini, alberi di squisite frutta
doviziosi, e floride viti. (1) Al suo lato nord è poi
l'amenissima valle di Passomarino, che fiancheggia
Buccheri, tutta popolata d'ombrosi boschetti di noccioli,
di ciliegi, di noci, di meli, di castagni, di quercie, ed
inaffiata di purissimi ruscelli, immezzo a cui par di
sentire ancora i Fauni e le danzanti Naiadi.
Quasi tutti i comuni portano il nome istesso, che si
dava al luogo o alla città su cui sorsero, con quelle
modificazioni foniche conseguenza dei popoli che
vennero a sovrapporsi gli uni agli altri. E noi troviamo,
la sommità di questo gruppo montuoso essersi chiama­
to sempre Lauro, ed essere stato o essersi creduto
­­­
(1) A giudizio d'alcuni enologi, tra cui il compianto Dr. C. Perrotta, le sue terre
sono fra le più adatte per vigneti.
154
l'ordinaria dimora di Dafni(2a), l'autore del verso
buccolico e perciò detto anche Buccolo; Ierabou (1),
ora Terra di Bovo il leggero suo pendìo a nord­ovest;
Tereo (2) il monte su cui anche adesso s'adagia parte
del comune; Iereo, il fiume di Roccalta.
Allorché la parte orientale della Trinacria passò al
dominio dei Fenici, amanti com'erano essi del traffico e
del commercio, tennero per se le città marittime, e i
Fenici, ch'eran dediti alla pastorizia, fissarono lor di­
mora nell'Ibla Herea, Ceretano, Bini, Eubea, Militello,
– – –
(2a) Dafne in greco significa Lauro. Teocrito parla di più Dafni esistiti in luoghi
diversi, e che poi idealizzandolo avesse fatto ogni popolo del suo un essere
mitologico, fu proprio dell'indole degli antichi. « Molti Ercoli furono di che le
mitologie fecero un Ercole, molti Giovi, di che un Giove; molti Bacchi di che un
Bacco»[7] (Balbo – Meditazioni storiche, pag. 424).
(1) Ierabou significa sacro bue.
(2) Tereo fu re di Tracia, e i Sicani, che furono tra i primi abitatori della
Triquetrua, furono appunto traco pelasgi. Né vale l'asserirsi d'alcuni non esser
mai esistito quel re, perché anche degli esseri fantastici si servivano gli antichi
a battezzare un luogo. È poi noto che quando gli archeologi non riescono a
trovare una moneta o un'iscrizione – forse perché andate disperse o
distrutte in tanti secoli di barbarie – la quale accenni a un re o a un
guerriero, se ne escono pel rotto della cuffia esclamando, esser semplice parto
d'immaginativa degli antichi. G. B. Perès pubblicò per canzonatura un lavoro –
tradotto in italiano dal Foulques, con prefazione del Direttore del Giornale
degli Eruditi ­­­ « Napoleone non è mai esistito » per provare che in avvenire
si dirà certo quel forte guerriero essere un mito, e che sotto quel nome
intendevasi la personificazione del sole; e Alberto Rondani, in un brillante
lavoro colmo d'umorismo scrive, che lo stesso avverrà pel Grande Vittorio e
per Garibaldi, su cui gli antiquari chi sa quanto si sbizzarriranno, eziandio sulla
etimologia del nome. Il Massa, nella Sicilia in prospettiva dice: « Mons Thereus
dove nasce una sorgiva del fiume S. Leonardo » e che questo fiume sia appunto
quello che muore non lungi di Lentini, nessuno più lo mette in dubbio.
155
Leontini. Essendo Buccheri il centro d'un gruppo
d'antichissimi comuni, non è supponibile sia rimasto
inabitato, considrando sopra tutti ch'era il luogo, che
meglio rispondeva agli usi e costumi degli antichi
popoli, e segnatamente dei Siculi, di annidarsi nelle
alture, e di tener come sacri i boschi, a cui prestavano
reverente culto. E su monte Lauro e nei suoi pressi era
una folta e maestosa pineta detta Binit, la quale
conservò questo nome latino, come scrive l'Amari
(Storia dei Musulmani in Sicilia), anche attraverso la
dominazione dell'islamismo. Chi osserva i numerosi
sepolcri siculi del XII e IX secolo avanti Cristo e V e VI
secolo dopo Cristo esistenti nella valle di Gufari (1), e
quelli che sono a Costa Grotte, a Sant'Andrea, alla
Stretta (2), a Scarà, e le non poche monete greche che
nel castello e nelle prossime campagne si trovano,
meglio si convince sulla vetustà di Buccheri e sulla sua
origine sicula, (3) e può con sicurezza asserire derivare il
suo nome da bos Heraei (4).
– – –
(1) Sebbene per la curiosa divisione fatta dei territori del dominio feudale
dipenda da Buscemi, è però di qui molto più vicina.
(2) Sono più in alto di quelle scavate dall'acqua.
(3) Alquanti anni or sono, a nord del Castello, trovammo un bel masso –
ora distrutto da qualche ignorante capraio, o da uno di quegli operai, che lì
vanno spesso a intagliar pietre – su cui erano scolpite alcune lettere greche,
in parte logore o distrutte, che ci affrettammo a copiare: ι … ρος [i … ros ;
Iota … Ro ­ Omicron – Sigma] e più giù ρ … ων [r ... on ; Ro … Omega –
Ni]
(4) Presso i primitivi popoli tutto fu ideografico e simbolico, si volle cioè
ritrarre le idee e le figure dei fatti, e ciò s'ebbe eziandio per Buccheri, che
pare significhi Bue degli Erei. In latino fu detto Buccherium; Maurolico,
156
L'Edrisi (1) scriveva di questo comune: È paese im­
portante e soggiorno popoloso, ricco di produzioni del
suolo e abbondante di frutta. Il suo territorio tocca
dal lato occidentale la Binit, e dagli altri lati confina
col territorio di Lentini e di Buscemi. Egli che ne
avrebbe avuto interesse, non fa cenno alcuno
sull'origine e sul nome dato a Buccheri. Amato Amati,
nel suo Gran dizionario corografico d'Italia, dopo
avere ripetuto la solita leggenda del re saraceno,
aggiunge: che ugual nome portasse un'antica città a
cui si attribuiscono alcune rovine vicine. Ma il fatto
più importante si è che nell'istoria dei tre martiri
cristiani S. Alfio, Filadelfio e Cirino, scritta nel terzo
secolo dell'era volgare in idioma greco, è fatto cenno
di Buccherea, il che prova la sua preesistenza
all'invasione musulmana. (2) Il Massa nel vol. 2 della Sicilia in prospettiva, par­
lando delle terre non più esistenti in Sicilia, dice esser
Bucchero, casale nel 1186 dal re Guglielmo
assegna­ to alla chiesa di Monreale, d'aver avuto tal
nome da Buker re dei Saraceni, e di rimanere di esso
– – –
Carafa, Pirri lo chiamarono Bucchereum e papa Alessandro III
Buccherea. Il Rocco Pirri, ci piace ricordare fra parentesi, a pag. 681 della
Sicilia Sacra scrive di Buccheri: In colle parum edito Kaereus a famiglia
Morram odie, sub Hieraeymo ecc.
(1) Scrittore saraceno, nato a Ceuta in Africa nel 1099, morto verso il 1175.
Dettò l'opera storico­geografica Nushat al mush­tak tradotta in francese dal
Jaubert.
(2) P. Carrera Mem. Di Catania, Vol. 1. lib. 2 cap. 2.
157
una semplice osteria detta Bucharra (1). Può darsi
dunque aver confuso il Fazello questo comune col casale
monrealese. La storia di Buccheri seguì per lunghi secoli
le vicende comuni a tutta l'isola, dopo il
dì segnato
Che da le torri sicule tonaro
Come arcangeli i vespri,[8]
la Sicilia, a vece di costituirsi a governo proprio ed in­
dipendente, si diede nelle mani di Pietro d'Aragona,
senza pensare che un regime straniero, foss'anche il
più giusto e savio, sarà sempre funesto ai popoli. Gli
angioini tentarono più volte e inutilmente
riconquistare la bella Trinacria. Morto intanto Carlo I
e Pietro, lo spergiuro Carlo II, detto lo Zoppo, coll'aiuto
del papa ed altri principi, costrinse Giacomo, figliuolo di
Pietro e re d'Aragona, a rinunziare ai suoi dominii di
Sicilia, e ad aiutarlo eziandio a farne l'acquisto. Ma i
siciliani, sdegnando ricadere sotto l'aborrita tirannide
francese, con pompa solenne proclamarono re
Federico, terzo genito di Pietro, e si apparecchiarono alla
difesa. Gli alleati, dopo essersi impossessati con poca
fatica di Patti, Milazzo ed altre terre, assediarono
Siracusa. In quel tempo Buscemi, Palazzolo, Sortino,
Ferla e Buccheri, per timore della guerra, s'arresero al
– – –
(1) Il P. Cascini nella 1.a digressione (cap. 3.) della vita di S. Rosalia, citata
dal Massa, dice che Buccheri era nello stesso sito dov'ora è il tempio di
Monreale o accanto ad esso, come si ha dal privilegio del re Guglielmo iuxta
ipsum monasterium.
158
re Giacomo. Pochi giorni dopo Buccheri, con leale
ardimento, ritornò sotto l'antica fede, e allora Giacomo
gl'inviò ad assediarlo un buon nerbo di soldati co­
mandati dal conte d'Urgel. E più volte s'avanzò vigo­
rosamente all'assalto con alla testa i feritori, ma
quei di dentro vegliavano dì e notte sulle mura, e con
travi, sassi e catapulte resero vani i suoi belligeri sforzi, e
lo costrinsero a levare il campo. Dubitando però i
buccheresi d'un nuovo e più forte assalto, abbandonato il
Castello, si rifugiarono altrove. Ciò saputo Federigo,
temendo che i suoi nemici tornassero per
impadronirsene, lo fece munire di esperti difensori.
Dopo varie vicende, quasi sempre avverse, Giacomo ri­
tirossi a Napoli. Essendo qui stato tacciato di dappocag­
gine, n'ebbe le bizze, e apparecchiata una nuova flotta,
tornò in Sicilia. Presso il capo Orlando diede una terri­
bile sconfitta al fratello, ma avendo perduto il fiore dei
suoi ufficiali, fece proposito di non più servire di cieco
strumento alle ambiziose mire angioine, e ritirossi nei
suoi stati in Catalogna. Allora lo Zoppo mandò in Sicilia
Roberto duca di Calabria, il quale s'impadronì di varie
castella. Ruggero di Lauria assediò Buccheri e Vizzini; si
difese questa cittadina eroicamente, ma lusingata poi da
Giovanni Collaro, capitano vizzinese al soldo dei
francesi, si arrese, e il suo esempio fu seguito da
Buccheri.
Dopo la morte di Carlo II e del suo successore
Roberto, il regno di Napoli passò alla nipote Giovanna, la
159
quale per aver pace dai suoi nemici, rinunciò ai
suoi pretesi diritti sulla Sicilia. Più non avendo questa
da temere esterne invasioni, fu dilaniata da intestine
fazioni, di cui le più funeste furon quelle dei Palici e dei
Charamonti. Costoro riuscirono ad impossessarsi di varie
città, tra cui Vizzini, che dopo un certo tempo, stanca
della loro tirannide, si sollevò e chiese aiuto al re
Ludovico, figlio di Pietro II d'Aragona, che
campeggiava Lentini. Egli le inviò in soccorso Orlando
d'Aragona, Giovanni Landolina e il Signore di Buccheri
con grossa gente, ma essendo arrivati quando già i
Chiaramonti avean ricevuti forti rinforzi, dovettero
ritirarsi.
Venuto a morte Ludovico, nel 1355 fu gridato re suo
fratello Federico III. Non cessarono per questo di
ardere le partigiane discordie. Nel 1357 e per lo scarso
raccolto e perché gran parte dei seminati furono distrutti
dai soldati, s'ebbe una forte carestia, la quale costrinse
Catania, Siracusa, Noto, Sortino, Buccheri, Ferla,
Mineo, Agira, Castrogiovanni, Assaro, Adernò, Paternò,
Taormina, Nicosia, Gagliano, Calatabiano, Ragusa,
Buscemi, Palazzolo, Vizzini, Caltagirone, Piazza da
parte dei Chiaramonti a stabilire una tregua, la quale
durò dal novembre 1357 al marzo 1358. Nell'aprile del
1358 Artalo Alagona, che non avea sottoscritta la tregua,
assieme a molti catanesi, ad Orlando d'Aragona
governatore di Siracusa, a Giovanni Landolina, ch'era
a capo di Noto, e al Signore di Buccheri – ch'era
160
maresciallo del re e che accorse con buon numero sei
suoi concittadini ­ misero insieme un esercito di 1000
cavalli e numerosi pedoni e assediarono Lentini, ma pel
valore di Manfredi di Chiaramonte furono costretti a
ritirarsi dall'impresa. Tosto Manfredi per vendicarsi di
Buccheri, che si manteneva fedele a re Federico,
l'assediò, ma riusciti vani i suoi sforzi per espugnarlo,
si volse a devastarne le campagne.
Artalo non abbandonò il pensiero di conquistare Len­
tini, ch'era il più forte baluardo dei Chiaramonti.
Assieme al Signore di Buccheri, a Bernardo Spadaro e
ad altri baroni, che parteggiavano per Federico, l'assediò,
e la notte del 30 dicembre 1359, per l'audacia d'un
manipolo di soldati e la viltà e il tradimento d'alcuni
cittadini, riuscì ad impossessarsene. Così cadde la
potenza di Lentini e con lui quella dei Chiaramonti.
Allorché il prode Ruggero d'Altavilla scacciò per
sempre la Mezzaluna dalla Sicilia, Roberto Paternò,
s'ebbe il dominio di Buccheri, che da suo figlio
Costantino fu eretto a Contea. E in una lapide, che nel
1168 pose la moglie sul suo sepolcro, si legge:
Costantino de Paternione militi, viro armis egregio
Buccheri et Partanae comiti, Rob. filio, Mathildes
uxor mestissima posuit die 8 aprile 1168.
Alaimo di Lentini, che tanta parte prese nel Vespro
siciliano, in ricompensa delle sue prodezze, fu eletto
conte di Buccheri, ma perdette in seguito tal privilegio
come reo d'alto tradimento.
161
Riccardo Montalto, prode e valoroso capitano,
disgustato del mal governo di Carlo II d'Angiò,
abbandonò il reame di Napoli e recossi in Sicilia, ove si
pose agli stipendi degli Aragonesi, dai quali, in premio
dei suoi segnalati servizi, fu nominato Signore di
Buccheri. Alla sua morte il figlio Gerardo fu nel 1313
confermato da Federico II nel dominio di Buccheri. Da
Gerardo venne alla luce Giovannuzzo, cavaliere di gran
valore e di grande autorità; egli soccorse Iaci ed altre
terre vicine, che erano state all'improvviso assalite da
un'armata francese, e in una lettera di Federico III, il
Signore di Buccheri, è ricordato come uno dei più
grandi personaggi del regno (1). Suo figlio Giovanni fu
privato per un certo tempo dei suoi possedimenti dalla
regina Bianca, ma ritornato di lì a poco nelle di costei
grazie, gli furono restituiti. A lui successero Troisio e fra
Ruggero, cavaliere ospitaliero, gran commendatore e il
primo gran croce che avesse avuto la Sicilia.
Nel 1478 l'investitura passò alla potente famiglia Ca­
taldo, la quale, come scrive il Mugnos, ebbe molti ca­
valieri i quali fecero congiungimenti matrimoniali
con le primarie famiglie nobili del regno. Ma nel
secolo XVI Giovanni Morra, illustre personaggio e
signore di diverse baronie del napolitano, passato in
Sicilia assieme a Marc'Antonio Colonna (1) sposò
Isabella unica figlia ed erede del bar. Vincenzo Girolamo,
– – – (1) Mugnos – Teatro genealogico, Vol. II.
(2) Uno di questi Colonna, Sac. Dr. Prospero dal 1641 al 1647 fu parroco di Buccheri.
162
il 20 marzo 1627, ottenne da Filippo IV il titolo di
principe; così Buccheri, ch'era prima rifulso come
contado, fu eretto a principato, e al suo
rappresentante al Parlamento siciliano, spettò il 27°
posto fra i principi.
Nel 1693 il comune risentì grandemente le tristissime
conseguenze dei tremuoti, che desolarono gran parte
della Sicilia, ma dai registri della parrocchia non risulta
il numero dei morti.
Sin dal 1820 prese parte ai moti patriottici per con­
seguire la costituzione, e la casa del dotto grecista Giu­
seppe Ferla divenne il convegno di tutti i liberali.
Nel 1837, allorché infierivano le persecuzioni contro i
patrioti, le famiglie Aldaresi e Pisano molti ne
accolsero nel loro seno per sottrarli ai furori della
tirannide, tra cui il prof. S. Chindemi e il fu Marchese
San Giuliano padre dell'attuale ambasciatore a Londra.
Nel 1848 fu tra i primi comuni ad inalzare il
vessillo della riscossa, ma sventuratamente venne in
quell'epoca turbato da gravi intestine discordie. Anche
nel 1860 fece lo stesso, ed essendosi il generale Nicolò
Fabrizi qui recato, v'ebbe splendide accoglienze in casa
del notar G. Zappulla{1}, e fu seguito da baldi giovani
lieti d'indossar la camicia rossa,tra cui Cascio Giuseppe e
Cataldo Salvatore.
Con diploma del re Ruggero, ratificato dai papi
Urbano II e Alessandro III fu nel 1093 aggregato alla
diocesi di Siracusa.
163
Sotto i Saraceni (1) appartenne al val di Noto, sotto
gli Svevi a quella meridionale, e ritornò all'antica valle
sotto gli Aragonesi, finché colla classificazione in sette
province, fatta nel 1817, fu sottoposta a quella di
Siracusa.
Archeologia – Opere artistiche – Edifizi notevoli, ­­­
Il Tereo ha forma di un cono a larga base, e s'eleva
815 m. sul livello del mare. I suoi fianchi sono ripidi e
scoscesi, sparsi qua e là di balze e dirupi, e chiazzati di
gialliccio, di rosso e di bianco. Più volte m'ero
inerpicato ad osservare il Castello, che sorge sulla sua
vetta, ma volli tornarvi nel giugno ultimo in compagnia
di due amici.
Era l'ora in cui il sole, rivestendo di porpora le
balze d'oriente, pare canti l'inno delle mirifiche bellezze
eterne della natura, e in cui la scintilla del pensiero, rin­
vigorita dal notturno riposo, è più atta ad immergersi
nelle contemplazioni dell'infinito. S'udia nell'aria l'alito
rigeneratore della giovine està; un leggero zefiro, in­
volando le fragranze d'alcuni aulenti fiori, che alteri ger­
minavano nei sottostanti prati, le traeva ad imbalsamare
quelle serene alture. A un punto ci fermammo ad osser­
vare un pezzo di tufo sabbioso rossastro, poi si riprese
l'andare con certo sapore di festività. – – – (1) I Saraceni divisero la Sicilia in tre valli: di Demone, di Maz­zara e di
Noto; gli Svevi in due: settentrionale e meridionale; gli Aragonesi in quattro.
164
Pervenimmo sul culmine un po' sfiaccolati e madidi di
sudore. Il cielo d'opale lasciava nitidamente scorgere i
più lontani luoghi, e col volto radiante d'insolita gioia ci
demmo a contemplare l'immenso panorama, che
s'offre allo sguardo, e che seduce, affascina, elettrizza.
L'Etna, questo titano dell'isola, era in alto biancheg­
giante per neve, nei suoi fianchi – tinti di verde, di
giallognolo e di nero – si scorgeano non pochi comuni a
simiglianza di grandi fiocchi di bambagia, mentre a
destra le glauche onde dell'Ionio confondeansi
coll'intangibile curva del cielo.
Tosto ci demmo a contemplare quell'acropoli severa,
che per lunghi secoli risuonò del marziale tintinno di lo­
riche e di spade, che cosi suoi merli incuteva terrore e
rispetto, e di cui non restano che pochi ma forti ruderi e i
grandi serbatoi d'acqua, come testimonio della sua pas­
sata grandezza. Fra quelle silenziose mura, ove adesso
l'ignorante pastore conduce le pecore a brucare, chi sa
quante triste idee sorsero fra le gozzoviglie di luculliani
desinari; chi sa quante idilliache passioni e lunghi
rimorsi, quanti dolci palpiti e neri tradimenti s'agitarono
nei cuori; chi sa quante volte il paggio dal chermisino
giubetto sospirò la milesca castellana, e il tremacoldo,
tra il sussulto dell'animo e il fremito dei sensi, allietò
quelle aure del suo dolce canto. Altrove
Testimonianza ai fasti furon le tombe
Ed are ai figli,[9]
165
e con lodevole gara di sacrifici si cercò di strappare
all'uragano dei secoli le prische glorie, qui a vece il ma­
terialismo della vita, fatte poche eccezioni, spegnendo
nei cuori ogni ideale di rosa, ha fatto porre in
dimenticanza quel non inglorioso patrimonio storico,
e desta l'amaro sogghigno di certi Mevi in
diciottesimo, chi s'arrischia a parlarne. Solo per un
istante, esclamò uno dei due amici, amerei possedere
il genio lirico d'Alceo per lanciare al vento il clangore
d'una fluente strofa in omaggio di tanti obliati eroi,
mentre seduto l'altro su quelle pietre livide di strage,
sommessamente diceva: tacete, potrebbero forse
svegliarsi col vostro eloquio quelle ombre sacre, che da
secoli dormono l'eterno sonno della morte. Quando per
questi culmini fa sentire l'aquilone i suoi ruggiti, chi sa
che non sia lo spirito di qualche eroico guerriero, caduto
impavido in difesa del suo paese natìo che, pieno di
sdegno, vagola per rimproverare ai suoi degeneri nipoti,
l'ingiusto abbandono in cui han lasciate queste ruìne.
Mentre così andavamo almanaccando, dalle mandre
poco discoste venian zaffate di nauseabondo lezzo.
Scendemmo dall'opposto pendio: tutto era silenzio,
solo uno sciame di variopinte farfalline, le pieridi dei
prati, ci svolazzavano attorno, e quasi a mezza costa
udimmo il muglio d'una falba giovenca, di cui stava a
guardia una fanciulla, fragile e bianca come il mistico
fior d'asfodele, la quale biascicava un tozzo di pane
166
inferigno.
Monete Antiche. Attorno a questo monte trovansi
spesso monete greche, e due anni or sono furon
rinvenuti al Cavazzo, che dista poche centinaia di metri,
gran quantità di pegasi e di tetradrammi.
S. Nicola. « A un chilometro circa di fronte al
Castello è una grotta famosa per religione e più per
antichità, dove si ammirano varie pitture di greca mano,
ed affermano essere stata la prima chiesa cristiana
avanti dei Saraceni, poiché dicesi essere stata negli
antichi tempi la città e la rocca opera dei Leontini »,
scrive Vito Amico nel suo Lexicon topog. Siculum. È un
oratorio trogloditico scavato nella roccia calcarea, quasi
a mezza costa del monte Croce, e nella parte più
scoscesa, per cui riesce un po' difficile salirvi ed anche
scorgerla. La volta, nella parte interna, venne divisa
collo scarpello in quattro triangoli isosceli coi vertici
convergenti allo stesso punto, e in cui è un foro, che
serviva forse ad appendervi una lampada, ma questo
lavoro sembra di non antica data. A destra di chi entra in
questa grotta son due aperture, sostenute da specie di
pilastri formati dalla stessa roccia. Una è m. 1. 60 e
termina in alto a semicerchio, l'altra è più grande
ma quasi tutta logora, e forse ne esisteva una terza,
che formava ordine colla prima. Da esse si entra in una
seconda e più importante grotta di forma rettangolare.
Nella parete di fronte, che corrisponde a sud est, è un
grande affresco bizantino, il quale ha nel mezzo della
167
cornice una Madonna, col bambino Gesù sulle braccia, e
una testa di S. Pietro. In seguito è incavata una
nicchia, profonda 18 centimetri e alta m. 1. 16 nel cui
fondo si scorgono degli affreschi, e in alto, nella par­ te
arcata, si vedono due angeli e poi N... las, dove certo
nello spazio vuoto, mancano le lettere ico. Nella
parete ad est è un'altra gran cornice, ma nulla vi
si scorge.
È da notare, che sotto quegli affreschi, altri ne esistono
dello stesso genere. Ma tanto essi quanto quella preziosa
chiesetta – che un dì fu sicuro rifugio dei primitivi
cristiani, per isfuggire alle cruenti persecuzioni dei
proconsoli romani ­ sono lasciati nel più nauseante
abbandono, e tutti guasti e profanati dall'ignoranza e
dal più volgare vandalismo.
Opere artistiche. Delle opere artistiche son
meritevoli di ammirazione:
Nella chiesa della Maddalena: un quadro della
natività di Gesù, e la statua di marmo della santa
titolare. È un lavoro del Gagini, come risulta dall'atto
stipulato il 16 agosto 1508 dal notar Giulio Pascalia di
Messina, mediante cui obbligossi ad Antonino
Anzalone e Antonino Cofilio, due dei confrati di una
confraternita di S. Maria Maddalena probabilmente
in Buccheri, pel lavoro di un'immagine o statua in
marmo di detta santa, con un pomo in una mano e
nell'altra un libro, alta 6 palmi ( m. 1, 55 ) oltre uno
di piedistallo ( m. 0, 26 ) dove si dovesse scolpire
168
anche una storia di essa. Cotale statua, fornita in
tutto, dorata e incassata, era tenuto l'artefice
consegnarla a coloro in Messina di lì a tutto il
giugno del vegnente anno pel prezzo di onze 24 ( L.
306 ), confessando già di averne ricevuto di presenza
fiorini 12 e promettendo i confrati pagargli in
Palermo il restante. Il Di Marzo dubitò per un i­
stante, se la statua del cennato contratto sia proprio
quella di Buccheri, perch'essa tiene nella destra un
vaso invece del pomo, sconoscendo che fu per incarico
po­ steriore degli stessi confrati, se fu modellato il vaso,
ch'è proprio dello stemma municipale del comune. Ma
poi che egli recossi in Buccheri, come aggiunge nella
citata opera, ed esaminò la statua, della sua delicata
bellezza, dall'esser tutta forza di nervi, e
somigliantissima a quella che si conserva nella chiesa
di S. Francesco d'Assisi in Alcamo, pienamente si
convinse ch'è vera fattura del Gagini. Però rotta è la
mano, e il piedistallo vi fu anche rinnovato, e solo porta
in fronte un perfetto bassorilievo della Maddalena fra
due angeli, indubitato lavoro dell'insigne artista.
La chiesa è a tre navate e ricca di bassorilievi d'or­
nato e di angeli. La sua facciata è pregevole disegno del
valente architetto Michelangelo Di Giacomo. Pria del tre­
muoto del 1693 era di forma oblunga e un po' distante
da quella madre, e perciò fu innalzata a suffraganea. Tal
privilegio le fu confermato dal papa Benedetto XIV
a 20 luglio 1751 e da Clemente XIV, ma essendosi il
169
paese poco per volta ricostruito più in basso, lo
perdette, perché non più ritenuto necessario.
Degni di plauso sono nella chiesa di Sant'Antonio
gli altorilievi in gesso, rappresentanti i 12 apostoli in
grandezza naturale; Cristo all'orto, pittura della scuola
veneta del rinascimento; San Vito e Sant'Antonio, due
grandi quadri di rara bellezza, lavori di G. Borremans,
pittore fiammingo seguace del Rubens.
La chiesa è a tre navate e con un bellissimo
organo. Il tremuoto del 1693 la distrusse, e fu riedificata
nello stesso sito.
Un bel quadro della scuola fiamminga, dipinto sul
bronzo e notevole per antichità, fu trovato nella
chiesa degli ex padri cappuccini, dove son pure degni
di ricordanza alcune sculture dell'altare maggiore.
Uomini illustri. Buccheri diede i natali a diversi uo­
mini illustri per bontà e dottrina, ricorderemo di essi:
1. P. Stefano dei minori cappuccini, valentissimo pre­
dicatore, ammirevole per bontà e dottrina, morto nel
1570;
2. P. Silvestro dello stesso ordine, anch'egli dotto o­
ratore sacro, morto nel 1571;
3. P. Clemente cappuccino, degno delle migliori lodi
per le sue virtù ed il vasto sapere. Morì nel 1576
(Sto­ ria dei patri[10] cappuccini pag. 710 e 818);
4. M. B. Antonei chiaro per virtù e per lettere, e
il P. Luigi che fu in Roma segretario generale (Memorie
storiche di frati min. Capp. del P. Samuele da Chiara­
170
monte);
5. Riccio Giuseppe scrittore di tragedie, tra cui pri­
meggia quella su S. Vito, edita dal Barbera in Palermo
nel 1690 (Mongitore. De scriptoribus siculis vol. 1);
6. Burgio Francesco gesuita, nato nel 1674 morto nel
1761. Fu tenuto in sommo onore dai suoi
contemporanei, e le sue opere, per altezza di pensiero ed
eleganza di forma, s'ebbero il plauso dei teologi e dei
letterati d'ogni paese (S. Salomone. La prov. di
Siracusa). Sotto lo pseudonimo di Candido, egli pubblicò
un lungo lavoro per combattere un'opera teologica messa
in giro da Lodovico Antonio Muratori (D. Scinà – Storia
delle letteratura siciliana);
7. Catalano Pietro, nato nel 1675 morto nel 1722. Fu
valentissimo teologo e moralista. Scrisse un'opera, in due
volumi, sotto il titolo: Universi juris theologico
moralis, ammirevole sovra tutto per vastità d'erudizione; 8. Catalano Antonino, di nobile famiglia, molto
perito in ambo le leggi, e che tanto contribuì al
miglioramento dei pubblici costumi. Morì nel 1777 di
anni 77.
9. Di Franco Ilario, valente giurista, di cui
pregevole è il suo lavoro: Allegationes pro universitate
terrae Buccheri; contra principem terrae eiusdem.
Panormi 1654 (Narbone, Bibliografia, vol. 1 pag. 192);
10. Cappello Lazzaro, di magnate famiglie, aromatorio
del grande nosocomio messinese ed uomo assai colto e
generoso. Restituitosi in patria vi morì nel 1770;
171
11. Cappello Natale, congiunto di Lazzaro. Fu insigne
patriota, e seppe difendere a viso aperto i diritti van­
tati dal comune su diversi feudi del suo territorio, che
voleano altri usurpare;
12. Di Giacomo Michelangelo, valente architetto. Si
se­ gnalò molto in un concorso sostenuto a Palermo, e
per alcuni lavori ivi fatti. Morì nel 1773;
13. Zappulla Vacirca Sac. Nunzio, colto
nell'astronomia e nelle lettere, e di cui si considera un
lavoro inedito;
14. Ferla Aldaresi Giuseppe, esperto istoricio e greci­
sta. Scrisse diversi lavori di cui uno sui monti Erei, che
pubblicò nel 1831 nel Giornale di scienze e lettere di
Sicilia;
15. Zappulla Vito, dotto scienziato e valente
medico chrurgo, molto lodato dall'Oscar Giacchi, dal
Mantegazza, dal Livi e d'altri scrittori. Pubblicò varie
opere, fra cui primeggia quella intitolata: Errori del
popolo in medicina e chirurgia, edita a Milano dai
fratelli Rechiedei.
Fiere e mercati. Fabrizio Morra nel 1593 concesse
facoltà di farsi la fiera del bestiame, sete, panni per la
festa della Maddalena, che corrisponde alla prima dome­
nica precedente il 29 agosto, e per la festa di S. Vito.
Nata quistione per questa fiera tra i rappresentanti la
cappella di S. Vito e i minori osservanti di Palazzolo A­
creide, con sentenza del 9 luglio 1738, emessa sotto il
governo dell'Infante di Spagna Carlo di Borbone, fu sta­
172
bilito dover durare quella di Buccheri fino al 7 agosto, e
principiar quella di Palazzolo il dì seguente. Ma le più
importanti al dì d'oggi sono: quella del 7 settembre e
l'altra, che coincide coll'ottava dell'Ascensione, e ch'è
una delle più importanti di Sicilia.
Caratteri psichici e fisici degli abitanti. La
psicologia della strada è un fenomeno complesso, ha i
suoi bagliori e le sue ombre, e anche qui il proteiforme
carattere del popolino è un'inesplicabile miscela di
coscienze, in cui gli slanci più nobili del cuore si
mescolano, s'alternano e si confondono colle più
disgradevoli azioni. Or sogna il riso degli angeli ed
ora il ghigno beffardo di Mefistofele; ama l'idillio e la
commedia, ma non disdegna il tragico e l'elegiaco. È
timido e audace, credulo e diffidente, amorevole e
mordace, generoso e vendicativo; t'accarezza certe
fiate, mentre affila il pugnale della calunnia e della
maldicenza; ci gode a ferir la reputazione altrui colla
pungente celia e colla venefica berlina, e ti slancia con
incoscienza or dall'osanna all'ingiusto crucifigi, or dalla
rupe Tarpeia agli onori del Campidoglio. È laborioso e
di rado scorgi che vadi bighellonando per le vie, perciò
non s'incontrano troppo doloranti miserie, né opulente
sfarzo. È morigerato nei cibi e nelle bevande, ma da
alquanti anni in qua, per quel tumulto suggestivo che
poco per volta mette nell'animo il contagio della
frequenza coi contadini d'altri comuni, ci gongola a
diguazzare nel tanfo delle taverne, ove con cinico
173
indifferentismo consuma la mercede giornaliera,
tracannando a josa l'ebbrezza in luride pincerne. È
appassionato molto della musica e del ballo, e spesso,
anche nelle buie notti invernali, s'odono lunghi e
squillanti cori di contadini, a cantar l'anacreontica strofa
sgorgata spontanea dall'entusiasta anima siciliana. Balla
con passione al suono cadenzato d'un tamburello, e
vanno allora in sollocchero le raffaellesche forosette, nel
far, coi loro piedini di fata, caratteristiche e seducenti
movenze, mentre la loro rosea carnagione acquista un
vago splendore, e i loro occhi mandano fosforescenti
riflessi di luce. Il forestiero che capita in uno di quei
balli, è costretto a confessare, che la donna buccheresa
ha qualcosa della fidiaca bellezza greca, e delle
fascinatrici grazie delle vezzose andalusiane.
Santo patrono è il dotto vescovo che ardì umiliare re
Teodosio per la strage di Tessalonica. Il suo nome, a
cui è dedicata la chiesa madre, fa correre il pensiero al
drappel della morte della battaglia di Legnano.
Chiese. Oltre le tre cennate sono da ricordarsi;
Quella dell'Annunziata, eretta nel 1554, accanto a cui,
29 anni dopo, per opera di Gregorio di Bernardo, fu
fabbricato un monastero sotto la regola di S. Benedetto;
quella della natività di Maria, a cui nel 1614 fu attaccato
un piccolo convento di carmelitani, e dove ora alloggia
un eremita; quella di S. Giovanni, che fu anche detta del
Carmelo, sin da quando i carmelitani nel 1622 passarono
nell'adiacente convento, ora scomparso; quella di S.
174
Francesco D'Assisi, con vasto convento, eretto dai
cappuccini nel 1627, e che ora si va demolendo;
quella di S. Maria di Fonte Aurato, alle falde di monte
Lauro, ov'era anche un'eremitaggio, ma di entrambi
restano poche rovine: e infine: quelle di S. Rocco,
sopravvissuta al tremuoto del 1693, degli Agonizzanti,
di Gesù e Maria, di Monserrato e di Oreto più o meno
abbandonate.
Feste. Le più importanti feste sono: 1. Quella della
Natività di Maria, che in modo splendido si
solennizza il 7 ed 8 settembre, con processioni – in cui si
portano in giro una reliquia e la statua della Madonna, e
a cui pren­ dono parte i confrati delle varie chiese coi
rispettivi gonfaloni – e con musiche, sfarzosa
illuminazione delle pubbliche vie, sparo di mortaretti
e artifici di fuoco; 2. quella di S. Francesco di Paola, che
suole celebrarsi 15 giorni dopo Pasqua; 3. quella della
Madonna della Provvidenza, che ha luogo la domenica
successiva al giorno dell'Ascensione.
Associazioni religiose. Nella chiesa madre:
associazioni del Crocifisso e del SS. Sacramento e
confraternite del Rosario e del terz'ordine di S.
Francesco; in quella del Carmine: confraternita di Maria
del Carmelo; in quella di Sant'Antonio: confraternita di
Sant'Antonio istituita il 17 gennaio 1660, aggregate il
15 ottobre 1662 all'arciconfraternita del Salvatore di
Roma, ciò che fu confermato da papa Alessandro VII; in
quella della Maddalena: confraternita della Maddalena
175
istituita da papa Alessandro VI, e da papa Alessandro VII
dichiarata arciconfraternita.
Beneficienza. La congregazione di carità amministra 8
opere pie: 4 per la concessione di legati di
maritaggio; 2 per la distribuzione di soccorsi a domicilio;
2 per ce­ lebrazione di messe. I coniugi Cav. G. Politi e
Sig.a C. Cosentino istituirono le Figlie della croce per la
distribuzione a domicilio di cibi e medicinali agl'infermi
poveri; e il fu Salvatore Ciurcina, nel 1903 fondò un
rifugio di poveri orfani d'ambo i genitori.
Stemma municipale. È un castello a tre torri, di cui
quella di mezzo più alta, e di fronte è assiso un leone
alato, che porta un vaso colla zampa destra anteriore.
Buccheri, prov. Siracusa, MCMVIII.
176
NOTE
alla presente edizione del MMXII
[1] Vergine cuccia de le Grazie alunna (alunna e non
adorna come riportato dal Guarrella, probabilmente con
una deliberata forzatura del verso per adeguarlo meglio
al contesto del suo discorso), si tratta di un verso tratto
dal Mezzogiorno di Giuseppe Parini del 1765.
...Tal ei parla, o signore; e sorge intanto al suo pietoso
favellar dagli occhi de la tua dama dolce lagrimetta pari
a le stille tremule, brillanti che a la nova stagion
gemendo vanno dai palmiti di Bacco entro commossi al
tiepido spirar de le prim’aure fecondatrici. Or le sovviene
il giorno, ahi fero giorno! allor che la sua bella vergine
cuccia de le Grazie alunna, giovenilmente
vezzeggiando, il piede villan del servo con l’eburneo
dente segnò di lieve nota: ed egli audace con sacrilego
piè lanciolla: e quella tre volte rotolò; tre volte scosse gli
scompigliati peli, e da le molli nari soffiò la polvere
rodente...
177
[2] Ved. sotto il grafico dell'andamento della
popolazione di Buccheri nei vari anni:
[3] Lo spettro della fame, ovvero secondo la teoria di
Malthus, quando in una determinata zona si verifica un
sovrappopolamento, quella zona non è più in grado di
soddisfare i bisogni primari degli abitanti che quindi
rischiano la fame.
[4] Elveziano è uno dei piani stratrigrafici in cui viene
suddiviso il Miocene. L'Elveziano copre il periodo tra i
15,97 e i 13,82 milioni di anni fa. Studi recenti
collocano la nascita di monte Lauro agli inizi del
Paleocene ovvero intorno ai 60 milioni di anni fa, ma ciò
non toglie che le utime formazioni (a vulcano ancora
attivo) siano risalenti al più recente periodo Elveziano
del Miocene. [5] Nel testo originario, per un errore tipografico,
mancano le virgolette («) d'apertura di inizio della
178
citazione, sono presenti invece quelle di chiusura alla
fine del brano.
[6] ...Grandine grossa e acqua tinta e neve / per l'aer
tenebroso si riversa... Sono versi tratti dal VI° canto
dell'Inferno di Dante; sono il 10° e l'11° verso.
[7] Come per la nota [5], a causa di un errore
tipografico, nel testo originario mancano le virgolette di
chiusura (»). [8] ...tonaro come arcangeli i vespri... sono versi tratti
dai Canti di Aleardo Aleardi (Canti ­ il monte Circello).
[9] Testimonianza a' fasti eran le tombe, ed are a'
figli; sono i versi 97 e 98 de I Sepolcri di Ugo Foscolo. Il
Guarrella volge al passato remoto il tempo (imperfetto)
del verbo essere (furono anziché erano) per far risaltare
la vetustà dei nostri ruderi.
[10] Trattandosi del titolo di un'opera antica non è
escluso che il titolo arcaico sia proprio ...patri
cappuccini... anziché padri cappuccini.
{1} Oggi, 02 luglio 2014, nello stilare l'ultima
revisione non posso non menzionare una scoperta
(casuale) fatta appena qualche mese fa, esattamente
nel mese di maggio, durante le funzioni sacre nella
179
Chiesa della Madonna. Nel leggere i nomi dei
"notabili" ivi sepolti mi colpì un nome in particolare
(Gaetano Zappulla) sepolto a sinistra dell'altare
maggiore, già sindaco di Buccheri, che nell'anno 1851
aveva dato la sua figlia in sposa ad Andrea Barresi
(cerimonia civile celebrata nel comune di Buccheri
alle ore 22,00 nel mese di agosto ­ scoperte sempre
casuali che avevo fatto io nel corso degli ultimi anni
alla ricerca di antenati) da cui nascerà Giuseppa
Barresi che andrà in sposa a Vito Gambilonghi (mio
omonimo e e mio antenato ma per discendenza
femminile) da cui nascerà Maria Maddalena
Gambilonghi (detta di 'nciuria a zappullitta per via
di sua nonna Zappulla) che andrà in sposa a Franco
Antonino da cui nascerà Franco Grazia (mia madre)
che andrà in sposa a Gaetano Gambilonghi (mio
padre) con la quale era imparentato (cugini di
secondo grado).
Considerazioni finali:
Il Guarrella o per una svista o per una sottovalutazione
del testo di Edrisi, non tiene conto dell'affermazione di
questi che Buccheri sorgeva (nel 1150 circa) su luogo
pianeggiante; ed escludendo che sia mai sorto in
contrada Piana, c'è l'altra nota della quale non tiene
conto, ovvero che Edrisi colloca Buscemi propriamente a
sud della Buccheri di allora.
180
La famosa pineta Al­Binit che Guarrella pensa
erroneamente localizzarsi nell'attuale bosco di Santa
Maria, in realtà si trovava all'incirca fra le contrade
Pirazzo, Sugherita e Poggio Dolce, e collocando ad ovest
il sito di Buccheri di allora questo coincide con la zona
pianeggiante di Sant'Andrea.
Le vestigia di questa pineta possono ancora ritrovarsi in
3 pini giganteschi sopravvissuti al tempo che si trovano
nel costone che dal piano della Sugherita declivia verso
Poggio Dolce, ovvero a ovest di Sant'Andrea che
corrisponde perfettamente con quanto riportato da
Edrisi.
Non solo, ma a questo punto anche la collocazione di
Buscemi a sud di Buccheri indica ancora Sant'Andrea
come sua antica posizione e non certo la posizione
attuale che ci fa vedere Buscemi quasi ad ovest da noi.
Dello stesso avviso sono anche altri autori citati dai due
scopritori­autori del Rivelo del 1474, (Antonino Marrone
e Bruno De Marco Spata), sebbene con qualche riserva,
pervenuti in modo indipendente (probabilmente
consultando anche altri testi) alle stesse nostre
conclusioni. Nota finale:
Le fotocopie delle opere di Vincenzo Ottaviano Guarrella
ci sono state gentilmente messe a disposizione da Tanino
Cannata a cui va il nostro ringraziamento. 181
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