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sotto il velame I
SOTTO IL VELAME
I
Sotto il Velame
Nuova Serie – n. 1
Giugno 2003
Rassegna di scritti a cura della Associazione Studi Danteschi e Tradizionali
I saggi pubblicati impegnano la responsabilità esclusiva degli autori.
Sommario
San Bernardo, Dante e l’Ordine del Tempio - Sergio Lora
Dante e l’eresia - Renzo Guerci
Padre, davvero, Dante - Pierluigi Arietta
Le tre fiere - Bernard Delmay
Lettera a Francesco Velardi su Guido Cavalcanti - Giovangualberto Ceri
Le Signore della fontana - Anna Rita Zara
La conquista magnanima nell’ascesa mistica di Dante - Massimo Seriacopi
Sul concetto di esoterismo - Luciano Ferrarsi
Grandezza di Dante e del suo messaggio - Ettore Cozzani
Ricordo di Ettore Cozzani - Donatello Viglongo
La musica nella Divina Commedia (parte 2^) - Giuseppe Mortasa
Brunetto Latini ‘cara buona immagine paterna’ - Massimo Seriacopi
Un panorama sulla pubblicistica – Donatello Viglongo
San Bernardo, Dante e l’Ordine del Tempio
1. L’Ordine del Tempio
Sull' ordine cavalleresco più discusso del medioevo, sono stati scritti molti libri,
specialmente in Francia ed in Inghilterra, mentre nel nostro paese l' incultura, la
superficialità, hanno contribuito a scrivere poco e spesso cose di secondaria importanza .
L' Ordine del Tempio fu il primo degli Ordini militari per fondazione ed importanza.
Questo avvenimento degno di nota, resta ancor oggi avvolto nel più fitto mistero, ed è
stato sovente oggetto di radicali speculazioni.
La sua fondazione in seno al Regno
Latino, fu un frutto del tutto peculiare dell' epoca delle Crociate, in quanto l' unione dei
voti monacali con la Cavalleria, era una novità mai vista prima in occidente, quindi
qualcosa di estremamente moderno per il dodicesimo secolo. Comunque l' Ordine
Ospedaliere di San Giovanni era antecedente per fondazione a quello Templare, ma solo
come Ordine Religioso, poiché il carattere guerriero venne assunto solo successivamente.
Il terzo Ordine per fondazione fu quello dei cavalieri Teutonici. L'antico Ordine
Giovannita sopravvive ancora ai nostri giorni essendo confluito nell'Ordine dei Cavalieri
di Malta. L' Ordine dei Cavalieri Teutonici sopravvisse in Austria fino al 1938, sia pure
in misura modesta.
I Templari invece furono soppressi con Bolla Papale" VOX IN EXCELSO " il 3
Aprile 1312, sebbene alcune delle loro tradizioni sopravvivono ancor oggi in seno alla
Massoneria. Nell' anno 1099 la Gerusalemme Mussulmana cadeva in mano alle forze
della Cristianità. In quella città, Ebrei, Cristiani ed Islamici, veneravano uno stesso luogo:
la vetta del monte Moriah. Secondo la Bibbia proprio in quel luogo si consumò il
sacrificio di Abramo (Genesi XXII, 2) , nel quale i padri della Chiesa Cristiana videro la
prefigurazione della passione di Gesù, ma questo rappresenta anche il sito, secondo la
Tradizione Islamica, in cui andò a pregare Maometto quando fu portato in cielo
dall'Arcangelo Gabriele.
Già nel X secolo prima de11' era Cristiana, Re Salomone aveva fatto costruire in quel
luogo il tempio di Gerusalemme. Nel primo secolo dell'Egira (cioè nel VII secolo dopo
Cristo, dato che l'era dei Mussulmani inizia nel 622 dell'epoca Cristiana), il Califfo
Omayyade di Damasco Abd al Malik, vi fece costruire la celebre Moschea, detta di
Omar, che esiste ancora ai nostri giorni; in quell'edificio ottagonale di marmo bianco,
ornato di porcellane policrome e sormontato da una Cupola, la Roccia Sacra di Abramo
è incastonata come uno scrigno.
Nel XII secolo il cuore della Cristianità romanizzata non aveva più nulla in comune
con la piccola comunità apostolica dalla quale ha avuto origine. Il Papa con le sue mire
rivolte verso il potere Temporale, aveva finito con essere un capo di stato come gli altri,
sottomesso alle esigenze ed alle necessità della diplomazia e della guerra. Nelle università
in quegli anni, dominava gli animi l' idealismo platonico, deformato dalle idee gnostiche di
Plotino che trovava nel Vangelo di San Giovanni la base della dottrina alla quale aveva
fatto riferimento Sant'Agostino nei suoi scritti. Si assistette così in quegli anni, in seno
ad alcuni ordini religiosi, ad un ritorno del Misticismo Cristiano, che vide nel convento di
Cìteaux il suo centro primario di diffusione.
Questo impeto di rinascita spirituale non era da attribuirsi solo a delle circostanze, ma
bensì ad un uomo che gli diede vita e lo diresse con una capacità ed un talento che non
trovò uguali in nessun altro periodo storico Egli fu Abate di Chiaravalle, la seconda
casa dell' ordine contemplativo fondato nel 1098 secondo la. regola di San Benedetto e
nello spirito di Sant'Agostino.
San Bernardo dominò la prima metà del secolo XII col suo Misticismo che conduceva
l' umano alla Conoscenza di Dio tramite l'estasi. La sua arte oratoria non aveva eguali,
inoltre era un profondo conoscitore del " Cantico dei Cantici " di Re Salomone, dei quali
tenne centoventi sermoni. Fu superiore intransigente di un' ordine che in trentanni si
propagò in tutto l'occidente. Al Papa Eugenio III, Bernardo inviò le sue considerazioni
sui mali della chiesa e sui doveri del Sommo Pontefice. Bernardo era in quello scenario
medioevale l' uomo della Chiesa teocratica ed universale.
Le Crociate oltre ad essere il mezzo efficace per indebolire i feudi, si proponevano
anche di frenare l'espansione turca e di ristabilire un contatto tra l'Occidente e Bisanzio
indispensabile per la riunificazione del mondo Cristiano. Questo contatto avrebbe
permesso inoltre di risalire alle fonti della spiritualità orientale da cui ebbe origine il
Cristianesimo. Dopo la presa di Gerusalemme da parte dell' esercito Cristiano, Santo
Stefano, Abate di Citeaux, con l' aiuto di un gruppo di Rabbini, aveva fatto studiare ai
suoi monaci molti testi ebraici. Inoltre le crociate furono il pretesto per la creazione di un
esercito quale fattore essenziale di potere che ancora mancava al papato.
Infatti diciannove anni dopo la presa di Gerusalemme, nel 1118, nove cavalieri
francesi si presentarono al Re crociato di Gerusalemme, con l' intenzione di fondare una
comunità che avrebbe avuto come scopo la protezione dei pellegrini cristiani durante le
loro visite in Terra Santa. I loro nomi erano: Hugues de Payns, Andre de Montbard,
Payen de Montdidier, Geoffroy de Saint-Omer, Archanbaud de Saint-Amand, Geoffroy,
Bisol, Gondemar e Rossal, ai quali si aggiunse successivamente nel 1125 il Conte
Hugues de Champagne, un signore potente quasi come il Re di Francia, che per
raggiungere Gerusalemme ripudiò la moglie e abbandonò i figli.
L'arcivescovo Guglielmo di Tiro, storico del XII secolo, affermò che i più illustri e
distinti tra i nove uomini erano " il Venerabile Hugues de Payns e Geoffroy de SaintOmer ". La loro offerta fu immediatamente accettata da Re Baldovino II che allo scopo
mise a loro disposizione un' ala del suo palazzo.
Sul Monte del Tempio il Re aveva da poco trasformato la Moschea AI-Aqsa nel suo
palazzo reale. Sorprendentemente egli acconsentì subito alla loro richiesta, concedendo
loro gran parte dell'antica Moschea e gli edifici immediatamente adiacenti alla famosa
Cupola della Roccia, che contrassegnava il luogo in cui si trovava un tempo il Tempio di
Salomone . Da quel momento in poi i cavalieri vissero e lavorarono in quel Sacro luogo,
anzi per quasi nove anni essi non vi lasciarono entrare mai nessun estraneo.
I nove cavalieri si presentarono inoltre davanti al Patriarca di Gerusalemme Teoclete,
sessantasettesimo successore dell' Apostolo Giovanni; lo misero a conoscenza dei loro
propositi, chiedendogli di essere considerati soldati di Cristo e di poter condurre vita
monastica. Il Patriarca approvò la loro missione e davanti a lui pronunciarono i tre voti
di obbedienza, castità e povertà che gli conferivano lo stato religioso, anche se non ne
portavano ancora l'abito.
In passato nella Magna Grecia i discepoli di Pitagora avevano istituito una
confraternita che per certi aspetti anticipava le finalità di Hugues de Payns e dei suoi
compagni, poiché avevano scopi religiosi e politici. Contemporaneamente nel mondo
Islamico esisteva un'organizzazione del genere; questa era l'ordine Ismaelita dei Fida'i
(devoti fino al sacrificio) dal termine arabo " Assas " (guardiano) . Essi giuravano
obbedienza assoluta al gran maestro, chiamato il Vecchio della Montagna ( Cheik el
Diebel ) . Il gran maestro insegnava loro che Dio si confondeva con la Ragione
Universale, il cui attributo principale è la Conoscenza.
Per il mondo Cristiano però l' idea dei monaci guerrieri era del tutto nuova e poteva
apparire persino paradossale. Allo stesso tempo in qualità di soldati assicuravano la
difesa del pericoloso passo d'Athlit, che dominava la strada tra Gerusalemme e San
Giovanni d' Acri. Anche se, come avevano dichiarato pubblicamente, la loro missione
in Terra Santa era quella di mantenere la strada di Gerusalemme e la costa libera dai
banditi, in realtà non fecero nulla per perseguire tale scopo ; anzi, come disse una fonte
autorevole. « il nuovo ordine fece apparentemente molto poco in quel periodo».
La logica stessa suggeriva che difficilmente solo nove uomini sarebbero riusciti a
proteggere qualcuno su di una strada lunga quasi novanta chilometri. Essi si
denominarono "Pauperes Commilitones Cristi", poveri compagni d' arme di Cristo e
nell'anno della loro fondazione essi erano effettivamente così poveri che avevano a
disposizione un solo cavallo ogni due Cavalieri, come ancor oggi si può vedere sul più
antico sigillo dell' ordine. In sequito all' incontro con il Patriarca, i canonici del Santo
Sepolcro cedettero le loro tenute sul monte del tempio ai nove cavalieri e successivamente
Re Baldovino lasciò il proprio palazzo per trasferirsi nella cittadella o Torre di Davide in
prossimità del1' attuale Torre di Giaffa. L' intero monte del Tempio divenne così proprietà
esclusiva dei nove cavalieri, che avendo il loro quartier generale nel luogo dove sorgeva
anticamente il tempio di Salomone iniziarono ad essere conosciuti in francese come "Les
chevaliers du Temple" o più semplicemente "Cavalieri del Tempio" o "Cavalieri
Templari".
L' antico tempio di Salomone era stato edificato nel X° secolo A.C. sulla vetta del
monte Moriah e vi era rimasto fino alla sua distruzione avvenuta ad opera dell' esercito
Babilonese nel 587 A. C . Quel tempio era stato costruito con l'unico scopo di servire,
come dichiara la Bibbia, da "luogo di riposo per l'Arca dell' Alleanza del Signore". Nel
piazzale, sulla spianata della collina del Moriah, dove sulle rovine dell'antico Tempio gli
architetti Bizantini avevano ricostruito la Moschea di Umar, meglio conosciuta come la
Cupola della Roccia, i Templari posero la loro dimora e per nove anni le loro attività
rimasero segrete ed indipendenti da qualsiasi autorità politica o religiosa.
Appare qui evidente che Huques de Payens e i suoi amici dovevano avere qualche
altro scopo, magari non dichiarato per soggiornare in quel luogo.
Infatti il loro
comportamento fu improntato sulla massima segretezza e solo in tempi moderni si è
venuti a sapere che durante la loro permanenza sul monte del Tempio questi nove uomini
avevano effettuato degli scavi piuttosto imponenti.
Recentemente alcune squadre di
archeologi israeliani hanno compiuto scavi nella zona immediatamente a sud del monte
del Tempio ed hanno trovato lo sbocco di un tunnel che fu identificato come scavato dai
Templari (1) nel secolo XII. Nella loro relazione scrissero : « La galleria ha inizio dal
muro meridionale ed avanza per circa trenta metri per poi essere bloccata da una frana di
pietre e detriti. Siamo ben consapevoli che la galleria prosegue ancora, ma purtroppo noi
dobbiamo attenerci alla rigida regola di non scavare entro i confini del monte del tempio,
che attualmente risulta sotto la giurisdizione islamica, senza prima richiedere
l'autorizzazione alle competenti autorità islamiche.
Per questa richiesta essi ci hanno
consentito solo di misurare e fotogra fare la parte opposta de11a gal1eria ma non di
compiere scavi di alcun genere. Per concludere questo lavoro abbiamo chiuso l'uscita
della galleria con delle pietre ».
Presumibilmente questa galleria penetra proprio sotto i confini del Sacro Recinto,
probabilmente passando sotto la Cupola della Roccia, un centinaio di metri a nord della
Moschea Al-Aqsa. Il monte del tempio è un' importante piattaforma circondata da mura e
costruita sulla sommità della collina chiamata Monte Moriah; si tratta di una montagna
artificiale edificata per accogliere al suo centro il più prezioso gioiello dell' architettura
ebraica antica, ilTempiodiSalomone.
In ebraico essa è chiamata Har Habayt, che
significa "La montagna de 11a Casa". In arabo il suo nome è Haram Ash Sharif," Il
santuario del Nobile" . Per gli ebrei come per i mussulmani questo luogo rappresenta il
cuore della Città santa.
L' attuale struttura a forma trapezoidale è ancora quella fatta costruire da Erode il
Grande alla fine del I° secolo A.C. La scelta del monte Moriah per la costruzione del
Tempio è attribuita al Re Davide, padre di Salomone; i motivi di questa scelta sono
esposti in “II Samuele 24”.
La Cupola della Roccia viene così chiamata perché racchiude al suo interno una
grande pietra che gli ebrei chiamano "Shetiyyah" o "Pietra di fondazione". Secondo le
Sacre Scritture, Giacobbe avrebbe avuto, addormentandosi col capo poggiato su di essa,
la visione di una scala a pioli che congiunqeva cielo e terra, sulla quale qli Angeli
scendevano e salivano: « Quando Giacobbe si fu svegliato dal sonno disse :" certo il
Signore è in questo luogo ed io non sapevo" e preso dal timore soggiunse: “ quanto è
degno di venerazione questo luogo ! Non è altro che la casa di Dio e la porta del cielo! »
Levatosi Giacobbe la mattina di buon' ora, prese la pietra che gli era servita da capezzale e
ne fece un cippo Sacro a ricordo della visione, poi versò dell'olio sopra. ( Genesi 28, 16,
18 ) .
Propr io su questa pietra fu costruito il Tempio di Salomone a metà del IX secolo A.C.
L' Arca dell' alleanza era stata posta sulla Shetiyyah che era andata a formare il pavimento
del Tabernacolo.
Nel 587 A.C. il Tempio di Salomone fu distrutto dall' esercito
Babilonese e la maggior parte della popolazione di Gerusalemme fu portata schiava a
Babilonia.
Non esiste nessuna prova che i conquistatori avessero portato via l'Arca
dell'Alleanza come bottino di guerra, ma al contrario essa sembrava completamente
svanita nel nulla. Sulla scomparsa dell' Arca circolò una leggenda che fu anche trascritta
in alcuni testi Talmudici, che forniva una possibile spiegazione a ciò che era successo,
dove si diceva che prima che l' esercito babilonese entrasse in Gerusalemme la Sacra
Reliquia era stata portata via e nascosta in una caverna segreta posta sotto la Shetiyyah.
Questi racconti circolavano ancora a Gerusalemme nel XII secolo e i Templari avrebbero
potuto facilmente venire a conoscenza dei dettagli di questo interessante racconto.
Il rapporto interessante con questa leggenda è che si è potuto stabilire che prima
dell'anno 1119, Hugues de Payens, fondatore dell' Ordine, era andato in pellegrinaggio in
Terra Santa nel 1104 insieme al Conte di Champaqne. (2) Nel 1116 Hugues si era di
nuovo recato in Terra Santa da solo (3), ed era ritornato in Francia per radunare qli otto
cavalieri che andarono con lui nel 1119 e formarono il primo nucleo dell’Ordine del
Tempio.
Sembra probabile, alla luce di questi fatti, che Hugues ed il Conte di
Champagne durante il loro pellegrinaggio del 1104 siano venuti a conoscenza della
possibilità che l'Arca dell'Alleanza fosse nascosta da qualche parte sul Monte del Tempio
e per questo motivo probabilmente concepirono il progetto di andare a Gerusalemme per
cercare la Sacra Reliquia.
Questo motivo spiegherebbe la risolutezza con cui i nove cavalieri presero possesso
del Monte del Tempio nel 1119, ed il comportamento di assoluta segretezza che essi
tennero nei primi anni di vita dell'Ordine. Sicuramente uno dei motivi dell'occupazione
Europea città Santa, oltre a quelli di apertura di vie commerciali con l' oriente, era anche
quello ispirato dalla convinzione che in quella città fosse nascosta qualche Sacra
Reliquia. Naturalmente il tesoro più ambito era rappresentato dalla possibilità di ritrovare
l'Arca dell'Alleanza.
Pare altrettanto probabile che Hugues de Payens e il Conte di Champagne fossero
davvero stati spinti dal desiderio di trovare l'Arca, quindi presero possesso del Monte del
Tempio e fondarono l'Ordine per ottenere questo scopo. Tuttavia in parte essi fallirono
il loro obiettivo, in quanto se l' avessero trovata, l'avrebbero sicuramente portata
trionfalmente in Francia, ma dal momento che ciò storicamente non avvenne, si può
affermare con certezza che non la trovarono sotto il Monte del Tempio. Comunque
circolò voce insistente che essi qualcosa di molto importante abbiano trovato nei nove
anni che scavarono sotto il Tempio di Salomone. Si trattava però solo di dicerie, in
quanto il segreto mantenuto dall'Ordine fu sempre totale.
In uno scritto alquanto misterioso (4) che tentava di spiegare cosa i Templari
effettivamente fossero andati a fare a Gerusalemme si legge : « La vera funzione dei nove
cavalieri fu quella di effettuare ricerche nella zona del Tempio di Salomone, allo scopo di
ritrovare alcune reliquie o manoscritti contenenti l' essenza della Tradizione Giudaica e
dell' antico Egitto, alcune delle quali risalenti al tempo di Mosè. Non vi è dubbio che i
nove cavalieri portarono a termine la loro missione e che le loro scoperte furono riportate
nella tradizione orale dell'Ordine».
Nella stessa opera si afferma inoltre, senza peraltro fornirne prova documentar ia, che
S. Bernardo fosse colui che aveva mandato i nove cavalieri a Gerusalemme. Questa
notizia mi incuriosì moltissimo, tanto che cercando di approfondire la questione, scoprii
parecchie curiose coincidenze sulla storia dell'Ordine.
S. Bernardo, nato nel 1090, era entrato nell'Ordine Cistercense nel 1112 e nel 1115 le
fonti biografiche lo citavano già come Abate ed aveva già raggiunto una posizione di
notevole importanza nella Curia francese; ed inoltre nutriva un' interesse speciale sia nei
confronti dell' architettura gotica, sia per la leggenda della r icerca del Graal.
Hugues de Payens era nato nel villaggio di Payens, ubicato a circa quindici chilometri
a nord della cittadina di Troyes, nella contea della Champagne e inoltre tutti i nove
cavalieri erano nativi della stessa regione. La contea di Chartres, con la sua cattedrale,
era nel XII e XIII secolo dominio dei Conti di Champagne e questa fu venduta al Re di
Francia nel 1286. Uno dei nove cavalieri, Andrè de Montbart, che in seguito ricopri la
carica di quinto Gran Maestro dell' Ordine era zio di San Bernardo. Eleth, la madre di
Bernardo era sua sorella, ed entrambi erano nativi della Champagne.
A Troyes si tenevano due volte l'anno delle fiere in cui si trovavano tutti i prodotti
dell'oriente e presumibilmente anche le occasioni di scambi intellettuali tra i rappresentanti
di differenti Tradizioni. Oltre che con l'Ordine del Tempio questa città fu strettamente
collegata con le Corti d'Amore e con la poesia Trovatorica, e dette inoltre i natali a
Chretien de Troyes, il primo scrittore della Ricerca del Santo Graal. Quando esso giunse
al successo col suo libro "Conte du Graal" alla fine del XII secolo, la sua principale
protettrice era la Contessa di Champagne.
Hugues de Payens era cugino del Conte di Champagne che nel 1125 entrò a far parte
dell'Ordine del Tempio.
In base alle considerazioni esposte giunsi alla convinzione
che non fosse del tutto da escludere la possibilità che S. Bernardo avesse svolto un ruolo
molto importante nel coordinamento della loro missione.
All'improvviso alla fine del 1126 Hugues de Peyens e Andrè de Montbart lasciarono
Gerusalemme e tornarono in Europa. I due cavalieri giunsero in Francia nel 1127 e nel
gennaio del 1128 parteciparono a quello che sicuramente rappresentò l' evento più
significativo della storia dell' Ordine. Il Concilio di Troyes convocato praticamente per
loro da Bernardo da Chiaravalle, il quale partecipò in veste di segretario, il 13 Gennaio
del 1128 ne segnò il riconoscimento ufficiale, ed il Cistercense Jehan Michel redasse la
loro regola sicuramente ispirato da S. Bernardo.
Questa nella sua essenza religiosa assomigliava molto alla regola Cistercense, mentre
nella sua essenza militare assomigliava alle prescrizioni cavalleresche del Ramoscello
Rosso dell' Irlanda Celtica.
Al Sinodo di Troyes S. Bernardo ne aveva delineato la
Regola e aveva ottenuto il pieno sostegno della chiesa per la loro espansione. Da quel
momento con una serie di Sermoni come il "De laude novae militiae" egli si impegnò a
promuovere il giovane Ordine usando tutto il suo prestigio e la sua influenza per
garantirne il successo.
I risultati furono spettacolari, tanto che le adesioni di nuovi cavalieri si moltiplicarono
in tutta la Francia ed in seguito anche in molti altri paesi Europei. Si raccontava che
Ugues de Payens fosse tornato a Gerusalemme subito dopo il Sinodo con un gruppo di
trecento cavalieri. Al nuovo Ordine cominciarono ad affluire donazioni in denaro ed in
proprietà terriere, che ben presto resero i Templari influenti anche dal punto di vista
politico.
Alla fine del XII secolo l'Ordine era diventato straordinariamente ricco e
potente, gestiva un sofisticato sistema bancario internazionale e possedeva terre in tutto
il mondo allora conosciuto.
Tutto ciò era sicuramente dovuto all'intervento di S.
Bernardo ed alla sua continua solidarietà mostrata a loro favore negli anni che seguirono.
Ai tempi di S. Bernardo il Re di Francia era obbligato a condurre di persona le guerre
contro i signori Feudatari che razziavano i viaggiatori sulle strade a meno di dieci leghe
da Parigi.
S. Bernardo diceva abbastanza cinicamente che le crociate avevano un
doppio vantaggio, sbarazzare il proprio paese dai briganti, dando a questi il modo che
potessero rendere un utile servizio in oriente.
Essere mercante e trasportare merci era un mestiere molto pericoloso nel medioevo.
Oni uomo non nobile , se non possedeva una specie di franchigia, di immunità, poteva
essere sequestrato mentre transitava sulle strade feudali ed essere messo al servizio del
proprietario del territorio sul quale transitava. I soli che godevano di una certa immunità
erano coloro che stavano al servizio dei potenti o gli uomini di chiesa, per il sequestro dei
quali si sollevava l' apparato clericale.
La potenza della chiesa era tale che faceva
riflettere qualsiasi potente prima di agire. Praticamente solo i monaci potevano circolare
liberamente in quanto garantiti dal loro abito e dalla loro povertà.
Le vie di comunicazione sono sempre state la base di ogni civiltà, pertanto i Templari,
ben consapevoli di questa prerogativa, svilupparono specialmente in Francia, una rete
stradale sicura, dove il transito delle merci era garantito dalla loro presenza armata e le
loro commende erano costruite sulle loro strade ad una distanza di una tappa giornaliera,
ed ogni commenda era una terra con diritto d' asilo per tutti ed era chiamata Hopitol.
In questo modo i Templari crearono un sistema di strade sicure sulle quali i loro
uomini d' armi assicuravano alle merci di giungere a destinazione ed ai pelleqrini di
transitare sicuri.
Essi assicurarono cosi la libera circolazione e con l' abolizione dei
pedaggi sulla loro rete stradale evitarono il levitare dei prezzi, altrimenti le merci caricate
degli oneri di transito avrebbero aumentato notevolmente il loro valore prima di giungere
a destinazione.
I loro Hopitol non accoglievano soltanto i mercanti in transito ma anche le loro
mercanzie che venivano custodite in appositi magazzini. Un articolo della loro Regola
vietava agli appartenenti all' Ordine, anche se era un dignitario, di vendere qualsiasi cosa
appartenente all' Ordine senza la previa decisione del Capitolo. Questo accorgimento
escluse l' inserimento ne11' Ordine di mercanti.
I Templari accettavano inoltre la
custodia delle merci nelle loro Commende, previo un modesto compenso, consentendo
così ai contadini dei dintorni di mettere al sicuro i loro raccolti dai saccheggi e dalle
imposte dei signori e del clero.
In questo modo essi favorirono il commercio e crearono mercati nei quali le merci
potevano essere distribuite.
Il loro sistema economico era basato sulla circolazione
delle merci e del denaro, favorendo così il benessere di tutte le classi sociali e utilizzando
la mano d'opera per la costruzione di strade, case, chiese, cattedrali, commende, ponti e
quant' altro necessario alla società di quel tempo.
Favorirono anche la circolazione del denaro, costituendo un sistema bancario
moderno ed efficiente, dove una persona poteva depositare una certa somma e poi, per
mezzo di una carta di credito, questa poteva riscuotere la somma depositata in qualsiasi
commenda, permettendo così all' interessato di viaggiare senza il rischio di subire furti o
rapine.
Furono inoltre esperti contabili di molti signori, di Vescovi e persino, fino al momento
della loro soppressione, i custodi del tesoro reale di Francia. Essi divennero ben presto
depositari di ingenti fortune e non avendo la possibilità di spenderli, instaurarono un
sistema di prestiti, ma contrariamente ai Giudei e ai Lombardi che praticavano l'usura, essi
si accontentavano di un modesto interesse, per questo favorirono moltissimo le classi
sociali più debol i.
Crearono persino un sistema di prestito su pegno che era attivo in
ogni commenda.
Acquistarono a nome dell'Ordine moltissime terre che poi diedero in
uso ai contadini per cifre modeste, ma questa loro politica incrinò notevolmente il sistema
feudale vigente.
Sicuramente questa politica Templare non fu del tutto casuale. Per i Templari la loro
missione era quella di soccorrere e di liberare. In Palestina il loro compito ufficiale fu
quello di proteggere i pellegrini dai briganti che li derubavano ed uccidevano sulle strade
del pellegrinaggio.
In Europa invece liberarono intere popolazioni dalla fame,
liberarono servi e braccianti dal giogo dei signori feudali e dai vescovi. Nei loro recinti
vivevano molte persone che praticavano varie arti e mestieri, quali tessitori, fabbri,
muratori e carpentieri. Inoltre furono i Templari che ottennero da S. Luigi Re di Francia,
l'esenzione di pagare le tasse per le loro confraternite di costruttori di chiese, tutte le loro
azioni furono mirate verso la protezione dei deboli, la liberazione della schiavitù e dell'
ingiustizia.
Sarebbe interessante analizzare in modo più profondo gli avvenimenti storici che
portarono alla costituzione de11' Ordine del Tempio, cons iderando il pensiero autentico
di chi li protesse, indagando in che modo il tempio e tutto il suo contesto ideologico
costituissero un tentativo di sovvertire le strutture del potere medioevale, per trasformare
i Principi che avevano fino a quel momento governato l'Europa dopo il diffondersi della
fede Cristiana.
Il 27 Aprile dell' anno 1147 si tenne nella casa del tempio di Parigi il Capitolo
generale dell'Ordine, al quale parteciparono 130 Templari ed il Re Ludovico il Giovane. A
questo Capitolo il Papa Eugenio III, un tempo monaco di Citeaux, concesse all'Ordine la
Croix Pattée rossa a otto punte, che da quel giorno i Templari portarono sul lato sinistro
al di sotto del cuore sui loro bianchi mantelli.
Il bianco mantello era segno di investitura, di qualificazione, di stato, di funzione, era
un previlegio esclusivo che l'ordine a volte dovette difendere : « A nessun altro, dice la
regola, è concesso di avere bianchi mantelli, salvo ai suddetti cavalieri di Cristo; che
quanti hanno abbandonato la vita tenebrosa grazie all' esempio dei bianchi vestiti si
riconosceranno conciliati col proprio Creatore ». Secondo le parole di Papa Innocenzo
III, il bianco mantello li designava espressamente come : « Strappati alla massa di
perdizione, che stanno davanti al Trono di Dio e che lo servono giorno e notte nel Suo
Tempio, coloro su cui Colui che siede sul Trono stabilirà la Sua presenza ». ( Apocalisse
VII, 13-16).
Non solo come riconciliati ma come riconciliatori. Ho insistito sul numero di nove
cavalieri e sui nove anni in cui essi lavorarono in modo umile e silenzioso in
Gerusalemme prima del loro riconoscimento ufficiale per riflettere sul simbolismo del
numero nove presente in molte chiavi simboliche dei Templari.
A questo punto ritengo interessante ricordare ai lettori di questa rivista che Beatrice
apparve a Dante coperta con gli stessi colori dell'abito Templare, la prima volta quando
aveva nove anni e poi successivamente quando era diciottenne (9+9) e tutte due le volte i
colori della veste sono la sola cosa che Dante ritiene di dover comunicare del suo aspetto
esteriore. ( Vita Nuova cap. 2-3).
Forse non fu nemmeno casuale la scelta della sede del Concilio che approvò la
Regola, in quanto quella regione fu in seguito sede di ulteriori avvenimenti che si
sarebbero rivelati di grande importanza. Fu proprio da questa regione che alla fine del
XII secolo parti il trovatore Chrètien de Troyes che avrebbe dato inizio a quella forma
poetica del mito medioevale della "Ricerca del Santo Graal". Per quanto riguarda invece
le chiavi simboliche dei Templari, la numerologia funzionò in modo perfetto in quanto ad
essi bastò usare chiavi che potessero essere comprese solo da .coloro che conoscevano il
sapere Tradizionale, perché come accadeva per le dottrine Esoteriche dei Vangeli, " chi
poteva sentire sentiva, chi poteva vedere vedeva ".
Gli bastò ricorrere al simbolismo
dei numeri tre, nove e tredici per evidenziare messaggi concreti in modo che solo coloro
che erano in grado di capire il linguaggio segreto dei numeri poteva accorgersi che dietro
una data, un numero o il colore del mantello si potevano cogliere determinati messaggi.
S. Bernardo designò l'ordine col nome di “Militia Dei” ed i suoi membri con quello
di “Minister Christi” ed il loro Ordine fu denominato “ Ordine Hierosolomitano (5) dei
poveri cavalieri di Cristo”. Per S. Bernardo, come più tardi per Dante, si trattava di una
Milizia Santa, della “Privata Milizia di Dio” realizzante la sintesi delle grandi antinomie
dell'Azione e della Contemplazione in una vocazione unica, ma in una duplice rinuncia,
che è quella degli eletti apocalittici : « A Colui che ha fatto di noi dei Re e dei Preti per
Dio Suo Padre......». (ApocalisseI,6)
Per il Santo innamorato di Maria, la residenza reale della “Militia Dei” non era di
questo mondo, ma bensì il Tempio della Gerusalemme Spirituale : « E' il Tempio di
Gerusalemme che ess i abitano, anche se questo non è, sotto il rapporto della
Costruzione, lo stesso Tempio antico e molto venerato di Salomone, il loro non è
inferiore sotto il rapporto della gloria....... La bellezza del primo era fatta di cose
corruttibili, quelle del secondo è la bellezza della grazia, del culto pio di coloro che
l'abitano e della più regolare delle dimore».
L'elemento importante stava nel fatto che l'Ordine era presente e dimorava tra le rovine
del Tempio di Salomone, il centro del mondo per gli Ebrei, Cristiani ed Arabi. Cosa
poteva significare il fatto di essere in possesso di que11' asse planetario se non il
riconoscimento di possedere le chiavi della sacralità e pertanto del potere supremo
emanato dai cieli. Il Tempio di Salomone, anche se in rovina, custodiva la parola ed il
potere del Dio di Israele, dato che fu costruito, come afferma il libro dei Re, secondo le
precise indicazioni che Dio comunicò a Salomone.
Gran parte del mondo Cristiano,
Ebraico e Islamico era cosciente che quel luogo costituiva ancora il punto d' incontro del
Divino con l'umano.
Anche se in rovina, conservava quel tocco di Sacralità che Dio gli conferi
intervenendo direttamente nell'atto della sua edificazione, indicando le misure, le strutture
ed i materiali da utilizzare.
Essere in possesso del Tempio significava anche detenere
uno dei segreti meglio custoditi dell' umanità.
Comunque nove anni di lavoro umile e silenzioso, eseguito con discrezione assoluta,
convinsero molti che i Templari fossero riusciti ad estrarre da quelle antiche pietre alcuni
segreti di carattere trascendente che avrebbero permesso loro di operare come Ordine
religioso conformemente alla più alta volontà di Dio. Una volontà che avrebbe potuto
mutare i destini del mondo. L'approvazione dell'autorità ecclesiastica alla costituzione dell'
Ordine del Tempio, conclamata da S. Bernardo, l' autorità più rispettata della chiesa di
quel tempo che lodò apertamente le virtù dei frati guerrieri costituiti in collettività armata,
significò per i governanti e per la gente comune la salvezza definitiva del mondo cristiano,
la risposta della volontà di Dio a quanto promesso dai Papi e sostenuto dalla riforma di
Cluny, di convertire il mondo in una grande Teocrazia nella quale gli insegnamenti della
chiesa, per l' acquisizione della salvezza eterna fossero qualcosa di concreto volto a
compiere il destino Divino che la cristianità custodiva per l'intera umanità.
S. Bernardo nella sua opera “De laude novae militiae” dedicata all' Ordine Templare,
ne elogia la sua durezza ed il suo coraggio, invocando la salvezza eterna sia per coloro che
fossero morti, sia per quelli che avessero ucciso in nome di Dio. Esaltandoli per la loro
dolcezza in qualità di monaci e per il loro indiscusso rigore in qualità di guerrieri : «Il
cavaliere di Cristo è un crociato permanente volto ad un doppio impegno, contro la carne
ed il sangue e contro le potenze spirituali negative.
Avanza senza paura guardando a
destra e a sinistra, ha il proprio petto protetto con l'armatura di ferro, l'anima con
l'armatura della fede.
Forte di questi scudi non teme né gli uomini né il demonio .
Avanzate pure sicuri cavalieri e cacciate con il cuore intrepido i nemici della Croce di
Cristo. Quanto gloriosi sono i vostri combattimenti, com' è fortunata la morte che vi
coglie in battaglia ».
La loro Regola, approvata al concilio di Troyes, era composta da 72 articoli con una
sequenza di norme proprie di un convento, nel quale si sostituiva l' armatura con l' abito
monastico e venivano dettati precetti in base ai quali si ammorbidivano qli obblighi
riguardo i digiuni, le astinenze e stabilivano una realtà gerarchica che trasformava i frati
in cavalieri.
Ai 72 articoli che componevano la Regola originaria ( 9x8=72) dove si
ritrova ancora il simbolismo del numero nove, se ne aggiunsero altri 686, che facevano
parte degli statuti gerarchici e che riquardavano in dettagli la vita Templare ed i suoi
obblighi, sia in pace che in guerra. Sicuramente la regola Templare concepita e scritta da
padri Cistercensi, presentava numerosissime similitudini con quella di quest' Ordine,
tanto che in quel periodo i Templari erano denominati cavalieri Cistercensi.
Ritornando ad analizzare il periodo storico seguente la costituzione dell'Ordine del
Tempio, si deve considerare che il decennio 1130-1140 fu il periodo in cui nacque l'
architet tura Gotica, apparendo misteriosamente sul terreno di Francia e trovando in S.
Bernardo il grande promotore dell'espansione di questo nuovo stile costruttivo.
Ricordando le persistenti voci che indicavano i Templari come gli scopritori di un' antica
fonte di conoscenza, viene spontaneo chiederci se, pur non essendo riusciti a trovare
l'Arca dell'Alleanza, nei loro scavi sul monte del Tempio, avessero scoperto pergamene
contenenti i progetti relativi il Tempio di Salomone, cioè segreti architettonici
riguardanti proporzioni geometriche e risonanze acustiche di armonia ed equilibrio
conosciute dagli antichi costruttori di Piramidi. Queste supposizioni sono confortate dal
fatto che l'architettura Gotica contiene in sé tutte queste prerogative e dalla particolarità che
i Templari furono anche grandi Architetti.
Nel 1139 Papa Innocenzo II, la cui candidatura Pontificia era stata caldamente
sostenuta da S. Bernardo (6), concesse all'Ordine un previlegio unico, il diritto di
costruirsi da soli le loro chiese con bolla papale "Omne datum optimun". Essi in seguito,
forti di questo previlegio, un po' ovunque costruirono luoghi di culto, spesso a pianta
circolare come la chiesa del Tempio di Londra, che divennero un segno distintivo
dell'attività dei Templari.
La testimonianza di un monaco tedesco di nome Teodorico
che nel 1174 visitò Gerusalemme cosi descrive:«Negli edifici di loro proprietà hanno
costruito scuderie con volte, archi e tetti di altro genere che secondo la nostra stima
possono contenere 10000 cavalli con staffieri. Dall'altra parte del loro palazzo i Templari
hanno costruito una nuova casa in cui tutto, dalle dimensioni, alle celle, ai refrettori, dalle
scale al tetto, va molto al di là delle usanze di quella terra, anzi il suo tetto è talmente alto
che, se dovessi dire quanto, chi mi ascolta non mi crederebbe». Purtroppo questa
costruzione fu recentemente abbattuta per le opere di rinnovamento autorizzate dalle
autorità musulmane, ma la testimonianza del monaco dà l' impressione di qualcosa di
architettonico molto avanzato rispetto i tempi, tanto da rimanerne enormemente
impressionato per gli alti tetti ad archi costruiti, cioè si trattava di un' architettura con delle
conoscenze molto superiori a quanto a quei tempi consentito.
Non sembra del tutto
casuale che le loro costruzioni con tetti alti fatti ad arco, corrispondano alle caratteristiche
distintive dell' architettura Gotica espressa nelle cattedrali francesi.
Riconsiderando quanto si sa della vita e delle idee di S .Bernardo e di quanta influenza
egli esercitò sull' iconografia delle Cattedrali e come fieramente in vita si oppose alla
proliferazione di immagini dichiarando espressamente : « Non
vi deve essere
decorazione, solo proporzione», non possiamo disconoscere che la chiave dell'architettura
Gotica si basava proprio su proporzione, equilibrio e armonia architettonica, ammirabili
ancora ai nostri giorni nelle Cattedrali di Chartres ed altre di Francia. L'introduzione nella
loro costruzione di volte a nervature, archi ad ogiva, avevano consentito ai costruttori di
utilizzare la perfezione geometrica per esprimere la compless ità delle idee religiose. Si
potrebbe anzi dire che architettura e fede sono fuse nel Gotico del XII secolo.
S. Bernardo alla domanda “Che cos'è Dio”, aveva risposto sorprendentemente con le
parole : « E' lunghezza, ampiezza, altezza e profondità ». Come sicuramente molti
sanno, l'architettura Gotica vide la luce in Francia nel 1134 con la costruzione della torre
settentrionale della cattedrale di Chartres e negli anni immediatamente precedenti questo
avvenimento S.Bernardo intrattenne una stretta amicizia con Goffredo Vescovo di
Chartes comunicandogli il suo straordinario entusiasmo per lo stile Gotico. Riflettendo
sul fatto che gli anni in questione furono proprio quelli seguenti il ritorno dei Templari in
terra di Francia, appare assai probabile che questi avessero effettivamente avuto accesso
ad antiche fonti di conoscenza riguardanti la scienza delle costruzioni e che queste fossero
state trasmesse a S. Bernardo loro ispiratore e protettore.
2. Custodi della Terra Santa
E' sicuramente noto ai lettori interessati all' argomento che una delle attribuzioni dei
Templari fu quella di "Custodi della Terra Santa". Questo riferimento veniva loro
attribuito in quanto essi custodivano sia materialmente perché residenti nel luogo, sia
spiritualmente, essendo quella Terra Santa il Centro Supremo in cui erano conservati gli
elementi essenziali della Tradizione Primordiale. I Templari quindi divennero guardiani
di quel Centro Spirituale che aveva il compito di vivificare l'occidente Cristiano.
Essi inoltre, tramite S. Bernardo, divennero depositari anche di quell'antica Tradizione
Celtica che voleva il “Centro Spirituale” o “Polo Celeste” un tempo situato a nord
dell'Inghilterra e che in seguito a causa della scomparsa del Graal si era trasferito in
oriente. A testimonianza che essi furono veramente i depositari dell'unità essenziale di
varie Tradizioni, lo conferma il Sigillo del Gran Maestro dell' Ordine che raffigurava il
tempio di Salomone centro dell'Antica Saggezza e Sacro a più Tradizioni. Ritengo a
questo punto necessario chiarire alcuni aspetti circa l'inglobamento di alcuni elementi
peculiari della Tradizione Celtica nella Tradizione Cristiana.
La denominazione greca "Galati" e quella latina che ne deriva "Galli" sono entrambe
la denominazione dei Celti. Le popolazioni definite con questo termine erano i popoli
compresi all'epoca del loro massimo sviluppo tra l'Atlantico e l' Asia Minore. La Casta
Sacerdotale che esercitava l'Autorità Spirituale presso questi popoli era denominata dei
Druidi.
Presso i Celti il Potere Temporale e l'Autorità Spirituale non erano separati
come funzioni differenziate, ma unite nel loro principio comune.
I territori abitati da
queste popolazioni furono invasi dai Romani, dai Germani e dagli Scandinavi. I popoli
facenti parte di questa società erano:« Gli Angli, i Sassoni, i Franchi e i Goti», che in
seguito alle varie invasioni si ridussero in Irlanda, parte in Scozia, al Galles, alla
Cornovaglia ed alla Bretaqna francese.
Fu in queste regioni che si mantenne, con
un'organizzazione nascosta, la Tradizione Celtica, almeno fino a quando alcuni dei suoi
elementi furono trasmessi ed incorporati nella Tradizione Cristiana. Uno di questi
elementi fu sicuramente il Simbolismo del Calderone o Vaso Sacro dei Druidi,
incorporato nella cerca del Sacro Graal, mentre altri elementi Ermetici possono essere
riconoscibili nella leggenda di Re Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda. Questa
eredità Celtica forniva alla cavalleria Cristiana il modello simbolico del cavaliere errante, il
quale con la ricerca del Santo Graal doveva realizzare il suo modello di ricerca. Il
momento di massima espressione storica di questa cavalleria errante, dove l'idea del
guerriero e del pellegrino trovò la sua realizzazione nel senso esoterico di ricerca della
Parola Perduta o cerca del Santo Graal, coincise con la conquista della terra Santa e le
crociate. Alla ricerca del Graal si sostitui quindi la Guardiania della Terra Santa ed il
cavaliere errante divenne cavaliere monaco, in quanto la conquista del Centro della propria
Tradizione lo rendeva partecipe della pace ad esso inerente.
La dimostrazione di questo la si ritrova nel fatto che la maggioranza della commende
Templari esistenti in Europa, prima della soppressione dell'Ordine erano costruzioni
agrico1e nelle quali i cavalieri si manifestavano quasi esclusivamente sotto l' aspetto
pacifico di coltivatore di terre. Nel caso dell' Ordine del Tempio lo scopo dichiarato
presentava un chiaro significato iniziatico, il pellegrinaggio in Terra Santa analogamente
alla cerca del Santo Graal e la Ricerca della Parola Perduta erano i simboli del percorso
dei Piccoli Misteri, percorso che conduce al centro del dominio dell' individualità umana.
La funzione dei Templari rappresentava quindi la garanzia della possibilità umana di
accesso a questo Centro, come anche quello di impedirlo a coloro che non presentavano le
neces sarie qualificazioni, ed è proprio a questo che si riferiva la loro denominazione di
"Guardiani della Terra Santa".
Pertanto la costituzione dell' Ordine del Tempio poteva essere ispirata solo da un
detentore della Tradizione stessa e non è illegittimo pensare che S. Bernardo potesse
essere per la Cristianità medioevale ciò che nella Tradizione Islamica è chiamato "Polo
dell'epoca" e potesse rappresentare quindi il Centro nell'ambito della Tradizione Cristiana.
S. Bernardo nella sua duplice funzione di monaco e di cavaliere rappresentava per la
Cristianità il Principio comune dell'Autorità Spirituale e del Potere Temporale.
I
Guardiani della Terra Santa quindi rappresentavano la copertura del Centro Supremo in
cui era conservato il deposito della Tradizione Primordiale e la copertura che da un lato
serviva a nasconderlo agli sguardi profani, dall' altro assicurava certe relazioni regolari
con l'esterno.
Non credo fosse casuale che Dante, per la fine del suo Viaggio Celeste, assuma come
guida S. Bernardo, indicando in questo modo che solo per mezzo della Conoscenza
Templare era possibile, nell' ambito del Cristianesimo, per le condizioni della sua epoca,
l'accesso al Supremo Grado della Gerarchia Spirituale. A questo punto ritengo necessario
precisare che costituire la via d'accesso al Centro Supremo, non significa necessariamente
che l'appartenenza a quest'Ordine o a qualche sua filiazione comportasse la Conoscenza
effettiva del collegamento con il Centro.
Evidentemente esisteva tra i Templari un
diverso Grado di partecipazione a questa realtà, grado che nella sua funzione più bassa
non escludeva il rischio di degenerazioni più o meno evidenti.
Il collegamento diretto con il Centro Supremo comportò da parte dei Templari la
Conoscenza della Dottrina Unica che è al di sopra di tutte le forme Tradizionali, quindi
anche la capacità di comunicare con i rappresentanti di altre tradizioni che svolgevano un
ruolo simile al loro. Non a caso in Terra Santa l' Ordine configurò un' idea di
Cristianesimo molto diversa da quella che Roma concepiva. Il contatto con l'Islam
Fatimita Iranico, con i suoi schemi mistici e le sue concezioni Teocratiche, determinò nell'
ambito Templare l' idea, anche se teoricamente universale, che le cosi dette Tradizioni del
Libro potevano e dovevano convivere coalizzandosi affinchè emergesse una fede, se non
comune, sufficientemente elastica da riconoscere ed adorare un Unico Principio, anziché
uccidersi per far prevalere varianti dottrinali diuna o dell'altratendenza.
Sicuramente la chiesa romana era la meno adatta ad accettare e capire idee di questo
genere , questa chiesa che si era distinta fin dalla sua ascesa al potere per l' intransigenza
e la volontà indiscriminata di proselitismo, con una necessità viscerale di disfarsi di tutti
coloro che non accettavano ciecamente le norme di obbedienza propugnate dal gruppo
imperiale del pontificato romano.
Quale che fosse la forma assunta della dottrina Templare non ci è dato saperlo con
precisione, ma sicuramente questa rappresentava lo schema simbolico del suo
atteggiamento vitale, in quanto il Tempio si accorse rapidamente che il ruolo di emissario
che l' autorità romana pretendeva di demandargli, pur avendo sempre proclamato fedeltà
alla chiesa, ebbe coscienza del suo ruolo come forza d' impatto, profondamente rispettata
nell' ambito della Cristianità e anche se non rappresentava un suo compito intraprese
l'obiettivo di un ideale sinarchico che inglobava Ebrei, Musulmani e Cristiani capace di
sostituire la chiesa romana ormai corrotta e simoniaca, con una nuova chiesa in grado di
applicare l'idea Cristiana Primitiva, ampliandola alle altre religioni del Libro per
accomunare popoli .in un destino Spirituale comune.
Quando questi obiettivi non
furono più perseguibili a causa della distruzione perpetuata dalla chiesa stessa nei suoi
confronti, il loro spirito e le loro dottrine furono conservate ed in un certo senso
cristallizzate nella lettera e nella pietra rispettivamente dai Fedeli d' Amore e dai
Costruttori di Cattedrali.
3. Baphomet
Una delle accuse più gravi rivolte all' Ordine fu quella della presunta adorazione
segreta di una figura diabolica che i Templari avrebbero sostituito all' immagine del
Salvatore sulla Croce, immagine che i nuovi cavalieri per essere ammessi, dovevano
calpestare in segno di rifiuto dei principi stabiliti dal Cristianesimo. In alcuni atti del
processo si poteva leggere che in diverse magioni dell'Ordine si conservavano idoli a
forma di testa, rappresentante un anziano barbuto e nero, di aspetto diabolico che i frati
Templari adoravano nelle loro cerimonie più solenni e segrete. L' accusa si basava su
questo atto di adorazione satanica durante il quale i monaci chiedevano favori proprio
come li avrebbero chiesti a Nostro Signore.
Inoltre effettuavano la cerimonia di fedeltà all' Ordine davanti a questo idolo, pur
giurando solennemente di custodire il segreto delle loro iniziazioni, consacrando una
corda (8) che serviva loro come cinghia, (S.Bernardo aveva prescritto che i templari la
portassero giorno e notte) avvolgendola intorno a questo idolo, il cui nome segreto era
Baphomet. (9)
Un cavaliere, certo Geraldo de Marciali, il l0 Giugno del 1308 dichiarò di non saper
nulla di un idolo, ma di aver invece avvolto la propria cintura, secondo l'usanza dei
pellegrini, intorno ad una certa colonna della chiesa della Madonna a Nazaret. Ancora ai
nostri giorni si può vedere che nella grotta della chiesa dell'Annunciazione, dove
tradizionalmente l'Arcangelo Gabriele si presentò a Maria, si eleva una colonna alta circa
due metri: la sua metà inferiore è incompleta in quanto il ceppo e la parte superiore che
pende dal soffitto non sono collegati. La parte mancante di quella colonna sembra che sia
stata consumata quasi limata dallo sfregamento delle corde dei Templari che ve le
avvolgevano in senso devozionale verso l'Arcangelo Gabriele , protettore di Maria
patrona dell' Ordine Templare.
Molti studiosi, facendo riferimento ai legami intercorsi tra i cavalieri Templari ed i
mistici Islamici,
tradussero il termine Baphomet con Maometto. La loro scarsa
conoscenza della tradizione Islamica gli ha cosi permesso di ignorare che l'Islam non
avrebbe mai potuto ispirare un simile comportamento in quanto i Musulmani considerano
il loro Profeta solo un uomo Illuminato, non un Dio e nel loro credo è assolutamente
esclusa l'adorazione di idoli.
Secondo altri studiosi invece il termine Baphomet
deriverebbe dall' espressione araba "Ouba el Phomet" che significa letteralmente "La
bocca del Padre", cioè "La parola di Dio".
Un' interessante spiegazione sull' argomento ci viene fornita sull' argomento da un
esperto di Cristianità primitiva, il professor Hugh Schonfield, che aveva decifrato un
codice usato in molti famosi papiri del Mar Morto. Un codice di cui i Templari avrebbero
potuto venire a conoscenza durante il soggiorno in Terra Santa. Il professor Schonfield
mostrò che scrivendo il nome Baphomet con questo codice e poi traslitterandolo, ne
risultava la parola greca "Sophia" che significa Sapienza.(10)
Adorando il Baphomet i Templari adoravano il Principio della Sapienza. Questo
stesso Principio lo si ritrova nella dottrina degli antichi Egizi quando adoravano il Dio
Thot quale personificazione della mente di Dio. Thot rappresentava presso gli Egizi
l'antico Dio lunare sostituto del sole, segretario del tribunale dei morti, creatore del
mondo, presiedeva alla parola, alla scrittura ed alla scienza. Presso i Greci questo Dio
ebbe culto col nome di Ermete Trimegistro.
Adorando il Baphomet i Templari altro non adoravano che il Principio della
Sapienza come gli Egizi adoravano Thot personificazione della mente di Dio, autore di
ogni opera in ogni branca della Conoscenza sia umana sia Divina, l'inventore di
Astronomia, Astrologia, scienza dei numeri, Matematica, Geometria, Medicina e
Botanica. Fatto che meriterebbe ulteriore approfondimento è quello che nella Tradizione
Massonica, Thot è considerato il loro patrono. David Stevenson nel suo libro " Le
origini della Massoneria " così scrive: « I massoni venerano Thot nella sua ultima
incarnazione come Hermes, il Dio Greco della Saggezza. I Greci avevano identificato
il loro Dio Hermes con il Dio Egizio Thot, scriba degli Dei e lui stesso Dio di saggezza».
Questo accostamento tra il Templarismo e la Massoneria è stato espressamente voluto
in quanto molti altri individui presentarono idee, apparse per la loro epoca molto avanzate,
ma probabilmente risultavano tutti iniziati alla stessa Tradizione conoscitiva.
Un
esempio evidente è rappresentato dall'Astronomo Copernico, la cui Teoria di un
Universo Eliocentrico aveva stravolto completamente la visione medioevale fondata sulla
centralità della terra. Lo studioso affermò chiaramente che era giunto a questa intuizione
studiando gli scritti segreti degli antichi Egizi, principalmente le opere segrete del Dio
Thot. La stessa analogia si ritrova nel matematico Keplero il quale ammise che nel
formulare le sue leggi delle orbite planetarie "rubò i vasi d'oro degliEgizi". Il grande Isaac
Newton affermò che gli antichi Egizi nascondevano sotto il velo dei riti religiosi e dei
geroglifici, misteri che andavano al di là delle capacità intellettive del popolo comune.
Grazie alla sua grandezza intellettuale, Newton gettò le fondamenta della Fisica, come
disciplina moderna, compiendo scoperte epocali nel campo della Meccanica, dell'Ottica,
dell'Astronomia, della Matematica con il teorema del Binomio, ed il calcolo differenziale
ed Integrale, ma soprattutto nella formulazione della legge della Gravitazione Universale
che aveva completamente modificato la visione umana del Cosmo.
Ciò che invece ancor oggi è poco conosciuto del grande scienziato è che esso trascorse
molta parte della sua vita immerso nello studio dei trattat i Ermetici ed Alchemici di cui la
sua biblioteca era molto fornita. Egli era profondamente convinto che un insegnamento
segreto fosse contenuto nelle pagine delle Sacre scritture, tra le quali egli prediligeva
quelle dedicate al Profeta Daniele dell'Antico Testamento e Giovanni del Nuovo.
Secondo il suo modo di pensare, gli scritti profetici contenevano una simbologia nascosta
che per essere compresa richiedeva, da parte dello studioso, una interpretazione
completamente diversa.
Attento studioso dell'Apocalisse, studiò anche l'ebraico per
meglio comprendere il testo.
Uno studio analogo compì sul libro di Ezechiele e basandosi sui contenuti di
quest'opera, ricostruì accuratamente le piante del Tempio di Salomone, costruito
appositamente per contenere l'Arca dell'Alleanza e disse che la sua architettura
rappresentava un testo cifrato dell' Universo ed egli era certo che se fosse riuscito a
decifrare questo testo sarebbe giunto a conoscere la mente di Dio. Newton aveva inoltre
affermato che la legge della gravitazione esposta nei suoi "Principia" non era una sua
scoperta, ma anzi era già conosciuta e pienamente compresa in tempi antichi, ed egli
l'aveva decifrata decodificando la letteratura sacra delle età passate. In altre occasioni egli
aveva parlato del Dio Thot asserendo che altri studiosi delle scienze avevano tratto
cognizioni dagli insegnamenti del Dio-Luna Egizio.
Ritornando al processo dei Templar i, la commissione pontificia incar icata di accertare
la fondate zza delle accuse rivolte all' Ordine, si trovò ad affrontare un' accusa piuttosto
particolare; nella cerimonia di ammissione all'Ordine, alcuni cavalieri confessarono che il
neofita veniva accolto con una serie di baci che venivano distribuiti dal maestro
cerimoniere, sulla bocca, sull'ombelico, sul ventre e lungo la spina dorsale.
Gli accusatori interpretarono questo rituale come un atto di sodomia, ma i Templari
respinsero sempre con sdegno quest'accusa. Ben osservando la pratica dei baci
considerati osceni, potrebbe contenere un problema di tutt' altra portata, se questo fosse
ricollegato al simbolismo della Rosa e della Spina, riscontrabile sui libri Sacri di molte
Tradizioni. Bisogna inoltre ricordare che l'Arca dell'Alleanza di cui parla la Bibbia,
sarebbe stata costruita col legno di una pianta resinosa dal nome di Spina Christi.
Nel simbolismo Cristiano la Spina e la Rosa sono intrecciate a corona intorno al Sacro
Cuore, mentre nel Cantico dei Cantici si può leggere:«Io sono la Rosa Saaron, simile al
Giglio in Mezzo alle Spine». Inoltre la Spina esprime, se riferita simbolicamente alla
spina dorsale umana, custodia del midollo spinale, il canale in cui scorre il fluido vitale.
La tradizione Indù, raffigura questa energia sotto la forma di un serpente addormentato in
una zona del corpo umano situata presso le ghiandole sessuali. L' uomo risvegliandolo
consapevolmente tramite pratiche respiratorie, fa si che la sua forza vitale confluisca in
maniera corretta nel canale della spina dorsale. Questa energia risalendo nella spina
dorsale risveglia vari centri vitali, sedi dei sensi sottili dell'essere umano. Giunta alla
sommità della testa quest' energia dischiude all'uomo la Conoscenza Suprema.
Questo superiore senso di conoscenza venne sempre rappresentato nelle Tradizioni
antiche da un Cobra. Nelle statue dei Faraoni d' Egitto il Grande Iniziato veniva
simboleggiato dal Cobra che si alza in mezzo alla fronte del Faraone. Secondo alcuni
studiosi i Templari sarebbero stati a conoscenza di questo processo iniziatico. I baci
distribuiti sul corpo, probabilmente avevano come funzione quella di simboleggiare il
risveglio nell' individuo della sua forza vitale. Il significato stesso della castità, che si
imponevano con il voto, gli aderenti all'Ordine, consisteva nel deviare la forza sessuale,
convogliandola in una sorta di itinerario interno al corpo per ottenere il pieno controllo
del corpo e della mente. Sicuramente l'antico significato di questa cerimonia era
conosciuto solo da un limitato numero di iniziati, giudicando dalle confessioni rese dagli
imputati davanti alla commissione inquisitrice.
Uno degli ultimi depositari di questo segreto fu sicuramente Giacomo di Maloy,
ultimo Gran Maestro dell'Ordine che secondo la testimonianza di Goffredo di Parigi che
lo vide salire sul rogo il 18 marzo del 1314, nell' isola della Senna chiamat a degli Ebrei
presso Notre Dame, così descrisse l' avvenimento : «Il Gran Maestro quando vide il
fuoco si spogliò, si tolse tutti gli indumenti esclusa la camicia e tranquillamente senza
nessun timore si lasciò legare.
Quando gli legarono le mani egli disse al carnefice:
‘almeno lasciami congiungere le mani per rivolgere a Dio la mia preghiera, perché questo
ne è il momento, essendo in punto di morte e Dio sa quanto ingiustamente. Ben presto
però accadranno disgraz ie a coloro che ci condannano senza giustizia’ ».
Poi rivolgendosi al carnefice gli chiese di poter morire col volto rivolto verso la
Cattedrale di Notre Dame. Gli fu concessa questa grazia e la morte lo colse cosi
dolcemente nel suo atteggiamento di preghiera che i presenti ne rimasero meravigliati.
Narra la leggenda che quando il Gran Maestro ed il suo compagno di sventura, Goffredo
di Charnay furono divorati dal fuoco il popolo raccolse le loro ceneri per conservarle
come reliquia.
Sono ben consapevole che un problema di questa portata non può essere discusso
nelle poche pagine di un articolo. Quanto da me esposto è semplicemente un insieme di
notizie in parte ben note ed altre meno, che possono comunque servire allo studioso serio
e ben preparato, ad elaborarne meglio i contenuti per ampliarli ed approfondir1i.
In un prossimo articolo tenterò di chiarire qualche importante aspetto della ricerca
legata al "Sacro Graal" esponendone, nel limite delle mie conoscenze, le sue origini ed il
suo sviluppo sotto il profilo strettamente Tradizionale della ricerca cavalleresca.
(Sergio Lora )
NOTE
1) Meir Ben Dov: In the shadow of the Temple: The discovery of Ancient Jerusalem,
Keter Publishing House, Jerusalem 1985 - pag. 347
2) Malcom Barber: The origin of the Order of the Temple, in Studia Monastica Vol. XII
1970 pp. 221,222
3) Jean Richard: Le royaume latin de Jerusalem, Presses Universitaires de France, Paris
1953
4) Gaetan Delaforge: The Templar Tradition in the Age of the Aquarius. Pag. 68
5) Termine che indica il pellegrino che va a Gerusalemme
6) F.L. Cross e E.A. Livingstone (a cura di) the Oxford Dictionary (pag.162:Nella
controversa elezione che segui la morte di papa Onorio II nel 1130 S.Bernardo si schierò
contro l' antipapa Anacleto e riuscì ad assicurare la vittoria di Innocenzo II) .
7) Robert Lawlor, Sacred Geometry: phi1osophy and practice, Thames & Hudson
Londra 1989, pag.10.
8) Mallom Barber: The Trial of the Templars - Cambrige Univ. 1989.
9) Non fu certo casuale che Dante nel XVI canto dell’Inferno dica:
Io avea una corda intorno cinta,
corda che servì poi a Virgilio per richiamare l' attenzione di Gerione per farlo risalire dal
baratro e cavalcarlo insieme al poeta per scendere dal 7° all' 8° cerchio. Forse Dante in
entrambi i casi vuol richiamare l' attenzione del lettore per mostrargli la sua appartenenza
all'ordine Templare con il simbolismo della corda e cavalcare in due lo stesso destriero,
rappresentazione del primo sigillo Templare.
10) H.J. Sconfield: The Essene Odyssey. Element Books, Londra 1984 ( in codice è
conosciuto col nome di "Cifrario Atbash")
Dante e l’eresia
In merito alla posizione di Dante nei confronti dell'eresia in generale e in particolare dei
movimenti ereticali che percorsero l'Italia e l'Europa tra il X e il XIV secolo, si può
concordare con le conclusioni della critica ufficiale che in sostanza esclude una precisa
influenza sul pensiero e sull'opera del sommo poeta.
Valga per tutto quanto espresso da Raoul Manselli nell' Enciclopedia Dantesca
Treccani, alla voce “ eresia ”: « In Dante il problema dell'eresia e della sua importanza
nella vita della Chiesa e per la formazione della teologia non sembra aver suscitato
eccessivo interesse per la sicura fede del poeta, che mantenne un fermo atteggiamento di
condanna ».
Se in questa sede ritorniamo sull'argomento è per due ordini di motivi.
Il primo è che l'ipotesi di un Dante eretico fa sovente da sottofondo, più o meno
consapevole, all'opera di molti di quegli studiosi, tra l' Ottocento e il Novecento, cui va il
merito di aver ripreso e sviluppato l'interpretazione dell'opera dantesca in chiave allegorica
e simbolica.
Questa convinzione, se è comprensibile da un punto di vista storico, considerato il
clima fortemente anticlericale in cui tali studiosi emersero, è stata tuttavia un ostacolo di
non poco conto per una comprensione profonda del messaggio esoterico e tradizionale
presente in tutta l'opera dantesca.
Il secondo motivo è legato al fatto che il riconoscere ed accertare che Dante non fu
eretico ci apre la strada ad una miglior comprensione della sua collocazione in un ambito
esoterico e più specificatamente nella più elevata espressione dell'esoterismo cristiano; e
ci consente di capire quale fu il reale rapporto tra Dante e la Chiesa, che non fu di
contrapposizione reale,
ma di tentativo di recupero dello spirito del messaggio
evangelico.
Per cercare di comprendere le ragioni della costruzione di una ipotesi di Dante eretico,
occorre risalire sino al 1300, poco dopo la scomparsa del Sommo Poeta. Il riferimento è
la ben nota vicenda del De Monarchia condannato e dato alle fiamme dal cardinale
Bertrando del Poggetto.
E' il Boccaccio stesso a parlarne per primo nella sua Vita di Dante: « Questo libro più
anni dopo la morte dell’autore fu dannato da messer Beltrando cardinale del Poggetto e
legato di papa nelle parti di Lombardia, sedente Giovanni papa XXII;...il detto cardinale,
non essendo chi a ciò s'opponesse, avuto il soprascritto libro, quello in pubblico, sì come
cose eretiche contenente, dannò al fuoco. E il simigliante si sforzava di fare dell'ossa
dell'autore a eterna infamia e confusione della sua memoria, se a ciò non si fosse opposto
uno valoroso e nobile cavaliere fiorentino, il cui nome fu Pino della Tosa ».
Quindi rogo al libro e tentato rogo delle spoglie di Dante, come per gli eretici, come
accadrà, pochi anni dopo, ad un altro "fedele d'amore", Cecco D'Ascoli.
Nè mancò il
supporto dottrinale e teorico all'accusa di eresia: se ne occupò Guido Vernani, frate
domenicano di Rimini, che nel 1327 ( un anno prima della condanna inflitta dal cardinale
Del Poggetto ) pubblicò a Bologna " De reprobatione Monarchiae composita a Dante" in
cui, confutando gli argomenti danteschi ( non sempre a fondo compresi ), sottolinea i
molti errori in cui l'autore sarebbe incorso e lo bolla come perverso ed eretico.
« Il diavolo - scrive il Vernani , parlando di Dante - bugiardo e padre di menzogna, ha
cotali suoi vasi...Ora tra si fatti vasi ebbevi un tale che molto poeteggiava fantasticando,
sofista verboso, gradito ai più per la esteriore eloquenza delle parole...Lasciando con
disprezzo da una parte le altre opre sue, volli cercare minutamente un suo scritto ch’egli
intitola Monarchia perchè in quello procede assai ordinatamente in apparenza, pur
mescolando con alcune verità molto falso ».
Accanto a questi fatti abbastanza documentati, troviamo la vicenda del coinvolgimento
indiretto di Dante nelle lotte che opposero il cardinale Del Poggetto all'imperatore
Ludovico il Bavaro, ai ghibellini dell'Italia settentrionale e in particolare ai Visconti di
Milano.
I Visconti furono dichiarati eretici e fu bandito l'interdetto contro Milano. Dinanzi agli
inquisitori di Giovanni XXII alcuni testimoni tirarono in ballo Dante, affermando che il
poeta era favorevole ad uccidere il papa e che aveva preso parte ad esorcismi ed
incantesimi effettuati presso i Visconti con tale scopo.
E’ Galeazzo Visconti in
particolare a sostenere di aver utilizzato le arti magiche di “Dante de Alegiro de’
Florencia” per alcuni sortilegi.
E in un manoscritto della Biblioteca della Facoltà di
Medicina di Montpellier si trova una ricetta per trovar la pietra filosofale attribuita a
Dante: “Motivum vel sonetum Dantis philosophi et Poetae Florentini”.
L'idea di un Dante eretico si andò stemperando nel tempo, grazie anche alla strenua
opera di "occultamento" compiuta da diversi "fedeli d'amore", primo tra tutti il vero e
universalmente accettato biografo di Dante, Giovanni Boccaccio.
E tuttavia un'aura ereticale e riformatrice dovette serpeggiare nei secoli, se ad esempio
Flacio Illirico, al tempo della riforma luterana, ritenne di poter includere brani di Dante nel
suo "Catalogus
testium veritatis, qui ante nostram aetatem pontificibus romanis
eorumque erroribus reclamarunt".
Fu la Chiesa stessa ( ad esempio ad opera del
Bellarmino ) a bloccare ogni tentativo della Riforma di impossessarsi di Dante, riportando
le sue opere all'interno della ortodossia cattolica.
Bisogna arrivare all'800 ed al processo liberale di unificazione dell'Italia perchè l'ipotesi
di un Dante eretico venga rispolverata.
In realtà questa idea è mescolata con una
riscoperta di Dante in chiave anticlericale: ai fautori dello stato liberale, Dante appare
come un propugnatore ( in pieno Medioevo! ) dell'unità d'Italia ed ha probabilmente
origine in quel periodo tutta una serie di valutazioni del tutto superficiali e di parte che
faranno ad esempio di Dante un ghibellino oppure, travisando decisamente la dottrina dei
due soli del De Monarchia, un antesignano della separazione tra Stato e Chiesa.
Non saranno soltanto queste le forzature che l'ideologia ottocentesca e romantica
porteranno alla lettura di Dante; basti pensare alla interpretazione tutta intrisa di
romanticismo di Dante ed altri grandi poeti del suo tempo che compongono sonetti e
canzoni per la loro innamorata!
La riscoperta di un Dante anticlericale ( quasi questo concetto potesse avere un senso
nel 1300 ) porteranno studiosi, che peraltro hanno posto le fondamenta per una lettura
simbolica ed allegorica di Dante, ad accettare l'idea che il Sommo Poeta potesse essere
eretico, e Rossetti lo pone tra coloro che esprimevano idee che produssero in seguito la
Riforma, mentre un Aroux ne fa addirittura un "rivoluzionario e socialista".
Questa posizione, si è detto, se comprensibile da un punto di vista del momento storico
in cui si presenta, è stata e può continuare ad essere un impedimento notevole nella lettura
di Dante in chiave esoterica e tradizionale, la sola che ci può permettere una comprensione
storicamente non condizionata ed atemporale del messaggio contenuto nelle sue opere.
Valga a titolo di esempio un articolo, contenuto in una rivista di discreta diffusione
quale fu "Gli Arcani" dell'Ottobre '79, in cui l'autore Arthur Guirdham sviluppando il
tema, titolo dell'articolo" Dante era un eretico" conclude affermativamente, sostenendo
nientemeno che egli appartenne alla setta dei "patarini", i catari in Italia.
Per cercare di far luce sulla questione di Dante eretico, vorremmo innanzi tutto far
parlare Dante stesso; poi analizzare, proprio in chiave di eresia, un rapporto sinora visto
per lo più in termini di letteratura o di filosofia, quello tra Dante e Guido Cavalcanti;
infine tentare di definire, a chiarimento di molti fraintendimenti anche recenti, quanto sia
inconciliabile accostare, sia in Dante che in generale, eresia ed esoterismo cristiano.
Nel "lasciar parlare Dante" occorre premettere che egli visse in un ambiente culturale,
quello della Firenze del suo tempo, fortemente permeato da influenze eretiche.
La presenza dell'eresia valdese risulta testimoniata alla fine del Duecento ed agli inizi del
secolo successivo;
e Firenze è descritta da Ranieri Sacconi, capo inquisitore di
Lombardia nella metà del 1200, come uno dei centri principali della setta dei "patarini",
come venivano chiamati i seguaci dell'eresia catara in Italia. Ed a ciò si aggiunga che
catare erano le famiglie di molti dei suoi compagni ed amici, prima fra tutte quella dei
Cavalcanti, come vedremo più oltre.
Dante ebbe dunque modo di conoscere le eresie correnti nel suo tempo e fu in contatto
con ambienti culturali, come quelli di Bologna e Parigi, costantemente sotto l'occhio
dell'inquisizione. Fu certamente da rapporti culturali come questi, e con altri gruppi più
ristretti, che Dante prese l'avvio per penetrare i più reconditi sentieri dell'esoterismo e della
tradizione, ma l'eresia non dovette interessarlo più che superficialmente.
La sua posizione nei confronti dell'eresia è peraltro desumibile nell’opera dantesca in
passi che lasciano poco spazio a dubbi o fraintendimenti.
Nel Convivio Dante dedica a Beatrice una digressione sull’immortalità dell’anima e
precisa : « Dico che intra tutte le bestialitadi quella è stoltissima, vilissima e dannosissima,
chi crede dopo questa vita non essere altra vita; però che, se noi rivolgiamo tutte e
scritture, si de’ filosofi come de li atri savi scrittori, tutti concordano in questo, che in noi
sia parte alcuna perpetuale » (Conv. II, 8 ).
Nella Divina Commedia , nel sesto cerchio dell’Inferno, Dante colloca gli eretici negli
avelli infuocati:
Qui son li eresiarche
con lor seguaci, d’ogne setta, e molto
più che non credi son le tombe carche.
( Inf. IX, 127-129 )
dice Virgilio alla richiesta di Dante e poco più oltre precisa:
Suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutti i suoi seguaci
che l’anima col corpo morta fanno.
( Inf. X, 13-15 )
Fin qui una chiara indicazione sulla condanna degli eretici. Nel Paradiso Terrestre l’eresia
ritorna, in modo più velato: dopo l’”incursione” dell’aquila contro l’albero che il grifone
ha fatto rifiorire, è la volta dell’attacco contro il Carro trionfale, attacco in cui i
commentatori vedono l’opera delle eresie:
Poscia vidi avventarsi ne la cuna
del triunfal veiculo una volpe
che d’ogne pasto buon parea digiuna;
ma, riprendendo lei di laide colpe,
la donna mia la volse in tanta futa
quanto sofferser l’ossa sanza polpe.
( Purg. XXXII, 118-123 )
L’eresia dunque che Beatrice- Scienza divina mette in fuga. Al di là di - come direbbe
Dante - possibili “più sottili” spiegazioni a quest’ultima allegoria, questo è quanto il
Poeta ci dice sull’eresia.
Resta comunque l’impressione - nelle due brevi e non sempre così palesi descrizioni
dell’Inferno e del Purgatorio - di una sostanziale superficialità di Dante nel trattare il
tema dell’eresia, tema corrente e potentemente presente nel suo tempo. Questa scarsezza
di approfondimento è, a nostro avviso, il segno di una ben precisa posizione: Dante non
è eretico ma nel contempo non è neppure antieretico.
In realtà l’eresia come elemento di riforma o di modificazione che opera nel dominio
della religione exoterica, se poté essere elemento di curiosità o di primitiva attrazione, non
interessò più di tanto il Dante nella pienezza del suo pensiero maturo; come vedremo più
oltre, egli si colloca nei confronti di essa, come di ogni idea di riforma della Chiesa, al di
là dell’eresia stessa.
Un segnale di questa concezione possiamo trarlo dall’iter del sodalizio Dante-Guido
Cavalcanti. Quello che è il primo amico nella Vita Nova, il punto di riferimento dei primi
passi di Dante tra i Fedeli d’Amore, è “volutamente” assente nel viaggio della Commedia.
Percorriamo brevemente le tappe di questa amicizia, così come è possibile fare dalle poche
tracce che sono giunte sino a noi.
L’iniziazione descritta nella Vita Nova è sintetizzata da Dante nel sonetto “ A ciascun
alma presa e gentil core”: tra le molte e diverse risposte, Dante cita soltanto quella che gli
viene dal “primo de li miei amici”.
Così più oltre, nel celeberrimo passo della
identificazione di Beatrice con Amore, è Giovanna a precedere Beatrice ( come il Battista
del passo evangelico ), « una gentile donna , la quale era di famosa bieltade, e fue già
molto donna di questo primo mio amico».
E poco dopo, al cap. XXV in cui si
stabiliscono ben precise corrispondenze tra poesia e iniziazione, senza le quali può
prendere “ alcuna baldanza persona grossa” - e quindi rimare senza saper “denudare le
sue parole” - è ancora Cavalcanti ad essere preso come riferimento nel discernere tra
profani ed iniziati: «e questo mio primo amico e io sapemo bene di queli che così rimano
stoltamente».
Dante e Guido, nei tempi dell’iniziazione e del sodalizio nei Fedeli d’Amore, appaiono
su posizioni molto consonanti e l’attenzione e la devozione di Dante per l’amico è
palpabile nella Vita Nova.
Poi succede qualcosa, che certamente ebbe un riscontro anche negli avvenimenti
politici della Firenze di quei tempi, ma che ha radici altrove.
I segni li troviamo in
almeno tre sonetti, già acutamente rilevati dal Valli nella sua analisi del “gergo” dei fedeli
d’Amore - da lui identificati come setta vagamente ereticale ( e comunque all’attenzione
dell’Inquisizione ) - ma che possono essere anche un utile riferimento ad una analisi di
carattere esoterico.
Il primo è il famoso “Guido io vorrei che tu e Lapo ed io” in cui Dante rievoca e
auspica, con un sottofondo di nostalgia e di speranza, l’unità di intendimenti che
avvertiamo in tutta la Vita Nova.
E’ significativo che nel “trio” Dante ponga Lapo
Gianni, sulla cui “fedeltà d’ Amore” Cavalcanti solleva in altre rime alcuni dubbi,
chiedendo proprio a Dante di “controllare” se Lapo “ fosse in compagnia d’Amore” ( si
vedano, di Cavalcanti, i sonetti: “Se vedi Amore, assai ti priego, Dante” e “ Dante, un
sospiro messager del core” ).
In merito ai sospetti ed al rapporto tra Cavalcanti e Lapo Gianni non ci è dato
conoscere di più, ma nei confronti di Dante la risposta di Guido è tassativa e stronca ogni
speranza di ricostruire l’antica amicizia.
La risposta al sonetto dantesco rivela infatti la
“distanza” che ormai separa i due poeti:
S’io fosse quelli che d’amor fu degno,
del qual non trovo sol che rimembranza,
e la donna tenesse altra sembianza,
assai mi piaceria siffatto legno.
E’ quindi la “sembianza” della donna che separa i due antichi amici, è Beatrice che
Cavalcanti non accetta: il viaggio di Guido a Tolosa, il suo contatto con la “mandetta” e
quindi il suo successivo avvicinamento all’eresia catara fanno sì che egli non comprenda
il progressivo addentrarsi di Dante dentro l’esoterismo cristiano e la dottrina tradizionale,
fatto che Cavalcanti scambia per una caduta nelle braccia dell’ortodossia cattolica o,
peggio, della Curia romana.
Il terzo sonetto suona infatti come un’ accusa molto grave di Cavalcanti al vecchio
amico:
“I’ vegno ‘l giorno a te ‘nfinite volte
e trovoti pensar troppo vilmente
E’ un’accusa disperata quella di Guido, tutta soffusa dalla speranza che l’amico si
ravveda; e per altre due volte insiste sulla viltà ( “per la vil tua vita” e “ si partirà
dall’anima invilita” ), quella viltà che Cavalcanti aveva già indicato come principale
nemica di Amore, nel sonetto in cui richiamava l’attenzione su Lapo Gianni
Tu sai che ne la corte là ‘v’e’ regna (Amore)
e’ non vi può servir om che sia vile
La diatriba con Cavalcanti si preciserà ulteriormente nella Commedia quando Dante,
alla richiesta del padre, spiegherà perchè il figlio Guido non è con lui:
E io a lui: « Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno»
(Inf. X, 61-63 )
Il disdegno di Guido per Virgilio è indicativo del motivo stesso per cui Dante sceglie
per guida proprio Virgilio: è il modo di concepire la tradizione e la gnosi che ha separato
i due amici. E come acutamente osserva Guénon: “ da Pitagora a Virgilio e da Virgilio a
Dante la catena della tradizione non fu senza dubbio rotta sulla terra d’Italia”.
D’altra parte, anche nell’ambito della gnosi, cui entrambi gli amici fanno riferimento,
esistevano ormai delle sostanziali differenze.
Nel Purgatorio Dante mette in bocca a
Bonaggiunta l’apprezzamento per il manifesto della sua dottrina, quella canzone della
Vita Nova, “Donne ch’avete intelletto d’amore”, che segna il passaggio ad una diversa
visione esoterica, dopo il colloquio con Amore e la trasfigurazione ( o visione mistica ).
Nel sonetto “ S’i fosse quello che d’amor fu degno” Cavalcanti , dopo aver affermato la
sua non concordanza con il “ vasel” proposto da Dante, aggiunge:
E tu, che se’ de l’amoroso regno
là onde di merzé nasce speranza
E’ proprio la “speranza dei beati” che separa il cataro ortodosso Guido da Dante. Per
Guido il mondo è male, frutto di un demiurgo malvagio, e la salvezza sta esclusivamente
nell’uscire dal mondo della materia, del divenire, senza altra speranza in questa realtà.
Dante è invece nel regno d’Amore in cui è possibile la speranza e di quale speranza si
tratti lo dice Dante stesso nella sua canzone:
Sola pietà nostra parte difende,
chè parla Dio, che di madonna intende:
“Diletti miei, or sofferite in pace
che vostra spene sia quanto me piace
là ‘v’é alcun che perder lei s’attende,
e che dirà ne lo inferno: O mal nati,
io vidi la speranza de’ beati
Come ha rilevato Pascoli “la speranza dei beati”, contraddizione palese se riferita a
coloro che sono nell’Empireo, diventa comprensibile se è la speranza della
contemplazione di Dio, che la pietà vuole sulla terra tra gli uomini (come dice Dante
nella canzone ), speranza di vita contemplativa che si identifica con Beatrice. In questo
modo Dante si ricollega a tutto l’esoterismo cristiano dei secoli che lo hanno preceduto.
Vorremmo concludere ribadendo una considerazione sull’eresia e su Dante. Come
rileva Guénon coloro che hanno colto l’aspetto “nascosto” nelle opere di Dante si sono
sovente ingannati sulla sua natura, lasciandosi talvolta trascinare verso l’ipotesi di un
Dante eretico.
Considerarlo tale significa non comprendere in realtà la differenza tra
esoterismo ed exoterismo: “il vero esoterismo è una cosa del tutto differente dalla
religione esteriore e se ha qualche rapporto con questa non può essere che in quanto trova
nelle forme religiose un modo d’espressione simbolico... La metafisica pura non è nè
pagana nè cristiana, è universale”. (Guénon )
Le eresie appartengono comunque al dominio della religione, al dominio exoterico;
come afferma Guénon “ le sette, scismi o eresie, appaiono sempre come derivate da una
data religione, nella quale hanno preso nascita, e di cui esse sono per così dire come
branche irregolari. L’esoterismo invece non può derivare affatto dalla religione. Anche
quando la prende per appoggio...in realtà rappresenta, in rapporto alla religione, la
Tradizione anteriore a tutte le forme esteriori particolari” di cui appunto la religione
rappresenta una fattispecie.
In quest’ottica si può affermare che se catari e patarini in
Italia furono eretici, Dante ed i Fedeli d’Amore che in lui si identificarono e che si
attenevano al terreno strettamente iniziatico, non lo furono affatto. Questo non li rese
peraltro meno pericolosi nella percezione di taluni esponenti della Chiesa: è peraltro noto
quanta meticolosità e tenacia sia stata messa da questa nell’estirpare, nel corso del tempo,
tutte le possibili tracce dell’esoterismo cristiano, talvolta con un accanimento superiore a
quello rivolto verso le eresie vere e proprie.
( Renzo Guerci )
Bibliografia:
* Enciclopedia Dantesca Treccani, alla voce “eresie”
* Giovanni Boccaccio - Vita di Dante - Ed. Moretti e Vitali, Bergamo 1991
* Oddone Zenatti - Note a “Dante e Firenze” - Sansoni Editore, Firenze 1984
* La leggenda di Dante - Carabba Ed., Lanciano 1919
* Guido Cavalcanti - Poesie in “La Letteratura Italiana” - Vol. 2 - Tomo II - Ricciardi
Ed.
* Alfonso Ricolfi - La setta dei catari a Firenze e la Mandetta di G. Cavalcanti - Ed. Dante
Alighieri 1930
* Luigi Valli - Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore - F.lli Melita,
Genova 1988
* Giovanni Pascoli - La Mirabile Visione - Aragno Ed., Torino 1999
* René Guénon - L’esoterismo di Dante - Ed. Atanor, Roma
* René Guénon - Considerazioni sulla via iniziatica - Il Basilisco Ed. , Genova 1987
* René Guénon - L’esoterismo cristiano - Arktos Ed., Carmagnola 1989
Padre, davvero, Dante ( 2^ parte )
1. IL PURGATORIO
( Mostrò ciò che potea la lingua nostra... - Purg. VII, 17 )
Proseguiamo la nostra "passeggiata" tra i versi del poema sacro, ricordando ciò che
già dicemmo nel numero precedente, nel presentare la prima parte (Inferno) di questo
itinerario: si tratta, semplicemente, di un piccolo viaggio, che vuol privilegiare la curiosità
colta e, perché no, il divertimento di chi ama nella Commedia non soltanto uno dei più
grandi capolavori poetici di tutti i tempi, ma anche il piacere di ritrovare le sorgenti del
nostro parlar quotidiano, il ritorno linguistico alla "casa del padre". il piacere di riscoprire
le fonti del nostro parlare, tanto profondamente interrate nel nostro humus culturale da
diventare strumenti indispensabili del nostro modo di essere. La forma scelta per questo
florilegio inconsueto è quella, come ricordavo nella premessa a l' Inferno, di evocare,
contestualizzandole, situazioni il più possibile normali della vita comune, allo scopo di
evidenziare quanto in esse i singoli legati dell'eredità dantesca vi stiano a proprio agio.
...libertà va cercando, ch' è sì cara
come sa chi per lei vita rifiuta. "
(Purg.. I, 70-71).
Frequentatissimo ancor oggi, il primo di questi due versi, nelle citazioni è di solito
curiosamente volto alla prima persona ("libertà vo cercando, ch'è sì cara"), cedendo forse i
parlanti alla tentazione di identificarsi con la gigantesca figura di Catone l' Uticense,
così ...tacitianamente (ante litteram) presentato da Virgilio al Dante, facendolo addirittura
inginocchiare davanti al "veglio solo".
“Non farmi perder tempo”, “ Non voglio perder tempo”: è tra le espressioni più usuali; e
la usiamo regolaramente con la forma tronca del verbo, ma non per caso, credo, e
nemmeno soltanto per ragioni eufoniche. Nella stessa forma troviamo l'espressione nel
terzo Canto:
...sì che possibil sia l'andare in suso
chè perder tempo a chi più sa più spiace
(Purg. III, 77-78).
“ Verde, speranza”... Una simpatica vecchia signora meneghina che popolò i lontani
d'ora... " [i. e., "verdolino, speranza dorata"]. Ma sono quasi certo che la buona signora
(visto che vergava a mala pena la propria firma) non avesse mai aperto la Commedia, al
terzo canto del Purgatorio:
Per lor maladizion sì non si perde,
che non possa tornar l' eterno amore
mentre che la speranza ha fior del verde
(Purg. III, 133-135).
sta ferma come torre che non crolla
già mai la cima per soffiar de' venti
(Purg. V,14-15)
“Lui a certi compromessi non si piega; ci hanno provato in tutti i modi, ma lui sui suoi
principi è fermo come torre che non crolla...”. Citazione non infrequente e...semicolta.
Già, perché, in forza di quelle metamorfosi dei significati che spesso avvengono con
l'uso, attraverso il tempo e che si possono descrivere ma non sempre spiegare, "crollare"
al tempo di Dante aveva il significato di "oscillare, ondeggiare", al più quello di
"scuotersi", non già il nostro odierno. Lo rilevava già argutamente Leo Pestelli (Giovanni
Ansaldo) (1). Ma è interessante notare come ancora nel secolo scorso la metamorfosi
non fosse compiuta, ma solo in...evoluzione, se il Tommaseo poteva autorevolmente
affermare che « "crollare" è moto che più o meno minaccia (il corsivo è mio) caduta o
dissesto » (2)
Ben presente, nel parlar corrente (se non proprio quotidiano) è:
Era già l'ora che volge il disìo
ai naviganti e intenerisce il core...
(Purg. VIII, l -2).
Ma anche qui, curiosamente (e soprattutto, come è ovvio, nell'uso da parte di parlanti
culturalmente poco agguerriti), sono avvenuti due stravolgimenti: uno di senso e un altro
di contesto applicativo dell'espressione.
Il senso: forse per il fatto che la citazione è di
norma limitata al primo verso (ed è legittimo il dubbio circa l' ignoranza del seguito), il
dativo che Dante attribuisce "ai navicanti" viene applicato sbrigativamente a "disìo" (di
norma aggiornato in desìo), per cui il verso è trasformato in “Era già l'ora che volge al
desìo”. Quanto al contesto applicativo, si nota la tendenza allo slittamento semantico del
desiderio ("desìo") verso zone più basse di quelle del cuore e della mente cui alludeva il
Poeta; diciamo ...dallo stomaco in giù. Per cui non è raro sentir dire " Andiamo al
ristorante, che è già l' ora che volge al desìo". Destino dei grandi, di finire...in pasto.
Un vero "best seller", tanto usato da consumarlo e far perdere il ricordo della sua origine
perfino ai più ammalizziti:
« Non aver tema » disse il mio segnore;
« fatti sicur, chè noi semo a buon punto »
(Purg. IX, 46-47).
Dal padre che incoraggia il figlio a finire il compito di matematica all' ostetrica che incita la
partoriente alla spinta finale, "Siamo a buon punto" sembra proprio avere un mercato di
parlanti enorme e indifferenziato.
"Ti dico, francamente, andrei a trovarla anche più spesso, se non ci fosse sempre tra i
piedi quel botolo ringhioso...", dice la nipote, riferendosi al cane della vecchia zia e non,
quasi certamente, agli Aretini oggetto dell' irrisione sarcastica di Dante:
Botoli trova poi, venendo giuso,
ringhiosi più che non chiede loro possa...
(Purg. XIV, 46-47).
Altra celebrità, che ha passato indenne i sette secoli dalla sua dantesca nascita, avendo
forse in ciò l’ausilio di una delle più inesorabili costanti delle pol itiche e dei governi che
si avvicendano:
Le leggi son, machiponmanoad esse?
(Purg. XVl, 97).
che, altro caso di inesplicabile metamorfosi, diviene quasi sempre Un "le leggi son, ma
chi pon mano ad elle". Vien da pensare che qualche zelante chiosatore abbia ritenuto la
consonante "elle" (iniziale di Leggi) più ...consona alla situazione.
Mah, quel ragazzo mi preoccupa: in fondo, lo sappiamo, la pianta si conosce dal seme...",
dice il padre, forse ignaro d i aver evocato l' ombra del Grande Fiorentino:
...se non mi credi pon mente a la spiga,
ch'ogn'erba si conosce per lo seme."
(Purg. XVl, l14).
Facile, a proposito dell' inutilità di certe cure o dell'età estremamente avanzata di qualcuno
sentir dire: "Certo, se aspettano a dargli la cura quando ha già un piede nella fossa", o
anche “Non so se è ancora vivo ma, se lo è, avrà già un piede nella fossa...” A parte la
ruvidezza, l'espressione è a denominazione d'origine dantesca controllabile.
E tale ha già l' un pie' dentro la fossa.
(Purg. XVIII, 121).
"Un gelo mortale, un gelo di morte", si usa dire con espressione anche metaforica: "Nella
stanza, dopo queste parole, si diffuse un gelo mortale". I due sostantivi ("gelo" e "morte")
sono accostati forse da Dante per la prima volta o, in ogni caso, tra le prime, in questa
bellissima terzina:
Quand' io sentii come cosa che cada,
tremar lo monte; ; onde mi prese un gelo
qual prender suol colui che a morte vada.
(Purg. XX, 127-129).
L'abbiamo sentita dozzine di volte in bocca a James Cagney o a Clint Eastwood: "Alza le
zampe o ti faccio secco..." Infatti, usatissima, soprattutto nei film western e polizieschi la
frase permane con significato estremizzato (e quindi più micidiale di quanto non
intendesse Dante, ma nell' identica area semantica) a intendere "ti riduco a guisa di
scheletro" (la c.d. morte secca), ossia " ti ammazzo". Vale la pena, per meglio mostrarlo,
di riportare, oltre alla terzina che contiene l' espressione che ci interessa, anche la
precedente:
Ne li occhi era ciascuna oscura e cava,
pallida ne la faccia e tanto scema
che da l' ossa la pelle s' informava.
Non credo che così a buccia strema
Eresitone fosse fatto secco,
per digiunar, quando più lì'ebbe tema
(Purg. XXIIl, 22-27).
Già è noioso di suo, se poi trova uno che gli tiene bordone...", si usa bisbigliare
all'orecchio del l’am ico, quando s i vuole che cessi di dare argomenti al noioso. " E tu
non tenergli bordone", dice il padre severo alla mamma pietosa. Probabilmente nessuno
dei due pensa alla lunga canna della cornamusa (il bordone), quella che fa il "continuo"
sul quale si appoggia la melodia; e ancor meno alla "divina foresta" del Purgatorio
...ma con piena letizia l’ore prime,
cantando, ricevieno intra le foglie,
che tenevan bordone alle sue rime...
(Purg. XXVIII, 16-18).
Il pettegolezzo serpeggia, tra i carrel li del supermarket o sotto il casco del parrucchiere:
“Ma come, sono già ilìsieme? “ “Si, ma si conoscevano da un sacco di anni, si erano solo
persi di vista. Lei era una sua antica fiamma...”. E' proprio la stessa espressione che il
Poeta, tremante, usa per dire di aver riconosciuto Beatrice:
....« Men che dramma
di sangue m'è rimaso che non tremi:
conosco i segni dell'antica fiamma. »
(Purg. XXX, 46-48).
Va osservato che il significato odierno dell' espressione traslata, e in particolare del
sostantivo (fiamma), tende però a fissarsi più sulla persona che sul sentimento.
2. ILPARADISO
(Opera naturale è ch’ uom favella;
ma così o così natura lascia
poi fare a voi, secondo che v’abbella
Paradiso, XXVI, 130- 132)
La terza Cantica, che conclude il piccolo itinerario da noi intrapreso alla scoperta della
lingua nostra attraverso la lingua di Dante (le coincidenze, nel testo, sono in corsivo, in
conformità con quanto abbiamo fatto per le due Cantiche precedenti), rappresenta
indubbiamente un passaggio di grado superiore. Non soltanto, come è noto, per la
rarefazione del linguaggio, in armonia col cammino di purificazione attraverso il quale
"l'uom s' indìa", direbbe il Fiorentino, ma anche per il nostro (tanto più modesto)
cammino di speleologi della parola. La difficoltà consiste soprattutto nell' impegno, che
d'altro canto abbiamo liberamente assunto, di scovare nell’ universo giardino della lingua
dantesca i fiori che ancor oggi coltiviamo e dei quali il profumo, pur nella metamorfosi dei
secoli, è rimasto intatto. Quella rarefazione del linguaggio, di cui si diceva, quel "farsi
macro" anche del dire (fino alla confessione d' ineffabilità, negli ultimi disperati accenti
del Canto 33°) rende ancor più avventurata la nostra piccola impresa, e ci costringe ad una
attenzione spasmodica, tale da richiedere alla mente lo stesso sforzo che, con gli occhi, "il
vecchio sartor fa nella cruna". Ma ci salva un miracolo. Uno dei tanti di cui Dante è
capace: è ben vero che nel Paradiso il linguaggio si fa " macro" (quasi sempre), ma è
altrettanto vero che quanto più si assottiglia, tanto più le parole, vengono affrancate dal
legame con la materia e poste al servizio dello spirito. Dante, cioè, può continuare a
parlare di "puzzo", anche nel Paradiso, ma non sarà più quello infernale della " fiera, che
tutto il mondo appuzza" o quello della sostanza che si trova sotto le unghie di Taide ma,
semmai, quella "del paganesimo" (Par., XX, 125). Ma il vero miracolo di Dante è che le
parole man mano guidano il Poeta verso la "profonda e chiara sussistenza", si spogliano
della loro veste più terrena e divengono trasparenti come l'eterna luce, che non possono
riflettere ma che tutte le trapassa, e al tempo stesso non perdono corpo, anzi ne acquistano
uno nuovo, di consistenza e peso davvero soprannaturali.
Vero è che come forma non s'accorda
molte fiate all' intenzion dell'arte,
perch'a risponder la materia è sorda
(Par. I, 127-129)
Esclamazione usata, con la debita enfasi, come alibi dagli scultori maldestri, che fanno
così di Dante una specie di complice involontario e di sé i teorici di un' improbabile
acustica del marmo.
Voi altri pochi che drizzaste il collo
per tempo al pan degli angeli, del quale
vivesi qui ma non sen vien satollo...
(Par.II, 10-12)
Era probabil mente fatale che prima o poi questa bella splendente metafora, con la quale
Dante definisce la scienza lievitata al fuoco delle divine verità, non dovesse sfuggire (per
l'allusione organolettica che racchiude) a panettieri ed offellieri, cui ormai appartiene per
usucapione. Se non altro, l' appropriazione non tradisce la...lievità del contesto. Diciamo
la verità, poteva accadere di peggio.
Per la natura lieta onde deriva,
la virtù mista per lo corpo luce
come letizia per pupilla viva.
(Par. II, 142-144)
Presso i librettisti d'opera (che quanto meno lo erano tanto più amavano dirsi "poeti")
erano uniti in matrimonio pressoché indissolubile: ma sono molto amici anche oggi,
questo sostantivo (pupilla) e questo aggettivo (viva). Meglio così, in ogni caso, che una
pupilla morta, o anche soltanto smorta...
Quel sol che pria d' amor mi scaldò 'l petto,
di bella verità m'avea scoverto,
provando e riprovando, il dolce aspetto
(Par. III, 1-3)
Come più volte abbiamo rilevato durante l' esplorazione delle altre due Cantiche, eccoci
ancora di nuovo ad un caso classico di metamorfosi indotta dall'uso. Provando e
riprovando, dice Dante: ossia dando la prova e, per contro, confutando l' opinione
erronea. L' uso comune ha ridotto il gerundio "riprovando" a un semplice iterativo di
"provando". Con questo approdo, l'espressione è tuttora usata nella sua integrità letterale:
e quando va bene anche semantica (per esempio sugli architravi di austeri istituti di
ricerca) : ma quando va male, deve soffrire la "platitude" di una interpretazione
equivalente a "tentando e ritentando".
e se l’ mondo sapesse il cor ch' elli ebbe
mendicando sua vita a frusto a frusto
assai lo loda, e più lo loderebbe
(Par. VI, 140-142)
Ancora in uso tra i contemporanei colti: citata, tipicamente a sproposito, dagli insegnanti
di materie non letterarie, per bollare la pigrizia dell'allievo che "è bravo, ma potrebbe fare
molto di più..."
Ma voi torcete a la religione
tal che fia nato a cingersi la spada,
e fate re di tal ch'è dasermone:
onde la traccia vostra è fuor di strada
(Par. VIII, 144-148)
Amplissimo l'uso nelle più varie accezioni: dalla viabilità ("no, il Municipio è dall'altra
parte, Lei è fuori strada), al modo di ragionare ("eh, no, amico mio, se credi questo, sei
proprio fuori strada" ). Di contro alla tendenza ad arricchire in quantità il lessico (l' ultima
edizione dello Zingarelli ha recepito oltre un migliaio di parole nuove, moltissime delle
quali inglesi), si può notare qui un esempio significativo della tendenza opposta, forte nel
nostro tempo, ad impoverire la qualità della lingua: " fuor di strada" è fuori uso,
omologata a "fuori strada", perché la distinzione era una sottigliezza. Così che oggi
dobbiamo indicare, con l' unico sintagma rimastoci, sia l’aver sbagliato strada, sia l'essere
usciti di strada (più o meno volontariamente). Che invece, sono, e rimangono, eventi
assai diversi.
E' Beatrice quella che sì scorge
di bene in meglio sì subitamente
che l’atto suo per tempo non si sporge.
(Par. X, 37-39)
Popolarissima espressione, ma ormai usata quasi soltanto in senso ironico: infatti,
secondo l' uso corrente, di "bene in meglio" vanno: il Governo che aumenta le tasse, il
traffico sempre più caotico, il ragazzino che dopo il "cinque" in matematica porta un
“quattro", e così via. Non più in servizio da decenni, invece, nel senso proprio, un tempo
riferito allo stato di salute di un convalescente, sostituita dal televisionese, per cui il malato
che sta meglio "fa registrare un miglioramento costante" (ex tonsoribus etiam).
E questo ti sia sempre piombo a piedi
per farti muover lento com'uom lasso
e al sì e al no che tu non vedi
(Par. XIII, 112-114)
Può essere probabile che il nostro "andare coi piedi di piombo", abbia come genitori
l'abito e le scarpe del palombaro: ma che abbia in linea diretta come bisnonno il verso di
Dante è, più che probabile, certo.
...ch' i' ho veduto tutto il verno prima
lo prun mostrarsi rigido e feroce
poscia portar la rosa in su la cima
(Par. XIII, 133-135)
Caso forse unico, questo, di espressione dantesca salvatasi per noi, felicemente, nella
forma non della frase d' uso corrente o idiomatica, ma di " p ittogramma", ossia di motto
che suggella un emblema. E il merito va dato, poiche ce l' ha, al nostro maggior editore
di musica, che ha voluto riprodurre sul retro di tutte le sue edizioni musicali un marchio
tondo che racchiude una rosa, sormontata dalle sole parole " in su la cima". Ma il
riferimento a tutta la terzina dantesca è inoppugnabile e, va ripetuto, felice, in quanto il
pittogramma sottende la disciplina, davvero " rigida e feroce" di chi voglia giungere a
"cogliere la rosa", ossia ad aver ragione (tecnica e interpretativa) di certi spartiti disumani.
Ne la mia mente fe' subito caso
questo ch' io dico...
(Par. XIV, 4 - 5)
Qui siamo addirittura nel linguaggio familiare, che ha recepito con entusiasmo questa
agile strutturina sintagmatica: è un esempio tra i più caratteristici, se ci fate caso, di come
certe espressioni del nostro massimo poeta vengano usate da tutti, senza "farci caso"...
Io dirò cosa incredibile e vera
nel picciol cerchio s'entrava per porta...
(Par. XVI, 124-125)
lncredibile, ma vero: dobbiamo a Dante anche questa consuetissima esclamazione.
...dette mi fur di mia vita futura
parole gravi, avvenga ch’io mi senta
ben tetragono ai colpi di ventura
(Par. XVII, 22-24)
La parola sopravvive, a indicare la stabilità e la fermezza del “tetragono” ( cubo, in atica
accezione). Qualche impavido intellettuale la usa ancora, ignorando le occhiate ironiche o
sospettose dei suoi interlocutori.
Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui e come è duro calle
lo scendere e salir per l’altrui scale
(Par. XVII, 58-60)
Viva e vegeta, la terzina è oggetto di non rari tentativi di citazione integrale, con esiti
spesso drammatici tra storpiamenti, soppressioni o sostituzioni di parole. Ma chi non
l'ha citata almeno una volta nella vita, o non l' ha sentita citare almeno una dozzina di
volte, alzi la mano.
Ma non di men, rimossa ogni menzogna,
tutta tua vision fa manifesta
e lascia pur grattar dov' è la rogna
(Par. XVII, 58-60)
E' una delle non poche eccezioni al linguaggio rarefatto che Dante riserva al Paradiso ed
è anche una delle espressioni più vive e popolari, che oggi usiamo. Ma con un curioso
stravolgimento di senso: mentre di fatto Dante, per bocca di Cacciaguida, invita a non
esitare a mostrare le macchie della coscienza, la frase odierna suona di norma "chi ha la
rogna se la gratti", a significare che chi ha commesso l'errore se la sbrighi da solo.
Quasi falcone ch' esce del cappello
move la testa e con l'ali si plaude,
voglia mostrando e facendosi bello...
(Par. XIX, 33-36)
E' il nostro "farsi bello" che al femminile ha assunto più comunemente il senso di
truccarsi, agghindarsi, ma al maschile ha conservato, intatto, quello dantesco di
"pavoneggiarsi".
Per entrambi i sessi, poi, la frase ha assunto il senso traslato di
assumersi meriti non propri ("farsi bello con le penne del pavone").
Or tu chi se' che vuo' sedere a scranna,
per giudicar da lungi mille miglia
con la veduta corta di una spanna?
(Par. XIX, 79-81)
La severa rampogna delle anime che hanno assunto la forma d' Aquila, è passata fino a
noi, anche se solitamente nell'uso familiare e - bisogna dirlo - in forma, accezioni ed
occasioni di basso profilo. Classico il discorso dell'uomo della strada: "vuol tanto
giudicare (variante: "vuol fare il ministro"), ma non vede una spanna più in là del suo
naso..."
E come surge e va ed entra in ballo
vergine lieta, sol per fare onore
a la novizia, non per alcun fallo...
(Par. XXV, 103-105)
Anche nella lingua odierna la locuzione "entrare in ballo" entra in ballo di frequente, ma
solo in senso traslato. Infatti, mentre più nessuno penserebbe di usarla per indicare l'atto
di cominciare una danza, ne è normale l' uso metaforico, (come l' omologa "tirare in
ballo"). Un tempo entravano (o si tiravano) "in ballo" : il Santo Uffizio per indagare su
un porporato sospetto di simonìa; oggi i servizi segreti o l'lnterpol, quando l'affare varca i
confini nazionali:; la polizia scientifica su un reperto importante, ecc.
...ma già volgeva il mio disio e il velle,
sì come rota ch' igualmente è mossa,
l'amor che move il sole e l'altre stelle".
Par. XXXIII, 143- 145).
Predestinato all' immortalità, come è, l' ultimo verso del “poema sacro, al quale ha posto
mano e cielo e terra”, non poteva evidentemente mancare tra quelli non solo memorabili,
ma citabili (tuttora spesso, anche se non sempre a proposito, né in contesti gran che
pregni di divinità).
3. FORSE
(congedo sull' ultimo verso)
Si conclude qui, sull' ultimo verso della Commedia, anche il nostro viaggio in tre stazioni
nelle parole di Dante. Parole che sono le nostre, sia perché appartengono definitivamente
al nostro mondo espressivo e poetico, sia perchè pochissimi non italiani le possono
godere appieno. Appartengono dunque a un mondo quasi solum nostro, come diceva
del proprio un altro grandissimo Fiorentino.
L'ultimo verso della Commedia, certo, è di quelli che squassano. Non ne tento neppure,
dopo secoli di chiose, glosse e commenti, l'esegesi, dioneliberi.
Ma poiché anche e persino questo piccolo pellegrinaggio linguistico è nato da (e vuol
essere ) un atto d'amore, cedo soltanto al bisogno di un'ultima riflessione. E la esprimo,
nella forma che compete a tutti coloro che, ancora, stanno cercando. Quella del dubbio. Se
Dio è Amore e per amore è divenuto anche il Massimo Fattore (ci ricorda Manzoni),
quindi anche il Massimo Poeta (Poietès, " Colui che fa") : e se amore è mettere in
comune con altri il meglio di sé e farveli partecip i, quindi una forma di Comunicazione :
allora, forse, la vera Comunicazione è soltanto una metafora della Poesia: allora, forse, la
Poesia è soltanto una metafora dell'Amore, che è la prima metafora di Dio.
Mi piace così immaginare che il poeta - ogni poeta in ogni tempo e luogo, dal più modesto
al più grande - non sia che un umile fante dell' immenso esercito di amanuensi, strumento
inconsapevole dell' autobiografia che Dio scrive, e scriverà per sempre, attraverso il creato
e le sue creature.
( Pier Luigi Amietta)
Nota:
(1) « Non è il Crollare quella gran cosa che molti immaginano, ma, propriamente, appella
un Muovere in qua e in là. Crolla, per mano di Andreuccio da Perugia, la fune del pozzo;
crolla il mirto che nasconde Astolfo. Eh, se le scale terrazze case non facessero che
crollare! Purtroppo, dopo crollato, quasi sempre Vengono di sotto, Rovinano », in
Parlare italiano, Longanesi & C., Milano, 1957, p. 15.
(2) Cfr. N. Tommaseo: Nuovo Dizionario dei sinonimi della lingua italiana, Sarracino,
Napoli, 1859, p. 249 n. 1286
Le tre fiere
Ed ecco, quasi al cominciar de l' erta,
una lonza leggiera e presta molto
Sotto 1’aspetto formale è quant o mai pertinente il richiamo di F. Mazzoni (Saggio di un
nuovo commento alla Divina Commedia - G.C. Sansoni - Fi 1967 p.99), che vede qui un
sicuro stilema evangelico poiché la formula et ecce con cui si iniziano quei versetti, ha
funzione di rapido legamento narrativo fra le due terzine, quasi ad indicare la subitaneità
dell'apparizione, e tornerà frequentemente, a inizio di periodo e di episodio; e dà una
quindicina di reperimenti dell' “ed ecco”.
In narrativa Dante ha tentato ora di accostarsi all' erta del monte soleggiato entrando sul
pendio da cui è formata la “ piaggia” (cioé la spiaggia) ; ma non appena fa ciò (ed ecco),
se ne trova impedito.
Va detto, a questo punto, in tutta sincerità, che lo sterminato esercito dei lettori e dei
chiosatori di Dante è stato sviato qui per la visuale imposta dai miniatori e dagli illustratori
a stampa.
Tanto la Lonza quanto le altre due fiere simboliche, le quali ora verranno in
iscena, si vedono disegnate come se il poeta errante fosse a portata materialmente, delle
loro zanne e dei loro artigli; ma ciò non è affatto, stando al testo.
Dante vede, d'improvviso, che “quasi al cominciar de lt erta”, cioè in un punto dal quale
egli è ancora ben distante, è comparsa una fiera; non dice affatto di essere già anche lui
in quel punto (una situazione analoga sarà introdotta da Inf. XVII - v. 58).
Come dicevamo più su (v. n. 4 ), l’uscita dal peccato, dalla bassezza morale della "valle"
" oscura" , non comporta che si possa fare poi anche un solo passo di risalita verso il
Bene.
Una lonza 1eggiera e presta molto...
e non mi si partia dinanzi al volto...
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto...
Come che sia, questa bestia, la Lonza, seguendo i movimenti di quel vivente, si spostava
di qua o di là in modo da continuare a fronteggiare 1’uomo sia pure alla lon tana : cfr. per
es. Inf. III, v. 89.
v. 36 - più volte vòlto : è da notare che, per fatto logico, se Dante s'è mosso così per
"ritornar" giù, altrettante volte ha cercato di rimettersi a fare il contrario; ed infatti ciò è
spiegato bene dai sette versi che qui seguono, (37-43) specia1men t e se messi in
rapporto con Inf. XVI - vv. l06- 108 : è chiaro che, per "prender la Lonza a la pelle
dipinta", Dante deve aver tentato, "alcune volte" e sia pure indarno, di avvicinarsi ad essa,
contro le "più volte" di questo v. 36, intese ad un dietrofront che poi avverrà realmente
(V. 61).
vv. 37-40 - “Temp’era ... cose belle” , secondo la dottrina ebraico-cristiana e la
storiografia medioevale, il mondo astrale era nato alla Creazione in modo da occupare la
data del 25 di marzo del 5200 a. C. ( calcolo eusebiano), configurandosi il sole in Ariete.
La stessa ricorrenza annuale sarà poi quella dell' incarnazione e quella della morte di
Gesù. Ne consegue, fin da questo punto, che l' azione del poema comincia in quel giorno
(A. Camilli) e non di Venerdì Santo, che nel 1300 cadeva l’8 di aprile (E. Moore).
Osserviamo infatti che, se ci si attiene alla cronologia del Moore, Dante viaggiatore
avrebbe trascorso il giorno di Pasqua nella c.d. Valletta dei Prìncipi, in Antipurgatorio, in
compagnia di Carlo I d'Angiò e di altri re e principi cristiani neghittosi e che, in tal
punto, egli era ancora ben fuori dalla Grazia Divina, dovendo ancora espiare i sette “P”
che gli avrebbe inciso sulla fronte 1’Ange1o Portinaio, e dovendo ancora, soprattutto,
confessarsi e sostenere Penitenza davanti a Beatrice e davanti alle acque di Lete e di
Eunoè, in cima alla montagna purgatoria1e nel Faradiso terrestre.
Molto più sensata appare quindi la tesi del Camilli, secondo la quale il poeta si sarebbe
purificato e santificato lungo tutta la sua strada oltretombale : e così avrebbe avuto una sua
straordinaria Pasqua precelestiale, il l0 aprile, dopo il ritorno nel mondo dei viventi.
Qui, prima ancora dell'annunzio di tale ineffabile avventura, Dante viaggiatore ricava
dalla primavera incipiente e dall' ora mattutina sufficienti motivi di speranza oltre la fiducia
che può dargli la corda cinta in vita, simbolo evidente di castità, di povertà evangelica e di
fruttuosa penitenza. Per qualche istante egli cessa, così, di sentirsi spaventato.
L’ora del tempo e la dolce stagione
Va detto che tutta la simbologia di questo peccato (lussuria) riposa sul fatto che esso è
moralmente il più veniale fra tutti i vizi capita1i, come si vedrà nel Canto V: e va detto
altresì che nel suo “Trattatello in laude di Dante” il Boccaccio informava che era questo
uno dei pec cati più ricorrenti in Dan te.
La vista che m' apparve d’un leone
“Leone” : è il simbolo del più grave fra i vizi capitali, la superbia. Di questo peccato
Dante ci appare colpevole non perché lo abbia detto il Boccaccio, ma per vivaci paro1e
sue, rivolte a Sapìa dei Salvani, senese (Purg.XIII, vv. 133,138). Per questo gli sembra
qui di vederlo venire proprio contro di lui, come dice il verso successivo.
Questi parea che contra me venesse
E’questo il primo dei non pochi casi in cui G. Petrocchi ( La Commedia secondo l’antica
vulgata , Milano , 1966-67 ) , legge espungendo la rima normale, cioè venesse, per far
posto, invece, ad una rima imperfetta, cioè venisse. Abbiamo scelto di attenerci al dato
metrico tradizionale, in ciascuno di tali casi, unicamente perché, ciò non facendo, non si
avrebbe "rima imperfetta", ma assenza pura e semplice di rima, non soltanto, ma anche di
assonanza. Ciò che leggiamo nel Petrocchi potrebbe essere condiviso solo se il poema
dantesco fosse stato scritto molto prima di quanto non avvenne; e cioè la Commedia fosse
nata nel tempo delle rime guittoniane.
Sappiamo invece come cosa certa che il nostro Dante, come anche quello della Vita Nova,
ha sempre ritenuto come cosa indiscutibile che ogni suo verso dovesse terminare in rima
secondo le regole del suo tempo. Ci basterà citare, a tal riguardo, il canto VII dell’Inf. ai
vv.: 2O - nove travaglie e pene quant ‘ io viddi; v. 21 - e perche nostra colpa sì ne scipa;
v.22 - come fa l' onda là sovra Cariddi; v.23 - che si frange con quella in cui s’intoppa; v.
24 - così convien che qui la gente riddi.
Come si può agevolmente vedere questo obbligo che Dante poneva a sè stesso quanto
alla perfezione della rima, è sottolineato qu i dall’uso di una forma verbale ( viddi ) la
quale è del tutto irregolare in morfologia, ma ha il pregi o di rimare perfettamente con
gli altri versi.
Se Dante avesse scritto secondo g1i intendimenti del Petrocchi, nulla
poteva impedirgli di usare la forma regolare "vidi" e rifugiarsi così nell' assonanza. Tutto
ciò è tanto più vero in quanto si hanno in tutto il poema numerosissimi casi della forma
"vidi" e neanche uno della forma “viddi”, tranne questo caso.
v. 47 - “Con la testtalta e con rabbiosa fame” : evidente mnesi biblica dalla I Ep.
Petriana, V,8: "Siate sobri e vigilate, poiché l’ avversario vostro il diavolo a mò di leone
ruggente va d' intorno cercando chi divorare".
Ed una lupa...
Simbolo dell' avarizia il terzo in ordine crescente di gravità fra i peccati mortali, dopo la
lussuria e la gola (appetito sensitivo concupiscibile). , ma è anche il primo a cagionare
infelicità e danni diretti al prossimo, come vedremo fare ai peccati mossi da appetito
sensitivo irascibile (accidia, iracondia, invidia e superbia). Questo vuol dire il “molte
genti fe’ già viver grame” del v. 51, e sarà detto ancor meglio nei vv. 94-99. Cfr. a tale
proposito: Bn - PDC, n. 522 - B. Delmay, I personaggi della Divina Commedia - Firenze,
1986 - Leo S. Olschki editore, e va detto altresì che, seppure non abbiamo elementi certi
per fare dellt’avarizia un vizio ricorrente in Dante, come avveniva invece per i primi due
animali-peccati, vale la giusta osservazione di G. Biagioli, per cui Dante “finge che tre
fiere s' oppongono al suo salire, figurando in loro le tre passioni più forti che, nelle
principali epoche della vita, gioventù, maturità e vecchiezza, ne sogliono più
impetuosamente assalire”. E indica poi, logicamente, nella lussuria il vizio dei giovani,
nella superbia quello delltetà matura e nell'avarizia quello che attanaglia i vecchi. E poiché
tale e non altro è l' ordine di comparsa in iscena delle tre fiere, l'osservazione di G.
Biagioli porta sostegno ulteriore al significato di quei tre peccati per quelle tre entelechie
zoomorfe, sostegno che vedremo puntellato anche da Pd. IX - v. 99. Quindi Dante, che
ora ha solo trentacinque anni, sarebbe costretto a confessare profeticamente questo
peccato, l' avarizia, che però comincia a schiacciarlo già ora, non perché lo commette ma
perché lo subisce. L'ipotesi di Biagio1i è anche un evidente richiamo del mito
dell’enigma edipeo con le sue tre età del camminare umano, mito che ha un certo peso nel
poema. Stando così le cose non si riesce proprio a capire perché dai tempi del Biagio1i
ai nostri, l' esercito dei commentatori non abbia doverosamente accolto questa logica
interpretazione del senso poetico.
v. 60 - "dove '1 sol tace": l' immagine del sole che splende in silenzio è un’ evidente
sinestesia cioè una trasposizione degli effetti sensoriali dal comune all'inconsueto. Si
tratta, in genere, di figure abbastanza significative, ma non molto frequenti nella poesia
dantesca.
In questo caso la citazione ha valore perché incide direttamente sulla
formazione del testo poetico, in assenza di prove ecdotiche. Tenendo presente questo
significato dell'immagine, si giunge direttamente ad una spiegaz ione logica del
significato del verso.
v. 61 - “Rovinava”: deve essere inteso come traslato, non nel senso fisico di "precipitare";
infatti ciò che crolla in tal punto, è la speranza di Dante ed egli non fa altro che ritornare
sui propri pochi passi fatti fuori dalla selva, né dice che la Lupa lo insegua.
v. 63 - Pensiamo che si debba leggere, per congettura logica "chi per cotal silenzio parea
fioco". Ciò vuol dire che Virgilio non era ben visibile da Dante perché, in difetto dai
raggi del sole, appariva come una luce fioca nell'atmosfera della valle oscura. La lezione
corrente perde di vista tanto la sinestesia quanto la sincronia dell’immagine, limitandosi
al generico concetto del “lungo silenzio”. Ci sembra quindi, in definitiva, che si debba
leggere “cotal silenzio” e non “lungo silenzio”, perché da una apparenza visiva non si
può logicamente determinare quale sia stata la durata di quel silenzio.
( Bernard Delmay )
Note sulla data di morte di Guido Cavalcanti
( Lettera a Francesco Velardi su Guido Cavalcanti e la Cronologia )
Caro Francesco,
sono stati due giorni veramente divertenti ed interessanti il sabato 10 e la
domenica 11 Ottobre u.s., ospiti, al Castello di Poppi ( Biblioteca Rilliana ) del caro
Vittorio Vettori e della sua Accademia Casentinese. Personalmente mi sento in
qualche modo debitore. La relazione di Jacqueline Risset su " Il mio Dante " mi é
piaciuta doppiamente, anche perché non é affatto in contraddizione con le nostre
tesi, gnostica, esoterica ed astrologica sul pensiero di Dante. In ultimo sono rimasto
contento anche perché, diciamolo!, la mia relazione, " Con Dante, sotto le stelle ",
ti é parsa chiara.
Nel frattempo ho studiato i tuoi scritti che, in quell'occasione, mi hai
consegnato e in particolare “ Nuove considerazioni sulla data di morte del
Cavalcanti” con i relativi reperti fotografici allegati riguardanti il " Registro
obituario di Santa Reparata " ( segn. I.3.6 ) ed in particolare carte 41 recto - lett. C
- in cui é registrata la morte del Cavalcanti stesso. Trovo ora assai eloquente e,
secondo me, risolutivo del " nostro " problema cronologico, inerente l'anno di morte
del Cavalcanti, il fatto che questo stesso registro inizi con la seguente frase: " In
Nomine Patris, et Filii et Spiritus Sancti. Am. Infra scripta sunt nomina defunctorum
requiescentium in Cemeterio Canonice Florentine ab anno Incarnationis D.ni ". I
motivi di tale possibile risoluzione sono presto detti.
I tuoi numerosi confronti fra eventi storici ricavati da Giovanni Villani, da
Dino Compagni ed altri autori costituiscono, per me, la prova maggiormente
convincente del fatto che Guido Cavalcanti fosse ancora in vita il Sabato 25
Marzo 1301: ovvero nel momento in cui Dante iniziò, secondo noi, il suo viaggio
ultramondano descritto nella Commedia. Ma se Guido Cavalcanti, secondo i tuoi
reperti storici, era ancor vivo nel marzo del 1301, corrisponde allora al vero che Dante
lo dichiari vivo, nel c. X, vv. 110-114, dell'Inferno, il 26 Marzo 1301. Ritengo invece
sempre interessanti, ma di minore importanza strategica, i tuoi reperti fotografici ed
ingrandimenti tridimensionali volti a stabilire, se la macchia, sull'anno di morte di
Guido Cavalcanti, di cui a c. 41/r. lett. C. del predetto Registro obituario, sia dovuta
all'umidità, oppure ad una abrasione più o meno intenzionale. Il fatto che all'anno
di morte del Cavalcanti segua una macchia " M.CCC.( macchia )", e che dunque tale
anno, a causa di questa stessa macchia, possa oggi risultare oggettivamente incerto,
sembrerebbe a me già sufficiente per dover lasciar perdere il reperto: ben inteso se
esso non costituisse, per i dantisti di opinione diversa dalla nostra, l'unica prova in
loro possesso e da loro stessi data invece per certa. Ma io, caro Francesco, a questo
punto voglio mettermi dalla loro parte e supporre, con loro, che qui la data é chiara
e perciò inconfutabile: si tratterebbe cioé sicuramente dell'anno 1300, poiché, come
dicono loro, la scritta ( c. 41/r. lett. C ) riporta chiaramente " M.CCC." e cioé: “IIII
KAL ... MCCC ob. Guido f. D.ni Cavalcantis De Cavalcantis ". Siccome secondo i
tuoi studi storico-filologici questa affermazione é, purtroppo, impossibile, per questo
legittimo motivo ti sei sentito giustamente in dovere di ipotizzare che sotto la macchia,
che loro ignorano, possa esserci stato, un tempo, una " I ", da cui " M.CCC.I. ".
Orbene, pur concedendo ai commentatori che questa scrittura sia chiara e completa, e
che la macchia altro non nasconda che " Ob. " di " Obiit ", o la " Q. " di " Quievit
( ? )", sorge ora a me, dopo la precisazione introduttiva al Registro ( " Infra scripta
sunt nomina defunctorum requiescentium in Cemeterio Canonice Florentine ab anno
Incarnationis D.ni. " ), chiaro il problema, che quando noi dobbiamo procedere alla
comparazione fra date appartenenti a due differenti calendari, come nel caso specifico
fra quello nostro odierno e quello stile fiorentino, dobbiamo, prima di tutto, procedere
sempre alla loro omogeneizzazione. Tale riduzione alla omogeneità fra calendari
non é però stata operata dagli studiosi: riduzione che appare invece risolutiva dell'annoso
problema che si trascina ormai da un secolo. E' del tutto evidente che non vi può essere
comparazione senza omogeneizzazione. Di conseguenza, o si fa una comparazione fra
date in base allo stile nostro odierno, o si fa una comparazione in base allo stile
fiorentino: e così si deve procedere anche per la data di morte del Cavalcanti quando la
vogliamo comparare a quella della Commedia. Ma se gli studiosi non hanno
proceduto correttamente nel confronto fra il Cavalcanti e la Commedia, perché non
hanno proceduto alla riduzione ad omogeneità,
potrebbero essersi comportati
ugualmente anche in rapporto alla data di morte di Simone Donati, di Forese Donati,
di Farinata degli Uberti, eccetera: non ti sembra ? Con gli elementi e i ragionamenti
che seguono spero dunque che tu, insieme al nostro Lorenzo Conti Lapi, possiate
cimentarvi in modo da mettere meglio a fuoco e rivisitare tutta la cronologia che
a noi interessa. Perché insieme non fotografate a colori, subito, tutto il Registro ?
Dopo i miei studi penso non esistano più dubbi sul fatto che le longitudini
dei pianeti indicati da Dante nella Commedia indichino tutte che il viaggio ebbe
inizio per la festa dell'Annunciazione del 25 Marzo 1301. A questo punto della
ricerca il nostro problema diventa dunque essenzialmente inerente le cronologie
adottate e la validità del confronto fra loro.
Il " Registro obituario di Santa Reparata ", come abbiamo già visto, inizia
indicando che le date in esso contenute sono tutte relative all'anno " ab Incarnatione
Domini " stile fiorentino e perciò tutte relative al Calendario fiorentino. Siccome il
Calendario fiorentino iniziava si dal Venerdi 25 Marzo del 1° anno dopo Cristo, ma
esclusivamente se noi computiamo in base al nostro calendario odierno. Quindi se noi
giudichiamo del percorso compiuto dal treno che transita nel binario vicino al nostro
(calendario fiorentino ) col percorso fatto da quello su cui noi ci troviamo ( calendario
odierno ), commettiamo un grave errore. Infatti iniziando il Calendario fiorentino,
oggettivamente, a datare da questo Venerdì 25 Marzo del 1° d. C. stile odierno, il
periodo intercorrente da questo stesso 25/3/ 1° d.C. al 24/3/ del 2° anno d.C.,
veniva a costituire, per esso, l'anno zero, e non il 1° anno d.C. come lo é per noi.
Di conseguenza, se l'anno zero stile fiorentino corrisponde al 1° anno dopo Cristo
stile corrente, l'anno 1300 stile fiorentino corrisponderà necessariamente al 1301 stile
corrente. Quando allora noi sosteniamo che la Commedia deve essere posta sul 1301
stile corrente, noi sosteniano, ugualmente, che essa deve essere posta sul 1300 stile
fiorentino, cioé sull'anno che chiudeva, a Firenze, il XIII secolo e apriva il XIV. Orbene,
siccome nel " Registro obituario di Santa Reparata " la morte di Guido Cavalcanti
viene dichiaratamente espressa in anni stile fiorentino, indicando questo stesso
registro che il Cavalcanti é morto il 29 Agosto 1300 ( c. 41/r - lett. C ), indica,
ugualmente, anche che esso é morto il 29 Agosto 1301 stile odierno, o corrente.
Qual é il motivo per cui i dantisti lo fanno invece morire, inammisibilmete, il 29
Agosto 1300 stile corrente? Ovvero, conseguentemente, il 29 Agosto 1299 stile
fiorentino? Evidentemente proprio perché non hanno proceduto
alla predetta
omogeneizzazione fra calendari prima della comparazione fra le date di cui ci stiamo
occupando. Cioé non si sono resi conto che loro si trovavano a vivere nel computo del
tempo secondo lo stile odierno, mentre stavano giudicando di un anno, di questo 1300,
espresso dal " Registro obituario " in stile fiorentino. Del resto quando noi
sosteniano che la Commedia deve essere posta sulla festa dell'Annunciazione del
1301, contrariamente alla generale opinione dei dantisti di oggi che la pongono
sulla Pasqua del 1300, in effetti noi la poniamo, in base al Calendario fiorentino,
proprio sull'anno 1300 e, più esattamente, sul giorno che apriva, a Firenze, il XIV
secolo " ab Incarnatione Domini ": ,ed era il Sabato 25 Marzo 1300 stile
fiorentino e, ugualmente, il Sabato 25 Marzo 1301 stile corrente. Al contrario la
generalità dei dantisti attuali, ponendo la Commedia sulla festa di Pasqua dell'anno
1300 stile corrente, vengono necessariamente a porla sulla festa di Pasqua dell'anno
1299 stile fiorentino, anche se forse non se ne sono ancora accorti.
Quando allora Dante, nel c. X, vv. 110 - 114, dell'Inferno, rispondendo
indirettamente al padre di Guido, sostiene che Guido Cavalcanti stesso il 26 Marzo
1300 stile fiorentino é ancor vivo, lo può giustamente sostenere poiché il fatto
viene confermato dal " Registro obituario di Santa Reparata " che ne fa risalire la
morte al 29 Agosto 1300 stile fiorentino.
Recita Dante: " Or direte dunque a quel caduto ( Cavalcante dei Cavalcanti padre
di Guido ) / che 'l suo nato ( Guido Cavalcanti ) é co' vivi ancor congiunto; " ( vv.
110-111 ). Orbene, Isidoro del Lungo, Giorgio Petrocchi e tanti altri autori portano
invece come prova, dell'impossibilità di porre la Commedia sul 1301 stile corrente,
il fatto che Guido Cavalcanti nella primavera del 1301 stile corrente fosse già morto,
poiché sul " Registro obituoario di Santa Reparata " si legge che questa morte é
avvenuta nell'anno 1300. E' del tutto evidente che questa prova é falsa poiché fondata
su un grave errore cronologico: in quanto questo Agosto 1300 stile fiorentino, del
Registro obituario, corrisponde proprio a quell'Agosto dell'anno 1301 stile corrente
nella cui primavera Guido Cavalcanti era, secondo questo stesso registro, sicuramente
ancor vivo.
Il problema, caro Francesco, mi sembrerebbe, dopo questa precisazione, già
risolto. Infatti se l'anno della Commedia viene espresso in anni del corrente
calendario, anche le date del " Registro obituario di Santa Reparata " dovranno essere
ridotte ad anni del corrente calendario. In seguito a questo chiarimento e
precisazione, quanto costituiva per i dantisti una prova a favore della loro tesi,
“Commedia, 1300 “ stile odierno, si rivela invece una prova a favore della nostra
tesi, " Commedia, 1301 " stile odierno. Scrive purtroppo Giorgio Petrocchi " é
sufficiente affermare che la data del 1300 ( stile odierno ), quella del giubileo e della
partecipazione di Dante alla politica fiorentina, é oggi generalmente accolta, anche
perché soddisfa una serie di elementi interni, Cavalcanti ancora in vita: c. X dell'Inferno,
ecc., ecc " ( L'Inferno di Dante, B.U.R., Milano 1978, pp. 74-75 ).
L'ipotesi "
Commedia 1301 stile corrente ", già sostenuta da Filippo Angelitti e degli Angelittiani,
risulta dunque confermata dai nostri attuali ragionamenti, ricerche e scoperte. Ma
devo dire che, non conoscendo tutti gli scritti dell'Angelitti, di Giovanni Rizzacasa
d'Orsogna e degli altri Angelittiani, non posso escludere che quanto da me qui
evidenziato non fosse già stato scoperto da loro ottant'anni addietro. Vedi tu,
caro Francesco, che possiedi una nutrita biblioteca sull'argomento, di trovarmi un
qualche riscontro in autori precedenti. Non penso tuttavia di avere esaurito la
mia analisi, e di aver risposto esaurientemente ai problemi che tu mi ponesti il 10
e 11 Ottobre scorsi, se non dopo la seguente riflessione sui vari calendari
esistenti e, quindi, sull'inizio della nostra Era volgare, o cristiana.
Caro Francesco, quando é iniziata la nostra Era cristiana stile
odierno, o corrente ? Dal Manuele del Cappelli ( A. CAPPELLI, Cronologia,
Cronografia e Calendario perpetuo, U. Hoepli, Milano, 1988 ) sappiamo, per esempio,
che l'Era Cristiana, oggi quasi universalmente accettata, fu introdotta dallo Scita Dionigi
il Piccolo " ... il quale fissò la nascita di Gesù Cristo al ( Sabato ) 25 dicembre
dell'anno 753 " ab Urbe condita "
( op.cit., p. 8 ). Ma se Gesù Cristo nacque,
secondo questa
tradizione, il Sabato 25 dicembre dell'anno 753 di Roma, egli
conseguentemente si Incarnò ( concepimento ) il Giovedì 25 marzo dell'anno 753 di
Roma. Infatti a partire dal 753 " ab Urbe condita " computava, come computiamo
oggi noi, anche il Calendario Pisano, se pure " ab Incarnatione Domini ": cioé da
questo GiovedÏ 25 Marzo del 1° avanti Cristo.
Siccome poi anche il Calendario
romano, adottato dagli storiografi Plinio, Tacito, Dione ed altri, faceva iniziare l'anno,
non dalla fondazione di Roma avvenuta il 21 Aprile, ma dal 1° gennaio precedente,
forse é proprio questo modo di usare il Calendario romano il motivo per cui anche
noi oggi datiano dal 1° Gennaio: cioé due mesi e 24 giorni prima dell'Incarnazione
in base al Calendario Pisano, o, ugualmente, di Dionigi il Piccolo. Si deve però
evidenziare che anche il Calendario giuliano, introdotto in Spagna nell'anno 38 avanti
Cristo, datava ugualmente dal 1° Gennaio.
Orbene, sostiene ancora il " Manuale del Cappelli ", che per ridurre un anno
qualunque dell' Era volgare, o cristiano-odierna, all'anno dell' Era di Roma, basterà
aggiungere ad un anno di Cristo ( stile odierno ) il numero 753 ed otterremo l'anno
“ab Urbe condita “. Infatti, se al 1° anno dopo Cristo stile corrente, aggiungiamo il
numero 753 otteniamo che esso, " ab Urbe condita " risulta essere il 754, come
realmente vi corrisponde. Ma il 1° anno d.C., o 754 di Roma, non é, nello stile
corrente, l'anno in cui Cristo si é, per esso, Incarnato ed é poi Nato, poiché questo
anno corrisponde invece al 1° anno avanti Cristo, o 753 " ab Urbe condita ", come
abbiamo già messo in luce: in quanto Dionigi il Piccolo " fissò la nascita di Cristo
al 25 dicembre dell'anno 753 di Roma " ( Cappelli, op. cit., p. 8 ). Da ciò consegue che
l'era volgare, o cristiana, inizia sì, formalmente, in base al calendario odierno, nell'anno
1° dopo Cristo, però Cristo stesso, sempre secondo questo nostro calendario, viene
fatto Incarnare e nascere nel 1° anno avanti Cristo e, rispettivamente, il Giovedì 25/3/ del
1° a.C. e il Sabato 25/12/ del 1° a.C.
Nel 1° anno dopo Cristo stile odierno,
Cristo stesso, la Domenica 25 Dicembre, aveva invece, in teoria, cioé secondo il
nostro computo odierno, già un anno di vita. Orbene, in base al Calendario stile
fiorentino, iniziando a computare dall'anno successivo, e cioé dal 754 di Roma invece
che dal 753, e venendo esso ad avere l'anno zero nel 1° dopo Cristo stile corrente,
indica necessariamente che in questa Domenica 25 Dicembre del 1° d.C. stile corrente,
Cristo stesso non aveva affatto un anno di vita, come per il nostro calendario, poiché
stava nascendo. E nasceva nella notte precedente il sorgere del Sole sulla Domenica
25 Dicembre del 1° d. C. stile corrente, e nasceva prima
ancora che sorgesse
all'orizzonte Venere mattutina, cioé Lucifero: ed é per questo motivo che noi Lo
facciamo nascere prima delle 03h.30' del mattino. E' d'obbligo far notare, che mentre
nella reale notte di Natale stile fiorentino ( Domenica 25/12/1° dopo Cristo stile corrente )
Venere era ancora occidentale al Sole, e perciò Lucifero, come esige la liturgia, al
contrario nella reale notte di Natale stile odierno ( Sabato 25/12/ 1° avanti Cristo ), o stile
Bonifacio VIII, Venere era, purtroppo, orientale al Sole, e perciò Espero, e quindi in
fase opposta a come esige la liturgia della festa di Natale stessa e di quella della
Candelora cadente il 2 Febbraio. A riprova che il Calendario stile fiorentino aveva
l'anno zero sul 1° d.C. stile corrente interviene anche l'autorità di Dante il quale, alla
fine del capitolo XXIV della sua opera " Questio de aqua et terra ", afferma che
Cristo é Nato e Risorto " in die solis ", cioé nella Feria prima, ovvero di
Domenica. Se andiamo a controllare, anche sul Manuale del Cappelli ( pp. 46-47 ),
vediamo infatti che il 25 dicembre
( Natività di Cristo ) cade di Domenica
esclusivamente Domenica 25 Dicembre del 1° dopo Cristo. Dunque corrisponde a
verità quanto é stato fin qui affermato.
Per trovare infatti un altro 25 dicembre cadente di Domenica dobbiamo scendere, o
fino al 7 dopo Cristo, o risalire fino all'anno 11 avanti Cristo. Sappiamo anche che
tutte le volte che il 25 dicembre cade di Domenica, il 25 marzo ( Incarnazione di
Cristo ) cade sempre di Venerdì. Orbene, uno studio molto approfondito, dettagliato
e serio sul giorno dell'Incarnazione e della Nascita di Cristo, che riporta un
considerevole numero di citazioni di Padri e Dottori della Chiesa, già lo fornisce, nel
XVII secolo, il gesuita Giovan Battista Riccioli ( GIOVAN BATTISTA
RICCIOLI, Chronologiae Reformatae, Bononiae, Bologna, 1669, Tomus Primus, lib.
VIII, pp. 298-370 ). Le conclusioni a cui arriva il Riccioli, citando anche
sant'Agostino, é che Cristo si é Incarnato un 25 Marzo, feria sesta, cioé di
Venerdì, mentre é poi Nato un 25 Dicembre, feria prima, cioé di Domenica ( cfr. G.
CERI ed altri, Chiesa di Santa Margherita detta Chiesa di Dante, M.I.R., - 50025
Montespertoli ( Fi ) - 1996, pp. 117 - 119 ), proprio come indica Dante alla fine della
" Questio de aqua et terra ". Il Riccioli pone come probabile anno dell' Incarnazione e
della Nascita di Cristo,
il 7 d. C. stile corrente, cadenti però sempre,
ovviamente, di Venerdì e di Domenica. Orbene quest'ultima particolarità viene
rispettata dal Calendario fiorentino ma non da quello di Dionigi il Piccolo, né da
quello pisano, né da quello " a Nativitate Domini " rimesso in vigore da Bonifacio VIII,
né, ovviamente, da quello stile odierno, come abbiamo già visto. Il Calendario
fiorentino era dunque quello maggiormente in linea con la Tradizione e, per più
ragioni, é sicuramente anche quello adottato da Dante.
A riprova che queste indicazioni sono esatte ti faccio notare che, sul Manuale
del Cappelli, viene evidenziato che verso il V secolo s'introdusse in Spagna l'uso del
Calendario giuliano facendolo datare dal 1° gennaio dell'anno 38 avanti Cristo stile
odierno ( p. 8 ). Orbene, Giovan Battista Riccioli, rifacendosi anche a sant'Agostino,
nel citato volume ( Tom. I. lib. VIII, pp. 298-370, la prima pagina del quale é stata
riprodotta anche nel volume: G. CERI ed altri, La Chiesa di Santa Margherita detta
Chiesa di Dante, MIR - Montespertoli (Fi ) 1996, p. 117 ) sostiene che Cristo é nato
la Domenica 25 Dicembre dell'anno 45 giuliano, evidentemente dell'Era di Spagna.
I due dati messi a confronto portano a fare emergere, che se questo anno giuliano
iniziava dal 38 a. C. stile odierno ( Manuale del Cappelli, p. 8 ), l'anno 45 giuliano
indicato dal Riccioli viene necessariamente a corrispondere all'anno 7 dopo Cristo stile
odierno: poiché, 45 anni giuliani dell'Era di Spagna, meno 38 anni giuliani dell'Era di
Spagna prima dell'inizio del calendario cristiano odierno = 7 anni dopo Cristo stile
odierno. Infatti é proprio il 7 d. C. stile odierno o, ugualmente, l'anno 45 giuliano,
che hanno il 25 marzo di Venerdì e il 25 dicembre di Domenica, come preteso
dal Riccioli e dalla Tradizione.
Quando allora sosteniamo che l'anno 45 giuliano
dell'Era di Spagna corrisponde al 7 dopo Cristo stile odierno, noi sosteniamo la verità,
come ugualmente sosteniamo la verità quando diciamo che l'anno 39 giuliano corrisponde
al 1° dopo Cristo stile odierno e al 754 di Roma: anni, quasti ultimi, che in stile fiorentino
corrispondono tutti all'anno zero. Di conseguenza quando gli storiografi indicano, che
per " avanti l ' Era cristiana " si deve intendere, ad iniziare a computare a ritroso,
dal 1° Gennaio escluso del 1° anno dopo Cristo stile corrente, ovvero a cominciare,
computando a ritroso, dal 31 dicembre del 1° avanti Cristo stile corrente, ciò corrisponde
a verità. Ciò posto, quando allora il Manuale del Cappelli cerca di spiegare, a pagina
9, il modo di usare lo stile detto dell'Incarnazione riferendosi allo " stile fiorentino ",
può non sembrare sufficientemente chiaro se il consultante non ha presente il predetto
ragionamento. Sostiene infatti il Cappelli che lo stile fiorentino " posticipava, sul
computo odierno ( che parte dal 1° gennaio del 1° d.C. ), di due mesi e 24 giorni
" ( p. 9 ). Il Cappelli, formalmente, non ha torto poiché il tempo, o l'Era " dopo
Cristo ", inizia, ovviamente, dal 1° Gennaio del 1°anno dopo Cristo. Ma lo stesso
Cappelli, quando così indica, sembra invece avere torto da un punto di vista
sostanziale: poiché lo stile fiorentino posticipava, sul " computo reale odierno ",
non di due mesi e 24 giorni, ma di un anno più due mesi e 24 giorni, avendo il
computo odierno, o corrente, il suo anno zero nel 1° gennaio del 1° anno avanti
Cristo. E' invece il Calendario pisano, o di Dionigi il Piccolo, entrambi " ab
Incarnatione Domini ", che posticipavano sul reale inizio del computare odierno, di
soli due mesi e 24 giorni. Ma il reale inizio del computare odierno, che necessariamente
esige l'anno zero dell'era volgare, o cristiana, e che la identifica nel 1° Gennaio del 1°
avanti Cristo, non corrisponde affatto all'inizio del formale computare storico odierno
dell'Era dopo Cristo che parte invece dal 1° Gennaio del 1° dopo Cristo. Andando
però avanti nella lettura del paragrafo del citato Manuale del Cappelli ( p. 10 ) si
capisce subito che é questa lettura, da me illustrata, quella giusta e dal Manule
stesso convalidata.
Penso, caro Francesco, che tu non abbia ora più dubbi che quando il
“Registro obituario di Santa Reparata “ indica che Guido Cavalcanti é morto il 29
Agosto 1300 stile fiorentino debba intendersi che, nel computo odierno, era invece
il 29 Agosto 1301. Comunque il problema della macchia, o abrasione, resta e lascia
aperta allora la possibilità che il Cavalcanti possa essere morto il 29 Agosto 1301 stile
fiorentino e perciò il 29 Agosto 1302 stile odierno. Cosa ne pensi ? Ma se noi
abbiamo ora, sotto ogni profilo, ragione, come fare a convincere i dantisti che invece
hanno nel predetto errore e fraintendimento la loro roccaforte ?
( Giovangualberto Ceri )
APPENDICE
a) Comunicato ANSA 16.12.1998: Dantista scopre vera data morte Cavalcanti
ANSA - FIRENZE, 16 DIC - Il Poeta stilnovista Guido Cavalcanti non morì il 29 agosto
del 1300, come sostenevano illustri studiosi come Isidoro Del Lungo e Giorgio Petrocchi,
ma un anno dopo, il 29 agosto 1301. Lo sostiene Giovangualberto Ceri, studioso di
Dante e astro1ogo, sulla base del Registro mortuario di Santa Reparata, che registra le
morti a Firenze fra il 1279 e il 1311. Questo, secondo Ceri, chiarisce perche' Dante, nel
canto decimo dell' Inferno desse ancora per vivo Cavalcanti nella primavera del 1301 e
consente di far cadere anche l' ultimo ostacolo a porre la Divina Commedia sulla festa dell'
Annunciazione del 25 marzo 1301. Il tutto, secondo lo studioso, si basa sul fatto che il
calendario fiorentino, a cui fa riferimento il Regist ro mortuario e che era stato adottato
da Dante, partiva “ab incarnatione Domini”, dal primo dopo Cristo, e non “a nativitate
Domini” in base al calendario di Bonifacio VIII, che partiva dal primo avanti Cristo. In
conseguenza di questa scoperta, spiega il professor Ceri, poiche' nel 1921 papa Benedetto
XV, con l' enciclica , “In praeclara” aveva dichiarato che la Divina Commedia aveva
dignità di Quinto Vangelo, un altro giubileo con dignità evangelica dovrebbe essere
proclamato dal 25 marzo 2000 al 25 marzo 2001. Una richiesta in tal senso al vescovo di
Firenze Silvano Piovanelli é stata fatta dal professor Vittorio Vettori, presidente della
Libera Università Paneuropea. (ANSA)
b) Lettera a Mons. Piovanelli Cardinale Arcivescovo di Firenze e a Mons. Plotti
Arcivescovo di Pisa; Sindaco di Firenze e Sindaco di Pisa
Alle soglie del XXI secolo e del III millennio, il nostro Gruppo dei Fedeli di Dante,
facenti capo alla “Libera Università Paneuropea” e alla rivista “Sotto il Velame” di
Torino, si pone nuovamente il problema del carattere di verità mistico-anagogica da
riconoscere al poema sacro dantesco, ufficialmente innalzato ex cathedra da S.S.
Benedetto XV, con l'Enciclica “ In praeclara” del 30 Aprile 1921, alla dignità di Quinto
Vangelo. Ciò premesso, ci è parso opportuno riferire alla sovrana “mente che non erra”
dell'Alighieri le considerazioni esposte da Giovangualberto Ceri nell'accluso articolo
intitolato : Lettera a Francesco Velardi su Guido Cavalcaati e la Cronologia e destinato
alla nostra rivista che lo pubblicherà nel prossimo numero. Risulta chiaramente da detto
articolo che il Calendario Fiorentino adottato dal Poeta sposta di fatto la conclusione del
secondo millennio al 2001, differenziandosi dal Calendario Pisano derivato da Dionigi il
Piccolo e caldeggiato da Papa Bonifacio VIII con la variante “a Nativitate Domini “.
Nel rispetto delle diverse tradizioni ed usanze, noi ci auguriamo che i Pisani celebrino
simbolicamente il Giubileo a partire dal 1999 ( 25.3. 1999 ) e che sia riconosciuto ai
Fiorentini il diritto di collocare “iuxta Dantem” la grande svolta epocale al 25 marzo 2001
inaugurando i festeggiamenti del Giubileo col 25 marzo 2000.
Il sottoscritto, anche a nome degli altri “fedeli di Dante” raccolti nel Gruppo, Fabrizio
Braccini, Giovangualberto Ceri, Gian Maria Ferretto, Marinella Ghigo, Renzo Guerci e
Massimo Seriacopi, ringrazia vivamente le Autorità religiose e civili, destinatarie della
presente segnalazione per l'attenta lettura che vorranno farne e invia insieme ai più distinti
saluti i più fervidi auguri.
Prof. Vittorio Vettori - Presidente Libera Università Paneuropea
c) Lettera a Società Dantesca Italiana, Dante Society of America, Deutsche DanteGesellschaft, Biblioteca Classense di Ravenna, Casa di Dante in Roma
Ritenendo di avere recentemente scoperto che l’anno di morte di Guido Cavalcanti non è
il 29.8.1300 ma il 29.8.1201, mi pregio gentilmente inviare alle SS. LL. la relativa
dimostrazione dal titolo “Lettera a Francesco Velardi su Guido Cavalcanti e la
Cronologia”, anche nell’intento, tutto “popperiano”, di controllare in che modo essa può
venire smentita scientificamente da qualcuno.
Diversamente la Commedia, anche in base al canto X dell’Inferno (vv. 110-111), sarebbe
ora da porsi, a più forte ragione, sulla festa dell’Annunciazione dell’anno 1300 stile
fiorentino e, perciò, sulla festa dell’Annunciazione dell’anno 1301 stile moderno o
corrente.
Mentre gentilmente allego alla presente il mio Curriculum vitae , rimango a disposizione
delle SS.LL. per ogni ulteriore spiegazione Esse ritenessero utile dovermi chiedere.
Giovangualberto Ceri
Le Signore della Fontana
L’acqua - sorgente, fontana, fiume - in ogni cultura è stata considerata veicolo di tutte
le forme di vita, strumento di purificazione, simbolo di fecondità e di fertilità, centro di
rigenerazione e di eterna giovinezza.
L’acqua misteriosa dell’inconscio e della vita
spirituale, spesso rifiutata dagli uomini, allarga i significati nell’aspetto religioso ed
esoterico, filosofico e psicanalitico: è l’inquietante sorgente Mnemosine, della Memoria
primordiale.
L’acqua viva, l’acqua della vita, è invece cosmogonica, guarisce e
ringiovanisce; è veicolo per l’eternità e nella sua valenza iniziatica fa morire l’uomo, per
rigenerarlo e farlo rinascere.
Intorno all’acqua sono fioriti miti e scenografie che la rappresentano con la donna e
con ‘albero, che allargano il raggio delle allusioni e dei significati, formando un paesaggio
mistico e topoi letterari che nella tradizione cristiana si raccoglieranno in un’infinità di
agiografie, poemi e romanzi cavallereschi, quali ad esempio quelli del ciclo del Graal.
La figura femminile del resto ha sempre rappresentato come matrice di vita anche la
madre divina: signora della vita e della morte, è colei che ne conosce il segreto. Il suo
ruolo di protagonista è confermato nelle tradizioni mitiche e religiose e la letteratura se ne
è appropriata.
La signora dell’Eden, Eva, prima donna e prima sposa, madre dei viventi, è al centro
del paesaggio edenico: “ Poi il Signore Iddio piantò un giardino in Eden a oriente e quivi
pose ogni specie di alberi piacevoli d’aspetto e buoni a mangiare, e l’Albero della
conoscenza del bene e del male. In Eden nasceva un fiume che irrigava tutto il giardino e
quindi si divideva in quattro bracci”. (Genesi,2, 8-2, 10)
Dai quattro bracci della
sorgente nasce un mistico paesaggio geografico: il primo fiume, Fison, circonda la
regione di Evila, dove si trova l’oro puro, la resina e l’onice; il secondo, Gihon, circonda
il paese di Cus; il terzo è il Tigri ed i quarto l’Eufrate.
Nel racconto biblico la parola chiave è “ conoscenza”: Adamo conosce Eva nell’atto
coniugale. Eva spinge Adamo a conoscere il frutto della conoscenza del bene e del male.
Anche in un altro paesaggio, descritto nell’Odissea, troviamo una fontana che si allarga in
quattro bracci che scorrono nelle quattro direzioni dello spazio: “ Attorno alla grotta
cresceva una selva rigogliosa: c’erano l’ontano ed il pioppo ed il cipresso odoroso. Là
avevano i loro nidi uccelli dalle lunghe ali, gufi e sparvieri e cornacchie marine loquaci
che amano vivere lungo le rive del mare.
E qui si stendeva vigorosa con i suoi tralci
intorno alla grotta profonda la vite domestica: era tutta carica di grappoli .
Quattro
fontane scorrevano con acqua chiara in fila, vicine l’una all’altra e andavano in direzioni
diverse. E all’ingiro fiorivano morbidi prati di viole e di prezzemolo “ ( Odissea, V, trad.
G. Tonna ).
La signora del luogo è Calipso, la Solitaria, la Nascosta e l’Occultatrice, lontana dal
mondo dei viventi e dal tempo. La sua isola, Ogigia, è ab origine punto cosmico tra il
cielo e la terra, circondata dalle acque primordiali. Odisseo vi è approdato naufrago e vi
dimora per sette anni: “ Il vento e l’onda lo portavano attraverso la vasta distesa di acque e
lo spinsero qui, a questa isola, e io lo accoglievo con amore e gli davo da mangiare e bere
e pensavo di renderlo immortale e immune da vecchiezza per sempre “ ( op. cit. id. ). Ma
Odisseo rifiuta l’immortalità, non brama che il ritorno allo spazio ed al tempo umani.
Le dottrine orfiche si basavano sulla metempsicosi e insegnavano ai propri adepti a non
abbeverarsi, dopo la loro morte, alle acque del Leté, il fiume infernale che cancellava il
ricordo della vita vissuta, ma a dissetarsi nella fonte di Mnemosine, che conservava la
memoria, onde evitare il pericolo di reincarnarsi e di imprigionare nuovamente la loro
anima nel corpo. Nel frammento 32 delle Laminette orfiche, che venivano poste sul
petto del defunto affinché non dimenticasse il rito, l’anima del morto é invitata a dissetarsi
nell’acqua fresca che sgorga dalla palude della memoria: bere l’acqua di questa sorgente le
consentirà di accedere alle dimore degli eroi.
La memoria, Mnemosine, sposa di Zeus e madre delle Muse, è la Signora dell’acqua
della vita, sorgente della conoscenza, luogo sacro e consacrato della sapienza e della arti.
Solo Mnemosime, come ben sapevano Esiodo ed i poeti dell’Ellade, poteva concedere il
risveglio all’immortalità, mentre le acque del Leté addormentavano con il sonno della
morte.
Quando Dante entra nel Paradiso Terrestre, “ la divina foresta spessa e viva”, vi
incontra la signora del luogo, Matelda, che gli spiega il mistero delle acque del Leté, che
hanno il potere di cancellare la memoria dei peccati commessi, e dell’Eunoè, che
restituiscono la memoria del bene compiuto, entrambe le quali sgorgano dalla medesima
sorgente divina.
Dante certamente si ispira alla visione degli Inferi descritta da Virgilio nell’Eneide, ma
non doveva essergli ignoto il passo di Isidoro di Siviglia ( Etym. XIII, 3 ), in cui parla di
due sorgenti della Beozia, dotate del potere l’una di risvegliare la memoria, l’altra di
arrecare l’oblio.
Nei romanzi cavallereschi francesi è presente l’acqua, fontana o cratere, come
strumento di rigenerazione, di eterna giovinezza e di conoscenza. Il ciclo del Santo
Graal narra la quête, spinta agli estremi limiti dell’eroismo mistico e dl martirio, del
cavaliere errante che viene coinvolto in prove iniziatiche sovrumane.
Nel romanzo il
versi di Chrétien de Troyes “Ivano, il cavaliere del leone”, la fontana con la scenografia
simbolica che ad essa si accompagna e la Dama sua signora sono il deus ex machina della
narrazione: il cavaliere ha dimenticato di tornare dalla Dama alla data fissata ed è punito
con l’onta della pazzia, che gli toglie persino la memoria della sua umanità, e diventa un
bruto che si ciba di carne cruda.
La tipologia della fontana di quest’opera è presente nel racconto gallese “Owen et
Lunet “ e nella leggenda della “Fontana di Barenton” , località a circa 40 Km. da Rennes:
entrambe avevano il potere di far cadere la pioggia. Anche Goffredo di Monmouth,
autore dell’”Historiae Regum Brittaniae”, parla di una fontana che sorgeva nella foresta
di Brocelandia, nella quale durante i mesi caldi i cacciatori attingevano acqua nei corni per
rinfrescarsi e con questo gesto facevano piovere.
La fontana e la pioggia che essa è capace di far scendere dal cielo assumono il
simbolismo della fertilità e della rivivificazione. Nel romanzo di Chrétien essa sorge in
un bosco, al centro di un labirinto d’intricati sentieri e sgorga “più fredda che marmo. Le
a ombra il più bell’albero che natura abbia mai potuto creare, dal fogliame sempre verde e
resistente ad ogni inverno. Un bacile pende ad una lunga catena che va fino alla fontana.
Accanto alla fontana ... una pietra e dall’altra parte una cappella piccola ma molto bella.
Se vorrai andare a prendere l’acqua col bacile e la spanderai sulla pietra, vedrai allora là
una tale tempesta che non rimarrà in un bosco alcuna bestia, capriolo, cervo, daino,
cinghiale e che farà volar via anche gli uccelli... L’albero... certamente era il più bel pino
che mai crescesse sulla terra...( vi era appeso ) il bacile del più fine oro; ( l’acqua gelida
della fontana ) bolliva come acqua calda. (La pietra era di smeraldo, concavo come una
botte ) con quattro rubini sopra più fiammeggianti e più vermigli del sole al mattino,
quando appare ad oriente”. (Ch., Romanzi, Sansoni, Firenze, 1970, pagg. 371-372 ).
Ivano, attirato dalla meraviglia della fontana “errò tanto ogni giorno per montagne e
per valli e per foreste lunghe e larghe e per luoghi strani e selvaggi, e attraversò tanti
paurosi luoghi e numerosi pericoli e anguste gole finchè arrivò allo stretto sentiero pieno
di spine e d’intoppi... Errò sino alla Fontana...senza arrestarsi e senza riposarsi versò
sopra la pietra con tutta la sua forza ( l’acqua che aveva attinto col bacile ) “ (op.cit. 372 e
segg. ). Immediatamente si scatena una terribile tempesta, sedata la quale compare un
fiero cavaliere in armi: è lo sposo della Dama della Fontana, che lo sfida per l’oltraggio
arrecato alle acque e al bosco. Il duello è all’ultimo sangue , ma alla fine Ivano ha la
meglio e ferisce mortalmente l’avversario. Innamoratosi della Dama, riesce a sposarla a
sua volta, ma l’offende e scacciato da lei perde la ragione. Nella seconda parte del
romanzo Ivano, recuperata la ragione, ha come compagno d’avventura un leone e dopo
innumerevoli prove di valore riesce a riconquistare l’amore della Dama della Fontana.
Simboli arcaici, biblici e del mito classico, del vicino Oriente e celtici, si influenzano
reciprocamente e attraversano i secoli conservando e ampliando la rete di convergenze e di
significati. Sia nel Genesi che nel racconto omerico dalla sorgente dipartono quattro
fiumi che scorrono in opposte direzioni, formando una croce e un quadrato, ad indicare
l’estensione e la totalità del creato, la delimitazione del mondo sensibile. I quattro rubini
che sono incastonati nel bacile del “Romanzo d’Ivano” assumono un significato identico.
La foresta, il bosco, la selva, il giardino edenico sono santuario naturale, che non deve
essere devastato. La sacralità é conferita dagli alberi che affondano le radici nella terra e
con la chioma svettano verso il cielo, intermediari tra i due mondi. Anche nella foresta,
come nell’acqua, c’é un’essenza misteriosa che ispira terrore, perché anch’essa é legata
all’inconscio ed alla paura connessa alle rivelazioni.
La natura arborea fa parte del simbolismo scenografico, a cominciare dall’Albero
della Vita e dall’Albero della conoscenza del giardino edenico, che sono complementari,
in quanto l’uno rappresenta la vita eterna e l’altro la sapienza che consente la distinzione
tra il bene e e il male.
Intorno alla grotta di Calipso si attorciglia una vite “vigorosa”, assimilabile all’Albero
della Vita, in quanto è espressione vegetale dell’immortalità; la vite per gli Ebrei è
l’albero messianico, per la mitologia greca consacrata a Dioniso, è associata alla
conoscenza dei misteri della vita e della morte. Il carattere iniziatico dell’isola di Calipso
è rafforzato dalla presenza della grotta che raffigura il mondo come materializzazione del
regressus ad uterum.
Anche il pino che svetta accanto alla fontana trasmette l’idea di immortalità. In ogni
tradizione mitologica questo albero, per la persistenza del fogliame e per l’incorruttibilità
della resina, è simbolo di longevità e d’immortalità, mentre la pigna, ricca di semi,
glorifica la potenza vitale e l’eternità.
( Anna Rita Zara )
La conquista magnanima nell’ascesa mistica di Dante
Ripercorrere le tappe dell'ascesa di Dante attraverso le cornici purgatoriali e i cieli del
Paradiso, dopo la discesa agli Inferi, collegando il senso " strutturale della narrazione
con quello allegorico-morale ed anagogico sotteso, significa rendersi conto deI processo
di fortificazione che ogni “tappa” del viaggio, di questo itinerarium mentis in Deum
espresso in forma poetica, comporta.
Il rischio affrontato dal poeta è grande: come nota giustamente un volgarizzatore di
Benvenuto da Imola in un comme nto inedito da me rintracciato in un codice datato
1417 (1) in apertura al canto X del Purgatorio, « il superbo reputa la Superbia,
Magnanimità, e la Umilità reputa Pusillanimità »; e Dante, che si riconosce fortemente
piagato dal peccato della Superbia (cfr. Purgatorio, XIII 136-38), dovrà imparare
gradualmente e con sforzo a ribaltare le concezioni terrene, nel corso di questa mistica
ascesa; per questo, continua il nostro anonimo commentatore, « il poeta insegna fuggire
le stremità e pigliare il mezo », secondo i dettami già propri dell' Etica aristotelica, ripresi
dal mondo latino (Cicerone, ecc.) e ritrasmessi al mondo medievale: durante l'episodio
descritto, infatti, nell'interpretazione allegorica rilevata dal commentatore, Virgilio deve
barcamenarsi lungo una via ondeggiante a simboleggiare il bisogno di evitare “le
stremità de' vizii “, e di « ingegnarsi di non si dilungare del mezo, in che consiste la
vertù».
Le considerazioni di un esegeta di fine Trecento quale è Benvenuto da Imola, le sue
ricerche dei sensi nascosti del testo dantesco, meritano di essere tenute di conto, in
quanto riflettono l'interpretazione di chi, per una questione temporale, era molto più vicino
di noi, per rnentalità e per cultura, all'autore: quindi, spesso maggiormente in grado di
recepire e spiegare correttamenle i messaggi di Verità velati nella bella fictio sapienziale
che la poesia rappresenta per l'uomo del Medioevo.
Vorrei proporre questo, dunque: l'analisi di alcune tappe del “processo di
riabilitazione” morale e spirituale che il viaggio dantesco rappresenta, nei suoi significati
“altri” sottesi alla narrazione letterale, esemplari e di utilità per indirizzare rettamente la
cristianità e la società a lui contemporanee, sviate per le mancanze delle guide ordinate da
Dio, papa e imperatore, per il mondo spirituale e per il consorzio civile.
Questa palestra della virtù di Fortezza implica anche una graduale ma coerente
acquisizione delle doti proprie del magnanimo cristiano, in preparazione al dono delle
Virtù teologali che ricompongono la similitudine con il Creatore.
All'inizio del suo pellegrinaggio ultraterreno, dunque, Dante era assai dubbioso sulle
proprie effettive capacità
e responsabilità che giustificassero una tale speciale
concessione:
Io cominciai: Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù s'ell'è possente
prima ch'a l'alto passo tu mi fidi...
Io non Enea, io non Paulo sono;
me degno a ciò nè io nè altri ‘l crede (2)
La preghiera successiva al savio Virgilio, perché “intenda” il vivente che “non
ragiona” (né potrebbe, all'inizio del viaggio, perchè non ha ancora acquisito o confermato
certe virtù), la dice lunga sui sensi reconditi che il poeta latino racchiude nella sua figura,
pur nella sua componente di “realtà storica”.
Ombra, cioè anima, di magnanimo, evidenzia la viltà presente nel dubitare dantesco, e
lo stimola all'azione guidata da ardire e franchezza (buono ardire, specificherà poi
Dante), replicando tali inviti nei momenti cruciali del viaggio: perchè questo è voluto da
Dio e richiesto dalle preghiere di tre donne benedette, con tutte le valenze allegoricosimboliche e figurali che queste racchiudono: da quello che per Dante ha significato
Beatrice, a Lucia, denominate come chiara sostanzialità di u”apportatrice, mezzo per
arrivare alla beatitudine celeste” e “mezzo per la ricezione della luce divina”; partendo poi
dalla Madonna, intermediaria per eccellenza, che riesce a “frangere” duro giudicio là sù,
in cielo, e a far concedere la speciale Grazia del cammino verso la Verità.
Conosciuto fino in fondo il male, fortificato nel suo esemplare rifiuto, Dante sarà
quindi pronto ad un'ascesa che richiederà un preliminare rito di purificazione: in chiusura
del I canto del Purgatorio, perché gli sia tutto discoverto il colore che l'Inferno gli ha
nascosto, cioè quello che connota la sua essenza umana con le virtù potenziali a questa
collegate, viene cinto da un giunco schietto, un'umile pianta che simboleggia la dote
indispensabile al cristiano che voglia compiere l' ascesa mistica, l'Umiltà appunto.
Tutte le esperienze purgatoriali saranno altrettanti gradini di preparazione, finché, con
impeto magnanimo , Dante non avrà imparato a conquistare quanto è possibile alla
Prudenza, alla Sapienza umana, e quindi a ricostituire libero, dritto e sano il proprio
arbitrio (XXVII, 140): a quel punto ciò che simboleggia Virgilio non basta più, è
necessaria la scienza divina, che a prove trans-umane porterà il vivente, perchè si
guadagni questa acquisizione per propria nobiltà d'animo e per preciso, provvidenziale
dono divino (gratia gratis data) .
L'avvento di questo “salto qualitativo” è testimoniato dal canti XXIX-XXXIII del
Purgatorio, così densi di significati allegorici e simbolici che richiederebbero di per sé una
trattazione ben più ampia, rispetto a quella a cui qui si accenna: basti adesso dire che il
culmine è rappresentato dalla raffigurazione dell'avvento della “nuova”, perché ormai
beata, Beatrice.
Sarà lei, speculum Christi, la nuova guida attraverso i cieli paradisiaci, intessuti di
simbologie relalive alla luce ed all'armonia musicale: lei porterà Dante a contatto con gli
spiriti veramente magnanimi, veramente sapienti, perché perfetti cristiani, che lo
interrogheranno sull'essenza di Fede, Speranza e Carità, le tre Virtù teologali che,
garantito il loro possesso, permettono il ristabilirsi della similitudo con Dio.
Addirittura questa nuova valenza simbolica di Beatrice diventa mezzo per il contatto e
la visione del cielo Empireo: ma nemmeno lei sarà sufficiente per l' ultimo grado
dell'ascesa mistica, quello della visione di Dio, perché serve la mediazione di un mistico,
abituato a chiedere a Maria Vergine e madre di concedere la propria indispensabile
intercessione.
Fortificato prima per quanto è umanamente possibile per il magnanimo sapiente, poi
“trasumanato” nella dimensione del divino, il poeta tenta ora con tutte le proprie armi di
descrivere i misteri della fede cristiana, le Cause Prime del fuoco di Carità: Dio Uno e
Trino e Cristo Incarnato; e lo fa con il dono più alto concesso alle possibilità umane, la
parola, questo mezzo così "legato" ma così ricco, per chi, come lui, ha imparato ad usarlo
in massimo grado.
Ma non sono da ciò le proprie penne (XXXIII, 139): la mente di Dante viene
percossa/ da un fulgore, e viene a mancare la possa all' alta fantasia: il disio e il velle
vengono "volti" dall'Amore divino, perchè l'esperienza dell'estasi mistica ha trovato il
proprio magnanimo compimento.
( Massimo Seriacopi )
Note:
(1) Si tratta del manoscritto con segnatura Pluteo 40.37 conservato nella Biblioteca
Medicea Laurenziana di Firenze.
(2) Inferno, II 10-12 e 32-33; si cita dall’ultima recentissima edizione critica: Dante
Alighieri, La Commedia secondo i più antichi codici fiorentini, a cura di Antonio Lanza,
Anzio, De Rubeis, 1995
Bibliografia:
A. Pagliaro - Il canto II dell’Inferno in Nuove Letture Dantesche, Firenze 1997,
I,pp. 17-46
V. Russo - Timor, Audacia e Fortitudo nel canto II dell’Inferno, in Filologia e Letteratura,
XI, 1965, pp. 391-408
M. Donadoni - Le premier chant du Purgatoire: l’engagement de la conscience, in
Bullettin de la Société d’Etudes Dantesques, XII, 1963, pp. 35-47
E.G. Parodi - L’albero dell’Impero, in Poesia e storia della Divina Commedia, Venezia
1965, pp. 325-38
M. Apollonio- Il canto XXXIII del Paradiso, Firenze, 1968
B. Nardi - Nel mondo di Dante, Torino, 1960
Sul concetto di esoterismo
Con il termine “esoterismo” suol generalmente designarsi una sorta di insegnamento
"interno" trasmesso soltanto agli iniziati di certe confraternite, scuole , sette filosofiche o
religiose dell'antichità e dei tempi moderni, ovvero la dottrina "segreta" nascosta sotto un
insegnamento accessibile a tutti.
In alcuni autori antichi, troviamo un sinonimo di "esoterico" "acroamatico" o
"acroatico". Tali ultime locuzioni designavano anche una serie di libri, detti, appunto , "
acroamatici " consistevano in opere filosofiche e , più spesso, poetiche, concernenti
soggetti sacri e misteriosi, il cui senso era comprensibile soltanto in funzione
dell'"iniziazione" dei lettori o se gli autori ne davano la chiave di interpretazione. Fra gli
altri, ricordiamo che i trattati alchemici venivano considerati libri "acroamatici".
Presso Giamblico ( 250 circa - 330 a. C. ) , gli " esoterici" erano i discepoli ammessi,
dopo numerose prove, a ricevere l'insegnamento diretto, intimo e segreto di Pitagora ( VI
secolo a. C. ) , a differenza degli "essoterici" , semplici postulanti che venivano istruiti
soltanto su alcuni aspetti esteriori della dottrina.
Nel IV secolo a. C. , in Platone come in Aristotele il termine distingueva soltanto le
dottrine.
Riscontriamo, infatti, una duplice filosofia platonica: il primo aspetto era
“essoterico " ed esposto nei dialoghi conosciuti , in forma essenzialmente dialettica ed
accessibile a tutti, come una " filosofia delle idee " . Il secondo aspetto , " esoterico ",
più astratto ed interiore, consisteva in una filosofia di ispirazione pitagorica ed in una
numerologia.
Anche in Aristotele ritroviamo la divisione delle opere in " acroamatiche " od
"esoteriche " ed in " essoteriche " . Secondo i comm entatori la differenziazione non si
basava né sulle questioni poste nè sulle risposte, ma piuttosto sulla forma e sui
procedimenti di argomentazione e di esposizione.
Nella storia delle religioni rivelate che possiedono libri sacri, e, in particolare, nella
storia del Cristianesimo e dell'Islamismo, la maggior parte dei conflitti sorti fra le sette
traeva origine da un conflitto sul piano ermeneutico ; in altri termini, tali conflitti furono
provocati dalle divergenze e dalle opposizioni fra le interpretazioni essoteriche delle sacre
scritture ovvero fra queste e quelle esoteriche.
Fin dalla gnosi delle prime generazioni dell’Islam si attribuiva al Profeta il seguente
hadith : “il Corano ha un senso essoterico ed un senso esoterico. A sua volta questo
senso esoterico ha un senso esoterico e così di seguito fino a sette sensi esoterici”.
Questa pluralità di sensi spirituali nascosti sotto il senso " letterale ", aveva come
conseguenza una diversità del modo di essere del " Vero Fedele" , a seconda che fosse
iniziato o meno a quella Comunicazione interna ed intima con l’Insegnamento del
Profeta.
Soffermiamoci ora a considerare perche è riscontrabile fin dagli albori della civiltà
umana una ricerca della dimensione del Sacro, dimensione in cui si risolve, in ultima
analisi, la ricerca esoterica. Qualora si consideri l'essere umano da una prospettiva che,
senza annullare la dimensione fisica e psichica, la superi e la trascenda per ricondursi a
quella spirituale, si vede e ci si spiega come la storia umana sia testimone dell'innata
ricerca da parte dell'uomo di un"qualcosa" di sovraindividuale, di un'aspirazione verso la
Trascendenza, del senso di dipendenza, in quanto essere relativo, da un Principio che è, al
contempo, al di fuori, all' interno ed al disopra del contingente.
E' l’esperienza della limitatezza e della sua imperfezione accompagnata dall' anelito per
l'Illimitato, l’Infinito , l'Eterno, che spinge l' essere umano verso, appunto, l'Assoluto, il
Perfetto, l'Archetipo Principiale. Tale anelito risiede nella consapevolezza di essere una
sorta di “ modello”, che , per sua propria natura , tende al suo Archetipo.
Dante Alighieri afferma nel Convivio : " . ..tutti gli uomini desiderano di sapere. La
ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da Providenza di propria natura
impita, è inclinabile a sua propria perfezione" . In queste parole è racchiuso il senso
profondo della ricerca del Sacro in ogni epoca ed in ogni società umana, ricerca che
risponde al ben noto imperativo socratico : " Conosci Te stesso " ; con tale espressione,
Socrate, si riferiva non già alla conoscenza del piccolo "io" individuale umano, ma bensì
al sé sovraindividuale e divino presente in ogni uomo. Socrate afferma ancora che
"conoscere è ricordare" ed allora il " sapere " dantesco ed il " conoscere " socratico
esprimono , come ben dice Angelo Terenzoni , " la medesim a alta realtà dell’ aprirsi alla
Verità Eterna , all’ Assoluto , all’ Uno che regge l'universo e nel quale l'universo è
essenzialmente riassunto".
Occorre peraltro rilevare con Terenzoni, seguendo il magistrale insegnamento di René
Guénon, che la ricerca del Sacro, contrariamente
a certe impostazioni di marca
psicologica o psicoanalitica, non va affatto ricondotta alla ricerca dei " contenuti "
dell’inconscio , alle passioni , alle pulsioni, alle paure ed alla loro emersione a livello
conscio; neppure può ricondursi la dimensione del Sacro al concetto junghiano di
archetipo , sempre riferit o all’ inconscio .
René Guénon rovescia tali interpretazioni e
riferisce gli archetipi, recuperandone l' etimologia tradizionale, al Sovraconscio , al senso
superiore delle cose, alla spiritualità pura.
In tale ottica, come ben rileva Terenzoni , l'individuo , da mero " oggetto " di studio
come troppo spesso è considerato dagli psicologi e dagli psicoanalisti , ritorna "soggetto"
pensante e dotato di una "dimensione" spirituale, rivelandosi per quello che è: il
Microcosmo che riflette il Macrocosmo, l'Immagine Divina nel mondo, l'Adamo a cui
Dio rivela i "nomi" di tutte le cose create e "conosce" , in tal modo, l' essenza della
creazione.
Dunque, alla base della Ricerca del Sacro che è lo scopo del vero Esoterismo, vi è, per
dirla con Terenzoni la natura " teomorfica" dell’ uomo .
Da essa scaturisce il
“fenomeno religioso”: il tentavivo dell'uomo di recuperare la " parte " più vera di sé che
é , al contempo , “ dentro,” e “ fuori “ di sé attraverso l'Intuizione che trascende
l'intelletto, la logica e la razionalità.
Da quanto sopra detto, risulterà evidente la difficoltà di dare una compiuta definizione
per iscritto dell' Esoterismo. Neppure può essere spiegato oralmente in termini logico
razionali : è soprattutto una sperimentazione personale e soggettiva e, soprattutto,
interiore. Ogni essere umano ricerca la felicità cercando soddisfazioni fisiche, materiali,
sociali, intellettuali. Tuttavia, la confusione presente a tutti i livelli nella nostra società
dimostra chiaramente che le sole soddisfazioni materiali non sono sufficienti alla felicità
degl i esseri umani . Occorre qualcos’ altro , un " supplemento d'Anima" per dirla con
François-Xavier Chaboche, un modo di vivere diverso da quello comunemente
condotto dalla maggior parte degli Occidentali ; un modo di vivere che , in altri termini,
lasci spazio a veri valori quali la fraternità, la creatività, la vera conoscenza, ben diversi
dagli “pseudo-valori” materialistici, quali il denaro, il successo, il potere.
Consciamente od inconsciamente tutti cerchiamo la vera Felicità in un Assoluto che è ,
insieme , un " Totalmente Altro" ed un "Totalmente Noi Stessi". Si cerca di riempire il
vuoto dell'insoddisfazione con ogni mezzo, ma i mezzi materiali mai colmeranno tale
vuoto e mai calmeranno tale insoddisfazione. Come ben dice François Xavier Chaboche
la vita spirituale non è un'astrazione : essa è una realtà eminentemente concreta, molto di
più della stessa realtà materiale, solo apparentemente concreta perchè soggetta alla legge
del "sorgere-brillare-sparire". E' astrazione solo per chi non ne ha mai fatto esperienza
personale. Di tale realtà si può provare il contenuto e sperimentarne le leggi con i mezzi
ultramillenari provenienti dalla Tradizione Primordiale. Se può parlarsi di Vita Spirituale,
occorre evidenziare anche la realtà di una Scienza spirituale , nota a tutti i Fondatori di
Religioni. Purtroppo, il pericolo che incombe su ogni religione, dopo la sparizione del
Fondatore ed i primi entusiasmi dei suoi seguaci diretti, è la degenerazione della
medesima, traducentesi in una sorta di sclerotizzazione , di cristallizzazione, in un
dogmatismo ed in un formalismo sempre più rigido, in cui lo Spirito perde
progressivamente importanza in favore della lettera. Ciò è dovuto all' idolatria della
ragione umana, all' uso ed alla considerazione della logica come valore assoluto, come
unico parametro valutativo ed interpretativo della realtà. La logica, suppur di gran valore,
è tuttavia relativa : come potrà dunque il relativo " comprendere ", anche in senso
etimologico, l'Assoluto? Solo l'Assoluto può comprendere se stesso e solo l'Assoluto
nell'essere umano, il Sé, può dare l' Intuizione che trascende la logica.
Nel cuore delle religioni sopravvive, tuttavia, un piccolo nucleo di esseri che si
trasmettono, di generazione in generazione, la verità originale, oramai dimenticata anche
dagli " addetti ai lavori " ( che non sono più " addetti ai Valori! ) E' qui che si registra la
distinzione fra l’aspetto “esoterico” e l'aspetto “essoterico” o “exoterico” di ogni religione
o,aggiungeremmo con René Guénon, più propriamente , di ogni Tradizione , espressione
in un dato tempo ed in un dato luogo della Tradizione Primordiale.
Il termine "esoterico", proviene dal greco "!!!!!!!!!!", che
significa "dall' interno", in contrapposto ad "essoterico" od "exoterico" che significa
"dall'esterno". Come già si e detto, presso i filosofi greci, l' insegnamento "esoterico" era
riservato soltanto ad alcuni. Da qui la nozione di " elite spirituale", alla quale soltanto
sarebbero accessibili verità di ordine superiore o, meglio, di ordine propriamente
metafisico. Occorre, anzitutto, sgombrare il campo da possibili equivoci relativamente alla
summenzionata nozione di elite Spirituale. Il far parte di una vera "scuola" esoterica non
dipende dall'appartenenza ad una determinata casta, classe o posizione sociale, nemmeno
dal grado di intelligenza o di cultura e men che meno dalle condizioni economiche.
Prescinde totalmente, quindi, da tutti i requisiti che potrebbero essere richiesti per entrare
in qualsivoglia " elite " intesa nel senso profano e degenerato che oggi si attribuisce a tale
termine. L’unico "requisito " o privilegio, se tale si vuol considerare, è quello di cercare
sinceramente ed ardentemente la Verità per se stessa e di sacrificare tutto ad Essa,
soprattutto il nostro miserrimo ego: "molti sono i chiamati, ma pochi gli Eletti". E' d' uopo precisare che non si e "eletti" che da noi stessi, attraverso lo sforzo effettivo che
siamo pronti a fare per accedere ad una più ampia comprensione della vita, ad un " più
gran Bene " , direbbe Teilhard de Chardin.
Secondo la Tradizione non vi sono “segreti” ma “gradi” di comprensione.
L’esoterismo, scienza dell’interiorità delle cose, per dirla con Kant, del “noumeni” in
contrapposto ai “ fenomeni”, oggetto di studio delle scienze sperimentali, a ben vedere,
non significa affatto “ dottrina nascosta” nel senso di “ volutamente nascosta” da parte di
pochi presuntuosi che vogliono considerarsi superiori agli altri o che vogliono comunque
esercitare un potere sugli altri: la segretezza dei suoi insegnamenti è nella natura stessa
delle cose.
In altri termini, benchè gli insegnamenti esoterici siano potenzialmente
riservati a tutti, poichè la Verità non può essere monopolizzata da alcuno, solo alcuni si
accostano ad essi perché si sentono insoddisfatti dei beni materiali e si rendono conto che
la vera Felicità va ricercata in “qualcos’altro”.
Come ben fa notare Chaboche, esiste un equilibrio fra l’interiore e l’esteriore, lo spirito
e la lettera, la sostanza e la forma, la conoscenza ed il rito. Nella terminologia spirituale,
“segreto” significa “ sacro” e “mistero” significa “ministero”. I miti, i simboli ed i riti
non sono altro che le chiavi che consentono, attraverso l’intuizione, di penetrare
nell’Universo Spirituale.
Un elemento comune a tutte le dottrine esoteriche è la necessità di un’ " ascesa
spirituale " , per mezzo della quale l'iniziato raggiunge dapprima la Visione del Divino e
poi la Fusione con il Divino stesso, intendendo il Divino sia come Sorgente che come
Risultato di ogni manifestazione.
Iniziato significa “introdotto”; la vera iniziazione,
secondo Chaboche si ha soltanto attraverso sè stessi, poiché l’entrata nel Mondo
Spirituale è il frutto di una decisione personale e perseverante. L’incontro del discepolo
con il maestro non sarebbe altro che l’incontro con sé stesso, su un’ottava superiore
dell’esistenza.
Mentre la religione essoterica presenta un Dio esterno all'uomo, creatore buono ma
anche giustiziere, al quale ci si deve rivolgere solo in termini di supplica, la religione
esoterica, al contrario, ci parla di un Dio interiore, di un Dio d'Amore che è, come esprime
efficacemente Chaboche , " di più noi stessi che noi stessi" o, come dice il Vangelo " più
vicino dei piedi e delle mani". Il Dio interiore dell'esoterismo cerca di nascere nella grotta
del nostro cuore sollecitandoci a cercare il senso dell' esistenza.
Un altro carattere degli insegnamenti esoterici è l’oralità , poiché solo attraverso essa la
trasmissione può essere attuata in maniera vivente ed ispirata. Occorre, peraltro,
sottolineare che l'insegnamento esoterico, contrariamente a quello delle materie profane,
come la scienza o qualsiasi altra disciplina, non consiste nel fornire dall'esterno una
dottrina all'iniziando, ma il Verbo del Maestro non ha altro scopo se non quello di
svegliare il Verbo Interiore, assopito nel cuore del discepolo. Da qui la Maieutica o "arte
di partorire gli Spiriti " di Socrate e il detto " non si apprende alcunché che già non si
sappia".
I testi sacri delle varie religioni non sarebbero altro che una sorta di "pro-memoria"
dell'espressione del Verbo, della Verità e non la Verità stessa : pertanto tali testi non
debbono essere interpretati con la logica umana, ma devono essere interpretati dal Verbo
Interiore risvegliato.
La segretezza che, talvolta, circonda l'insegnamento orale è una protezione contro la
vana curiosità e l’incomprensione di coloro che non sono spiritualmente maturi ed ai quali
l'errata interpretazione degli stessi potrebbe risolversi in un danno spirituale e psicologico.
Sempre nell’ ottica di " protezione " di coloro che sono , totalmente o parzialmente,
impreparati a ricevere l' insegnamento esoterico, è l' istituzione dei "gradi di iniziazione"
che permette di progredire senza pericoli
Riassumendo, secondo François - Xavier Chaboche , l'esoterismo può definirsi:
a) la scienza dell"'interiorità dell'essere" e cioè una ontologia che trascende tutte le
speculazioni puramente intellettuali attraverso la percezione interiore e la sperimentazione
personale. In quest’ottica egli si pone in una posizione diversa rispetto a René Guénon
che identifica l’esoterismo con la metafisica la quale, occupandosi anche del “non essere”
trascende la mera ontologia o scienza dell’essere.
b) la scienza della " globalità dell’ essere",vale a dire, la disciplina che afferma e descrive
l'unità organica fra tutte le parti dell' universo, fra ogni parte e il Tutto e l'unità
fondamentale di tutti i modi di procedere verso la scienza della Verità.
Venendo alla concezione di esoterismo in René Guénon, uno dei massimi metafisici
ed esoteristi di tutti i tempi, per certi versi discostantesi da quella suesposta e
comunemente accolta, evidenziamo come tale Autore ritenga che l’ esoterismo non debba
essere confuso "sic et simpliciter" né con la religione "tout court", ne con l'occultismo.
Invero, secondo tale impostazione dottrinale, l' esoterismo è un "quid" essenzialmente
diverso dalla religione e, come tale, non può neppure propriamente ricondursi alla "parte
interiore" della religione stessa, anche quando prende, per così dire, la sua base e il suo
appoggio su di essa : " l’esoterismo , anche quando prende per appoggio, come mezzo di
espressione e di realizzazione la religione, non fa altro che collegarla al suo Principio,
intendendo tale termine nella sua accezione metafisica
come Principio della
Manifestazione Universale.
L'esoterismo, secondo Guenon, sviluppa e completa, dandogli un senso più profondo,
quanto l' exoterismo espone in forma vaga e semplificata: è, in altri termini, ciò che è lo
Spirito in rapporto al corpo. Si potrebbe parlare di un esoterismo e di un exoterismo in
ogni dottrina Tradizionale, distinguendone la "concezione" e la " espressione "; la prima
del tutto interiore, di cui la seconda non è che l' esteriorizzazione : la concezione
rappresenta l'esoterismo e l'espressione l'exoterismo. Ora, la religione si fermerebbe al
solo dominio exoterico ed avrebbe come fine la " Salvezza" che attiene ancora all’ ordine
individuale, cosa ben diversa dalla Liberazione o Identità Suprema che attiene all'ordine
sovraindividuale ed incondizionato, fine ultimo dell’esoterismo.
( Luciano Ferraris )
Bibliografia:
Angelo Terenzoni - Pensieri sull’esoterismo di René Guénon - F.lliMelita Ed.
François Xavier Chaboche - L’esoterismo nelle religioni - in Enciclopedia di
Parapsicologia ed Esoterismo - Vol. I - Procaccianti Ed., Milano
René Guénon - Considerazioni sulla via iniziatica - F.lli Melita Ed.
René Guénon - Introduzione generale allo studio delle dottrine indù - Ed. Studi
Tradizionali, Torino 1965
Grandezza di Dante e del suo messaggio
Tutte le volte che penso alla universalità della gloria di Dante, mi prende uno
smarrimento come davanti a un miracolo quasi incomprensibile. Seguitemi un momento:
in un periodo crepuscolare della nostra vita di popolo, e sia pure crepuscolo da’ alba, un
uomo povero, solo, bandito dalla sua terra, che gli uomini di scienza del suo tempo
dichiarano negato alle alte vette dell'erudizione e dell'ispirazione, che i politici della sua
città accusano di baratteria, ossia di truffa ai danni dello Stato, in modo da minacciarlo
dell'amputazione e del rogo, proprio mentre cammina randagio per tutta la penisola
mostrando agli altri con vergogna « la piaga de la fortuna » e mendicando un pezzo di
amarissimo pane, concepisce e attua, non si può nemmeno dire in una lingua, ma in un
dialetto, il dialetto della sua città e dei dintorni, un poema che mette in luce eventi talvolta
di altissima, talvolta di mediocre, talvolta di nessuna importanza storica, un poema tutto
intrecciato dei concetti ma anche dei preconcetti del suo tempo, un poema che si impernia
su quella visione e su quella concezione mistica e teologica della vita che se oggi non
hanno certo perduto ne nobiltà ne bellezza, hanno perduto quella centralità che ne faceva
ai tempi di Dante la spina dorsale del sapere.
Un poema dunque che ha in se tutti i germi di una rapida decadenza e perfino
dell’oblio; e invece via via che passano i decenni e i secoli quest'opera si afferma sempre
più poderosamente, penetra nella coscienza della Nazione, anzi contribuisce fortemente al
costituirsi di questa coscienza. Gli uomini del popolo stesso se ne commuovono fino a
impararne a memoria i canti più accessibili e le persone di spirito più eletto se ne fasciano
l'anima come di una loro propria luce; di più, l'opera varca i confini della Patria e non c'è
Nazione civile che non voglia conoscerla e penetrarla; di più ancora : popoli da noi così
distanti e diversi che quando li pensiamo ci sembrano piovuti da un altro pianeta sulla
Terra, come gli uomini più colti dell'Oriente, i Giapponesi, vogliono averne la loro
edizione e la loro interpretazione; di più ancora, anche una gente, che ai tempi di Dante
non era se non una violenza barbarica incuneata nel vecchio ceppo della tradizione
romana, le gente germanica, arriva a dare alcune fra le interpretazioni fondamentali del
poema; di più ancora: un continente che ai tempi di Dante neppure si sapeva che esistesse,
l'America, non ha oggi nelle sue metropoli una Università di pregio che non vanti una
cattedra consacrata al culto di Dante ; di più ancora: col passare dei secoli Dante è
diventato l'espressione stessa della poesia e del poeta, tanto che un grandissimo poeta
moderno - il Pascoli - ha potuto immaginarselo quale Egli stesso si rappresentò quando
ormai alla sommità del Purgatorio ascende come in un'eterea visione : Dante si amplia,
perde il contorno umano, si adegua al cosmo, diventa una sola cosa con l'infinito, le
comete scendono a intrecciarsi nei suoi capelli, le stalle passano ad accendersi e spegnersi
nei suoi occhi, e li è ormai l'universo stesso, e tutto sintetizzato nell'universo è la forza del
pensiero umano che di fronte all'infinito e all'Eterno pare elevarsi a guardia dei destini
della Terra e dell'umanità veggente.
Ma noi, del resto, non abbiamo finito col diventar preda di una specie d'infatuazione
collettiva, non abbiamo finito con l'attribuire a Dante e al suo poema quel senso della
perfezione che inseguiamo col nostro spirito tutte le volte che cerchiamo la perfezione
ideale della poesia e del poeta? Per dire tutto con una immagine sola, non abbiamo finito
col fare di Dante un mito come hanno fatto i popoli primordiali, quando crearono la favola
di Anfione che col suono della cetra sollevava i macigni a innalzare le mure della sua città,
o più spiritualmente ancora come Orfeo che col suo canto si trascinava dietro le fiere?
Basta che apra una pagina della Divina Commedia, basta che legga a caso alcune terzine
del poema e ogni dubbio svanisce dal mio pensiero e sento che siamo davvero davanti alla
più complessa coordinazione in un uomo solo di tutte le forze dello spirito, del cervello e
del cuore che l'umanità abbia visto attraverso i millenni della sua storia.
Dante ha un potere d' intuizione così rapido e così sicuro, che il suo intelletto scende
al centro di tutte le cose che osserva, come un colpo di sonda che trae su la sostanza e
solo la sostanza; Dante ha in se una vastità e compiutezza di cultura tale, che in lui, come
fiumana in lago, convergono tutte le più serie, le più essenziali tradizioni della vita
spirituale umana; Dante ha una così facile e felice associazione di idee, che balza fulmineo
da ciò che osserva nella vita a ciò che legge nei libri, da ciò che gli rivela l' attimo fuggente
a ciò che ha accumulato l'esperienza dei secoli; Dante ha un potere di elevazione così
grande dalla sostanza umana, che tutte le scene che coglie nella vita e vuol rappresentare,
gli si trasformano immediatamente in sostanza drammatica, lirica, epica.
Dante ha un
potere di trasfigurazione fantastica così personale e così impetuoso che i suoi concetti più
astratti e oserei dire più astrusi diventano al contatto magico della sua espressione
sensibili in modo che noi li palpiamo in immagini col nostro spirito; Dante ha una
adeguatezza di parola umana tale, che il vocabolo si stringe attorno al suo concetto come
la buccia attorno alla polpa del frutto maturo, senza che una sola stilla vada dispersa;
Dante ha un potere di evocazione musicale così rilevante che, oserei dire, uno straniero
che conoscesse appena la lingua italiana, a udir leggere un canto di Dante ne
comprenderebbe l' essenza soltanto abbandonandosi all'armonia della sua parola.
E tutto questo Dante ha sintetizzato in quella che è stata sempre e sempre sarà il
fondamento e il vertice di tutte le altre arti, l'architettura, perché ciò che ha veduto della
vita universa al di qua e al di là della morte, lo ha architettato nei suoi tre regni come le tre
chiese sovrapposte di San Francesco d' Assisi : la chiesa inferiore tutto mistero e labirinto
di enigmi, la chiesa a raso del suolo tutta aperta alla vastità e alla luce dell' orizzonte, e
infine la maggiore e più alta, la chiesa superiore, in cui tutto ciò che la nostra anima sogna,
desidera, anela, si libra su in vortici concentrici di canto, proprio come le cime delle
cattedrali gotiche si ergono in pinnacoli, statue, guglie d'oro in mezzo all'azzurro.
Egli ha creato questi tre mondi per mezzo :di queste tre cantiche di versi dalla terza rima,
vigilati sempre da questa legge della perfezione del numero tre.
L'Inferno, cupo baratro vertiginoso in cui discendiamo da un male a un male sempre
maggiore, da una punizione a una punizione sempre più grave - sentina di tutti i dolori e
di tutti gli orrori...: figure come solamente ha potuto darcene il grande e unico fratello di
Dante, Michelangelo, quando scolpisce il suo Prigione che par gonfiare i muscoli fino a
spezzare le catene, e la raffigurazione artistica arriva sino ai confini in cui la forza umana
si frange e pure la lascia così armonica; espressioni date soltanto dallo spagnolo Goya in
tutte le sue evocazioni di rivolte e massacri che solo gli avvenimenti di questi ultimi mesi
hanno fatto capire come siano aderenti alla realtà della sua razza; sensazioni musicali
come ha dato soltanto Wagner nei suoi preludi, quando i motivi dominanti sembrano
quasi radicati dentro la terra e si sforzano di ascendere e si torcono fin che giungono a una
esplosione di singhiozzi che è tutto un grido armonioso. colorazioni quali ce ne ha date
solo il nordico Rembrandt : si discende da un uragano livido a una pioggia di fango o di
fuoco per laghi, fiumi di sangue, di putredine, di pece; si procede per una vertigine di
strazi umani, di mutilazioni, di vergogne, si batte giù dove è spento ogni ricordo di
sentimento umano nella ghiacciaia del tradimento, ci capovolgiamo nel male stesso,
risaliamo per un andito buio e ci troviamo... presso un mare sereno: il mare si accende dei
primi chiarori dell' alba, la spiaggia è tutta dorata, al disopra del cielo immutabile è tutto
trasparenza e splendore, perché là non ci sono variazioni e nel mezzo si eleva una
montagna enorme ideata e costruita da un artista, si sale da un bene a un bene maggiore,
da una speranza a una certezza, da un desiderio a un'estasi, con una gente mite, serena,
rasserenata, che ha abbandonato la Terra ma non se n’é ancora dimenticata, che sa di
muovere verso un fine supremo, ma che dovrà ancora molto patire prima di raggiungerlo
e gode il suo patimento stesso che è affinamento, figurazioni che ha date soltanto il Beato
Angelico quando col cuore traboccante di devozione s'inginocchiava per terra a dipingere
i suoi angeli adoranti intorno alla Vergine e ci dava intanto il senso miracoloso della
primavera fiorentina; intuisce quali trama soltanto il limpido genio di Verdi quando in
alcuni preludi si abbandona tutto all' estasi dei violini... giù per un'immensa discesa di
correnti bianche che gli trasformano il senso unico della vita in un senso corale, canti di
nostalgia di gente che ha abbandonato la sua terra, ma non l'ha dimenticata : « O Signor
che ,dal tetto natio... ": anch'egli canta una gente che va verso la terra promessa e getta
avanti il suo pensiero per incoraggiarsi : « Va' pensiero su l' ali dorate... ».
Ormai il male è dileguato da noi, fatti trasparenti e liberi ci innalziamo al cielo, tutto ciò
che era ricordo terrestre e umano svanisce dalla nostra figura, non c'è più che qualche
iridescenza di sorrisi, che qualche lampeggiamento di sguardi, poi tutto si affonda nella
musica e nella luce. Nella musica e nella luce le anime si nascondono e si rivelano, ma
Dante, prodigioso architetto, anche di queste due immateriali sostanze fa costruzioni e noi
saliamo per ghirlande, croci, aquile, scale di facile e infinita ascensione, fin tanto che
l'anima nostra è come stordita da tutto questo splendore e tutta questa luce, e ci pare che
dal seno stesso dell'infinito scendano le anime di un torrente luminoso d' oro in mezzo a
una primavera splendente in cui tutto arride, e api - essenze angeliche - vanno dal fiume ai
fiori, dai fiori al fiume, portando desiderio e recando beatitudine, come se fossimo nel
giro d'una vertigine. Tutto prende a rotare intorno a noi, prende forma circolare : è la Rosa
mistica paradisiaca, abbagliante, tanto che dal confine estremo si accende una luce novella,
la Vergine, orifiamma del Paradiso, e come se tutto s'accentrasse in un punto, una freccia
d' oro scende, folgora il nostro spirito e si spegne : Dio stesso che si rivela e si nasconde.
Una musica come solo Beethoven ha saputo dare, quando giunto ai confini della vita e
avviato all'Eterno, ha alzato nella Nona Sinfonia quell' inno che fu chiamato « Inno alla
gioia », ma in realtà è l'inno disperato dell'anima umana che tende a una gioia che sa di
non poter raggiungere e nel quale il titanico sordo, fondendo il coro con l'orchestra, ha
levato tale impeto di musica da farci sembrare che dall'abisso dell'infinito si sollevino
immense onde, nel tentativo supremo di afferrare le stelle.
Questa è la Divina Commedia, questa è la bellezza della Divina Commedia, un
giardino meravigliosamente in fiore, ma un giardino pensile, un parco pensile se volete,
una immensa boscaglia pensile. Sotto i muraglioni, le pilastrate, gli archi, le Cupole, le
volte, il pensiero dantesco : il pensiero dantesco senza il quale la Divina Commedia non è
che una povera creatura mutilata, un pensiero così profondo che noi ne abbiamo capito
una parte perché Dante stesso l'ha espressa in enigmi che abbiamo potuto rapidamente
sciogliere e in parte abbiamo potuto raggiungerlo al cuore dopo anni e secoli d'indagine,
in gran parte non avevamo capito ancora, ancora ci dibattevamo in mezzo a questo
labirinto dottrinale e gli stessi uomini più colti avevano finito, in genere, con
l'abbandonare questo ipogeo arcano accontentandosi di passeggiare nel giardino pensile e
godersi questa esplosione della bellezza squisita, e soprattutto il popolo che non ama se
non le cose che vengono semplicemente al suo semplice cuore, aveva abbandonato
perfino questo pensiero; eppure gl'interpreti danteschi hanno continuato a frugare, e
beffeggiati per la loro inadempienza, hanno continuato ancora.
Perché? Perché forse ai tempi di Dante correva voce che nel Poema fosse nascosta
una verità iniziatica: una grande terribile verità, forse una verità ereticale che Dante non
poteva manifestare ai suoi tempi poiché altrimenti egli avrebbe salito il rogo, ma ciò che è
più grave, la sua opera sarebbe stata distrutta; una verità che bisognava ricercare e che i
suoi contemporanei hanno forse ricercata.
Come spiegherete altrimenti che dopo la morte di Dante, un frate, il padre Vernani, di
questa che noi giustamente riconosciamo come l'espressione più alta del pensiero cristiano
cattolico abbia potuto dire. « La Divina Commedia è un vaso del diavolo, le sue bellezze
sono canti delle sirene che portano alla perdita della verità eterna "? Come spiegherete che
un Cardinale, il Del Poggetto, non avendo potuto trovare le ossa di Dante, abbia bruciato
il suo libro politico, il «De Monarchia», il libro cioè del pensiero imperiale di Dante?
Vuol dire che già i contemporanei pensavano che la Divina Commedia è un balzo
temerario che Dante ha fatto appoggiandosi su questo suo libro politico, il « De
Monarchia ".
Infatti, quando noi siamo tornati sul principio del rinnovamento italiano ? Quando
l'Italia ha cominciato a guardare in se stessa con sguardo nuovo, è stato un poeta, Ugo
Foscolo, a gettare questo grido d'allarme, a dire che questa verità c'era e bisognava
scoprirla. Pochi anni dopo, un altro esule del nostro riscatto, Gabriele Rossetti, ha scritto
un libro intero per dimostrare l'esistenza, i limiti, la natura di questa idea nascosta.
Poi tutto è precipitato nell' oblio. Ma ecco che nel 1853, alla vigilia dunque della nostra
unione di popolo, un duca romano, il duca Michelangelo Caetani di Sermoneta, che, fatto
curioso, era cieco come Gabriele Rossetti, ha fatto nell’Inferno dantesco una scoperta di
straordinaria importanza. Voi tutti ricordate che quando Dante è già molto addentrato nella
fossa infernale, a un certo punto deve valicare uno stagno di fango sulla barca di un
demonio. Quando è a metà rotta, un dannato, Filippo Argenti, il « fiorentino spirito
bizzarro » che, notate, rappresenta il disordine della vita civile, abbranca l'imbarcazione e
cerca di rovesciare con se Dante nella fangaia. Il poeta si salva, sbarca, si trova davanti
alle mura di una città che, al di fuori, hanno riflessi rugginosi, al di dentro paiono di
fuoco. Virgilio, che lo guida, si fa alle porte della Città di Dite per chiedere il libero
passaggio e dall' alto delle mura centinaia di demoni calano sulla porta con le loro ali di
pipistrello e la sbarrano sul petto di Virgilio che torna indietro rassegnato e titubante, e
solo quando si accorge che Dante ha preso tale paura che pur di tornare sui suoi passi
rinuncerebbe al compimento di quello che è pur viaggio per la liberazione dell'anima, lo
avverte : già discende l'erta un tale che aprirà la porta. Infatti con fragore di uragano
questo tale, che Dante non definisce di più, va sulla porta e, notate, con parole tutte
intrecciate di reminiscenze pagane e mitologiche, grida tutto il suo sdegno sui demoni,
poi, notate, trae una verga e con essa batte sulla porta : questa si apre e i due poeti
possono entrare. Chi è costui che viene ad aprire ai due poeti il passaggio della Città di
Dite ? Ci hanno insegnato che è un messo celeste, un angelo. No, non può essere : un
angelo non può mostrarsi che alla soglia del Purgatorio e quando Dante vede il primo in
lontananza, lo stupore è tale che perfino le parole di Virgilio, sempre così calme, si
empiono di trepidazione :
fa' che le ginocchia cali!
Ecco l'angel di Dio, piega le mani:
omai vedrai di sì fatti officiali.
Qui, nulla di tutto questo. Si tratta di uno che viene senza scorta, che passa a piedi
asciutti rimovendo l'aere grasso innanzi al volto, che usa parole pagane, che ha bisogno di
una verga, cioè di un talismano, mentre un angelo non ne avrebbe bisogno.
Chi è ? Ha detto il veggente cieco : Italiani, ricordatevi di una cosa che non avreste mai
dovuto dimenticare, ricordatevi che oltre alla Divina Commedia abbiamo un altro grande
poema nazionale, il poema del tempo d' Augusto, il poema dell'Impero, di quel Virgilio
che guida Dante nell'al di là. Egli ha detto che un eroe ha lasciato la sua terra e questo eroe
egli, attraverso un particolare viaggio, lo porta a radicarsi alla foce del Tevere, là dove sarà
il ceppo di quella che un giorno chiameranno potenza romana. Durante questo viaggio, l'
eroe a un certo punto smarrisce il senso del suo destino e deve discendere sotto terra per
domandarlo ai morti, come Dante. Ebbene, quando scende sotto terra con la Sibilla, ha
con se una verga d'oro, e questa verga ha una tale importanza emblematica che quand'egli
passa dal regno dei dannati al regno dei beati, la conficca come un simbolo sulla soglia.
Ecco, ha detto il cieco veggente, costui che viene pronunciando parole pagane, con
una verga, ad aprire il passaggio della Città di Dite, non è altri che Enea, rappresentante
dell'Impero, perché Dante non può proseguire il suo viaggio di salvazione se con lui non
ha anche la potenza dell'Impero, rappresentata dalla giustizia.
Veramente rivoluzionaria questa idea, tanto che gli « interpreti " di Dante se ne sono
liberati nel modo più facile : l'hanno messa nell' oblio, tanto che il Fornaciari, incaricato di
ricostruire alcune tavole sinottiche del Duca, là dove questi aveva scritto « Enea », ha
graffiato e sostituito con « un messo celeste ».
Ma per fortuna è venuto un poeta nuovo che ha proseguito l'indagine, Giovanni
Pascoli, che ha ripreso questa verga d'oro e ha toccato con essa tutte le porte chiuse, cioè
tutti i punti oscuri della Divina Commedia, ed ha scoperto che tutti gli enigmi, tutti i punti
oscuri scomparivano. E allora, meraviglioso di serietà e di coscienza, come era
meraviglioso di ispirazioni, Giovanni Pascoli, che già per dare alla scuola italiana
un'antologia lirica e epica latina aveva tanto profondamente studiato Orazio e Virgilio da
uscirne poeta latino e vincere nelle gare di Amsterdam per ben tredici anni - tra i più
laboriosi e geniali della sua vita matura - il maggior premio di poesia latina..., ha voluto
guardare negli occhi non Dante solo, ma anche i suoi ispiratori : San Damiano,
Sant'Agostino, San Tommaso, e da quest'indagine, quasi direi furibonda, è sorta una
montagna di cinque volumi di quasi cinquecento fitte pagine, che gettavano sulla Divina
Commedia una tale onda di luce che pareva nuova. Come si sono comportati gl'interpreti
danteschi ? Nella solita maniera : hanno colmato il Pascoli di oblio, lo hanno deriso.
Siamo arrivati a questo assurdo: pubblicandosi in Italia il Bollettino Dantesco che ha il
preciso scopo di informare tutti gli interpreti del mondo di quello che di nuovo si dice
sulla Divina Commedia, questo Bollettino in quindici anni non ha dedicato un solo
articolo a Giovanni Pascoli, e alla sua morte lo ha degnato di uno stelloncino di quindici
righe che diceva : « Peccato che il poeta non abbia mantenuto la promessa di darci la sua
mirabile visione » e “La mirabile visione” era un volume uscito da cinque anni! E
lasciatemi dire, perché lo so, Giovanni Pascoli, più che del cancro al fegato, è morto di
questa sconoscenza dell'Italia di allora.
Io vi porterò rapidamente attraverso questo suo mondo, e voi capirete. Hanno
insegnato a tutti, a me come a voi, che « nel mezzo del cammin di nostra vita » Dante è
smarrito in una selva che gl'impedisce di trovare la via buona e lo costringe a sprofondarsi
in questa meditazione del male e a risalire per la via della purificazione. Ci hanno detto che
è la selva dei nostri mali umani, civili, politici. Giovanni Pascoli sorride e dice. Questa
è una interpretazione molto generica. Dante non è mai generico, è il principe della
precisione.
E' il genio dell' assoluto.
Questa selva è la selva di un unico peccato
umano : del peccato originale.
Ma come - voi dite - a milletrecento anni dalla venuta di Cristo un poeta cattolico può
osare di dire che la redenzione di Cristo è inefficace ? E' questa la terribilità dell'idea
dantesca, ed è questa la grandezza dell'idea. Dante viveva ai tempi dei Comuni italiani;
egli era presente all'indescrivibile caos in cui il vivere civile era precipitato : una città
contro un'altra città, una fazione dentro le mura della città contro un'altra fazione, un
disordine così furioso da fargli proclamare che proprio esso dà allo spirito un tale
turbamento che l'uomo è caduto di nuovo, ha perduto il bene della vita contemplativa,
perché la vita attiva sregolata l'ha sommersa e travolta. E voi capite che questa selva
diviene l'antipodo dell' altra selva del Purgatorio, che è la foresta del Paradiso Terrestre in
cui l'umanità, prima del peccato, tendeva all' armonia delle sfere. L'umanità è precipitata
laggiù, e attraverso due monti deve risalire per essere l'umanità dei primissimi tempi.
Ci troviamo di fronte a un' ossatura critica del tutto nuova per penetrare nella mirabile
orditura della Divina Commedia, e capace di spiegare molti enigmi. Per esempio, quando
il poeta entra nel regno dei morti, come lo deve vedere? Come cristiano e cattolico; e
prende per guida un poeta pagano e idolatra?
Ce ne hanno date mille spiegazioni, ma nessuna soddisfacente. Seguite il Pascoli :
Dante non rappresenta solo se stesso, ma tutta l'umanità del suo tempo. C'era allora il
potere della Croce, ma mancava l'Impero, cioè il potere dell'Aquila. Virgilio rappresenta
la sua umanità, l'umanità del tempo di Augusto: allora c'era il potere dell'Aquila, ma
mancava il potere della Croce. Dante, umanità che ha la Croce, ma non l'Aquila, assorbe
in se Virgilio stesso, umanità che ha l'Aquila ma non la Croce.
Avviene il miracolo :
due umanità si fondono, diventano una sola umanità, umanità che ha l'Aquila e la Croce,
la vita attiva e la vita contemplativa in una medesima armonia.
Perciò a un certo punto Virgilio abbandona Dante perché lo ha incoronato e mitriato
signore di se stesso, ossia capace di reggersi nella vita attiva e nella vita contemplativa.
Ma per fortuna del Pascoli questa idea non s'è inabissata : un suo discepolo l'ha ripresa,
Luigi Valli, un nobilissimo nazionalista, uno dei primi uomini di pensiero che abbiano
pienamente e spontaneamente dato il contributo della loro cultura alle idee attuali.
Questo interprete dantesco ha sviluppato e illuminato l' opera pascoliana e allora si è
accorto che questo simbolo dell' Aquila e della Croce è la chiave di volta di tutto l'edificio
dantesco; egli ha visto che trentadue volte nel poema, Dante pone l'Aquila e la Croce a
combattersi o a sorreggersi. Basterà qualche esempio. Dante entra nell'Inferno per una
porta spalancata, la porta su cui sta scritta « la scritta morta », che comincia con un rullo di
tamburi funebri. « Per me si va nella città dolente » e si chiude con un grido funebre :
« Lasciate ogni speranza... ». Questa porta è aperta, perché vi è passato Gesù Cristo
quando è disceso a prendere i Patriarchi; l'altra porta vi ho detto che non si apre se non
viene Enea. Il primo angelo che appare nel Purgatorio porta una barca che ha davanti la
Croce, fa alle anime il segno della Santa Croce. Le anime vanno subito verso la loro
vita? No, esse si smarriscono al canto di Casella e deve intervenire Catone, l' Aquila,
perché vadano verso il loro destino.
Prima di giungere alla porta del Purgatorio, Dante si addormenta e sogna che un'aquila
con le ali d'oro lo rapisce e lo porta là dove si sveglia. Virgilio gli dice : « Ti ha portato
Lucia », ma prima la Croce ha consegnato l'anima all'Aquila; l'Aquila la deve consegnare
alla Croce. Quando Dante è alle porte del Cielo ed entra in Paradiso, gli spiriti dei
combattenti, di tutti coloro che sono morti per la giusta causa, gli appaiono come lumi in
una specie di via lattea che si distende in forma di gigantesca Croce. Quando esce di lì ed
entra nel cielo degli spiriti giusti, gli spiriti luminosi si dispongono come Aquila che
distende le ali e squilla il suo grido per l'infinito. Ma anche qui ciò che importa è che
dobbiamo confessare che eravamo ciechi.
Un'ultima cosa : c'è un punto nell'Inferno dantesco veramente inesplicabile. Dante è
dentro la Terra e narra il suo viaggio nel regno dei morti e a un certo punto, trattando
dell'origine dei fiumi infernali, fa una strana parentesi : si mette a parlare del
Mediterraneo, di un'isola di questo mare, Creta. Dentro quest'isola c'è una caverna e
dentro questa caverna c'è un vecchio con la testa d'oro, e andando giù, col petto e le
braccia d' argento, più giù ancora di rame, le gambe di ferro e un piede di terracotta. Ci
hanno detto che è l' umanità nella sua storia. Verissimo, tanto è vero che ha le spalle volte
a oriente e la fronte a occidente. Ma perché è in quest'isola di Creta, nel mare
Mediterraneo?
Vengono gli interpreti Pascoli e Valli, e tutto è chiaro. Ma rileggete il
poema di Virgilio e sentirete che Enea a un certo punto del suo viaggio è stato inchiodato
da una pestilenza. Dove? Nell’ isola di Creta. Leggete gli Atti degli Apostoli e sentirete
che San Paolo, colui che ha preso la dottrina di Cristo e l'ha portata a diventare latina, nel
mare di Roma a metà del suo viaggio, è stato inchiodato da una tempesta. Dove? Egli
segnala l'isola di Creta. Ecco, l'isola di Creta è il luogo in cui il portatore dell' Aquila e il
portatore della Croce sono stati inchiodati dalle avversità. Se la statua è lì, vuol dire che
l'umanità è retrocessa, vuol dire questo eterno pensiero di Dante, vuol dire che la
mancanza dell'Impero - la giustizia - fa sì che l'umanità è tornata a metà del suo cammino.
E non crediate che faccia della retorica se dico che l' umanità deve riprendere la sua marcia
per riunire la Croce e la spada, la vita contemplativa e la vita attiva, nell' eternità di Roma.
Ora, perché l'Italia non si è volta a questo grande poeta rivelatore e non ha seguìto la
sua voce? Perché lo ha colmato di derisione e di amarezza? Per una ragione ancora più
amara : purtroppo anche oggi, e anche in molte nostre scuole, si continua ad insegnare ai
nostri giovani che Giovanni Pascoli è un povero e piccolo poeta agreste che ha consumato
la sua vita a tagliare fettine di pane ai fanciulli e a sbriciolare avanzi ai passerotti, che è un
umanitario vago e nebuloso, che è un piangente ammalato della malattia del suo dolore
personale. E invece il Pascoli è un Poeta, uno dei più giganteschi che l'Italia abbia avuto
nei secoli : poeta cosmico di così vasta apertura d'ali che ha saputo toccare i confini del
mondo astrale e comunicarcene la vertigine, poeta civile che ha saputo penetrare così a
fondo nella nostra vita di popolo, che ha potuto diventare quello che egli audacemente ha
detto di essere : narratore del futuro, ossia profeta; poeta sociale così ardito che io non ho
paura di dirvi, l'ho dimostrato, che se voi oggi alla luce degli avvenimenti odierni rileggete
le Canzoni di Re Enzio, invece di un affresco storico vi troverete davanti a precise
affermazioni sociali che sono le stesse che l'Italia vuole oggi attuare per la sua fortuna e
per la liberazione del mondo dagli enigmi tormentosi delle leggende asiatiche.
Non rinunciamo preventivamente a nulla per questa ragione, che noi ricordiamo
troppo spesso essere il nostro un vecchio popolo che ha tremila anni di civiltà sulla spina
dorsale e dimentichiamo troppo spesso che come popolo unitario non abbiamo che settant'
anni e ci siamo mossi solo quando Giovanni Pascoli ha gettato il grido. « La grande
proletaria si è mossa », ossia abbiamo solo venticinque anni di vita nazionale e cosciente.
Ebbene, questo poeta ci ha dato un Dante nuovo, ma, quello che più ci sta a cuore, ci ha
dato un Dante nuovo per questa Italia nuova che noi viviamo : il che non ci deve
meravigliare.
La storia del poema di Dante è stata sempre questa : l'Italia precipita, il poema è
dimenticato; l'Italia si solleva, il poema ritorna sugli altari. Quando egli è incoronato e
mitriato da Virgilio padrone di se sulla soglia della « divina foresta spessa e viva », chi gli
viene incontro? Matelda. Ma chi è questa creatura che canta e coglie fiori? 1 simboli
parlano chiaro : è la vita attiva. Ma lo guarda con occhi ridenti, ed è dunque insieme la vita
contemplativa che ha negli occhi la luce. Sì, è la vita attiva e la vita contemplativa diventata
una creatura unica con occhi iridescenti d' amore, e quindi tocca a Matelda di prendere
Dante e d'immergerlo nel fiume della dimenticanza del male e nel fiume della ricordanza
del bene e farlo « puro e disposto a salire alle stelle », perché anch'egli in questa unità
armoniosa è diventato in se stesso attivo e contemplativo, civile e spirituale, immagine di
questa umanità nuova che noi sogniamo.
Allora ho capito perché l'Italia ha voluto che in piena Ravenna si creasse la zona del
silenzio, che intorno alla tomba di Dante vi fosse una zona sacra. E' un monito che l'Italia
lancia a tutti i popoli di buona volontà : dice ad essi : « Mandate qui i vostri uomini
migliori, che in questo silenzio sacro si accostino non a una tomba, ma a una lampada;
sentano che questa lampada è la luce della giustizia, accendano le loro anime e portino
questa luce di nuovo in mezzo al loro popolo e la moltiplichino; ricordino che Dante,
attraverso tutto il suo poema, una cosa ha cercato : la giustizia, e l'ha cercata per aver
pace».
Che cosa domanda frate Ilario - leggenda o no - al pellegrino stanco che bussa alla
porta del convento? . . « Che cerchi, santo pellegrino? ». « Cerco la pace ». Che cosa si fa
dire Dante dalla più cara delle sue creature, Francesca da Rimini, voce d'agnella spersa nel
fragore dell'uragano?
Se fosse amico il re dell'universo,
noi pregheremmo lui per la tua pace.
Che cosa grida la grande Aquila di spiriti luminosi che batte le ali nell'infinito?
«Amate la giustizia, o voi che reggete la terra » : si rivolge dunque ai condottieri dei
popoli. Eccolo il pensiero dantesco; ecco il pensiero dell'Italia nuova.
E io sono orgoglioso, come ognuno di voi Italiani deve essere orgoglioso, che questa
rinascita della Divina Commedia nella luce imperiale di cui l'ha inondata il Pascoli,
significhi questo: che l' Italia, dopo cento anni di doloroso calvario è finalmente salita
sulla cima del suo gran monte e di lassù getta a tutti i popoli della terra il grande
ammonimento . Volete la pace ? Attuate la legge e la giustizia. Fino a che questa legge
non sarà attuata, la pace non ci sarà; ma appena la legge della giustizia sarà, sarà anche,
per quel tanto che è possibile agli uomini, la pace in terra.
E allora ancora una volta, da tutti gli oceani e da tutti i continenti della terra, i popoli
che si smarriscono come navi senza timone in questa crisi, che è veramente una delle più
spaventose tempeste che abbia passato l'umanità, si rivolgeranno all'Italia come a un faro:
faro che fu nel passato, faro che è di oggi, perché faro deve essere nel più lontano
avvenire.
( Ettore Cozzani )
Ricordo di Ettore Cozzani
Il 30 aprile 1963 Ettore Cozzani indirizzò a chi scrive, allora Presidente
dell'Associazione Piemontese Studi Filosofici, la lettera il cui incipit era: “ Illustre Signor
Presidente,prima di tutto mi permetta di plaudire alla costituzione dela loro Associazione.
Tutte le volte che in gruppo di persone, non - per fortuna - intellettuali, ma intelligenti e
colte accendono un fuoco di spiritualità, mi sento rallegrare come italiano, perchè vedo
irrobustirsi il muro che spero un giorno o l’altro trattenga e respinga l’ondata melmosa di
certa letteratura contemporanea che ci disonora. Ma io sono un editore forse senza
esempi: qualche cosa ho fatto di non indegno nel campo del libro...”
Rispondeva ad un messaggio che l'Associazione torinese, aveva inviato a Lui Editore
sì, ma anche scrittore e poeta, chiedendo libri per la nascente biblioteca dell' ente. Ettore
Cozzani fu uno dei pochi che rispose.
La mia conoscenza con quello che reputo non da oggi, il mio secondo 'Maestro'
nasceva quel giorno in uno con una fitta corrispondenza (Cozzani scriveva con una
calligrafia involuta su carta povera come su cartoline) sempre portatrice di idee, dei
programmi delle sue orazioni in cento città d'Italia e di iniziative: un'Amicizia interrotta
solo dalla sua morte, il 22 giugno 1971. Un'Amicizia sincera, devota, mi permetto dire,
che ebbe a base un insolito rapporto umano ed una infinita generosità d'animo tra un
giovane volontario animatore culturale ed un Maestro dell'editoria, dello scrivere,
dell'oratoria, dell'arte.
Assieme abbiamo ideato e realizzato con la collaborazione della Regione Sardegna, di
Remo Branca, xilografo, scrittore, educatore e d'altri, ovviamente, “La rassegna di
Xilografia Sarda e Piemonlese” (7 saloni in Palazzo Chiablese, Torino, 3/20.11.1964,
aperta dal Ministro per la Ricerca Scientifica Sen. Carlo Arnaudi, con una sezione
didattica sull'incisione del legno; Sassari, 18/30.5.1965; Parigi, 27 4./7.5.1966, poi
Colonia e Londra): Cozzani era stato l'inventore de “L’Eroica” (rassegna, ritenuta in
Italia ed all'estero la più originale e nobile d'Europa, sorta nel 1911 alla Spezia, sul Golfo
dei Poeti, per esaltare nella luce della poesia tutte le arti e la vita...grandiosi quaderni,
adorni di incisioni in legno impresse sugli originali, litografie e disegni inediti, dedicati a
Giovanni Pascoli, all' Amore, alla rinascita della xilografia (negli anni del conflitto
mondiale 1915/1918 Cozzani organizzò a Levanto a favore della Croce Rossa Italiana una
memorabile mostra di xilografia il cui catalogo, introvabile, era stampato su carta da
imballo, giallastra), alle Nazioni Martiri, Belgio, Serbia, Armenia, Polonia, Romania, alla
“Crociata degli innocenti” di G. D’Annunzio, alla “Sibilla” di G. A. Sartorio). Alla
Biblioteca Nazionale Braidense è conservata la collezione completa de “L’Eroica una
Rivista Italiana del Novecento” alla quale è stata dedicata una mostra12.1981/2.1982 - ed
un catalogo bibliografico di 146 pagine, nel decimo anniversario della scomparsa di Ettore
Cozzani. Altre grandiose rievocazioni de “L’Eroica, una Rivista Italiana del Novecento”
a Genova 3/ 4.1983 - con un importante catalogo con riproduzioni a colori, poi ospitata
anche a Torino 22.9./8.10.1983 -, promossa dalla Città di Genova.
Oltre alle due orazioni commemorative di Dante pronunciate a Torino nel 1965,
Cozzani commemorò Gabriele d'Annunzio l’8 marzo 1964, e, nel quadro della Settimana
Sarda, 19/28.11.1965, parlò della Sardegna Artistica, con particolare riferimento agli
xilografi isolani e della Sardegna Segreta. Fu ancora più volte a Torino invitato da altre
istituzioni culturali della città e sempre trascorremmo piacevoli ore in conversari, spesso
ripresi a Milano nella sua abitazione.
Prosatore, poeta affermato anche all'estero quando, senza tradire la letteratura, si volse
all'esercizio dell'eloquenza; Ordinario di Italianità nell'Università per stranieri di Perugia,
trasfuse nelle sue orazioni la sensibilità e l'esperienza di studioso. Tra gli oltre quaranta
volumi pubblicati (da “Il regno perduto” a “Il Poema del Mare”, da “Come giungemmo
alla Sagra dei Mille” - Cozzani portò da Parigi allo scoglio di Quarto Gabriele
d'Annunzio -, a “Puoi diventare oratore” - opera di vita, di passione, ricordi, Fede in una
prosa rapida, semplice, chiara a volte commovente -, dagli “ Studi critici su Leopardi,
Foscolo e Pascoli” - 5 volumi dei quali uno dedicato a ‘Pascoli il Poeta di Dante’), piace
ricordare l’”Orazione ai giovani, raccolta di pensieri...che già da dieci anni io nutro...e che
già più di una volta ho espressi in articoli sparsi per i quotidiani e le rassegne d’Italia...che
ho poi riassunti in un appello pubblicato a genova il 6 Ottobre 1916, ed in un discorso
letto agli studenti...nel giorno anniversario del martirio di Guglielmo Oberdan...che ripetei
il XX settembre 1017...ho ancora negli orecchi e nell’anima...gli entusiasmi giovanili, che
sempre han salutato...l’invisibile presenza della Patria.
Era nato a La Spezia nel 1884.
( Donatello Viglongo )
La musica nella Divina Commedia
( Cenni musicali nell’Inferno - Gli strumenti )
Prima di venire a trattare di ciò che nel poema dantesco si riferisce direttamente e
veramente alla musica, dobbiamo uscire dalla valle dell’abisso doloroso.
Seguirò ancora una volta le orme di Bonaventura (Vedi Dante e la Ia musica nei miei
articoli precedenti) su alcuni cenni musicali e gli strumenti che ritengo interessanti fare
notare nel mondo infernale.
Una constatazione : la musica vera tace nell’Inferno; Dante è ben conscio del conforto
ineffabile che essa arreca, e pertanto non vuole che appaia e si manifesti proprio nel
luogo dove le pene non debbono essere in alcun modo alleviate.
Inoltre, come fa notare il Bonaventura (0p.cit. pag.67), e al riguardo cita sia il Papini
che il Bellaigue, anch’essi consapevoli e d’ accordo, l’ Inferno è luogo ove regna solo il
disordine, e la musica non potrebbe essere più assordante, né più disarmonica:
Quivi sospiri, pianti ed alti guai
risonavan per l’aer senza stelle,
perch’io al cominciar ne lacrimai.
Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche e suon di man con elle
facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aria senza tempo tinta
come la rena qaundo a turbo spira.
(Inf. III, 22- 30 )
E se per musica si intende un’arte dove l’ordine regna per eccellenza, regolarità,
proporzione e euritmia sono tutte condizioni incompatibili con il disordinato regno
infernale.
Prima però di uscire dall’Inferno, va ricordato, anche per il vocabolo musicale con
cui termina, il verso:
Or incomincian le dolenti note
(Inf. V, 25)
Così il poeta prende visione sotto un tempo senza luce, simile a un mare tempesta,
degli spiriti che vengono trascinati e percossi nei vortici di una bufera animata solo da
dolore e pianto. Circa gli strumenti musicali che sono menzionati nella prima cantica del
poema dantesco, il primo che incontriamo è con l’apparizione di mastro Adamo, dal collo
scarno e sottile e dal ventre invece rigonfio per l’idropisia.
Dante ne descrive la figura con una similitudine in cui è ricordato uno strumento molto
in uso nel Medioevo:
I’ vidi un fatto a guisa di lëuto
pur ch’egli avesse avuta l’anguinaja
tronca dal lato che l’uomo ha forcuto
( Inf. XXX, 49 )
Seguendo il pensiero di Dante: se si fosse potuto pensarlo senza gambe, sarebbe stato
simile ad un liuto, prendendo il ventre gonfiato per la cassa e la testa con il collo e il petto
così scarniti per il manico dello strumento.
Il medesimo maestro Adamo porge occasione al poeta di ricordare, con un’altra
similitudine, traendone anche un effetto di armonia imitativa, un altro strumento musicale:
il tamburo.
Ed è quando Sinone, arrabbiato perchè maestro Adamo aveva rivelato il suo nome, lo
percuote con un pugno sulla pancia dura per la tensione della pelle, e Dante dice:
E l’un di lor che si recò a noia
forse d’esser nomato sì oscuro,
col pugno gli percosse l’epa croia:
quella sonò come fosse tamburo.
(Inf. XXX, 100 )
Il tamburo è ricordato anche un’altra volta, insieme alle campane, alle trombe ed alla
cennamella nelle seguenti terzine:
Corridor vidi per la terra vostra,
o Aretini, e vidi gir gualdano,
ferir torneamenti e correr giostra,
quando con trombe e quando con campane,
con tamburi e con cenni di castella,
e con cose nostrali e con istrane;
nè già con sì diversa cennamella
cavalier vidi muover nè pedoni,
nè nave a segno di terra o di stella
(Inf. XXII, 4 )
La cennamellaè un rudimentale strumento musicale a fiato ricavato da una canna, ma
anche denominazione per un oboe popolare in uso in alcune aree dell’Italia centromeridionale, dove è suonato in coppia con la zampogna.
La tromba è ancora ricordata altre due volte: prima, quando alludendosi al giudizio
universale, Dante dice che l’anima di Ciacco non si ridesterà
di qua dal suon dell’angelica tromba
( Inf. VI, 95 )
poi quando rivolgendosi ai simoniaci esclama:
or convien che per voi suoni la tromba
( Inf. XIX, 5 )
C’è ancora un altro strumento che Dante menziona nell’Inferno, anzi, il solo
strumento che egli oda effettivamente suonare durante tutto il suo viaggio attraverso i
regni ultramondani in quanto, sia gli angeli che le anime non suoneranno, ma cantereanno
sempre.
Ed è quando, giunto al pozzo intorno al quale sono collocati i giganti, Dante
ode proprio il suono di uno strumento, il corno di Nembrotte:
Quivi era men che notte e men che giorno
sì che il viso m’andava innanzi poco:
ma io sentì sonare un altro corno
tanto ch’avrebbe ogni tuon fatto fioco,
che, contra sè la sua via seguitando,
dirizzò gli occhi miei tutti ad un loco:
dopo la dolorosa rotta, quando
Carlo Magno perdé la santa gesta,
non sonò si terribilmente Orlando.
(Inf. XXXI, 10 )
E qui Bonaventura fa notare quanto questo suono sia stato grande “da superare il
clangore di quello che Orlando sonò dopo la rotta di Roncisvalle e che fu udito alla
distanza di otto miglia da Carlo Magno” ( op. cit. pag. 72), e ancora acutamente sulla
direzione del suono “ è naturale che Dante si volga tosto dalla parte donde il suono a lui
viene; ma si noti con quale esattezza egli descriva il fenomeno fisico del procedere delle
onde sonore. Queste, partite dal corno di Nembrotte, muovevano verso di lui: gli occhi
del Poeta, attratti dal suono, seguono la stessa via ma in direzione contraria, cioè rifacendo
con lo sguardo, in senso opposto, lo stesso cammino percorso dalle onde sonore per
giungere da Nembrotte a lui” (op. cit. pag. 72 )
Poche terzine dopo Virgilio, rivolgendosi al gigante che dalla fiera cui non si
convenian più dolci salmi, aveva gridato le incomprensibili parole
Rafel maì amech izabi almi
( Inf. XXXI, 67 )
lo consiglia di attenersi al corno e a sfogare con quello le sue passioni.
Così si lascia l’Inferno, per “sentire” la prossima volta i canti unisoni e polifonici del
Purgatorio e del Paradiso.
( Giuseppe Mortara )
Brunetto Latini, “cara e buona immagine paterna”
Uno degli episodi in cui Dante manifesta più a fondo, con toni commossi e
commoventi, la propria umanità, è posto, non a caso, verso il centro del viaggio
infernale. Nel canto XV, nel cerchio della violenz a, il poeta viandante viene sorpreso
dall' incontro con una figura determinante nel suo passato e, aggiungerò, nella sua
formazione letteraria e civile : Brunetto Latini. Figlio di Buonaccorso, Brunetto nacque a
Firenze intorno al 1210, e ne fu,nel XIII secolo, uno dei cittadini più illustri : per questo
Dante, qui, proprio dal suo "maestro" si fa dare una vera e propria investitura e patente di
nobilitas, come mostrerò.
Politicamente , il nostro " ser" ( ha diritto a tale titolo, perché esercitò la professione di
notaio) fu di parte guelfa, quindi sostenitore degli interessi papali. Nel 1254 fece
sottoscrivere le convenzioni tra i guelfi aretini e il comune di Firenze ; nel 1260 prese
parte ai preparativi della guerra contro Siena ed andò come ambasciatore dei fiorentini da
Alfonso X di Castiglia . Ritornando, dopo la battaglia di Montaperti, per la sconfitta dei
Guelfi, dovette andare in esilio in Francia : altro elemento che lo accomuna, e lo rende
umanamente più vicino, a Dante. Poté ritornare in patria dopo la battaglia di Benevento
(22 febbraio 1266), e diventò cancelliere di Guido di Monfort (ricordato a Inferno, XII,
119). Fu anche vicario in Toscana di Carlo I d'Angiò e del comune di Firenze, e dal
1282 al 1292 partecipò ai consigli della Repubblica; nel 1284 contribuì all'alleanza con
Genova e Lucca contro Pisa, e nel 1287 fu uno dei priori di Firenze. Qui morì nel 1293.
Su di lui G. Villani, nella” Cronica” (VIII 10), scrisse:” Fu gran filosofo e fu
sommo maestro in retorica, tanto in bene sapere dire” cioé parlare in pubblico “come in
bene dittare” cioè scrivere epistole latine.
E, ancora : “Fu cominciatore e maestro in
digrossare i fiorentini e farli scorti in bene parlare e in sapere guidare e reggere la nostra
repubblica secondo la politica”.
A quali opere Brunetto deve tutta questa fama, oltre alla viva partecipazione alla vita
politica del suo mondo e del suo tempo?
I suoi interessi di prosatore e di poeta in
Francese e in Italiano dimostrano notevole eclettismo, impronta laica , grande capacità
"didattica " .
In prosa francese scrisse una enciclopedia, basata su fonti classiche e
medievali, in tre libri : Li livres dou Tresor, ricca di notizie scientifiche, filosofiche,
politico-economiche e retoriche, con intenti etico-didattici che ritornano anche nelle opere
poetiche (Favolello, Tesoretto, in Italiano) . Non gli mancano interessi più strettamente
linguistici, fondamentali per lo sviluppo della prosa volgare. Brunetto è infatti il primo in
Europa a volgarizzare tre orazioni di Cicerone, e ne traduce e commenta, nella Rettorica, i
primi 17 libri del De inventione: vengono così diffuse e attualizzate le regole dell' oratoria
classica.
Il patrimonio umano, civile-politico e " sapienziale" che Brunetto lascia in eredità ai
posteri è dunque molto ingente; Dante se ne è saputo arricchire, rielaborandolo,
reinterpretandolo e riutilizzandolo per i suoi scopi, in maniera geniale. Non solo: nella
Commedia ha scopertamente tracciato certi dati del debito affettivo che ha per il
predecessore. Vediamo come, nel confronto diretto con il testo.
Dante sta prendendo confidenza con il nuovo ambiente del " sabbione" infuocato,
quando incontra ( insieme a Virgilio, che lo guida), "d'anime una schiera" (v. 16); queste
lo guardano bene, e viene "conosciuto da un" che lo " prese per lo lembo, e gridò : Qual
maraviglia ! ( vv. 23-24 ).
Nonostante il "cotto aspetto" e il "viso abbrusciato" (vv.
23-24), Dante riesce a riconoscerlo, ed esclama, "chinando la mano a la sua faccia " ( v .
29 istintivamente sembra essere provocata un' affettuosa carezza) : Siete voi qui, ser
Brunetto? (v. 30).
Ecco : si è rotto l'incantesimo del viaggio e della meccanicità delle tappe e della
struttura. Eppure, l' essere "qui" è proprio componente ineliminabile di una precisa tappa
di questo viaggio infernale e un preciso inserimento in questa struttura. Da questi
contrasti, da questo complesso intrecciarsi ed interagire di forma/struttura e umano sentire
prende sostanza la vera, profonda poeticità della Commedia.
Dante incontra qui un magnanimo che soffre dell'incapacità di completare le sue
nobili doti e il suo geniale intelletto con l'adeguamento al disegno provvidenziale di Dio,
con il possesso di Fede, Speranza e Carità. Da questo nasce l’ addolorato sentimento di
pietà filiale di Dante. Sì, Brunetto è proprio qui : tra i violenti contro Natura, i sodomiti,
e colpito per l’eternità dalle risultanze della sua aversio a Dio. (1)
Ciò non toglie nulla alla bellezza della sua figura; né al sentimento e alla stima di
Dante : ma ne provoca la pietas accorata.
Brunetto, con cortesia squisita, e con
atteggiamento paterno, chiede di poter ritornare un po’ indietro con lui e lascia addirittur a
la " traccia " ( fila , schiera di anime) (2) pur di parlare con Dante, che viene chiamato
"figliuol mio" (v. 31).
Dante, da parte sua, sarebbe addirittura disposto a sedersi con la "grande" anima, se
non fosse che, come spiega Brunetto, chi si ferma un solo attimo deve poi giacere cento
anni senza potersi riparare quando il fuoco che piove dal cielo lo ferisce. E tuttavia:
Brunetto gli camminerà (lasciando la corsa) a fianco, poi si ricongiungerà con la
"masnada / che va piangendo i suoi etterni danni" (vv. 41-42 ).
La riflessione di Dante, a questo punto, è che non osa scendere dall' argine su cui si
trova, per paura del fuoco e per rispetto della legge divina : ma desidererebbe " andar par
di lui", e intanto tiene il capo reclinato "com'uom che reverente vada" (vv. 44-45 e siamo
qui di fronte al concetto latino di reverentia, strettamente connesso a quello di onore
dovuto al magnanimo ).
Brunetto interroga Dante sul come e perche egli si trovi nell’Inferno " anzi
l’ultimo dì" ( v. 48), e chi sia la sua guida. Dante riassume le sue motivazioni , e riceve
poi questa affermazione :
Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorioso porto,
se ben m' accorsi ne la vita bella;
e s’io non fossi sì per tempo morto,
veggendo il cielo a te così benigno,
dato t’avrei all’oper a conforto ( vv . 55- 60 )
Quest’inve stitura in piena regola è decretata, appunto, dal più nobile dei fiorentini
del XIII secolo : colui che a Dante avrebbe dato "a l'opera conforto", cioè, lo avrebbe
continuato ad aiutare per ben operare come uomo, poeta e cittadino di una societas.
Ma ecco la denuncia del sovvertimento di queste sagge regole di vita: anche Dante,
come prima lui, ne subirà le conseguenze, e Brunetto, che ora può antivedere, ne fa
cenno :
Ma quello ingrato popolo maligno
che discese da Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno,
ti si farà, per tuo ben far, nimico;
ed è ragion, che tra li lazzi sorbi
sì disconvien fruttare al dolce fico.
Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
gent 'è avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa' che tu ti forbi.
La tua fortuna tanto onor ti serba
chel'una parte e l'altra avranno fame
di te; ma lungi fia dal becco l'erba.
Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta,
s’alcuna surge ancora in lor letame,
in cui riviva la semente santa
di que' Roman' che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta. (vv. 61-78)
Ed ecco con quale intensità affettiva e capacità di comprensione di ciò che deve alla
persona Brunetto risponde subito Dante :
Se fosse tutto pieno il mio dimando
- rispuos'io lui - voi non sareste ancora
de l’umana natura posto in bando;
ché 'n la mente m'é fitta, e or m'accora,
la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora
m'insegnavate come l’uom s 'etterna :
e quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo
convien ch’ e’ ne la mia lingua si scerna. (vv. 79-87 )
Dunque: il buon "padre" si premura di avvertire, per quanto gli è concesso, il
"figliuolo", che lo attende un destino simile al suo.
La dura esperienza dell'esilio,
improvviso e immeritato, colpirà anche lui; il sovvertimento della razionalità e delle rette
regole del vivere civile, delle quali Brunetto è stato araldo e maestro, ha portato i
Fiorentini a diventare un popolo " ingrato" e "maligno".
Proprio perché Dant e ha
operato nella vita politica con onestà e con amore di patria, di equilibrio e di pace, i suoi
concittadini gli saranno nemici. Ulteriore garanzia, a questo punto dello “stato delle
cose”, del suo perseguire la strada della Giustizia : tra "li lazzi sorbi" non è bene che
fruttifichi il "dolce fico". È fama antica che i Fiorentini, avari, invidiosi e superbi,(3)
siano “orbi” , incapaci di discernimento; ben opera chi non si adegua al loro modo di
vivere.
Inutile sarà il tentativo delle due fazioni dell'assurda guerra civile di attrarre dalla
propria parte Dante, al quale la sorte riserva " tanto onor" da farlo diventare appetibile
come contributo per far pendere da una parte o dall’ altra l'ago della bilancia. L'esatto
contrario di ciò che Dante desidera: e per questo saprà mantenersi al di sopra delle parti,
adoperandosi sempre, quando richiesto da nobili personaggi, come paciere, nelle sue
ambasciate e operazioni politiche .
Non ci si azzardi, allora, a toccare le poche piante fruttuosamente sviluppate da
quella " semente santa" che rappresentò il concorde e nobile Impero Romano.
La gratitudine, l' amore quasi filiale di Dante vengono attestati e scolpiti nel tempo con i
versi che seguono.
Il suo desiderio che Brunetto potesse ancora vivere è causato
dall’avere saldamente infissa nella mente quell' "imagine paterna" definita da due ben
affettuosi aggettivi: "cara" e " buona " .
Brunetto è uno dei contemporanei che meglio ha voluto e saputo insegnargli “come
l' uom s' etterna” : un magistero non tanto tecnico (anche se elementi "brunettiani" non
mancano certo nelle opere di Dante), quanto morale, civile, di humanitas. È quindi giusto
che il discepolo faccia ben comprendere, nella sua opera fondamentale, mentre vive,
quanto " abbia in grado" tutto ciò che Brunetto ha trasmesso.
Così l'uomo e poeta Dante ringrazia l'uomo, il politico e il maestro di vita:
eternandolo, a sua volta, in uno degli episodi più intensi del corrispettivo medievale della
Bibbia.
( Massimo Seriacopi )
Note
(1) Non può, come i sodomiti della sommità del Purgatorio, purificare la materialità del
suo peccato: questi altri, pur con la loro inordinata conversio, non hanno perso di vista il
Fine ultimo.
(2) Nella recentissima edizione di Antonio Lanza ( Anzio, de Rubeis, 1995 ) si preferisce
la lezione “caccia” , nel senso di “fuga” attestato anche a Pg. VI 15 e XIII 119
(3) Si confronti a questo proposito il passo del canto VI dell’Inferno in cui Ciacco
spiega i motivi del disastroso andamento di Firenze: “superbia, invidia e avarizia sono/le
tre faville c’hanno i cori accesi” (vv.74-75)
Bibliografia
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S. QUASIMODO, Inferno XV, “La Fiera Letteraria”, X, 1955, 9, p. 3.
M. CASELLA, Il canto XV dell 'Inferno, in «Studi Letterari. Miscellanea in onore di E.
Santini», Palermo 1956, pp. 125-28.
U. BOSCO, Il canto XV dell'Inferno, Firenze 1961.
E. G. PARODI, Il canto XV dell 'Inferno, in Lett ure dantesche, Firenze 1964,
pp. 269- 90.
F. MONTANARI, Brunetto Latini, «Cultura e Scuola», IV 1965 13-14 , pp. 471- 75 .
F. SALSANO, Il canto XV dell 'Inferno, Torino 1967.
C. PETRONIO, Il canto XV dell 'Inferno, «Nuove letture dantesche» , vol. II, Firenze
1968, pp. 75-86.
M. PASTORE STOCCHI, Delusione e giustizia nel canto XV dell'Inferno, «Letture
Classensi», 3, 1970, pp. 219-54.
F. MAZZONI, Brunetto in Dante (introduzione a B. LATINI, Il Tesoretto. Il Favolello),
A1pignano 1967.
IDEM, Brunetto Latini, in «Enciclopedia Dantesca", III, 1971, pp. 579-88.
BRUNETTO LATINI, La Rettorica. Testo critico di Francesco Maggini. Firenze 1968
IDEM, Li Livres dou Tresor. Edition critique par Francis J. Carmody. Berkeley and Los
Angeles 1948.
Un panorama sulla pubblicistica
Dante Superstar. Il divin poeta dei due mondi. Alighieri trionfa in Europa e in
America titola Panorama (25 febbraio 1999, n. 8, pag.124) un servizio di Stella Pende
che, rifacendosi ad una iniziativa del primo quotidiano italiano Il Corriere della Sera,
intervista Vittorio Sermonti ‘lettore e commentatore’ della Divina Commedia (ascoltato
anche a Castelgandolfo nell’estate scorsa) con interventi di Jacqueline Risset (della quale
diciamo più avanti), di Roberto Barbolini, riproduzioni di capolavori pittorici di
Domenico di Michelino, Henry Holiday, Eugène Delacroix; anche l’avviso di un sito
Internet con l’Inferno in tre lingue straniere e un venerando manifesto della Olivetti che
utilizzava Dante come ‘promotore’ di vendita di macchine per scrivere: contrasti alla
vigilia del millennio.
Panorama aveva già dedicato attenzione a Dante ed alla iniziativa
del Corriere sul numero del 28.1.1999: a firma di Patrizia Valduga: Amare Dante? E’
una commedia. Primo in classifica il sommo poeta che nessuno legge, irriverente
stelloncino all’intelligenza degli italiani chiamando in causa il trecentista Franco Sacchetti
ed il contemporaneo Alberto Savinio.
Ovviamente trattano entrambi del Dante letto e
commentato convenzionalmente anche da Sermonti a cura del quale abbiamo in libreria
anche una edizione scolastica della Commedia. Dante é tradotto, studiato, commentato e
chiosato in tutto il mondo.
Ma anche l’Alighieri non convenzionale é presente sui media ed in libreria, in tono
minore come quantità, ma sicuramente superiore come originalità e nuovi riscontri critici.
Da alcuni anni, infatti, attorno al ‘sommo poeta’, ai Fedeli d’Amore, all’opera di Dante e
dei poeti e prosatori con lui corrispondenti sul tema d’Amore (assunto comune a tre
scuole poetiche medioevali, la provenzale, la siciliana e la toscana) così come sugli
interpreti e sui critici non convenzionali di quella ancor non definita pagina letteraria che
va oltre la storia della letteratura, vi é un maggiore interesse di studi e, anche, più ampia
considerazione editoriale.
Giovannino e lo strano Dante. Il Pascoli esoterico e dimenticato , titola Il Sole 24 Ore
(29.11.1998, domenica) una recensione a Sotto il velame (Nino Aragno Editore, Torino
1998) e Minerva oscura (Pafpo Editrice, Milano 1998) di Giovanni Pascoli, a Il
linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore (Luni Editrice, Milano 1994) di Luigi
Valli, allievo e seguace del Pascoli in questo filone interpretativo e critico. Firma il
contributo Max Bruschi richiamando l’interesse di un vasto ambiente culturale per la
lettura così detta esoterica o iniziatica o tradizionale degli scritti in versi ed in prosa
dell’Alighieri e dei Fedeli d’Amore che ebbe in Francesco di Bartolo da Buti, Leonardo
Bruni,
Giammario Filelfo (vissuti nel ‘3/400), Anton Maria Biscioni (‘700) gli
antesignani ignorati e ghettizzati dalla critica loro contemporanea e successiva; nell’800
riprese con lampi originali da Ugo Foscolo, cui seguirono Gabriele Rossetti, Giovanni
Pascoli, Luigi Valli, Federico Ozanam, Michelangelo Caetani, Francesco Perez, Alfonso
Ricolfi, Mario Alessandrini, Ettore Cozzani ed altri italiani ancora, come Bruno Cerchio;
Robert L. John, Don Miguel Asin Palacios, Margarete Lochbrunner, Borges, alcuni
studiosi anglo-sassoni e statunitensi. Anche Eugene Aroux, René Guénon, Julius Evola.
Adepti del Velame, definì Umberto Eco (introduzione a L’Idea deforme,
interpretazioni esoteriche di Dante, Bompiani Editore, Milano 1989, dove il titolo é
anagramma di Fedeli d’Amore, autore Stefano Bartezzaghi) “questo filone di interpreti
danteschi, i quali non sono stati accettati dalla critica ufficiale, perchè in Dante leggevano
più che tutti gli altri e specialmente ciò che (secondo la critica ufficiale) non c’era. Buona
parte degli adepti del velame individuano un gergo segreto, in base al quale ogni
riferimento a fatti amorosi e a persone reali é da interpretare come invettiva cifrata...”
Per Alberto Asor Rosa (postfazione a L’Idea deforme) “è un filone della critica dantesca,
che gli specialisti hanno sempre liquidato in poche battute...”
Dicono entrambi la verità pur non condividendone i contenuti e gli indirizzi, fedeli pur
essi al concetto che il medioevo così come viene oggi descritto ed interpretato é una
invenzione dell’ottocento romantico: ma si deve riconoscere che con Eco ed Asor Rosa é
stato fatto un passo avanti: si dà atto di un passato sempre liquidato in poche battute ma
si ‘studia’ si ‘polemizza’ sulla veridicità, sui riscontri portati a sostegno di quelle
interpretazioni attraverso una corposa ricerca universitaria, svolta a più mani, ben sette,
nell’Ateneo di Bologna, Istituto di Discipline della Comunicazione nel periodo in cui il
prof. Umberto Eco teneva un corso monografico sulla semiosi ermetica.
Nel novembre 1995 Rizzoli pubblica Dante, una vita di Jacqueline Risset, traduttrice
in francese della Divina Commedia (1985-1990), quasi un seguito a Dante scrittore;
l’Autrice, che vive a Roma ed insegna alla Sapienza, é interprete convenzionale ma rileva
”Fanno pensare ad un viaggio in Francia i paesaggi provenzali che la Commedia evoca - il
cimitero degli Aliscamps, ad Arles, dal suolo gibboso di tombe, o le terrazze ripide lungo
il mare (‘tra Lerice e Turbia la più diserta,/la più rotta ruina’). Nell’invenzione del
paesaggio infernale, Dante potrebbe aver ripercorso con la mente, lo suggerisce Frédéric
Mistral, i dirupi della collina di Les Baux, quel paesaggio sconvolto, ciclopico, fantastico
degli affioramenti di bauxite, quel cataclisma di pietra, ma anche il nome della gola stessa,
Infèr, e la sua forma ad anfiteatro, con le grandi rocce isolate che formano i gradini, e il
nome provenzale di quegli scoscendimenti, baus, italianizzato in balzo, collina separata
dalla gola da una spiaggia deserta” (pag. 149), riferendosi a quei due anni, 1309/1310 che
Dante trascorse (forse) a Parigi. Una fantasia respinta dalla critica convenzionale, ma di
recente viene riaccreditato il Villani “ Guelfo co la parte bianca fue cacciato e sbandito di
Firenze, e andossene a lo Studio a Bologna, e poi a Parigi, e in più parti del mondo” e
Boccaccio: “ passati i monti che quella dividono dalla provincia di Gallia, come poté, se
n’andò a Parigi”.
La Risset, più avanti (pag.151): “nel 1310 Sigieri di Brabante é
morto da tempo; e il suo insegnamento ufficialmente condannato. Ma il suo pensiero vi é
ancora vivo. Nel Paradiso viene evocato il grande filosofo averroista, e con lui il ‘vico de
li Strami’ dove teneva i suoi corsi. Balzac, in uno degli Studi filosofici della Commedia
Umana ( che é omaggio totale, com’é noto all’autore di quella ‘Divina’), descrive il
‘proscritto’ enigmatico, inquietante, che alloggia all’ombra di Notre Dame - ‘sguardo di
piombo e di fuoco, fisso e mobile’”. Ed anche Rabelais nel ‘500 rievoca una presenza di
Dante a Parigi, quella della disputa ‘de quodlibet’.
Oltre Oceano le Lecturae Dantis sono almeno otto; monumentale quella iniziata dieci
anni fa dalla Pennsylvania University Press, diretta da Robert Hollander. Scrive Vittore
Branca (Il Sole 24 Ore, 28 marzo 1999), recensendo ‘Inferno’ Canto-by-Canto
Commentary di A. Mandelbaum, A. Oldoorn, Ch. Ross (University of California
Press); un volume di circa 500 pagine che raccoglie interventi dei più autorevoli dantisti
anglosassoni ed italiani. Allen Mandelbaum (poeta tra i più felici fra i contemporanei,
traduttore insuperato di Virgilio, Ovidio, di Dante - la Commedia -, ma anche di Montale
e di Ungaretti), dirige ed ispira questa Lectura Dantis della California facendosi interprete
ermeneutico e poetico della Commedia, superando “ l’intellettualismo simbolico che
aveva per troppo tempo in America quasi confinato Dante nel cerchio degli specialisti e
persino della misteriosofia”.
Un rilancio, dunque, dell’Alighieri ad un più ampio
uditorio. Degli studi su Dante in America Giuseppe Mazzotta, italianista all’Università
di Yale, scrisse un volume, Dante e la critica americana, edito da Longo, Ravenna
(editore che pubblica le Lecturae Dantis che si svolgono nella città di Ravenna) dieci anni
or sono.
Francesco Sassetto trasferisce la sua tesi di laurea ne La biblioteca di Francesco da
Buti interprete di Dante. Modelli critici di un lettore della ‘Commediaí dell’ultimo
trecento, il Cardo Editore, Venezia 1993. Francesco da Buti (1324-1405) é l’autore del
Commento sopra la Divina Commedia di Dante Allighieri, pubblicato per cura di C.
Giannini, 3 voll., Pisa 1858-1862, riproposto in anastatica con Introduzione di F.
Mazzoni nel 1989.
Nel 1994 l’Editrice Pratiche di Parma manda in libreria la traduzione in lingua italiana
dell’opera di Miguel Asin Palacios con il titolo Dante e l’Islam, in due volumi:
L’escatologia islamica nella Divina Commedia e Storia e critica di una polemica.
Complessivamente circa 700 pagine con una introduzione di Carlo Ossola, pur essa di
notevole interesse. “E’ nella consapevolezza di quell’emulo prestigio delle tre culture
greco-araba, ebraica, latino-cristiana, e nel fondato - e vulgato - intendimento che solo
dalla loro ‘concordia’ nasca saggezza, che si possono spiegare formalizzazioni narrative
così solidali e mature come quelle che vanno dall’apologia dell’ebreo castigliano che detta
nel XII secolo ‘Il re dei Khàzari’, alla celebre - e per molti aspetti compendiaria - novella
del Boccaccio di ‘Melchisedech giudeo’ e delle ‘tre anella’ - che del resto é da leggere
‘solidalmente’ alla contigua, dedicata ad ‘Abraam giudeo’ proprio a inaugurazione del
Decameron.
Ritrovare quelle ‘anella’ é compito che ancora ci attende e che la
traduzione del saggio di Asin Palacios ripropone con urgenza; il ritardo da colmare non
é solo rispetto a Dante: e come poteva Asin essere ‘ricevuto’ nel 1919? Imperante da un
lato il binomio ‘poesia-non poesia’ di Croce...e dall’altro l’alta suggestione di un Dante
‘iniziato’ e mistico promossa dal Pascoli, che congiuntamente suggeriva la visione di un
‘riprofondato nel miro gurge’ e poco dopo, benedicendo l’impresa di Libia (La grande
proletaria sí é mossa...discorso tenuto a Barga ‘per i nostri morti e feriti’, pubblicato da La
Tribuna, 17.11.1911), contribuiva a rendere ancora più lontano e depresso quel mondo
arabo di cui si andava ‘alla militar conquista’ ostava anche la strenua difesa della
fiorentinità di Dante che, dal suo sorgere, la Società Dantesca non aveva cessato di
propugnare, tanto per stabilire un testo critico della ‘Commedia’, quanto nel non troppo
decentrare i poli culturali del ghibellin fuggiasco.”
Più lontana nel tempo, tra il 1973 ed il 1977, la pubblicazione in Italia di saggi della
studiosa autodidatta tedesca Margarete Lochbrunner su Conoscenza Religiosa: Paralleli
fra Dante e Mani, 2/1973; La Grande Spirale nella ‘Divina Commedia’ di Dante,
3/1974 e 1/1975; Simbolica iranica, 3/1975; La gerarchia degli esseri divini nell’antica
Persia, 4/1977, scritti tra il 1948 ed il 1965.
1984, bicentenario della nascita di Gabriele Rossetti: l’Editrice Atanor di Roma
ripubblica in anastatica La Beatrice di Dante. Ragionamenti critici, ristampa del testo
edito nel 1935 ad Imola. Un grosso volume di oltre seicento pagine coetaneo delle
Lettere familiari di Gabriele Rossetti a cura di P. Horne e J. Woodhouse, edite a Vasto,
sua città natale che ha dedicato a questo suo figlio celebrazioni indette con l’Università di
Oxford).
Dello stesso anno Lo schema segreto del Poema Sacro di Luigi Valli, rieditato dalle
Edizioni Bastogi che nel 1997 ancora in anastatica mandano in libreria Studi sui Fedeli
d’Amore. Dai poeti di corte a Dante. Simboli e linguaggio segreto di Alfonso Ricolfi.
Del 1987 l’edizione italiana per Ulrico Hoepli Editore, Milano (ristampato nel 1991)
del lavoro di Robert L. John, Dante Templare (l’edizione originale di Vienna risale al
1946) per il quale “il vedere e il pensare da cui nasce Amore risultano essere solo un
leggero mascheramento psicologico della profonda riflessività di cui si voleva realmente
parlare, e dalla quale soltanto poteva scaturire ‘Amore’, inteso come templarismo
spirituale. In questo significato figurato si trova il menzionato doppio senso che gli
studiosi non hanno voluto riconoscere nella lirica amorosa neoplatonica di Provenza, di
Sicilia e di Toscana...”
Le Edizioni Mediterranee di Roma nel 1988 licenziano L’ ermetismo di Dante di
Bruno Cerchio che riprende il filo del discorso di Rossetti, Pascoli, Valli, John ed anche
di Guénon, rifacendosi alla mitologia nordica, “dando una lettura ermetica che ...per sua
natura, tratta soprattutto di quanto v’é di individuale nel percorso iniziatico, subordinando
ad esso le dimensioni collettive e cosmiche...”
Con presentazione di Francesco Adorno nel 1995 per i tipi della fiorentina Loggia deí
Lanzi, Giovangualberto Ceri licenzia Dante e l’Astrologia che indica la ‘scoperta’ della
‘vera’ data di nascita di Dante, del suo ‘viaggio’ scolpito in versi nella Divina
Commedia, l’errore in cui incorse Papa Bonifacio VIII nell’indire il primo Giubileo del
1300 (analogo errore si ripeterà per l’imminente Giubileo di fine secondo millennio), il
giorno di nascita di Beatrice Portinari e quello in cui Dante vide per la prima volta
Beatrice, la data di morte di Guido Cavalcanti. Con una interessante documentazione
cartacea e riscontri, ma la critica convenzionale non ha recepito.
Nello stesso anno la Bastogi Editrice Italiana pubblica dell’anonimo AE Philaletes,
L’esoterismo rosacroce nella Divina Commedia, 80 agili pagine nelle quali, si legge sul
risvolto di copertina, Dante “descrive tutta la vita di un ‘alchimista’...il lavoro di un
iniziato ai Misteri che furono poi chiamati dei Rosa Croce e...rivela di aver scoperto la
‘pietra filosofale’, di aver raggiunto la Gnosi...documenta come nella Commedia siano
riprodotti tutti i passaggi ed i riti delle più antiche iniziazioni: dalla egiziana alla indiana,
dalla zoroastriana alla orfica.” Perchè trincerarsi dietro lo pseudonimo Rosa+Croce?
Gli studi di Luigi Valli ritornano in Libreria per l’Editrice Luni di Milano con il citato
Il linguaggio segreto di Dante e dei ‘Fedeli d’Amore’ dedicato alla gloriosa memoria di
Ugo Foscolo, di Gabriele Rossetti, di Giovanni Pascoli, i tre poeti d’Italia che infransero i
primi suggelli della misteriosa opera di Dante (704 pagine: la edizione originale di poco
più di 450+125 delle Discussioni e note aggiunte, in formato ridotto) e Il segreto della
Croce e dell’Aquila nella Divina Commedia. Merito del Valli aver reso chiari i passi
oscuri della Commedia, di altri versi e scritti di Dante, prima incomprensibili e di aver
ricercato se (e se sì, quando) l’Alighieri avesse appartenuto a sette ed a quali: secondo
Valli Dante sarebbe stato affiliato ad una ‘setta eretica’ che sarebbe quella dei Fedeli
d’Amore, vicina ai Cavalieri del Tempio, in parte influenzati dai Sufi. Dante templare? La
medaglia del museo di Vienna, i colori dell’abito nel ritratto di Giotto e le non poche
citazioni.
Minerva oscura e Sotto il velame: i primi due saggi sull’opera di Dante, di Giovanni
Pascoli che senza derivare da Foscolo, Rossetti ed altri, svela elementi fondamentali oltre
il velame delli versi strani quali la rispondenza simmetrica, profonda e completa tra i tre
regni descritti nelle tre cantiche; la natura una (come il peccato originale) e trina
(incontinenza, bestialità e malizia) del male da cui discende la ripartizione del mondo,
rappresentato dalla selva, e dell’inferno; il viaggio nell’oltre tomba significa morte
mistica, l’abbandono della vita attiva per quella contemplativa; la rispondenza tra l’andare
di Dante e la vita di Giacobbe secondo S. Agostino nel Contra Faustum; il collegamento
tra il viaggio di Dante e quello di Enea, protagonista dell’alta tragedia di Virgilio: Dante
preannuncia la restaurazione dell’impero, Virgilio ne annunciò la caduta; l’esistenza (ma
non approfondita) delle simmetrie tra Aquila e Croce, tesi poi ripresa dal Valli che ne
individuò trenta.
Sempre presente nel catalogo della romana Editrice Atanor, L’esoterismo di Dante di
René Guénon, volumetto di circa 80 pagine con il quale l’Autore, attraverso l’esame delle
manifestazioni della tradizione occidentale, dagli ordini di cavalleria ai rosacroce ed alla
massoneria contribuisce ad apportare una notevole luce su un lato poco conosciuto di
Dante. Il saggio, scritto in lingua francese, risale al 1924, originariamente apparso su
Atanor, rivista di studi iniziatici; nell’anno successivo in volume a Parigi ed a Roma
“con qualche riferimento al misticismo indiano ma egli (Guènon)...evidentemente non
conosce il Rossetti, perché attribuisce tutte le scoperte del Rossetti all’Aroux” scrisse
Luigi Valli in una nota. Guénon é stato indubbiamente un ottimo ‘trasformatore’ della
materia altrui e, facendo leva sul suo nome negli ambienti occultistico/esoterici/libero
muratori ed editoriali quelle note e poche altre sparse sono divenute una sorta di
vangelo,ponendolo impropriamente, a nostro avviso, alla pari se non ad un livello
superiore, di Rossetti, Pascoli, Valli i veri grandi interpreti ‘tradizionali’ di Dante e dei
Fedeli d’Amore.
Ed ancora: rilevante per l’entusiamo dei neofiti, non addetti ai lavori, Sotto il velame,
semestrale di studi danteschi ed iniziatici che data dal 1994.
Fatte salve, doverosamente, involontarie omissioni pensiamo di aver offerto un ampio
ventaglio degli studi a disposizione dei cultori.
( Donatello Viglongo )
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