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il dono supremo - Adorazione Eucaristica Perpetua

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il dono supremo - Adorazione Eucaristica Perpetua
Lunedì 2 marzo 2015, ore 20.30, in San Salvatore
SCUOLA DI ADORAZIONE
«EUCARISTIA: IL DONO SUPREMO»
CATECHESI E SPUNTI PER L’ADORAZIONE
di S.E. Mons. Ernesto Vecchi, Vescovo Ausiliare Emerito di Bologna
INDICE
1. QUARESIMA: “SEGNO SACRAMENTALE DELLA NOSTRA CONVERSIONE” ...... 2
2. L’EUCARISTIA: FONTE E CULMINE DELLA VITA ECCLESIALE ........................ 3
3. SACRAMENTO DI OGNI SALVEZZA .................................................................... 5
4. URBANO IV E LA FESTA DEL CORPUS DOMINI ................................................. 7
5. L’EUCARISTIA, LA CHIESA E IL “MISTERO GRANDE” DEL MATRIMONIO .... 10
6. L’ADORAZIONE EUCARISTICA E I DIVORZIATI RISPOSATI ............................ 11
7. IL DINAMISMO TRASFORMANTE DELL’EUCARISTIA...................................... 12
8. PRIMO SPUNTO PER L’ADORAZIONE ............................................................... 14
9. SECONDO SPUNTO PER L’ADORAZIONE .......................................................... 15
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1. QUARESIMA: “SEGNO SACRAMENTALE DELLA NOSTRA CONVERSIONE”
L’arco dei 40 giorni che precedono la Pasqua, nella grande
tradizione cristiana e civile del nostro paese è un tempo favorevole
per fare silenzio e lasciare spazio all’ascolto, alla riflessione, alla
contemplazione, alla revisione di vita, per rivivere in pienezza
l’Evento che sta al centro della storia umana: la morte e la
risurrezione di Cristo (Cf. Oscar Cullmann, Cristo e il tempo, il Mulino, 1965, p. 40). La
Quaresima, dunque, è un itinerario esigente, ma necessario per non
espellere dalla dinamica sociale la Pasqua, “il punto di Archimede
che ci è dato per sollevare il mondo”
(Giorgio La Pira).
«Infatti, nella
Santissima Eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della
Chiesa, cioè lo stesso Cristo nostra Pasqua» (Presbyterorum ordinis, n. 5).
La Quaresima, dunque, è il tempo favorevole (il kairós) per una
verifica, perché è un cammino penitenziale orientato alla riscoperta
del nostro Battesimo e del suo rapporto con la Pasqua, cioè con
l’Eucaristia. Per questo, l’itinerario quaresimale è anche l’occasione
per il recupero pieno di una persuasione, che da sempre accompagna
il cammino ecclesiale: cioè, la convinzione che la Chiesa, col dono
dell’Eucaristia, ha ricevuto il codice genetico della sua identità e
l’inesauribile sorgente della sua potenzialità, cioè un dono pieno ed
esclusivo
(Card. G. Biffi),
che la pone di fronte al mondo come
“sacramento universale di salvezza”
(Lumen gentium, n. 48).
È dunque il
«Dono supremo», il Sacramento «principale» (potissimum), come lo
chiamava Tommaso d’Aquino, il Dottore eucaristico
(Cf. I. Biffi, Il dono
supremo: l’Eucaristia, Jaca Book, Milano 2014, p. XI).
Pertanto, è necessario intensificare il contatto sacramentale con
Cristo, mediante una partecipazione attiva, consapevole e fruttuosa
alla celebrazione dell’Eucaristia e riscoprire, come sua logica
conseguenza, il culto eucaristico fuori dalla Messa, in particolare
l’adorazione. Oggi, è urgente recuperare il rapporto intrinseco tra
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celebrazione e adorazione, che fu messo in crisi nel postconcilio, per
una interpretazione riduttiva della riforma liturgica
caritatis, n. 66, EV24/187).
(Cf. Sacramentum
In realtà, questa riforma – seguita passo passo da
Paolo VI – nacque dal «grande soffio» che sospinse la Chiesa al
momento in cui la Sacrosanctum Concilium fu preparata, discussa,
votata, promulgata e conobbe le sue prime misure di applicazione (Cf.
Giovanni Paolo II, Vicesimus quintus annus, n. 23, EV11/1597).
Purtroppo, nel contesto postconciliare, alcuni pseudoteologi – molto
gettonati nei “circoli” contestativi – diffondevano un’opinione
fuorviante: il Pane eucaristico ci è stato dato per essere mangiato e
non
contemplato.
In
realtà
non
è
così,
come
testimonia
Sant’Agostino: «Nessuno mangia questa carne senza prima
adorarla; peccheremmo se non la adorassimo». L’adorazione
eucaristica, infatti, è l’ovvio sviluppo della Celebrazione eucaristica,
la quale è in se stessa il più grande atto di adorazione della Chiesa (Cf.
Sacramentum caritatis, n. 66, EV24/187).
2. L’EUCARISTIA: FONTE E CULMINE DELLA VITA ECCLESIALE
Il Catechismo della Chiesa Cattolica (1322-1419), espone con
chiarezza la verità sull’Eucaristia, alla luce soprattutto del magistero
del Concilio Vaticano II. Essa è fonte e culmine della vita cristiana.
Per questo tutti i Sacramenti, come pure tutti i ministeri ecclesiastici
e le opere di apostolato sono strettamente uniti alla sacra Eucaristia
e ad essa sono ordinati (Cf. Presbyterorum ordinis, n. 5).
L’inesauribile ricchezza di questo sacramento si esprime attraverso i
diversi nomi che ne evocano aspetti particolari:
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EUCARISTIA: perché è rendimento di grazie a Dio.
-
CENA DEL SIGNORE: perché si tratta della cena che il Signore ha
consumato con i discepoli alla vigilia della sua passione e perché
anticipa la cena delle nozze dell’Agnello nella Gerusalemme
celeste (Cf. Ap 19, 9).
-
FRAZIONE
DEL PANE:
richiama lo spezzare del pane da parte di
Gesù nell’ultima cena. Proprio da questo gesto i discepoli lo
riconosceranno, dopo la risurrezione (Cf. Lc 24, 13-35). I primi
cristiani chiamano «Fractio panis» le loro assemblee eucaristiche
(la Messa). In tal modo si voleva indicare che quanti si nutrono
del pane spezzato formano, con Cristo e tra loro, un solo corpo
(Cf. 1 Cor 10, 16-17). Il Cardinale G. Lercaro ne mise in evidenza
lo spessore caritativo facendo scrivere sull’altare della Cappella
della Casa Arcivescovile una frase tratta dalla “Didaché”: «Se
condividiamo il Pane celeste come non condivideremo il pane
terreno?».
-
ASSEMBLEA
EUCARISTICA:
in quanto l’Eucaristia viene celebrata
nell’assemblea dei fedeli (Sinassi), espressione visibile della
Chiesa.
-
MEMORIALE: della passione e della risurrezione del Signore.
-
SANTO SACRIFICIO: perché attualizza l’unico sacrificio di Cristo
Salvatore, il sacrificio della Croce. Comprende anche l’offerta che
la Chiesa fa di se stessa, nei suoi membri, e porta a compimento
tutti i sacrifici dell’Antica Alleanza.
-
SANTA E DIVINA LITURGIA: perché qui trova il suo centro tutta la
liturgia, cioè il Culto e la santificazione della Chiesa.
-
SANTISSIMO SACRAMENTO: in quanto costituisce il sacramento
dei sacramenti. Con questo nome si indicano le specie
eucaristiche conservate nel tabernacolo.
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COMUNIONE: perché mediante questo sacramento ci uniamo a
Cristo e formiamo con Lui un solo corpo (Cf. 1 Cor 10, 16-17). Si
usa anche l’espressione «cose sante»: è il significato originale
dell’espressione «comunione dei santi».
-
SANTA MESSA: perché la liturgia, nella quale si è compiuto il
mistero della salvezza, si conclude con l’«invio» dei fedeli
(«missio»), affinché compiano la volontà di Dio nella loro vita
quotidiana.
3. SACRAMENTO DI OGNI SALVEZZA
Sintetizziamo qui il Documento dottrinale, redatto in occasione del
XXIII Congresso Eucaristico Nazionale: L’Eucaristia Sacramento di
ogni salvezza, Piemme, Casale Monferrato 1996.
L’uomo ha bisogno di essere salvato dal male (peccato), dalla morte
e da una vita senza senso, che inquina ogni sua gioia e vanifica ogni
sua conquista. L’anelito alla salvezza, dunque, è un’aspirazione che
non si può eludere, perché è inscritto nel nostro essere. La risposta di
Dio a questo anelito sta in un evento che si identifica con una
persona: Gesù, il Figlio di Dio crocifisso e risorto, unico Salvatore
del mondo, cioè di tutti gli uomini e di tutte le cose.
L’evento salvifico trova il suo cuore e il suo vertice nel sacrificio
della Croce. Gesù non sale sulla Croce costretto: egli si dona al
Padre (Cf. Eb 10, 7). Nell’agonia del Getsemani non c’è una
rassegnazione, ma una decisione, che è un atto d’amore. Sulla Croce
non troviamo la disperazione di Gesù, ma la sua “pazienza”, come
segno della fedeltà alla scelta del Padre. Quando Gesù muore e
risorge, si attua l’eterno progetto di Dio. Pertanto, la Croce non è un
disastro, ma l’avveramento di ciò che è stato pensato e voluto fin
dall’inizio (Cf. At 2, 23).
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In questa vicenda di sofferenza e di amore, di immolazione e di
gloria, è racchiuso il destino dell’uomo. Contemplando il Crocifisso
glorificato, ogni uomo risale alle proprie origini e riscontra la forma
del suo esistere. Siamo tutti «predestinati a essere conformi
all’immagine del Figlio di Dio» (Cf. Rm 8, 29; Ef 1, 3-7). Ne consegue
che l’ “uomo esemplare” è Gesù risorto e non l’Adamo terreno.
Perciò non bisogna dimenticare mai che il principio, il primogenito,
il “primeggiante” (Cf. Col 1, 16) è il Crocifisso Risorto, che siede alla
destra del Padre. È, dunque, Cristo l’ “archetipo” (l’esemplare) sul
quale ogni cosa è modellata e nel quale trova compimento.
Ora, tutto l’evento salvifico ci è offerto sotto la figura del pane e del
vino, quando celebriamo l’Eucaristia (cioè l’azione di grazie), un rito
che ci permette di partecipare al sacrificio pasquale in modo
“sacramentale”: un modo vero e sostanziale, espresso e causato dai
segni. Nell’atto eucaristico, ritroviamo lo stesso valore manifestato
da Gesù nel duplice gesto compiuto la vigilia della passione: ci è
messo tra le mani il suo “Corpo dato” e il suo “Sangue versato”.
L’Eucaristia, dunque, ci pone in comunione con la realtà totale del
Cristo Redentore.
In virtù dell’azione trasformante dello Spirito Santo, il pane e il vino
diventano “veramente, realmente e sostanzialmente” (Concilio di
Trento) il Corpo e il Sangue del Signore. Così l’Eucaristia si pone
come il sacramento della presenza del “Corpo dato” e del “Sangue
sparso” e insieme il sacramento della mediazione salvifica di Gesù.
Lo Spirito Santo investe l’assemblea radunata e tutto trasfigura: il
pane e il vino, nel Corpo e Sangue di Cristo e i convenuti nel
“Corpo” della Chiesa (Cf. 1 Cor 10, 17). È l’umanità in cui, grazie
all’Eucaristia, convive tutto il mistero di carità di cui il Crocifisso è
“simbolo”. Per questo S. Tommaso lo definisce il «Sacramento della
carità» (Cf. Summa Theologiae III, 73, 3, ad 3).
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Nella memoria eucaristica, Gesù consegna agli Apostoli il suo Corpo
e il suo Sangue, perché il sacrificio della Croce – da lui compiuto una
volta per tutte – passi a loro e a tutti gli uomini, per essere assunto e
condiviso, al fine di diventare l’ “immagine” del Figlio di Dio. Ciò è
necessario per formare la Chiesa, figura e iniziale avveramento del
Regno e «sacramento universale di salvezza». Con l’Eucaristia,
dunque, rendiamo presente tra gli uomini il Figlio di Dio, che ha
scelto di restare con noi, in tutte le ore dell’esistenza, anche le più
tragiche. Così in ogni angolo della terra si introduce la forza della
vittoria pasquale, principio rinnovatore del mondo e soprattutto
dell’uomo, in tutti gli ambiti del suo esistere, del suo aggregarsi, del
suo operare.
Per questo, fin dagli inizi, la Chiesa è sempre stata fedele al comando
del Signore e si riuniva per celebrare l’Eucaristia (At 2, 42.46), in
particolare la domenica «primo giorno della settimana», giorno della
risurrezione di Gesù. Così la domenica è diventata l’«asse portante
della storia della salvezza»
(Giovanni Paolo II, Dies Domini, n. 2, EV17/902).
Inoltre, l’Eucaristia offre alla Chiesa la ragione della sua speranza:
se essa è il memoriale della Pasqua del Signore, se mediante la
Comunione veniamo ricolmati «di ogni grazia e benedizione del
cielo»
(Preghiera eucaristica I),
l’Eucaristia diventa «pegno della gloria
futura» (Cf. Liturgia del Corpus Domini, Antifona al Magnificat dei II Vespri).
4. URBANO IV E LA FESTA DEL CORPUS DOMINI
Il Giubileo Straordinario, indetto a Orvieto da Benedetto XVI nel
2014, in occasione del 750° anniversario del miracolo di Bolsena, è
stato un’ulteriore occasione per ribadire – alla luce della
Costituzione Sacrosanctum Concilium – lo spessore teologico e
pastorale dell’Eucaristia, in particolare la verità della presenza reale
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di Cristo, sotto le specie del pane e del vino, come Gesù stesso ha
detto: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di
me; questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, fate questo in
memoria di me» (1 Cor 11, 24-25).
Quando Papa Urbano IV, l’8 settembre 1264 a Orvieto, estese a tutta
la Chiesa la festa del «Corpus Domini» con la Bolla «Transiturus de
hoc mundo», volle incrementare il culto eucaristico e, in particolare,
ribadire la fede della Chiesa nella presenza reale di Cristo
nell’Eucaristia, per varie ragioni.
1. La prima ragione si ricollega al movimento eucaristico di Liegi,
dove nel 1246, il Vescovo Roberto de Thourotte istituì, nella sua
diocesi, la solennità del Corpus Domini, chiamata «Solennità di
Dio». Lo fece su richiesta di Santa Giuliana di Retinnes, priora
del monastero di Mont-Cornillon – che aveva già composto un
ufficio del Corpus Domini – di Sant’Eva di Sain-Martin e di altre
liegesi. Dopo 18 anni, nel 1264, Papa Urbano IV – che fu
Arcidiacono a Liegi, quando era Vescovo Roberto de Thourotte –
sottolineò l’importanza di questo culto, estendendo la festa del
Corpus Domini come solennità per tutta la Chiesa (Cf. E. Franceschini,
Origine e stile della Bolla «Transiturus», Studi eucaristici, Atti del VII centenario, Orvieto 1964,
pp. 287-289).
2. Un’altra ragione era la necessità di respingere le teorie
negazioniste,
in
particolare
l’eresia
del
teologo
francese
Berengario di Tours, che negava la «transustanziazione», un
termine tecnico fatto proprio dal Concilio di Trento, per indicare
gli effetti della consacrazione sulle specie eucaristiche: il pane e il
vino diventano il corpo e il sangue di Cristo. Con la parola
«transustanziazione» si vuol dire che il pane e il vino, pur
conservando ancora le sembianze (la species) di pane e vino,
perdono la loro sostanza e acquistano la sostanza del Corpo e
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Sangue di Cristo. In seguito questa dottrina fu contestata dai
Riformatori (Lutero, Calvino, Zwingli ed altri) ma fu ribadita dal
Concilio di Trento (Denzinger- Hünermann, 1652) e dal Concilio
Vaticano II (Cf. Sacrosanctum Concilium, n. 7).
Alcuni teologi, di fronte alla concezione moderna della natura –
vista come espressione dinamica di molteplici connessioni
materiali (molecole, atomi, elettroni, fotoni, ecc.) – ritengono il
termine
«transustanziazione»
inadeguato
ad
esprimere
il
cambiamento delle specie eucaristiche, perché espressione di una
visione della natura troppo statica e immodificabile. Essi hanno
coniato altre terminologie come «transfinalizzazione» (B. Welte) e
«transignificazione» (P. Schoonenberg; E. Schillebeeckx). Ma
queste proposte non sono convincenti: danno spiegazioni parziali
del mutamento eucaristico e non esprimono chiaramente il
mutamento della sostanza del pane e del vino nella sostanza del
Corpo e Sangue di Cristo (Cf. Leo Scheffczyc, Il mondo della fede cattolica, verità e
forma, Vita e Pensiero, Milano 2007, pp. 243-249).
L’Enciclica Mysterium fidei di
Paolo VI, dichiara che i concetti di «transfinalizzazione» e di
«transignificazione» non esprimono in modo adeguato il concetto
di «transustanziazione», perché parlano solo di un “fine” e di un
“significato” essenzialmente nuovi (Cf. EV2/426-435).
3. C’è una terza ragione, che ha tolto ogni indugio alla
promulgazione della Bolla «Transiturus»: il miracolo di Bolsena,
avvenuto durante la dimora di Urbano IV a Orvieto. Un
sacerdote boemo – che nutriva dubbi sulla «transustanziazione» mentre celebrava la Messa, al momento della frazione del Pane,
vide uscire uno schizzo di sangue che macchiò il corporale. Ora,
questa preziosa reliquia è custodita e posta alla venerazione dei
fedeli nel Duomo di Orvieto (Cf. E. Franceschini, op. cit., pp. 300-302).
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5. L’EUCARISTIA, LA CHIESA E IL “MISTERO GRANDE” DEL MATRIMONIO
La Chiesa è, dunque, nel mondo sacramento universale di salvezza (Cf.
Lumen gentium, n. 48);
è «in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento
dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Lumen
gentium, n. 1);
mistero»
la Chiesa, inoltre, è «il regno di Cristo presente nel
(Lumen gentium, n. 3).
Pertanto la Chiesa, pur non potendosi
identificare con Cristo, è però unita a lui in maniera reale, dinamica
ed estremamente profonda, nella sua dimensione di mistero, ma
anche nella sua visibilità e consistenza giuridica. Questa unità della
Chiesa con Cristo – in quanto è suo corpo (Cf. Col 1, 24) – ha la più
alta concretizzazione nell’Eucaristia: in essa l’indole comunitaria
della Chiesa raggiunge la sua massima intensità e, al tempo stesso, la
maggiore estensione possibile. Nasce proprio da qui la convinzione –
sempre presente nella Chiesa – che gli eretici e gli scismatici non
possono essere ammessi all’Eucaristia (Cf. C. Ruini, Rieducarsi al cristianesimo. Il
tempo che stiamo vivendo, Mondadori, Milano 2008, pp. 95-96).
Diverso è il caso dei battezzati divorziati e risposati, che la Chiesa
non abbandona a se stessi, perché il sacramento del matrimonio è un
“grande mistero”. Infatti, l’Incarnazione del Figlio di Dio è la
premessa, il fondamento e l’iniziale realizzazione dell’evento
ecclesiale, che è anzitutto un “mistero sponsale”, il mistero di Cristo
che ama la Chiesa, e ha dato se stesso per lei, come scrive San Paolo,
il quale mette questo mistero a fondamento del rapporto tra marito e
moglie. «Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua
moglie e i due diventeranno una sola carne. Questo mistero è grande:
io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!» (Cf. Ef 5, 25-32). In
tale prospettiva, si coglie il senso profondo di ciò che dice il Vangelo
di Matteo: «Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di
nozze per suo figlio» (Mt 22, 1). A questa festa siamo tutti invitati fin
dalla nostra chiamata all’esistenza.
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Pertanto, la pastorale dei divorziati risposati avrà molta attenzione nei
loro confronti, secondo le direttive dell’Esortazione Apostolica
Familiaris consortio (1981), dove si dice che i Pastori devono discernere
le varie situazioni. C’è differenza, infatti, tra quanti si sono sforzati di
salvare il loro matrimonio e sono stati abbandonati ingiustamente, e
quanti per loro grave colpa hanno distrutto un matrimonio
canonicamente valido. Ci sono poi coloro che hanno contratto una
seconda unione in vista dell’educazione dei figli, e talvolta sono
oggettivamente certi, in coscienza, che il precedente matrimonio non
era mai stato valido. Il Papa, pertanto, esorta i Pastori a non
considerare i divorziati come se fossero separati dalla Chiesa, potendo
e anzi dovendo, in quanto battezzati, partecipare alla sua vita: con
l’ascolto della Parola di Dio, con la frequenza alla Messa, con la
preghiera, con le opere di carità e altre opere di promozione ecclesiale
e umana. Tuttavia, la Chiesa ribadisce la prassi fondata sulla Sacra
Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati
risposati (Cf. Familiaris consortio, n. 84, EV7/1796-1799).
6. L’ADORAZIONE EUCARISTICA E I DIVORZIATI RISPOSATI
A proposito di coloro che non possono fare la comunione
sacramentale, esiste un documento di San Giovanni Paolo II che apre
un orizzonte interessante. Si tratta della sua lettera scritta al Vescovo
di Liegi Mons. Alberto Houssiau il 28 maggio 1996, in occasione del
750° anniversario dell’istituzione della festa del Corpus Domini a Liegi
nel 1246. Tra l’altro il Papa scrive: «La contemplazione prolunga la
comunione e permette di incontrare durevolmente Cristo, vero Dio e
vero uomo, di lasciarsi guardare da lui e di fare esperienza della sua
presenza.
Quando
lo
contempliamo
presente
nel
Santissimo
Sacramento dell’altare, Cristo si avvicina a noi e diventa intimo con
noi più di quanto lo siamo noi stessi; ci rende partecipi della sua vita
divina in un’unione che trasforma e, mediante lo Spirito, ci apre la
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porta che conduce al Padre come egli stesso disse a Filippo: “Chi ha
visto me ha visto il Padre” (Gv 14, 9). La contemplazione, che è anche
una comunione di desiderio, ci associa intimamente a Cristo e associa
in modo particolare coloro che sono impossibilitati a riceverlo»
(EV15/911-913).
È noto che è in atto nella Chiesa, per volontà di Papa Francesco, un
esame profondo del progetto di Dio sul matrimonio e la famiglia. È
stato già celebrato un Sinodo Straordinario (5-19 ottobre 2014), in
preparazione a quello Ordinario, già convocato per il mese di ottobre
2015. Come abbiamo sentito dai suoi discorsi, non è intenzione del
Papa contraddire la verità di Gesù sul matrimonio. Egli vuole che la
Chiesa prenda di petto il problema dal punto di vista pastorale, perché
ancora c’è la tendenza a considerare i divorziati risposati “separati
dalla Chiesa”. Ma di fronte a un matrimonio valido, nemmeno il Papa
“può dividere ciò che Dio ha unito” (Cf. Mt 19, 6).
7. IL DINAMISMO TRASFORMANTE DELL’EUCARISTIA
Quando si parla dell’Eucaristia non bisogna mai perdere di vista una
costante della prassi ecclesiale: “ogni grande riforma è legata, in qualche
modo, alla riscoperta della fede nella presenza eucaristica del Signore in
mezzo al suo popolo”, perché l’Eucaristia, quando dà forma alla vita e
all’azione della Chiesa, diffonde la verità e la carità dentro la storia (Cf.
Sacramentum caritatis, nn. 6-7, EV/24/110-111).
Il poeta Paul Claudel (1868-1955) ha
scritto che “la quintessenza del cristianesimo, cioè il punto decisivo
in cui può essere riassunto è l’Eucaristia”, e Teilhard de Chardin ha
espresso la convinzione che, anche nel nostro tempo, si possono
pronunciare queste parole: “l’Eucaristia invade l’universo. Essa è il
fuoco che corre sulla sterpaglia. È il colpo che fa vibrare il bronzo
[...]. In senso generalizzato, ma vero, possiamo dire che le Specie
sacramentali sono costituite dalla totalità del Mondo, e la durata
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della Creazione è il tempo richiesto per la sua consacrazione”
(Cfr. L.
Scheffczyk, Il mondo della fede cattolica, verità e forma, Vita e Pensiero, Milano 2007, p. 239).
Benedetto XVI, addirittura, ha insegnato che la “conversione
sostanziale” del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo pone
dentro la creazione il “principio di un cambiamento radicale”, una
specie di «fissione nucleare» introdotta nel più intimo dell’essere, che
suscita un “processo di trasfigurazione della realtà” il cui termine
ultimo sarà la trasfigurazione del mondo intero
caritatis, n. 11, EV/24/115).
(Cfr. Sacramentum
In sostanza, l’Eucaristia alimenta una spinta
evangelizzatrice che “ci mette in dialogo con le differenti culture e in
un certo senso le sfida”
(Cfr. Sacramentum caritatis, n. 78, EV/24/202).
Infatti,
questo grande «Mistero della fede» diviene criterio di valorizzazione
di tutto ciò che il cristiano incontra nelle varie espressioni culturali1.
Il nuovo culto cristiano, infatti – come dice l’Esortazione Apostolica
postsinodale Sacramentum caritatis – abbraccia ogni aspetto
dell’esistenza trasfigurandola: «Sia che mangiate sia che beviate sia
che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio» (1 Cor
10, 31). Da qui prende forma la natura intrinsecamente eucaristica
della vita cristiana. L’Eucaristia rende possibile, giorno dopo giorno,
la progressiva trasfigurazione dell’uomo, chiamato per grazia ad
essere immagine del Figlio di Dio (Cf. Rom 8, 29s).
Non c’è nulla di autenticamente umano – pensieri e affetti, parole e
opere – che non trovi nel sacramento dell’Eucaristia la forma
adeguata per essere vissuto in pienezza. Qui emerge tutta la valenza
antropologica dell’Eucaristia: il culto a Dio nell’esistenza umana non
è relegabile ad un momento particolare e privato, ma per natura sua
tende a pervadere ogni aspetto della realtà dell’individuo
(Cf.
1 Di conseguenza, «quanto apparirà intrinseco al mistero eucaristico dovrà essere sostanzialmente ritrovato nel mistero ecclesiale e potrà
essere assunto come principio ispiratore di ogni comportamento e di ogni vitalità nella Chiesa. Così, tutto quanto c’è di proprio e di
caratterizzante nel mistero ecclesiale svelerà che cosa nel mondo debba essere affrontato e combattuto, che cosa debba essere avvalorato,
che cosa debba essere immesso perché l’umanità si adegui alla volontà del Padre e trovi salvezza. In una parola, l’Eucaristia,
manifestandoci l’indole essenziale della Chiesa, contestualmente ci manifesterà che cosa sia necessario per la vita del mondo» (G. Biffi,
Eucaristia, Chiesa e mondo, in Bollettino dell’Arcidiocesi di Bologna, settembre 1986, pp. 524-556, nn.5-6).
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Sacramentum caritatis, n. 71).
Pertanto, se mettiamo la nostra vita in sintonia
con quella di Gesù, offrendo noi stessi come Lui ha offerto se stesso
al Padre, possiamo verificare nella nostra esperienza quotidiana
quanto ha scritto S. Ireneo: «La gloria di Dio è l’uomo vivente e la
vita dell’uomo è la visione di Dio»
(Cf. S. Ireneo, Contro le eresie IV, 20, 7: PG 7,
1037).
8. PRIMO SPUNTO PER L’ADORAZIONE
1. L’adorazione eucaristica – comunitaria o individuale – non è mai
un chiudersi in se stessi, ma un entrare in rapporto con Cristo,
vivendo la sua realtà di adoratore del Padre e facendoci carico –
come Lui – di tutta la realtà globale che ci circonda, per
introdurre ovunque la “novità di vita” che la sua Incarnazione e
la sua Pasqua hanno portato sulla terra. Questo vale soprattutto
oggi, che il mondo si è fatto sempre più complesso e la vita
sempre più interconnessa e globalizzata.
2. Ma perché l’atto di adorazione diffonda il fuoco dell’amore di
Dio tra la gente, presuppone una verifica profonda della nostra
fede nella presenza reale di Gesù nell’Eucaristia. Ciò significa che
– al di là di ogni sentimentalismo – siamo pienamente e
interiormente convinti che «Cristo è una realtà, non un’ipotesi,
un mito, un simbolo religioso. È una realtà viva, umanamente
viva, che respira, palpita, gioisce, contempla, ama; non è un
personaggio “storico”, mummificato nei libri e nelle varie
tradizioni locali. È una realtà operante, perché non è tagliato fuori
dalla nostra esistenza e dal nostro mondo, ma è il principio della
vita e della sussistenza di tutti. È una realtà orante, in quanto è
preghiera fatta persona e “principio” della preghiera»
(Cf. G. Biffi,
Introduzione alla «Divina laus», in Predicare oggi, Ed. Àncora, Milano 1982, p. 203).
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3. Fatta questa verifica, il nostro rapporto con Cristo diventa il
frutto di una combinazione di tanti fattori diversi, che però
gravitano attorno a una domanda d’amore che Gesù fa a
ciascuno di noi: «Chi ama il padre o la madre più di me, non è
degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me, non è degno di
me» (Mt 10, 37). «Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva,
questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e
anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui» (Gv 14, 21).
4. Se cerchiamo di mettere ordine nella nostra vita e ci impegnamo
veramente, perché l’amore verso Dio e il prossimo ne diventi la
regola, allora, di fronte al mistero dell’Eucaristia, ci accorgiamo
che Dio, in Cristo ci avvolge con la sua presenza, come la vite con
i tralci: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore... Come il
tralcio non può portare frutto se non rimane nella vite, così
neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi
rimane in me e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non
potete fare nulla» (Cf. Gv 15, 1-5).
9. SECONDO SPUNTO PER L’ADORAZIONE
1. Purtroppo, dopo il peccato delle origini, abbiamo la libertà di
rifiutare questo amore e, per evitare la presenza di Dio, ci
nascondiamo, come Eva e Adamo, in mezzo agli alberi del
giardino (Cf. Gen 3, 8). Questo nasconderci misura il massimo
della distanza tra noi e Dio. Eppure, dopo il peccato, Dio non
maledice l’uomo – come ha maledetto il serpente – però gli chiede
di convertirsi, di uscire dai cespugli. La stessa cosa emerge nel
Cantico dei Cantici, che rivela l’amore che Dio ha per ogni
creatura umana. Egli chiede alla colomba – l’umanità da lui
amata – di uscire dalle fenditure della roccia, dai nascondigli dei
dirupi per mostrare il suo viso: «O mia colomba che stai nelle
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fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo
viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo
viso è incantevole» (Ct 2, 14).
2. Santa Teresa di Gesù Bambino, meditando su questo testo, ha
scritto che tutti dobbiamo mostrarci a Dio che vuole vedere il
nostro volto. La colomba che si nasconde nel buio della roccia
non sa di essere bianca, di essere bella. Dio ci invita a uscire dai
nostri nascondigli, a rimuovere le maschere che il tempo dei
compromessi ha posto sui nostri volti. Vuole che riscopriamo
quanto siamo belli ai suoi occhi. Questo testo del Cantico è
emblematico, perché ci dice che Dio ci cerca, perché ci vuole
bene.
3. Ma di fronte al Santissimo Sacramento esposto alla nostra
adorazione, non dobbiamo preoccuparci di dire molte parole. C’è
un altro testo del Cantico dei Cantici che ci permette di cogliere
la pienezza del grande silenzio: «Tu mi hai rapito il cuore, sorella
mia sposa, tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo» (Ct 4,
9). Qui sta il centro di tutto: possiamo rapire il cuore di Cristo
con un solo sguardo pieno di amore. E rapire il cuore di Cristo
significa entrare nel mistero della sua morte e risurrezione, che
ricapitola tutto in sé.
4. Ma oggi facciamo fatica ad avere questo sguardo limpido. Per
questo abbiamo bisogno di aiutare noi e gli altri. Si parla
abbastanza di spiritualità, ma molto meno di «mistica», cioè di
fare esperienza di Dio, di sperimentare la sua presenza,
specialmente nell’Eucaristia. Questa «mistica» la dobbiamo
esprimere – con l’aiuto dei Sacramenti – in tutti i momenti della
nostra vita. Abbiamo bisogno di riaccendere in noi quello
«sguardo», capace di «rapire» il cuore di Cristo, in modo tale da
avvolgere d’amore tutto ciò che facciamo e diffondere il fuoco
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dello Spirito, in tutto ciò che sta attorno a noi, cioè l’universo.
Perché questo è il disegno del Padre: «Fare di Cristo il cuore del
mondo».
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