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Analisi di Tre donne intorno al cor mi son venute

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Analisi di Tre donne intorno al cor mi son venute
ANALISI DI TRE DONNE INTORNO AL COR MI SON VENUTE
1
CARLOS LÓPEZ CORTEZO
Universidad Complutense de Madrid
Asociación Complutense de Dantologia
Si è parlato forse anche troppo del carattere politico di questa
tormentata canzone dantesca, probabilmente a causa della pregnante
presenza del tema dell’esilio e della lettura che si è fatta del secondo
congedo. Io invece vorrei cominciare mettendo in risalto il suo tratto
più rilevante, l’interiorità del narrato, il forte psicologismo che
invade la composizione fin dall’inizio, investendo le personificazioni
e trasformandole in sentimenti che si muovono intorno al cuore del
poeta, un cuore occupato sì da Amore, ma non dalle dolenti tre donne
che un tempo furono amate e che dopo invece furono scacciate dal
cuore degli umani2; anche da quello di Dante, al quale vengono
adesso perché c’è Amore, un ‘amico’ alquanto inattivo, dato che le
sue frecce sono arrugginite dal non uso; un’inattività che dovrebbe
riguardare i concetti rappresentati dalle tre donne, se si considera che
dopo aver ascoltato l’intervento di Drittura si vergogna (vv. 37-39:
«Poi che fatta si fu palese e conta, / doglia e vergogna prese / lo mio
segnore»); una reazione che, in ultima analisi, dovrebbe essere
riferita al proprio Dante, mancante non di amore, dato che dentro il
suo cuore «siede Amore, / lo quale è in signoria de la mia vita», ma
sì di amore verso le tre donne; in altre parole, il poeta sarebbe stato
privo di «carità o retto amore». Infatti, la motivazione che muove le
tre malridotte donne a ricorrere ad Amore si trova nel Monarchia:
Inoltre, come la cupidigia, per poca che sia, oscura la disposizione
naturale alla giustizia, così la carità o retto amore la acuisce e
illumina […] Ma che il retto amore operi come si è detto, si può
dimostrare in questo modo: la cupidigia infatti, disprezzando l’essenza
stessa dell’uomo, mira all’inessenziale; ma l’amore, disprezzando
l’inessenziale, mira a Dio e all’uomo, e di conseguenza a ciò che è
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bene per l’uomo. E poiché vivere in pace è il bene supremo fra tutti i
beni dell’uomo –come si è detto più sopra- e la giustizia opera
soprattutto e in primo luogo il bene supremo, sarà l’amore a fornire di
maggior vigore la giustizia, e tanto maggiore sarà il vigore quanto più
grande è l’amore (I, XI)3.
Anche nel Roman de la Rose, Ragione fa un lungo discorso
su Amore e Giustizia (5483-5695), concludendo che «Ces .ij. ou
qu’eles habitent, / Sont necessaires et profitent / […] Mais plus tient
grant necessité / Amours qui vient de charité, / Que Justice ne fais
d’assez» (5493-5501). Che il tutto coinvolga l’anima del poeta e la
sua pace, mi sembra sicuro, anche se nella canzone ci sono costanti
riferimenti all’esterno, vale a dire, agli altri uomini. In sintesi, nel
poema si svolge un movimento che va dall’interno verso l’esterno,
implicando entrambi gli spazi in una relazione mutua, come dà ad
intendere il poeta passando, analogicamente, dall’esilio di così alti
dispersi (interiorità), al suo, di carattere politico (esteriorità),
considerato da lui un onore, perché «cader co’ buoni è pur di lode
degno» (v. 80). Credo che sia importante rilevare che i sentimenti
rappresentati dalle tre donne, mancanti fino a quel momento nel
cuore del poeta, devono essere per forza quelli che lo muovono a
comporre la sua canzone.
Ma prima di avanzare le mie conclusioni, sarà utile
affrontare quelli che mi sembrano i problemi fondamentali della
canzone: 1) l’identità ed il significato delle tre donne; 2) l’identità ed
il significato del luogo in cui sono state generate; 3) il significato dei
due dardi d’Amore; 4) il referente del «bel segno»; 5) il significato
dei due congedi.
I. L’IDENTITÀ ED IL SIGNIFICATO DELLE TRE DONNE
Il fatto che Drittura si presenti come suora della madre
d’Amore, cioè di Venere, in quanto che entrambe sono figlie di
Giove, evidenzia una struttura concettuale dipendente da un’analoga
struttura mitologica che implica necessariamente anche le altre due
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donne, germane di Drittura. In altre parole, la loro identità ed il loro
significato dovranno necessariamente essere risolti in chiave
mitologica, e non soltanto concettuale, come fa Pietro di Dante
individuando nelle tre donne lo jus divinum et naturale (la Giustizia
in universale), lo Jus gentium sive jus humanum (la Giustizia
distributiva) e la lex (la Legge positiva). Mi sembra evidente, invece,
che le tre donne abbiano un’identità mitologica, e che il fatto che
siano tre sorelle scarta che Drittura possa essere Astrea, anche se
Dante la considera rappresentazione della Giustizia nel Monarchia4.
Si ricordi al riguardo che la romana Iustitia era equivalente alla greca
Astrea, ma anche a Diche, entrambe figlie di Zeus e Temi5, cioè del
‘potere’ e della ‘giustizia’ divini. Considerato che Dante qualifica le
donne di germane, credo che si possa concludere che il poeta avesse
in mente non Astrea, ma Diche, una delle tre sorelle Ore, anche
perché la parola greca dike significa ‘giustizia’, cioè ‘drittura’6.
Evidentemente il poeta traduce il nome greco del personaggio,
omettendo però i nomi delle altre due germane, che dovrebbero
corrispondere anche ai significati dei nomi delle altre due Ore:
Eunomia, ‘buon governo’, e Irene, ‘pace’. Va ricordato, inoltre, che,
come osserva P. Grimal, le Ore hanno un doppio aspetto, uno
naturale ed un altro sociale: in quanto divinità della Natura,
presiedono al ciclo della vegetazione; in quanto divinità dell’ordine,
assicurano il mantenimento della società.
Ma vorrei subito rilevare che il termine germane (v. 58)
adoperato dal poeta, in concorrenza con suora (v. 34), non è da
trascurare, visto che si tratta di un hapax dantesco. Infatti, l’uso dei
due sostantivi comportava delle sfumature importanti, come spiega
Isidoro:
Germana significa lo stesso che germanus: è quella che procede dalla
stessa madre. Soror, invece significa lo stesso che frater. Si dice soror
perché procede dallo stesso seme e perché, insieme ai fratelli, è l’unica
ad essere considerata nell’agnazione (Etym. IX, 6, 11-12)7.
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Le stesse differenze di significato vengono applicate a frater
e germanus:
Il nome di frates è dovuto a che procedono dello stesso frutto; vale a
dire, che sono nati da uno stesso seme. La parola germani si applica a
quelli che provengono da una stessa madre; e no, come affermano
molti, dallo stesso seme germinante, perché in questo caso si
chiamano semplicemente fratres. Quindi, i fratres procedono dello
stesso frutto; i germani provengono della stessa madre (Etym. IX, 6, 56)8.
Drittura, è suora della madre d’Amore (Venere) perché
entrambe sono figlie dello stesso padre (Giove), ma di diversa madre
(Diche è figlia di Temi; Venere, invece, di Dione). I termini suora e
germane, quindi, servono ad indicare rispettivamente il padre
(Giove) e la madre (Temi) delle tre sorelle, rivelando così la loro
origine divina e facilitando al lettore l’identificazione.
L’evidente contraddizione risultante dalla doppia natura delle
tre donne, germane fra loro e, contemporaneamente, genitrici le une
delle altre, si giustifica considerando le diverse sfumature teoriche
che i trattatisti stabilivano sulle relazioni tra la giustizia, l’ordine e la
pace. Infatti, per Tommaso, la giustizia è la causa ‘indiretta’ della
pace (S. Theol. II-II Q. 29, a. 3, ad. 3); per Agostino, «la pace è la
tranquillità dell’ordine» (Civ. Dei XIX), vale a dire, deriva
dall’ordine; mentre per il teologo medievale francese Jean Gerson,
«Justicia es hermana de Paz, es su guarda y su nodriza» (cit. in
Gauvard 2003: 432). D’altronde, anche per Dante la pace deriva
dalla giustizia:
Ma tu, foco d’amor, lume del cielo,
questa vertù che nuda e fredda giace,
levala su vestita del tuo velo,
ché sanza lei non è in terra pace (Rime CV 11-14)
Il significato che ho attribuito alle tre donne trova conferma
anche in alcuni dei loro atteggiamenti: Drittura è comparata,
metaforicamente, con una «rosa», simbolo di verginità, ma con una
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rosa «chinata», cioè, ‘non dritta’; Eunomia, si asciuga le lacrime con
«la treccia», probabilmente simbolo dell’ordine (capigliatura
acconciata, ordinata); Irene, frutto della contemplazione di Eunomia
(v. 53), rappresenta la pace in quanto contemplazione dell’ordine,
concetto che rimanda a Tommaso (De regimine principum, XXIV).
II. IL PARADISO TERRESTRE E LA PROCESSIONE DELLE TRE DONNE
L’identità del luogo descritto nei versi 45-54 non offre alcun
dubbio: si tratta del paradiso terrestre. Non solo per il fatto della
nascita del Nilo, un dato che il poeta poteva aver appreso da Isidoro
(Etym. XIII, 21, 7) o da Servio (Ad Aen. 9, 31), ma anche per la
perifrasi dei versi 47-48:
Poi cominciò: «Sì come saper dei,
di fonte nasce il Nilo picciol fiume
quivi dove ‘l gran lume
toglie a la terra del vinco la fronda
Del passo, com’è saputo, ci sono fondamentalmente due
interpretazioni opposte. Una risalente a Fraticelli, Casari, CasiniPietrobono, che intende: ‘là dove le foglie dei salci tolgono alla terra
il gran lume del sole’; cioè, ‘la fronda impedisce alla luce solare di
giungere fino al suolo’. Un’altra lettura è quella di Contini che
invece legge: ‘là dove il gran lume toglie a la terra la fronda’, o
perché le foglie sono distrutte dal calore del sole, o più
probabilmente perché la loro ombra è quasi annullata dalla
perpendicolarità dei raggi del sole (vid. E. D. vox fronda). Nella mia
opinione le due letture sono pertinenti, in quanto che ritengo che si
tratti di un caso di ambiguitas, rimandante alle due ipotesi esistenti
sull’ubicazione e il clima, temperato o no, del paradiso terrestre,
esposte da Tommaso d’Aquino, il quale, riguardo alla questione
sull’abitabilità o meno del paradiso, negata nell’obiezione in questi
termini:
L’uomo, per la sua complessione temperata, ha bisogno di un luogo
temperato. Ma il Paradiso non era un luogo temperato, dato che è
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patrimonio comune che si trovava sotto il circolo dell’equinozio, luogo
molto caldo per il fatto che il sole, due volte l’anno, passa
perpendicolare sopra quella regione. Quindi, il Paradiso non è un
luogo atto per la vita umana.
risponde:
Coloro che sostengono che il Paradiso si trova sotto il circolo
dell’equinozio, pensano che sia un luogo molto temperato per la
costante uguaglianza dei giorni e delle notti. In più, perché il sole non
si allontana troppo da lì da permettere arrivare il freddo, e nemmeno fa
un eccessivo caldo, come dicono, giacché, anche se il sole passa
perpendicolare a loro, tuttavia non dura molto. Ma Aristotele, nel libro
Meteorologia dice espressamente che quella regione non è abitabile a
causa del caldo. Questo sembra probabile, perché quelle terre sulle
quali mai passa il sole perpendicolarmente, sono eccessivamente
calde per la sola prossimità del sole. In ogni modo, è vero che il
Paradiso dovette essere locato in un luogo molto temperato, sia
nell’equinozio, sia in qualunque altra parte (S. Theol. I, Q. 102, a.
2).
Sono dell’opinione che Dante, mediante l’ambiguitas, stia
indicando un prima e un dopo il peccato originale; nel senso che la
condizione climatica del paradiso risponderebbe alla condizione
morale dell’uomo prima della caduta (temperanza) e dopo di quella
(intemperanza). In altre parole, il sole rimanderebbe simbolicamente
alla divinità, e la perpendicolarità dei suoi raggi molto probabilmente
starebbe a significare il castigo divino, consistente tra l’altro nella
perdita della sua condizione temperata originale (vid. S. Theol. I, Q.
95, a. 1).
Riguardo al processo generativo descritto dal poeta, esso ha
la funzione di indicare la consustanzialità delle tre donne: una stessa
sostanza e tre persone diverse. Sono germane in quanto che tutte e
tre sono figlie di Temi, nella stessa misura che nella Trinità il Figlio
e lo Spirito Santo potrebbero essere considerati ‘fratelli’ perché
entrambi procedono dallo stesso Padre; e allo stesso tempo, il Figlio,
‘padre’ dello Spirito Santo, in quanto che, insieme al Padre, genera lo
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Spirito Santo. L’analogia con la processione trinitaria serve a
evidenziare che la Giustizia, il Buon Governo e la Pace, anche se
sono tre cose diverse, tuttavia possiedono una stessa sostanza.
D’altra parte, se la Giustizia genera il Buon Governo e questo la
Pace, vuol dire che la Pace non può esistere senza il Buon Governo,
né il Buon Governo senza la Giustizia e la Pace; cioè anche se sono
tre cose diverse, tuttavia possiedono una stessa sostanza.
Evidentemente, come detto all’inizio, l’identità delle tre
donne, il loro significato, ma soprattutto il fatto che siano venute ora
intorno al cuore del poeta, per riunirsi con Amore (vid. v. 33: «nostra
natura qui a te ci manda»), implica che fino a quel momento c’è stata
una separazione tra l’amore che ‘signoreggiava’ la vita di Dante (vid.
v. 4: «lo quale è in signoria de la mia vita») e Drittura; vale a dire
che l’amore che fino a quel momento dominava il poeta non era stato
‘retto’ o ‘diritto’, il che, ripeto, giustifica che il dio adesso si
vergogni davanti alle tre donne. Ma, in Dante, l’amore ‘non retto’ si
identifica con la cupidigia (cfr. Pd. XV 1-3: «Benigna volontade in
che si liqua / sempre l’amor che drittamente spira, / come cupidità fa
ne la iniqua»), mentre quello retto, opposto alla cupidigia, lo fa con
la carità, che è la specie d’amore che ‘acuisce e illumina’ la giustizia,
secondo il passo del Monarchia già citato (I xi XV). Il poeta,
dunque, starebbe incolpandosi di non aver avuto in cuore la giustizia,
cioè, colei che genera il buon governo e, conseguentemente, la pace.
In altre parole, starebbe riconoscendo di essere stato ingiusto e di non
avere ben governato cercando la pace.
III. I DUE DARDI D’AMORE
La quarta stanza, dedicata per intero al tema delle due frecce
d’Amore, oltre al problema dell’allegoria, presenta anche delle
difficoltà nella sua lettura letterale, specialmente perché Amore,
dopo aver presso «l’uno e l’altro dardo» (v. 59) e averli mostrati alle
donne («Drizzate i colli: / ecco l’armi ch’io volli»), alla fine parla
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soltanto di uno dei due, dimenticandosi clamorosamente dell’altro
(«e pur tornerà gente / che questo dardo farà star lucente»).
Come si sa, le due frecce del dio rimandano alle Metamorfosi
di Ovidio:
Così disse, e svelto svelto solcò l’aria sbattendo le ali, si fermò sulla
cima ombrosa del Parnaso, e dalla faretra estrasse due frecce di
opposto potere: l’una scaccia, l’altra suscita l’amore. Quella che lo
suscita è dorata e ha la punta aguzza e splendente; quella che lo
scaccia è spuntata e dentro l’asta ha del piombo (I, 466-471)9.
Il passo appartiene all’episodio di Dafne, nel quale questa è
colpita dalla freccia di piombo del dio, mentre Apollo da quella
d’oro:
Con questa il dio trafisse la figlia di Peneo, mentre con l’altra colpì
Apollo trapassandogli le ossa fino al midollo. Subito lui s’innamora,
lei invece non vuol neppure sentire la parola ‘amore’ (472-474)10.
Il significato delle due frecce perciò mi sembra chiaro: una
suscita l’amore; l’altra lo scaccia (cfr. Rime CXVI, 76-79: «O
montanina mia canzon, tu vai: / forse vedrai Fiorenza, la mia terra, /
che fuor di sé mi serra, / vota d’amore e nuda di pietate»). Il rimando
a Ovidio è evidente, anche perché s’intravede una certa analogia tra
l’innamorato Apollo che perseguita vanamente la scontrosa Dafne,
che è stata privata della capacità di amare, e l’esule Dante
«consumato sì l’ossa e la polpa» (v. 86) dal «foco» d’amore verso il
«bel segno», allo stesso modo che il personaggio di Ovidio è
trapassato dalla freccia d’Amore («traiecta per ossa medullas»).
Ma, oltre agli aspetti intertestuali, forse interessa anche
chiarire il significato filosofico attribuito al mito; particolarmente al
fatto che Amore adoperi le due frecce, quella dell’amore e,
paradossalmente, anche quella dell’odio. A questo proposito credo
che sia pertinente considerare ciò che risponde Tommaso alla
domanda «È l’amore a causare l’odio»: «Secondo Sant’Agostino nel
XIV De civitas Dei, tutte le affezioni sono causate dall’amore.
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Quindi, essendo l’odio un’affezione dell’anima, è anche causato
dall’amore» (I-II, q. 29 a. 2); ma sempre tenendo conto che con il
termine «amore» l’Aquinate intende, non la passione, ma l’appetito,
sia naturale, sensitivo o razionale, qui personificato dal dio Amore, i
cui dardi rappresentano appunto le passioni dell’odio e dell’amore:
Come ogni essere ha una naturale consonanza o attitudine verso ciò
che gli conviene e questo è amore naturale, così ha una naturale
avversione per tutto ciò che lo contraria e lo corrompe, e questo è odio
naturale. Similmente anche nell’appetito animale e in quello
intellettivo, l’amore è una consonanza dell’appetito per l’oggetto
conosciuto come cosa conveniente, e l’odio è una dissonanza
dell’appetito per l’oggetto appreso come cosa contraria e nociva. Ora,
come ogni cosa conveniente ha, in quanto tale, ragione di bene, così
ogni cosa contraria, in quanto tale, ha ragione di male. Perciò, come il
bene è oggetto dell’amore, così il male è oggetto dell’odio (S. Theol. III, q. 29, a. 1).
A questo punto, c’è da osservare che da un’ottica morale non
basta odiare il male, ma bisogna anche amare il bene; in altri termini,
il fuggire dal male (odio) non deve comportare il rinunciare al bene
dovuto (amore), come il poeta darà ad intendere nella Commedia
nell’episodio degl’ignavi (If. III, 34-36)11, la cui problematica non mi
sembra estranea al contenuto del discorso di Amore:
E poi che prese l’uno e l’altro dardo,
disse: «Drizzate i colli;
ecco l’armi ch’io volli;
per non usar, vedete, son turbate (vv. 60-62)
L’intorbidare dal non uso, infatti, può essere riferito soltanto
al dardo d’oro, e non a quello di piombo, poiché questo metallo, per
natura, è già «di colore grigio oscuro, ma all’aria si ricopre
rapidamente di uno strato nero di ossido molto sottile» (Battaglia
1961-2002: vox piombo); il che spiega, d’altronde, anche che, nel
verso 72, Amore parli di un solo dardo, quello d’oro, e non dei due
(«e pur tornerà gente / che questo dardo farà star lucente»), in
quanto che è impossibile fare che il piombo brilli, come osserva
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Landino: «El piombo non si può mantenere in alcuno splendore, ma
sempre produce ruggine che lo macchia, perché è di natura terrestre e
acquea e di natura di Saturno» (cit. in Battaglia 1961-2002: vox
ruggine). Che a Dante non potesse sfuggire questo fenomeno mi
sembra certo; ma il perché adoperi il plurale nel verso 62 mi sfugge;
a meno che non lo faccia costretto dalla rima (turbate-nate); o, forse
meglio, perché cercasse proprio mediante la subdola inesattezza, di
richiamare l’attenzione del lettore sul fatto che l’unica freccia a non
usarsi da molto tempo è quella d’oro, cioè, quella dell’amore; mentre
quella dell’odio continuava tuttora ad essere attiva. In tal caso, ci
sarebbe da riconsiderare il valore del pronome dimostrativo del verso
65 («Però, se questo è danno»)12, inteso fino adesso come ‘se ciò
accade, se ci è inflitto questo danno’ (Gorni 2001: 220), e non –come
penso- come una mostrazione deittica ad oculos (‘Questo dardo che
vi sto mostrando’), in contrapposizione all’altro «questo» del verso
72 («questo dardo»), che compierebbe un’identica funzione13.
Coerentemente con questa lettura, il «tocca» del verso 67 («piangano
gli occhi e dolgasi la bocca / de li uomini a cui tocca») avrebbe come
soggetto, non «danno», ma «questo [dardo]»: ‘a cui questo dardo
capita o tocca in sorte’ (si cfr. Pg. XXXI 18, anche se in questo caso
l’uso è transitivo: «Come balestro frange, quando scocca / da troppa
tesa la sua corda e l’arco, / e con men foga l’asta il segno tocca»). In
altre parole, Amore, starebbe mostrando i due dardi, parlando in
primo luogo di quello di piombo, dannoso; e dopo di quello d’oro. A
dolersi, quindi, sarebbero gli uomini feriti dal dardo di piombo,
perché privi d’amore; mentre, invece, «tornerà» altra gente che «farà
star lucente» l’altro dardo, quello che suscita l’amore. Si tenga
presente al riguardo che gli occhi e la bocca sono i «luoghi» dove si
manifestano le passioni dell’anima, tra le quali l’amore (Cv III viii 710), il che giustifica il verso 66: «piangano gli occhi e dolgasi la
bocca / de li uomini a cui tocca». Si osservi anche, come conferma
che il dardo ‘dannoso’ è il solo ad essere stato usato, che nel verso 68
il poeta adopera non un futuro, come nel caso di quello d’oro, ma un
passato prossimo: «che sono [gli uomini a cui questo dardo tocca] a’
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raggi di cotal ciel giunti». Il discorso d’Amore, dunque, nasconde un
piccolo tranello dialettico, dando ad intendere che non ha usato
nessuno dei due dardi, mentre invece ha adoperato soltanto quello di
piombo, cioè, quello che «è danno»; intorbidato, non dal non uso, ma
per natura. È ovvio che lo stato di miseria morale denunciato nei
versi 63-64 («Larghezza e Temperanza e l’altre nate / del nostro
sangue mendicando vanno») non può essere inteso come
conseguenza del non uso delle due frecce, ma soltanto di quella
d’oro. E qui c’è da domandarsi perché il poeta, tra le virtù morali,
nomini proprio Larghezza e Temperanza, e non l’altre14. Si ricordi, al
riguardo, che nel De Amore di Andreas Capellanus, la larghezza è la
prima regola dell’amore, e la castità la seconda: «I. Avaritiam sicut
nocivam pestem effugias et eius contrarium amplectaris; II.
Castitatem servare debes amanti» (cap. I, vi, E, pag. 156)15; «Amor
sempre consuevit ab avaritiae domiciliis esulare» (II, viii, pag.
362)16; d’altronde anche Le Roman de la Rose dedica alquanti versi
alla larghezza (1127-1190). Da parte sua, il poeta svilupperà in
profondità questo tema in Doglia mi reca ne lo core ardire.
La lettura conferma che Amore non è stato «diritto» fino a
quel momento, il che giustifica anche la sua vergogna di fronte a
Drittura nei versi 37-39 («Poi che si fu palese e conta, / doglia e
vergogna prese / lo mio segnore») ed il suo pentirsi della sua follia
anteriore dei versi 56-57 («e poi con gli occhi molli, / che prima
furon folli»), una vergogna e una follia che vanno riferite al suo
sguardo, certamente non casto, sotto le vesti di Drittura: «Come
Amor prima per la rotta gonna / la vide in parte che il tacere è bello, /
egli, pietoso e fello, / di lei e del dolor fece dimanda» (vv. 27-30)17.
Non credo, infatti, che «vergogna» e «folli» rimandino al fatto di non
avere riconosciuto subito le tre parenti, ma proprio al suo iniziale
comportamento, allo stesso tempo «pietoso» e «fello», cioè, ‘empio’;
un atteggiamento del quale poi si pente. Il pianto di Amore («con gli
occhi molli») segna il passo di un amore ‘cupido’, che «oscura la
disposizione naturale alla giustizia», ad un amore retto o ‘carità’, che
«la acuisce e illumina», come si dice nel passo del Monarchia già
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citato. Un cambiamento, però, che va riferito al proprio Dante, dato
che i personaggi mitici attanti nella canzone sono rappresentazioni di
sentimenti operanti all’interno del poeta, sicché il discorso d’Amore,
oltre ad avere una portata che investe l’intera umanità, diviene una
dissimulata autocritica personale.
IV. E IO, CHE ASCOLTO NEL PARLAR DIVINO
La quinta stanza si apre con una congiunzione, «e», («E
io…»), di chiaro valore consecutivo, che serve a mettere in risalto
che ciò che il poeta dirà di se stesso è conseguenza diretta di ciò che
ha appena sentito dire ad Amore. Il suo discorso, quindi, deve avere
necessariamente a che fare non solo con l’esilio, ma anche con il
significato dei due dardi, l’odio e l’amore, intesi, come già detto,
filosoficamente.
Il poeta si presenta come uno sconfitto («l’esilio che m’è
dato», «cader co’ buoni») da parte del male vittorioso («se giudizio o
forza di destino / vuol pur che il mondo versi / i bianchi fiori in
persi»), un male che è connotato pure politicamente18 dai colori
bianco e «perso» (nero): si tenga, anche, presente che nel secondo
congedo insisterà sul fatto di essere stato vinto, spiegando che era
stato costretto a fuggire dai «neri veltri» («che fuggir mi convenne»),
interpretati come i suoi nemici Neri. Ma, anche se vinto, considera il
suo esilio un «onore», perché esiliati e sconfitti lo sono anche Amore
e le tre donne («così alti dispersi»), e «cader co’ buoni è pur di lode
degno». In questo senso l’esilio, cioè, la sconfitta gli sarebbe «lieve»
(v. 84), se non fosse che tenendolo lontano dalla patria, gli impedisce
anche di vedere il «bel segno», amato fino al punto da consumargli le
ossa e la carne, mettendolo in fin di vita:
E se non che de gli occhi miei ‘l bel segno
per lontananza m’è tolto dal viso,
che m’àve in foco miso,
lieve mi conterei ciò che m’è grave.
Ma questo foco m’àve
già consumato sì l’ossa e la polpa
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che Morte al petto m’ha posto la chiave.
Onde, s’io ebbi colpa,
più lune ha volto il sol poi che fu spenta,
se colpa muore perché l’uom si penta. (vv. 81-90)
La sua situazione psichica quindi può essere qualificata come
conflittuale, piuttosto che di pace interiore, come ci si aspetterebbe
da quel che ha appena affermato. La lontananza da Firenze accresce
sempre di più il suo amore per la patria (cfr. Epistola 1, «qui velud a
patrie caritate nunquam destitimus»), facendolo infelice. La metafora
del «bel segno» sulla quale si è tanto discusso, non segnala, al meno
direttamente, né Firenze, né tanto meno una donna, ma è tolta anche
dall’ambito filosofico (cfr. Aristotele, Etica, I. 1,1; T. D’Aquino,
Comm. I. 1, lect. 2, 23), e Dante la riprende in questo passo del
Convivio a proposito della felicità:
Chè, sì come dice lo Filosofo nel primo de l’Etica e Tullio in
quello del Fine de’ Beni, male tragge al segno quelli che nol vede;
e così male può ire a questa dolcezza [‘l’umana felicitade’] chi
prima non l’avvisa. Onde, con ciò sia cosa che essa sia finale
nostro riposo, per lo quale noi vivemo e operiamo ciò che facemo,
utilissimo e necessario è questo segno vedere, per dirizzare a
quello l’arco de la nostra operazione (Cv. IV xxii 2-3).
L’esilio, dunque, anche se virtuoso, impedisce il poeta
«dirizzare…l’arco» della sua «operazione» al «bel segno», vale a
dire, alla felicità, «finale nostro riposo, per lo quale noi vivemo e
operiamo ciò che facemo». L’aggetivo «bello» adoperato da Dante si
addice alla felicità, descritta così da Aristotele:
La felicità è dunque il bene supremo e più bello e più piacevole, e
queste qualità non sono separate, come secondo l’epigramma di Delo:
«Bello al sommo grado è ciò che massimamente è giusto,
il bene più prezioso è l’avere salute,
ma supremamente piacevole è per natura il conseguire ciò che si ama».
169
LA BIBLIOTECA DE
GRUPO TENZONE
Infatti queste qualità appartengono tutte alle attività migliori, e
queste attività, o una sola di esse, quella più eccellente, noi diciamo
che è la felicità (Etica, I, 9, 1099a).
Il discorso, quindi, è impostato -e così deve essere inteso- in
termini eudemonistici: se la felicità è il bene supremo, fine della vita
umana, vuol dire che l’esilio, impedendo al poeta di raggiungere
questo bene supremo (cioè, la sua operazione)19, diventa un male
degno d’odio, che perciò bisogna rifuggire20. Il ragionamento è
ripreso dai Paradossi degli Stoici di Cicerone, un’opera sicuramente
conosciuta da Dante (vid. Cv. IV xii 6):
Stando così le cose, come a una persona stolta, empia e infingarda
nulla può andare per il giusto verso, così nessun uomo onesto, saggio e
forte può essere infelice. Inoltre, non può non essere oggetto di lode la
vita di colui che compie azioni virtuose, né bisogna rifuggire da una
vita lodevole, mentre essa sarebbe da evitare, se fosse infelice. In
conclusione: tutto ciò che è degno di lode è giusto che sia anche
apportatore di felicità, mezzo di totale realizzazione delle potenzialità
umane e assolutamente desiderabile (19)21
Dante, quindi, si trova a scegliere tra un bene quale l’onore
dell’esilio -che è anche un male perché gli impedisce d’essere felice-,
e la felicità che sicuramente può raggiungere rientrando nella patria,
dalla quale è stato esiliato, sconfitto dai Neri, cioè, dai suoi nemici.
In Aristotele trovava scritto al riguardo:
Questa [la felicità] infatti noi scegliamo sempre per se stessa e non mai
a motivo di altro; invece l’onore, il piacere, l’intelligenza ed ogni virtù
li scegliamo sì anche per se stessi (infatti sceglieremmo ciascuno di
essi anche se non ci pervenisse alcun vantaggio), ma li scegliamo
anche in vista della felicità, supponendo che mediante essi saremo
felici. Invece nessuno sceglie la felicità in vista di questi beni, né, in
generale, a motivo di altro […] Pertanto la felicità è manifestamente
alcunché di perfetto e di autosufficiente, essendo il fine delle cose che
sono oggetto d’azione (Etica, 1, 5, 1097b).
In sintesi, si cerca l’onore in vista della felicità, e non la
felicità, che è il bene supremo, in vista dell’onore. Fin qui la scelta
170
Carlos López Cortezo
ANALISI DI TRE DONNE
dovrebbe essere chiara, se non fosse che a Firenze ci sono sempre gli
stessi Neri che lo hanno sconfitto, costringendolo a fuggire. Il
rientro, dunque, esigerebbe la superazione dell’odio22, causante del
suo esilio, e il perdono mutuo, vale a dire, l’amore al quale è
mancato. La felicità, infatti, implica necessariamente la concordia e
la pace con se stesso e con gli altri uomini (S. Theol. II-II, q. 129),
essendo la pace effetto dell’amore (ibid. II-II, Q. 29, a. 3, 4). La
colpa confessata negli ultimi versi, della quale si mostra già da tempo
pentito, è consistita nel lasciarsi trascinare dall’odio, e non
dall’amore: «Diligite inimicos vestros, benefacite his qui oderunt
vos» (Mt. 5, 44). Inoltre, non basta amare i nemici, ma bisogna anche
mandare loro dei segnali e delle dimostrazioni del nostro amore:
Il fatto di dare simili dimostrazioni del nostro amore al nemico,
riguarda alla perfezione della carità, poiché, non contentandosi di non
lasciarsi vincere dal male, vuole addirittura vincere il male con il bene
(Rom. 12, 21), e questo è già una perfezione. Infatti, non solo si
premunisce da giungere all’odio per l’ingiuria ricevuta, ma addirittura
si sforza coi benefici di attrarre all’amore il nemico (S. Theol. II-II, q.
25, a. 9).
Il brano di S. Paolo al quale allude Tommaso figura in un
passo dove si parla della carità:
Benedicite persequentibus vos: benedicite, et nolite maledicere […]
Nulli malum pro malo reddentes: providentes bona non tantum coram
Deo, sed etiam coram omnibus hominibus. Si fieri potest, quod ex
vobis est, cum omnibus hominibus pacem habentes. Non vosmetipsos
defendentes charissimi, sed date locum irae. Scriptum es enim: Mihi
vindicta: ego retribuam, dicit Dominus. Sed si esurierit inimicus tuus,
ciba illum: si sitit, potum da illi: hoc enim faciens, carbones ignis
congeres super caput eius. Noli vinci a malo, sed vince in bono malum
(Rom. 12, 14-21).
In altre parole, dal male non bisogna fuggire, come ha fatto
Dante; ma si vince con il bene, vale a dire, con la carità, intesa come
larghezza, “vertù, che i suoi nimici a pace invita” (Doglia mi reca, v.
107).
171
LA BIBLIOTECA DE
GRUPO TENZONE
Ed è questo che si propone di fare nel secondo congedo,
come si vedrà.
VI. IL PRIMO CONGEDO
Per questo primo congedo mi limiterò ad aggiungere qualche
considerazione alla lettura di Guglielmo Gorni, che riproduco in
seguito, specialmente in ciò che riguarda la sua funzione in un testo
di contenuto morale e politico, com’è questo, e la sua relazione con il
secondo congedo:
Il primo congedo, modellato sullo schema della sirima, ammette le
difficoltà della lettera e diffida la canzone dall’aprire i suoi sensi
riposti a chi non sia «amico di virtù» (v. 97). Ai lettori comuni bastino
«le parti nude» (v. 93) e se ne contentino. Come Amore, forse per suo
strazio, aveva contemplato Giustizia «in parte che il tacere è bello»,
ammesso dolorosamente all’intimità di lei, fatta donna pubblica, così
pochi potrebbero mirare o gustare «lo dolce pome» della canzone (v.
94), cioè l’equivalente della parte femminile svelata ad Amore. La
canzone non conceda facilmente le sue bellezze nascoste a lettori
curiosi ed avidi, si sottragga a mani troppo intraprendenti […] Col
«dolce pome», ritorna il tema del «fiore», della cui carnalità la
«succisa rosa» (v. 21) e il «nudo braccio» (v. 22) della seconda stanza
erano come un’anticipazione d’intensa visibilità. Il che equivale a dire
che la canzone stessa è come la Giustizia, della quale compiange in
rima la nudità sconsolata. Tre donne ha parti nude, non sottratte allo
sguardo, e parti intime celate alla vista, che la canzone potrebbe
mostrare solo a pochi, specie agli «amorosi cori», con nuovo e più
fresco aspetto (o forse non senza rossore, secondo che s’interpreta
«fatti di color’ novi») (2001: 222-223).
Anche se il commento di Gorni è abbastanza ricco da non
aver bisogno d’altre aggiunte, tuttavia, alla luce delle sue
considerazioni, ho avuto l’impressione che alle parole dantesche
soggiaccia un’intenzione di porre in rilievo la sua ‘autorità’ d’autore,
sul componimento; un’intenzione che si manifesta nelle successive
raccomandazioni del poeta alla canzone. È vero che tutti i congedi in
linea di massima sono espressione di quest’autorità, ma in questo
172
Carlos López Cortezo
ANALISI DI TRE DONNE
primo di Tre donne, forse più che in nessun altro, l’autore sembra
voler manifestare una volontà imperativa riguardo alla sua creatura,
non limitandosi ad inviarla a qualcuno, ma comandandole di agire
secondo delle regole morali analoghe a quelle che reggevano il
comportamento di una donna nobile e virtuosa secondo il De Amore:
«Sapiens igitur mulier talem sibi comparare perquirat amandum qui
morum sit probitate laudandus» (I,vi, pag.70)23 ; «Sicut igitur in
masculo diximus, ita credimus in muliere non formam tantum
quantum morum honestatem sectandam» (I, vi, pag. 72)24; «morum
probitas acquirit amorem in morum probitate fulgentem» (I, vi, pag.
72)25; «Sola ergo probitas amoris est digna corona» (Cap. I, vi, pag.
72)26. La canzone, infatti, deve negare «lo dolce pome… per cui
ciascun man piega»27 a «tutta gente», a meno che non si tratti di un
«amico di virtù»; in questo caso si deve fare «di color’ novi» (cfr. De
Amore, cap. I, vi, pag. 72: «Sed et si mulierem videris nimia colorum
varietate fucatam…»)28, e mostrarsi a lui («poi li ti mostra»: «Non
enim est verisimile mulierem tam prudentem amorem suum alicui
repente concedere vel alicuius probi viri labores apud se permittere
sine munere demorari. A bonae videtur rationis ordine deviare, si non
benefacta suis actoribus debita comoda ferant» (I, vi, pag. 88)29. I
«color’ novi», a livello metapoetico, ovviamente rimanderebbero al
«colore retorico»: «però che grande vergogna sarebbe a colui che
rimasse cose sotto vesta di figura o di colore rettorico, e poscia,
domandato, non sapesse denudare le sue parole da cotale vesta, in
guisa che avessero verace intendimento» (Vn. XXV).
Ma, riprendendo le considerazioni di Gorni, mi sembra che il
problema stia nel determinare quale sia il «dolce pome» che la
canzone dovrebbe mostrare soltanto a chi sia «amico di virtù», e non
ad altri (cfr. De Amore, cap. I, vi, C, pag. 108): «Spem namque gero
plenariam quod nunquam apud vos permanere posset meus [animus]
sine fructus dulcedine labor»)30. E al riguardo credo che sia proprio il
significato del secondo congedo, l’unica parte della canzone ad
offrire una forte resistenza all’interpretazione, e sulla quale gravita
l’intero componimento.
173
LA BIBLIOTECA DE
GRUPO TENZONE
VII. IL SECONDO CONGEDO
Prima di affrontare la lettera e l’allegoria del secondo
congedo, penso che sia utile rilevare che il suo contenuto non può
essere indifferente ai concetti rappresentati dalle tre donne venute
intorno al cuore del poeta. Il fatto che siano venute «come a casa
d’amico» perché «sanno ben che dentro» c’è Amore, implica
all’interno del poeta, un desiderio di ‘giustizia’, ‘buon governo’ e di
‘pace’, che prima gli era mancato e che dovrebbe essere il motore di
tutta la canzone, e naturalmente anche del secondo congedo: «ma far
mi poterian di pace dono»; una ‘pace’ che non può esistere senza
‘giustizia’ e ‘buon governo’, essendo il fine a cui sono stati ordinati:
Da quanto chiarito risulta dunque evidente attraverso quale via
migliore, anzi quale via ottima il genere umano perviene alla propria
attività; e di conseguenza si è visto il mezzo più prossimo per giungere
a quel bene in vista del quale sono ordinate tutte le nostre azioni, come
al loro fine supremo, che è la pace universale (Mn. I, V)31.
Premesso questo, devo dire che non mi sembra convincente
il parallelismo che la critica di solito stabilisce tra i versi 101 e 102;
vale a dire, la solita lettura: ‘Canzone, va a caccia con i Bianchi e con
i Neri’; o in altre parole, ‘Canzone, cerca di trarre a te il favore dei
Bianchi e dei Neri’. Quest’interpretazione, infatti, oltre che umiliante
per Dante, non si giustifica né grammaticalmente né semanticamente,
in quanto che attribuisce a «penne» il significato metonimico di
‘uccello’, un valore non documentato nei testi contemporanei a
Dante, e estraneo alla sua opera32, dovendosi concludere in
conseguenza che il parallelismo dei due versi è soltanto formale, e
che sia quindi da rifiutare il valore di compagnia attribuito alla
preposizione «con» del verso 101 («Canzone, uccella con le bianche
penne»), dal momento che s’intenderebbe soltanto nel caso che le
bianche penne valessero ‘bianchi uccelli’ (‘Canzone, vai a uccellare
con i bianchi uccelli’), e non, invece, se valgono ‘bianche ali’ o
‘bianche penne’, che sono i significati abituali che la parola ha in
Dante. Non resta, quindi, se non concludere che il valore della
174
Carlos López Cortezo
ANALISI DI TRE DONNE
preposizione è diverso da quello che ha nel verso 102 («Canzone,
caccia con li neri veltri»), essendo analogo a quello che ha in Pg. IX
19-21: «in sogno mi parea veder sospesa / un’aguglia nel ciel con
penne d’oro, con l’ali aperte e a calare intesa»33; cioè, un con con
valore modale, ma allo stesso tempo strumentale. In sintesi, ad avere
«le bianche penne» sarebbe la canzone, vista, implicitamente e
metaforicamente, come un uccello che il poeta manda ad uccellare
con le sue penne bianche, e a cacciare insieme ai neri veltri.
Il passo quindi propone una normale scena di caccia con
l’uccello da preda e con i cani, come «in un plazer o un affresco di
Buon Governo» (Gorni 2001: 238). Va ricordato a questo proposito
che quest’attività, che si svolgeva in tempo di pace (vid. De regimine
principum, VI), aveva assunto nel medioevo una pregnante carica
emblematica, attinente all’ordine sociale e alla sua salvaguardia
(Guerreau 2003: 143). Ogni elemento partecipante, infatti, svolgeva
un preciso, gerarchico e necessario ruolo. Gli uccelli adoperati
potevano essere falchi, astori oppure sparvieri34, animali che figurano
tutti e tre nella Commedia, e che hanno in comune l’avere la parte
superiore del corpo oscuro, ma il petto coperto di penne bianche, a
pennellate più oscure. Con le bianche penne, quindi, Dante sta
segnalando il petto dell’animale, e non altra parte del suo corpo; e lo
fa, tra l’altro, per dare ad intendere che si tratta di un falco, e non di
un astore o di uno sparviero, dato che il falco, a differenza degli altri
due rapaci, è solito a prendere la sua preda precipitandosi su di essa,
e urtandola, appunto, con il petto (cfr. Cecco D’Ascoli (1996):
«Erodio, qual è detto falcone, / più fier col petto che non fa col
becco»). Quindi, da una parte il poeta identifica perifrasticamente il
rapace: un falco; e dall’altra, la parte del suo corpo -il petto- che
dovrebbe adoperare per ottenere la desiderata preda, cioè, il fine
perseguito dal cacciatore.
Sul significato del falco non ci sono dubbi, dato che il poeta
lo identifica esplicitamente con la sua canzone, espressione verbale e
poetica della sua volontà. Sul fatto che deva uccellare con il petto,
175
LA BIBLIOTECA DE
GRUPO TENZONE
penso che Dante aveva in mente il testo di Cecco D’Ascoli già citato,
dove si spiegava anche il significato dell’allegoria:
Erodio, qual è detto falcone,
più fier col petto che non fa col becco.
[...]
L’uom ch’è prode figliuol di vertude
più fa col core che non fa con la bocca (vv. 1-14)
Il cuore segnala, dunque, la sincerità del suo messaggio
poetico d’amore (cfr. Epistola 1, «spontanea et sincera voluntate»)35.
Il bianco delle penne del falco e il nero dei veltri rimandano ai colori
di parte, ma assumono anche un significato morale. Dante trasferisce
alla sua canzone il suo ‘colore’ politico, come segno della sua
volontà di non rinunciare alla sua ideologia politica, ma di mostrarla
‘con il petto’, cioè, con fierezza (cfr. If. X 35: «ed el s’ergea col petto
e con la fronte»), come nei vv. 76-80: «l’essilio che m’è dato, onor
mi tegno […] cader co’ buoni è pur di lode degno». Infatti, la pace
-che sarebbe la preda da cacciare- non implica concordanza
d’opinioni, ma concordia «nelle cose che sono oggetto d’azione»
(vid. Aristotele, Etica, IX, 6; S. Theol. II-II, Q. 29, a. 3). Allo stesso
modo che il colore degli animali non è un fatto rilevante per cacciare,
nemmeno gli opposti colori di parte dovrebbero essere un
impedimento per raggiungere la pace, ossia la preda ricercata da tutti
i partecipanti all’operazione venatoria. Sui tratti morali che
distinguevano il falco da altri uccelli simili tratta il De Amore, dove
l’animale assume il simbolo di ‘nobiltà’ e ‘virtù’:
Nam falcones, astures et accipitres sola facit audacia caros. Videmus
enim quandoque falcones de genere levium magnos fasianos et
perdices sua detinere virtute; nam a cane non magno saepe tenetur
aper. Et econtra multos aspicimus nobiles et marinos falcones
vilissimos pertimescere passeres et a lacertiva saepe ave fugari. Si ergo
milvus et lacertiva avis arditus reperitur et audax et a suis degenerare
parentibus, asturnina et falconina est dignus pertica honorari et militari
laeva deferri. Si me igitur noveris a meis degenerare parentibus, non
contumeliosa milvi appellatione vocandus reperior, sed honorabili
176
Carlos López Cortezo
ANALISI DI TRE DONNE
falconis vocabulo nuncupandus exsisto. [...] Praeterea, licet falco a
lacertiva ave quandoque fugetur, nihilominus falco inter falcones et
lacertiva avis inter lacertivas computabitur aves; ille tamen vilis falco,
ista vero optima lacertiva vocabitur avis. Sic et tua te probitas non in
nobilium facit ordine stare, sed bonum te suadet vocari plebeium et
bonae dignum amore plebeiae. Apparet igitur et est manifestum: et si
nullius sim amoris vinculo colligata, tu tamen quasi alienigena
indignus meo reperiris amore (I, vi, B, pag. 100 e 104)36.
La canzone, dunque, diventa un messaggio, nobile e
virtuoso, di concordia e di pace verso i suoi nemici; la stessa pace e
concordia che desidera per Firenze nell’Epistola 1: «Idcirco pietati
clementissime vestre filiali voce affectuosissime supplicamus
quatenus illam diu exagitatam Florentiam sopore tranquillitatis et
pacis irrigare velitis».
Oltre al significato politico del ‘bianco’ e del ‘nero’, non si
può ovviare nemmeno la loro connotazione morale, evidente in altri
passi dell’opera dantesca37. Il bianco, come si sa, è simbolicamente
associato al bene, mentre il nero al male. Se Dante nel passato si era
lasciato vincere dal male («li neri veltri»), fuggendo, adesso manda il
suo falco a cacciare insieme a loro, «con le bianche penne», vale a
dire, con il bene. In altre parole, il bene viene strumentalizzato, come
nella formula paolina già citata («Non lasciarti vincere dal male, ma
vinci il male con il bene»), alla quale Tommaso si rifà -non si
dimentichi- a proposito dell’amore verso i nemici, il che spiega gli
ultimi versi della canzone, riferiti non solo ai veltri che gli
dovrebbero donare la pace (cfr. Doglia mi reca, v. 107: «vertù, che i
suoi nimici a pace invita»), ma anche a quello che lui stesso ha già
fatto:
camera di perdon savio uom non serra,
ché ‘l perdonare è bel vincer di guerra. (vv. 106-107)
177
LA BIBLIOTECA DE
GRUPO TENZONE
NOTE:
1
Desidero premettere che in questa versione finale del mio contributo ho tenuto
presenti molte delle osservazioni fattemi dai colleghi e amici convegnisti;
specialmente per ciò che riguarda l’analisi del secondo congedo, che ho dovuto
rifare in gran parte. Colgo l’occasione per ringraziarli delle loro sempre sagge
critiche.
2
Si confronti Pg. VI 130-132: «Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca / per non
venir sanza consiglio a l’arco; / ma il popol tuo l’ha in sommo de la bocca».
3
«Preterea, quemadmodum cupiditas habitualem iustitiam quodammodo,
quantumcunque pauca, obnubilat, sic karitas seu recta dilectio illam acuit atque
dilucidat. Cui ergo maxime recta dilectio inesse potest, potissimum locum in illo
potest habere iustitia […] Quod autem recta dilectio faciat quod dictum est, hinc
haberi potest: cupiditas nanque, perseitate hominum spreta, querit alia; karitas vero,
spretis aliis omnibus, querit Deum et hominem, et per consequens bonum hominis.
Cumque inter alia bona hominis potissimum sit in pace vivere –ut supra dicebatur- et
hoc operetur maxime atque potissime iustitia, karitas maxime iustitiam vigorabit et
potior potius».
4
«Preterea, mundus optime dispositus est cum iustitia in eo potissima est. Unde
Virgilius commendare volens illud seculum quod suo tempore surgere videbatur, in
suis Buccolicis cantabat:
Iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna.
‘Virgo’ nanque vocabatur iustitia, quam etiam ‘Astream’ vocabant; ‘Saturnia regna’
dicebant optima tempora, que etiam ‘aurea’ nuncupabant» (I xi 1-2) [«Inoltre, il
mondo è disposto in uno stato di perfezione quando in lui la giustizia è suprema.
Perciò Virgilio volendo celebrare il secolo che pareva sorgere ai suoi tempi, cantava
nelle sue Bucoliche:
Già ritorna la Vergine, tornano i regni di Saturno.
‘Vergine’ era infatti il nome della Giustizia, detta anche ‘Astrea’; ‘regni di Saturno’
erano chiamati quei tempi felici, conosciuti anche come ‘età dell’oro’»].
5
«Giustizia (Iustitia), personificazione, a Roma, della Giustizia. Non è tuttavia
equivalente alla Temi greca, ma di Diche, e anche di Astrea, che ha una parte nella
leggenda dell’Età dell’Oro. Allorché i misfatti dell’umanità misero in fuga Iustitia e
la costrinsero a lasciare la terra, in cui viveva in familiarità con i Mortali, si rifugiò
in cielo e diventò la costellazione della Vergine» (Grimal 1990: vox Giustizia).
178
Carlos López Cortezo
ANALISI DI TRE DONNE
6
Ringrazio Natascia Tonelli dell’informazione datami a proposito
dell’identificazione carducciana, coincidente in parte con quella mia: «basta
ricordare Dione figlia dell’Oceano e di Tetide, della quale e di Giove nacque
Venere; e Diche una delle Ore, figlia di Giove e di Temi, dea delle leggi e dei
tribunali; che è Astrea nella mitologia italica, Giustizia nella lingua comune, e nella
lingua italiana antica Dirittura» (Carducci 1942: 223).
7
«Germana ita intelligitur ut germanus, eadem genitrice manans. Soror autem, ut
fratrer. Nam soror est ex eodem semine dicta, quod sola cum fratribus in sorte
agnationis habeatur. Fratres patrueles dicti, eo quod patres eorum germani fratres
inter se fuerunt ».
8
«Fratres dicti, eo quod sint ex eodem fructu, id est ex eodem semine nati. Germani
vero de eadem genetrice manantes; non, ut multi dicunt, de eodem germine, qui
tantum fratres vocantur. Ergo fratres ex eodem fructu, germani ex eadem genitrice
manantes».
9
«Dixit, et eliso percussis aëre tennis / inpiger umbrosa Parnasi constitit arce / eque
sagittifera prompsit duo tela pharetra / diversorum operum: fugat hoc, facit illud
amorem; / quod facit, auratum est et cuspide fulget acuta, / quod fugat, obtusum est
et habet sub harundine plumbum».
10
«Hoc deus in nympha Penëide fixit, at illo / laesit Apollineas traiecta per ossa
medullas. / Protinus alter amat, fugit altera nomen amantis».
11
Si pensi a «colui / che fece per viltade il gran rifiuto» (If. III, 59-60), cioè, a
Celestino V, il quale, per fuggire da un male, rinunciò al papato.
12
Credo che qui «danno» abbia un significato simile a quello che ha in Pd. XXII 75
(«e la regola mia / rimasa è per danno de le carte»), cioè, ‘guasto, logoramento,
sciupio’, di oggetti, di meccanismi (vd. Battaglia 1961-2002: vox danno); soltanto
che qui sta ad indicare il suo ossido naturale, in opposizione all’altro dardo che,
anche se ora è «turbato», potrà brillare di nuovo.
13
«Per l’iterazione retorica di questo, cfr. Pd. IV 133 Questo m’invita, questo
m’assicura; XVII 49 Questo si vuole e questo già si cerca» (E. D.: vox questo).
14
Vid. T. d’Aquino, Comm. all’Etica, IV, 1: «L’Autore inizia dunque rilevando che
dopo la temperanza occorre parlare della liberalità per l’affinità che esiste tra le due
virtù: infatti, come la temperanza modera le brame dei piaceri del tatto, così la
liberalità modera la brama di procurarsi o di possedere le cose esterne all’uomo».
15
«I. Evita la avarizia como a una peste maligna y abraza su contrario; II. Debes
conservarte casto para tu amada».
179
LA BIBLIOTECA DE
16
GRUPO TENZONE
«El amor siempre acostumbra a huir de la casa de la avaricia».
17
Prendo l’idea di questa lettura da Raffaele Pinto, il quale la espose nei dibattiti del
convegno.
18
Sono stati i fiorentini Neri ad esiliarlo ; e si tenga presente che nel De Vulgari
eloquentia, i fiorentini sono detti appunto «fiori» in un esempio, in latino, attinente
anche al tema dell’esilio: «Eiecta maxima parte florum de sinu tuo, Florentia,
nequicquam Trinacriam Totila secundus adivit» [Cacciata via la maggior parte dei
fiori dal tuo seno, o Firenze, invano il secondo Totila poi si recò in Trinacria] (II, 6).
19
L’esilio implica l’essere fuori della patria, mentre l’uomo «per la natura seconda,
del corpo misto, ama lo luogo de la sua generazione, e ancora lo tempo; e però
ciascuno naturalmente è di più virtuoso corpo ne lo luogo dove è generato e nel
tempo de la sua generazione che in altro» (Cv. III iii 5). Ma anche in Cicerone
trovava scritto che «La patria è un bene. L’esilio è un male» (De Finibus, V, 84);
pure in Boezio: «tra i sapienti, ad esempio, nessuno preferirebbe essere esule,
bisognoso, screditato, piuttosto che trascorrere una prospera esistenza, restandosene
in patria, ben provvisto di mezzi, rispettato e onorato, capace di imporsi per la sua
potenza» (La consolazione della Filosofia, IV, 5).
20
«ogni animale, sì come elli è nato, razionale come bruto, se medesimo ama, e
teme e fugge quelle cose che a lui sono contrarie, e quelle odia» (Cv. IV xxii 5).
21
«Quam ob rem, ut inprobo et stulto et inerti nemini bene esse potest, sic bonus vir
et sapiens et fortis miser esse nemo potest. Nec vero quoius virtus moresque
laudandi sunt, eius non laudanda vita est, neque porro fugienda vita est quae
laudandast: esset autem fugienda, si esset misera. Quam ob rem, quicquid est
laudabile, idem et beatum et florens et expetendum videri decet».
22
«È per questo che presso i sapienti non c’è assolutamente posto per l’odio. Chi
infatti potrebbe odiare i buoni, tranne che una persona stolta quant’altri mai? D’altra
parte, odiare i cattivi è un atteggiamento privo di ragione. Infatti, come la debolezza
per il corpo, così la disposizione al vizio costituisce, in certo qual modo, una
malattia per lo spirito: perciò, se è vero che i malati nel corpo li giudichiamo niente
affatto meritevoli di odio, ma piuttosto di compassione, a maggior ragione non si
devono trattare ostilmente, ma semmai compassionare, coloro le cui menti sono
tormentate dalla malvagità, malattia ben più grave di qualsiasi esaurimento fisico
(Boezio, La consolazione della Filosofia, IV, 4).
23
«Por consiguiente, una mujer prudente trata de hallar, para ser amada, un hombre
tal que se le pueda alabar por su integridad moral».
180
Carlos López Cortezo
ANALISI DI TRE DONNE
24
«Tal como dijimos del hombre, creemos que en la mujer no hay que buscar tanto
su bellezza como la rectitud de sus costumbres».
25
«La integridad moral atrae un amor que brille también por la integridad moral».
26
«Así, pues, sólo la integridad es digna de la corona del amor».
27
Si confronti con: «Sì ch’i’ verso il fior tesi la mano» (Fiore, VI 6); «Ma non ched
egli al fior sua mano ispanda» (ibid. XV 7); «Ma’ che lungi dal fior le tue man
tenghi» (ibid. XVI 11).
28
«Pero si vieras a una mujer maquillada con excesiva variedad de pinturas…».
29
«Pues no es verosímil que una mujer tan prudente otorgue de repente su amor a
cualquiera o que permita que queden sin recompensa los esfuerzos que por ella hizo
un varón virtuoso. Parece salirse del orden lógico que las buenas acciones no rindan
a sus autores los frutos deseados».
30
«Pues tengo plenas esperanzas de que mi trabajo jamás podría perseverar junto a
vos sin obtener un dulce fruto».
31
«Ex hiis ergo que declarata sunt patet per quod melius, ymo per quod optime
genus humanum pertingit ad opus proprium; et per consequens visum est
propinquissimum medium per quod itur in illud ad quod, velut in ultimum finem,
omnia nostra opera ordinantur, quia est pax universalis».
32
Il Grande Dizionario della Lingua Italiana (Battaglia 1961-2002) non riproduce
nessun testo medievale in cui la parola abbia questo significato. L’esempio più
antico appartiene al secolo XVIII.
33
Vedi E. D.: vox con.
34
«L’astore è un uccello di preda, che l’uomo tiene per diletto d’uccellare, sì come
l’uomo tiene sparviere e falconi» (B. Latini volg., 5-9. Cit. in Battaglia 1961-2002:
vox astore). Vedi anche le voci corrispondenti dell’E. D.
35
«Non diligamus verbo neque lingua, sed opere et veritate» (1 Ioannis 3, 18);
«Molti han giustizia in cuore, […] ma il popol tuo l’ha in sommo de la bocca» (Pg.
VI, 130-132).
36
«Pues sólo su valor hace de los halcones, los azores y los gavilanes aves
preciadas. En efecto, a veces vemos halcones de pequeño tamaño cazar grandes
faisanes y perdices, gracias a su fuerza, y a menudo un jabalí es capturado por un
perro pequeño. Y, por el contrario, observamos a muchos halcones marinos y de
buena raza temer a miserables pájaros y ser ahuyentados a menudo por un cernícalo.
Así, pues, si un milano o un cernícalo se muestra fogoso y valiente, desviándose del
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GRUPO TENZONE
carácter racial, es digno de ser honrado como un vástago de azor o de halcón y de
ser llevado sobre la mano izquierda de un montero. Por lo tanto, si comprobaras que
me he desviado de mis parientes, creo que no he de ser nombrado con el infamante
título de «milano», sino que debo ser designado con el honroso título de «halcón»
[…] Además, aunque de vez en cuando el halcón huya del cernícalo, no por ello deja
de ser incluido en el género de los halcones y el cernícalo en el de los cernícalos, sin
menoscabo de que aquél sea llamado vil halcón y éste el mejor cernícalo».
37
Cfr. Pd. XXII 93: «tu vederai del bianco fatto bruno». Ma per loro simbolismo
vedi voci corrispondenti in E. D.; importante la monografia sui valori simbolici dei
colori di Portal (2003: 31-43, 91-97).
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