Grazie a una tecnica chiamata optogenetica, i ricercatori
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Grazie a una tecnica chiamata optogenetica, i ricercatori
Karl Deisseroth è membro delle Facoltà di bioingegneria e psichiatria della Stanford University. Nel 2010 ha ricevuto il premio Nakasone per i suoi contributi allo sviluppo delle opsine microbiche e dell’optogenetica. neuroscienze Lampi di luce sul cervello Grazie a una tecnica chiamata optogenetica, i ricercatori stanno studiando il sistema nervoso con un dettaglio senza precedenti. Le loro scoperte potrebbero portare a terapie psichiatriche migliori di Karl Deisseroth C ome psichiatra, mi confronto ogni giorno con i limiti della mia disciplina. Malgrado i lodevoli sforzi di clinici e ricercatori, la nostra limitata comprensione delle radici della malattia psichiatrica ostacola la ricerca di cure, e contribuisce allo stigma che pesa su questo enorme problema, la causa principale al mondo di anni di vita perduti, per morte o per invalidità. È chiaro che la psichiatria ha bisogno di nuove risposte. Ma – come potrebbe sottolineare il filosofo della scienza Karl Popper – prima di trovare le risposte bisogna essere in grado di fare nuove domande. In altre parole, ci serve una nuova tecnologia. Però sviluppare tecniche adeguate è complicato, perché la complessità del cervello dei mammiferi non ha confronti. È un sistema intricato in cui decine di miliardi di neuroni interconnessi – con infinite morfologie e schemi circuitali specifici –si scambiano segnali elettrici con una precisa scansione temporale nell’ordine dei millisecondi, oltre ai più diversi messaggeri biochimici. Questa complessità impedisce ai neuroscienziati di cogliere fino in fondo ciò che il cervello sta effettivamente facendo, vale a dire come schemi specifici di attività in cellule cerebrali altrettanto specifiche danno origine ai pensieri, ai ricordi, alle sensazioni, alle passioni. Di conseguenza non sappiamo nemmeno in che modo guasti fisici nel cervello producano disturbi psichiatrici distinti, come la depressione o la schizofrenia. Il paradigma dominante nelle malattie psichiatriche – che le interpreta alla luce di squilibri chimici o di alterazioni del livello dei neurotrasmettitori – non rende giustizia ai circuiti neurali elettrici ultrarapidi del cervello. Perciò i trat- Darren Braun In breve I neuroscienziati si scontrano da tempo con l’incapacità di studiare il funzionamento del cervello in modo abbastanza dettagliato. Una soluzione è emersa, a sorpresa, dalla ricerca genetica su microrganismi www.lescienze.it che sopravvivono grazie a proteine sensibili alla luce, le «opsine». Inserendo i geni delle opsine nelle cellule del cervello, gli scienziati usano lampi di luce per innescare a comando l’attività di neuroni specifici. Questa tecnologia, detta optogenetica, permette di eseguire esperimenti molto precisi, studiando singoli tipi cellulari nel cervello di animali che si muovono liberamente, cosa impossibile con gli elettrodi e altri metodi tradizionali. Anche se è ancora agli inizi, l’optogenetica sta già dando interessanti nuove informazioni sulle basi neurobiologiche di alcune patologie mentali. Le Scienze 43 44 Le Scienze Microbiologia sul resto del sistema nervoso. Migliaia di scienziati stanno sfruttando l’optogenetica per capire come schemi di attività specifici in gruppi definiti di neuroni causano eventi fisiologici e comportamenti complessi nei vermi, nei moscerini, nei pesci, negli uccelli, nei topi e nelle scimmie. E questi studi hanno già fatto luce su problemi che affliggono l’uomo, come la depressione, i disturbi del sonno, il morbo di Parkinson e la schizofrenia. L’umile origine delle proteine sensibili alla luce Alcuni tipi di alghe e di altri microrganismi sopravvivono anche grazie a proteine, le opsine, che reagiscono alla luce visibile. Quando sono illuminate, queste proteine canale regolano il flusso di ioni carichi elettricamente attraverso le membrane, consentendo alle cellule di ricavare energia dall’am- Fare luce sulla vita La biologia ha una tradizione di uso della luce sui sistemi viventi. I ricercatori si servono da tempo di un metodo basato sulla luce, chiamato CALI, per distruggere, e dunque inibire, proteine in modo mirato. Inoltre sono stati usati i laser per distruggere cellule specifiche nel verme Caenorhabditis elegans. Viceversa, negli anni settanta Richard L. Fork dei Bell Laboratories, e nel 2002 Rafael Yuste della Columbia University, hanno riferito alcune modalità per stimolare i neuroni con il laser che demolivano in parte la membrana cellulare. Nel decennio scorso i laboratori di Gero Miesenböck, che lavorava al Memorial Sloan-Kettering Cancer Center, e di Ehud Isacoff, Richard H. Kramer e Dirk Trauner, all’Università della California a Berkeley, hanno impiegato sistemi multicomponente per modulare cellule bersaglio con la luce. Hanno introdotto, per esempio, sia una proteina che regola i neuroni sia una sostanza che attiva una proteina quando è innescata dalla luce ultravioletta. Eppure, distruggere proteine o cellule mirate limita ovviamente le scelte sperimentali; e i metodi che dipendono da componenti multipli, pur eleganti e utili, comportano problemi di natura pratica e mancano di ampia applicabilità o utilità nei mammiferi. Era necessario il passaggio fondamentale alla strategia a componente singolo. Come risultò, non era possibile costruire questa strategia a partire da parti o metodi usati in precedenza. Invece, ci volevano le straordinarie proteine integrate dei microbi attivate dalla luce: le batteriorodopsine, le alorodopsine e le canal-rodopsine. Nel 2000, quando le batteriorodopsine e le alorodopsine erano conosciute da tempo, l’Istituto Kazusa per la ricerca sul DNA, in Giappone, pubblicò su Internet migliaia di sequenze di nuovi geni dell’alga verde Chlamydomonas reinhardtii. Esaminandole, Peter Hegemann, che lavorava all’Università Regensburg di Berlino e che aveva predetto che Chlamydomonas aveva un canale ionico attivato dalla luce, rilevò due lunghe sequenze simili a quelle della batteriorodopsina; si fece spedire alcune copie da Kazusa e chiese a Georg Nagel, allora capo ricercatore a Francoforte, di verificare se codificassero effettivamente per i canali ionici. Nel 2002, Hegemann e Nagel descrissero il risultato: una di queste sequenze codificava un canale di membrana a proteina singola che rispondeva alla luce blu: quando veniva colpito da fotoni di questo colore, regolava il flusso di ioni carichi positivamente. Di conseguenza la proteina fu battezzata canal-rodopsina-1, o ChR1. Un anno dopo Nagel e Hegemann – insieme ai colleghi, fra i quali Ernst Bamberg a Francoforte – esplorarono l’altra sequenza, e denominarono la proteina codificata canal-rodopsina-2, o ChR2. Quasi simultaneamente, John L. Spudich, della University of Texas Medical School a Houston, dimostrò separatamente che quei geni erano importanti in Chlamydomonas nelle risposte dipendenti dalla luce. Eppure la scoperta di questa canal-rodopsina – un terzo tipo di proteina a conduttanza ionica attivata dalla luce e a singolo componente – non si è tradotta immediatamente in un progresso nelle neuroscienze, non più di quanto fosse accaduto con le batteriorodopsine e le alorodopsine nei decenni precedenti. 509 gennaio 2011 biente. Opsine di tipo diverso possono variare per sensibilità alla luce e comportamento. I geni delle opsine che costruiscono queste proteine sono alla base di una tecnologia, l’optogenetica, utilizzata dai neuroscienziati per controllare la natura dell’attività neurale in neuroni bersaglio. Microrganismo Chlamydomonas reinhardtii è un’alga unicellulare mobile dotata di due flagelli che le permettono di nuotare nell’acqua dolce. Volvox carteri è un’alga imparentata con Chlamydomonas, composta da centinaia di cellule che vivono come colonia circolare. Natromonas pharaonis è un archeobatterio che vive esclusivamente in acque con una concentrazione salina molto elevata. Terreno e corpi di acqua dolce diffusi in tutto il pianeta. Stagni, laghi, pozzanghere e fossati colmi d’acqua. Laghi con un elevato grado salino in Egitto e in Kenya. Habitat Illustrazione di Bryan Christie; Toni Anzenberger/Redux Pictures (fango); Eric Striffler/New York Times/Redux Pictures (stagno); Ulrich Doering Alamy (lago); Fonte: Optogenetic interrogation of neural circuits: technology for probing mammalian brain structures, di f. Zhang e altri, in «Nature protocols», Vol. 5, n. 3, 18 febbraio 2010 (canali e cruve di sensibilità alla luce) tamenti psichiatrici sono sostanzialmente fortunosi: utili per molti di noi, ma raramente illuminanti. Non stupisce dunque che in un articolo pubblicato su questa rivista una trentina d’anni fa (Riflessioni sul cervello, in «Le Scienze» n. 135, novembre 1979), il premio Nobel Francis Crick suggerisse che la grande sfida delle neuroscienze stava nella capacità di controllare un solo tipo di cellula nel cervello, senza influire sulle altre. La stimolazione elettrica è insufficiente, perché gli elettrodi sono troppo approssimativi, e stimolano tutte le cellule nella zona in cui sono inseriti senza distinguere i vari tipi cellulari. Inoltre, i loro segnali non disattivano i neuroni con precisione. In seguito Crick avrebbe avanzato l’ipotesi di usare la luce come strumento di controllo, indirizzandola con impulsi di una certa frequenza nelle aree più diverse, ma all’epoca nessuno aveva idea di come rendere sensibili alla luce cellule specifiche. Nel frattempo, in un campo della biologia tra i più distanti dallo studio del cervello dei mammiferi, si indagava su microrganismi che solo molti anni dopo si sarebbero rivelati decisivi. Già una quarantina d’anni fa i biologi sapevano che alcuni microrganismi generano proteine che, come risposta alla luce visibile, regolano direttamente il flusso della carica elettrica attraverso la loro membrana. Queste proteine, le «opsine», prodotte da un insieme caratteristico di geni, permettono di ricavare energia e informazioCiò che piace ai ne dalla luce nell’ambiente in neuroscienziati cui vivono i microrganismi. Nel 1971 Walther Stoeckenius e Diedell’optogenetica ter Oesterhelt, che lavoravano è il controllo all’Università della California a San Francisco, scoprirono che di eventi definiti, una di queste proteine, la batin tipi cellulari teriorodopsina, agisce da pomdefiniti e in pa ionica a singolo componente, attivabile per breve tempo da istanti definiti fotoni di luce verde: una straordinaria macchina molecolare integrata. L’identificazione successiva di altri membri di questa famiglia di proteine – le alorodopsine nel 1977 e le canal-rodopsine nel 2002 – ha arricchito il tema originario del controllo integrato nel singolo gene. Con il senno di poi, la soluzione alla sfida di Crick – una strategia che desse una spinta clamorosa alle neuroscienze – era teoricamente disponibile prima ancora che egli la formulasse. Eppure sarebbero trascorsi più di trent’anni prima che queste potenzialità si ritrovassero insieme in nuova tecnologia, l’optogenetica. L’optogenetica è la combinazione dell’ottica e della genetica, per controllare eventi ben definiti entro qualsiasi specifica cellula del tessuto vivente, non solo di quello nervoso. Comporta, tra l’altro, la scoperta e l’inserzione nelle cellule di geni che permettono di rispondere alla luce, e le tecnologie associate per trasmettere la luce dentro il cervello, dirigerne gli effetti su geni e cellule specifiche, e infine valutare le «letture», o effetti, di questo controllo ottico. L’aspetto dell’optogenetica che entusiasma i neuroscienziati è il controllo su eventi definiti, in tipi cellulari definiti e in istanti definiti: un livello di precisione che, oltre a non avere precedenti, sarà molto probabilmente decisivo per capire i fenomeni biologici. Il significato di un evento in una cellula è comprensibile solo nell’ambito di altri eventi nel tessuto, nell’organismo intero o persino nell’ambiente circostante. Per esempio, anche un semplice sfasamento di pochi millisecondi nella tempistica della scarica neuronale può invertire completamente l’effetto del suo segnale Canale Lunghezza d’onda: 470 nanometri Ione sodio La canal-rodopsina ChR2 consente agli ioni sodio, positivi, di attraversarla come risposta alla luce blu. 535 nm 589 nm Ione sodio La canal-rodopsina VChR1 risponde ad alcune lunghezze d’onda della luce verde e della luce gialla. 589 nm Ione cloruro L’alorodopsina NpHR regola il flusso di ioni cloruro, negativi, come risposta alla luce gialla. Risposta relativa alla luce www.lescienze.it Le Scienze 45 re o di disattivare i neuroni in modo efficiente e innocuo come risposta alla luce. Funzionavano anche perché, come regalo inaspettato della natura, il tessuto dei mammiferi contiene naturalmente quantità cospicue di all-trans-retinal, l’unico cofattore chimico essenziale affinché i fotoni attivino le opsine ricavate dai microrganismi. È stato perciò sufficiente aggiungere ai neuroni bersaglio solo il gene dell’opsina. Il nostro primo rapporto risale al 2005, e un anno dopo, insieme al mio collega di Stanford Mark Schnitzer, in un articolo di rassegna, abbiamo definito questa strategia «optogenetica». Da allora se ne servono laboratori in tutto il mondo, usando versioni dei geni che il mio gruppo aveva sintetizzato perché funzionassero in modo ottimale nelle cellule di mammifero. A tutt’oggi abbiamo inviato questi geni a circa 700 laboratori. La natura, una miniera di molecole Il numero di strumenti optogenetici, e della loro gamma di potenzialità, si è presto allargato grazie all’incredibile convergenza tra ecologia e ingegneria. I ricercatori stanno aggiungendo nuove opsine al loro armamentario e perlustrano il mondo naturale per trovarne di nuove. Inoltre si sta applicando l’ingegneria molecolare per modificare le molecole conosciute perché diventino più utili in nuovi esperimenti e in una gamma più ampia di organismi. Nel 2008, per esempio, le nostre ricerche sui genomi guidate da Feng Zhang in una differente specie di alga, Volvox carteri, hanno rivelato una terza canal-rodopsina, la VChR1, che risponde alla luce gialla anziché a quella blu. Usando insieme la VChR1 e altre canal-rodopsine possiamo controllare simultaneamente popolazioni mescolate di cellule, esercitando un certo tipo di controllo su alcune di esse con la luce gialla e inviando un comando differente ad altre cellule con la luce blu. E oggi abbiamo scoperto che la canalrodopsina in assoluto più potente è un ibrido di VChR1 e di ChR1, senza alcun contributo di ChR2. Altre nostre opsine modificate comprendono mutanti di canal-rodopsina «ultrarapidi» e «ultralenti», che permettono un controllo fine sulla scansione temporale e la durata dei potenziali d’azione: i primi possono indurre i potenziali d’azione a scaricare più di 200 volte al secondo, mentre i secon- Bryan Christie Vari scienziati mi avevano confidato di aver pensato di inserire i geni dei batteri o delle alghe nei neuroni e di provare a controllare con la luce le cellule modificate, ma di avere abbandonato l’idea. Era improbabile che le cellule animali producessero con efficienza o sicurezza le proteine dei microbi, e quasi certamente le proteine sarebbero state troppo lente e deboli per essere efficaci. Inoltre, riguardo alla funzione, avrebbero richiesto un cofattore – un composto simile alla vitamina A, il trans-retinal – per assorbire i fotoni. Il rischio di sprecare tempo e denaro era veramente alto. Tuttavia, per il gruppo di ricerca che avevo organizzato a Stanford la spinta ad accrescere le conoscenze in psichiatria clinica era sufficiente a giustificare il rischio di fallimento. Durante il tirocinio in psichiatria avevo toccato con mano i limiti e gli effetti collaterali di alcuni farmaci e trattamenti, un’esperienza che contribuì al mio desiderio di correre il rischio. Così nel 2004, come responsabile di laboratorio a Stanford, formai un gruppo, di cui facevano parte anche i neolaureati Edward S. Boyden e Feng Zhand, per affrontare la sfida. Introdussi la canal-rodopsina-2 nei neuroni di mammifero in coltura mediante la collaudata tecnica della trasfezione, ovvero effettuando lo splicing (taglio e ricucitura) del gene per la ChR2 e di uno specifico interruttore on (sempre acceso), o promotore, nei geni di un vettore, per esempio un virus benigno, che traghettava nelle cellule il materiale genetico supplementare. I promotori possono garantire che solo tipi scelti di neurone, per esempio, solo quelli che secernono il neurotrasmettitore glutammato, esprimeranno, o produrranno, le proteine di opsina codificate. Contro ogni pronostico, l’esperimento funzionò, e sorprendentemente bene. Usando semplici e innocui impulsi di luce nel visibile, ottenemmo un controllo affidabile, con una precisione di millisecondi sull’andamento dei potenziali d’azione dei neuroni, degli impulsi, cioè, che consentono a un neurone di trasmettere informazioni a un altro neurone. Nell’agosto del 2005 il mio gruppo pubblicò il primo rapporto sul fatto che, introducendo un singolo gene di opsina di un microrganismo nei neuroni di un mammifero, potevamo far rispondere alla luce le cellule in modo preciso. Le canal-rodopsine – e come poi scoprimmo la batteriorodopsina del 1971 e pure le alorodopsine – si dimostrarono capaci di attiva- di possono spingere le cellule dentro, o fuori, stati eccitabili stabili con singoli impulsi di luce. Le nostre opsine più recenti rispondono addirittura alla luce rosso cupo, al confine con l’infrarosso, che rimane più concentrata e penetra più facilmente nei tessuti, oltre a essere ben tollerata. L’ingegneria molecolare ha poi esteso il controllo optogenetico alla biochimica delle cellule, oltre che al loro comportamento elettrico. Una buona parte dei farmaci approvati agisce su una famiglia di proteine di membrana, i recettori accoppiati alle proteine La spinta G. Queste proteine percepiscoa migliorare no molecole segnale extracella comprensione lulari, come l’adrenalina, a cui rispondono modificando il lidelle patologie vello dei segnali biochimici enpsichiatriche docellulari, come gli ioni calcio, e dunque l’attività delle cellule. è stata più che Aggiungendo il dominio sensisufficiente bile alla luce di una molecola di rodopsina ai recettori accoppiaa giustificare ti alla proteina G, Raag D. Ail’alto rischio ran e altri membri del mio laboratorio hanno sviluppato un di fallimento complesso di recettori chiamati optoXR, che rispondono in modo rapido alla luce verde. Quando i virus inseriscono i costrutti genetici che codificano optoXR nel cervello di topi di laboratorio, gli optoXR consentono il controllo di eventi biochimici negli animali mentre si muovono liberamente nella gabbia. Oggi è perciò possibile un controllo ottico rapido e specifico delle cellule tanto in coltura quanto negli animali liberi. Questo controllo sulla biochimica apre le porte all’optogenetica praticamente in ogni cellula e in ogni tessuto biologico. Molti geni di opsine naturali via via scoperti nel genoma dei diversi microrganismi codificano proteine che le cellule dei mammiferi non producono con efficacia. Ma Viviana Gradinaru, che lavora nel mio gruppo, ha sviluppato diverse strategie di uso generale che migliorano il loro trasferimento e la loro espressione. Per esempio frammenti di DNA possono essere associati ai geni delle opsine e agire come «codici postali» per garantire che i geni siano trasportati negli scomparti corretti nelle cellule dei mammiferi e qui tradotti in proteine funzionali. E grazie agli strumenti a fibre ottiche che abbiamo messo a punto nel 2006 e nel 2007, oggi i ricercatori possono trasmettere la luce per il controllo optogenetico a qualsiasi area del cervello – superficiale o profonda – in mammiferi liberi di muoversi. Inoltre, per consentire la lettura simultanea dei segnali elettrici dinamici abbiamo sviluppato strumenti che operano nella scala dei millisecondi, ibridi integrati di fibre ottiche e di elettrodi, che abbiamo chiamato «optrodi». Una bella sinergia può emergere tra la stimolazione ottica e le registrazioni elettriche, perché le possiamo configurare evitando interferenze reciproche. Oggi, per esempio, siamo in grado di osservare direttamente la variazione di attività elettrica nei circuiti neurali del controllo motorio controllandoli simultaneamente con le opsine dei microrganismi. Più i segnali optogenetici in ingresso e i segnali elettrici in uscita diventeranno elaborati e complessi, più sarà alla nostra portata una forma di ingegneria inversa dei circuiti neurali, che ci farà capire il ruolo computazionale e informazionale dei circuiti neurali a partire dalla loro trasformazione dei nostri segnali. Questa ingegneria inversa dei circuiti neurali normali e integri ci offrirà fantastiche opportunità per determinare quali proprietà e quali attività differiscono nelle condizioni psichiatriche e neurologiche. Questa conoscenza dovrebbe, di rimando, consentirci di intervenire in modo mirato per ripristinare lo stato normale dei circuiti. Hacker nel cervello Il ruolo dell’optogenetica come strumento di ricerca, specie se associata ad altre tecnologie, sta crescendo rapidamente. Negli ultimi anni le neuroscienze hanno fatto grandi progressi con la tecnica di scansione cerebrale meglio conosciuta come risonanza magnetica funzionale (fMRI). Di solito queste scansioni sono pubblicizzate come fonte di mappe dettagliate dell’attività neurale causata da stimoli di varia natura. Eppure, a rigore di termini, la fMRI mostra soltanto la variazione dei livelli di ossigeno nel san- Procedure Indurre i neuroni a rispondere alla luce Per sfruttare l’optogenetica nei loro studi, i neuroscienziati inseriscono i geni dell’opsina nelle cellule del cervello servendosi di virus geneticamente modificati. I ricercatori possono indurre l’attività neurale a piacere con lampi di luce e osservare gli effetti sul comportamento in animali da laboratorio. Fibra ottica Virus Gene dell’opsina Neurone Neurone che risponde alla luce Promotore Gli scienziati associano un gene dell’opsina a un elemento, il promotore, che indurrà l’attività del gene solo in un tipo cellulare specifico. 46 Le Scienze Il virus infetta molte cellule nervose, ma a causa della presenza del promotore, solo un tipo di neurone produrrà la relativa opsina. Il gene modificato è inserito in un virus, che potrà essere iniettato nel cervello di un topo. 509 gennaio 2011 www.lescienze.it Fibre ottiche inserite come sonde nel cervello dell’animale emettono lampi che controllano pattern specifici di attività neurale. Le Scienze 47 Ri s o r s e m o l e c o l a r i Neuroetica Un crescente armamentario di geni utili Nuove questioni morali? Gli scienziati continuano ad ampliare le potenzialità dell’optogenetica facendo «bricolage» con i geni delle opsine conosciute e cercando in natura altre proteine capaci di rispondere alla luce. Nuove opsine con caratteristiOpsina Microrganismo da cui è ricavata Lunghezza d’onda di sensibilità Usi Mutanti della canal-rodopsina ultrarapida (ChR2) alga Chlamydomonas reinhardtii 470 nanometri (massima attivazione) Per l’attivazione on/off rapida della scarica nei neuroni, con una precisione di millisecondi, fino a 200 volte al secondo Opsine con funzione alga a gradini (mutanti di ChR2 Chlamydomonas reinhardtii ultralenti) 470 nanometri per l’attivazione; 546 nanometri per la disattivazione di alcuni mutanti Per attivare o disattivare lo stato eccitabile con brevi lampi di luce. A causa della loro sensibilità alla luce, sono particolarmente utili in esperimenti in cui la luce deve penetrare attraverso grandi volumi di tessuto (come nel cervello dei mammiferi) Canal-rodopsina VChR1 535 e 589 nanometri Per attivare la scarica neurale. Poiché VChR1 risponde alla luce gialla e ChR2 risponde alla luce blu, le due opsine possono essere usate insieme per controllare simultaneamente e in modo indipendente la scarica di popolazioni mescolate di neuroni OptoXR alga Volvox carteri Sintetica, 500 nanometri basata sulla rodopsina e su recettori accoppiati alla proteina G gue in differenti aree del cervello, variazioni che sono una controfigura dell’attività neurale reale. Una seccante incertezza circonda perciò da sempre la questione se questi segnali complessi siano innescati da una maggiore attività neurale eccitatoria locale. Tuttavia, lo scorso maggio, nel mio laboratorio, abbiamo combinato optogenetica e fMRI (ofMRI) per verificare che la scarica di neuroni eccitatori locali fosse sufficiente per scatenare i segnali complessi rilevati con gli scanner della risonanza magnetica. Inoltre, l’accoppiamento di optogenetica e fMRI può stabilire la mappa funzionale dei circuiti neurali con un’esattezza e una completezza impossibile con gli elettrodi e con i farmaci. L’optogenetica consente perciò di confermare e di far progredire molta letteratura scientifica in materia di neuroscienze e di psichiatria. In effetti, l’impatto dell’optogenetica si è già fatto sentire in questioni relative alle malattie umane. Negli animali abbiamo applicato l’optogenetica su un tipo di neurone – le cellule che secernono ipocretina – situato in una parte profonda del cervello, che sappiamo coinvolta nella narcolessia, un disturbo del sonno. E abbiamo scoperto che, in questi neuroni, specifici tipi di attività elettrica scatenano il risveglio. Scoprire il sistema per indurre a scopo clinico l’attività neurale potrebbe perciò diventare un trattamento. Ma la cosa più importante è la conoscenza scientifica raggiunta, ovvero aver compreso che attività specifiche in cellule specifiche possono generare comportamenti complessi. L’optogenetica sta inoltre aiutando a determinare come i neuroni dopaminergici possono dare origine a sentimenti di gratificazione e di piacere. I miei collaboratori hanno indotto per via optogenetica ondate di attività – secondo differenti scansioni temporali 48 che desiderate, da sole o combinate, permettono ai ricercatori di risolvere misteri biologici tramite esperimenti un tempo impossibili. Qui sotto sono elencate alcune preziose categorie di opsine e il loro uso. Le Scienze Per un controllo rapido e specifico per tipo cellulare di vie biochimiche, più che di segnali elettrici, in cellule bersaglio. Può essere usata in animali di laboratorio liberi di muoversi – in gruppi di neuroni dopaminergici di topi liberi di muoversi, identificando così la struttura degli stimoli che sembravano indurre un senso di gratificazione negli animali. In assenza di ogni altro segnale o gratificazione, i topi sceglievano di trascorrere più tempo nei luoghi dove avevano ricevuto particolari ondate di attività nei neuroni dopaminergici. Questa informazione è utile per decifrare l’attività cellulare sottostante sia al normale processo di ricompensa sia alle patologie nel sistema del piacere implicate nella depressione e nell’abuso di sostanze. Inoltre, la strategia optogenetica ha migliorato la comprensione del morbo di Parkinson, che insorge a causa di un’interferenza del controllo motorio in particolari circuiti cerebrali. A partire dagli anni novanta, alcuni pazienti parkinsoniani ricevono sollievo da una terapia – la stimolazione del cervello profondo – mediante la quale un dispositivo impiantato, una sorta di pacemaker, rilascia stimoli elettrici oscillanti scanditi ad arte in aree profonde del cervello, come il nucleo subtalamico. Eppure le promesse di questa tecnica per la cura del Parkinson, e in realtà per diverse altre patologie, hanno dei limiti, poiché gli elettrodi stimolano in modo non selettivo cellule cerebrali vicine; senza considerare poi che la conoscenza dei medici circa gli stimoli da rilasciare è purtroppo incompleta. Tuttavia, recentemente abbiamo usato l’optogenetica per studiare modelli animali del Parkinson, ricavandone conoscenze fondamentali sulla natura dei circuiti alterati dalla malattia e sui meccanismi di azione degli interventi terapeutici. Per esempio abbiamo scoperto che la stimolazione del cervello profondo potrebbe essere più efficace quando colpisce non le cellule ma le connessioni fra esse, influenzando così il flusso di atti- 509 gennaio 2011 L’optogenetica si aggiunge al gruppo di quelle tecnologie di modulazione cerebrale, come le sostanze psicoattive e gli interventi chirurgici, la cui efficacia è tale da sollevare questioni etiche e filosofiche. Eppure, sotto un certo aspetto l’optogenetica è più sicura e meno sensibile a problemi etici delle strategie che l’hanno preceduta. La crescita del potere e della specificità dell’optogenetica va di pari passo con la sua complessità tecnologica: sarebbe pressoché impossibile usare l’optogenetica su un paziente inconsapevole o contrario. Tuttavia, dalla precisione dell’optogenetica sorgono questioni più sottili (e forse più interessanti). A un certo livello, tutti gli aspetti della nostra personalità, le priorità, le capacità, le emozioni e i ricordi nascono da eventi elettrici e biochimici in particolari gruppi di neuroni e secondo specifici schemi temporali. Controllare questi elementi essenziali della mente solleverebbe problematici interrogativi filosofici; per esempio, quando è giustificato intro- vità tra regioni cerebrali. Con il collega Anatol Kreitzer, dell’Università della California a San Francisco, abbiamo poi stabilito la mappa funzionale di due vie nei circuiti cerebrali del movimento: la prima che rallenta i movimenti e la seconda che li accelera e può compensare lo stato parkinsoniano. Abbiamo poi imparato a stimolare un tipo di cellula, i neuroni parvalbuminici della corteccia, per modulare i ritmi a 40 cicli al secondo dell’attività cerebrale, le cosiddette oscillazioni gamma. Sappiamo da tempo che i pazienti schizofrenici hanno un’alterazione nelle cellule che producono parvalbumina e che le oscillazioni gamma sono anormali sia nella schizofrenia sia nell’autismo. Tuttavia il significato causale di queste correlazioni – ammesso che ce ne sia uno – non era conosciuto. Con l’optogenetica abbiamo dimostrato che le cellule parvalbuminiche potenziano le onde gamma, e che a loro volta queste onde aumentano il flusso di informazione lungo i circuiti corticali. Nei miei pazienti affetti da schizofrenia ho modo di riscontrare quelli che appaiono chiari problemi di elaborazione dell’informazione, in cui comuni eventi casuali sono erroneamente visti come parti di temi o di schemi più grandi: un problema di natura informazionale forse all’origine della paranoia e dei deliri. Questi pazienti soffrono anche di un deficit in un meccanismo interno di «notifica», che ci informa quando i pensieri si generano da sé, un problema informazionale a cui forse attribuire il fenomeno angosciante dell’«udire voci». Nei miei pazienti affetti da un disturbo dello spettro autistico osservo, invece di collegamenti inadeguati e a largo raggio, un’elaborazione di informazione molto ristretta: a loro sfugge il quadro generale e si focalizzano ostinatamente su parti di oggetti, persone, conversazioni e quant’altro. Questa errata elaborazione d’informazione può causare altrettanti deficit nella comunicazione e nel comportamento sociale. Una migliore conoscenza delle oscillazioni gamma potrebbe pertanto fare luce su queste malattie complesse. Come medico, considero queste ricerche eccitanti perché stiamo applicando principi ingegneristici e una tecnologia quantitativa a malattie psichiatriche devastanti, in apparenza «impalpabili» e intrattabili. L’optogenetica sta pertanto avvicinando la psichiatria a un’impostazione di ingegneria delle reti, in cui le funzioni complesse del cervello – e del comportamento che esso genera – sono www.lescienze.it durre tali modificazioni, via via fino a questioni più astratte circa la natura e la modificabilità del sé e della volontà. Gli interventi neurali basati sulla chirurgia, sui farmaci o sugli elettrodi sono sempre stati così generici che quelle questioni filosofiche si sono rivelate più teoriche che reali; gli esperti di bioetica e il diritto se ne sono occupati marginalmente. Lo psichiatra invece non è estraneo a questo tipo di problemi, data la capacità di influenzare le emozioni umane e la costruzione mentale della realtà. Ma i tempi cambiano, come testimonia la straordinaria rapidità degli sviluppi in optogenetica. Salti in avanti nella precisione temporale e cellulare dei nostri interventi richiedono che l’opinione pubblica sappia valutarla consapevolmente, come ogni tecnologia avanzata. I neuroscienziati dovranno perciò prepararsi a spiegare al profano il ruolo degli esperimenti di optogenetica per la comprensione e il trattamento della mente umana. interpretate come proprietà del sistema neurale che emerge dalla dinamica elettrochimica delle cellule e dei circuiti che lo compongono. È perciò in atto una rivoluzione nella comprensione del funzionamento dei tessuti eccitabili elettricamente in condizioni normali e patologiche. È stato davvero lungo (e imprevedibile) il cammino iniziato nel momento in cui una strana proteina batterica – la batteriorodopsina – una molecola capace di reagire alla luce, ci aveva lasciati a bocca aperta. Un universo di possibilità Durante gli incontri della Society for Neuroscience e ad altre grandi conferenze di respiro internazionale, mi è capitato di sentire colleghi suggerire che sarebbe stato più efficiente concentrare decine di migliaia di scienziati su un solo enorme e urgente progetto alla volta – per esempio la malattia di Alzheimer – invece che esplorare tanti temi diversi. Eppure, più diretta e mirata diventa la ricerca più è probabile che rallenteremo il progresso complessivo, e più è certo che mondi distanti e inesplorati della natura, dove possono nascere idee veramente dirompenti, saranno estromesse dal nostro comune viaggio scientifico. L’optogenetica ci insegna che il vecchio, il fragile e il raro – persino le cellule estratte da una lurida pozzanghera o dagli inospitali laghi salati del Sahara – sono decisivi per capire noi stessi e il mondo che ci circonda. La storia di questa tecnologia ci fa capire quanto è prezioso proteggere nicchie ambientali rare e l’importanza di sostenere una vera scienza di base. E mai dovremmo dimenticare che non sappiamo dove ci condurrà la lunga marcia della scienza e di che cosa avremo bisogno per illuminare il nostro cammino. n letture Millisecond-Timescale, Genetically Targeted Optical Control of Neural Activity. Boyden E.S. e altri, in «Nature Neuroscience», Vol. 8, pp. 1263-1268, settembre 2005. Optical Deconstruction of Parkinsonian Neural Circuitry. Gradinaru V. e altri, in «Science», Vol. 324, pp. 354-359, 17 aprile 2009. Temporally Precise in Vivo Control of Intracellular Signalling. Airan R.D. e altri, in «Nature», Vol. 458, pp. 1025-1029, 23 aprile 2009. Optogenetic Interrogation of Neural Circuits: Technology for Probing Mammalian Brain Structures. Zhang F. e altri, in «Nature Protocols», Vol. 5, n. 3, pp. 439-456, febbraio 2010. Le Scienze 49