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SCIENZE UMANE ON LINE TESTI INTEGRALI
PAGG. 1-30 APOLOGIA DI SOCRATE
31-64 SIMPOSIO
65–80 REPUBBLICA (LIBRO VIII)
PLATONE – “APOLOGIA DI SOCRATE”
traduzione di Vito Stazzone
PARTE PRIMA
LA DIFESA DI SOCRATE
I - UFFICIO DELL'ORATORE E' DIRE LA VERITA'
Io non so proprio, o Ateniesi, quale effetto abbiano prodotto su di voi i miei accusatori. Quanto
a me, mentre li ascoltavo, divenivo quasi dimentico di me stesso: tale era il fascino della loro
eloquenza! Eppure, se debbo proprio dirlo, non una parola di verità era in loro. Ma, tra tutte le
loro menzogne, quella che mi ha maggiormente colpito è questa: essi dissero che dovevate
stare bene in guardia per non lasciarvi trarre in inganno da me, essendo io un astuto parlatore.
E questa mi è parsa la loro maggiore impudenza, in quanto si sono esposti con vergogna a farsi
immediatamente smentire, giacché vi mostrerò con i fatti come io non sia quell'"astuto
parlatore" che dicono. A meno che essi non intendano per "astuto parlatore" chi dice la verità;
in tal caso concedo loro di essere un "oratore", ma non certo alla loro maniera.
Costoro dunque, ed amo ripeterlo ancora, poco o nulla hanno detto di vero; ma da me non
udrete che la verità. E per Giove, o Ateniesi, io non parlerò a voi con linguaggio ornato intessuto
di frasi e di parole belle ed eleganti, come sono usi fare costoro. Io vi parlerò invece così,
semplicemente, come le espressioni si presenteranno a me, ma improntate tutte, ne sono certo,
a giustizia: non aspettatevi dunque altro da me. Non starebbe infatti bene, o cittadini, che un
uomo della mia età si presentasse a voi cincischiando i suoi discorsi, come fanno i nostri
giovanetti.
Ecco, anzi, o Ateniesi, ciò che vi chiedo e di cui vi supplico; se v'accorgerete che nel difendere la
mia causa io mi esprimo con quelle stesse parole che sono solito usare sia nella pubblica piazza
presso i banchi dei trapeziti, dove molti di voi mi hanno potuto ascoltare, sia altrove, non vi
meravigliate e non protestate: pensate che è la prima volta che mi presento davanti a un
tribunale, ed ho ben settant'anni; sono dunque inesperto del linguaggio d'uso come un
forestiero. E se fossi presso di voi veramente un forestiero, voi certo mi scusereste se parlassi
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con l'accento e lo stile cui sono stato educato. Vi prego dunque, e mi pare bene a ragione, che
lasciate che io mi esprima alla mia maniera, buona o cattiva che sia. La sola cosa cui dovete
badare, e badare molto scrupolosamente, è di vedere se io dica cose giuste o no. Questo, infatti,
è l'ufficio proprio del giudice; quello dell'oratore è di dire la verità.
II - DUE SPECIE DI ACCUSATORI: GLI ANTICHI E I RECENTI. PIANO DELLA DIFESA
Ed ora è giusto, o Ateniesi, che io mi difenda per primo dalle vecchie accuse e dai vecchi
accusatori; in seguito poi mi difenderò dalle accuse e dagli accusatori più recenti. In effetti
numerosi sono coloro i quali già da tempo, anzi da molti anni ormai, mi accusano presso di voi
senza aver mai detto nulla di vero; e sono proprio costoro che mi fanno più paura, che non
Anito e i suoi seguaci, anche se non sono meno temibili. Ma quegli altri, o Ateniesi, lo sono
molto di più, perché hanno fatto presa su di voi mentre eravate ancora fanciulli con lo spargere
suol mio conto accuse non vere.
Costoro infatti vi hanno fatto credere che v'è un certo Socrate, uomo sapiente, indagatore dei
fenomeni celesti e dei misteri che si nascondono sotto terra, capace di far prevalere la causa
cattiva sulla buona. Sono questi, o Ateniesi, i miei temibili accusatori, questi che hanno sparso
sul mio conto tale fama giacché essi sapevano bene che chi si dà a un tal genere di ricerche è
generalmente creduto un ateo. E numerosissimi sono gli accusatori che da gran tempo mi
recano danno avendo parlato a voi in quell'età in cui, per essere ancora fanciulli, più facilmente
si è inclini a credere; e alcuni di voi erano addirittura ancora adolescenti: nè hanno esitato ad
accusare un assente che nessuno era pronto a difendere. E ciò che è più sconcertante è che non
si possa nè conoscere, nè citare i loro nomi, salvo di quelli che per invidia o per calunnia hanno
insinuato tali accuse, sia quelli che, persuasi, hanno a loro volta finito col persuadere altri, tutti
costoro costituiscono per me un grave imbarazzo: non è possibile, infatti, nè portarli qui a
comparire, nè confutarli nelle loro accuse. E' pur necessario, quindi che io mi difenda come se
stessi combattendo contro le ombre, senza che vi sia alcuno che possa ribattere le mie
argomentazioni.
E' chiaro, dunque, come vi siano per me due specie di accusatori: gli antichi e i recenti.
Consentite allora che io mi difenda per prima da quelli che per primi mi hanno accusato e in
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modo più temibile che non abbiano potuto fare i secondi: giacché, o Ateniesi, si tratta di
provarsi a trarre fuori dagli animi vostri una calunnia che vi si annida da così lungo tempo, e
trarla fuori invece in così breve tempo. Il mio augurio è di riuscirvi, se ciò ha da essere un bene
per me e per voi; non me ne nascondo però le difficoltà. Vada pure come a Dio piacerà: il mio
dovere è di obbedire alla legge e di espletare la mia difesa.
III - SOCRATE NON SI E' MAI OCCUPATO DI RICERCHE NATURALISTICHE
Riprendiamo dunque da principio ed esaminiamo da quale accusa è sorta la calunnia,
confidando nella quale Melèto mi ha intentato questo processo. Che cosa dicono dunque con
esattezza i miei calunniatori? Procediamo come per un'accusa in piena regola di cui è
necessario dare lettura del testo. Essa suona così: "Socrate è colpevole. Egli indaga con animo
empio le cose del cielo e della terra, fa prevalere la causa cattiva sulla buona e insegna agli altri
a fare altrettanto".
Così press'a poco si esprime. E lo avete potuto constatare voi stessi nella commedia di
Aristofane dove appare un Socrate che, muovendosi qua e là nell'alto della scena, dichiara di
camminare nell'aria e molte altre stupide cose dice delle quali io non so punto, nè poco. Con ciò
non intendo disprezzare affatto tale scienza, se qualcuno mai la possiede; non vorrei proprio
che Melèto poi mi accusasse anche di una tale temerarietà. Ed in verità, o Ateniesi, io non mi
sono mai occupato di siffatta scienza; e ne chiamo a testimone la gran parte di voi, e vorrei che
vi contaste uno per uno tutti quelli che avete udito i miei discorsi, e ce ne siete tanti qui, per
sapere chi di voi mi ha mai sentito fare discorsi simili.
Da ciò potrete facilmente dedurre quale valore abbiano le altre accuse che mi sono state mosse.
IV - SOCRATE NON CONOSCE, COME I SOFISTI, L'ARTE DI EDUCARE GLI UOMINI
Nulla v'è di vero in esse. E se qualcuno vi ha ancora detto che io faccio l'educatore e che ne
ricavo gran guadagno, neppure questo è vero. Riconosco certo che è bello essere capace di
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educare gli uomini, come un Gorgia Leontino, un Prodico di Ceo, o un Ippia di Elide. A costoro è
concesso, o Ateniesi, di andare di città in città e di attirare al loro insegnamento i giovani, i
quali invece potrebbero benissimo senza spendere nulla, frequentare l'insegnamento di quei
concittadini che amerebbero meglio scegliersi; quelli invece sanno persuaderli ad allontanarsi
da questi e a venire loro, a pagarli profumatamente e a mostrare anche la dovuta gratitudine.
Che dico? E' venuto qui fra noi un sapiente uomo, un cittadino di Paro, come ho potuto
apprendere per avere io parlato con uno che con i Sofisti ha speso più denaro che tutti gli altri
messi insieme, Callia precisamente, il figlio d'Ipponico.
Voi sapete che egli ha due figli; ebbene io ho voluto interrogarlo: -Callia, gli dissi, se in luogo di
due figli tu avessi due puledri o due vitelli non dovremmo affidarli a sovrastante e pagarlo in
conseguenza, perché sviluppasse in loro le virtù proprie della loro natura? E questo non
potrebbe essere che un domatore di cavalli o un massaro. Invece sono degli uomini. A chi
dunque dobbiamo affidarli? Chi è abile a sviluppare in loro le virtù proprie dell'uomo e del
cittadino? Suppongo che tu ci abbia molto riflettuto, poiché hai dei figli. C'è qualcuno che ne sia
capace o no? -Certamente, mi rispose. -E chi è costui, chiesi, e di quale paese è, e che prezzo
chiede per il suo insegnamento? -E' Evèno di Paro, o Socrate, mi rispose, e chiede cinque mine.
-Felice Evèno, pensai io, se veramente possiede quest'arte e l'insegna a così modico prezzo!
Anch'io mi sentirei fiero e felice se sapessi fare altrettanto; ma non so o Ateniesi.
V- LA SAPIENZA DI SOCRATE RIVELATA DALL'ORACOLO DI DELFO
A questo punto qualcuno di voi sarà tentato di chiedermi: -Che faccenda è questa allora, o
Socrate? Donde ti sono nate queste calunnie? Se, come tu dici, non hai fatto nulla di
eccezionale, nulla di diverso che gli altri non fanno, perché allora ti si è attribuita una sì cattiva
fama? Spiegaci tutta questa faccenda perché noi non si abbia a giudicare a caso. -La domanda
mi sembra più che legittima. Mi proverò a spiegare che cosa ha provocato l'insorgere di tale
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fama e di tali calunnie; statemi dunque a sentire: alcuni di voi forse penseranno che io scherzi,
ma, credetemi, ciò che vi dirò è la pura verità. Debbo riconoscerlo, o Ateniesi, io debbo questa
fama ad una certa qual sapienza che posseggo. Ma quale sapienza? La sapienza propria
dell'uomo, io credo; e può darsi che io veramente la possegga, mentre quelli di cui parlavo
poc'anzi, ne possederebbero un'altra che è più che umana, o che so io, ma che certamente io
non posseggo, e se qualcuno me l'attribuisce mente e cerca solo di calunniarmi.
(A questo punto l'Assemblea schiamazza)
Vi prego di non schiamazzare, o Ateniesi, se vi sono sembrato alquanto presuntuoso, perché ad
attribuirmi tale sapienza, se pur ne posseggo alcuna, non sono io, ma uno che per voi è degno
di fede: il Dio di Delfo. Voi conoscevate certamente Cherefonte. Egli mi fu amico fin dalla
giovinezza e amico fu al vostro popolo e con voi fuggì in esilio e con voi tornò. Sapevate bene di
lui l'impeto e l'entusiasmo con cui si accingeva a qualunque impresa. Ebbene, costui, essendosi
recato una volta a Delfo, ecco su che cosa osò interrogare il Dio (L'Assemblea riprende lo
schiamazzo) Non schiamazzate, vi prego, o Ateniesi. Egli, dunque, interrogò il Dio per sapere se
vi fosse qualcuno più sapiente di me. La Pitia rispose che nessuno era più sapiente. E di questo
responso dell'oracolo vi potrà dare testimonianza il fratello di Cherefonte qui presente, essendo
egli morto.
VI - COME SONO SORTE LE CALUNNIE. SOCRATE INDAGA PRESSO I POLITICI. IL SENSO
DELL'ORACOLO
Ho raccontato questo perché possiate osservare come sia nata la calunnia. Quando io conobbi
le parole dell'oracolo pensai così fra di me: "Che cosa vuole mai dire Dio? Giacché io non mi
sento affatto di essere sapiente. Quale è il senso allora delle sue parole? Certo non è possibile
che egli menta". E stetti molto tempo in dubbio senza riuscire a comprendere che cosa avesse
mai voluto significare. E fu così che, mio malgrado, mi decisi a venirne a capo.
Mi recai infatti presso uno di quelli che passavano per sapienti, sicuro di smentire l'oracolo e
dimostrare così che quello era più sapiente di me. Esaminai per tanto a fondo il mio
personaggio (è inutile che ve ne dica il nome: era un uomo politico) ed ecco l'impressione che
ne ricavai: mi parve che quest'uomo apparisse sapiente a molti, e soprattutto a se stesso, ma
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che in realtà non lo era affatto; e cercai anche di dimostrarglielo. Naturalmente venni in odio a
lui e a molti altri che erano con lui presenti. Mentre mi allontanavo pensavo così fra me: "Sono
io più sapiente di costui giacché nessuno di noi due sa nulla di buono; ma costui crede di sapere
mentre non sa; io almeno non so, ma non credo di sapere. Ed è proprio per questa piccola
differenza che io sembro di essere più sapiente, perché non credo di sapere quello che non so".
E avvicinai un altro che mi sembrava che fosse più sapiente di costui; ma ottenni lo stesso
risultato: quello, cioè, di venire in odio a lui e a molti altri ancora.
VII - SOCRATE INDAGA PRESSO I POETI IL SENSO DELL'ORACOLO
Ciononostante io continuai la mia indagine con un senso di amarezza e di inquietudine insieme,
comprendendo bene che, così facendo, mi procuravo sempre nuovi nemici. Il fatto si è che io mi
sentivo obbligato di porre al di sopra di ogni considerazione le parole del Dio e non esitavo
quindi a recarmi presso tutti coloro che mostravano di sapere qualche cosa per comprendere il
riposto senso dell'oracolo. E per il Cane, o Ateniesi, -lasciate pure che vi dica le cose come
stanno- mi dovetti accorgere, io che indagavo secondo il pensiero del Dio, che quelli che erano
reputati più sapienti erano proprio i meno provvisti, mentre quelli che erano considerati gente
da poco, erano i più saggi.
E' necessario però che vi racconti tutta la mia peregrinazione volta a rendermi chiaro il
significato dell'oracolo, peregrinazione che non fu scevra di fatiche. Dopo aver avvicinato i
politici, mi recai dai poeti, dai tragici come dai ditirambici o compositori d'altri generi, sicuro di
trovare me più ignorante di loro. E pigliando in mano i loro poemi, quelli che mi sembravano
meglio riusciti, chiedevo loro che me li spiegassero, anche allo scopo di potermi meglio istruire.
Ebbene, o Ateniesi, ho vergogna di palesarvi la verità, ma è pur necessario che lo faccia: si
verificava che intorno agli argomenti da loro trattati ne ragionavano molto meglio quelli che
erano presenti che non gli stessi autori. Dovetti quindi concludere che i poeti non per sapienza
poetavano, ma per disposizione naturale, quasi da Dio ispirati, come gli indovini e i profeti, i
quali dicono cose molto belle, ma non sanno nulla di ciò che dicono. Ed è questo proprio ciò che
accadde ai poeti. E mi dovetti accorgere anche che essi, sentendosi dotati di talento, finivano
col reputarsi sapienti anche in altre cose senza che lo fossero affatto. E così partii da costoro
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pensando che avevo sui poeti lo stesso vantaggio che sugli uomini politici.
VIII - SOCRATE INDAGA PRESSO GLI ARTIGIANI IL SENSO DELL'ORACOLO
Infine andai anche presso gli artigiani, convinto di non sapere nulla di quelle tante e belle cose
che sanno invece costoro. E fu la volta in cui non mi ingannai, poiché essi sapevano cose che io
ignoravo del tutto, per cui potevo reputarli, sotto questo aspetto almeno, molto più sapienti di
me. Purtroppo però, o Ateniesi, anche i valenti artigiani mi parve che cadessero nello stesso
errore dei poeti, poiché ciascuno di loro, per il fatto che eccelleva nella sua arte, si reputava
sapiente in cose di maggior momento; e questa loro stoltezza finiva con l'oscurare quella loro
sapienza.
Per giustificare l'oracolo, provai allora a interrogare me stesso e vedere se io avessi voluto
essere tale quale sono, nè per nulla sapiente della loro sapienza, nè ignorante della loro
ignoranza, o non piuttosto possedere, come loro l'una cosa e l'altra. Risposi a me e all'oracolo
che valeva molto meglio per me essere tale e quale sono.
IX - IL VERO SENSO DELL'ORACOLO.
Per queste mie indagini, o Ateniesi, mi sono procurato molte inimicizie, aspre e fierissime, dalle
quali sono nate tante calunnie e la mia rinomanza di sapiente. Giacché, ogni qual volta ho
mostrato l'ignoranza altrui, si è voluto credere che sapiente mi reputassi io. No, Ateniesi,
sapiente è solo Dio che per mezzo di quell'oracolo ci ha voluto dire che la sapienza umana vale
poco o nulla. Ed è chiaro che se ha nominato Socrate, Egli ha voluto servirsi del mio nome a mo'
di esempio, come per dire: "O uomini, sapientissimo fra di voi è colui che, come Socrate, sa che
la propria sapienza è nulla".
Nè ho smesso questa mia indagine, perché vado ancora oggi interrogando, secondo il pensiero
di Dio, chiunque mi sembri sapiente, sia esso cittadino o forestiero. E quando mi accorgo che
egli non lo è affatto, allora metto in luce la sua ignoranza per dimostrare che Dio ha ragione. E a
questa occupazione dedico tutto il mio tempo, così che non me ne resta per attendere
lodevolmente nè agli affari della città, nè ai miei personali, ed essendomi consacrato solo al
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servizio di Dio, vivo in estrema povertà.
X - L'ODIO CONTRO SOCRATE SI ACCRESCE PERCHE' I SUOI DISCEPOLI LO IMITANO NELLA
RICERCA
Osservate poi ancora questo: i giovani che s'accompagnano a me spontaneamente, figli di
ricche famiglie e che hanno di conseguenza tempo a disposizione, si compiacciono di ascoltare
gli uomini da me esaminati, e a loro volta, imitando me, si provano anch'essi ad esaminare altri,
e ne trovano molti che credono di sapere e non sanno. Avviene allora che questi esaminati se la
pigliano con me anziché con se stessi, e vanno dicendo che v'è un certo Socrate, scelleratissimo
uomo, che corrompe i giovani. E se qualcuno domanda che cosa egli fa e che cosa insegna per
corrompere i giovani, allora, per non sembrare impacciati, dicono quel che si è soliti dire contro
tutti i filosofi: che egli insegna le segrete cose del cielo e della terra, insegna a non credere agli
Dei e a fare diritto il torto. Ma la verità, che si sono, cioè, palesati gonfi di sapienza senza nulla
sapere, questa no, non amano dirla. Ed essendo in molti, ambiziosi e violenti come sono, si sono
messi concordemente a diffamarmi con subdole argomentazioni, riempiendo da lungo tempo le
vostre orecchie con le loro accanite calunnie.
Ed è per questi motivi che mi si sono levati contro Melèto, Anito e Licòne: Melèto se l'è presa
per difendere i poeti, Anito per gli artigiani e i politici, Licòne per gli oratori. Ecco perché, come
vi dicevo da principio, mi meraviglierei se riuscissi ad estirpare in voi in così breve tempo una
calunnia radicatasi da lungo tempo.
Questa, o Ateniesi, è tutta la verità: nulla ho nascosto o dissimulato; e so bene che proprio per
questo sono odiato. Il che prova che io dico il vero, e il resto non è che calunnia originata dai
motivi esposti. Cercate per vostro conto, ora o più tardi, e troverete che è così.
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XI - CONTRO I NUOVI ACCUSATORI
Ciò che vi ho detto fin qui credo che sia sufficiente a scagionarmi dalle calunnie dei miei primi
accusatori. Adesso proverò a difendermi da Melèto, da questo amico devoto della città, come
egli dice di essere, e dai miei recenti accusatori. E giacché questi son ben diversi dagli antichi,
riprendiamo il testo dell'accusa che suona press'a poco così: "Socrate è colpevole - essa dice di corrompere i giovani, di non credere agli Dei ai quali crede la città, ma in nuove divinità
demoniache".
Esaminiamola dunque daccapo. Essa dice che io sono colpevole di corrompere i giovani. Io
invece dico, o Ateniesi, che colpevole è Melèto quando prende alla leggera cose molto serie e
trascina senza scrupolo le persone in tribunale e si dà a vedere di prendere grande interesse a
cose di cui mai si è curato. Ed io dimostrerò che la cosa è così.
XII - MELETO NON SA CHE COSA SIA L' EDUCAZIONE DEI GIOVANI
-Avvicinati, Melèto, e dimmi: Non annetti tu grande importanza al fatto che i nostri giovani
divengano quanto più possibile migliori?
-Io sì.
-Di' allora a costoro chi è capace di renderli migliori. Non v'è dubbio che tu lo sappia, visto che
la cosa ti sta tanto a cuore. Tu hai trovato, come dici, chi li corrompe, e citi me davanti a
costoro come accusato. Di' allora chi è che li rende migliori, rivelaci il nome. E che? Tu taci,
Melèto ? Non sai che dire? Ciò non ti fa onore, perché col tuo silenzio confermi quello che ho
detto, che cioè dei giovani non ti dai gran pensiero. Suvvia! Parla, o virtuoso uomo: chi è che li
rende migliori?
-Le leggi.
-Ma tu non rispondi alla mia domanda, o eccellente uomo, poiché io voglio sapere proprio chi è
che conosce più d'ogni altro le leggi di cui tu parli.
-Costoro, o Socrate, i giudici.
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-Come dici, Melèto ? I giudici sono capaci di educare i giovani e di renderli migliori?
-Ma certo.
-Tutti? Oppure alcuni di loro sì, altri no?
-Tutti.
-Quale buona novella, per Giunone! Quanta gente capace di fare gli educatori! E tutto il
pubblico qui presente, è anch'esso capace di renderli migliori, o no?
-Certo.
-Ed anche i componenti del Consiglio?
-Anche loro.
-Non vorrai certo escludere i membri dell'Assemblea, Melèto ; non è vero?
-Certamente no.
-Allora tutti gli Ateniesi, a quanto pare, sono capaci di rendere migliori i giovani, eccetto me.
Solo io li corrompo. è questo che dici?
-Esattamente.
-Che sciagurato uomo sono io per te! Penso che possiamo dire altrettanto dei cavalli: tutti li
migliorano e uno solo li guasta. O forse mi obietterai che solo uno può renderli migliori, o tutt'al
più pochissimi, e precisamente i domatori, tanto che gli altri, se mai si occupano di cavalli e li
montano, non fanno che guastarli? Non è così, o Melèto, sia che si tratti di cavalli o di altri
animali? Non può essere diversamente, qualunque cosa abbiate a dire tu e Anito. Sarebbe
infatti gran fortuna per i giovani se fosse vero che uno solo li guasta e tutti gli altri invece li
migliorano. No, o Melèto: troppo chiaramente fai vedere che non ti sei curato mai dei giovani e
dimostri bene la tua assoluta noncuranza per ciò per cui mi hai trascinato davanti ai giudici.
XIII - SOCRATE NON CORROMPE I GIOVANI: MELETO MENTE SAPENDO DI MENTIRE
-E dimmi anche questo, o Melèto, per Giove, se è meglio vivere fra onesti cittadini, piuttosto
che fra malvagi. Suvvia! Rispondi, amico; non ti domando nulla di così imbarazzante . Non è
forse vero che i malvagi recano danno a chi li accosta, mentre la gente onesta reca loro del
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bene?
-Penso di sì.
-E credi che ci sia alcuno che voglia essere danneggiato, anziché ricevere giovamento da quelli
con i quali entra in dimestichezza? Rispondi, amico: è la legge che te lo impone. C'è dunque chi
voglia essere danneggiato?
-No, certamente.
-E tu citi me davanti ai giudici come uno che corrompe e rende malvagi i giovani
volontariamente o involontariamente?
-Volontariamente.
-E che, o Melèto? Giovane come tu sei, pensi di essere tanto più saggio di me, che giovane non
sono, da crederti il solo a sapere che i malvagi fanno sempre del male e i buoni del bene? Mi
reputi dunque così poco accorto da non capire che quelli che ho reso malvagi non potranno che
recarmi del danno? E pensi dunque che io faccia tutto questo volontariamente? Nè io, nè
nessun altro è disposto a crederti. Dunque io non corrompo i giovani o, se li corrompo, lo faccio
involontariamente, sicché in entrambi i casi tu menti. E se lo faccio involontariamente, la legge
non consente di tradurre davanti ai giudici nessuno per tali falli involontari, ma in tal caso
occorre che si chiami in disparte il colpevole per ammonirlo e correggerlo nei suoi errori. Poiché
è chiaro che io non farò più involontariamente quel che faccio, quando avrò imparato come si
fa. Ma tu ti sei ben guardato dal venirmi incontro ed istruirmi. Tu questo lo hai fatto
volontariamente; e mi trascini qua dove è legge che siano trascinati solo quelli che hanno
bisogno di castigo e non d'insegnamento.
XIV - O FORSE MELETO VOLEVA PRENDERSI GIOCO DI TUTTI NOI ?
E' dunque chiaro, o Ateniesi, come vi dicevo, che Melèto di queste cose non si è curato mai
molto, né poco. Tuttavia, o Melèto, spiegaci in che maniera allora io corrompa i giovani.
Sembra, secondo l'accusa da te sottoscritta, che io corrompa i giovani insegnando loro a non
credere agli Dei ai quali crede la città, ma piuttosto a nuove divinità demoniache.
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Non dici tu che io corrompo i giovani insegnando questo?
-Proprio questo è quello che dico.
-E in nome di questi Dei, o Melèto, spiega più chiaramente a me e ai qui presenti il tuo pensiero.
Io non riesco a capire bene se tu voglia dire che io insegni sì a credere che ci siano certe
Divinità -nel qual caso io non sono in alcun modo un ateo, nè mi si può dichiarare colpevole ma che queste Divinità non sono quelle alle quali crede la città, ma altre, e che appunto per
questo mi accusi; o non piuttosto tu voglia dire che io non credo affatto che ci siano Dei, e che
proprio questo vado insegnando.
-Io intendo dire proprio questo, che tu non credi in alcun Dio.
-Meravigliosa affermazione, Melèto! Ma infine, che vuoi tu dire? Non credo io dunque che il sole
e la luna siano Dei, così come lo credono gli altri?
-No, per Giove, o giudici: egli dice che il sole è pietra e la luna terra.
-Ma così dicendo, tu accusi Anassagora, caro Melèto. Stimi così poco i qui presenti da crederli
tanto illetterati da ignorare che di queste teorie sono pieni i libri di Anassagora di Clazomène? E
per apprendere questo i giovani verrebbero ad istruirsi da me, quando potrebbero benissimo
all'occasione comprare tali libri nell'orchestra con la modica spesa di una dracma tutt'al più, e
poi dare la baia a Socrate se spaccia per sue sì strane teorie? Per Giove, pensi dunque proprio
che io non creda in alcun Dio?
-Proprio in alcuno, per Giove.
-Nessuno ti crede, o Melèto. e, a quel che sembra, neanche tu credi a te stesso. Egli, o Ateniesi,
mi sembra un insolente e un avventato, e la stessa accusa rivela l'insolenza e l'avventatezza
propria del giovane. Egli ha tutta l'aria di chi compone enigmi per provare: "vediamo un po' -si
sarà detto- se quel sapientone di Socrate si accorgerà o no che io mi prendo gioco di lui e mi
contraddico, o se riuscirò invece a trarre in inganno lui e gli altri che mi ascoltano". Poiché è
chiaro che egli si contraddice apertamente nell'accusa, come se dicesse: "Socrate è colpevole di
non credere negli Dei, benché egli ci creda". Non è una burla tutto questo?
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XV- L'ACCUSA DI MELETO E' UNA PALESE CONTRADDIZIONE
Osservate con me, o Ateniesi, come egli, in ciò che dice, non fa che contraddirsi; e tu Melèto,
rispondi. A voi ricordo solo ciò di cui ebbi a farvi raccomandazione fin da principio, di non
protestare con schiamazzi se interrogo nel modo che mi è solito.
-C'è qualcuno, o Melèto, che crede che ci siano cose umane, senza credere che ci siano
uomini?... Fate, o cittadini, che egli risponda, invece di protestare a dritta e a manca. C'è
qualcuno che crede che non ci siano cavalli, ma cose cavalline sì? Flautisti no, ma suonate di
flauto sì? No, mio caro amico, non c'è. Rispondo io a te e agli altri qui presenti, visto che non
vuoi rispondere tu. Ma a questo devi pur rispondere: c'è qualcuno che creda che vi siano cose
demoniache, ma demoni no?
-No, non c'è.
-Che servizio tu mi rendi con la tua risposta, sia pure data a malincuore e perché costrettovi da
costoro. Così dunque tu dichiari che io credo all'esistenza di cose demoniache, antiche o nuove
che siano, e induco gli altri a credervi. Allora, secondo che dici, e lo hai anche attestato con
giuramento nella tua accusa, io credo in cose demoniache. Ma se credo in cose demoniache, è
ben necessario che creda nei demoni: non ti pare? Non può che essere così; debbo pensare che
tu ne convenga, visto che non rispondi. E i demoni, secondo che si crede, non sono Dei o figli di
Dei? Sì o no?
-Sì, certamente.
-Allora, se come tu affermi, io credo nei demoni, e i demoni sono Dei, ecco che tu proponi, come
dicevo poco fa, un enimma per prenderti gioco di noi. Infatti, tu prima affermi che io non credo
negli Dei, poi invece che credo negli Dei dal momento che credo nei demoni. E se poi i demoni
sono figli spurii di Dei, partoriti, come si dice, da ninfe o da altre che siano, chi oserebbe
affermare che ci siano figli di Dei, e Dei no? Sarebbe come dire che ci sono i muli figli di cavalli e
di asini, ma cavalli e asini no. Caro il mio Melèto, non è possibile che tu abbia voluto formulare
così la tua accusa se non per prenderti gioco di noi, o per non sapere di che altro incolparmi. Ma
che tu riesca a persuadere qualcuno, anche se d'intelletto corto, a credere che ci siano cose
demoniache e divine, senza credere nè nei demoni, nè negli Dei, nè negli eroi, questo mi pare
veramente impossibile.
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XVI - IL DOVERE DELL'UOMO
A questo punto, o Ateniesi, io credo di non avere bisogno più oltre per dimostrare che l'accusa
di Melèto è del tutto infondata: le ragioni da me addotte penso che siano più che sufficienti. E
voi sapete bene, per averlo io dianzi ricordato, quanto odio e inimicizia tale accusa mi ha
procurato. E quest'odio mi perderà, se pur mi potrà perdere; non certo Melèto o Anito, ma la
calunnia e la malvagità dei molti, che hanno già perduto, e perderanno ancora, altri valenti
uomini; nè sarò certo io l'ultimo.
Se a questo punto, qualcuno mi dicesse: -Ma non ti vergogni, o Socrate, d'esserti dato
un'occupazione, tale per la quale ora ti sei messo a rischio di morire? -io così risponderei a buon
diritto: -Hai torto, amico, se stimi che un uomo di qualche valore debba tenere in conto la vita e
la morte. Egli nelle sue azioni deve unicamente considerare se ciò che fa sia giusto o ingiusto e
se si comporta da uomo onesto o da malvagio. Secondo il tuo ragionamento, sarebbero da
stimare poco quei semidei e tutti gli altri che sono morti davanti a Troia, e particolarmente il
figlio di Tetide, il quale preferì affrontare la morte piuttosto che il disonore. Quando infatti la
madre, che era Dea, disse press'a poco così a lui che ardeva di uccidere Ettore: "O figlio, se tu
vendicherai la morte del tuo amico Patroclo e ucciderai Ettore, anche tu morrai dopo di lui,
poiché tale è il corso del destino", egli tenne in così poco conto il pericolo e la morte, piuttosto
che vivere da vile e non vendicare l'amico, che rispose così: "Possa io subito morire dopo aver
inflitto il castigo al colpevole, anziché rimanere qui a ludibrio presso le ricurve navi, inutile peso
alla terra". Credi tu forse, o amico, che egli si sia curato della morte e del pericolo?
Questa è la verità, o Ateniesi: ovunque un uomo si sia posto, giudicando questo il suo meglio, o
dovunque si sia posto da colui che lo comanda, ivi egli deve restare, qualunque sia il pericolo da
affrontare, non tenendo in alcun conto nè la morte nè altro in confronto della vergogna.
XVII - SOCRATE NON ABBANDONERA' MAI LA SUA MISSIONE
Ed io sarei stato ben colpevole, o Ateniesi, se a Potidea, ad Anfipoli, a Delio non avessi
affrontato la morte e non fossi rimasto là dove i comandanti da voi scelti mi avevano ordinato
di combattere. Ed ora che Dio mi ha assegnato un posto di combattimento, così almeno io credo
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di dovere interpretare il suo volere, posto di combattimento che è quello di vivere filosofando,
esaminando me e gli altri, sarebbe veramente cosa grave se io, per paura della morte o d'altro,
disertassi il campo. Allora sì che mi si dovrebbe tradurre davanti ai giudici per non avere
creduto agli Dei, disubbidendo all'oracolo, temendo la morte e reputandomi sapiente, senza
esserlo.
Giacché, o Ateniesi, il temere la morte altro non è che parere sapienti senza esserlo, cioè a dire
credere di sapere ciò che si ignora; poiché nessuno sa se la morte, che l'uomo teme come se
conoscesse già che è il maggiore di tutti i mali, non sia invece per essere il più gran bene. E non
è la più vituperevole ignoranza quella che consiste nel credere di sapere ciò che non si sa? Ed
io, o Ateniesi, proprio in questo forse mi differenzio dalla più parte degli uomini, e se c'è cosa
per la quale io affermo di essere più sapiente di ogni altro è questa: che così come io non so
nulla di ciò che ci attende nell'Ade, così anche credo di non saperne. Ma una cosa so di certo:
che il fare ingiustizia e disobbedire a un nostro superiore, sia esso Dio o uomo, è cosa cattiva e
vergognosa. Giammai dunque io temerò nè fuggirò quello che non so se sia un bene, ma
piuttosto il male che so essere tale.
E se voi ora mi assolveste, non prestando fede alle accuse di Anito, il quale anzi ha detto che
bisognava che Socrate non comparisse affatto davanti ai giudici o, se vi fosse comparso, era
necessario pronunziare una condanna a morte perché diversamente i vostri figli, seguendo gli
insegnamenti di Socrate, si sarebbero corrotti totalmente, se voi dunque mi assolveste dicendo
così: -Socrate, noi non vogliamo dare retta ad Anito; ti assolviamo, ma ad una condizione: che
tu non abbia a continuare nella tua ricerca, nè a dedicarti più oltre alla filosofia; se ti
coglieremo ancora, morrai,- ebbene, o Ateniesi, se per mandarmi assolto mi poneste questa
condizione, io allora così vi risponderei: -O Ateniesi, io ho per voi venerazione e affetto, ma
debbo obbedire a Dio piuttosto che a voi, e finché avrò un soffio di vita e le forze me lo
concederanno, non cesserò di filosofare, di esortarvi e di ammonire chiunque mi capiterà.
E così parlerò a lui come è mio costume e gli dirò: -O mio ottimo amico, tu che sei Ateniese,
cittadino d'una città che è la più grande e la più famosa d'ogni altre per la sua scienza e per la
sua potenza, non ti vergogni, tu che ti prendi tanta cura delle tue ricchezze perché si
moltiplichino, della tua reputazione e del tuo onore, di non darti affatto della sapienza, della
verità e dell'anima perché questa divenga quanto più può migliore? -E se qualcuno mi oppone
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che egli ne ha ben cura, non lo lascerò andare così presto, nè me n'andrò via, ma lo
interrogherò, lo esaminerò, lo confuterò, e se mi accorgerò che egli non possiede affatto la
virtù, come dice, lo riprenderò perché ha vile le cose di maggior conto e apprezza invece le più
spregevoli.
Così io continuerò a comportarmi con chiunque mi avvenga di incontrarmi, giovane o vecchio,
cittadino o forestiero, ma più con voi miei concittadini che mi siate più vicini per nascita.
Giacché, sappiatelo bene, è questo che mi ha comandato Dio, e credo che nessun bene
maggiore abbia la vostra città che questo mio zelo a servire Dio, sollecitando voi, giovani e
vecchi, a non prendervi cura nè del corpo nè delle ricchezze più che dell'anima perché divenga
quanto migliore possibile, giacché non dalla ricchezza deriva la virtù, ma dalla virtù la ricchezza
e ogni altro bene ai cittadini e alla città. E se dicendo questo io corrompo i giovani, allora
diciamo pure che il mio parlare è nocivo, ma nessuno affermi che io insegno cose diverse,
poiché affermerebbe il falso.
Ascoltatemi dunque bene, o Ateniesi: diate retta ad Anito o no, mi assolviate o no, state pur
certi che io non muterò la mia condotta, dovessi morire cento volte.
XVIII - E' INTERESSE DEGLI ATENIESI RISPARMIARE SOCRATE
(A questo punto l'Assemblea schiamazza).
Non date in schiamazzi, o Ateniesi, e non protestate per quel che dico, ma ascoltatemi in
silenzio come ebbi a pregarvi, perché penso che ne potrete trarre profitto. Altre cose ho da dirvi
che vi faranno gridare più forte; state dunque quieti, vi prego.
Sappiate dunque che se condannate a morte me, che così vi parlo per il vostro bene, più che a
me recherete danno a voi stessi. A me, infatti, nessun danno possono recare Melèto e Anito
perché non potrebbero, convinto come sono che un uomo migliore non può ricevere danno da
uno peggiore. Essi potrebbero bene uccidermi, mandarmi in esilio, privarmi dei diritti politici,
reputando tali cose, i più grandi mali; ma io non li reputo tali. Per me male è fare quello che fa
costui: tentare di uccidere ingiustamente un uomo.
Ecco perché, o Ateniesi, io non intendo difendermi per me stesso, come potrebbe pensare
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qualcuno, ma per voi, perché, condannandomi, non abbiate a peccare contro Dio, disprezzando
il dono che Egli vi ha dato. Se mi ucciderete, infatti, -lasciate pur che ve lo dica anche a rischio
di darvi pretesto al riso- voi non troverete tanto facilmente un uomo posto da Dio a tutela della
città come in groppa a un cavallo grande e generoso, ma incline, per la sua stessa grandezza,
alla pigrizia, per cui ha bisogno d'essere stimolato dagli sproni. Questo è infatti l'ufficio a cui
Dio mi ha destinato nella città, perché standovi addosso tutto il giorno, abbia a stimolarvi, ad
esortarvi, a correggervi. Un uomo siffatto non lo riavrete più tanto facilmente; e se mi date
retta, mi risparmierete. Invece voi, come gente che sonnecchia ancora se svegliata, presi da
subitanea ira, darete ascolto ad Anito e mi ucciderete così alla leggera, consumando la
rimanente vita nel sonno, a meno che Dio, prendendo cura di voi, non abbia a mandarvi qualche
altro.
E che io sia stato inviato alla città come un dono di Dio, lo potete desumere dal fatto che non è
cosa umana che io abbia trascurato per tanti anni i miei interessi personali e quelli della mia
famiglia per occuparmi soltanto di voi come un padre o un fratello maggiore perché coltivaste
la virtù. E si potrebbe ancora capire se tutto ciò lo avessi fatto per ricavarne qualche vantaggio
personale o qualche remunerazione in denaro; ma voi vedete bene che gli accusatori, pur
attribuendomi spudoratamente tante colpe, non sono stati spudorati fino al punto da addurre
un solo testimone che affermasse d'avere io percepito o chiesto mai denaro. Ma io invece ho un
testimonio della verità di ciò che dico: la mia povertà.
XIX - PERCHE' SOCRATE SI E' ASTENUTO DAL PARTECIPARE ALLA VITA POLITICA
Una cosa però può sembrarvi strana, ed è che io mi affanni tanto a dare consigli in privato e
non osi invece pubblicamente, in cospetto del popolo, dare consigli alla città. La ragione di ciò
l'avete spesso udita da me ad ogni piè sospinto, e cioè che avverto in me un non so che di
divino e di soprannaturale, come una voce di cui Melèto, prendendosi gioco, ha fatto cenno
nell'accusa. E' una voce che sento dentro di me fin da fanciullo e tutte le volte che l'avverto mi
distoglie da ciò che sto per fare, ma non mi sollecita mai a fare qualche cosa. E' essa che
s'oppone a ciò ch'io m'immischi nella vita politica; e credo bene, a ragione.
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Giacché, sappiate o Ateniesi, se io mi fossi già da tempo dato alla vita politica, già da tempo
sarei morto, e non avrei recato alcun vantaggio nè a voi, nè a me. E non andate in collera se
dico la verità: non vi è infatti nessuno che possa evitare la morte per poco che egli per generoso
impulso contrasti a voi o a qualsivoglia altra assemblea, e tenti di impedire alla città ingiustizie
e illegalità. Chi combatte per la giustizia, anche se non riuscirà a preservarsi a lungo dalla
morte, è necessario che conduca una vita di privato cittadino, lontano dai pubblici uffici.
XX - SOCRATE CONFERMA CON ESEMPI LA SUA DIRITTURA DI CARATTERE
E di ciò potrò addurvi io stesso concrete testimonianze; non di parole, ma di fatti, che voi certo
apprezzerete di più. Ascoltate dunque quel che m'avvenne, perché possiate da voi stessi
constatare come io non sia uomo da cedere contro giustizia a nessuno per paura della morte; e
vedrete che, così comportandomi, mi perderò sicuramente. Io vi dirò forse cose importune e
curialesche, ma profondamente vere.
Io non ho mai tenuto nella città, o Ateniesi, nessuna Magistratura: fui solamente membro del
Consiglio. Avvenne che la mia tribù Antiochide si trovasse a tenere la Pritania quando voi
volevate sottoporre a giudizio tutti insieme i dieci strateghi che non avevano recuperato i
naufraghi e i morti della battaglia navale. Ciò era illegale, e voi stessi in seguito l'avete
riconosciuto. Tuttavia, allora, io solo dei Pritani mi opposi perchè non fosse violata la legge; e
votai contro. E già gli oratori erano pronti ad accusarmi, a farmi arrestare, e voi stessi li
incoraggiavate con i vostri schiamazzi. Ciononostante, io stimai che era mio dovere affrontare il
pericolo standomene dalla parte della legge e della giustizia piuttosto che associarmi a voi
nell'ingiustizia per timore del carcere e della morte.
Ciò avvenne al tempo in cui la città si reggeva ancora a democrazia. Allorché vi si stabilì
l'oligarchia, i Trenta tiranni mi mandarono a chiamare nella Tholo insieme con altri quattro e ci
ordinarono di andare ad arrestare a Salamina Leonte il Salaminio perché fosse messo a morte;
e simili ordini essi dettero a molti altri ancora con l'intendimento di associare ai loro crimini più
cittadini che fosse possibile. In tale circostanza io dimostrai, non con parole ma con fatti, che
della morte non m'importa proprio un bel nulla - scusatemi l'espressione alquanto grossolana;
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ma ciò che maggiormente m'importa è di non commettere cosa ingiusta ed empia. Né quel
governo, per quanto violento fosse, riuscì ad incutermi tanta paura da farmi commettere un
delitto. Infatti, quando uscimmo dalla Tholo, i quattro miei compagni andarono a Salamina e
condussero via Leonte; io invece me n'andai a casa. E forse avrei pagato con la vita un tale
gesto se quel governo non fosse stato rovesciato di lì a poco. E di questi fatti molti sono i
testimoni.
XXI - SOCRATE NON E' STATO MAESTRO DI NESSUNO E NON HA QUINDI CORROTTO I SUOI
CONCITTADINI
Ed ora, credete voi che io avrei vissuto questi miei lunghi anni se mi fossi dato alla politica,
sostenendo, come si conviene a un uomo onesto, la giustizia e ponendola al di sopra di tutto?
Tutt'altro, o Ateniesi! Nè io nè alcun altro ci sarebbe riuscito. E tutta la mia vita, sia nelle
funzioni pubbliche che per caso ho esercitato che nelle mie private faccende, testimonia che mi
sono sempre mostrato tale da non concedere mai a nessuno cosa alquanto contraria alla
giustizia chiunque egli fosse, fosse pure uno di quelli che i miei calunniatori dicono i miei
discepoli.
Io poi non fui mai maestro di nessuno: se qualcuno, giovane o vecchio, ha desiderato di
ascoltarmi quando parlavo ed attendevo ad esplicare la mia missione, io non glielo ho mai
impedito. Non sono stato di quelli che parlano solo con chi li paga e allontanano chi non paga;
ma a ricchi e poveri indifferentemente io ho concesso di interrogarmi e di interloquire, se hanno
voluto, su ciò che m'avveniva di dire. E se poi alcuni di questi siano divenuti onesti e altri no
non si può certo dare la colpa a me, giacché io non ho mai promesso a nessuno di insegnare nè
ho mai insegnato dottrina alcuna. E se v'è qualcuno che dice di avere privatamente appreso o
udito da me cosa che altri non hanno udito nè appreso, sappiate che costui mente.
XXII - PERCHE' ALLORA NON LO ACCUSANO QUELLI CHE SONO STATI CORROTTI O I LORO
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PARENTI?
Ma perché mai allora prendono diletto a trascorrere il loro tempo con me? Io ve l'ho già detto, o
Ateniesi, con tutta franchezza: perché piace loro di vedermi esaminare quelli che si credono
sapienti e non lo sono. E in effetti non è cosa spiacevole. Quanto a me, io ho il dovere di
adempiere a questa missione commessami da Dio con vaticini, con sogni e con tutti quei modi
di cui un divino volere si serve per ordinare cosa alcuna ad un uomo.
Tutto ciò che dico, o Ateniesi, è la verità ed è facile darvene la prova. Giacché se è vero che io
continuo a corrompere i giovani, altri ne ho già corrotti; e costoro, essendo venuti ormai avanti
negli anni e riconoscendo che io ho dato loro quando erano giovani cattivi insegnamenti,
avrebbero dovuto oggi presentarsi qui per accusarmi e vendicarsi. E supponendo che non hanno
voluto farlo da sé, avrebbero potuto in loro vece farlo i loro familiari, padri, fratelli, congiunti
che siano, se mai si fossero accorti che io ho fatto del male a un loro parente; certo se ne
sarebbero ricordati e si sarebbero vendicati. Molti di loro sono qui presenti; io li vedo: primo fra
tutti Critone, mio coetaneo e del mio stesso demo, padre di Critobùlo qui presente; poi Lisània
di Sfetto, padre di Eschine, anche qui presente; e poi ancora Antifònte di Cefisia, padre di
Epìgene; ed altri ancora, i cui fratelli hanno trattato con me, Nicòstrato figlio di Teozòdite e
fratello di Teòdoto, il quale Teòdoto è morto e non può certo indurlo con il suo intervento a non
accusarmi; e Paràlio, figlio di Demòdoco, del quale era fratello Teage; e Adimànto, figlio di
Aristòne, di cui Platone, qui presente, è fratello; ed Eantodòro, del quale è presente il fratello
Apollodòro; e molti altri ancora potrei nominare. E bisognava bene che Melèto nel suo discorso
ne citasse qualcuno come testimonio; e se lo ha dimenticato, lo faccia adesso: lo autorizzo; ne
dica il nome, parli.
Invece, o Ateniesi, troverete tutto il contrario; troverete che tutti sono pronti ad aiutare me,
l'uomo che li ha corrotti, colui che ha pervertito i loro parenti, come dicono Melèto ed Anito. E'
forse vero che quelli che io ho corrotto davvero avrebbero motivo di aiutarmi; ma i non corrotti,
uomini già avanti negli anni, parenti loro, quale motivo hanno di aiutarmi se non la rettitudine e
la giustizia? Essi sanno benissimo che Melèto mente, mentre io dico la verità.
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XXIII - SOCRATE SI RIFIUTA DI IMPIETOSIRE I GIUDICI PERCHE' CIO' NON FAREBBE ONORE
A SE' E ALLA CITTA'
E credo che basti, o Ateniesi! Sono questi su per giù gli argomenti che potrei addurre in mia
discolpa e altri non dissimili.
E forse c'è qualcuno tra di voi che non approva affatto che io abbia a terminare qui la mia
difesa, ricordandosi che in circostanze analoghe, e per motivi meno gravi dei miei, ha pregato e
supplicato fra le lacrime i giudici, menando seco i figlioletti per meglio intenerirli e parenti e
amici in gran numero. Io invece non farò nulla di tutto questo, ancorché mi sembri evidente che
incombe su di me il pericolo estremo. E potrebbe ben darsi che costui, indispettito da questo
mio atteggiamento, deponesse il suo voto nell'urna sospinto da un moto di stizza.
Se c'è qualcuno quindi tra di voi così disposto verso di me - ed io non credo che ci sia - ma se
comunque ci fosse, così penserei di dovergli dire: -Mio ottimo amico, anch'io ho dei congiunti,
perché, come dice Omero, nè di quercia son nato nè di pietra, ma d'uomini; di conseguenza ho
anch'io parenti e figlioli: tre essi sono, uno giovanetto, due ancora fanciulli. Eppure non menerò
qui nessuno di loro e non supplicherò perché io venga assolto.
Perché non lo faccio? Non certo per orgoglio, o Ateniesi, o per dimostrarvi il mio disprezzo, Non
è qui questione se io abbia o no paura della morte, ma gli è perché stimo che il mio onore, il
vostro e quello dell'intera città sarebbero compromessi se mi comportassi così alla mia età e
con la reputazione che mi sono fatta, vera o falsa che sia, ma che comunque presenta Socrate
alla pubblica opinione come uno che si distingue in qualche cosa dalla maggior parte degli
uomini. Ora se quelli tra di voi che si distinguono per sapienza, per coraggio o per qualche altra
virtù si comportassero così, sarebbe certo una vergogna. E tuttavia ne ho visti molti, che pur
sembravano uomini eccellenti, comportarsi davanti ai giudici in modo così sconveniente da
destare meraviglia, credendo essi d'avere a soffrire chissà che cosa se morivano, come se, non
condannandoli voi a morte, avessero a rimanere immortali. Costoro hanno certo disonorato la
città perché hanno lasciato credere ai forestieri che in niente differiscono dalle donne quegli
uomini che in virtù dei loro meriti il popolo ateniese prepone alla magistratura e ad altri
onorifici incarichi.
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Non conviene dunque, o Ateniesi, fare tali cose a quanti di noi mostriamo di valere un poco, nè
a voi converrebbe tollerarle se le facessimo; dovreste anzi fare chiaramente intendere che
condannereste molto più gravemente colui che apparecchia tali scene pietose, rendendo
ridicola la città, che non colui che mantiene un contegno dignitoso.
XXIV - SOCRATE VUOLE CHE I GIUDICI GIUDICHINO SECONDO LEGGE E NON SECONDO PIETA'
D'altronde, lasciando da parte la questione dell'onore, non mi sembra giusto, o Ateniesi,
pregare il giudice, nè tentare di sfuggire alla condanna con le preghiere, bensì informarlo dei
fatti e persuaderlo. Giacché il giudice non siede per amministrare secondo favore la giustizia,
ma per giudicare secondo giustizia. Egli ha giurato infatti di non favorire a suo capriccio il tale o
il tal altro, ma di giudicare secondo le leggi. Non dobbiamo dunque nè abituarvi noi a non
tenere fede al giuramento, nè voi abituarvi da voi stessi; giacché non saremmo nè noi nè voi
rispettosi degli Dei.
Non vogliate dunque, o Ateniesi, che io faccia davanti a voi tali cose, che non giudico nè belle,
nè giuste, nè sante; tanto più, per Giove, che sono accusato di empietà da questo Melèto qui.
Infatti, se io persuadessi voi a forza di preghiere e facessi violenza al vostro giuramento, vi
insegnerei a non credere agli Dei; e proprio nel cercare di difendermi così mi accuserei
chiaramente da me stesso, dimostrando che non credo negli Dei. Ma non è così; io credo, o
Ateniesi, negli Dei, come nessuno dei miei accusatori; e lascio a voi e a Dio la cura di giudicarmi
nel modo che sarà meglio per me e per voi.
PARTE SECONDA
SOCRATE E' GIUDICATO COLPEVOLE
XXV - SOCRATE FA ALCUNE RIFLESSIONI SULLA SENTENZA
Per molte ragioni non provo sdegno alcuno per voi, o Ateniesi, se mi avete giudicato colpevole,
tanto più che me l'aspettavo; anzi mi meraviglio non poco del numero dei voti riscossi dall'una
e dall'altra parte poiché non mi aspettavo certo che vi sarebbe stata una sì piccola differenza:
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pensavo invero che ve ne sarebbe stata una molto maggiore. Quindi, a quel che risulta, bastava
uno spostamento di trenta voti perché io sfuggissi alla condanna.
Ma anche così sono egualmente sfuggito a Melèto; non solo, ma è anche manifesto che se egli
non avesse avuto l'appoggio di Anito e Licone sarebbe stato condannato a pagare un'ammenda
di mille dracme per non aver ottenuto la quinta parte dei voti.
XXVI - LA PENA CHE SOCRATE SI ASSEGNA: ESSERE MANTENUTO NEL PRITANEO
Costui dunque propone per me la pena di morte. E sia. Ma io, o Ateniesi, per conto mio, che
pena mi assegnerò? E' chiaro: quella che merito. Ma quale? Che pena o che ammenda io merito
per avere sempre creduto mio dovere rinunziare alla mia tranquillità, non curarmi di ciò che sta
a cuore alla maggior parte degli uomini: fortuna, interessi privati, comandi militari, successi
oratori, magistrature, congiure, sedizioni? Per avere giudicato me degno di maggiore
reputazione non immischiandomi in simili occupazioni, anche se mi avessero procurato
salvezza, che, immischiandomi, non giovare nè a voi nè a me? Per essermi volto là dove recare
potevo a ciascuno di voi privatamente il maggior beneficio possibile, cercando di persuaderlo a
non avere cura delle sue cose prima che di se stesso, affinché divenisse quanto più possibile
buono e saggio, nè delle cose della città prima che della città, e così a regolarsi in tutte le altre
faccende?
Quale pena io merito dunque, o Ateniesi, per essermi comportato in tal modo? Non pena, ma
premio, o Ateniesi, se debbo assegnarmi quel che in verità merito; e un premio che mi sia
appropriato. E che cosa è appropriato a un povero e pur benefico uomo, il quale ha bisogno di
non dovere attendere ad altro che ad esortarvi al bene? Nulla gli si addice più che di essere
mantenuto nel Pritaneo, molto di più che se alcuno di voi avesse vinto col cavallo o con la
quadriga nei giochi olimpici: poiché quello che vi fa parere felici, io invece faccio che lo siate
davvero; quello inoltre non ha bisogno d'essere mantenuto, io sì. Se devo dunque assegnarmi
quel che merito, questo mi assegno: essere mantenuto nel Pritaneo.
XXVII - SOCRATE NON HA FATTO TORTO A NESSUNO E PERCIO' NON PUO' PROPORSI ALCUNA
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PENA
Forse penserete che queste mie parole siano dettate da quello stesso sentimento di orgoglio cui
feci cenno parlandovi delle lagrime e delle supplicazioni. No, o Ateniesi, non è così! Piuttosto è
che io sono persuaso di non avere mai fatto torto a nessuno volontariamente; ma di questo non
riesco a persuadere voi, giacché è poco tempo che conversiamo insieme. Se presso di voi fosse
una legge, come è presso altri popoli, che imponesse di non terminare in un sol giorno un
processo di condanna a morte ma in più giorni, sarei certo riuscito a persuadervi. Invece in così
poco tempo non è facile dissipare così grandi calunnie.
Convinto quindi di non avere fatto torto a nessuno, tanto meno voglio fare torto a me stesso col
riconoscermi degno di patire la pena e assegnarmela da me stesso. E per quale timore dovrei
fare ciò? Per timore forse della pena che Melèto ha proposto per me, e che io non so se sia un
bene o un male? Per scegliermi in cambio una pena che so essere sicuramente un male? Dovrei
propormi forse la pena del carcere? E perchè mai dovrei vivere in prigione, schiavo della
magistratura degli Undici? Fissarmi allora un'ammenda e stare in carcere, perché denari non ne
ho? Propormi l'esilio? Forse voi l'accettereste.
Ma dovrei essere davvero preso da una cieca brama di vivere, o Ateniesi, se fossi così
irragionevole da non comprendere che se voi, nonostante concittadini miei, non siete riusciti a
tollerare la mia compagnia e i miei discorsi, divenuti tanto gravi ed odiosi da liberarvene, non
riusciranno certo a tollerarli gli altri. E quale vita menerei io a quest'età, passando da una città
all'altra, sempre d'ogni parte cacciato via? Perché so bene che dovunque andrò io terrò gli
stessi discorsi e i giovani, come succede qui, mi ascolteranno. E se provassi ad allontanarli da
me, loro stessi mi farebbero bandire dalla città, intercedendo presso gli anziani; se invece li
richiamassi a me, mi caccerebbero via i loro padri e parenti preoccupati per i loro figli.
XXVIII - SOCRATE PUO' PROPORRE PER SE' TUTT'AL PIU' L'AMMENDA DI UNA MINA
D'ARGENTO
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A questo punto qualcuno potrebbe dirmi: -Ma non sei capace, Socrate, andato che sei in esilio,
di vivere tranquillo tacendo? - Ecco ciò di cui mi pare veramente difficile persuadere alcuno di
voi. Se vi dico che ciò per me è disubbidire a Dio e che, di conseguenza, io non posso
astenermene, voi non mi credete e pensate che parli con ironia. Tanto meno mi crederete se vi
dico che il più gran bene per un uomo è fare ogni dì ragionamenti intorno alla virtù e ad altri
argomenti su cui mi avete udito parlare ed esaminare me e gli altri; e se aggiungo ancora che
una vita senza esame non merita di essere vissuta, voi mi crederete ancora meno. Tuttavia, o
Ateniesi, questa è la verità: solamente non è facile persuadervene.
D'altro canto io non sono capace d'assuefarmi all'idea di assegnarmi una qualsiasi pena.
Ciononostante, se avessi del denaro, mi multerei per un'ammenda tale da poterla pagare:
perché non me ne verrebbe danno. Ma non ne ho. A meno che non vi contentiate di quel tanto
che posso pagare: una mina d'argento. Ebbene propongo per me dunque come ammenda una
mina.
Platone qui presente, o Ateniesi, e con lui Critone, Critòbulo e Apollòdoro insistono perché io
proponga un'ammenda di trenta mine di cui si rendono garanti. Ebbene, io mi multo di tanto.
Voi avete in loro garanti degni di ogni fiducia.
PARTE TERZA
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SOCRATE E' CONDANNATO A MORTE
XXIX - SOCRATE PARLA AI GIUDICI CHE HANNO VOTATO LA SUA CONDANNA A MORTE
Ecco dunque, o Ateniesi, che per non avere voluto attendere ancora un poco avete dato adito a
coloro che vogliono recare offesa alla città di accusarvi di avere ucciso Socrate, uomo sapiente;
perché sapiente mi diranno, anche se non lo sono, allo scopo di diffamarvi. Mentre, se aveste
atteso un po' di tempo ancora, la morte sarebbe venuta da sè. Guardate infatti la mia età, come
è già lontana dalla vita e prossima alla morte. E questo io dico non a tutti voi, ma solo a quelli
che hanno votato la mia condanna. E a questi io voglio dire ancora una cosa.
Forse voi pensate, o Ateniesi, che io sono stato condannato per mancanza di quei tali abili
discorsi con i quali avrei potuto persuadervi se io avessi creduto che era necessario dire e far di
tutto pur di scampare alla condanna. Niente affatto! Ciò che mi è venuto a mancare non sono
stati gli argomenti, bensì l'audacia e l'impudenza e la volontà di non dire cose che vi sarebbero
state gradevolissime ad udire, piangendo e lamentandomi e facendo altre cose indegne di me,
ma alle quali altri vi avevano abituati. E come poco fa non credetti di fare cosa indegna per
paura del pericolo, così ora non mi pento di essermi difeso così; anzi preferisco assai più
volentieri essermi così difeso, e morire, che difendermi in quell'altro modo, e vivere. Giacché nè
in tribunale, nè in guerra conviene a nessuno di noi far di tutto pur di sfuggire alla morte. Certo
che in battaglia si scamperebbe a volte alla morte se si gettassero le armi o se ci si volgesse
supplichevoli agli inseguitori; ed egualmente in tutti gli altri pericoli si potrebbe in molti modi
sfuggire alla morte se si fosse disposti a dire o fare cosa indegna.
Ma considerate bene, o Ateniesi, che il difficile non è evitare la morte quanto piuttosto evitare
la malvagità, che ci viene incontro più veloce della morte. Ed ora io, come tardo e vecchio, sono
stato raggiunto da quella che è più tarda ; i miei accusatori, invece, come più gagliardi e veloci,
da quella che è più veloce, la malvagità. Ed ora io me ne vado da qui condannato da voi a
morire; costoro invece condannati dalla verità ad essere malvagi e ingiusti. Io accetto la mia
pena, questi la loro. Doveva forse essere così, e penso che così sia bene.
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XXX - IL VATICINIO DI SOCRATE AI GIUDICI CHE HANNO VOTATO PER LA CONDANNA A
MORTE
Ed ora a voi che mi avete condannato voglio fare una predizione poiché, essendo prossimo alla
morte, mi trovo in quel momento della vita in cui è dato agli uomini vaticinare meglio.
A voi dunque che avete votato la mia morte io dico che, appena avrò cessato di vivere, cadrà
sopra di voi castigo molto più grave, per Giove, che non quello che mi avete inflitto,
uccidendomi. Condannandomi, voi avete infatti creduto di liberarvi dal rendere ragione della
vostra vita; ma io vi assicuro che vi succederà tutto il contrario, perché si leveranno contro di
voi molto più numerosi gli accusatori, che io trattenevo senza che voi ve ne accorgeste, ed essi
vi riusciranno tanto più aspri e importuni in quanto sono più giovani. Giacché, se pensate,
uccidendo uomini, di trattenere alcuno dal rimproverarvi la non diritta vita, pensate
stoltamente: non è questo un rimedio nè possibile, nè bello; di gran lunga migliore e più
agevole sarebbe invece quello di non recare danno agli altri, ma procurare di rendere se stessi
quanto più buoni possibile.
E con questo vaticinio io prendo congedo da coloro che hanno votato la mia morte.
XXXI - I GIUDICI CHE HANNO VOTATO PER L'ASSOLUZIONE SI CONFORTINO: LA MORTE PER
SOCRATE E' UN BENE
Con quelli invece che hanno votato per la mia assoluzione mi tratterrei volentieri ancora un
poco a parlare su una cosa che m'è avvenuta, mentre i Magistrati sono occupati e si attende che
mi portino là dove io debbo morire. Vogliate dunque rimanere con me per questo tempo ancora
che ci è concesso, giacché nulla vieta che ci si intrattenga a conversare. Voglio, infatti, mostrare
a voi, come ad amici, che significa mai quello che m'è ora avvenuto.
Dunque, o giudici, - e bene a ragione vi chiamo giudici - m'è avvenuta una cosa meravigliosa: la
solita voce profetica, quella del demone, che fin'oggi io ho udito molto frequentemente
contrariarmi anche in piccole cose se non stavo per far bene ora invece che, come voi vedete,
mi succedono cose ben più importanti, che si crederebbero e si credono mali estremi, non mi ha
contrariato nè stamane, quando sono uscito di casa, nè quando sono venuto da voi in tribunale,
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nè mentre pronunziavo la mia difesa, qualunque cosa fossi io per dire, nonostante altre volte mi
avesse fermato la parola a mezzo. Qualunque cosa, insomma, io stessi per dire o per fare
durante l'intero processo, tale voce mai mi contrariò.
Che cosa debbo dunque arguire? Ve lo dirò: mi pare, cioè, che quel che è avvenuto a me sia un
bene, e quanti di noi pensano che il morire sia un male, pensano stoltamente. E la prova è che il
segno consueto non poteva non contrariarmi se stavo per fare cosa che non fosse buona.
XXXII - LA MORTE E' IN OGNI CASO E PER CHIUNQUE UN BENE
Cerchiamo anche per altra via di vedere come c'è molto da sperare che la morte sia un bene.
Morire infatti è una delle due cose: o è un precipitare nel nulla, per cui il morto non ha più
sentimento di alcuna cosa; o è, secondo che si dice, un transito e una trasmigrazione dell'anima
da questo luogo ad un altro.
Se è un precipitare nel nulla e un cessare di ogni sensazione, quasi come un sonno in cui nulla si
vede, neppure il sogno, gran guadagno allora è la morte. Se si considera infatti una di quelle
notti in cui si è dormito profondamente senza nulla vedere, neanche lo stesso sogno, e si
raffronta alle altre notti e giorni della propria vita e si dovesse decidere, dopo aver riflettuto,
per stabilire quante notti e giorni si sono vissuti meglio e più dolcemente di quella, immagino
che non solo l'uomo comune, ma lo stesso grande Re in persona, troverebbe queste ben poco
numerose rispetto alle altre. Se tale dunque è la morte, gran guadagno essa è, perché allora
l'infinito tempo è una sola e unica notte.
Se poi la morte è una trasmigrazione da qui ad altro luogo, ed è vero quel che si dice, cioè che
là dimorano tutti i morti, qual bene, o giudici, potremmo noi allora aspettarci maggiore di
questo? Se, giungendo nell'Ade, dopo esserci liberati da questi qua che si danno il nome di
giudici, si troveranno i veri giudici, quelli che anche là giudicano, Minosse, Radamànto, Eaco e
Trittolèmo e tutti gli altri semidei che in vita furono giusti, sarebbe forse da disprezzare tale
trasmigrazione? O al contrario, non sarebbe essa di tal valore da pagare qualsiasi prezzo pur di
potere conversare con Musèo, Orfeo, Esiodo e Omero?
Quanto a me, se tali cose sono vere, preferirei morire mille volte. Oh! quale meravigliosa
conversazione sarebbe la mia quando mi imbattessi in Palamede e Aiace il telamonio e in
qualche altro dei tempi antichi morto per ingiusto giudizio! Raffronterei la mia sorte alla loro; e
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ciò penso sarebbe per me motivo di dolcezza. E soprattutto amerei trascorrere il tempo ad
esaminare ed interrogare quelli di là, come sono solito esaminare questi di qua, per scoprire chi
di loro è sapiente e chi invece crede di esserlo e non lo è affatto. Quanto, infatti, non
pagherebbe ciascuno di voi, o giudici, per interrogare colui che guidò l'esercito contro Troia, o
Ulisse, o Sisifo, o tanti altri uomini e donne che potrei nominare? Quale inesprimibile
beatitudine sarebbe parlare con loro, vivere in loro compagnia, esaminarli! Non avverrebbe di
certo, a causa di codesto esame, che quelli di là mi uccidessero, poiché oltre ad essere per
molte ragioni più felici di noi, sono ormai immortali per tutto il restante tempo, se è vero ciò
che si dice.
XXXIII - L'UOMO GIUSTO NON HA NULLA DA TEMERE DALLA MORTE
E dovete sperare bene anche voi, o giudici, dinanzi alla morte e credere fermamente che a colui
che è buono non può accadere nulla di male, nè da vivo né da morto, e che gli Dei si
prenderanno cura della sua sorte. Quel che a me è avvenuto ora non è stato così per caso,
poiché vedo che il morire e l'essere liberato dalle angustie del mondo era per me il meglio. Per
questo non mi ha contrariato l'avvertimento divino ed io non sono affatto in collera con quelli
che mi hanno votato contro e con i miei accusatori, sebbene costoro non mi avessero votato
contro con questa intenzione, ma credendo invece di farmi del male. E in questo essi sono da
biasimare.
Tuttavia io li prego ancora di questo: quando i miei figlioli saranno grandi, castigateli, o
Ateniesi, tormentateli come io ho tormentato voi se vi sembrano di avere più cura del denaro o
d'altro piuttosto che della virtù; e se mostrano di essere qualche cosa senza valere nulla,
svergognateli come ho fatto io con voi per ciò che non curano quello che conviene curare e
credono di valere quando non valgono nulla. Se farete ciò, avremo avuto da voi ciò che era
giusto avere, io e i miei figli.
Ma vedo che è tempo ormai di andar via, io a morire, voi a vivere. Chi di noi avrà sorte migliore,
occulto è a ognuno, tranne che a Dio.
BIBLIOGRAFIA WEB http://www.polesine.com/pagine/cultura/filosofia/a003-1.htm
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Platone
Simposio
Apollodoro:
Credo proprio di essere ben preparato per soddisfare la vostra curiosità. L'altro giorno, infatti,
venivo in città da casa mia, al Falero, quando uno che conosco, dietro di me, mi chiama da
lontano in tono scherzoso:
"Ehi tu, del Falero, Apollodoro, mi aspetti un momento?"
Mi fermo e l'aspetto. E quello:
"Apollodoro, t'ho cercato ovunque. Volevo domandarti dell'incontro di Agatone, di Socrate, di
Alcibiade e degli altri che erano con loro al simposio, e così sapere quali discorsi lì si son fatti
sull'amore. Mi ha già raccontato qualcosa un altro, che ne aveva sentito parlare da Fenice, il
figlio di Filippo; mi ha detto che tu eri al corrente di tutto, ma lui, purtroppo, non poteva dir
niente di preciso. E quindi ti prego, racconta: nessuno meglio di te può riportare i discorsi del
tuo amico. Ma dimmi, per cominciare: eri presente a quella riunione o no?"
"Si vede bene - rispondo io - che quel tizio non ti ha raccontato niente di preciso, se credi che la
riunione che ti interessa sia avvenuta da poco, e io abbia potuto parteciparvi."
"Io credevo così."
"Ma com'è possibile, Glaucone? Sono molti anni - non lo sai? - che Agatone manca da Atene. E
poi sono passati meno di tre anni da quando io frequento Socrate e sto attento tutti i giorni a
quello che dice e che fa. Prima me ne andavo di qua e di là, credendo di fare chissà che cosa, ed
ero invece l'essere più vuoto che ci sia, come te adesso, che credi che qualsiasi occupazione
vada meglio della filosofia."
"Non mi prendere in giro - disse - e dimmi piuttosto quando c'è stata quella riunione."
"Noi eravamo ancora dei ragazzini - gli rispondo -. Fu quando Agatone vinse il premio con la sua
prima tragedia, il giorno successivo a quello in cui offrì, con i coreuti, il sacrificio in onore della
sua vittoria".
"Ma allora son passati molti anni. E a te chi ne ha parlato? Socrate stesso?"
"No, per Zeus, - dico io - ma la stessa persona che l'ha raccontato a Fenice, un certo
Aristodemo, del distretto di Cidateneo, uno mingherlino, sempre scalzo. C'era anche lui alla
riunione: era uno degli ammiratori più appassionati di Socrate, allora, a quel che sembra. Io poi
non ho certo mancato di chiedere a Socrate su ciò che avevo sentito da Aristodemo: e lui stesso
mi ha confermato che il suo racconto era esatto."
"E allora racconta, presto. La strada per la città sembra fatta apposta per chiacchierare, mentre
andiamo."
Ed eccoci dunque in cammino, parlando di queste cose: è per questo che sono così preparato,
come v'ho detto all'inizio, per parlarne adesso. Se dunque questo racconto deve essere fatto
anche a voi, son ben felice di farlo. Del resto, quando parlo io di filosofia, o altri ne parlano in
mia presenza, provo la gioia più grande. Al contrario, quando sento parlare certe persone, e
soprattutto i ricchi, i banchieri, quelli che parlano d'affari, la gente come voi, allora mi annoio e
ho anche un po' pena per voi, che credete di fare chissà cosa e invece fate cose che non valgono
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niente. Da parte vostra, del resto, mi giudicate un poveretto, e forse lo sono davvero. Ma che
siate voi dei poveretti, questo non lo sapete affatto, e io invece lo so.
Amico di Apollodoro:
Sei sempre lo stesso, Apollodoro. Dici sempre male di te e degli altri. Tu hai l'aria di pensare
che, Socrate a parte, tutti gli altri siano dei poveretti, a cominciare da te stesso. Da dove ti
viene il soprannome di "Tranquillo", proprio non si sa. Tu non cambi proprio mai: ce l'hai
sempre con te stesso e con tutti gli altri, a parte Socrate.
Apollodoro:
Ma carissimo, non è evidente? Questa opinione che ho di me e degli altri non prova forse
quanto sia folle, quanto deliri?
Amico di Apollodoro:
Dai, Apollodoro, non val la pena adesso di star qui a litigare. Fa' piuttosto quel che ti abbiamo
chiesto e raccontaci: che discorsi si fecero quella notte?
Apollodoro:
E va bene, ti racconterò più o meno cosa si disse. Ma forse è meglio che parta dall'inizio e cerchi
di rifare per voi, a mia volta, il racconto di Aristodemo.
Incontrai Socrate, mi disse, che usciva dal bagno e si era messo dei sandali, contro le sue
abitudini. Gli domandai dove andasse, visto che si era fatto così bello. E lui mi rispose:
"Vado a cena da Agatone. Ieri alla festa in onore della sua vittoria me ne son venuto via, perché
mi dava fastidio tutta quella gente. Ma ho accettato di andar da lui oggi e così mi son fatto
bello: voglio esser bello per andare da un bel giovane. E tu? Che ne pensi di venire anche se non
sei stato invitato?"
Io risposi:
"Ai tuoi ordini!"
"Allora seguimi, mi disse. Per questa volta faremo una piccola modifica al proverbio e diremo
che le persone per bene vanno a cena senza invito dalle persone per bene. Del resto anche
Omero non solo l'ha modificato questo proverbio, ma ha quasi rischiato di capovolgerlo.
Rappresenta Agamennone come un guerriero di prim'ordine e Menelao come un guerriero
senza coraggio; ma poi al pranzo offerto da Agamennone dopo un sacrificio ci fa vedere che
arriva anche Menelao, che viene alla festa senza esser stato invitato: l'uomo che val poco che
va al festino di un uomo valoroso!".
E a questo Aristodemo mi disse di aver risposto così:
"Allora corro proprio un bel rischio, ma non per quel che dici tu, Socrate; credo piuttoso di
essere, come in Omero, il pover'uomo che si presenta senza invito dal grand'uomo. Vedrai tu
che mi ci porti quali scuse trovare, perché io non dirò certo di non essere stato invitato, dirò che
mi hai invitato tu".
"Due che vanno insieme, mi rispose, l'uno provvede all'altro: e allora andiamo, che per via
penseremo a cosa dire".
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"E con questo proposito, mi disse, ci mettemmo in cammino. Ma Socrate, concentrato nei suoi
pensieri, rimaneva indietro. Quando l'aspettavo, mi diceva di andar pure avanti. Arrivo da
Agatone, la porta è aperta e mi trovo subito in una situazione un po' comica: uno schiavo mi
viene incontro dalla casa e mi porta nella sala dove gli altri avevano già preso posto, già pronti
per la cena. Mi vede Agatone e mi dice:
"Aristodemo, arrivi al momento gusto per cenare con noi. Se sei venuto per qualcos'altro,
rimanda tutto a più tardi, perchè ieri ho cercato di invitarti ma non t'ho trovato. E Socrate? non
è con te?"
Allora mi volto, mi disse Aristodemo, e non lo vedo più. Non mi era dietro. Spiego dunque di
essere venuto con Socrate, e che era stato lui ad invitarmi alla cena.
"Ben fatto, disse Agatone. Ma lui dov'è?"
"Era dietro a me sino ad un'istante fa! dove può essere finito?"
"Ragazzo, disse allora Agatone ad un servo, va ben a vedere dov'è Socrate e portalo da noi. Tu
Aristodemo intanto prendi posto su questo divano a fianco d'Erissimaco".
E raccontava che mentre un domestico gli lava i piedi per potersi stendere sul divano, un altro
arriva dicendone una nuova:
"Questo Socrate di cui parlate s'è rintanato nel vestibolo dei vicini, ed è fermo là; ho avuto un
bel chiamarlo, non è voluto venire".
"Certo che è ben strano, disse Agatone. Ritorna subito a chiamarlo e non lasciarlo lì".
"Non fate niente, dissi io, lasciatelo là piuttosto. E' un'abitudine che ha quella di mettersi in un
angolo, non importa dove, e di restare là dov'è. Verrà presto, penso; non disturbatelo, lasciatelo
tranquillo".
"E va bene, facciamo così, disse Agatone, se lo dici tu! Quanto a noi, ragazzi portateci da
mangiare. Voi portate sempre da mangiare quel che vi pare, quando non c'è nessuno a
controllare - cosa che io peraltro non ho mai fatto nella mia vita! Ma oggi, fate finta che io e i
miei amici siamo vostri invitati e portateci il meglio, tanto da meritare i nostri complimenti!"
E così, disse Aristodemo, eccoci a tavola, ma Socrate non veniva. Agatone insisteva tutti i
momenti per mandarlo a chiamare, ma io lo fermavo. Alla fine arrivò, diciamo verso la metà del
pranzo, senza essersi poi fatto troppo aspettare, come spesso faceva. Allora Agatone, che si
trovava da solo sull'ultimo divano, gli disse subito:
"Vieni qui, Socrate, mettiti accanto a me, che io possa apprendere subito per contatto diretto i
tuoi pensieri là nel vestibolo; a qualcosa devono pure aver condotto le tue riflessioni, se no
saresti ancora là".
Socrate si siede e fa:
"Sarebbe una buona cosa, Agatone, se i pensieri potessero scivolare da chi ne ha più a chi ne ha
meno per contatto diretto, quando siamo accanto, tu ed io; come l'acqua che, attraverso un
filtro, passa dalla coppa più piena alla più vuota. Se è così, voglio subito mettermi al tuo fianco,
perché la tua grande e bella saggezza possa riempire la mia coppa. Che per la verità è un po'
così, incerta come un sogno, mentre la tua sapienza è limpida e può sfavillare ancora di più, lei
che ha brillato con lo splendore della tua giovinezza e ier l'altro ha fatto faville davanti a più di
trantamila greci, che prendo tutti a miei testimoni!"
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"Che fai, mi prendi in giro, Socrate?, disse Agatone. Sulla saggezza faremo i conti più tardi, te
ed io, e prenderemo Dioniso a nostro giudice. Ma intanto pensiamo a cenare".
E così, disse Aristodemo, Socrate prese posto sul divano. Dopo aver cenato, e gli altri con lui, e
dopo aver fatto le libagioni, i canti in onere del dio e le cerimonie d'uso, ci si preparò a bere. Fu
Pausania, allora, a prendere la parola per dire più o meno così:
"Carissimi, come si fa adesso a bere senza star male? io, ve lo dico subito, non mi sento troppo
bene dopo la festa di ieri, perché ho bevuto un po' troppo e vorrei andarci piano stasera; del
resto voi dovreste essere più o meno tutti nelle mie condizioni, perché c'eravate anche voi ieri.
Allora, come possiamo fare per bere senza star male?"
Intervenne Aristofane:
"Ben detto, Pausania. Ti do proprio ragione, anch'io vorrei andarci piano a bere perché sono di
quelli che ieri sera hanno forse un po' esagerato!"
A queste parole, disse Aristodemo, intervenne Erissimaco, il figlio di Acumeno:
"Avete ragione, disse, ma sentiamo gli altri: tu che ne dici, Agatone, hai ancora la forza di
bere?"
"Per nulla, rispose, non ce la faccio proprio".
"A quanto sembra, disse Erissimaco, è proprio una fortuna per tutti - per me, per Aristodemo,
per Fedro, per tutti quanti - che voi, i migliori bevitori, dobbiate adesso rinunciare, perché noi
non ce la faremmo a starvi dietro. Farei un'eccezione per Socrate: è tanto bravo a bere che a
non bere, per lui andrà sempre bene, qualunque cosa decidiamo. E, visto che nessuno qui mi
sembra disposto a bere del gran vino, forse riuscirò a non essere sgradito a nessuno dicendovi
la verità sull'ubbriachezza. Come medico devo subito dirvi che è evidente che ubriacarsi fa
male. Del resto io non mi sento portato a bere fuori misura, né a consigliare ad un altro di farlo,
soprattutto se ha la testa ancora pesante per il giorno prima".
Poi intervenne Fedro, quello di Mirrinunte:
"Quanto a me, io ti credo sempre se parli di medicina, ma oggi ti crederanno tutti, se non son
matti".
Queste parole furono ascoltate e all'unanimità si decise che non si sarebbe passata la serata ad
ubiacarsi e che ciascuno avrebbe bevuto quanto si sentiva.
"E dunque, riprese Erissimaco, visto che siamo d'accordo che ciascuno beva quanto vuole,
senza nessun obbligo, io proporrei adesso di congedare la nostra giovane flautista che è appena
entrata: per stasera suoni da sola o, se lo desidera, per le donne di casa. Noi, invece, passeremo
la serata chiacchierando. Di cosa possiamo parlare? Io quasi quasi un'idea ce l'avrei, se volete
ve la dico".
Tutti furono d'accordo, disse Aristodemo, e chiesero a Erissimaco di fare la sua proposta. Questi
riprese dicendo:
"Parlerò, per cominciare, alla maniera della Melanippe di Euripide, "perché non son mie queste
parole", che adesso vi dirò, ma di Fedro, che è lì. Lui mi dice sempre, tutto indignato: "Non è
strano, Erissimaco, che per tutti gli altri dèi vi siano inni e peana composti dai poeti e che in
onore dell'Eros, un dio così potente, così grande, non vi sia stato ancora un solo poeta, tra tutti,
che abbia composto il più piccolo elogio? Prendi, se vuoi, i sofisti di fama: scrivono in prosa
l'elogio di Eracle, e d'altri ancora, come ha fatto l'ottimo Prodico. Ma c'è di peggio. Non mi è
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capitato l'altro giorno di vedere il libro di un sapiente che faceva l'elogo del sale, per la sua
utilità? Ed altre cose dello stesso genere, lo sappiamo, sono state fatte oggetto di elogio. Ci si è
data molta pena di trattare di parecchi argomenti, ma l'Eros, lui non ha trovato ancora nessuno
sino ad ora che abbia avuto il coraggio di onorarlo come merita! Ecco come ci si dimentica di un
grande dio!" Ebbene, io credo che su questo Fedro abbia ragione. Desidero dunque, da parte
mia, portare il mio contributo onorandolo, facendo qualcosa che gli sia gradito; adesso quindi
potremmo fare tutti un elogio di questo dio. Se siete d'accordo, avremmo così un argomento
senza alcun dubbio davvero assai interessante con cui passare il nostro tempo. Potremmo,
cominciando da sinistra verso destra, fare un elogio dell'Eros, il più bell'elogio di cui siamo
capaci. Fedro parlerà per primo, perché è al primo posto ed è allo stesso tempo il padre di
quest'idea".
"Nessuno, mio caro Erissimaco, disse Socrate, voterà contro la tua proposta. Non sarò io ad
oppormi, che dichiaro subito di non saper nulla di nulla, ma dell'Eros son proprio esperto; non
Agatone o Pausania, e certo neppure Aristofane, che non si occupa d'altro che di Dioniso e di
Afrodite, né gli altri che vedo qui stasera. Certo il compito è più difficile per noi che occupiamo
gli ultimi posti. Ma se quelli che parlano prima di noi lo faranno davvero bene, ne saremo
soddisfatti. Che Fedro cominci, con i nostri auguri! che faccia l'elogio dell'Eros!".
Furono subito tutti d'accordo e tutti si unirono all'invito di Socrate. Aristodemo non si ricordava
più esattamente ciò che ciascuno disse e io stesso non ricordo più bene ciò che lui mi raccontò.
Le cose più importanti, o quel che a me è sembrato più degno di essere ricordato, adesso ve lo
riporterò nella forma in cui ciascuno l'ha detto.
E così, secondo Aristodemo, il primo a parlare fu Fedro, cominciando il suo discorso più o meno
in questi termini:
"E' un gran dio l'Eros, un dio che merita tutta l'ammirazione degli uomini e degli dèi per diverse
ragioni, non ultima la sua origine. E' annoverato tra i più antichi dèi, e questo, aggiunse, è un
onore. Di questa antichità abbiamo una prova: l'Eros non ha né padre né madre, e nessuno, né
in poesia né in prosa, glielo ha mai attribuito. Esiodo ci dice che innanzitutto vi fu il Caos, "e la
Terra dall'ampio seno, / sicura sede per tutti i viventi e l'Eros...". E, in accordo con Esiodo,
anche Acusilao dice che dopo il Caos sono nati questi due esseri, la Terra e l'Eros. Quanto a
Parmenide, parlando della generazione dice che "di tutti gli dèi, l'amore fu il primo che la dea
partorì". Così c'è ampio accordo nel dire che l'Eros è uno degli dèi più antichi.
Essendo così antico, è per noi la sorgente dei più grandi beni. Per me, io lo affermo, non c'è più
grande bene nella giovinezza che avere un amante virtuoso e, se si ama, trovare eguale amore
in chi si ama. Infatti i sentimenti che devono guidare per tutta la vita gli uomini destinati a
vivere nel bene non possono ispirarsi né alla nobiltà della nascita né agli onori né alla ricchezza,
né a null'altro: devono ispirarsi ad Eros. Ora, mi chiedo, quali sono questi sentimenti? La
vergogna per le cattive azioni, l'attrazione per le azioni belle. Senza questo, nessuna città,
nessun individuo potranno far mai nulla di grande e di buono. Così, io lo dichiaro, un uomo che
ama, se sorpreso in flagrante a commettere un'azione malvagia o a subire per vigliaccheria,
senza difendersi, una grave offesa, soffrirà certamente se a scoprirlo saranno suo padre o i suoi
amici o chiunque altro; ma soffrirà molto di più se a scoprirlo sarà il suo amante. Ed è lo stesso
per l'amato: è davanti al suo amante, noi lo sappiamo bene, che egli sentirà la più grande
vergogna, quando sarà sorpreso a fare qualcosa di cui vergognarsi. Se esistesse un mezzo per
mettere insieme una città o un esercito fatti solo da amanti e dai loro amici, essi si darebbero
certamente il miglior governo che ci sia: allontanerebbero infatti da loro tutto ciò che è cattivo
e rivaleggerebbero sulla via dell'onore. E se questi amanti combattessero l'uno di fianco
all'altro potrebbero vincere, per così dire, il mondo intero, anche se fossero soltanto un piccolo
gruppo, perché sarebbero molto uniti tra loro. Infatti per un innamorato sarebbe più
intollerabile abbandonare i ranghi o gettare le armi sotto gli occhi del suo amante che sotto gli
occhi del resto dell'esercito; preferirebbe piuttosto morire cento volte. Quanto ad abbandonare
chi si ama, a non aiutarlo in caso di pericolo, nessuno è così vigliacco che l'Eros non riesca a
ispirargli una forza divina rendendolo eguale a quelli che per natura hanno grande coraggio.
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Esattamente come in Omero il dio viene a ispirare l'ardore per la battaglia a certi eroi, così
l'Eros fa questo dono agli innanmorati, ed essi lo accettano da lui.
Meglio ancora: morire per l'altro. Soltanto gli amanti accettano questo, non solo gli uomini, ma
anche le donne. La figlia di Pelia, Alcesti, ha dato ai Greci un esempio chiarissimo di ciò che
dico. Soltanto essa acconsentì a morire per il suo sposo, che pure aveva un padre e una madre.
La sua figura si eleva così in alto su di loro per la forza nata dal suo amore da farli apparire
estranei al loro stesso figlio, senza altro legame con lui che il nome. Avendo agito in questo
modo, il suo gesto è sembrato bellissimo, non solo agli uomini ma anche agli dèi. Essi
concedono davvero a pochi il privilegio di richiamare in vita la loro anima dal fondo dell'Ade,
una volta morti. Ebbere fra tanti eroi, autori delle più belle azioni, concessero questo privilegio
proprio ad Alcesti ricordandosi del suo gesto che avevano tanto ammirato. A tal punto gli dèi
onorano la dedizione e il coraggio al servizio dell'Eros. Al contrario essi mandarono via dall'Ade
Orfeo, figlio di Eagro, senza ottenere nulla: gli mostrarono soltanto un'immagine della donna
per la quale era venuto, senza concedergliela. La sua anima, infatti, sembrava loro debole,
perché altri non era che un suonatore di cetra; non aveva avuto il coraggio di morire, come
Alcesti, per il suo amore, ma aveva cercato con tutti i mezzi di penetrare da vivo nel regno dei
morti. E' certamente per questa ragione che essi gli hanno inflitto questa punizione e hanno
fatto in modo che morisse per mano delle donne. Non hanno agito nello stesso modo con
Achille, il figlio di Teti: l'hanno trattato con onore, aprendogli la via per le isole dei beati. Achille
infatti, avvertito dalla madre che sarebbe morto se avesse ucciso Ettore, e sarebbe invece
tornato al suo paese finendo i suoi giorni da vecchio se non lo avesse fatto, scelse con coraggio
di restare al fianco di Patroclo, il suo amante, vendicandolo: scelse non di morire per salvarlo,
perché era già stato ucciso, ma di seguirlo sulla via della morte. Così gli dèi, pieni di
ammirazione, gli hanno tributato onori eccezionali, per aver posto così in alto il suo amante.
Eschilo scherza quando pretende che Achille sia l'amante di Patroclo: Achille era più bello non
soltanto di Patroclo, ma anche di tutti gli altri eroi messi insieme; era un ragazzo, non aveva
ancora la barba, ed era quindi assai più giovane di Patroclo, come dice Omero. Così se gli dèi
onorano soprattutto questo particolare tipo di coraggio che si mette al servizio dell'amore, essi
ammirano, stimano, ricompensano ancor di più la tenerezza del'amato per l'amante che quella
dell'amante per i suoi amati. L'amante, infatti, è più vicino al dio dell'amato, perché un dio lo
possiede. Ecco perché gi dèi hanno onorato Achille più che Alcesti, aprendogli la via per le isole
dei beati.
Ecco dunque, io lo dichiaro, l'Eros è tra gli dèi il più antico e il più degno, ha i maggiori titoli per
guidare l'uomo sulla via della virtù e della felicità, sia in vita che nel regno del'aldilà"
Fu questo pressappoco, secondo Aristodemo, il discorso di Fedro. Dopo Fedro parlarono altri,
ma lui non si ricordava bene. Non me ne ha parlato e invece mi ha riportato il discorso di
Pausania, che si espresse in questi termini:
"Io credo, Fedro, che l'argomento sia mal posto quando ci si domanda semplicemente di fare
l'elogio dell'Eros. Se di Eros ve ne fosse uno solo, potrebbe anche andar bene. Ma non è così:
non ce n'è uno soltanto, e allora è bene prima spiegare di quale Eros dobbiamo tessere l'elogio.
Cercherò dunque, da parte mia, di chiarire le cose su questo punto, di precisare innanzitutto
quale amore si debba lodare e quindi pronuncerò un elogio che sia degno di questo dio.
Tutti sappiamo che non c'è Afrodite senza Eros. Se dunque non vi fosse che una Afrodite, non vi
sarebbe che un solo Eros. Ma essa è duplice, e quindi, necessariamente, abbiamo due Eros.
Come negare che esistano due dee? L'una, senza dubbio la più antica, non ha madre: è figlia di
Urano, e la chiamiamo quindi la dea del cielo, Afrodite Urania; l'altra, la più giovane, è figlia di
Zeus e di Dione, e la chiamiamo quindi la dea popolare, Afrodite Pandemia. E allora
necessariamente l'Eros che serve l'una dovrà chiamarsi Eros Pandemio, quello che serve l'altra
Eros Uranio. Certo, bisogna lodare tutti gli dèi; ma, detto questo, qual è il dominio dei due dèi?
E' questo che dobbiamo provare a dire.
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Ogni azione si caratterizza per questo, che in sé non è né bella né brutta. In quello che adesso
facciamo, bere, cantare, chiacchierare, non c'è nulla di bello in sé; è piuttosto il modo in cui si
compie un'azione a dar questo o quel risultato, e così seguendo le regole della bellezza e della
rettitudine un'azione diventa bella, al contrario senza rettitudine diventa brutta. E lo stesso
avviene per l'atto d'amore, e quindi non tutto l'amore è bello e degno di elogio: lo è soltanto
quello che porta ad amare bene.
Ora l'Eros compagno di Afrodite Pandemia certo è volgare e opera a casaccio: è proprio degli
uomini da poco. Intanto queste persone si innamorano sia delle ragazze che dei ragazzi,
indifferentemente; e poi amano i corpi, non l'anima, e preferiscono le persone meno
intelligenti: vogliono arrivare dritto al loro scopo, non gl'importa il modo - che sia bello o
brutto. Capita quindi che si imbattano nel bene, e capita anche il contrario. Come è ovvio,
questo Eros si unisce alla più giovane delle due dee, che sin dal suo concepimento partecipa sia
del maschile che del femminile. L'altro Eros, invece, partecipa dell'Afrodite Urania che da
sempre è estranea all'elemento femminile e partecipa soltanto del maschile; e poi è la più
antica e non conosce alcun impulso brutale. Per questa ragione quanti sono ispirati da questo
Eros sono attratti dall'elemento maschile: essi amano teneramente il sesso per natura più forte
e intelligente. E proprio da questa inclinazione ad innamorarsi dei ragazzi si possono
riconoscere quanti sono posseduti con purezza da questo Eros, perché essi non amano i giovani
prima che abbiano dato prova d'intelligenza. Ora, questo è impossibile che accada prima che i
giovani siano abbastanza grandi da avere la prima barba. E' questa l'età, io credo, in cui è bene
cominciare a rivolgere ad essi attenzioni d'amore, per restare poi con loro per tutta la vita, per
legare le proprie esistenze, piuttosto che abusare della credulità di un giovane sciocco, farsi
gioco di lui e piantarlo poi per correre dietro ad un altro. Ci vorrebbe una legge che proibisse di
amare i ragazzi troppo giovani: così non si sprecherebbero tante cure per un risultato
imprevedibile. Non è infatti possible prevedere che cosa ne sarà di un ragazzino, se avrà vizi o
virtù sia nel corpo che nell'anima. L'uomo che vale si pone senza dubbio da sé, e di buon grado,
questa legge. Ma bisognerebbe anche che chi coltiva amori volgari abbia un limite, simile a
quello che nella misura del possibile è imposto dalla legge che impedisce di avere relazioni
d'amore con donne di condizione non servile. Sono proprio questi amanti volgari, infatti, che
hanno screditato l'Eros e dato a certuni il coraggio di dire che è una vergogna cedere ad un
amante. Chi dice questo, lo fa perché ha davanto agli occhi la mancanza di tatto e di onestà di
questi amanti volgari, mentre nessun gesto al mondo merita d'essere criticato quando la
convenienza e la legge sono rispettate.
Ancora di più: la regola di condotta, per quel che concerne l'Eros, è facile da comprendere nelle
altre città, perché la sua definizione è semplice. Nell'Elide, presso i Beoti, e nelle altre città in
cui i cittadini non sono abili nel far grandi discorsi, la regola ammessa è semplice: è un bene
cedere agli amanti e nessuno, giovane o vecchio, dirà mai che c'è da vergognarsi. Il fine, credo,
è di evitare l'imbarazzo di dover convincere i giovani con la parola, perché non sono gran
parlatori. Nella Ionia, al contrario, e in diverse altre zone, la regola dice che questo non va
bene: sono paesi dominati dai Barbari. Presso i Barbari, infatti, a causa dei loro regimi tirannici,
il giudizio comune è che ci sia da vergognarsi a cedere a un amante: lo stesso giudizio si dà per
l'amore per il sapere e per l'esercizio fisico. Senza dubbio, ai loro capi non conviene che
nascano grandi intelligenze tra i sudditi, e neppure grandi amicizie e società saldamente unite,
come in effetti l'Eros, più di ogni altra cosa al mondo, sa produrre. Di questo hanno fatto
esperienza anche i tiranni qui da noi: l'amore di Aristogitone e l'amicizia di Armodio, sentimenti
solidi, hanno distrutto il loro potere. Così là dove si ritiene che ci sia da vergognarsi a cedere a
un amante, questa convinzione è nata dalla debolezza morale della gente: desiderio di dominio
presso i capi, vigliaccheria presso i sudditi. Là invece dove la regola ammette in tutta semplicità
che è cosa buona, essa è nata per la pigrizia dell'animo di quella gente.
Presso di noi la regola è molto più bella e, come ho detto, non è facile da comprendere. C'è da
rifletterci, in effetti: è più bello, si dice, amare apertamente piuttosto che in segreto, e
soprattutto amare i giovani di nascita migliore e di meriti più alti, anche se meno belli di altri; di
più, chi è innamorato è straordinariamente incoraggiato da tutti, e nessuno pensa che faccia
qualcosa di cui vergognarsi: il successo è il suo onore, lo scacco è la sua vergogna; e nei
tentativi di conquista la regola elogia gli amanti per delle stravaganze che esporrebbero alle
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critiche più severe chiunque osasse comportarsi così per altri scopi. Supponiamo infatti che uno
voglia ottenere del denaro da qualcuno, che voglia esercitare una magistratura, o una qualsiasi
funzione importante: se accetta di fare ciò che fanno gli amanti per i loro amati - assillarli con
preghiere e suppliche, pronunciare grandi giuramenti, dormire dietro le loro porte, abbassarsi
volontariamente ad ogni sorta di schiavitù che nessuno schiavo accetterebbe di buon grado ebbene tutto questo gli sarà impedito sia dai suoi amici che dai suoi nemici: questi gli
rimprovereranno la sua adulazione e la sua bassezza, quelli lo faranno ragionare e arrossiranno
per lui. Queste cose, invece, sono ben viste per l'innamorato e la nostra regola non le critica
affatto: sono qualcosa che si sta ad ammirare. E la cosa più strana è, secondo il detto popolare,
che lui solo può giurare e ottenere grazia davanti agli dèi se tradisce i suoi giuramenti: dinnanzi
ad Afrodite, a quanto si dice, nessun giuramento vale. Così gli dèi e gli uomini danno agli
innamorati una libertà totale: lo dice la nostra regola. E questo porta a pensare che la regola
nella nostra città giudichi cose perfette la bellezza e l'amore, e l'amicizia che ricompensa gli
amanti. Ma quando d'altra parte i padri fanno sorvegliare dai pedagoghi i loro figlioli
innamorati, in modo che non possano parlar d'amore con i loro amanti; quando i giovani della
loro età, i loro amici, li rimproverano per il loro amore; quando gli adulti non si oppongono a
queste critiche e non le biasimano come fuori luogo; allora se si considera tutto questo si
potrebbe credere, al contrario, che questo tipo di amore goda presso di noi di cattiva fama.
Ecco, io credo, come stanno le cose. La faccenda non è per nulla semplice, come ho già detto
all'inizio: in se stessa non è né bella né brutta. E' bella se le azioni sono belle, è brutta se le
azioni sono brutte. E' cosa brutta cedere ad un uomo cattivo e per cattivi motivi; è cosa bella
cedere ad un uomo di valore e per bei motivi. Ora chi si comporta male è, come prima dicevo,
l'amante volgare, che ama il corpo più che l'anima. Non ha costanza, perché l'oggetto del suo
amore è incostante. All'affievolirsi della bellezza del corpo che ama, egli "s'invola e va via ", e
tradisce senza vergogna alcuna tante belle parole, tante promesse. Ma chi ama il carattere di
una persona per le sue alte qualità, resta fedele tutta la vita perché il suo amore riposa su
qualcosa di costante. Le nostre regole si propongono di mettere gli uomini alla prova della
serietà e dell'onestà, perché si ceda agli uomini che valgono e si fuggano gli altri. Incoraggiano
quindi a sceglier bene tra il cedere e il fuggire, creando delle prove che permettano di
riconoscere di che natura sia l'amante, di che natura sia la sua anima. Su questo si fonda
evidentemente la massima: "a ceder subito c'è da vergognarsi". Più tempo passa, infatti, più si
ha la prova, sembra, della serietà dell'amore. Una seconda massima, poi, dice che c'è da
vergognarsi a cedere per denaro o per averne vantaggi politici, sia che ci si intimorisca di fronte
ad un'azione decisa, che rende incapaci di reagire, sia che non si respingano con sdegno le
lusinghe della ricchezza e del successo politico: niente di tutto ciò ha l'aria d'essere solido e
stabile, e dunque non può venirne alcuna generosa amicizia.
Non resta dunque, secondo la nostra regola, che una via onesta perché l'amato possa cedere
all'amante. Presso di noi la regola è la seguente: come tra gli amanti non c'è nulla di umiliante
nel far di se stessi degli schiavi consenzienti, secondo quella forma di schiavitù che prima
dicevo, e non c'è il rischio di essere criticati, nello stesso modo rimane una sola altra forma di
schiavitù volontaria che sfugga a ogni critica: quella che ha la virtù come proprio oggetto. La
nostra regola infatti dice questo, che se si accetta di essere al servizio di un altro pensando di
diventare migliori grazie a lui, nel sapere o in un'altra virtù, qualunque sia, questa servitù
liberamente accolta non ha niente di cattivo e non è umiliante. Bisogna dunque riunire in una
sola queste due regole, quella che riguarda l'amore verso i ragazzi e quella che riguarda l'amore
per il sapere o per tutte le altre forme di virtù, se vogliamo che si abbia un bene dal fatto che
l'amato ceda all'amante. Infatti quando le vie dell'amante e dell'amato si incontrano, ed essi
insieme seguono la stessa regola, il primo di rendere al suo amato tutti i servizi compatibili con
la giustizia, il secondo di dare all'uomo che cerca di farlo diventare saggio e buono tutte le
forme di assistenza compatibili con la giustizia - l'uno potendo contribuire a dare l'intelligenza e
tutte le forme di virtù, l'altro avendo bisogno di progredire nell'educazione e più in generale nel
sapere -, allora in verità quando queste regole convergono, e in questo caso solamente, questa
coincidenza fa sì che sia cosa bella che l'amato ceda all'amante. Altrimenti, è da escludere. Nel
bene, anche se chi cede è completamente vittima della situazione, non c'è alcun disonore, ma in
tutti gli altri casi, che si sia vittime o meno, c'è di che vergognarsi. Infatti se c'è qualcuno che
per arricchirsi ha ceduto a un'amante che crede ricco, e viene poi ingannato e non ottiene nulla,
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perché il suo amante si rivela povero, la cosa rimane riprovevole anche se si è una vittima. Un
simile uomo sembra mostrare il fondo della sua anima: per denaro si presta a tutto verso il
primo venuto, e questo non è affatto bello. Secondo lo stesso ragionamento se si cede a
qualcuno credendolo pieno di qualità e pensando di diventare migliori legandosi a questo
amante, e se in seguito ci si trova ingannati scoprendo la sua malvagità, quanto sia povero
nella virtù, ebbene chi è stato ingannato non ha nulla di cui vergognarsi. Anche in questo caso,
infatti, sembra rivelarsi la qualità dell'anima: la virtù e il progresso morale, in tutto e per tutto,
sono l'oggetto della propria passione - e questa è la cosa più bella che ci sia. Quindi è bellissimo
cedere, quando si cede per la virtù. Questo Eros viene dall'Afrodite Urania, ed è davvero divino
e prezioso per la città come per gli individui, perché esige dall'amante e dall'amato che
entrambi veglino su se stessi, per essere ricchi di virtù. Quanto agli altri, essi rivelano il legame
con l'altra dea, l'Afrodite Pandemia.
Ecco, mio caro Fedro: io non ho fatto che improvvisare; è questo il mio tributo per Eros".
Dopo la pausa di Pausania - uso questo gioco di parole sullo stile dei maestri della parola - era
venuto il turno di Aristofane, mi diceva Aristodemo. Ma caso volle che, o per la cena troppo
abbondante o per qualche altra ragione, avesse il singhiozzo e non ruscisse a parlare. Chiese
allora a Erissimaco, il medico, di parlare lui al posto suo:
"Bisogna, Erissimaco, o che tu fermi il mio singhiozzo, o che tu parli al mio posto in attesa che
mi passi".
"E va bene, rispose Erissimaco, farò l'uno e l'altro. Parlerò al tuo posto e tu parlerai al mio
quanto ti sarà passato il singhiozzo. Mentre parlo, se trattieni a lungo il respiro il tuo singhiozzo
si deciderà ad andarsene. Se non se ne va, fai dei gargarismi con dell'acqua. E se non se ne va
ancora, cerca qualcosa per solleticarti il naso e starnutire. Se lo farai una o due volte, per
quanto tenace sia il tuo singhiozzo, se ne andrà".
"A te parlare, dunque, disse Aristofane, io seguirò i tuoi consigli".
Allora Erissimaco prese la parola. "Io credo, Pausania, che dopo un buon inizio tu non abbia
risposto del tutto alle esigenze del soggetto trattato, ed è quindi necessario che io cerchi, da
parte mia, di completare il suo discorso. La tua distinzione tra i due tipi di amore mi sembra
eccellente. Ma essa non riguarda soltanto le anime degli uomini nei loro rapporti con le persone
belle; riguarda anche i rapporti tra altri oggetti d'amore, tra altri esseri, che si tratti dei corpi
degli animali o delle piante che la terra nutre: in una parola, tutti gli esseri viventi. La medicina,
la nostra arte, credo mi consenta questa osservazione. Essa permette di vedere che Eros è un
grande dio, un dio meraviglioso, e che la sua azione si estende su tutto, sia nell'ordine
dell'umano che del divino.
Comincerò dalla medicina, per fare onore alla mia arte. La natura dei corpi comporta un duplice
amore. Ciò che è sano nel corpo è ben diverso e dissimile da ciò che è malato, questo lo
ammettono tutti. Ora, il dissimile ama e desidera il dissimile: l'amore che è proprio della parte
sana è dunque diverso dall'amore che proprio della parte malata. Dunque, proprio come
Pausania diceva che è cosa bella accordare i propri favori agli uomini che se lo meritano ed è
cosa brutta cedere ai dissoluti, così quando si tratta dei corpi stessi favorire ciò che vi è di
buono e di sano in ciascuno è cosa bella e necessaria, ed è questo che chiamiamo medicina,
mentre bisogna rifiutarsi di favorire ciò che è malvagio e malsano, se si vogliono seguire le
regole dell'arte. La medicina infatti, se vogliamo definirla in una parola, è la scienza dei
fenomeni d'amore propri dei corpi, nei loro rapporti con il riempirsi e il vuotarsi, e chi da questi
fenomeni sa diagnosticare il buono e il cattivo amore, ebbene questi è il miglior medico. Chi sa
operare dei cambiamenti grazie ai quali si acquista un amore al posto dell'altro; chi sa far
nascere l'amore nei corpi in cui manca e sa eliminarlo quando è di troppo; ebbene costui è
dvvero padrone di quest'arte. Senza alcun dubbio. Il medico deve essere capace di ristabilire
l'amicizia e il mutuo amore tra gli elementi del corpo che più si odiano. Ora, gli elementi che più
si odiano sono quelli contrari: il freddo e il caldo, l'amaro e il dolce, il secco e l'umido, e così via.
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E' per avere saputo mettere l'amore e la concordia tra questi elementi che il nostro antico padre
Asclepio - a quel che dicono i nostri poeti, e io lo credo - è il fondatore della nostra arte.
La medicina è dunque, come dicevo, tutta quanta governata da questo dio. E questo vale anche
per la ginnastica e per l'agricoltura. Quanto alla musica, non occorre una grande riflessione per
vedere che è la stessa cosa. Senza dubbio è questo che vuol dire Eraclito, benché la sua
espressione non sia felice. Egli dichiara infatti che "l'uno in sé discorde con se stesso si accorda,
come l'armonia dell'arco e della lira."
Ora, è molto illogico affermare che l'armonia consiste in una opposizione o che essa è composta
da elementi che si oppongono ancora. Ma egli voleva forse dire che a partire da una
opposizione originaria, tra l'acuto e il grave, i due elementi in seguito si accordano e l'armonia
si realizza grazie alla musica. Infatti, se veramente l'acuto e il grave si opponessero ancora, non
si vede come potrebbe nascere l'armonia. L'armonia infatti è una consonanza, e una
consonanza è una sorta di accordo. Ora, l'accordo di elementi opposti, se permangono opposti,
è impossibile, e d'altro canto non può esserci armonia tra ciò che si oppone e non si accorda:
nello stesso modo il ritmo nasce dal rapido e dal lento, cioè da elementi all'inizio opposti che in
seguito si accordano. E come prima la medicina, adesso è la musica che introduce l'accordo tra
tutti questi elementi, creando amore reciproco e accordo. E dunque la musica è essa stessa,
nell'ordine dell'armonia e del ritmo, una scienza dei fenomeni dell'amore. Ora, se nella
costituzione dell'armonia e del ritmo i fenomeni dell'amore possono essere osservati
facilmente, questo accade perché non vi sono due specie d'amore. Ma quando per il pubblico si
eseguono ritmi e armonie, sia componendole (in quella che si chiama composizione musicale)
sia servendosi a seconda dei casi di composizioni melodiche o metriche composte da altri (in
quella che si chiama educazione musicale), allora la cosa diventa difficile e si ha bisogno di un
uomo del mestiere, che sia abile. Ecco allora tornare il discorso di prima: se bisogna cedere, è
bene farlo con uomini dai costumi ben regolati, proprio per migliorarsi quando ancora non si
hanno le stesse qualità; l'amore di questi uomini deve essere ben difeso e bisogna quindi
rivolgersi all'Eros bello, all'Eros Uranio, quello della Musa Urania. L'altro è quello di Polimnia,
l'Eros Pandemio, che bisogna offrire con prudenza a chi viene ad offrirlo a noi, in modo da
trarne piacere senza strafare; è come nella nostra arte, la medicina, che deve saper ben dosare
il gusto per la buona cucina, per imparare a goderne senza ammalarsi. Così dunque in musica,
in medicina, in tutto l'ordine delle cose divine e umane, è necessario proteggere nella misura
del possibile l'uno e l'altro amore, poiché vi si trovano entrambi.
Anche l'ordine delle stagioni dell'anno è riempito da questi due amori, e quando gli elementi di
cui parlavo prima - il caldo e il freddo, il secco e l'umido - incontrano nei loro reciproci rapporti
l'amore ben regolato, essi si armonizzano combinandosi nella giusta misura, allora portano
l'abbondanza e la sanità agli uomini, agli animali, alle piante, senza causare alcun danno. Ma
quando nelle stagioni dell'anno prevale l'amore senza misura, rovina ogni cosa ed è causa di
grandi disastri. La pestilenza, infatti, ha origine da questi fenomeni e così le più varie malattie
che aggrediscono animali e piante: gelo, grandine, i mali delle piante, provengono dal desiderio
senza limiti e misura nelle relazioni reciproche fra questi fenomeni, governate dall'amore. C'è
una scienza che tratta nello stesso tempo del movimento degli astri e delle stagioni dell'anno: si
chiama astronomia.
Tutti i sacrifici, poi, e tutto ciò che ha a che fare con la divinazione (cioè tutto ciò che mette in
comunicazione gli dèe e gli uomini) non hanno altro scopo che quello di proteggere l'amore e di
guarirlo. L'empietà nasce abitualmente dal non cedere all'amore ben regolato, dal non onorarlo,
dal non riverirlo con ogni propria azione, ma dall'onorare l'altro amore, nei rapporti sia con i
propri genitori, viventi o morti, sia con gli dèi. Questo è il compito assegnato alla divinazione:
sorvegliare coloro che amano e guarirli. Ed è ancora lei, la divinazione, che permette l'amicizia
tra gli dèi e gli uomini, perché essa conosce, nell'ordine degli umani, quei fenomeni d'amore che
tendono al rispetto degli dèi e alla pietà.
Questa è la molteplice, l'immensa o piuttosto l'universale potenza che è propria dell'Eros nella
sua universalità. E' lui ad agire, con moderazione e giustizia, per produrre delle opere buone,
sia tra noi che tra gli dèi, con la più grande potenza: ci procura ogni felicità e ci rende capaci di
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vivere in società, di legare con vincoli di amicizia gli uni con gli altri ed anche con quegli esseri a
noi superiori, gli dèi.
Anch'io, senza dubbio ho tralasciato alcune cose nel mio elogio dell'Eros, ma non l'ho fatto
apposta. Se ho dimenticato qualche punto, spetta a te, Aristofane, di colmare la lacuna. Però, se
ti proponi di lodare il dio in un altro modo, fai pure, visto che il tuo singhiozzo se n'è andato."
Allora, disse Aristodemo, Aristofane prese la parola:
"Il fatto è che se n'è sì andato, ma ho dovuto proprio applicare il tuo rimedio e starnutire. Non è
strano che il buon ordine del mio corpo abbia bisogno di rumori e di solletico per starnutire? Sta
di fatto, però, che il singhiozzo è passato appena ho starnutito!"
"Aristofane, amico mio, che dici?, riprese Erissimaco. Ci fai ridere un attimo prima di fare il tuo
discorso? Così mi costringi a sorvegliar bene le tue parole, che tu non abbia ad esser comico
proprio quando puoi parlare in tutta tranquillità".
"Aristofane si mise a ridere e disse:
"Hai ragione Erissimaco, ritiro tutto. Ma non mi sorvegliare. Nel discorso che farò, infatti, dovrò
dire non poche cose che faranno un po' ridere - e questo è un vantaggio, perché così la mia
Musa si troverà su un terreno familiare -, ma ho proprio paura di essere un po' preso in giro!"
"Eh, Aristofane, tu prima lanci una frecciatina poi te ne vuoi scappare, non è vero? Ma t'avverto,
parla piuttosto come un uomo che deve render conto di quel che dice! Sta' tranquillo, però, da
parte mia ti farò grazia, ma solo se vorrò!"
"A dir la verità, Erissimaco, - disse Aristofane -, ho intenzione di parlare diversamente da te e
da Pausania. Infatti mi sembra che gli uomini non si rendano assolutamente conto della
potenza dell'Eros. Se se ne rendessero conto, certamente avrebbero elevato templi e altari a
questo dio, e dei più magnifici, e gli offrirebbero i più splendidi sacrifici. Non sarebbe affatto
come è oggi, quando nessuno di questi omaggi gli viene reso. E invece niente sarebbe più
importante, perché è il dio più amico degli uomini: viene in loro soccorso, porta rimedio ai mali
la cui guarigione è forse per gli uomini la più grande felicità. Dunque cercherò di mostrarvi la
sua potenza, e voi fate altrettanto con gli altri.
Ma innanzitutto bisogna che conosciate la natura della specie umana e quali prove essa ha
dovuto attraversare. Nei tempi andati, infatti, la nostra natura non era quella che è oggi, ma
molto differente. Allora c'erano tra gli uomini tre generi, e non due come adesso, il maschio e la
femmina.
Ne esisteva un terzo, che aveva entrambi i caratteri degli altri. Il nome si è conservato sino a
noi, ma il genere, quello è scomparso. Era l'ermafrodito, un essere che per la forma e il nome
aveva caratteristiche sia del maschio che della femmina. Oggi non ci sono più persone di questo
genere.
Quanto al nome, ha tra noi un significato poco onorevole.
Questi ermafroditi erano molto compatti a vedersi, e il dorso e i fianchi formavano un insieme
molto arrotondato. Avevano quattro mani, quattro gambe, due volti su un collo perfettamente
rotondo, ai due lati dell'unica testa. Avevano quattro orecchie, due organi per la generazione, e
il resto come potete immaginare. Si muovevano camminando in posizione eretta, come noi, nel
senso che volevano. E quando si mettevano a correre, facevano un po' come gli acrobati che
gettano in aria le gambe e fan le capriole: avendo otto arti su cui far leva, avanzavano
rapidamente facendo la ruota. La ragione per cui c'erano tre generi è questa, che il maschio
aveva la sua origine dal Sole, la femmina dalla Terra e il genere che aveva i caratteri d'entrambi
dalla Luna, visto che la Luna ha i caratteri sia del Sole che della Terra. La loro forma e il loro
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modo di muoversi era circolare, proprio perché somigliavano ai loro genitori. Per questo
finivano con l'essere terribilmente forti e vigorosi e il loro orgoglio era immenso. Così
attaccarono gli dèi e quel che narra Omero di Efialte e di Oto, riguarda gli uomini di quei tempi:
tentarono di dar la scalata al cielo, per combattere gli dèi.
Allora Zeus e gli altri dèi si domandarono quale partito prendere. Erano infatti in grave
imbarazzo: non potevano certo ucciderli tutti e distruggerne la specie con i fulmini come
avevano fatto con i Giganti, perché questo avrebbe significato perdere completamente gli onori
e le offerte che venivano loro dagli uomini; ma neppure potevano tollerare oltre la loro
arroganza. Dopo aver laboriosamente riflettuto, Zeus ebbe un'idea. "lo credo - disse - che
abbiamo un mezzo per far sì che la specie umana sopravviva e allo stesso tempo che rinunci
alla propria arroganza: dobbiamo renderli più deboli. Adesso - disse - io taglierò ciascuno di essi
in due, così ciascuna delle due parti sarà più debole. Ne avremo anche un altro vantaggio, che il
loro numero sarà più grande. Essi si muoveranno dritti su due gambe, ma se si mostreranno
ancora arroganti e non vorranno stare tranquilli, ebbene io li taglierò ancora in due, in modo
che andranno su una gamba sola, come nel gioco degli otri." Detto questo, si mise a tagliare gli
uomini in due, come si tagliano le sorbe per conservarle, o come si taglia un uovo con un filo.
Quando ne aveva tagliato uno, chiedeva ad Apollo di voltargli il viso e la metà del collo dalla
parte del taglio, in modo che gli uomini, avendo sempre sotto gli occhi la ferita che avevano
dovuto subire, fossero più tranquilli, e gli chiedeva anche di guarire il resto. Apollo voltava
allora il viso e, raccogliendo d'ogni parte la pelle verso quello che oggi chiamiamo ventre, come
si fa con i cordoni delle borse, faceva un nodo al centro del ventre non lasciando che
un'apertura - quella che adesso chiamiamo ombelico. Quanto alle pieghe che si formavano, il
dio modellava con esattezza il petto con uno strumento simile a quello che usano i sellai per
spianare le grinze del cuoio. Lasciava però qualche piega, soprattutto nella regione del ventre e
dell'ombelico, come ricordo della punizione subìta.
Quando dunque gli uomini primitivi furono così tagliati in due, ciascuna delle due parti
desiderava ricongiungersi all'altra. Si abbracciavano, si stringevano l'un l'altra, desiderando
null'altro che di formare un solo essere. E così morivano di fame e d'inazione, perché ciascuna
parte non voleva far nulla senza l'altra. E quando una delle due metà moriva, e l'altra
sopravviveva, quest'ultima ne cercava un'altra e le si stringeva addosso - sia che incontrasse
l'altra metà di genere femminile, cioè quella che noi oggi chiamiamo una donna, sia che ne
incontrasse una di genere maschile. E così la specie si stava estinguendo. Ma Zeus, mosso da
pietà, ricorse a un nuovo espediente. Spostò sul davanti gli organi della generazione. Fino ad
allora infatti gli uomini li avevano sulla parte esterna, e generavano e si riproducevano non
unendosi tra loro, ma con la terra, come le cicale. Zeus trasportò dunque questi organi nel
posto in cui noi li vediamo, sul davanti, e fece in modo che gli uomini potessero generare
accoppiandosi tra loro, l'uomo con la donna. Il suo scopo era il seguente: nel formare la coppia,
se un uomo avesse incontrato una donna, essi avrebbero avuto un bambino e la specie si
sarebbe così riprodotta; ma se un maschio avesse incontrato un maschio, essi avrebbero
raggiunto presto la sazietà nel loro rapporto, si sarebbero calmati e sarebbero tornati alle loro
occupazioni, provvedendo così ai bisogni della loro esistenza. E così evidentemente sin da quei
tempi lontani in noi uomini è innato il desiderio d'amore gli uni per gli altri, per riformare l'unità
della nostra antica natura, facendo di due esseri uno solo: così potrà guarire la natura
dell'uomo. Dunque ciascuno di noi è una frazione dell'essere umano completo originario. Per
ciascuna persona ne esiste dunque un'altra che le è complementare, perché quell'unico essere è
stato tagliato in due, come le sogliole. E' per questo che ciascuno è alla ricerca continua della
sua parte complementare. Stando così le cose, tutti quei maschi che derivano da quel composto
dei sessi che abbiamo chiamato ermafrodito si innamorano delle donne, e tra loro ci sono la
maggior parte degl adulteri; nello stesso modo, le donne che si innamorano dei maschi e le
adultere provengono da questa specie; ma le donne che derivano dall'essere completo di sesso
femminile, ebbene queste non si interessano affatto dei maschi: la loro inclinazione le porta
piuttosto verso le altre donne ed è da questa specie che derivano le lesbiche. I maschi, infine,
che provengono da un uomo di sesso soltanto maschile cercano i maschi. Sin da giovani, poiché
sono una frazione del maschio primitivo, si innamorano degli uomini e prendono piacere a stare
con loro, tra le loro braccia. Si tratta dei migliori tra i bambini e i ragazzi, perché per natura
sono più virili. Alcuni dicono, certo, che sono degli spudorati, ma è falso. Non si tratta infatti per
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niente di mancanza di pudore: no, è i loro ardore, la loro virilità, il loro valore che li spinge a
cercare i loro simili. Ed eccone una prova: una volta cresciuti, i ragazzi di questo tipo sono i soli
a mostrarsi veri uomini e a occuparsi di politica. Da adulti, amano i ragazzi: il matrimonio e la
paternità non li interessano affatto - è la loro natura; solo che le consuetudini li costringono a
sposarsi ma, quanto a loro, sarebbero bel lieti di passare la loro vita fianco a fianco, da celibi. In
una parola, l'uomo cosiffatto desidera ragazzi e li ama teneramente, perché è attratto sempre
dalla specie di cui è parte.
Queste persone - ma lo stesso, per la verità, possiamo dire di chiunque - quando incontrano
l'altra metà di se stesse da cui sono state separate, allora sono prese da una straodinaria
emozione, colpite dal sentimento di amicizia che provano, dall'affinità con l'altra persona, se ne
innamoranc e non sanno più vivere senza di lei - per così dire - nemmeno un istante. E queste
persone che passano la loro vita gli uni accanto agli altri non saprebbero nemmeno dirti cosa
s'aspettano l'uno dall'altro. Non è possibile pensare che si tratti solo delle gioie dell'amore: non
possiamo immaginare che l'attrazione sessuale sia la sola ragione della loro felicità e la sola
forza che li spinge a vivere fianco a fianco. C'è qualcos'altro: evidentemente la loro anima cerca
nell'altro qualcosa che non sa esprimere, ma che intuisce con immediatezza. Se, mentre sono
insieme, Efesto si presentasse davanti a loro con i suoi strumenti di lavoro e chiedesse: "Che
cosa volete l'uno dalI'altro?", e se, vedendoli in imbarazzo, domandasse ancora: "Il vostro
desiderio non è forse di essere una sola persona, tanto quanto è possibile, in modo da non
essere costretti a separarvi né di giorno né di notte? Se questo è il vostro desiderio, io posso
ben unirvi e fondervi in un solo essere, in modo che da due non siate che uno solo e viviate
entrambi come una persona sola. Anche dopo la vostra morte, laggiù nell'Ade, voi non sarete
più due, ma uno, e la morte sarà comune. Ecco: è questo che desiderate? è questo che può
rendervi felici?" A queste parole nessuno di loro - noi lo sappiamo - dirà di no e nessuno
mostrerà di volere qualcos'altro. Ciascuno pensa semplicemente che il dio ha espresso ciò che
da lungo tempo senza dubbio desiderava: riunirsi e fondersi con l'altra anima. Non più due, ma
un'anima sola.
La ragione è questa, che la nostra natura originaria è come l`ho descritta. Noi formiamo un
tutto: il desiderio di questo tutto e la sua ricerca ha il nome di amore. Allora, come ho detto,
eravamo una persona sola; ma adesso, per la nostra colpa, il dio ci ha separati in due persone,
come gli Arcadi lo sono stati dagli Spartani. Dobbiamo dunque temere, se non rispettiamo i
nostri doveri verso gli dèi, di essere ancora una volta dimezzati, e costretti poi a camminare
come i personaggi che si vedono raffigurati nei bassorilievi delle steli, tagliati in due lungo la
linea del naso, ridotti come dadi a metà. Ecco perché dobbiamo sempre esortare gli uomini al
rispetto degli dèi: non solo per fuggire quest'ultimo male, ma anche per ottenere le gioie
dell'amore che ci promette Eros, nostra guida e nostro capo. A lui nessuno resista - perché chi
resiste all'amore è inviso agli dèi. Se diverremo amici di questo dio, se saremo in pace con lui,
allora riusciremo a incontrare e a scoprire l'anima nostra metà, cosa che adesso capita a ben
pochi. E che Erissimaco non insinui, giocando sulle mie parole, che intendo riferirmi a Pausania
e Agatone: loro due ci sono riusciti, probabilmente, ed entrambi sono di natura virile. Io però
parlo in generale degli uomini e delle donne, dichiaro che la nostra specie può essere felice se
segue Eros sino al suo fine, così che ciascuno incontri l'anima sua metà, recuperando l'integrale
natura di un tempo. Se questo stato è il più perfetto, allora per forza nella situazione in cui ci
troviamo oggi la cosa migliore è tentare di avvicinarci il più possibile alla perfezione: incontrare
l'anima a noi più affine, e innamorarcene.
Se dunque vogliamo elogiare con un inno il dio che ci può far felici, è ad Eros che dobbiamo
elevare il nostro canto: ad Eros, che nella nostra infelicità attuale ci viene in aiuto facendoci
innamorare della persona che ci è più affine; ad Eros, che per l'avvenire può aprirci alle più
grandi speranze. Sarà lui che, se seguiremo gli dèi, ci riporterà alla nostra natura d'un tempo:
egli promette di guarire la nostra ferita, di darci gioia e felicità.
Ecco, Erissimaco, questo è il mio discorso in onore di Eros. T'ho già pregato, non prendermi in
giro per quel che ho detto. Dobbiamo ancora ascoltare, non dimenticarlo, i discorsi degli altri, di
quelli che restano, Agatone e Socrate."
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Erissimaco, riferì Aristodemo, rispose così:
"Sì sì, farò proprio come dici tu, perché il tuo discorso mi è piaciuto molto e anzi, se non sapessi
che Socrate e Agatone sono gran maestri nelle cose d'amore, penserei quasi quasi che siano a
corto di argomenti, tante sono le cose che sono state dette. Ma ho piena fiducia in loro".
E Socrate allora disse:
"Dici così perché hai già fatto la tua parte, Erissimaco. Ma se fossi al mio posto, ora o peggio
ancora dopo il discorso di Agatone - che ti figuri se non sarà bellissimo -, avresti una gran paura
e saresti proprio in imbarazzo, come me in questo momento".
"Non mi fido mica di te Socrate, disse Agatone, tu vuoi farmi tremare all'idea che il nostro
pubblico sarà attentissimo e si aspetta da me un discorso stupendo".
"Ma Agatone, rispose Socrate, vuoi che mi dimentichi di tutte le volte che ti ho visto sul palco
coi tuoi attori, sicuro di te, mentre ti rivolgevi ad un gran pubblico per presentare una tua
opera? Non eri per niente emozionato, affatto, e adesso dovrei credere che lo sei davanti a noi,
che siamo così pochi?"
"Come, Socrate? disse Agatone. Non mi crederai, spero, così innamorato del teatro da non
capire che agli occhi di un uomo di buon senso poche persone intelligenti sono più da temere di
una folla ignorante?"
"Farei molto male se lo credessi, mio buon Agatone, rispose Socrate, una simile mancanza di
stile non ti si addice. Io so bene, invece, che se trovi gente che ritieni saggia, dài loro molta più
importanza che alla folla. Però non credo affatto che noi siamo saggi. Perché c'eravamo anche
noi tra il pubblico, là tra la folla. Ma se trovassi altra gente, dei saggi veri, ti vergogneresti,
senza dubbio, davanti a loro al pensiero di far qualcosa di cui ci sia da vergognarsi. Che ne
dici?"
"E' vero", rispose.
"Ma davanti alla folla non ti vergogneresti se pensassi di fare qualcosa di cui ci sia da
vergognarsi?"
Fedro a questo punto prese la parola e disse:
"Mio caro Agatone, se rispondi, a Socrate non importerà proprio nulla se la conversazione
prenderà una piega o l'altra, perché a lui basta avere qualcuno con cui chiacchierare,
soprattutto se è un bel ragazzo. Ora, a me piace moltissimo acoltare Socrate quando discute,
ma adesso dobbiamo proprio occuparci dell'Eros, dobbiamo raccogliere il tributo da ciascuno di
noi: i nostri discorsi in suo onore. Pagate il vostro debito verso il dio, poi tornerete a
chiacchierare tra voi".
"Hai proprio ragione, Fedro, disse Agatone, e in effetti niente mi impedisce di rimandare la
risposta perché avrò ancora ben l'occasione di chiacchiare con Socrate! C'è tempo.
Voglio dirvi subito come intendo condurre il mio discorso, prima di cominciare. Tutti coloro che
hanno già parlato non hanno per nulla, mi sembra, fatto l'elogio del dio. Hanno chiamato felici
gli uomini per i beni che gli devono, ma chi egli sia esattamente, per aver fatto loro questi doni,
ecco questo nessuno l'ha detto. Ora, il solo modo corretto per fare un elogio, qualunque sia
l'argomento, è quello di spiegare la natura dell'oggetto del discorso e la natura di ciò di cui è
responsabile. E così dobbiamo procedere anche noi nell'elogio dell'Eros: mostrando innanzitutto
la sua natura e quindi i doni che ci ha fatto.
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Dichiaro dunque che tra tutti gli dèi, esseri felici, l'Eros - mi sia permesso dirlo senza risvegliare
la loro gelosia - è il più felice, perché è il più bello e il migliore. E' il più bello perché questa è la
sua natura. Infatti, mio caro Fedro, è il più giovane tra gli dèi. Una grande prova dimostra che
quel che dico è vero, e ce la offre lui stesso: Eros fugge la vecchiaia, che è rapida, si sa, e ci
sorprende prima di quanto dovrebbe. L'Eros, è chiaro, la odia e non le si avvicina nemmeno da
lontano. Ma è sempre in compagnia della giovinezza, le resta vicino. Ha ragione il vecchio detto:
"Il simile cerca il simile". Io sono spesso d'accordo con Fedro, ma non trovo giusto dire che Eros
sia più antico di Cronos e di Giapeto. Io dichiaro, al contrario, che è il più giovane tra gli dèi, che
è sempre giovane e che le vecchie lotte tra gli dèi di cui parlano Esiodo e Parmenide sono figlie
della Necessità, ma non di Eros, se questi poeti hanno detto il vero. Infatti gli dèi non si
sarebbero mutilati l'un l'altro, non si sarebbero messi in ceppi né fatto tanta violenza se l'Eros
fosse stato tra loro. Avrebbero conosciuto invece l'amicizia e la pace, come adesso, nel tempo in
cui sugli dèi l'Eros stende il suo dominio.
Dunque, l'Eros è giovane, e non soltanto è giovane ma anche delicato. A lui è mancato un poeta,
un Omero, che ne sapesse far vedere la delicatezza. Omero dice di Ate che essa è una dea e allo
stesso tempo che è delicata, o almeno che lo sono i suoi piedi. Dice: "Son delicati i suoi piedi e
non sfiorano il suolo, / ella avanza sfiorando le teste degli uomini". Un chiaro indice della sua
delicatezza, ai miei occhi: la dea non posa i piedi sul duro, ma sul morbido. Utilizzeremo anche
noi a proposito dell'Eros lo stesso indizio per affermare che è delicato: non cammina infatti
sulla terra, né sulle teste, che poi tanto morbide non sono, ma si muove e abita in ciò che è più
tenero al mondo. Eros infatti ha stabilito la sua dimora nel cuore e nell'anima degli uomini e
degli dèi. Ma non senza distinzione in tutte le anime. Se ne incontra una che abbia un carattere
duro, fugge via e va ad abitare in quelle in cui trova dolcezza. E' sempre a contatto, coi piedi e
con tutto il suo essere, con ciò che tra tutte le cose tenere è più tenero, ed è quindi assai
delicato, necessariamente.
Ecco dunque, l'Eros è il più giovane e il più delicato degli esseri. E inoltre dobbiamo ricordare la
flessibilità della sua forma, perché non potrebbe andare dappertutto né passare inosservato
quando penetra nelle anime e quando ne esce, se fosse rigido. Dell'armonia, della duttilità della
sua natura, ebbene di questo la sua grazia né dà una prova eclatante, quella grazia che l'Eros
possiede in massimo grado perché tra l'aspetto sgraziato e l'Eros la reciproca ostilità c'è da
sempre. E che dire della bellezza della sua carnagione? Eros indugia tra i fiori. Su ciò che non
fiorisce, sul fiore appassito, nel corpo o nell'anima o in ogni altra cosa, Eros non si posa: ma là
dove i fiori e i profumi abbondano, là si posa, là sceglie la sua casa.
Sulla bellezza del dio basta così, anche se davvero resta ancora molto da dire. Vorrei adesso
parlare delle sue virtù. Ecco la più importante: Eros non fa né subisce ingiustizia, non fa torto a
nesuno, uomo o dio, e non ne subisce da nessuno, né uomo né dio. La violenza non ha alcuna
parte in ciò che subisce, ammesso che subisca qualcosa, perché la violenza non ha presa
sull'Eros; non ne ha bisogno in tutto quel che fa perchè tutti in tutto si mettono di buon grado
al suo servizio. E gli accordi che si fanno di buon grado sono chiamati giusti dalle "leggi, le
regine della città".
E con la giustizia ecco la più grande temperanza. La temperanza, si sa, è dominare piaceri e
desideri. Ora, non c'è piacere più grande dell'Eros: se i piaceri inferiori sono dominati dall'Eros,
e s'egli li domina, poiché domina piaceri e desideri, allora l'Eros deve essere temperante in
massimo grado.
Quanto al coraggio, "Ares stesso non può lottare contro Eros". Infatti non è Ares che domina su
Eros, ma Eros possiede Ares, se è vero che è innamorato di Afrodite, come dicono. Ora colui che
si impadronisce di qualcuno, è più forte di lui e chi riesce a possedere un altro che è pieno di
coraggio deve avere ancora più coraggio di lui.
Fin qui ho parlato della giustizia, della temperanza e del coraggio del dio. Rimane la sua scienza
e, nella misura della mie forze, devo proprio completare il mio elogio. Innanzitutto, poiché
desidero onorare la mia arte come Erissimaco ha fatto con la sua, dirò che il dio è poeta così
sapiente che rende poeti gli altri, a sua volta. Ogni uomo infatti diventa poeta quando l'Eros lo
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possiede, "anche se prima non conosceva le Muse". Questo fatto, è chiaro, deve essere per noi
una prova che l'Eros è abilissimo in tutte le arti governate dalle Muse. Infatti ciò che non si ha,
o non si sa, non lo si può certo dare o insegnare agli altri. Meglio ancora, nella creazione degli
esseri viventi, di tutti, chi oserà negare che l'Eros possiede una scienza grazie a cui nascono e
crescono tutti i viventi? Osserviamo d'altra parte la pratica delle arti: non sappiamo forse che
l'uomo che ha avuto questo dio come maestro diviene celebre e illustre mentre quello che l'Eros
non ha nemmeno sfiorato non ha alcun successo? E certo: il tiro con l'arco, la medicina, la
divinazione sono delle abilità che Apollo deve al desiderio e all'amore che lo guida; così questo
dio può dirsi discepolo dell'Eros, come le Muse lo sono per le arti che portano il loro nome,
Efesto per l'arte di forgiare i metalli, Atena per la tessitura e Zeus infine "per il governo degli
dèi e degli uomini". Così tutti i conflitti tra gli dèi si sono appianati all'apparire di Eros tra loro,
dell'amore per la bellezza, certo, perché Eros non si lega mai a ciò che è brutto. Ma prima di
questo, come ho detto all'inizio, ogni specie di orribili eventi erano accaduti tra gli dèi, secondo
quanto narrano le antiche storie, perché regnava la Necessità. Quando poi nacque questo dio,
dall'amore per le cose belle nacque ogni bene, per gli dèi come per gli uomini.
Ecco perché, mio caro Fedro, posso dire che l'Eros è pieno di bellezza e bontà al più alto grado
ed è quindi, per tutti gli esseri, la fonte dei più alti beni. Vorrei dirlo in versi, questo: l'Eros è il
dio che dà "la pace agli uomini, la calma al mare, la tregua ai venti, il riposo al dolore". E' lui a
liberarci dall'odio, lui a donarci l'amicizia; di tutti i conviti, come il nostro adesso, è il fondatore;
nelle feste, nei cori, nei sacrifici, è lui a farci da guida; vi porta la dolcezza, allontana ogni
rancore, generosissimo di ogni bene, non sa cosa sia la malvagità, propizio ai buoni, esempio ai
saggi, ammirato dagli dèi, è cercato da chi non ha amore, prezioso per chi lo possiede. Il Lusso,
la Delicatezza, la Voluttà, le Grazie, la Passione, il Desiderio sono i suoi figli. E' pieno di
attenzione verso i buoni ma si allonta dai malvagi, e nel dolore, nella paura, nel desiderio, nel
discorso, egli è sempre lì, pronto a combattere. E' il nostro sostegno, la nostra salvezza per
eccellenza. E' l'onore di tutti gli dèi, di tutti gli uomini; è la guida più bella, la migliore, e ogni
uomo deve seguirlo, celebrare la sua gloria con splendidi inni e cantare con lui quel canto con
cui conquista i cuori di tutti gli dèi e di tutti gli uomini.
Ecco il mio discorso, carissimo Fedro: che sia la mia offerta al dio! La lieta fantasia e la grave
serietà vi hanno avuto ciascuna la sua parte, bilanciate come meglio è stato in mio potere fare."
Quando Agatone ebbe finito di parlare - mi raccontò Aristodemo - tutti applaudirono perché si
era espresso da par suo, in modo davvero degno del dio Eros. Allora Socrate si voltò verso
Erissimaco e gli disse:
"Erissimaco, figlio d'Acumeno, non avevo forse ragione? Non ho parlato in modo profetico
prima, quando ho detto che Agatone avrebbe parlato divinamente e io, dopo, sarei stato in
imbarazzo?"
"Sul primo punto - rispose Erissimaco - sei stato buon profeta, io credo, dicendo che Agatone
avrebbe parlato bene. Ma che tu sia in imbarazzo adesso, questo non lo credo proprio."
"E come si potrebbe non esserlo, carissimo Erissimaco, - riprese Socrate - dovendo parlare dopo
un discorso così bello, così seducente! Non è stato tutto perfetto, questo è vero; ma nella
conclusione chi può non esser stato preso dall'incanto delle parole e delle frasi? Io mi riconosco
subito incapace di avvicinarmi a tanta bellezza con le mie parole, e per un po' ho anche pensato
di sgattaiolar via senza dir nulla. Ma non è possibile farlo. Il discorso di Agatone mi ha ricordato
Gorgia, al punto da farmi temere quel che dice Omero: ho quasi creduto che Agatone alla fine
del suo discorso gettasse sulla mia la testa di Gorgia, il terribile oratore, e mi trasformasse in
pietra, facendomi diventare muto.
Ho capito allora di esser stato proprio un ingenuo quando vi ho promesso di fare anch'io, al mio
turno, l`elogio di Eros, e quando ho detto di essere ben esperto delle cose d'amore: in effetti,
devo confessare di non sapere affatto fare un elogio. Credevo, nella mia piena ignoranza, che si
dovesse dire la verità sull'oggetto del proprio elogio, che questo fosse fondamentale: che
bisognasse scegliere le verità più belle e disporle nell'ordine più elegante. Ero, naturalmente,
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tutto fiero al pensiero che avrei parlato bene: non conoscevo forse la vera maniera di fare un
elogio? Ma, stando a quanto ho sentito, il metodo corretto di fare un elogio non è questo:
bisogna piuttosto attri buire all'oggetto del proprio discorso le più grandi e le più belle qualità che le abbia davvero o non le abbia non importa affatto. A quanto sembra il nostro accordo era
di giocare a far le lodi di Eros, non di lodarlo veramente per quel che è. Ecco perché, io penso,
voi muovete cielo e terra per attribuire ad Eros ogni cosa bella e proclamare l'eccellenza della
sua natura come la grandezza delle sue opere: voi volete così farlo apparire il più bello e il più
buono possibile - ma non si ingannano coloro che sanno. E certo è una bella cosa un elogio
simile. Ma io ignoravo evidente mente questo modo di far le lodi, e siccome lo ignoravo, promisi
anch'io di pronunciare un elogio al mio turno: ma la lingua promise, non certo il mio cuore.
Dunque, addio alla mia promessa! Io un elogio così non ve lo faccio, non ne sono capace. Però,
a condizione di dir solo la verità, io accetto se lo desiderate di prender la parola, alla mia
maniera e senza rivaleggiare con l'eleganza dei vostri discorsi, perché non ho nessuna
intenzione di diventare ridicolo. Vedi tu, Fedro, se c'è ancora bisogno di un discorso di questo
genere, che lasci intendere la verità su Eros - ma con le parole e lo stile che mi verranno al
momento."
Allora - disse Aristodemo - Fedro e gli altri lo pregarono di parlare come riteneva di dover fare.
"Ancora un momento, Fedro, - disse Socrate -: lasciami porre alcune piccole domande ad
Agatone, in modo che possa mettermi d'accordo con lui prima di cominciare il mio discorso."
"Ti lascio fare - disse Fedro -; domanda pure."
E così - disse Aristodemo - Socrate cominciò pressappoco con queste parole:
"Per la verità, mio buon Agatone, io dico che tu hai aperto bene la via dichiarando che
bisognava innanzitutto mostrare qual è la natura dell'amore e come agisce: io trovo questo
inizio davvero eccellente. Andiamo avanti, però, ti prego; dopo tutto quello che hai detto di
bello e di buono sulla natura di Eros, rispondi a questa domanda: "E' nella natura dell'Eros
essere amore di qualche cosa, oppure di niente?" Io non ti domando se la sua natura è di essere
amore per una madre o un padre, perché sarebbe comico domandare se l'Eros è una forma
d'amore che si rivolge a una madre o a un padre. Ma se, a proposito del padre in quanto padre
io domandassi: "Il padre è padre di qualcuno o no?", tu mi risponderesti senza dubbio - se
volessi darmi una buona risposta - che il padre è padre di un figlio, o di una figlia. Non è vero?"
"Certo", disse Agatone.
"E non dirai la stessa cosa della Madre?" - Agatone ne convenne.
"Rispondi ancora - disse Socrate - ad alcune domande, per meglio comprendere dove voglio
arrivare. Se io domandassi: "Il fratello, in quanto fratello, è fratello di qualcuno o no?"
Rispose che lo era.
"Dunque è fratello di un fratello o di una sorella?" - Agatone fu d'accordo.
"Prova allora - riprese Socrate - a far la stessa domanda per l'Eros: Eros è amore di niente o di
qualcosa?"
"Di qualcosa, evidentemente."
"Tieni bene a mente questo carattere dell'Eros, allora, e dimmi ancora se egli desidera ciò che
ama."
"Lo desidera certamente", disse.
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"Quando possiede ciò che desidera, è allora che l'ama, o quando non lo possiede?"
"Quando non lo possiede: è probabile che sia così" - disse.
"Ma pensa bene - disse Socrate - se invece che probabile non è una certezza: non dobbiamo
forse dire che desidera ciò che non possiede, e che non desidera affatto ciò che possiede già?
Per me, mio caro Agatone, questo è chiarissimo. Tu che ne pensi?"
"Sono dello stesso avviso", disse.
"E fai bene ad esserlo. Dunque un uomo che è grande potrà forse desiderare di esser grande? O
di esser forte se è forte?"
"E impossibile, visto quel che abbiamo detto."
"Non potrebbe infatti mancare di queste qualità, poiché ce le ha."
"E così."
"Però supponiamo - disse Socrate - che un uomo forte voglia esser forte, che un uomo agile
voglia esser agile, che un uomo in buona salute voglia essere in buona salute. Si potrebbe forse
pensare, per quel che riguarda queste qualità e tutte quelle dello stesso genere, che gli uomini
che le hanno desiderano averle ancora. Lo dico per difenderci contro questo possibile errore. Se
ci pensi, Agatone, è necessario che essi abbiano, al momento, ciascuna delle qualità che hanno,
che le vogliano o meno: com'è possibile desiderare ciò che si ha già? Ma se qualcuno ci dicesse
"Io sono adesso in buona salute, e desidero esserlo; io sono ricco, e desidero esserlo, desidero
possedere quel che già possiedo", allora noi gli risponderemmo: "Tu hai la ricchezza, la salute,
la forza; quel che desideri, è di averle ancora in futuro, perché per il presente, che tu lo voglia o
no, le hai già. Dunque quando dici: io desidero ciò che adesso ho già, queste parole significano
semplicemente: ciò che io ho adesso, desidero averlo anche per l'avvenire." Sei d'accordo, non
è vero?"
Agatone - disse Aristodemo - lo riconobbe, e Socrate proseguì:
"Se tutto questo è vero, desiderare le cose che non si hanno ancora, che non si possiedono, non
è forse volere per l'avvenire che queste cose ci siano conservate?"
"Certo", disse.
"Quindi l'uomo che si trova in questa situazione, e cioè chiunque provi un desiderio, desidera
ciò che non ha ancora e che non è nel presente. E ciò che egli non ha, ciò che egli stesso non è,
quel che gli manca, insomma, ecco l'oggetto del suo desiderio e del suo amore."
"Sicuramente è così" - disse.
"Andiamo avanti, allora - disse Socrate. Ricapitoliamo i punti su cui siamo d accordo. Non è
forse vero, innanzitutto, che l'Eros si indirizza verso certe cose e, in secondo luogo, che queste
cose sono quelle di cui sente la mancanza?"
"Sì", disse.
"E adesso, Agatone, ricordati cosa hai detto nel tuo discorso sulle cose verso cui si indirizza
l'Eros. Se vuoi, te lo ricordo io stesso: più o meno, tu ci hai detto, credo, che gli dèi hanno
risolto i loro conflitti grazie all'amore per la bellezza, perché non ci può essere amore verso quel
che è brutto. Son più o meno le tue parole, non è vero?"
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"Certo", disse Agatone.
"Tu rispondi come si deve, mio caro - disse Socrate -, e se le cose stanno come tu ci hai detto,
I'Eros dovrebbe amare la bellezza, non certo la bruttezza, non è vero?"
Agatone fu d'accordo.
"Ma non ci siamo trovati d'accordo anche su questo, che si ama ciò di cui si sente la mancanza e
che non si possiede?"
"Sì", ammise.
"L'Eros manca quindi della bellezza e non la possiede?"
"Per forza", disse.
"Ma come? Chi manca della bellezza e non la possiede affatto, tu lo chiami bello?"
"No di certo."
"E allora, se le cose stanno così, sei ancora dell'avviso che l`Eros sia bello?"
"Temo proprio - disse Agatone - di aver parlato senza sapere quel che dicevo."
"Però il tuo discorso era molto elegante, Agatone. Ma ancora una piccola domanda: le cose
buone sono allo stesso tempo belle, secondo te?"
"Lo sono, a mio avviso."
"Allora se all'Eros manca la bellezza e se le cose buone sono anche belle, all'Eros deve per forza
mancare anche la bontà".
"Di sicuro, Socrate - disse Agatone -, io non sono in grado di contraddirti: ammetto quel che tu
dici. "
"No, carissimo Agatone - disse Socrate -, non me, ma la verità tu non puoi contraddire: Socrate,
lui sì che è facile contraddirlo.
Adesso ti lascerò un po' in pace. Ecco il discorso sull'Eros che ho ascoltato un giorno da una
donna di Mantinea, Diotima, molto competente su questo come su tanti altri argomenti. Fu lei
che una volta, prima della peste, fece fare agli Ateniesi quei sacrifici che ritardarono di dieci
anni l'epidemia. Proprio lei mi ha fatto capire molte cose su Eros.
Adesso cercherò di fare del mio meglio per riportarvi le sue parole, partendo da tutto quello su
cui Agatone ed io ci siamo trovati d'accordo. Come tu stesso hai detto, Agatone, bisogna
innanzitutto chiarire la natura dell'Eros, i suoi attributi e le sue azioni. Forse la cosa più
semplice è seguire nella mia esposizione lo stesso ordine che seguì la straniera nell'esame che
mi fece. Io, infatti, le rispondevo un po' come adesso ha fatto Agatone con me: io dichiaravo
che Eros è un grande dio e che ama le cose belle. Lei mi dimostrava che ero in errore con le
stesse argomentazioni di cui mi sono servito discutendo con Agatone: Diotima diceva che Eros
non è né bello, per usare le mie parole, né buono. E io le dicevo:
"Ma come Diotima? allora Eros è cattivo e brutto?"
"Che dici? Questa è una bestemmia! - mi rispose -. Credi forse che tutto ciò che non è bello
debba essere per forza brutto?"
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"Ma certo!"
"E perché mai? Chi non è sapiente deve per forza essere ignorante? Non ti sei mai accorto che
c'è una via di mezzo tra la sapienza e l'ignoranza?"
"E qual è?"
"Avere un'opinione giusta, senza però saperla giustificare. Questo non è vero sapere: come
posso parlare di scienza, se non so dimostrare che è vero quello che penso? Ma non è neppure
piena ignoranza, perché per caso la mia opinione potrebbe corrispondere ai fatti. L'opinione
giusta è quindi, suppongo, simile a quel che dicevo: sta a metà strada tra la piena conoscenza e
l'ignoranza"34.
"E' vero", risposi.
"Dunque chi non è bello non per questo è per forza brutto, né chi non è buono deve essere
cattivo. E così è per l'Eros: poiché tu sei d'accordo con me che non può essere né buono né
bello, non devi per questo credere che sia necessariamente cattivo e brutto. Eros - così mi disse
Diotima - è a metà tra questi estremi."
"Però - ripresi io - tutti concordano nel pensare che Eros sia un dio potente."
"Dicendo tutti, parli degli ignoranti o di coloro che parlano sapendo cosa dicono?"
"Io parlo proprio di tutti."
Diotima si mise a ridere. "Come possono dire di lui che è un dio potente se dicono che non è
affatto un dio?"
"Ma chi dice questo?" dissi io.
"Tu per esempio - disse - ed anch'io!"
Ed io: "Ma cosa dici?"
"E' tutto semplice - rispose -. Dimmi: non sei forse convinto che tutti gli dèi sono felici e belli? o
oseresti sostenere che qualcuno degli dèi non è né bello né felice?"
"lo non oserei proprio", risposi.
"Ma chi è felice? non è chi possiede cose buone e belle?"
"Certo."
"Ma tu hai riconosciuto che Eros, mancando delle cose buone e belle, le desidera proprio perché
gli mancano."
"E vero, ero d'accordo con te su questo."
"E allora come può essere un dio se le cose buone e belle gli mancano?"
"Sembra impossibile, in effetti."
"Come vedi - disse -, anche tu ritieni che Eros non sia un dio."
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"Chi sarà dunque Eros? un mortale?"
"No di certo."
"E allora?"
"E come negli esempi precedenti, la sua natura è a mezza via tra il mortale e l'immortale".
"Che vuoi dire, Diotima?"
"E' un dèmone potente, Socrate. I demoni, infatti, hanno una natura intermedia tra quella dei
mortali e quella degli dèi."
"Ma qual è il suo potere?" chiesi.
"Eros interpreta e trasmette agli dèi tutto ciò che viene dagli uomini, e agli uomini ciò che viene
dagli dèi: da un lato le preghiere e i sacrifici degli uomini, dall'altro gli ordini degli dèi e i loro
premi per i sacrifici compiuti; e in quanto è a mezza via tra gli uni e gli altri, contribuisce a
superare la distanza tra loro, in modo che il Tutto sia in se stesso ordinato e unito. Da lui viene
l'arte divinatoria, ed anche il sapere dei sacerdoti sui sacrifici, le iniziazioni, gli incantesimi,
tutto quel che è divinazione e magia. Il divino non si mescola con ciò che è umano, ma, grazie ai
dèmoni, in qualche modo gli dèi entrano in rapporto con gli uomini, parlano loro, sia nella veglia
che nel sonno. L'uomo che sa queste cose è vicino al potere dei dèmoni, mentre chi sa altre
cose - chi possiede un'arte, o un mestiere manuale - resta un artigiano qualsiasi o un operaio.
Questi dèmoni sono numerosi e d'ogni tipo: uno di essi è Eros".
"Chi è suo padre - domandai - e chi sua madre?"
"E' una lunga storia - mi disse -. Adesso te la racconto. Il giorno in cui nacque Afrodite, gli dèi si
radunarono per una festa in suo onore. Tra loro c'era Poros, il figlio di Metis. Dopo il banchetto,
Penìa era venuta a mendicare, com'è naturale in un giorno di allegra abbondanza, e stava
vicino alla porta. Poros aveva bevuto molto nettare (il vino, infatti, non esisteva ancora) e, un
po' ubriaco, se ne andò nel giardino di Zeus e si addormentò. Penìa, nella sua povertà, ebbe
l'idea di avere un figlio da Poros: così si sdraiò al suo fianco e restò incinta di Eros. Ecco perché
Eros è compagno di Afrodite e suo servitore: concepito durante la festa per la nascita della dea,
Eros è per natura amante della bellezza - e Afrodite è bella.
Proprio perché figlio di Poros e di Penìa, Eros si trova nella condizione che dicevo: innanzitutto
è sempre povero e non è affatto delicato e bello come si dice di solito, ma al contrario è rude, va
a piedi nudi, è un senza-casa, dorme sempre sulla nuda terra, sotto le stelle, per strada davanti
alle porte, perché ha la natura della madre e il bisogno l'accompagna sempre. D'altra parte,
come suo padre, cerca sempre ciò che è bello e buono, è virile, risoluto, ardente, è un cacciatore
di prim'ordine, sempre pronto a tramare inganni; desidera il sapere e sa trovare le strade per
arrivare dove vuole, e così impiega nella filosofia tutto il tempo della sua vita, è un meraviglioso
indovino, e ne sa di magie e di sofismi. E poi, per natura, non è né immortale né mortale. Nella
stessa giornata sboccia rigoglioso alla vita e muore, poi ritorna alla vita grazie alle mille risorse
che deve a suo padre, ma presto tutte le risorse fuggon via: e così non è mai povero e non è mai
ricco.
Vive inoltre tra la saggezza e l'ignoranza, ed ecco come accade: nessun dio si occupa di filosofia
e nessuno desidera diventare sapiente, perché tutti lo sono già. Chiunque possegga davvero il
sapere, infatti, non fa filosofia; ma anche chi è del tutto ignorante non si occupa di filosofia e
non desidera affatto il sapere. E questo è proprio quel che non va nell'essere ignoranti: non si è
né belli, né buoni, né intelligenti, ma si crede di essere tutte queste cose. Non si desidera
qualcosa se non si sente la sua mancanza".
"Ma allora chi sono i filosofi, se non sono né i sapienti né gli ignoranti?"
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"E' chiaro chi sono: anche un bambino può capirlo. Sono quelli che vivono a metà tra sapienza
ed ignoranza, ed Eros è uno di questi esseri. La scienza, in effetti, è tra cose più belle, e quindi
Eros ama la bellezza: è quindi necessario che sia filosofo e, come tutti i filosofi, è in posizione
intermedia tra i sapienti e gli ignoranti. La causa di questo è nella sua origine, perché è nato da
un padre sapiente e pieno di risorse e da una madre povera tanto di conoscenze quanto di
risorse.
Così, mio caro Socrate, è fatta la natura di questo dèmone. L'idea, però, che tu ti eri fatta
dell'Eros non mi sorprende per nulla: da quel che capisco dalle tue parole, tu credevi che Eros
fosse l'amato, non l'amante. Per questa ragione, senza dubbio, ti sembrava che fosse pieno di
ogni bellezza. Infatti l'oggetto dell'amore è sempre bello, delicato, perfetto, sa dare ogni
felicità.
Ma l'essenza di chi ama è differente: è quella che ti ho prima descritto".
Io allora ripresi:
"E sia, straniera: tu hai proprio ragione. Ma se questa è la natura dell'Eros, a cosa può esser
utile a noi uomini?"
"Adesso cercherò di spiegartelo, Socrate. Eros ha dunque questo carattere e questa origine:
ama le cose belle, come tu ben sai. Ora, prova a domandarti: che cos'è l'amore per le cose
belle? o più chiaramente: chi ama le cose belle, le desidera; ma in che cosa consiste
esattamente il desiderio che si prova quando si ama?"
"Noi desideriamo che l'oggetto del nostro amore ci appartenga", risposi io.
"Questa tua risposta - disse - apre un nuovo problema: che cosa accade all'uomo che possiede
le cose belle?"
Io dichiarai che non ero affatto capace di rispondere a una domanda simile.
"E allora - disse lei - parliamo del bene invece che del bello. Cosa mi dici se ti domando: chi ama
le cose buone, le desidera: ma cosa desidera?"
"Che siano sue", risposi.
"E cosa accade all'uomo che le possiede?"
"In questo caso posso rispondere più facilmente - dissi -: sarà felice".
"In effetti proprio possedere ciò che è buono fa la felicità delle persone. Così non abbiamo più
bisogno di domandarci che cosa vuole chi vuole essere felice, perché parlando della felicità
abbiamo già toccato il fine ultimo del desiderio."
"E' vero", dissi.
"Ma questa volontà, questo desiderio, tu pensi sia comune a tutti gli uomini? Tutti vogliono
sempre possedere ciò che è buono? Dimmi cosa ne pensi."
"E' così, questa volontà è comune a tutti."
"Ma allora, Socrate - riprese -, perché non diciamo che tutti gli uomini amano, se tutti
desiderano sempre le stesse cose? Come mai, al contrario, diciamo che alcuni uomini amano ed
altri non amano affatto?"
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"Sono stupito anch'io di questo", risposi.
"Non devi stupirti, però - disse -. Il fatto è che l'amore ha molte forme, ma noi prendiamo una
sola di queste forme e le diamo il nome generico di amore come se fosse l'unica. Questo nome
andrebbe dato a tutte, ma per le altre forme usiamo nomi diversi."
"Mi fai un esempio?", chiesi.
"Certo. Tu sai che la capacità creativa delle persone può manifestarsi in molti campi. La
creatività entra in gioco tutte le volte che qualche cosa viene prodotta, perché prima non c'era
e poi c'è; così le opere degli artigiani, in tutti i campi, sono frutto della creatività e gli uomini
che le fanno sono tutti dei creativi, degli artisti."
"E' vero."
"Però - continuò - tu sai che non li chiamiamo tutti artisti, ma diamo loro altri nomi. Tra tutti
quelli che svolgono attività che hanno a che fare con la creatività, soltanto ad alcuni diamo il
nome di artisti, di poeti: solo a quelli che compongono musica e versi. In realtà tutti lo sono.
Solo i versi in musica chiamiamo arte, e soltanto questo è il dominio che riconosciamo agli
artisti."
"E' vero", dissi.
"Ed è lo stesso per l'amore. In generale, ogni desiderio di ciò che è buono, che è bello, è per
tutti "amore possente, Eros ingannevole". Il desiderio umano ha mille forme diverse: alcune
persone hanno la passione del denaro, o dello sport, o dello studio, ma noi non diciamo che
amano, che sono innamorati. Altri, che seguono una particolare forma d'amore, ebbene solo per
loro usiamo le parole che dovremmo usare per tutti: amore, amare, innamorati."
"Sei proprio convincente", risposi.
"Molti dicono, però, che amare significa cercare la propria metà. Io non sono d'accordo, perché
non c'è affatto amore né per la metà né per l'intero, mio buon amico, se l'oggetto del nostro
desiderio non è buono: le persone accettano di farsi tagliare anche i piedi o le mani, se sono
convinte che queste parti possono portare dei mali. Io non credo affatto che ciascuno si
affezioni a ciò che gli appartiene, a meno che non sia convinto che ciò che è suo sia buono e ciò
che gli è estraneo sia cattivo. Gli uomini. infatti, non desiderano altro che il bene. Non la pensi
così anche tu?"
"Certo, per Zeus", risposi.
"Allora possiamo dire semplicemente che gli uomini desiderano ciò che è buono?"
"Sì."
"E non dobbiamo forse aggiungere che essi desiderano possedere ciò che è buono?"
"Certo che dobbiamo."
"E non soltanto possederlo, ma possederlo sempre." "Dobbiamo aggiungere anche questo."
"Quindi - disse - l'amore è il desiderio di possedere sempre ciò che è buono?"
"E' così", dissi.
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"Se è dunque chiaro - disse - che l'amore è questo, dimmi in quale forma, in quale genere di
attività, l'ardore, la tensione estrema che accompagna lo sforzo di raggiungere questo fine,
deve ricevere il nome di amore. Di quale tipo d'azione si tratta? Me lo sai dire?"
"Certamente no - risposi -. Se lo sapessi, non sarei così pieno d'ammirazione davanti al tuo
sapere e non verrei da te come allievo per imparare quel che sai."
"Allora - riprese -, te lo dirò io:
amare, sia per il corpo che per l'anima, significa creare nella bellezza."
"Bisognerebbe essere degli indovini per capire cosa vuoi dire con queste parole, e io non lo
sono affatto."
"Mi esprimerò più chiaramente. Tutti gli uomini, mio caro Socrate, hanno capacità creative sia
nel corpo che nell'anima. Tutti noi, quando abbiamo raggiunto una certa età, per natura
proviamo il desiderio di generare, ma non si può generare nulla nella bruttezza: si può solo
nella bellezza. Nell'unione dell'uomo e della donna c'è qualcosa di creativo, qualcosa di divino.
Tutte le creature viventi sono mortali, ma in loro c'è una scintilla d'immortalità: è la fecondità
dei sessi, la capacità di generare nuovi esseri viventi. Ma questo non può avvenire se non c'è
armonia: e non c'è armonia tra la bruttezza e tutto ciò che è divino, perché solo la bellezza è in
armonia con gli dèi. Dunque nel concepire una nuova vita, la dea della Bellezza fa da Moira e da
Ilitia, la dea della nascita. Per questo, chi ha dentro di sé qualcosa di creativo, quando si
avvicina a ciò che è bello prova gioia nel suo cuore, si apre al fascino della bellezza. E' il
momento della generazione: egli crea. Ma quando si avvicina a ciò che è brutto, allora si chiude
in se stesso scuro in volto e triste, cerca di allontanarsi, e così non crea affatto, anche se porta
ancora dentro il suo seme fecondo, e ne soffre. Per questo chi sente la propria creatività pronta
alla vita, è fortemente attratto dalla bellezza: soltanto chi possiede la bellezza è libero dalle
sofferenze che ogni atto creativo comporta. E dunque Eros - concluse - non desidera affatto la
bellezza, mio caro Socrate, come tu credi."
"E cosa allora?"
"Desidera creare e far nascere nuova vita nella bellezza."
"Ammettiamolo'', dissi.
"E proprio così - ripeté -. Ma perché creare nuova vita? Perché per qualsiasi essere mortale
l'eternità e l'immortalità possono consistere solo in questo: nel creare nuova vita. Ora, il
desiderio d'immortalità accompagna necessariamente quello del bene - lo sappiamo, ormai - se
è vero che l'amore è desiderio di possedere per sempre il bene. E così da tutto quello che
abbiamo detto segue questo, che l'amore ha come proprio oggetto l'immortalità."
Ecco quello che Diotima mi insegnava, parlando delle cose d'amore. Un giorno mi chiese:
"Quale pensi che sia, Socrate, la causa dell'amore e del desiderio? Non vedi in che strano stato
sono gli animali, quando il loro istinto li spinge a procreare? Tutti gli animali - che si muovano
sulla terra o volino nell'aria - sembrano impazziti, l'amore li tormenta, e li spinge ad
accoppiarsi. Poi quando viene il momento di nutrire i loro piccoli, sono sempre pronti a
combattere per difenderli: anche i più deboli affrontano animali più forti di loro e sono pronti a
sacrificarsi per amore dei loro piccoli. Soffrono loro le torture della fame, pur di sfamare i figli e
far tutte le altre cose necessarie. Presso gli uomini si può pensare che tutto questo sia il frutto
di una riflessione razionale. Ma presso gli animali, da dove proviene questo amore che li mette
in tale stato? Puoi dirmelo?"
Ancora una volta risposi che non ne sapevo nulla. E allora riprese:
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"E tu pensi di diventare un giorno davvero esperto nelle cose d'amore senza sapere questo?"
"Ma è ben per quello, Diotima, come ti dico sempre, che ti sto vicino, perché so di avere bisogno
di una guida. Allora dimmi perché accade tutto questo e quant'altro riguarda l'amore."
"Se sei convinto - disse - che l'oggetto naturale dell'amore è quello sul quale abbiamo più volte
discusso, non devi certo meravigliarti. Infatti su questo punto la natura mortale segue sempre
lo stesso principio quando cerca, nella misura dei suoi mezzi, di perpetuare la vita e divenire
immortale. E non può farlo che in questo modo, attraverso l'amore, che fa sì che un nuovo
essere prenda il posto del vecchio. Riflettiamo: quando si dice che ciascun essere vivente
rimane se stesso (per esempio che dalla nascita alla vecchiaia permane la sua identità), ebbene
questo essere non ha mai in sé le stesse cose. Diciamo sì che è sempre lo stesso, ma in realtà
non cessa mai di rinno varsi ogni momento in certe parti, come i capelli, le ossa, il sangue,
insomma in tutto il suo corpo.
E questo non è vero soltanto per il suo corpo, ma anche per la sua anima: i sentimenti, il
carattere, le opinioni, i desideri, i piaceri, i dolori, i timori, niente di tutto questo rimane
costante per ciascuno di noi, ma tutto in noi nasce e muore. E accadono cose più strane ancora.
Non solo in generale certe conoscenze nascono in noi mentre altre spariscono - e quindi nel
campo della conoscenza noi non rimaniamo mai gli stessi - ma ciascuna conoscenza in
particolare subisce la stessa sorte. Infatti noi dobbiamo esercitarci nello studio proprio perché
alcune conoscenze ci sfuggono continuamente: le dimentichiamo, tendono ad andare via, e con
lo studio, inversamente, fissando nella memoria ciò che vogliamo ricordare, le conserviamo. E'
per questo che sembrano le stesse: in realtà le conserviamo rinnovandole. E' così che tutti gli
esseri mortali si conservano: non sono sempre esattamente se stessi, come l'essere divino.
Sembrano conservare la loro identità perché ciò che invecchia e va via è subito sostituito da
qualcosa di nuovo, molto simile. Ecco in che modo - Socrate - ciò che è mortale partecipa
dell'immortalità, nel suo corpo e in tutto il resto; non c'è altro modo. Non meravigliarti dunque
se ciascun essere è dominato dall'amore e si preoccupa tanto dei propri figli, perché questo è
nella natura dei viventi: è al servizio dell'immortalità".
Queste parole mi riempirono di stupore e glielo dissi:
"Ma come, saggia Diotima, le cose stanno veramente così?"
Ella mi rispose col tono serio di chi insegna:
"Devi esserne certo, Socrate. Pensa alle ambizioni che hanno molte persone e ti meraviglierai
senza dubbio della loro assurdità; se rifletti, meditando sulle mie parole, ti accorgerai di quanto
è strano lo stato di coloro che desiderano diventar celebri e acquistar gloria immortale per
l'eternità: sono disposti per questo a correre ogni rischio, più ancora che per difendere i loro
figli. Sono pronti a mettere in gioco il loro denaro, ad affrontare tutti i disagi, a rischiare la loro
stessa vita. Pensi forse che Alcesti sarebbe morta per Admeto, che Achille avrebbe seguito
Patroclo sulla via della morte, che il vostro re Codro avrebbe affrontato la morte per conservare
il regno ai suoi figli, se essi non avessero creduto di lasciare l'immortale ricordo del loro valore,
che è giunto sino a noi? E' così, disse. A mio avviso, è per rendere immortale il loro valore, per
acquisire un nome glorioso, che gli uomini fanno quel che fanno, e questo tanto più se le loro
qualità personali sono alte - perché è l'immortalità che essi desiderano.
Allora, disse, gli uomini fecondi nel corpo pensano soprattutto alle donne: il loro modo d'amare
è tutto nel cercare di generare dei figli e così assicurare alla loro persona l'immortalità - questo
essi credono - e la memoria di sé e la felicità per tutto il tempo a venire. Altre persone, però,
sono feconde nell'anima: c'è infatti una fecondità propria del nostro spirito che a volte è
superiore a quella del corpo. Ecco qual è: è la forza creativa della saggezza e delle altre virtù in
cui il nostro spirito eccelle. Questa fecondità eccelle nei poeti e in tutte le altre persone che per
il loro mestiere devono usare la creatività. Ma dove la saggezza tocca le vette più alte e più
belle è nell'ordinamento e nell'amministrazione della città attraverso la prudenza e la giustizia.
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Quando un uomo fecondo nel suo animo, simile agli dèi, coltiva sin da giovane il proprio spirito,
e divenuto adulto sente il desiderio di mettere a frutto le sue capacità, allora cerca in ogni
modo la bellezza - perché mai potrà essere creativo nella bruttezza. I suoi sentimenti si
dirigono allora verso le cose belle piuttosto che verso le brutte, proprio perché la sua anima è
feconda. Se incontra un'anima bella e generosa e sensibile, allora le dà tutto il suo cuore:
davanti a lei saprà trovare le parole giuste per esprimere la sua forza interiore, per esaltare i
doveri e le azioni di un uomo che vale: così potrà guidarla educandola. E secondo me,
attraverso il contatto con la bellezza dell'anima dell'altro, con la sua costante presenza, potrà
venire alla luce quanto di meglio portava in sé da tempo: in questo senso la sua anima crea,
genera nuova vita. Che sia presente o assente, il suo pensiero va sempre all'altro che ama e così
nutre ciò che nel rapporto con lui in sé ha generato. Tra gli esseri di questa natura si crea così
una comunione più intima di quella che si ha con una donna quando si hanno dei bambini, un
affetto più solido. Son più belle, in effetti, ed assicurano meglio l'immortalità, le creature che
nascono dalla loro unione. Chiunque vorrà senza dubbio mettere al mondo simili creature
piuttosto che bambini, se si pensa ad Omero, ad Esiodo e agli altri grandi poeti. Si osserverà
con invidia quale discendenza essi hanno lasciato, capace di assicurar loro l'immortalità della
gloria e della memoria, perché anche i figli spirituali di quei grandi sono immortali. O ancora, se
vuoi - disse -, puoi pensare quale eredità Licurgo abbia lasciato agli Spartani per la salvezza
della loro città e, si può dire, della Grecia intera. Per le stesse ragioni voi onorate Solone, il
padre delle vostre leggi, e in tutti i paesi - greci e barbari - sono onorati gli uomini che hanno
prodotto grandi opere, mettendo a frutto le più alte capacità del loro spirito. In onore di quello
che queste persone hanno saputo creare si sono già innalzati molti templi, mentre questo non è
mai accaduto fino ad oggi, per i figli nati dall'amore di un uomo e di una donna.
Ecco, Socrate, le verità sull'amore alle quali tu puoi certamente essere iniziato. Ma le rivelazioni
più profonde e la loro contemplazione - il fine ultimo della ricerca su Eros - non so se sono alla
tua portata. Voglio però parlartene egualmente, senza diminuire il mio sforzo. Cerca di
seguirrni, almeno finché puoi. Chi inizia il cammino che può portarlo al fine ultimo, sin da
giovane deve essere attento alla bellezza fisica. In primo luogo, se chi lo dirige sa indirizzarlo
sulla giusta strada, si innamorerà di una sola persona e troverà con lei le parole per i dialoghi
più belli. Poi si accorgerà che la bellezza sensibile della persona che ama è sorella della bellezza
di tutte le altre persone: se si deve ricercare la bellezza che è propria delle forme sensibili, non
si può non capire che essa è una sola, identica per tutti. Capito questo, imparerà a innamorarsi
della bellezza di tutte le persone belle e a frenare il suo amore per una sola: dovrà imparare a
non valutare molto questa prima forma dell'amore, a giudicarla di minor valore. Poi, imparerà a
innamorarsi della bellezza delle anime piuttosto che della bellezza sensibile: a desiderare una
persona per la sua anima bella, anche se non è fisicamente attraente. Con lei nasceranno
discorsi così belli che potranno elevare i giovani che li ascoltano. E giunto a questo punto, potrà
imparare a riconoscere la bellezza in quel che fanno gli uomini e nelle leggi: scoprirà che essa è
sempre simile a se stessa, e così la bellezza dei corpi gli apparirà ben piccola al confronto. Dalle
azioni degli uomini, poi, sarà portato allo studio delle scienze, per coglierne la bellezza, gli occhi
fissi sull'immenso spazio su cui essa domina. Cesserà allora di innamorarsi della bellezza di un
solo genere, d'una sola persona o di una sola azione - una forma d'amore che lo lascia ancora
schiavo - e rinuncerà così alle limitazioni che lo avviliscono e lo impoveriscono. Orientato ormai
verso l'infinito universo della bellezza, che ha imparato a contemplare, le sue parole e i suoi
pensieri saranno pieni del fascino che dà l'amore per il sapere. Finché, reso forte e grande per il
cammino compiuto, giungerà al punto da fissare i suoi occhi sulla scienza stessa della bellezza
perfetta, di cui adesso ti parlerò.
Sforzati - mi disse Diotima - di dedicarti alle mie parole con tutta l'attenzione di cui sei capace.
Guidato fino a questo punto sul cammino dell'amore, il nostro uomo contemplerà le cose belle
nella loro successione e nel loro esatto ordine; raggiungerà il vertice supremo dell'amore e
allora improvvisamente gli apparirà la Bellezza nella sua meravigliosa natura, quella stessa,
Socrate, che era il fine di tutti i suoi sforzi: eterna, senza nascita né morte. Essa non si accresce
né diminuisce, né è più o meno bella se vista da un lato o dall'altro. Essa è senza tempo, sempre
egualmente bella, da qualsiasi punto di vista la si osservi. E tutti comprendono che è bella. La
Bellezza non ha forme definite: non ha volto, non ha mani, non ha nulla delle immagini sensibili
o delle parole. Non è una teoria astratta. Non è uno dei caratteri di qualcosa di esteriore, per
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esempio di un essere vivente, o della Terra o del cielo, o non importa di cos'altro. No, essa
apparirà all'uomo che è giunto sino a lei nella sua perfetta natura, eternamente identica a se
stessa per l'unicità della sua forma. Tutte le cose belle sono belle perché partecipano della sua
bellezza, ma esse nascono e muoiono - divenendo quindi più o meno belle - senza che questo
abbia alcuna influenza su di lei. Iniziando il proprio cammino dal primo gradino della bellezza
sensibile, l'uomo si eleva coltivando il suo fecondo amore per i giovani e così impara a percepire
in loro i segni della pura e perfetta bellezza: allora potrà dire di non essere lontano dalla meta.
Così, da soli o sotto la guida di un altro, la perfetta via dell'amore ha inizio con la bellezza
sensibile ed ha per fine la contemplazione della Bellezza pura: l'uomo deve salire come su una
scala, da una sola persona bella a due, poi a tutte, poi dalla bellezza sensibile alle azioni ben
fatte e alla scienza, fino alla pura conoscenza del bello, e ancora avanti sino alla
contemplazione della Bellezza in sé. Questo, mio caro Socrate - mi disse la straniera di
Mantinea -, è il momento più alto nella vita di una persona: l'attimo in cui si contempla la
Bellezza pura. Se la vedrai un giorno, al suo confronto sfioriranno le ricchezze, i bei vestiti, i bei
ragazzi che ti fanno girar la testa: eppure tu e tanti altri accettereste di non mangiare né bere,
per così dire, pur di poterli ammirare e poter stare con loro. Cosa proverà l'anima allora nel
fissare la Bellezza pura, semplice, senza alcuna impurità, del tutto estranea all'imperfezione
umana, ai colori, alle vanità sensibili? Cosa proverà il nostro spirito nel contemplare la Bellezza
divina nell'unicità della sua forma? Credi forse che possa ancora essere vuota la vita di un uomo
che abbia fissato sulla Bellezza il suo sguardo, contemplandola pur nei limiti dei mezzi che
possiede, ed abbia vissuto in unione con essa? Non pensi, disse, che solamente allora, quando
vedrà la bellezza con gli occhi dello spirito ai quali essa è visibile, quest'uomo potrà esprimere il
meglio di se stesso? Non una falsa immagine egli contempla, infatti, ma la virtù più autentica,
in piena verità. Egli coltiva in sé la vera virtù e la nutre: non sarà forse per questo amato dagli
dèi? non diverrà tra gli uomini immortale?"
Ecco, Fedro, e voi tutti che mi ascoltate, quel che mi disse Diotima. Ed è riuscita a convincermi,
così come io - a mia volta - cerco di convincere gli altri: per dare alla natura umana il possesso
di ciò che è bene, non si troverà miglior aiuto dell'Eros. Così - io lo dichiaro - ogni uomo deve
onorare Eros; io onoro l'amore che è in me, io mi consacro all'Eros ed esorto gli altri a fare
altrettanto. Per quanto è in mio potere fare, ora e sempre voglio esaltare la forza dell'Eros, e il
suo valore. Ecco il mio discorso, Fedro. Consideralo, se vuoi, un elogio dell'Eros, altrimenti dagli
il nome che vorrai."
Questo disse Socrate. Mentre tutti si complimentavano con lui e Aristofane cercava di dirgli
qualcosa perché Socrate di sfuggita aveva fatto una allusione al suo discorso, ecco che si sentì
bussare alla porta dell'atrio, e un gran vociare di gente allegra, e la voce di una suonatrice di
flauto.
"Ragazzi - disse Agatone - andate a vedere, presto. Se è uno dei miei amici, invitatelo ad
entrare. Altrimenti dite che abbiamo già finito di bere e che stiamo andando a dormire."
Un istante più tardi si sentì nell'atrio la voce di Alcibiade, non più molto in sé per il vino, che
urlava a squarciagola. Domandava dove fosse Agatone, voleva essere accompagnato da lui. E
così lo accompagnarono nella sala e stava in piedi solo perché la suonatrice di flauto e qualcun
altro dei suoi compagni lo sostenevano. Fermo sulla soglia, portava in capo una corona di edera
e di viole, la testa avvolta nei nastri:
"Signori - disse - buona sera! Accettereste un uomo completamente ubriaco per bere con voi?
oppure dobbiamo limitarci a mettere questa corona in testa ad Agatone e andar via subito?
Siamo venuti per questo, infatti. Ieri, in effetti non son potuto venire. Vengo adesso con i nastri
sulla testa per passarli dalla mia alla testa dell'uomo che - nessuno si offenda - è il più sapiente
e il più bello: voglio proprio incoronarlo. Ah, ridete di me perché sono ubriaco! Ridete, ridete,
tanto lo so che è vero. Allora, mi volete rispondere? posso entrare o no? volete o no bere con
me?"
Allora tutti si misero ad applaudirlo, e gli dissero di entrare e prender posto in mezzo a loro.
Agatone lo chiamò, Alcibiade si diresse vero di lui, aiutato dai suoi compagni, e cominciò a
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togliersi i nastri dalla fronte per incoronare Agatone. Anche se ce l'aveva sotto gli occhi non si
accorse di Socrate e andò a sedersi accanto ad Agatone, quasi addosso a Socrate che dovette
fargli posto. Si sedette dunque in mezzo a loro, abbracciò Agatone e gli mise la corona sulla
testa.
"Ragazzi - disse Agatone - slacciate i sandali ad Alcibiade, che sia terzo in mezzo a noi."
"Benissimo - disse Alcibiade - ma chi è terzo con noi?"
Dicendo così si voltò e c'era Socrate. Appena lo vide fece un balzo indietro e disse:
"Per Eracle, chi c'è qui? Socrate? Che tiro mi hai teso! sdraiato accanto a me! Ti par questa la
maniera di comparire quando uno meno se l'aspetta? E che ci vieni a fare qui? Potevi metterti
accanto ad Aristofane o a un altro che voglia far lo spiritoso! E' che tu hai trovato il modo di
sdraiarti accanto al più bello della compagnia!"
"Agatone, per favore difendimi tu - dice Socrate -. Voler bene a quest'uomo non mi costa certo
poco. Dal giorno in cui mi sono invaghito di lui non ho più il diritto di guardare un solo bel
ragazzo, nemmeno di rivolgergli la parola. E' geloso, invidioso, mi fa delle scene, me ne dice di
tutti i colori e poco manca che me le dia. Dunque, attenzione! Che non faccia adesso una
scenata! Tenta di riconciliarci tu o, se tenta di picchiarmi, difendimi perché la sua ira e la sua
follia d'amore mi fanno una paura terribile."
"No - disse Alcibiade -, è impossibile: tra te e me nessuna riconciliazione. E per quel che hai
detto faremo i conti un'altra volta. Per il momento. Agatone, passami qualcuno di quei nastri,
che cinga la sua testa, questa testa meravigliosa. Voglio evitare che poi si lamenti che ho
incoronato te mentre ho lasciato senza corona lui, che per i suoi discorsi vince tutti sempre, e
non solamente una volta come te ieri."
Dicendo questo prese dei nastri, incoronò Socrate e poi si sdraiò. Si mise comodo e disse:
"Amici miei, avete proprio l'aria di voler far gli astemi. Ma questo non vi è permesso: bisogna
bere, l`abbiamo convenuto tra noi! Sarò io il re del simposio, finché voi non avrete bevuto a
sufficienza. Allora, Agatone, fammi portare una coppa, una grande, se c'è. No, no, non c'è
bisogno. Ragazzo - dice - portami quel vaso per tenere il vino in fresco."
Ne aveva appena visto uno, che teneva otto cotili abbondanti. Lo fece riempire e bevve per
primo. Poi ordinò di servire Socrate, dicendo:
"Con Socrate, amici miei, non c'è niente da fare: quanto vorrà bere berrà, e non ci sarà verso di
farlo ubriacare."
Il servo allora portò il vino a Socrate che si mise a bere, mentre Erissimaco chiedeva:
"E poi cosa facciamo, Alcibiade? Restiamo così, senza parlare di niente, la coppa in mano, senza
cantare niente? beviamo soltanto, come degli assetati?"
"Erissimaco - gli fa Alcibiade -, grande figlio di un padre grande e saggio, io ti saluto."
"Ti saluto anch'io - dice Erissimaco -. E adesso cosa dobbiamo fare?"
"Siamo tutti ai tuoi ordini perché un medico, da solo, vale molti uomini. Obbediremo dunque ai
tuoi desideri."
"E allora ascoltami - dice Erissimaco -. Prima che tu arrivassi, avevamo deciso che ciascuno al
suo turno, andando da sinistra verso destra, avrebbe fatto un discorso sull'Eros, il più bel
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discorso d'elogio. Noi l'abbiamo già fatto, adesso tocca a te, perché hai bevuto ed è giusto che
anche tu faccia il tuo discorso. Poi ordina a Socrate quel che vuoi, e lui farà lo stesso con chi sta
alla sua destra e così via."
"Ben detto, Erissimaco - risponde Alcibiade -. Solo che se uno ha bevuto troppo, non può dire
cose che stanno alla pari con chi è sobrio. E poi c'è Socrate: credi forse una sola parola di quel
che ha appena detto? non lo sai che è tutto il contrario? Perché lui, se in sua presenza faccio
l'elogio di qualcuno, d'un dio o di un'altra persona che non sia lui, non ci pensa due volte a
menarmi."
"Ma che dici!", gli fa Socrate.
"Per Poseidone - dice Alcibiade -, è inutile che protesti, perché in tua presenza io non posso fare
l'elogio di nessuno, se non di te."
"E allora fa così - dice Erissimaco -, se vuoi: fa un elogio di Socrate."
"Che dici? - riprese Alcibiade - tu credi che dovrei... Vuoi che me la prenda con un tipo così e mi
vendichi davanti a voi?"
"Ma ragazzo, che ti passa per la testa? - dice Socrate. Perché mai vuoi fare il mio elogio? per
prendermi in giro?"
"Voglio solo dire la verità: a te accettare o meno."
"La verità? Benissimo, allora accetto. Anzi ti chiedo io di dirla."
"Presto fatto - dice Alcibiade -. Quando a te, ti assegno un compito: se dico qualche cosa che
non è vera, tronca a metà le mie parole, se vuoi, e dimmi che su quella cosa lì io mento, perché
io volontariamente non racconterò certo delle balle. Però mescolerò un po' tutto nel mio
discorso, e tu non meravigliarti, perché tu sei proprio un bel tipo e non è certo facile nello stato
in cui sono, ricordare con ordine proprio tutto.
Per fare l'elogio di Socrate, amici, ricorrerò a delle immagini. Son sicuro che lui penserà che
voglia scherzare, e invece sono serissimo, perché voglio dire la verità. Io dichiaro dunque che
Socrate è in tutto simile a quelle statuette dei sileni che si vedono nelle botteghe degli scultori,
con in mano zampogne e flauti. Se si aprono, dentro si vede che c'è la statua di un dio. E
aggiungo che ha tutta l'aria di Marsia, il satiro: eh sì, Socrate, gli somigli proprio, non vorrai
negarlo! E non solo nell'aspetto! Ascoltami bene: non sei forse sempre tracotante? Se lo neghi,
io produrrò dei testimoni.
Ma, si dirà, Socrate è forse un suonatore di flauto? Sì, e ben più bravo di Marsia. Lui incantava
tutti con quel che riusciva a fare col flauto, tanto che ancora oggi chi vuol suonare le sue arie
deve imitarlo. Anche le musiche di Olimpo, io dico che erano di Marsia, il suo maestro. Le sue
arie, suonate da un grande artista o da una ragazzina alle prime armi, sono sempre le sole
capaci di incantarci, di farci sentire quanto bisogno abbiamo degli dèi: ci vien voglia di essere
iniziati ai misteri, perché quelle musiche sono divine. Tu, Socrate, sei diverso da Marsia solo in
questo, che non hai affatto bisogno di strumenti musicali per ottenere gli stessi risultati: ti
bastano le parole. Una cosa è certa e dobbiamo dirla: quando ascoltiamo un altro oratore, il suo
discorso non interessa quasi nessuno. Ma ascoltando te, o un altro - per mediocre che sia - che
riporta le tue parole, tutti, ma proprio tutti, uomini, donne, ragazzi, siamo colpiti al cuore:
qualcosa che non ci fa star tranquilli si impadronisce di noi.
Quanto a me, amici, non vorrei sembrarvi del tutto ubriaco, ma bisogna che vi dica - come se
fossi sotto giuramento - quale impressione ho avuto nel passato, ed ho ancora, ad ascoltare i
suoi discorsi. Quando lo sento parlare, il mio cuore si mette a battere più forte di quello dei
Coribanti in delirio e mi emoziono sino alle lacrime: e ne ho vista di gente provare le stesse
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emozioni. Ora, ascoltando Pericle ed altri grandi oratori, mi accorgevo certo che parlavano
bene, ma non provavo niente di simile: la mia anima non era travolta, non sentiva il peso della
schiavitù in cui era ridotta. Ma lui, questo Marsia, mi ha spesso messo in un tale stato da farmi
sembrare impossibile vivere la mia vita normale - e questo, Socrate, non dirai che non è vero. E
ancora adesso - lo so benissimo - se accettassi di prestar ascolto alle sue parole, non potrei
fanne a meno: proverei le stesse emozioni. Socrate con i suoi discorsi mi obbliga a riconoscere i
miei limiti: io non cerco di migliorare me stesso, e continuo lo stesso ad occuparmi degli affari
degli Ateniesi. Devo quindi fare violenza a me stesso, tapparmi le orecchie come se dovessi
fuggire dalle Sirene, devo andar via per evitare di passare con lui il resto dei miei giorni.
Soltanto davanti a lui ho provato un sentimento che nessuno si aspetterebbe di trovare in me:
io ho avuto vergogna di me stesso. Socrate è il solo uomo davanti al quale io mi sia vergognato.
E questo perché mi è impossibile - ne sono perfettamente cosciente - andargli contro, dire che
non devo fare quello che mi ordina; ma appena mi allontano, cedo al richiamo degli onori della
folla intomo a me. Allora mi nascondo, come uno schiavo scappo via, ma quando lo rivedo mi
vergogno per quel che prima ero stato costretto ad ammettere. Ci sono volte che non vorrei più
vederlo al mondo, ma se questo accadesse so che sarei infelicissimo. Così, io non so proprio che
cosa fare con quest'uomo.
Ecco l'effetto delle sue arie da flauto, su di me e su tanti altri: ecco cosa questo satiro ci fa
subire. Ma ascoltate ancora: voglio proprio mostrarvi come somigli alle statuette a cui l'ho già
paragonato, e come il suo potere sia straordinario. Sappiatelo per certo: nessuno di voi lo
conosce davvero e io, siccome ho già cominciato, voglio mostrarvelo sino in fondo. Guardatelo:
Socrate ha un debole per i bei ragazzi, non smette mai di girar loro attorno, perde la testa per
loro. D'altra parte lui ignora tutto, non sa mai niente - questa almeno è l'immagine che vuol
dare. Non è questa la maniera di fare di un sileno? Sì certo, perché questa è l'immagine esterna,
come quella della statuetta di sileno. Ma all'interno? Una volta aperta la statuetta, avete idea
della saggezza che nasconde? Amici miei, sappiatelo: che uno sia bello, a lui non interessa
affatto, non se ne accorge neppure - da non credersi - e lo stesso accade se uno è ricco o ha
tutto quello che la gente ritiene invidiabile avere. Per lui, tutto questo non ha alcun valore, e
noi non siamo niente ai suoi occhi, ve lo assicuro. Passa tutta la sua giornata a fare il sornione,
trattando con ironia un po' tutti. Ma quando diventa serio e la statuetta si apre, io non so se
avete mai visto che immagini affascinanti contiene. Io le ho viste, simili agli dèi, preziose,
perfette e belle, straordinarie: e così mi son sentito schiavo della sua volontà.
Ero giovane, e credevo seriamente che lui fosse preso dalla mia bellezza; ho creduto fosse una
fortuna per me, e un'occasione da non lasciar scappare. Ero veramente fiero della mia bellezza
e così speravo che, ricambiando il suo interesse, avrei potuto aver parte della sua saggezza.
Convinto di questo, una volta allontanai il mio servitore - di solito ce n'era sempre qualcuno
quando vedevo Socrate, e non eravamo mai soli - e così restai da solo con lui. Devo proprio dirvi
tutta la verità: ascoltatemi bene, e tu Socrate, se non dico bene correggimi. Eccomi dunque con
lui, amici, da soli. Io credevo che avrebbe ben presto cominciato a parlare come si parla fra
innamorati, e ne ero felice. Invece non fa assolutamente niente. Parla con me come sempre,
restiamo tutto il giorno insieme, poi se ne va. Allora lo invitai a far esercizi di ginnastica con me,
e così ci esercitavamo insieme: io speravo proprio di concludere qualcosa. Facemmo ginnastica
insieme per un certo tempo, e spesso facevamo la lotta, ed eravamo soli. Che dirvi? Nessun
passo avanti. Non riuscendo a niente con questi sistemi, pensai allora di puntar dritto al mio
scopo. Non volevo affatto lasciar perdere, dopo essenmi lanciato in questa impresa: dovevo
subito vederci chiaro. Lo invito dunque a cena, come un innamorato che tende una trappola al
suo amato. Ma non accettò subito, anzi ci mise un po' di tempo a convincersi. La prima volta
che venne, volle andar via subito dopo cena. Io, che mi vergognavo un po', lo lasciai andare. Ma
feci un secondo tentativo: e in quell'occasione dopo cena io prolungai la conversazione, senza
tregua, fino a notte fonda. Così quando lui volle andarsene, con la scusa che era tardi lo
convinsi a restare.
Era dunque coricato sul letto accanto al mio, là dove avevamo cenato, e nessun altro dormiva
con noi. Fin qui, quel che ho raccontato potrei dirlo davanti a tutti. Ma quel che segue voi non
me lo sentireste affatto dire se, come dice il proverbio, nel vino (bisogna o no parlare con la
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bocca dell'infanzia?) non ci fosse la verità. Del resto non mi par giusto lasciare in ombra quel
che di meraviglioso fece Socrate, proprio adesso che ne sto facendo l'elogio. E poi io sono come
uno morso da una vipera: queste persone, si dice, non raccontano affatto quel che han passato,
se non ad altri che sono stati anch'essi morsi, perché solo loro possono comprendere, e scusare
tutto ciò che si è osato fare o dire per l'angoscia del dolore. E io son stato morso da un dente
più crudele, e in una parte della persona che aumenta la crudeltà: nel cuore, nell'anima (poco
importa il nome). La filosofia con i suoi discorsi mi ha trafitto col suo morso, che penetra più a
fondo del dente della vipera quando si impadronisce dell'anima di un giovane non privo di
talento e gli fa fare e dire ogni sorta di stravaganze - ed eccomi qua con Fedro, con Agatone,
con Erissimaco, con Pausania, con Aristodemo, ed anche con Aristofane, senza parlare di
Socrate, e con tanti altri, tutti attenti come me al delirio filosofico e alla sua forza dionisiaca.
Vi chiedo dunque d'ascoltarmi perché certo mi perdonerete per quel che ho fatto allora e per
quel che dico oggi. E voi servitori, voi tutti che siete profani, se state ascoltando, tappatevi le
orecchie con le porte più spesse.
E allora, miei amici, quando la lampada fu spenta e i servi se ne furono andati, io pensai che
non dovevo più giocare d'astuzia con lui, ma dire francamente il mio pensiero. Gli dissi allora,
scuotendolo:
"Dormi, Socrate?"
"Per nulla", rispose.
"Sai cosa penso?"
"Che cosa?"
"Penso che tu saresti un amante degno di me, il solo che lo sia, e vedo che esiti a parlarne.
Quanto ai miei sentimenti, mi son convinto di questo: che è stupido, io credo, non cedere ai tuoi
desideri in questo, come in ogni cosa in cui tu avessi bisogno, la mia fortuna o i miei amici.
Niente, infatti, è più importante ai miei occhi che migliorare il più possibile me stesso, e io
penso che su questa strada nessuno mi può aiutare più di te. Quindi mi vergognerei dinnanzi
alle persone sagge di non cedere ad un uomo come te più di quanto mi vergognerei dinnanzi
alla massa degli ignoranti di cedere."
Mi ascolta, prende la sua solita aria ironica e mi dice:
"Mio caro Alcibiade, se quel che dici sul mio conto è vero, se ho davvero il potere di renderti
migliore, devo dire che ci sai proprio fare. Tu vedi senza dubbio in me una bellezza fuori del
comune e ben differente dalla tua. Se l'aver visto questo ti spinge a legarti a me e a scambiare
bellezza con bellezza, il guadagno che tu pensi di fare alle mie spalle non è affatto piccolo. Tu
non vuoi più possedere l'apparenza della bellezza, ma la bellezza reale, e quindi sogni di
scambiare - non c'è dubbio - il rame con l'oro. Eh no, mio bell' amico, guarda meglio! T'illudi sul
mio conto: io non sono niente. Lo sguardo della mente comincia davvero a esser penetrante
quando gli occhi cominciano a veder meno: e tu sei ancora molto lontano da quel momento."
Al che io rispondo:
"Per quel che mi riguarda, sia ben chiaro, io non ho detto niente che non penso. A te, adesso,
decidere ciò che è meglio per te e per me."
"Hai ragione - mi fa -. Nei prossimi giorni noi ci chiariremo, e agiremo nella maniera che
sembrerà migliore ad entrambi, su questo punto come su tutto il resto."
Dopo questo dialogo, io credevo di aver lanciato un dardo che l'avesse trafitto. Mi alzai e, senza
permettergli di reagire, stesi su di lui il mio mantello - era inverno - e mi allungai sotto il suo,
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ormai vecchio, e presi tra le mie braccia quest'essere veramente meraviglioso, divino, e restai
con lui tutta la notte. Adesso non dirai che mento, Socrate. Ma tutto questo dimostra quanto lui
fosse più forte: non degnò di uno sguardo la mia bellezza, non se ne curò affatto, fu quasi
offensivo in questo. E dire che credevo di non essere affatto male, miei giudici (sì, giudici della
tracotanza di Socrate). Ebbene sappiatelo - ve lo giuro sugli dèi e sulle dee - io mi alzai dopo
aver donmito a fianco di Socrate senza che nulla fosse accaduto, come se avessi dormito con
mio padre o con mio fratello maggiore.
Immaginate il mio stato d'animo! Certo, mi ero quasi offeso, ma apprezzavo il suo carattere, la
sua saggezza, la sua forza d'animo. Avevo trovato un essere dotato di un'intelligenza e di una
fermezza che avrei credute introvabili: e così non potevo prendermela con lui e privarmi della
sua compagnia, né d'altra parte vedevo come attirarlo dove volevo io. Sapevo bene che era
totalmente invulnerabile al denaro, più di Aiace davanti alle armi. Sul solo punto in cui credevo
si sarebbe lasciato catturare, ecco, era appena fuggito. Insomma, completamente schiavo di
quest'uomo, come mai nessuno lo è stato d'altri, gli giravo vanamente attorno.
Tutto questo accadde prima della spedizione di Potidea. Entrambi vi partecipammo, e
prendemmo anche i pasti insieme. Quel che è certo, è che resisteva alle fatiche non solo meglio
di me, ma di tutti gli altri. Quando capitava che le comunicazioni fossero intenrotte in qualche
punto, e in guerra succede, e noi restavamo senza mangiare, nessun'altro aveva tanta
resistenza alla fame. Al contrario, se eravamo ben riforniti, sapeva approfittarne meglio degli
altri, in particolare per bere; non che ci fosse portato, ma se lo si forzava un po', lui poi
superava tutti e - cosa assai strana - nessuno ha mai visto Socrate ubriaco. E credo che questa
notte stessa avrete la prova di quanto dico. Quanto al freddo - e nella zona di Potidea gli inverni
sono terribili - Socrate è del tutto straordinario. Vi racconto un episodio. Era un giorno di
terribile gelo, quanto di peggio potete immaginare, uno di quei giorni in cui tutti evitano di
uscire e se lo fanno si infagottano tutti, i piedi avvolti in panni di feltro o in pelli di agnello.
Socrate se ne uscì coperto solo dal mantello che porta sempre andando a piedi nudi sul ghiaccio
con più tranquillità di quelli che avevano le scarpe: e così i soldati lo guardavano di traverso,
perché pensavano li volesse umiliare.
E c'è dell'altro da dire. "E' straordinario ciò che fece e sopportò il forte eroe", laggiù in guerra:
val veramente la pena di sentire la storia che ho da raccontare. Un giorno si mise a meditare sin
dal primo mattino, e restava fermo a seguire le sue idee. Non riusciva a venire a capo dei suoi
problemi, e così stava lì, in piedi, a riflettere. Era già mezzogiorno e gli altri soldati
l'osservavano, stupiti, e la voce che Socrate era in piedi a riflettere sin dal mattino presto
cominciò a circolare; finché, venuta la sera, alcuni soldati della Ionia dopo cena portarono fuori
i loro letti da campo - era estate - e si sdraiarono al fresco, a guardar Socrate, per vedere se
avrebbe passato la notte in piedi. E così fece, sino alle prime luci del mattino. Solo allora se ne
andò, dopo aver elevato una preghiera al Sole.
Adesso, se volete, dobbiamo dir qualcosa della sua condotta in combattimento - perché anche
su questo punto bisogna rendergli giustizia. Quando ci fu lo scontro per il quale i generali mi
assegnarono un premio per il mio coraggio, riuscii a salvarmi proprio per merito suo. Ero ferito,
lui si rifiutò di abbandonarmi e riuscì a salvare sia me che le mie armi. Allora io chiesi ai
generali di assegnare il premio a te: non potrai certo, Socrate, dire adesso che io mento, e
neppure rimproverarmi per quel che dico. Ma i generali, considerando la posizione in cui ero,
volevano dare a me il premio, e tu hai personahnente insistito più di loro perché il premio
invece andasse a me. Ricordo un'altra occasione, amici, in cui valeva la pena di vedere Socrate:
fu quando il nostro esercito a Delio fu messo in rotta. In quell'occasione fu il caso a farmelo
incontrare. Io ero a cavallo, e lui era oplita. Stava ripiegando insieme a Lachete, tra le truppe
sbandate, quando io capito lì per caso, li vedo e per incoraggiarli dico loro che non li avrei
abbandonati. In quell'occasione ho potuto osservare Socrate ancora meglio che a Potidea,
perché avevo meno da temere, essendo a cavallo. Aveva più sangue freddo di Lachete - e
quanto! - e dava l'impressione (uso le tue parole, Aristofane) di avanzare come se si trovasse in
una strada d'Atene "sicuro di sé, gettando occhiate di fianco", osservando con occhio tranquillo
amici e nemici e facendo vedere chiaramente, e da lontano, che si sarebbe difeso sino in fondo
se qualcuno avesse voluto attaccarlo. E così andava senza mostrare alcuna inquietudine,
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insieme con il suo compagno: gli opliti che, in simili situazioni, si comportano in questa maniera
di solito non vengono affatto attaccati dai nemici, che invece inseguono chi scappa in disordine.
Molti altri aspetti del carattere di Socrate potrebbero essere oggetti di un elogio, perehé sono
veramente ammirevoli. Riguardo a queste cose, però, anche altri uomini probabilmente
meritano gli stessi elogi. C'è qualcosa in Socrate, invece, che lo rende meravigliosamente unico,
assolutamente diverso da tutti gli altri uomini del passato e del presente. Infatti, volendo, si
può trovare l'immagine di Achille in Brasida e in altri, Pericle può ricordare Nestore o Antenore,
e questi casi non sono isolati: si possono fare paragoni simili a proposito di tanti altri. Ma
l'incredibile di quest'uomo è che lui e i suoi discorsi non hanno paragoni né nel passato né oggi,
per quanto si cerchi con attenzione, a meno che non lo si voglia paragonare come facevo io
prima: non ad altri uomini, ma ai sileni e ai satiri - che si tratti di lui o delle sue parole. Sì,
perché c'è una cosa che ho dimenticato di precisare: anche i suoi discorsi sono simili alle
statuette dei sileni che si aprono.
Infatti, se si ascolta quel che dice Socrate, a prima vista le sue parole possono sembrare quasi
comiche, tutte intrecciate con strani discorsi: esteriormente ricordano proprio gli intrecci della
pelle di un satiro insolente. Parla di asini da soma, di fabbri, di sellai, di conciatori di pelli, ed ha
sempre l'aria di dire le stesse cose con le stesse parole. Chi non sa o è poco attento, c'è caso
che rida dei suoi discorsi. Ma se li apri e li osservi bene, penetrandone il senso, scopri che solo
le sue parole hanno un loro senso profondo: parla come un dio, e la folla delle immagini che
usa, affascinanti, rimandano sempre alla virtù. Chi lo ascolta è portato verso le cose più alte;
anzi, meglio, è guidato a tenere sempre davanti gli occhi tutto quel che è necessario per
diventare un uomo che vale.
Ecco, amici, il mio elogio di Socrate. Quanto ai rimproveri che ho da fargli, li ho mescolati al
racconto di quel che mi ha combinato. Del resto non sono il solo che ha trattato in questo
modo: ha fatto lo stesso con Carmide, il figlio di Glaucone, con Eutidemo, il figlio di Dioele, tutta
gente che ha ingannato con la sua aria da innamorato, con la conseguenza che furono loro ad
innamorarsi di lui. Io ti avverto, Agatone: non farti ingannare da quell'uomo! Che la nostra
esperienza ti sia di monito! Che non accada come dice il proverbio: "l'ingenuo fanciullo non
impara che soffrendo".
Quando Alcibiade ebbe parlato così, l'ilarità fu generale, anche perché s'era capito ch'era
ancora innamorato di Socrate. E così Socrate gli disse:
"Tu non hai affatto l'aria d'aver bevuto, Alcibiade. Altrimenti non avresti fatto un discorso così
sottile, tutto fatto per nascondere il tuo vero obiettivo, che è venuto fuori solo alla fine: ne hai
parlato come se fosse una cosa secondaria, e invece tu hai fatto tutto un lungo discorso solo
per cercar di guastar l'amicizia tra Agatone e me. E tutto perché sei convinto che io debba
amare solo te, nessun altro che te, e che Agatone debba essere amato soltanto da te, da nessun
altro che da te. Ma non t'è andata bene: il tuo dramma satiresco, la tua storia di sileni, abbiamo
capito tutti cosa significhi. E allora, mio caro Agatone, bisogna che lui non vinca a questo gioco:
sta ben attento che nessuno possa mettersi tra me e te."
E Agatone di rimando:
"Hai detto proprio la verità, Socrate. E ne ho le prove: si è venuto a sdraiare proprio tra te e me,
per separarci. Ma non ci guadagnerà niente a far così, perché io torno proprio a mettermi
accanto a te."
"Oh, bene, - disse Socrate - ti voglio proprio vicino!"
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"Per Zeus, - disse Alcibiade - quante me ne fa passare quest'uomo! Pensa sempre come fare per
aver l'ultima parola con me. Socrate, sei proprio straordinario! Ma lascia almeno che Agatone
stia tra noi due."
"E' impossibile - disse Socrate -. Perché tu hai appena fatto il mio elogio, e io devo a mia volta
far quello della persona che sta alla mia destra. Quindi, se Agatone si mette al tuo fianco, alla
tua destra, dovrà mettersi a fare il mio elogio prima che io abbia fatto il suo. Lascialo piuttosto
stare dov'è, mio divino amico, e non essere geloso se faccio il suo elogio, perché desidero
proprio cantare le sue lodi."
"Bravo! - disse Agatone -. Lo vedi tu stesso, Alcibiade: non è proprio possibile che resti qui.
Voglio a tutti i costi cambiar posto, e ascoltare il mio elogio da Socrate."
"Ecco - disse Alcibiade -, finisce sempre così. Quando c'è Socrate, non c'è posto che per lui
accanto ai bei ragazzi. Guarda che razza di ragione ha saputo trovare adesso per farselo stare
vicino!"
Agatone si era alzato per andarsi a mettere accanto a Socrate, quando all'improvviso tutta una
banda di gente allegra spuntò dalla porta. Qualcuno era uscito e l'avevano trovata aperta, e
così erano entrati e s'erano uniti alla compagnia. Gran baccano in tutta la sala: senza più alcuna
regola, si bevve allegramente un sacco di vino.
Allora, mi disse Aristodemo, Erissimaco, Fedro e qualcun altro andò via. Lui, Aristodemo, fu
preso dal sonno e dormì tanto, perché le notti erano lunghe. Si svegliò ch'era giorno e i galli già
cantavano. Alzatosi, vide che gli altri dormivano o erano andati via. Solo Agatone, Aristofane e
Socrate erano ancora svegli e bevevano da una gran coppa che si passavano da sinistra a
destra.
Socrate chiacchierava con loro. Aristodemo non ricordava, mi disse, il resto della conversazione,
perché non aveva potuto seguire l'inizio e dormicchiava ancora un po'. Ma in sostanza, disse,
Socrate stava cercando di convincere gli altri a riconoscere che un uomo può riuscire
egualmente bene a comporre commedie e tragedie, e che l'arte del poeta tragico non è diversa
da quella del poeta comico. Loro furono costretti a dargli ragione, ma non è proprio che lo
seguissero del tutto: stavano cominciando a dormicchiare. Il primo ad addonmentarsi fu
Aristofane, poi, ormai in pieno giorno, s'addormentò anche Agatone.
Allora Socrate, visto che si erano addormentati, si alzò e andò via. Aristodemo lo seguì, come
sempre faceva. Socrate andò al Liceo, si lavò e passò il resto della giornata come sempre
faceva. Dopo, verso sera, se ne andò a casa a riposare.
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PLATONE: “REPUBBLICA”
LIBRO OTTAVO
«Bene. Siamo quindi d'accordo, Glaucone, che nella città destinata al governo più perfetto
devono essere in comune le donne, i figli e l'intera educazione, come pure le occupazioni in
pace e in guerra, e devono regnarvi i migliori nella filosofia e nella guerra».
«Siamo d'accordo», disse.
«E abbiamo anche convenuto che i governanti, una volta insediatisi, faranno alloggiare i soldati
nelle abitazioni descritte sopra, dove nessuno avrà nulla di proprio, in quanto saranno comuni a
tutti; e oltre a queste abitazioni abbiamo concordato, se ti ricordi, anche le norme che
regoleranno i loro possessi».
«Sì », confermò, «ricordo: pensavamo che nessuno dovesse possedere nulla di ciò che ora
possiedono gli altri, e che in qualità di atleti della guerra e di guardiani dovessero prendersi
cura di sé e del resto della città, ricevendo come compenso per il loro servizio il mantenimento
annuale da parte degli altri concittadini».
«Giusto», risposi. «Ma ora che abbiamo concluso la trattazione di questo argomento,
richiamiamo alla memoria da quale punto abbiamo deviato fin qui, in modo da riprendere la
strada di prima». «Non è difficile», disse.
«Più o meno come adesso, facevi intendere di aver concluso il tuo discorso sulla città,
sostenendo che consideravi buona la città corrispondente a quella da te descritta in
precedenza, e buono l'uomo conforme ad essa, pur potendo indicare, a quanto sembra, una
città e un uomo ancora migliori.
Aggiungevi comunque che, se questa città è giusta, le altre sono sbagliate. E a quanto ricordo,
dicevi che esistono quattro forme di governo, delle quali vale la pena di parlare per vederne gli
errori, e quattro specie di uomini corrispondenti ad esse. Il tuo scopo era che esaminassimo
tutti questi individui e ci accordassimo sul migliore e sul peggiore, per poi accertare se il
migliore fosse il più felice e il peggiore il più infelice, o se le cose stessero altrimenti;
quando poi ti chiesi quali fossero le forme di governo di cui parlavi, a quel punto intervennero
Polemarco e Adimanto, e così tu, riallacciandoti al loro discorso, sei arrivato a questo punto».
«La tua ricostruzione è esattissima!», esclamai.
«Quindi, a mo' di lottatore, offrimi di nuovo la stessa presa, e cerca di rispondere alla mia
domanda come stavi per fare allora».
«Se ci riesco», dissi.
«D'altronde», aggiunse, «desidero anch'io ascoltare quali sono le quattro forme di governo di
cui parlavi».
«Non ti sarà difficile ascoltarlo», risposi. «Le quattro forme di cui parlo hanno anche dei nomi
appositi: la prima, la più lodata, è quella cretese e spartana;(2) la seconda, tale anche nelle
lodi, è chiamata oligarchia ed è una forma di governo piena di molti mali. Diversa da questa è la
democrazia, che la segue nell'ordine, e infine viene la vera e propria tirannide, che differisce da
tutte queste, quarto ed estremo malanno per una città.
Sai indicare qualche altra forma di governo che si possa collocare in una specie ben definita?
Le monarchie ereditarie, i regni che si comprano e altre simili forme di governo rientrano in
queste categorie, e si possono trovare tra i barbari non meno che tra i Greci».
«In effetti le forme di governo di cui si parla sono molte e strane», disse.
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«Sai dunque», dissi, «che anche gli uomini si dividono necessariamente in tante specie quante
sono le forme di governo? O credi che le forme di governo nascano da una quercia o da una
pietra3 anziché dai costumi presenti nelle città, che trascinano dietro tutto il resto indinando
come il piatto di una bilancia?»
«No, questa è l'unica causa», rispose.
«Perciò, se i regimi vigenti nelle città fossero cinque, sarebbero cinque anche le disposizioni
spirituali dei singoli individui».
«Certamente».
«Abbiamo già trattato dell'individuo simile al regime aristocratico, e l'abbiamo correttamente
definito buono e giusto».
«L'abbiamo già trattato».
«Adesso quindi bisogna passare in rassegna gli uomini peggiori di lui, cioè l'uomo litigioso e
ambizioso, modellato sulla costituzione spartana, e poi l'oligarchico, il democratico e il
tirannico, allo scopo di individuare il più ingiusto e contrapporlo al più giusto, completando la
nostra indagine sul rapporto tra la giustizia pura e l'ingiustizia pura riguardo alla felicità e
all'infelicità del singolo? Così potremo scegliere se seguire l'ingiustizia, dando retta a
Trasimaco, o la giustizia, secondo il discorso che ora stiamo portando avanti».
«Bisogna assolutamente fare così », rispose.
«Dunque, come abbiamo incominciato a studiare i caratteri prima nelle forme di governo che
negli individui, poiché questo procedimento ci sembrava più chiaro, così anche ora bisogna
prendere in esame innanzitutto la costituzione ambiziosa? Non conosco un altro nome con cui
designarla: la si dovrà chiamare timocrazia o timarchia. E in relazione a questa esamineremo
l'uomo timocratico, poi l'oligarchia e l'uomo oligarchico, in seguito dirigeremo la nostra
osservazione verso la democrazia e l'uomo democratico, e per quarto andremo a vedere uno
Stato tirannico e guarderemo dentro l'anima tirannica, cercando di esprimere un giudizio
attendibile sulla questione che ci siamo proposti?»
«Così l'osservazione e il giudizio sarebbero senz'altro ragionevoli», rispose.
«Dunque», ripresi, «cerchiamo di definire come dall'aristocrazia può nascere la timocrazia. Non
è forse ovvio che ogni forma di governo muta per opera di chi detiene il potere, quando in lui
stesso si genera la discordia, perché se vi regnasse la concordia sarebbe impossibile anche il
minimo cambiamento?» « Sì , è così ».
«E allora», domandai, «in che modo, Glaucone, la nostra città sarà sconvolta e i guardiani e i
governanti verranno a contesa tra loro e con se stessi? Vuoi che, alla maniera di Omero,
invochiamo le Muse perché ci narrino "come prese a cadere la discordia" e giocando e
scherzando con noi come con i bambini cantino però in stile tragico e sublime, quasi facessero
sul serio?»
«E come?» «Più o meno nel modo seguente. "è difficile che una città costruita su questi
fondamenti venga sconvolta; ma poiché tutto ciò che nasce si corrompe, neanche questa
compagine rimarrà in eterno, e un giorno si disgregherà. E la disgregazione avverrà così : non
solo le piante che hanno le radici nella terra, ma anche gli esseri viventi sulla superficie della
terra sono soggetti alla fecondità e alla sterilità dell'anima e del corpo, quando le rivoluzioni
periodiche concludono i movimenti ciclici di ciascun essere, brevi per quelli di breve vita,
contrari per quelli con qualità opposte.
Coloro che avete educato come guide della città, per quanto sapienti, non riusciranno a cogliere
con la ragione applicata all'esperienza i periodi di fecondità e sterilità della vostra razza, i quali
sfuggiranno al loro controllo; perciò talvolta genereranno figli quando non dovrebbero. Per la
prole divina il periodo fecondo è racchiuso da un numero perfetto, per quella umana dal primo
numero in cui le elevazioni al quadrato e al cubo, comprendenti tre intervalli e quattro termini
costituiti da fattori uguali e disuguali, crescenti e decrescenti, rendono tutte le cose tra loro
commensurabili e razionali. La loro base epitrita, accoppiata al numero cinque ed elevata al
cubo, genera due armonie, l'una rappresentata da un numero moltiplicato per se stesso, cento
volte cento, l'altra composta di fattori in parte usuali e in parte disuguali, ossia da cento
diagonali razionali di cinque diminuite ciascuna di una unità, o altrettante irrazionali diminuite
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di due unità, e da cento cubi di tre. Questo numero geometrico ha nel suo insieme il potere sulle
generazioni
migliori e peggiori. E quando i vostri guardiani, ignorandole, uniranno in matrimonio ragazzi e
ragazze fuori del tempo opportuno, i figli che nasceranno non saranno nobili né fortunati. I
predecessori avranno un bel mettere alla guida dello Stato i migliori tra quelli; ma costoro,
occupate le cariche dei padri senza esserne degni, cominceranno, benché guardiani, a
disinteressarsi di noi, stimando meno del dovuto la musica, e di conseguenza i vostri giovani
diventeranno più incolti. Dopo di loro saliranno al potere governanti non sufficientemente
forniti delle qualità di guardiani per valutare le razze di Esiodo e quelle d'oro, d'argento, di
bronzo e di ferro che si produrranno tra voi. Mescolatosi il ferro con l'argento
e il bronzo con l'oro, sorgerà una disuguaglianza e un'anomalia sregolata, che quando si
manifestano partoriscono sempre guerra e inimicizia. "Da questa generazione",bisogna dirlo,
trae origine la discordia, dovunque nasca"».
«E diremo che le Muse danno la risposta giusta!», esclamò.
«Per forza», ribattei, «se sono le Muse!».
«E dopo questo che cosa narrano le Muse?», domandò.
« Una volta che è sorta la discordia», ripresi, «entrambe le razze, quella di ferro e quella di
bronzo, si volgono agli affari, all'acquisto di terra, case, oro e argento, invece le altre due,
quella aurea e quella argentea, dal momento che non sono povere, bensì ricche per natura,
guidano le anime verso la virtù e l'antica organizzazione.
Dopo violenze e contese reciproche raggiungono un accordo sulla distribuzione di terra e case a
titolo privato, riducono in schiavitù gli amici e nutritori che prima custodivano come uomini
liberi, tenendoli in conto di perieci e di servi, e si occupano personalmente della guerra e della
loro difesa"».
«Mi sembra che da qui abbia origine il sovvertimento», disse.
«Quindi», domandai, «questa forma di governo sarà una via di mezzo tra l'aristocrazia e
l'oligarchia?» «Senza dubbio».
«Ecco come avverrà il mutamento. Ma una volta che sarà avvenuto, con quale sistema di
governo avremo a che fare?
Non è forse chiaro che in parte imiterà la costituzione precedente, in parte l'oligarchia,
trattandosi di una via di mezzo tra esse, ma avrà anche caratteri suoi propri?» «è così »,
rispose.
«Non imiterà dunque la costituzione precedente nel rispetto per i governanti, nell'astensione
della classe guerriera dai lavori agricoli e manuali e da ogni altra attività volta al denaro,
nell'organizzazione di pasti in comune e nella cura della ginnastica e degli esercizi di guerra?»
«Sì ».
«Ma non saranno per lo più queste le sue caratteristiche peculiari: (13) il timore che salgano al
potere i sapienti, dal momento che non dispongono più di uomini schietti e fermi, ma solo di
nature composite, l'inclinazione verso i soggetti irascibili e più rozzi, atti più alla guerra che alla
pace, la considerazione in cui sono tenuti gli inganni e gli stratagemmi
militari, e l'abitudine a passare tutto il tempo a combattere?» «Sì ».
«Uomini simili», continuai, «saranno avidi di denaro, come accade nei regimi oligarchici,
selvaggi che stimano nell'ombra l'oro e l'argento, poiché avranno cassetti e scrigni domestici
dove riporre e nascondere i propri averi, e inoltre una cerchia di case, a mo' di nidi privati, nei
quali consumare e spendere forti somme per le loro donne e per chi altri vorranno».
«Verissimo», disse.
«Quindi saranno anche avari delle loro ricchezze, dato che le onorano e non le possiedono alla
luce del sole, ma per la brama di essere prodighi dei beni altrui coglieranno i loro piaceri di
nascosto, sfuggendo alla legge come i figli al padre, educati non dalla persuasione ma dalla
violenza, perché hanno trascurato la vera Musa della parola e della filosofia e hanno stimato la
ginnastica più veneranda della musica».
«Tu», disse, «stai parlando di una costituzione in cui si mescolano appieno il male e il bene».
«In effetti è una costituzione mista», confermai. «Ma in essa si distingue particolarmente un
solo carattere, dovuto alla supremazia dell'elemento animoso: e cioè la presenza delle rivalità e
dell'ambizione». «E come!», esclamò.
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«Ecco come può nascere questa forma di governo», dissi. «Ne ho tracciato uno schema teorico
senza completare i dettagli, ma basta anche questo abbozzo per discernere l'uomo più giusto e
l'uomo più ingiusto; d'altronde è un lavoro impossibile, data la sua lunghezza, passare in
rassegna tutte le forme di governo e tutti i caratteri senza tralasciare nulla».
«Ben detto», approvò.
«Quale sarà dunque l'uomo corrispondente a questa forma di governo? Come nasce e qual è il
suo carattere?»
Intervenne Adimanto: «Credo che per il suo spirito battagliero tenda ad essere vicino al nostro
Glaucone».
«Sotto questo aspetto forse sì », dissi, «ma sotto questi altri mi sembra diverso».
«Quali?» «Il nostro uomo», risposi, «dev'essere un po' più prepotente e incolto, benché non
del tutto estraneo alle Muse; amante della musica e delle discussioni, ma niente affatto
eloquente. Un individuo simile sarà duro con gli schiavi, pur senza disprezzarli come chi
possiede una perfetta educazione, affabile con gli uomini liberi, molto obbediente alle
autorità; desideroso di cariche e di onori, non vorrà salire al potere per capacità oratorie o altre
doti di questo genere, ma per imprese militari e qualità legate all'arte della guerra, essendo
amante della ginnastica e della caccia».
«In effetti», osservò, «questo carattere corrisponde a quella forma di governo».
«Un uomo così , quindi», proseguii, «potrà anche disprezzare il denaro finché è giovane, ma
quanto più invecchierà tanto più lo avrà caro, poiché partecipa della natura dell'uomo avido e la
sua inclinazione alla virtù è impura, essendogli mancato il custode migliore?» «Quale?», chiese
Adimanto.
«La contemperanza di ragione e musica», risposi, «la sola che alberga per tutta la vita in chi
possiede la virtù e può conservarla».
«Hai ragione», disse.
«E questo», conclusi, «e il giovane timocratico, conforme a una tale città».
«Senza dubbio».
«Questo individuo», ripresi, «nasce più o meno così : talvolta è il giovane figlio di un padre
onesto che abita in una città mal governata, evita gli onori, le cariche, le cause giudiziarie e
ogni altra briga del genere e si accontenta di una posizione subordinata per non avere
fastidi...» «E come nasce allora?», domandò «Quando», risposi, «sente che sua
madre si lamenta del marito per una serie di motivi: innanzitutto perché non fa parte dei
governanti, il che la pone in una condizione di inferiorità rispetto alle altre mogli, poi perché
vede che non si dà troppo pensiero del denaro, non lotta e si lascia insultare in privato, nei
tribunali e nella vita pubblica, anzi sopporta questo genere di comportamenti con indolenza,
e infine perché si accorge che pensa sempre a se stesso, senza nutrire per lei un particolare
rispetto o disprezzo.
Ella si duole di tutto ciò e dice al figlio che suo padre è vile e troppo rilassato, e le altre litanie
che le donne sono solite
ripetere in queste occasioni».
«Che sono davvero molte», esclamò Adimanto, «e conformi al loro carattere!».
«Tu sai», aggiunsi, «che talvolta perfino i loro servi fanno di nascosto simili discorsi ai figli,
quando danno l'impressione di essere affezionati; e se vedono un debitore non perseguito dal
padre o qualcuno che gli fa un altro torto,
incitano il figlio a punire tutti questi individui una volta divenuto adulto e ad essere più uomo
del padre. Uscendo di casa il figlio ascolta e vede altre cose del genere: chi in città si fa gli affari
suoi ha la nomea di sciocco ed è tenuto in scarsa considerazione, chi invece sì comporta in
modo contrario è onorato e lodato. Allora il giovane, sentendo e vedendo tutto ciò, e inoltre
ascoltando i discorsi del padre e osservando la sua condotta da vicino, a differenza di quella
degli altri, subisce l'attrazione di entrambe le forze, del padre che irriga e sviluppa nell'anima
l'elemento razionale, degli altri che invece coltivano l'elemento concupiscibile e impulsivo,
perché per natura non è figlio di un uomo malvagio, ma ha frequentato cattive compagnie.
Trascinato da entrambe le parti si trova nel mezzo e affida il governo di se stesso
all'elemento intermedio, battagliero e impulsivo, diventando un uomo superbo e ambizioso».
«Mi sembra che tu abbia delineato precisamente la genesi di questo individuo», disse.
«Ecco dunque», conclusi, «la seconda forma di governo e il secondo tipo di uomo».
«Sì , eccolo», assentì .
«Ora dobbiamo ripetere il verso di Eschilo, "altr'uomo schierato in altra città",(14) oppure,
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secondo il nostro progetto, dobbiamo prima parlare della città?» «Facciamo così », rispose.
«La forma di governo che viene dopo di questa», ripresi, «sarà, credo, l'oligarchia».
«Ma quale costituzione intendi per oligarchia?», domandò.
«Quella basata sul censo», risposi, «nella quale i ricchi comandano e i poveri non partecipano
al governo».
«Capisco», disse.
«Quindi bisogna innanzitutto spiegare come avviene il passaggio dalla timarchia
all'oligarchia?» «Sì ».
«Eppure», dissi, «questo passaggio è chiaro anche a un cieco».
«In che senso?» «Questa forma di governo», risposi, «è rovinata da quel ripostiglio che
ognuno ha pieno d'oro.
Dapprima infatti trovano il modo di fare grosse spese e a tale scopo stravolgono le leggi, alle
quali disobbediscono essi
stessi e le loro donne».
«è probabile», disse.
«Poi, credo, rendono il popoì o simile a loro spiandosi e invidiandosi l'un l'altro».
«è probabile».
«Da allora in poi», ripresi, «continuano ad arricchirsi e quanto più apprezzano il denaro, tanto
più disprezzano la virtù.
La virtù e la ricchezza non si distinguono forse per il fatto che entrambe stanno come sul piatto
di una bilancia e inclinano
sempre in direzioni opposte?» «Sicuro!», rispose.
«Perciò, quando in una città sono onorate la ricchezza e i ricchi, saranno maggiormente
disprezzate la virtù e gli onesti».
«è chiaro».
«E si ha cura di ciò che di volta in volta è apprezzato, mentre si trascura ciò che è disprezzato».
«Proprio così ».
«Di conseguenza questi individui, anziché battaglieri e ambiziosi, alla fine diventano avidi di
ricchezze e di guadagno, lodano e ammirano il ricco e gli conferiscono il potere, mentre
disprezzano il povero».
«Certamente».
«E allora promulgano una legge con la quale impongono come limite della costituzione
oligarchica una determinata quantità di ricchezze, maggiore dove l'oligarchia è più forte,
minore dove è più debole, interdicendo dalle cariche chi non possiede un patrimonio che
raggiunga il censo prescritto; e realizzano il loro scopo con la forza delle armi o, prima ancora
di giungere a questo, stabiliscono una tale forma di governo con il terrore. Non è così ?» «è
proprio così ».
«In poche parole, ecco com'è questa costituzione».
«Sì », disse: «ma qual è il suo carattere? E quali sono i difetti che abbiamo individuato in
essa?» «Il primo», risposi, «è rappresentato dal suo stesso limite. Pensa un po' se si
scegliessero i piloti delle navi in base al censo e non si affidasse questo compito a un povero,
anche se fosse più bravo a guidare una nave...» «Questa gente farebbe una brutta
navigazione!», esclamò.
«E non sarebbe lo stesso per qualsiasi altra carica?» «Credo di sì ».
«Eccetto nel governo di una città?», chiesi. «O anche in questo?» «Tanto più in questo, quanto
più la carica è gravosa e importante», rispose.
«Ecco dunque un grave difetto dell'oligarchia».
«Pare di sì ».
«E quest'altro è forse inferiore al precedente?» «Quale?» «Il fatto che questo regime comporti
inevitabilmente la presenza non di una, ma di due città, quella dei ricchi e quella dei poveri, che
pur coabitando tentano sempre di colpirsi a vicenda».
«Per Zeus, non è affatto inferiore», rispose.
«Ma non è neppure bello non poter magari affrontare una guerra perché si è costretti a
ricorrere al popoì o armato e a temerlo più dei nemici, oppure a non farvi ricorso e apparire
proprio in battaglia oligarchici nel vero senso della parola,(15) e nello stesso tempo non voler
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contribuire alle spese per avarizia».
«No, non è bello».
«E ti sembra corretto ciò che prima abbiamo disapprovato, ossia il fatto che in questa forma dì
governo le stesse persone esercitino contemporaneamente il mestiere di contadino,
commerciante e guerriero?» «Niente affatto!».
«Guarda dunque se questo male, che è il più grave di tutti, non colpisce per prima l'oligarchia».
«Quale?» «La facoltà di vendere tutti i propri beni e comprare quelli di un altro, e dopo averli
venduti abitare nella città senza appartenere ad alcuna delle classi sociali in essa presenti commercianti, artigiani, cavalieri e opliti -, ma solo con la reputazione di povero e indigente».
«Sì », disse, «è la prima a esserne colpita».
«Una cosa del genere non è certo vietata nei regimi oligarchici: altrimenti non ci sarebbero
alcuni cittadini straricchi e altri completamente poveri».
«Giusto».
«Considera anche questo: quando un individuo simile era ricco e spendeva, era forse più utile
alla città per gli scopi di cui parlavamo poc'anzi? O aveva solo l'apparenza di uno dei
governanti, ma in realtà non era né governante né suddito,
bensì un dissipatore dei beni a sua disposizione?» «è così », rispose: «nonostante le
apparenze, non era altro che un dissipatore».
«Vuoi dunque», ripresi, «che definiamo questo individuo un fuco domestico, malanno della
città, come in un favo nasce il fuco, malanno dell'alveare?»(16) «Proprio così , Socrate»,
rispose.
«Ebbene, Adimanto, la divinità ha creato tutti i fuchi alati senza pungiglione, ma di questi a due
zampe alcuni li ha resi inoffensivi, altri li ha dotati di terribili pungiglioni? E quelli privi di
pungiglione da vecchi finiscono per diventare dei pezzenti, mentre quelli che ne sono provvisti
hanno tutti fama di malfattori?» «Verissimo», rispose. «Pertanto», proseguii, «è chiaro che in
una città in cui tu vedi dei pezzenti si nascondono ladri, borseggiatori, profanatori di templi e
delinquenti d'ogni genere».
«è chiaro», disse.
«E nelle città rette a oligarchia non vedi forse dei pezzenti?» «Lo sono quasi tutti», rispose,
«tranne i governanti». «Non dobbiamo allora credere», continuai, «che in queste città ci siano
molti malfattori dotati di pungiglione, sorvegliati e trattenuti a forza dalle autorità?» «Sì ,
dobbiamo crederlo», rispose.
«E non diremo che costoro vi nascono a causa dell'ignoranza, della cattiva educazione e della
costituzione vigente?»
«Sì , lo diremo».
«Tale dunque sarà la città oligarchica, e tanti, o forse ancora più numerosi, saranno i suoi
mali».
«Più o meno», ammise.
«Consideriamo quindi conclusa anche la trattazione di questa forma di governo chiamata
oligarchia, le cui cariche sono assegnate in base al censo; esaminiamo ora come nasce e quali
caratteri possiede l'individuo corrispondente».
«Benissimo», disse.
«E il passaggio dall'uomo timocratico a quello oligarchico non avviene proprio così ?» «Come?»
«Quando gli nasce un figlio, sulle prime questi emula il padre e ne segue le orme, ma poi vede
che urta all'improvviso contro la città come contro uno scoglio e perde i propri beni e se stesso,
dopo essere stato stratego o aver ricoperto qualche altra carica importante; quindi viene
trascinato dai sicofanti in tribunale, dove subisce la condanna a morte o all'esilio o alla
privazione dei diritti civili e di tutte le proprie sostanze».
«è probabile», disse.
«Avendo visto e subito tutto ciò, caro amico, e trovandosi, credo, privo di beni e in preda alla
paura, egli getta subito giù a capofitto dal trono della sua anima l'ambizione e l'elemento
impulsivo; umiliato dalla povertà, si volge al commercio e con tenacia, risparmiando e
lavorando, a poco a poco accumula ricchezze. Non credi dunque che un uomo simile insedi su
quel trono lo spirito di cupidigia e avidità e ne faccia il gran re del suo animo, cingendolo della
tiara, delle bende e della scimitarra?»
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«Credo di sì ».
«A mio parere, poi, fa sedere a terra, ai lati di quello spirito, l'elemento razionale e quello
impulsivo, rendendoli suoi schiavi; all'uno permette di calcolare e studiare soltanto il modo in
cui aumentare il proprio capitale, all'altro di ammirare e onorare soltanto la ricchezza e i ricchi
e di ambire unicamente al possesso di denaro e a quant'altro possa contribuire a questo fine».
«Non c'è», disse, «un altro modo così rapido ed efficace per trasformare un giovane ambizioso
in un uomo avido di denaro».
«E non è forse questo l'uomo oligarchico?», domandai.
«Sì , la sua trasformazione corrisponde alla forma di governo dalla quale si è sviluppata
l'oligarchia».
«Vediamo dunque se le assomiglia».
«Vediamo».
«Tanto per cominciare, non le assomiglierà nell'alta considerazione per il denaro?» «Come
no?» «E nell'essere parsimonioso e lavoratore, soddisfacendo soltanto i desideri necessari
senza concedersi altre spese, anzi dominando gli altri desideri come vani».
«Certamente».
«Un uomo arido», dissi, «che ricava denaro da ogni cosa e accumula tesori, insomma, uno di
quei tipi che piacciono al volgo: non sarà così l'individuo corrispondente a una tale forma di
governo?» «Mi pare di sì », rispose.
«Per una città e un individuo simili il denaro ha sicuramente un grande valore».
«Non credo infatti», aggiunsi, «che costui si sia mai interessato di cultura».
«Non mi sembra», concordò, «altrimenti non avrebbe messo un cieco alla guida del coro,
onorandolo tanto!».
«Bene», feci io. «Ora considera questo: non dobbiamo dire che per la sua ignoranza nascono in
lui passioni da fuco, in parte miserevoli, in parte disoneste, trattenute a forza dalle altre sue
occupazioni?» «E come!», esclamò.
«E tu sai», ripresi, «dove dovrai guardare per scorgere le malefatte di questi individui?»
«Dove?», chiese.
«Alla tutela degli orfani, e dovunque capiti loro un'occasione che dia ampia licenza di
commettere ingiustizia».
«è vero».
«E da ciò non risulta evidente che un uomo simile, nelle altre relazioni in cui la sua apparenza
di uomo giusto gli fa acquisire una buona reputazione, frena con una forte compostezza
interiore altre passioni malvagie che albergano in lui, ma non le persuade della loro disonestà e
non le placa con la ragione, ma cede alla costrizione e al terrore, in quanto teme per il resto del
suo patrimonio?» «Proprio così », rispose.
«E per Zeus», ripresi, «caro amico, troverai che nella maggior parte di costoro, quando si tratta
di spendere il denaro altrui, albergano le passioni congenite ai fuchi».
«E in larga misura!», assentì.
«Quindi un individuo simile non sarà immune da un dissidio interiore e in lui si troveranno non
una, ma due persone, anche se di solito i desideri migliori prevarranno su quelli peggiori».
«è così ».
«Per questo motivo, credo, sarà più rispettabile di molti altri; ma la vera virtù di un'anima
concorde e armonizzata fuggirà lontano da lui».
«Mi pare di sì ».
«D'altra parte l'uomo parsimonioso, a livello individuale, è un debole concorrente in città per
una vittoria o un'altra nobile ambizione, perché non vuole spendere denaro per queste
competizioni in cui è in palio la buona fama, timoroso com'è di risvegliare le passioni costose e
di invitarle a lottare al suo fianco. Perciò combatte da vero oligarchico con pochi dei suoi mezzi
e di solito viene sconfitto, pur conservando la propria ricchezza».
«Certo», disse.
«Abbiamo forse ancora dei dubbi», domandai, «a istituire una somiglianza tra l'uomo
parsimonioso e affarista e la città oligarchica?» «Nessun dubbio», rispose.
«Ora, a quanto pare, bisogna esaminare come nasce la democrazia e qual è il suo carattere, per
conoscere a sua volta il carattere dell'uomo corrispondente e sottoporlo al vaglio».
«Potremmo seguire il nostro solito procedimento», suggerì .
«E il passaggio dall'oligarchia alla democrazia», domandai, «non è forse determinato
dall'insaziabilità del bene che si propone quel regime, ossia di dover accumulare ricchezze a
ogni costo?» «In che senso?» «I governanti, credo, dato che nell'oligarchia detengono il
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potere grazie al possesso di molte ricchezze, non vogliono frenare con la legge i giovani
intemperanti e impedire loro di spendere e dilapidare le proprie sostanze, per diventare ancora
più ricchi e onorati comprando i loro beni e prestando a interesse».
«Sì , soprattutto per questo».
«E non è ormai evidente che in uno Stato i cittadini non possono apprezzare la ricchezza e
insieme essere sufficientemente temperanti, ma è inevitabile che trascurino o l'una o l'altra
cosa?» «è ben evidente», rispose.
«Così i regimi oligarchici talvolta hanno ridotto in povertà uomini non ignobili trascurandoli e
permettendo loro di darsi all'intemperanza».
«Certo».
«Costoro dunque, a mio parere, se ne stanno in città forniti di pungiglione e ben armati, alcuni
pieni di debiti, altri privati dei diritti civili, altri ancora nell'una e nell'altra situazione; pieni di
odio e desiderosi di colpire, tra gli altri, soprattutto chi possiede i loro beni, essi aspirano a una
rivoluzione».
«E’ così ».
«Gli affaristi, chini sul loro mestiere, sembra che non li vedano neanche, e con il denaro che
accumulano feriscono chiunque ceda loro; e moltiplicando i frutti del loro capitale generano
nella città un gran numero di fuchi e miserabili».
«E come potrebbe essere altrimenti?» «E non vogliono», proseguii, «spegnere questo male che
divampa impedendo di fare dei propri beni l'uso che si vuole oppure con quest'altro sistema,
secondo il quale simili casi si risolvono con un'altra legge».
«Quale legge?» «Una seconda legge contro i dissipatori che costringa i cittadini a darsi
pensiero della virtù. Se si imponesse di stipulare la maggior parte dei contratti volontari a
proprio rischio e pericolo, in città gli usurai non farebbero guadagni così spudorati e
nascerebbero meno guai del tipo di quelli che abbiamo appena indicato».
«Molti di meno, senz'altro», disse.
«Ora invece», continuai, «per tutte le ragioni accennate i governanti della città hanno ridotto i
sudditi in queste condizioni: e quanto a se stessi e i loro figli, non rendono forse i giovani molli,
inadatti alle fatiche fisiche e spirituali e incapaci di resistere ai piaceri e ai dolori a causa della
loro fiacchezza e pigrizia?» «Sicuro.» «Ed essi stessi non si curano d'altro che degli affari, e
non si preoccupano affatto della virtù più che dei poveri?»
«No davvero».
«In queste condizioni, quando i governanti e i sudditi vengono a contatto tra loro in viaggio o in
qualche altra occasione d'incontro, nelle feste, nelle spedizioni militari, durante una
navigazione o una guerra combattuta assieme, oppure quando si osservano a vicenda nei
momenti stessi di pericolo, i poveri non sono affatto disprezzati dai ricchi, ma spesso un uomo
povero robusto e abbronzato, schierato in battaglia accanto a un ricco allevato all'ombra e
coperto di molto grasso superfluo, lo vede tutto ansante e in difficoltà. Non pensi allora che
attribuisca la ricchezza di persone simili alla viltà dei poveri come lui, e che i poveri, quando si
incontrano in privato, si riferiscano l'un l'altro: "Quegli uomini sono in nostra balia, perché non
valgono nulla"?» «Per quanto mi riguarda», rispose, «so bene che fanno così ».
«Come dunque a un corpo debole basta ricevere una piccola spinta dall'esterno per ammalarsi,
e talvolta è indisposto anche senza cause esterne, così anche la città che si trova in una
situazione analoga si ammala ed è in conflitto con se stessa per un futile motivo, mentre gli uni
invocano l'alleanza di una città oligarchica o gli altri quella di una città democratica, e talvolta
scoppia la rivolta anche senza interventi esterni?»
«E come!».
«Pertanto la democrazia, a mio parere, nasce quando i poveri, riportata la vittoria sulla fazione
avversaria, uccidono gli uni e mandano in esilio gli altri, e dividono con i rimanenti a parità di
condizioni il governo e le cariche, che per lo più vengono assegnate tramite sorteggio».
«Questo regime», disse, «è in effetti la democrazia, sia che nasca in seguito a una lotta armata,
sia che gli avversari vadano in esilio per paura».
«E in che modo si governano costoro?», domandai. «E quali caratteri ha un regime simile? è
chiaro che l'individuo corrispondente si rivelerà democratico».
«è chiaro», rispose.
«Innanzitutto i cittadini sono liberi, la città si riempie di libertà e di franchezza, e c'è la
possibilità di fare ciò che si vuole?» «Così almeno si dice», rispose.
«Ma è evidente che, dove esiste licenza, ciascuno potrà organizzare la propria vita come gli
pare».
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«E’ evidente».
«Perciò in questa città si può trovare gente d'ogni risma».
«Come no?» «Può darsi», osservai, «che questa sia la costituzione migliore: come un mantello
trapunto d'ogni colore, così anch'essa, screziata di tutti i caratteri, può apparire bellissima. E
forse», continuai, «molti potranno giudicarla bellissima, come i fanciulli e le donne che
contemplano la varietà».
«Certo», disse.
«E qui, beato amico», aggiunsi, «è agevole cercare una forma di governo».
«Perché?» «Perché a causa della licenza ha in sé ogni genere di governo, e probabilmente chi
vuole istituire uno Stato, come facciamo noi ora, deve recarsi in una città democratica e
scegliere la forma di governo che gli piace, come se si recasse a una fiera delle costituzioni, e
fondare il suo Stato in base a questa scelta».
«Forse i modelli non gli mancherebbero davvero», disse.
«Il fatto che in questa città», proseguii, «non ci sia nessun obbligo di governare neanche se si è
in grado di farlo, né di essere governati se non lo si vuole, né di combattere quando si è in
guerra, né di mantenere la pace quando la mantengono gli altri, se non lo si desidera, e d'altra
parte si possa stare al potere e amministrare la giustizia, nel caso venga in mente di farlo,
anche se una legge lo impedisce: questo modo di vivere non è divinamente piacevole sul
momento?»
«Forse»,
rispose, «almeno sulle prime».
«E non è graziosa la mitezza di certe sentenze? Non hai mai visto in una simile forma di
governo uomini condannati a morte o all'esilio, che non di meno rimangono in città e si
aggirano in mezzo agli altri come degli eroi, quasi che nessuno se ne preoccupasse o li
vedesse?»
«Ne ho visti molti!», rispose.
«E veniamo all'indulgenza e al totale lassismo propri della democrazia, per non dire il disprezzo
di quei princìpi che abbiamo esposto con tanto rispetto quando fondavamo la città. Allora
dicevamo che un individuo, a meno di non avere una natura straordinaria, non potrebbe
diventare un uomo onesto se fin da bambino non praticasse giochi belli e non attendesse a ogni
simile occupazione ora invece con quanta disinvoltura la democrazia calpesta tutto ciò e non si
cura della condotta morale di chi si accosta alla politica, ma lo onora solo che proclami di essere
favorevole al popolo!».
«Un regime veramente nobile!», osservò.
«La democrazia», dissi, «avrà dunque queste e altre caratteristiche analoghe, e a quanto pare
sarà una forma di governo piacevole, anarchica e variegata, che dispensa una certa qual
uguaglianza a ciò che è uguale come a ciò che non lo è».
«Parli di cose ben note!», esclamò.
«Considera dunque», proseguii, «qual è, nella sfera individuale, l'uomo democratico. O bisogna
prima esaminare, come abbiamo fatto per la forma di governo, in che modo nasce?» «Sì »,
rispose.
«Forse nel modo seguente: da quell'oligarca avaro non potrebbe, come penso, nascere un figlio
allevato dal padre secondo le sue abitudini?» «Perché no?» «Anche costui, quindi, reprime a
forza i suoi piaceri dispendiosi, che non procurano ricchezza e sono appunto chiamati non
necessari».
«E’ chiaro», disse.
«Vuoi dunque», ripresi, «che per non discutere alla cieca definiamo innanzitutto quali sono i
desideri necessari e quali no?»
«Sono d'accordo», rispose.
«E non è giusto chiamare necessari quelli che non siamo in grado di respingere e quelli che, una
volta soddisfatti, ci procurano giovamento? La nostra natura deve provare di necessità sia gli
uni sia gli altri desideri. O no?»
«Certamente».
«Giustamente quindi applicheremo ad essi il concetto di necessario».
«Giustamente».
«E non avremmo ragione a definire non necessari tutti quelli che invece si possono rimuovere,
se ci si abitua fin da giovani, e la cui azione non produce niente di buono, anzi talvolta genera
effetti contrari?»
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«Sì , avremmo ragione».
«Dobbiamo quindi scegliere un esempio di entrambe le categorie, per farcene un'idea
generale?»
«Certo, conviene».
«Il desiderio di mangiare pane e companatico fino a raggiungere la salute e il benessere non
sarà forse necessario?»
«Credo di sì ».
«In tal caso il desiderio del pane è necessario sotto entrambi gli aspetti, sia perché è utile sia
perché è in grado di mantenere in vita».
«Sì ».
«Quello del companatico invece è necessario se contribuisce in qualche modo al benessere
fisico».
«Precisamente».
«E il desiderio che va oltre e ricerca cibi diversi da questi, benché si possa eliminare dalla
maggior parte degli uomini, se viene frenato sin dalla giovane età con l'educazione, e che è
dannoso sia al corpo sia all'anima agli effetti della saggezza e della temperanza? Non sarebbe
giusto chiamarlo non necessario?» «Anzi, giustissimo! ».
«Diremo quindi che questi desideri sono dispendiosi, quelli invece sono utilitari, in quanto
servono alle nostre
attività?»
«Sicuro!».
«Diremo la stessa cosa a proposito dei piaceri amorosi e degli altri?» «Sì , la stessa cosa».
«Ebbene, l'uomo che poco fa abbiamo chiamato fuco non è forse quello che, come s'è detto, si
fa dominare dai piaceri e dai desideri non necessari e ne è ricolmo, mentre l'uomo da noi
definito avaro e oligarchico è quello dominato dai piaceri necessari?»
«Ma certo!».
«Torniamo dunque a descrivere», ripresi, «come l'uomo democratico nasce dall'oligarchico. Mi
pare che di solito avvenga così ».
«Come?» «Quando un giovane, allevato come abbiamo detto prima, ossia in modo rozzo e
gretto, gusta il miele dei fuchi e frequenta belve focose e terribili, capaci di procurare svariati
piaceri d'ogni sorta e qualità, sta' sicuro che allora il suo temperamento oligarchico comincia a
mutarsi in democratico».
«E’ del tutto inevitabile», disse.
«Ebbene, come la città si trasformava perché una delle due fazioni riceveva aiuto da un alleato
esterno, in virtù della reciproca affinità, così anche il giovane si trasforma per l'intervento
esterno di un genere di desideri affine e simile a uno dei due generi presenti in lui?»
«Senz'altro».
«Ma se la sua parte oligarchica riceve a sua volta un aiuto, o dal padre o dagli altri familiari che
lo redarguiscono e lo rimproverano, allora, credo, scoppia nel suo intimo una rivoluzione, un
controrivoluzione e un conflitto con se stesso».
«Certamente».
«E talvolta, penso, la parte democratica cede a quella oligarchica, e alcuni dei suoi desideri
scompaiono, altri ancora vengono banditi, in virtù di un certo pudore che rinasce nell'anima del
giovane, il quale ritorna a una vita ordinata».
«Sì , talvolta accade questo», disse.
«Ma altre volte, immagino, per l'insipienza dell'educazione paterna si sviluppano e acquistano
forza molti altri desideri affini a quelli messi al bando».
«Sì , di solito accade questo».
«Essi dunque lo trascinano verso le solite compagnie, e le loro unioni clandestine ne
partoriscono molti altri».
«Certo».
«Alla fine, penso, conquistano la rocca dell'anima del giovane, rendendosi conto che è vuota di
cognizioni, nobili occupazioni e discorsi veri, che nelle menti degli uomini cari agli dèi sono le
sentinelle e i guardiani migliori».
«E di gran lunga!», esclamò.
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«E al loro posto, immagino, accorrono a occupare quello stesso luogo discorsi e opinioni
mendaci e arroganti».
«Senza dubbio», disse.
«E il giovane non tornerà ad abitare apertamente presso quei Lotofagi?
E se da parte dei familiari giunge un qualche aiuto alla parte economa della sua anima, quei
discorsi arroganti, sbarrate in lui le porte delle mura regali, non lasciano entrare i soccorsi e
non accolgono come ambasciatori i discorsi di cittadini più anziani, ma siccome nella battaglia
sono proprio loro a prevalere, mandano in disonorevole esilio il pudore affibiandogli il nome di
dabbenaggine, bandiscono la temperanza chiamandola viltà e coprendola di fango, e
persuadendo il giovane che la misura e le spese regolate sono indice di rozzezza e meschinità le
spediscono oltre confine, sostenuti da molti desideri inutili?»
«Proprio così ».
«Dopo aver svuotato e pulito di queste virtù l'anima di chi è in loro potere, la iniziano ai grandi
misteri; poi vi
introducono, splendidamente incoronate e accompagnate da un coro solenne, la tracotanza,
l'anarchia, la dissolutezza e l'impudenza, celebrandole e ricoprendole di nomi carezzevoli: la
tracotanza la chiamano buona educazione, l'anarchia libertà, la dissolutezza magnificenza,
l'impudenza coraggio. Non è pressappoco così », chiesi, «che un giovane allevato tra i desideri
necessari si trasforma fino a liberare e scatenare i piaceri non necessari e inutili?»
«Certo, ed è ben evidente!»,
rispose.
«In seguito un uomo simile, immagino, vive spendendo denaro, fatica e tempo non meno per i
piaceri non necessari che per quelli necessari; ma se è fortunato e non cade in preda a un
eccessivo delirio, anzi, una volta che è divenuto più anziano ed è passato il grosso della
buriana, accoglie parte delle virtù bandite e non si arrende totalmente ai vizi che hanno preso il
loro posto, allora passa la vita stabilendo una condizione di parità tra i piaceri e assegnando la
signoria di se stesso al piacere di turno, quasi l'avesse ottenuta in sorte, fin che non ne è sazio,
senza disprezzarne alcuno, ma nutrendoli tutti in ugual modo».
«Senz'altro».
«Inoltre», aggiunsi, «non accetta un discorso vero e non lo lascia entrare nella sua
guarnigione, se per caso qualcuno gli dice che alcuni piaceri riguardano i desideri nobili e
onesti, altri quelli malvagi, e che bisogna coltivare e apprezzare gli uni, punire e reprimere gli
altri; ma nega il suo assenso a tutto ciò e sostiene che tutti i piaceri sono uguali e meritano lo
stesso apprezzamento».
«Con una tale disposizione d'animo», disse, «si comporta davvero così ».
«Pertanto», ripresi, «egli trascorre i suoi giorni a compiacere il primo desiderio che gli capita:
ora si ubriaca al suono dei flauti, poi beve acqua e segue una cura dimagrante, ora fa
ginnastica, talvolta invece se ne sta in ozio e si disinteressa di tutto, e in certi momenti vuole
dare persino l'impressione di studiare la filosofia.
Spesso prende parte alla vita pubblica e salta su a dire e a fare la prima cosa che gli viene in
mente; e se per caso emula qualche uomo di guerra, si volge in questa direzione, se invece
emula qualche affarista, si volge da quest'altra parte. Nessun ordine o costrizione regola la sua
vita, alla quale si attiene di continuo chiamandola piacevole, libera e beata».
«Hai descritto perfettamente la vita di un uomo egualitario»,
disse.
«Credo pure», proseguii, «che sia multiforme e piena di tantissime abitudini, e che quest'uomo
sia bello e vario come quella città; molti uomini e molte donne potrebbero invidiarlo per la sua
vita, in quanto egli racchiude in sé tantissimi modelli di governi e di comportamenti».
«Costui è fatto proprio così », disse.
«Vogliamo dunque ascrivere un individuo simile alla democrazia, così da poterlo correttamente
definire democratico?»
«Ascriviamolo», rispose.
«Ora», ripresi, «ci resterebbe da descrivere la più bella forma di governo e il migliore individuo:
la tirannide e il tiranno».
«Certamente», disse.
«Ebbene, caro amico, qual è il carattere della tirannide? è pressoché evidente che si tratta di un
trapasso dalla democrazia».
«Sì , è evidente».
«Quindi la tirannide nasce dalla democrazia allo stesso modo in cui questa nasce
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dall'oligarchia?» «In che modo?» «Il bene che i cittadini si proponevano», spiegai, «e per il
quale avevano istituito l'oligarchia era la ricchezza eccessiva: non èvero?»
«Sì ».
«Ma l'insaziabile brama di ricchezza e la noncuranza d'ogni altro valore a causa dell'affarismo
l'hanno portata alla rovina».
«è vero» disse.
«E anche la disgregazione della democrazia non è provocata dall'insaziabile brama di ciò che si
prefigge come bene?».
«E che cosa, secondo te, si prefigge?» «La libertà», risposi. «In una città democratica sentirai
dire che questo è il bene supremo e quindi chi è libero per natura dovrebbe abitare soltanto là».
«In effetti si ripete spesso questa sentenza», osservò.
«Come stavo per chiederti», proseguii, «non sono dunque la brama insaziabile e la noncuranza
d'ogni altro valore a trasformare questa forma di governo e a prepararla ad avere bisogno della
tirannide?» «In che senso?», domandò.
«A mio parere, quando una città democratica, assetata di libertà, viene ad essere retta da
cattivi coppieri, si ubriaca di libertà pura oltre il dovuto e perseguita i suoi governanti, a meno
che non siano del tutto remissivi e non concedano molta libertà, accusandoli di essere scellerati
e oligarchici».
«Sì », disse, «fanno questo».
«E ricopre d'insulti», continuai, «coloro che si mostrano obbedienti alle autorità, trattandoli
come uomini di nessun valore, contenti di essere schiavi, mentre elogia e onora in privato e in
pubblico i governanti che sono simili ai sudditi e i sudditi che sono simili ai governanti. In una
tale città non è inevitabile che la libertà tocchi il suo culmine?»
«Come no?»
«Inoltre, mio caro», aggiunsi, «l'anarchia penetra anche nelle case private e alla fine sorge
persino tra gli animali».
«In che senso possiamo dire una cosa simile?», domandò.
«Nel senso», risposi, «che ad esempio un padre si abitua a diventare simile al figlio e a temere i
propri figli, il figlio diventa simile al padre e pur di essere libero non ha né rispetto né timore
dei genitori; un meteco
si eguaglia a un cittadino e un cittadino a un meteco, e lo stesso vale per uno straniero».
«In effetti accade questo», disse.
«E accadono altri piccoli inconvenienti dello stesso tipo: in una tale situazione un maestro ha
paura degli allievi e li lusinga, gli allievi dal canto loro fanno poco conto sia dei maestri sia dei
pedagoghi; insomma, i giovani si mettono alla pari dei più anziani e li contestano a parole e a
fatti, mentre i vecchi, abbassandosi al livello dei giovani, si riempiono di facezie e smancerie,
imitando i giovani per non sembrare spiacevoli e dispotici».
«Precisamente», disse.
«In una città come questa», seguitai, «caro amico, il limite estremo della libertà a cui può
giungere il volgo viene toccato quando gli uomini e le donne comprati non sono meno liberi dei
loro compratori. E per poco ci dimenticavamo di dire quanto sono grandi la parità giuridica e la
libertà degli uomini nei confronti delle donne e delle donne nei confronti degli uomini!».
«Dunque», fece lui, «con Eschilo "diremo quel ch'ora ci venne al labbro"?» «è appunto ciò che
sto dicendo»,
risposi: «nessuno, a meno di non constatarlo di persona, potrebbe convincersi di quanto la
condizione degli animali domestici sia più libera qui che altrove.
Le cagne, secondo il proverbio, diventano esattamente come le loro padrone, i cavalli e gli asini,
abituati a procedere con grande libertà e fierezza, urtano per la strada chiunque incontrino, se
non si scansa, e parimenti ogni altra cosa si
riempie di libertà».
«Stai raccontando il mio sogno», disse, «perché anche a me, quando vado in campagna, spesso
capita proprio questo».
«Ma non capisci», domandai, «che la somma di tutti questi elementi messi insieme rammollisce
l'anima dei cittadini a tal punto che, se si prospetta loro un minimo di sudditanza, si indignano e
non lo sopportano? Tu sai che finiscono per non curarsi neppure delle leggi, scritte e non
scritte, affinché tra loro non ci sia assolutamente alcun padrone».
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«E come se lo so!», rispose.
«Dunque, amico mio», dissi, «questo mi sembra l'inizio bello e vigoroso da cui nasce la
tirannide».
«Davvero vigoroso!», esclamò. «Ma che cosa succede dopo?» «Lo stesso malanno», continuai,
«che si manifesta nell'oligarchia portandola alla rovina, nasce anche nella democrazia, più forte
e violento a causa della licenza, e la asservisce.
In effetti l'eccesso produce di solito un grande mutamento in senso contrario, nelle stagioni,
nelle piante, negli animali e non ultimo anche nelle forme di governo».
«è naturale», disse.
«Infatti l'eccessiva libertà non sembra mutarsi in altro che nell'eccessiva schiavitù, tanto per il
singolo quanto per la città».
«Sì , è naturale».
«Ed è quindi naturale», ripresi, «che la tirannide si formi solo dalla democrazia, ossia che
dall'estrema libertà si sviluppi la schiavitù più grave e più feroce».
«E’ logico», disse.
«Tu però», continuai, «non mi stavi chiedendo questo, bensì qual è quello stesso malanno che
nasce nell'oligarchia e nella democrazia asservendole».
«è vero», confermò.
«Ebbene», dissi, «io intendevo parlare di quella razza di uomini pigri e spendaccioni, i più
coraggiosi in testa e i più vili al seguito: noi paragoniamo gli uni ai fuchi dotati di pungiglione,
gli altri a quelli che ne sono privi».
«E con ragione!», esclamò.
«Questi due gruppi», ripresi, «nascono in ogni regime e vi creano scompiglio, come nel corpo la
flemma e la bile;
perciò il buon medico e legislatore della città, non meno di un esperto apicultore, deve prendere
per tempo le sue precauzioni, innanzitutto per impedire che nascano, e se nascono perché siano
recisi al più presto assieme ai loro favi».
«Sì , per Zeus, proprio così !», disse.
«Quindi», proseguii, «per scorgere più distintamente il nostro obiettivo, procediamo in questo
modo».
«Come?» «Dividiamo una città democratica in tre parti, cosa che del resto corrisponde alla
realtà. La prima, se non erro, è quella classe che nasce qui non meno che nella città oligarchica
a causa della licenza».
«E’ così ».
«Ma in questo regime è molto più violenta che in quello».
«In che senso?» «Là rimane inesperta e debole perché non viene apprezzata, anzi viene tenuta
lontano dalle cariche;
nella democrazia invece questa, salvo pochi casi, è la classe dirigente e la sua parte più violenta
parla e agisce, mentre gli altri, seduti attorno alle tribune, ronzano e non tollerano chi
contraddice. Così in un simile regime tutto è amministrato da questa classe, con poche
eccezioni».
«Precisamente», disse.
«C'è poi un'altra classe che si distingue sempre dal volgo».
«Quale?» «Quando tutti si danno agli affari, le persone dalla natura più equilibrata diventano di
solito molto ricche».
«E’ logico».
«E da lì , penso, i fuchi ricavano facilmente la massima quantità di miele da suggere».
«E come potrebbero suggere da chi ha poche sostanze?», replicò.
«E questi, credo, sono i ricchi che vengono chiamati erba dei fuchi».
«Più o meno», disse.
«La terza classe sarebbe il popolo, composto da chi lavora in proprio e non partecipa agli affari
pubblici, gente che non possiede un patrimonio cospicuo: ma nella democrazia questa è la
classe più numerosa e più potente, quando si coalizza».
«In effetti è così », disse; «ma non vuole farlo spesso, se non riceve un po' di miele!».
«Eppure ne riceve sempre», replicai, «ogni volta che i governanti spogliano i cittadini abbienti
dei loro averi e ne distribuiscono al popolo, tenendo per sé la parte maggiore».
«Sì , lo riceve in questo modo», disse.
Perciò le vittime di queste spoliazioni sono costrette a difendersi credo, parlando e agendo tra il
popolo come meglio possono».
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«Come no?» «E allora, anche se non aspirano alla rivoluzione, sono accusati dagli altri di
tendere insidie al popolo e di essere oligarchici».
«Certo».
«E alla fine, quando vedono che il popolo o tenta di danneggiarli non di sua iniziativa, ma
perché è ignorante e viene ingannato dai calunniatori, allora, che lo vogliano o no, diventano
veramente oligarchici non di loro iniziativa, ma perché quel fuco, pungendoli, produce anche
questo male».
«Senza dubbio».
«Allora nascono le denunce, i processi e le contese reciproche».
«Appunto».
«Ma il popolo non ha sempre l'abitudine di mettere alla sua testa un solo individuo, di cui
alimenta e accresce il potere?» «Sì , ha questa abitudine».
«E allora», dissi, «è evidente che quando nasce un tiranno, germoglia dalla radice di un capo e
non da un'altra».
«E come se è evidente!».
«E come inizia la trasformazione da capo a tiranno? Non è chiaro che ciò avviene quando il capo
incomincia a comportarsi come nel mito che si racconta sul tempio di Zeus Liceo in Arcadia?»
«Quale mito?», chiese.
«Quello secondo il quale chi ha gustato viscere umane, tagliate e mescolate a quelle di altre
vittime sacrificali, si trasforma inevitabilmente in lupo. Non hai mai sentito questa storia?» «Sì
, certo».
«Ebbene, allo stesso modo chi è stato messo a capo del popolo, se incontra una massa troppo
obbediente, non si astiene dal sangue dei concittadini, ma con false accuse, come accade di
solito, trascina l'avversario in tribunale e si macchia di un delitto togliendo la vita a un uomo, e
gustando con lingua e bocca impure sangue della sua razza manda in
esilio, condanna a morte e proclama cancellazioni di debiti e divisioni di terre. Non è forse
inevitabile che dopo queste azioni un individuo simile sia destinato a cadere vittima dei suoi
nemici o a diventare tiranno, trasformandosi da uomo in
lupo?» «è del tutto inevitabile», rispose.
«Ecco colui che lotta contro i possessori di beni!», esclamai.
«Sì , eccolo».
«E se viene esiliato e rimpatria a dispetto dei suoi nemici, non ritorna da perfetto tiranno?»
«è ovvio».
«Se però i nemici non riescono a scacciarlo o a ucciderlo calunniandolo di fronte alla
cittadinanza, meditano di farlo perire segretamente di morte violenta».
«In genere le cose vanno così », confermò.
«A questo punto tutti coloro che si sono spinti fin qui tirano fuori la famosa richiesta dei tiranni:
chiedono al popolo o delle guardie del corpo per garantire l'incolumità del loro difensore».
«Certamente», disse.
«E il popolo, penso, gliele concede, perché teme per lui e confida nelle proprie forze».
«Sicuro».
«Perciò, quando un uomo danaroso, che per le sue ricchezze è accusato di odiare il popoì o, si
accorge di questo, egli, amico mio, come recita l'oracolo dato a Creso, "lungo l'Ermo ghiaioso
fugge senza ristare né ha vergogna d'essere
vile"».
«Già, perché non potrebbe vergognarsi una seconda volta!», esclamò.
«Ma se viene arrestato», proseguii, «penso che venga messo a morte».
«Per forza».
«Ed è chiaro che quel capopopolo non giace "grande e lungo disteso", (29) ma dopo aver
buttato giù molti altri sta ritto sul carro della città, trasformatosi ormai da capo in perfetto
tiranno».
«E perché non dovrebbe?», disse.
«Dobbiamo dunque descrivere», domandai, «la felicità dell'individuo e della città in cui nasce
un simile mortale?» «Certo», rispose, «descriviamola».
«Ebbene», seguitai, «nei primi giorni e in un primo tempo non rivolge forse sorrisi e saluti a
tutti quelli che incontra?
Non nega di essere un tiranno e non fa molte promesse in privato e in pubblico? Non condona i
debiti, non distribuisce la terra al popolo e ai suoi accoliti e non finge di essere mite e affabile
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con tutti?» «Per forza», rispose.
«Ma quando, credo, si è liberato dei nemici esterni accordandosi con gli uni e annientando gli
altri, e dal quel lato può stare tranquillo, comincia a suscitare guerre in continuazione, affinché
il popolo abbia la necessità di un capo».
«Sì , è logico».
«E anche perché i cittadini, impoveritisi per i tributi che devono versare, siano costretti a vivere
alla giornata e pensino meno a cospirare contro di lui?» «è chiaro».
«E magari per eliminare con un pretesto, consegnandoli ai nemici, coloro che sospetta abbiano
uno spirito troppo libero per lasciarlo governare? Per tutti questi motivi il tiranno non deve per
forza scatenare sempre una guerra?» «Perforza, sì ».
«Ma facendo questo non è facile che venga ancora più in odio ai cittadini?» «Come no?»
«Quindi anche quelli che l'hanno aiutato a prendere il potere e si trovano in una posizione di
forza, o almeno i più coraggiosi, parlano con franchezza a lui e tra di loro, criticando il suo
operato?» «è probabile».
«Perciò il tiranno deve eliminarli tutti, se vuole dominare, finché non gli rimane nessuno né tra
gli amici né tra i nemici che valga qualcosa».
«è ovvio».
«Allora deve distinguere con acume chi è coraggioso, chi generoso, chi assennato, chi ricco; ed
è tanto fortunato che, volente o nolente, deve per forza essere nemico di tutti costoro e
cospirare ai loro danni, fino a ripulire la città».
«Una bella pulizia!», esclamò.
«Sì », dissi, «l'opposto di quella prescritta dai medici per il corpo: essi tolgono il peggio e
lasciano il meglio, costui fa il contrario».
«E a quanto pare», aggiunse, «è forzato ad agire così , se davvero vuole governare».
«Egli si trova implicato in un dilemma davvero felice», ripresi, «che gli impone di vivere con
una massa di mediocri, dai quali per giunta è odiato, oppure di non vivere».
«Sì , in un dilemma del genere», disse.
«Ma quanto più si renderà odioso ai cittadini con questo comportamento, tanto più avrà
bisogno di guardie del corpo numerose e fedeli?» «Come no?» Ma chi saranno questi uomini
fedeli, e da dove li farà arrivare?» «Se darà una mercede», rispose, «molti verranno a volo
spontaneamente».
«Corpo d'un cane», esclamai, «mi sembra che tu stia parlando di fuchi stranieri d'ogni razza!».
«E ti sembra bene», disse.
«E dal suo stesso Paese chi verrà? Il tiranno non vorrà forse... » «Che cosa?» «Togliere gli
schiavi ai cittadini, liberarli e farne le proprie guardie del corpo?» «Certo», rispose, «perché
costoro gli sono assolutamente fedeli».
«Davvero beata», esclamai, «è per te la condizione del tiranno, se si riduce ad avere come
amici fidati individui simili, dopo aver tolto di mezzo quelli di prima!».
«Eppure», ribatté, «la gente a cui ricorre è proprio questa».
«E sono questi», domandai, «i compagni che lo ammirano e i nuovi cittadini che lo attorniano,
mentre le persone oneste lo odiano e lo evitano?» «E come può essere altrimenti?» «Non a
torto», dissi, «la tragedia in genere ha fama di essere sapiente, ma in particolare quella di
Euripide».
«Perché?» «Perché ha proferito anche questa sentenza dal significato profondo: "saggi sono i
tiranni in compagnia dei saggi". Voleva dire, è chiaro, che questi sono i saggi con cui il tiranno
vive».
«Ed esalta pure la tirannide», aggiunse, «come divina,(31) ricoprendola di molte lodi al pari
degli altri poeti».
«Pertanto», continuai, «i poeti tragici, nella loro sapienza, vorranno perdonare noi e quanti si
governano come noi se non li accoglieremo nel nostro Stato, dato che inneggiano alla
tirannide».
«Da parte mia», disse, «credo che i più intelligenti tra loro ci perdonino».
«Ma io penso che essi trascinino gli Stati verso la tirannide e la democrazia girando per le altre
città, radunando le folle e assoldando voci belle, forti e persuasive».
«E come!».
«Inoltre ricevono per questo compensi e onori soprattutto dai tiranni, com'è ovvio, e poi dalla
democrazia; e quanto più salgono nell'erta delle costituzioni, tanto più cara il loro prestigio,
quasi fosse incapace di proseguire per il fiatone».
«Proprio così ».
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«Tuttavia», ripresi, «qui siamo usciti di strada. Torniamo a parlare di quella forza armata del
tiranno, bella, numerosa,
varia e mai uguale a se stessa, e vediamo da dove potrà mantenerla».
«è chiaro», disse, «che se la città ha un tesoro sacro gli darà fondo, e finché il ricavato della
vendita sarà sufficiente imporrà al popolo minori tributi».
«E che cosa succederà quando queste ricchezze verranno meno?» «è chiaro», rispose, «che lui,
i commensali, i compagni e le favorite si manterranno con i beni di famiglia».
«Capisco», dissi: «il popolo o che ha generato il tiranno manterrà lui e i suoi compagni».
«Dovrà farlo per forza», confermò.
«Ma come!», replicai. «E se il popolo si indignasse e dicesse che per un figlio nel fiore dell'età
non è giusto farsi mantenere dal padre, anzi dovrebbe essere il contrario, e che il padre non lo
ha messo al mondo e insediato al potere per diventare, una volta che sia cresciuto, lo schiavo
dei suoi schiavi e mantenere lui e i servi con una colluvie d'altri parassiti,
ma per essere liberato sotto la sua tutela dai cosiddetti ricchi e galantuomini della città, mentre
ora gli ordina di andarsene dalla città, lui e i suoi amici, come un padre che scaccia di casa un
figlio assieme alla sua compagnia di convitati molesti?» «Allora, per Zeus», rispose, «il popolo
comprenderà quale belva ha generato, carezzato e cresciuto, e si renderà conto di essere
troppo debole per scacciare chi ormai è troppo forte».
«Ma che cosa dici?», feci io. «Il tiranno oserà fare violenza al padre, e a percuoterlo se non gli
obbedirà?»
«Sì »,
rispose, «dopo avergli tolto le armi».
«Tu», proseguii, «stai parlando di un tiranno parricida che offre un cattivo sostentamento alla
vecchiaia; e a quanto pare, dovremmo ormai essere in presenza di quella che per consenso
unanime chiamiamo tirannide.
Come dice il proverbio, il popolo, per evitare il fumo della schiavitù sotto uomini liberi, cadrà
nel fuoco del dispotismo di schiavi, cingendosi, invece che di tutta quella libertà inopportuna,
della veste più dura e più amara: la schiavitù esercitata da schiavi».
«Sì , accade proprio questo», disse.
«Ebbene», conclusi, «sarà fuor di luogo affermare che abbiamo descritto esaurientemente il
passaggio dalla democrazia alla tirannide e le caratteristiche di quest'ultima?» «La descrizione
è senz'altro esauriente», rispose.
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