Comments
Description
Transcript
Inserire qui il titolo (Stile titolo 1)
Claude McKay tra Stati Uniti e Unione Sovietica: identità afroamericana e utopia socialista1 Fiorenzo Iuliano Il giamaicano Claude McKay, figura ritenuta marginale della Harlem Renaissance, è noto agli studiosi soprattutto come poeta e romanziere. La letteratura critica esistente sulla sua produzione, pur non ricchissima, ha ricostruito il suo lungo percorso artistico e umano, dalla fase iniziale di celebrazione quasi di maniera della Giamaica della giovinezza, fino all’arrivo negli Stati Uniti (prima, nel 1912, al Tuskegee Institute, e poi a New York nel 1914), e al suo ruolo attivo nella Harlem Renaissance. La sua opera è stata discussa sia per i suoi legami con il rinascimento di Harlem e le influenze o le relazioni spesso difficili e polemiche con autori più noti, sia per specifici temi che ricorrono in maniera diffusa pure se discontinua: il rapporto con le origini caraibiche e con l’ideologia dell’impero britannico, l’impegno militante in difesa dei diritti degli afroamericani, l’omosessualità mai dichiarata e anzi talvolta rinnegata. Interessante è pure l’approdo di McKay, negli ultimi anni di vita, al cattolicesimo, che ha comportato una revisione, con toni talvolta non lontani dall’abiura, di alcune posizioni ideologiche passate. Sono pochi invece, come ricorda Gary Holcomb, gli studiosi Ringrazio Marina Guglielmi ed Emanuela Piga per il sostegno ricevuto nella scrittura di questo lavoro, e ringrazio Enza Dammiano per i preziosi suggerimenti. Dedico queste pagine al ricordo di Radhouan Ben Amara. 1 Between, vol. V, n. 10 (Novembre/November 2015) Fiorenzo Iuliano, Claude McKay tra Stati Uniti e Unione Sovietica che si sono occupati del suo pensiero politico o della sua pur abbondante pubblicistica (Holcomb 2003: 714-715). Non è dunque casuale che la produzione pubblicistica di McKay non sia mai stata pubblicata in forma integrale; una sola antologia degli scritti giornalistici, The Passion of Claude McKay, risale al 1973, e raccoglie una selezione di articoli (oltre che di testi poetici) composti tra il 1912 e il 1948, anno della sua morte. La mancanza di una raccolta completa è una lacuna che tuttavia non stupisce, se si considera che la pubblicazione integrale delle poesie è avvenuta solo nel 2004. Si tratta però di una lacuna grave perché, nonostante abbia espresso un pensiero politico certamente non suffragato da uno studio rigoroso di testi filosofici o politologici, McKay ha fatto dell’impegno una cifra costante della propria esistenza, intervenendo di continuo nelle riviste che circolavano all’epoca (tra le quali la nota Liberator, di cui fu redattore fino al 1922), e producendo pamphlet che meriterebbero uno studio più approfondito2. In questo contributo traccerò un’ipotesi di lettura del McKay politico, soffermandomi in particolare sui testi relativi al suo soggiorno in Unione Sovietica e, più in generale, ai testi nei quali parla di socialismo e comunismo in rapporto alla questione afroamericana. Le posizioni ideologiche di McKay, che appaiono spesso contraddittorie, si intrecciano con questioni personali, rendendo così estremamente complessa la ricostruzione di un percorso lineare. Senza aspirare a fornire una mappa esaustiva del suo pensiero politico o a ripercorrere integralmente la sua opera, queste pagine vogliono enucleare alcuni dei momenti cruciali dell’elaborazione delle sue riflessioni sui temi della nazione, della democrazia, della razza e della classe, in un corpus eterogeneo. Come ricordato da Kevin Anderson, per esempio, il saggio “The Negroes in America” fu pubblicato a Mosca nel 1923 come “Negry v Amerike”, traduzione russa di un originale inglese mai più trovato. Il testo russo, conservato come manoscritto nella New York Public Library, è stato scoperto per caso nella sezione di testi slavi, e ritradotto in inglese solo nel 1979, cfr. Anderson 2007: 146, nota 31). Su questo testo di McKay cfr. anche Zumoff 2010: 24. 2 2 Between, vol. V, n. 10 (Novembre/November 2015) Le linee di lettura che ipotizzo sono tre. La prima riguarda la formazione politica di McKay in quanto ex suddito di una colonia britannica, prima ancora che cittadino afroamericano. La seconda è relativa al rapporto di McKay con l’Unione Sovietica e vuole mettere in luce una frattura tra simpatie social-comuniste, che in lui non furono mai entusiaste, e l’elogio del governo dei Soviet: è una contraddizione, questa, che lascia perplessi perché McKay idealizza l’URSS come vera e propria eterotopia in senso foucaultiano (Foucault 1984), luogo ideale eppure concreto su cui proiettare visioni e speranze, che tuttavia spesso non sono riconducibili alla Rivoluzione d’ottobre. L’ultima linea di lettura, strettamente legata alla precedente, riguarda i criteri di idealizzazione che McKay utilizza per celebrare l’URSS, che, paradossalmente, rievocano le modalità retoriche con le quali, nel corso dei secoli, è stata esaltata la nazione americana. Per quanto riguarda la prima linea di lettura, già nel 1918, in un articolo intitolato “A Negro Poet”, McKay affermava che la propria formazione intellettuale e umana non fosse americana ma coloniale. La Giamaica dell’infanzia, celebrata nelle poesie pastorali delle prime raccolte3, è anche, più prosaicamente, il luogo nel quale una élite bianca, emanazione diretta dell’impero britannico, controllava il resto della popolazione locale all’interno di una struttura sociale e politica fortemente gerarchizzata. E che la propria istruzione fosse debitrice a un’idea ecumenica di umanesimo universale di marca imperialista – e anche, in parte, orientalista in senso saidiano – è esplicitato dall’elenco degli autori che lo stesso McKay definisce cruciali per la propria formazione4. Egli ricorda di essere stato messo al corrente dell’esistenza di una «greater, deeper literature» (McKay 1973: 49) da un inglese, naturalmente bianco, Walter Jekyll, il cui merito è averlo introdotto alla letQuesta celebrazione non è esente da una visione esotica dell’altro, come osserva James Smethurst, il quale evidenzia anche la ricerca del primitivismo propria della poesia giamaicana di McKay, cfr. Smethurst 1999: 24-5. 4 Cfr., in merito alla formazione di McKay nel contesto coloniale, l’interessante confronto con gli scritti di Franz Fanon avanzato da Tatiana Tagirova-Daley 2012: 104-5. 3 3 Fiorenzo Iuliano, Claude McKay tra Stati Uniti e Unione Sovietica tura di «Buddha, Schopenhauer and Goethe, Carlyle and Browning, Wilde, [Edward] Carpenter, Whitman, Hugo, Verlaine, Baudelaire, Shaw and the different writers of the Rationalist Press» (ibid.: 49-50). L’elenco è interessante per più di un motivo: insieme a nomi canonici dell’Ottocento europeo, sorprende la presenza di Buddha (curiosamente elencato come autore), chiara testimonianza dell’interesse dell’impero britannico per un’India più o meno consapevolmente esotizzata. Sorprende pure che l’unico autore americano citato sia Walt Whitman, il poeta/bardo della democrazia americana, o almeno di una sua idealizzazione non esente da forzature. Infine, la presenza di George Bernard Shaw, i cui drammi sono intrisi di un socialismo genericamente inteso come aspirazione all’uguaglianza e alla giustizia sociale, può essere letta come un primo approccio di McKay alle idee socialiste, oltre che all’Irlanda, di cui si sarebbe occupato in seguito. Nella lista non c’è il nome di nessun filosofo o teorico politico: questo fa pensare che il giovane McKay avesse costruito il proprio pensiero politico non su basi scientifiche, ma mutuandolo dalla cultura umanistica dell’età edoardiana, concedendosi solo qualche minima deroga rappresentata dal caso, isolato ma significativo, di Whitman. Nonostante non avesse ricevuto una formazione politica o sociologica, tuttavia, McKay si dimostrava da subito attento alle profonde lacerazioni presenti nella società coloniale giamaicana. Egli sottolineava con forza, anzi, come il problema razziale fosse dovuto a ragioni di classe, e che, di conseguenza, potesse essere risolto solo dopo una presa di coscienza da parte delle classi subalterne. Da una parte, quindi, McKay si professava esponente convinto di un socialismo di marca internazionalista (McKay 1973: 54), tuttavia dall’altra sosteneva i movimenti nazionalisti come unica forma di opposizione reale all’imperialismo, appoggiando tanto il nazionalismo pan-africano di Marcus Garvey quanto i movimenti anti-imperialisti in lotta in Irlanda e in India. In questo senso, è emblematico l’articolo “Garvey as a Negro Moses”, pubblicato nel 1922 sulla rivista Liberator. Marcus Garvey, uno dei leader del movimento afroamericano, era l’autore dello slogan “Back to Africa”, che invitava i neri di qualsiasi parte del mondo a fare ritorno alla patria africana. L’analisi di McKay è 4 Between, vol. V, n. 10 (Novembre/November 2015) lucida e convincente. Pur ripudiando con forza l’idea semplicistica del ritorno in Africa, e respingendo quella che non esitava a definire «Garvey’s ignorance and his intolerance of modern social ideas» (McKay 1973: 68), dell’attivista in questione egli apprezzava l’approccio ai problemi della Giamaica in termini di classe: «Garvey’s background is very industrial, for in the West Indies the Negro problem is peculiarly economic, and prejudice is, English-wise, more of class than of race» (ibid.: 67). In merito alla questione afroamericana, la posizione di McKay sulle politiche identitarie è tutt’altro che lineare e coerente. Come riassume Barbara Jackson Griffin, «[a]ccording to McKay, what the Negro needed was a “group soul” centered in the black community», e tuttavia, «from the beginning, Mckay demanded a universal arena: he wanted no artistic or social restrictions placed on him because of color» (Jackson Griffin 1996: 48; 50-51). Da una parte, McKay era fautore di una politica di chiaro separatismo, che rivendicava una collocazione ben individuabile degli afroamericani nella società, rifiutando, di fatto, ogni idea di integrazione con i bianchi; dall’altra, egli stesso aveva manifestato più volte, specie a proposito della propria produzione poetica e letteraria, il desiderio di trascendere la questione razziale (e la necessità di identificarsi nella razza di appartenenza), così da essere riconosciuto per il valore universale della sua poesia5. Inoltre, il suo atteggiamento nei confronti del movimento afroamericano è stato sovente ostile, come dimostrano, per esempio, le critiche rivolte al National Association for the Advancement of Colored People, fondato nel 1909, tra gli altri, da W.E.B. DuBois6. Per McKay gli esponenti del NAACP erano infatti complici della borghesia bianca, della quale condividevano metodi e aspirazioni, dal momento che vedevano l’unica possibile via di emancipazione della popolazione Per un approfondimento della questione rimando a un mio precedente intervento, Iuliano 2014: 44-47. 6 Per anni direttore di Crisis, rivista dell’associazione, e autore di una stroncatura di Home to Harlem, primo romanzo di McKay del 1928. Sulla controversia tra DuBois e McKay cfr. ad esempio Vogel 2009. 5 5 Fiorenzo Iuliano, Claude McKay tra Stati Uniti e Unione Sovietica afroamericana nella valorizzazione del merito e delle capacità dei singoli individui, i quali, con il sostegno delle istituzioni, avrebbero dovuto essere in grado di affermare il proprio talento. Un articolo apparso sulla rivista britannica Workers’ Dreadnought nel 1920, “Socialism and the Negro”, è esplicito al riguardo: This group [NAACP], palpably ignorant of the fact that the Negro question is primarily an economic problem, evidently thought it might be solved by admitting Negroes who have won to wealth and intellectual and other attainments into white society on equal terms, and by protesting and pleading to the political and aristocratic South to remove the notorious laws limiting the political and social status of colored folk. (McKay 1973: 51) L’accusa di McKay poggia su motivazioni chiare: la questione afroamericana non poteva essere affrontata né valorizzando il merito individuale dei singoli – come, per esempio, nella nota teoria del talented tenth avanzata da DuBois nell’omonimo saggio (1986) –, né professando un credo genericamente basato sull’uguaglianza, nella speranza che, prima o poi, l’accettazione da parte della classe dominante bianca sarebbe sopraggiunta. E neppure, sosteneva McKay, aveva alcuna legittimità politica il mero auspicio che in una realtà come quella degli stati del Sud, segnata dall’eredità dello schiavismo, fosse sufficiente una campagna di sensibilizzazione per superare l’odioso regime di segregazione prodotto dalle leggi ‘Jim Crow’, o per sradicare la consuetudine dei linciaggi degli uomini di colore, tema questo al quale McKay pure avrebbe dedicato scritti mirati7. McKay, al contrario, insiCriticandone la presa di distanze dal movimento afroamericano come strategia per guadagnare consenso al di fuori degli Stati Uniti, A.L. McLeod stigmatizza l’atteggiamento di McKay verso gli altri attivisti: «he openly criticizes Booker T. Washington and his moderates, Dr W. E. B. DuBois and his “Talented Tenth” policy, A. Philip Randolph and the black trade unionists, and virtually all others. Finally, in two appendices he establishes himself as a bona fide member of the Communist Party, and by so doing, gained a moment’s attention in a foreign land and cut his ties with Harlem» McLeod 7 6 Between, vol. V, n. 10 (Novembre/November 2015) steva sulla natura sociale ed economica del problema afroamericano, e, d’altra parte, immaginava una lotta a tutte le forme di sfruttamento e di oppressione che passasse innanzitutto per un rigetto dell’ideologia imperialista, mettendo così in gioco il proprio vissuto di ex suddito dell’impero britannico. L’aggiunta della connotazione antimperialista alla critica del problema razziale è un altro elemento importante per comprendere il pensiero politico di McKay, che, proprio per questo motivo, si rivela come sostanzialmente universalista, e non circoscrivibile alla sola realtà degli Stati Uniti. È, questa, una prerogativa cruciale: per quanto, per molti aspetti, McKay non abbia prodotto un pensiero innovatore e rivoluzionario come quello di DuBois, è importante il suo tentativo di inserire la questione afroamericana in una sorta di cornice ideologica universale, così da analizzare il problema del razzismo negli Stati Uniti non come caso nazionale, eccezionale e circoscritto, ma come conseguenza strutturale di un sistema sociale ed economico che vedeva il suo perno nel colonialismo capitalista. Tuttavia, gli esiti testuali di questa lettura della questione razziale non sempre sono all’altezza delle intenzioni; la volontà di analizzare i problemi razziali in chiave globale, infatti, talvolta ha impedito a McKay di mettere pienamente a fuoco le specificità della dimensione sociale degli Stati Uniti del primo Novecento. L’intento di allineare in un unico paradigma tutte le lotte contro lo sfruttamento imperialista è visibile negli scritti a sostegno dell’indipendenza irlandese. Nell’articolo “How Black Sees Green and Red” (1921), McKay usava parole di entusiasmo per gli indipendentisti irlandesi e provava a tracciare un’analisi della realtà politica 1980: 131. Sullo stesso tema ritorna pure Tyrone Tillery, che polemizza con l’atteggiamento critico di McKay nei confronti dei maggiori esponenti del movimento afroamericano, accusati di non avere recepito il messaggio comunista: «other blacks were also rankled over McKay’s sometimes excessive enthusiasm for Russia and his repeated criticism of American blacks for their lack of class consciousness and their lukewarm reception of communism. In 1921, he had criticized Du Bois for what he considered a sneer at the Russian Revolution» Tillery 1992: 73. 7 Fiorenzo Iuliano, Claude McKay tra Stati Uniti e Unione Sovietica dell’Irlanda, da lui conosciuta personalmente grazie a una lunga permanenza in Gran Bretagna (1919-1921). Tuttavia, invece di essere una lettura puntuale della realtà irlandese, il testo si perde spesso in digressioni animate da uno spirito ingenuamente utopistico e dettate più dal desiderio di immaginare un’eterogenea galassia degli oppressi che da un’analisi dettagliata dell’Irlanda indipendentista. McKay rimproverava ai riformisti irlandesi (tra i quali Shaw) di non comprendere l’Irlanda a causa della loro ostilità al comunismo, ma allo stesso tempo, oltre a non chiarire in che modo il comunismo potesse diventare un volano per l’indipendenza, faceva affermazioni come la seguente: «Irish people […] are so passionately primitive in their loves and hates. They are quite free of the disease which is known in bourgeois phraseology as Anglo-Saxon hypocrisy» (McKay 1973: 59). Questo esempio è sufficiente per indicare la forza e, allo stesso tempo, il limite del pensiero politico di McKay nei primi anni della sua attività letteraria e pubblicistica. La passione e l’entusiasmo con cui abbracciava le diverse cause non erano spesso sorretti da una consapevolezza adeguata dei problemi e delle strategie da adottare; per questo motivo la sua riflessione si ripiegava spesso su affermazioni vaghe e ingenue, o su generici riferimenti allo spirito del popolo. Inoltre, come sottolinea James Smethrust, l’impegno politico di McKay non si è mai tradotto in una vera e propria militanza, limitandosi alla semplice testimonianza, per quanto acuta e appassionata (Smethrust 1999: 47). La prima, essenziale cifra del pensiero politico di McKay, risulta quindi un miscuglio di lotta di classe e istanze nazionaliste. La sua esperienza coloniale lo porta a essere più vicino ai movimenti di resistenza antiimperialista che ai movimenti di emancipazione degli afroamericani, che ai suoi occhi dovevano sembrare perfettamente inseriti nell’ideologia nazionale americana. Tuttavia, la convinzione che il nazionalismo potesse essere «the open door to Communism» (al punto che la lotta antibritannica degli irlandesi diventa «an entering wedge directed straight to the heart of British capitalism»; McKay 1973: 62) non aveva, fino ai primi anni Venti, ancora fatto i conti con la realtà del comunismo sovietico. Il 1922 ha rappresentato una svolta nel percorso di formazione politica di McKay, con la partecipazione al Quarto con- 8 Between, vol. V, n. 10 (Novembre/November 2015) gresso dell’Internazionale Comunista organizzato a Mosca nel mese di novembre. La partecipazione al congresso del Comintern provocò non poche controversie. Pur non essendo membro della delegazione degli Stati Uniti, infatti, McKay era riuscito a monopolizzare il discorso sulla questione razziale e, per certi aspetti, a universalizzarlo. La volontà di trascendere a tutti i costi i (propri) confini nazionali è stata criticata da McLeod, il quale ha in proposito sottolineato come McKay «affected to be an African, a symbol of the universal black man […] he had no compunction in usurping the role of the mulatto who was an official member of the American delegation» (1980: 129)8. Non è solo la partecipazione al congresso del Comintern, ma il soggiorno russo nella sua interezza a rivelarsi cruciale per McKay. Non a caso a esso egli ha dedicato molti dei suoi scritti. Emerge dalle sue pagine non solo la volontà di definire nel dettaglio il proprio pensiero politico, ma pure un interesse per la realtà storica e sociale della Russia che, ai suoi occhi, diventa la cornice perfetta per la realizzazione del socialismo. Questo interesse era antecedente al 1922, tanto che è stata sottolineata l’affinità di parte della produzione di McKay con l’opera di Maksim Gor'kij, «the twentieth‐century proletarian writer whom he admired» (TagirovaDaley 2012: 38). Esso si sarebbe rivelato, inoltre, fondamentale per la crescita intellettuale e artistica di McKay; proprio la permanenza in Russia nel periodo della Terza internazionale sarebbe stata infatti foriera di contaminazioni e influenze reciproche con gli scrittori e intellettuali russi dell’epoca (Tagirova-Daley 2012: 59; 64). Per quanto riguarda le questioni strettamente politiche, sono degni di nota il discorso di McKay al congresso, gli articoli pubblicati sulle riviste americane per le quali scriveva da corrispondente e le sue poesie su Mosca e Pietrogrado, scritte dopo avere visitato entrambe le città, tra il 1922 e il 1923. In queste ultime, è evidente la divaricazione tra la volontà di comporre poesia civile e l’immaginario romantico o addirittura decadente che caratterizza i versi. Tanto in “Moscow” quanto in “Petrograd. May Day 1923”, McKay mescola, con esiti non 8 Cfr. la ricostruzione della vicenda in Zumoff 2010: 24. 9 Fiorenzo Iuliano, Claude McKay tra Stati Uniti e Unione Sovietica felicissimi, entusiasmo politico e orientalismo, con toni lontanissimi da quelli delle utopie urbane che avevano preso piede immediatamente dopo la rivoluzione (Piretto 2001: 20). Egli stesso avrebbe in seguito giudicato imbarazzanti i due componimenti (McKay 2007: 124-125). “Moscow” è permeata di esotismo decadente: la città è descritta come «a bright Byzantine fair / Of jewelled buildings, pillars, domes and spires / Of hues prismatic dazzling to the sight; / A glory painted on the Eastern air», e tuttavia negli ultimi versi McKay ricorda che «in that gilded place, I felt and saw / The simple voice and presence of Lenin» (McKay 2004: 229). Più complessa e per certi aspetti raffinata, la poesia su Pietrogrado non è tuttavia priva di un certo esotismo di maniera, forse dai toni più romantici che estetizzanti. La chiusa di ogni stanza ribadisce il riconquistato ottimismo della città postrivoluzionaria, visibile nei festeggiamenti in occasione della giornata dei lavoratori. La conclusione omaggia, con toni fin troppo pletorici, la città nuova dei Soviet: «the proud triumphant city /[…] where warrior-workers wrestled without pity / Against the power of magnate, monarch, priest /[…] hoist aloft today / the flaming standards of the First of May!» (McKay 2004: 231)9. A proposito di queste poesie, è stata osservata la dicotomia tra sfera politica e sfera estetica, o tra «racial affiliation and universalism of art, […] political affiliation and the purely romantic» (Ramesh – Rani 2006: 84). Tuttavia, il problema non sta tanto nell’incapacità di McKay di scegliere una delle due prospettive, quanto nella sua volontà di filtrare il pensiero politico attraverso una prospettiva estetica o estetizzante, come nel caso della seconda poesia, in cui l’entusiasmo prodotto dalla visione delle bandiere rosse di Pietrogrado si traduce istantaneamente, senza essere mediato da un’ulteriore riflessione di carattere politico o sociale, nell’esaltazione del comunismo sovietico. Questa forte coloritura emotiva diventa la prospettiva attraverso Entrambe le poesie fanno parte di un gruppo di componimenti inclusi nella raccolta New Poems by Claude McKay (1935) che tuttavia non vide mai la luce, a causa delle traversie personali dell’autore. Tutte le poesie di McKay sulle città sono apparse nell’edizione curata nel 2004 da William J. Maxwell, cfr. McKay 2004: 352-353. 9 10 Between, vol. V, n. 10 (Novembre/November 2015) cui McKay parla di Unione Sovietica anche nel suo intervento al Comintern e negli articoli che scrive in questo periodo: il comunismo viene invocato come unica speranza degli oppressi di tutto il mondo, e la Russia celebrata come il migliore dei luoghi possibili. Al centro degli interessi di McKay resta, in ogni caso, la questione razziale, al punto che il comunismo stesso è visto come un potenziale strumento di lotta per la liberazione degli afroamericani dall’oppressione bianca, «a means to an end […] full freedom for the black man» (McKay 1973: 17). Nell’adesione di McKay al comunismo, inoltre, va pure notata la necessità, umana prima ancora che culturale, di ritrovare un punto di contatto con le masse popolari, che McKay temeva fosse venuto meno a causa del proprio status di intellettuale. Il comunismo diventa, in questo modo, non solo uno strumento di analisi storica e di lotta sociale, ma il mezzo per colmare il divario tra élite e popolo, divario che McKay percepiva in maniera tanto più forte in virtù del proprio passato rurale e coloniale (Smethurst 1999: 182). Il discorso tenuto al congresso si concentra soprattutto sul rapporto tra comunismo e questione afroamericana: «What I say is that the Negro question is an integral part and one of the chief problems of the class struggle in America, and I stand by that declaration» (McKay 1973: 86). Fermamente convinto che la questione razziale negli Stati Uniti fosse uno degli aspetti di una più organica e complessiva lotta contro il capitalismo, McKay rivendicava il proprio ruolo di rappresentante della razza afroamericana, una razza che, come sottolineava con orgoglio, era, soprattutto «a race of toilers, hewers of wood and drawers of water, that belongs to the most oppressed, exploited, and suppressed section of the working class of the world» (ibid.: 92). La causa afroamericana, quindi, meritava di essere portata all’attenzione dell’internazionale comunista perché doveva essere intesa soprattutto come un problema di classe, effetto collaterale ed esito inevitabile del sistema capitalista. Solo la lotta anticapitalista e l’affermazione del socialismo avrebbero risolto i problemi razziali degli Stati Uniti: […] for the first time in American history, the American Negroes found that Karl Marx had been interested in their emancipa- 11 Fiorenzo Iuliano, Claude McKay tra Stati Uniti e Unione Sovietica tion and had fought valiantly for it […] regarding the Negroes themselves, I feel that as the subject races of other nations have come to Moscow to learn how to fight against their exploiters, the Negroes will also come to Moscow. (Ibid.: 93) Come già aveva scritto altrove, anche in questa sede McKay ribadiva la complicità tra potere capitalista e imperialismo, responsabili in egual misura dello sfruttamento delle classi subalterne su scala mondiale: It would seem at the present day that the international bourgeoisie would use the Negro race as their trump card in their fight against the world revolution. […] The revolution in England is very far away because of the highly organized exploitation of the subject peoples of the British Empire. (Ibid.: 92) Tuttavia, la possibilità di dare corpo alle istanze rivoluzionarie del socialismo appariva esigua tanto in una realtà come quella britannica, nella quale le strutture politiche e sociali dell’impero avrebbero facilmente domato ogni ribellione, quanto negli Stati Uniti, dove il blocco di potere capitalista lavorava da sempre per contrapporre bianchi e neri, producendo ostilità e diffidenza reciproche perfino all’interno dei movimenti sindacali e dei partiti dei lavoratori. McKay ritornava sugli stessi temi in un altro intervento, “The Racial Issue in the United States”, pubblicato sull’International Press Correspondence nel 1922, durante il soggiorno russo. Il testo è una riflessione sulle spaccature interne al movimento proletario negli Stati Uniti. Esso ipotizza una conciliazione tra il movimento afroamericano e la tradizione sindacalista e, in senso più ampio, social-comunista americana: […] blacks are hostile to Communism because they regard it as a “white” working-class movement […] Only the best and broadest minded Negro leaders who can combine Communist ideas with a deep sympathy for and understanding of the black man’s grievances will reach the masses with revolutionary propaganda. 12 Between, vol. V, n. 10 (Novembre/November 2015) There are few such leaders in America today. (McKay 1973: 91)10 Al termine del suo discorso al Comintern, McKay esaltava l’Unione Sovietica come unico soggetto nazionale nel quale l’unione tra le fasce subalterne della società, indipendentemente dalla loro provenienza etnica, fosse stata resa possibile grazie alla simultanea sconfitta della minaccia capitalista e di quella coloniale. È difficile capire, sulla base del testo, quanto profondamente McKay conoscesse l’URSS postrivoluzionaria. La sua analisi della società sovietica è, di fatto, espressione non mediata della propria esperienza diretta. Se da una parte è vero, come sostiene Tatiana Tagirova-Daley, che «[h]is experience in the Soviet Union inspired him to take pride in his African heritage» (Tagirova-Daley 2012: 40), dall’altra sembra quasi che nell’URSS dei Soviet McKay individuasse – forse inconsapevolmente – l’attuazione compiuta di alcuni dei miti di fondazione della nazione americana. McKay, infatti, proiettava sullo spazio utopico/eteropico dell’Unione Sovietica alcuni tra i più tradizionali temi di celebrazione degli Stati Uniti che, naturalmente, da afroamericano e socialista non poteva attribuire agli USA di primo Novecento. Il discorso tenuto al Comintern, per esempio, afferma che la liberazione di tutti i lavoratori del mondo, «regardless of race or color», promossa dalla Terza Internazionale fosse, di fatto, la realizzazione concreta («a real thing») dei principi contenuti «merely on paper» (McKay 1973: 92) nella costituzione degli Stati Uniti. Le parole di McKay, in questo modo, mettono in luce la contraddizione tra i principi di uguaglianza e democrazia della nazione americana delle origini e la realtà degli Stati Uniti contemporanei, segnati da odiosi divari razziali e di classe, e vedono nella neonata URSS la continuazione ideale dell’aspirazione alla libertà e all’uguaglianza che aveva caratterizzato gli Stati Uniti rivoluzionari. McKay aveva vissuto con ansia e passione gli eventi tragici del 1919, segnati dalla morte di un enorme numero di afroamericani durante le sommosse socialiste e sindacali; a questo proposito cfr. Cooper 1964: 300. Quegli eventi avevano ispirato la composizione di quella che resta la sua poesia più nota, “If We Must Die”, pubblicata per la prima volta proprio nel 1919. 10 13 Fiorenzo Iuliano, Claude McKay tra Stati Uniti e Unione Sovietica Quanto James Keller sostiene a proposito della sua poesia di protesta, quindi, sembra valere pure per la sua pubblicistica politica: McKay può essere considerato parte integrante della tradizione americana del dissenso, l’“American jeremiad” di lontana ascendenza puritana, in cui la critica delle istituzioni nazionali è legittima in quanto espressione indiretta di una più alta, e ormai smarrita, idea degli Stati Uniti: «The poet, in fact, manages to demonstrate that the country’s own most fundamental principles are subversive, since they are wholly inconsistent with the practices of the power structure. In this way, his sonnets retain some of their revolutionary potential» (Keller 1994: 456). L’utilizzo della tradizionale retorica dei valori americani a proposito dell’Unione Sovietica non si ritrova solo nel discorso pronunciato al congresso del Comintern. Nella stessa direzione andava pure un lungo articolo pubblicato su Crisis nel 1923, dal titolo “Soviet Russia and the Negro”. In questo articolo McKay metteva a confronto Stati Uniti e Unione Sovietica, affermando come le aberrazioni del vecchio regime zarista non fossero molto diverse da quelle perpetrate in quegli anni dal governo degli Stati Uniti nei confronti della popolazione afroamericana ed esprimendo il suo sostegno allo stato sovietico sulla base della «relatedness of the Negro question to that of class» (McKay 1973: 43). Inoltre, egli paragonava gli afroamericani agli ebrei russi, sostenendo che solo la Rivoluzione d’ottobre fosse riuscita a segnare la fine dell’oppressione e delle persecuzioni di questi ultimi. Ancora una volta, tema etnico e tema di classe vengono presentati come interdipendenti: l’URSS rivoluzionaria e pre-stalinista che, come è noto, pose fine ai pogrom antiebraici, sanzionando ogni espressione antisemita, era scelta da McKay come esempio della forza democratica ed egualitaria imposta dal socialismo reale. In questo caso, tuttavia, il paragone di McKay funziona più sul piano retorico e propagandistico che su quello storico: nulla viene detto, infatti, sull’assetto sociale della Russia zarista e pre-rivoluzionaria o sulla condizione degli afroamericani degli stati del Sud, accomunabili solo in un discorso assai generico che, lontano da qualsiasi dialettica strutturata in termini di materialismo storico, non si addentrava nell’analisi dei mezzi e dei sistemi di produzione e di sfruttamento dei due paesi. Non solo: McKay non spiegava in che 14 Between, vol. V, n. 10 (Novembre/November 2015) modo i movimenti operaisti americani, spesso caratterizzati da spaccature e contraddizioni interne, avrebbero potuto trovare unità di intenti su una questione così spinosa come quella razziale, la quale acuiva, invece che risolvere, i conflitti tra gli ex stati schiavisti del Sud e la realtà industriale del Nord del paese (per esempio, alimentando i flussi migratori verso le grandi città industriali e di conseguenza esacerbando le divisioni tra le fasce più povere della popolazione). Al contrario, McKay utilizzava un repertorio retorico molto efficace nel suo registro patriottico e nazionalista, mettendo così in atto una strategia convincente sul piano puramente affabulatorio, ma contraddittoria e fallace su quello critico e ideologico. Ad esempio, egli ricordava i meriti dei soldati afroamericani nella Guerra civile o nella Guerra ispanoamericana («in the last war over 400,000 Negroes who were mobilized gave a very good account of themselves»; McKay 1973: 92), sottolineando, implicitamente, come i neri d’America fossero stati parte del grande corpo della nazione, in quella che finiva per essere una sconfessione de facto della vocazione antipatriottica e internazionalista del pensiero socialista11. Non sono solo i temi relativi alla razza, tuttavia, a essere utilizzati da McKay nella sua apologia dell’URSS rivoluzionaria. Oltre alla questione ebraica, infatti, egli ricorreva ad altri esempi che dovrebbero caratterizzare la società sovietica come ormai compiutamente illuminata e votata al progresso. Anche in questo caso, però, i problemi dei lavoratori erano tralasciati, perché McKay preferiva concentrarsi su aspetti della società sovietica non immediatamente riconducibili alla lotta di In questa, come in altre affermazioni di McKay, è chiaramente leggibile l’impronta della poesia whitmaniana, che esalta l’eroismo e il patriottismo americani proprio perché trascendono le differenze etniche. McKay discute a lungo della questione razziale in rapporto alla presenza e al ruolo svolto nell’esercito dai cittadini afroamericani in un carteggio con Trockij, cfr. Zumoff 2010: 44-45. Egli doveva inoltre essere ben consapevole che la presenza di un elevato numero di afroamericani nell’esercito avesse un’importanza non trascurabile anche in termini di classe; cfr. ancora il saggio di Zumoff, 2010: 46. 11 15 Fiorenzo Iuliano, Claude McKay tra Stati Uniti e Unione Sovietica classe o alla critica dell’imperialismo. L’URSS esaltata da McKay, infatti, era la terra nella quale i diritti delle donne venivano garantiti dal nuovo governo rivoluzionario, che concedeva loro la possibilità di abortire, di divorziare e di tutelare la prole: Getting a divorce is comparatively easy and not influenced by money power, detective chicanery and wire pulling. A special department looks into the problems of joint personal property and the guardianship and support of the children. There is no penalty for legal abortion and no legal stigma of illegitimacy attaching to children born out of wedlock. (McKay 1973: 104) McKay, in altri termini, riconduceva la centralità delle questioni economiche (da lui spesso, specie in passato, rimarcata come prioritaria) non tanto alla necessità di superare la divisione in classi propria delle società capitaliste, quanto alla ricaduta concreta della nuova gestione del potere nell’URSS sulla vita di tutti i giorni. Questo slittamento di prospettiva è tanto più interessante se rapportato alla questione razziale. Pare, infatti, che ormai McKay abbia ribaltato la propria prospettiva retorica e politica rispetto a quanto faceva negli scritti di pochi anni prima. Quando, in passato, aveva sottolineato la potenza della lotta afroamericana come unica via autenticamente rivoluzionaria auspicabile negli Stati Uniti, ne aveva parlato in termini di classe; ora che invece guardava al modello sovietico – il solo, nella sua visione, a offrire la soluzione alla questione afroamericana – non si soffermava tanto sulle politiche economiche (e quindi, in senso stretto, di classe), ma lo esaltava come supremo garante della libertà individuale, con toni più vicini alla retorica dell’individualismo liberale che a quella egualitaria di matrice socialista. Questo slittamento retorico consente di avanzare l’ipotesi che, almeno in parte, l’infatuazione di McKay per l’URSS rivoluzionaria funzionasse come proiezione dei miti fondanti della nazione americana. Non sono solo, infatti, la libertà individuale o la difesa dei diritti “borghesi” a essere, paradossalmente, esaltate nella celebrazione che 16 Between, vol. V, n. 10 (Novembre/November 2015) McKay fa dell’URSS12. Più in generale, egli celebrava l’URSS utilizzando la retorica del multiculturalismo americano e del melting pot, formula ampiamente utilizzata per consacrare la natura eccezionale della nazione americana che si fa tradizionalmente risalire alle Letters from an American Farmer di J. Hector St. John de Crèvecœur del 1782, e che proprio agli inizi del Novecento conosceva una nuova popolarità. Nelle parole di McKay, sembra quasi che la Rivoluzione d’ottobre avesse riprodotto la genesi della nazione americana, così come era stata celebrata e mitizzata, per esempio, nei versi di Walt Whitman – non a caso l’unico autore americano citato da McKay tra i nomi fondamentali per la propria formazione. Al mito dell’internazionalismo proletario che, nella retorica sovietica rivoluzionaria e post-rivoluzionaria avrebbe dovuto sostituire ogni affiliazione nazionale o etnica (Jahn 2004: 63-64), McKay sostituiva l’utopia multiculturale: Russia, in broad terms, is a country where all the races of Europe and of Asia meet and mix. […] under the repressive power of the Czarist bureaucracy the different races preserved a degree of kindly tolerance towards each other. […] The Hindu, the Mongolian, the Persian, the Arab, the West European – all these types Mi riferisco a quello che Marx definiva «il diritto dell’uomo alla libertà», che, basandosi non «sul legame dell'uomo con l'uomo, ma piuttosto sulla separatezza dell'uomo dall'uomo» finisce con l’essere «il diritto a quella separatezza, il diritto dell'individuo limitato, limitato a sé». Espressione massima di questa forma di diritto è, naturalmente, la proprietà privata; per questo motivo, secondo il pensiero liberale, è «l’uomo come bourgeois [che] viene scambiato per l’uomo in senso autentico» Marx 2007: 141; 144. In senso lato, quindi, ogni concezione del diritto che parte dall’individuo come monade isolata e non come parte della comunità è aliena a una visione marxiana, e assimilabile a un retaggio culturale capitalista e borghese. Invece, i problemi relativi alla condotta e alla morale sessuale ai quali McKay fa riferimento, pur essendo stati oggetto di interesse da parte di singoli esponenti dell’URSS postrivoluzionaria, come per esempio Aleksandra Kollontaj, furono presto liquidati come marginali ed espressione dell’ideologia borghese, cfr. Piretto 2001: 22-25. 12 17 Fiorenzo Iuliano, Claude McKay tra Stati Uniti e Unione Sovietica may be traced woven into the distinctive polyglot population of Moscow. (McKay 1973: 100-101) Sulla base di questa idealizzazione del multiculturalismo sovietico, e del genuino senso di democrazia e di uguaglianza che doveva caratterizzare i cittadini russi più di quelli europei o americani, McKay trovava un raccordo tra socialismo e questione afroamericana, enfatizzando la tolleranza razziale come l’espressione più notevole dello spirito rivoluzionario sovietico. Per contro, la presenza così radicata di politiche razziste negli Stati Uniti (ma anche in paesi come la Gran Bretagna nei confronti delle popolazioni colonizzate) costituiva, nelle sue parole, l’ostacolo maggiore alla rivoluzione in questi paesi. Democrazia e uguaglianza, però, erano codificate attraverso la retorica multiculturale del melting pot, o attraverso la stessa idealizzazione (probabilmente superata) che caratterizzava la poesia di Whitman. La tendenza tutta whitmaniana a compilare lunghi ed estenuanti cataloghi per elencare e abbracciare l’elevato numero di soggetti eterogenei della società americana dell’Ottocento veniva ripresa e riutilizzata, in maniera più sobria ed essenziale, da McKay a proposito della nuova umanità sovietica: I could not detect a trace of […] ignorant snobbishness among the educated classes, and the attitude of the common workers, the soldiers and sailors was still more remarkable. It was so beautifully naive; for them I was only a black member of the world of humanity. (McKay 1973: 101) McKay avrebbe ritrattato molte delle sue posizioni quando, avvicinandosi al cattolicesimo, avrebbe sconfessato l’entusiasmo giovanile per il comunismo e per l’Unione Sovietica13. Tuttavia, a differenza di Sulla conversione al cattolicesimo di McKay e la sua sconfessione del comunismo giovanile, vale la pena segnalare quanto scrive Gary Holcomb, che prova a individuare una ragione non solo personale alla base di questa scelta: «certainly by the 1940s he did become “conservative,” if idiosyncrati13 18 Between, vol. V, n. 10 (Novembre/November 2015) altri autori, come André Gide, che si erano presto resi conto di quanto la natura autoritaria e illiberale dell’URSS avesse quasi immediatamente sopito tutta la tensione utopica degli anni rivoluzionari, McKay avrebbe proseguito per un percorso autonomo e sempre più solitario, nel quale la questione razziale, sempre preponderante, sarebbe stata sempre meno marcata in termini politici. In ogni caso, la sua produzione pubblicistica è, ancora oggi, uno strumento utile tanto per comprendere meglio la sua poesia e narrativa, quanto per integrare il dibattito critico sulla produzione culturale e politica afroamericana con il contributo di un autore per molto tempo, e ingiustamente, dimenticato. cally—conservative in a way into which McKay seemed specially suited to develop—when he joined the Catholic church. But McKay’s repudiation of Communism during the late 1930s was, like so many other Old Leftists, fundamentally a reaction against Stalinism» Holcomb 2003: 730. Anche Tyrone Tillery insiste sull’abiura al comunismo come reazione agli orrori dello stalinismo, fautore di una guerra fratricida che, nelle parole di McKay, era «contrary to the ideal of humanity» Tillery 1992: 162; egli qui cita una lettera di McKay a Max Eastman del 1944. 19 Fiorenzo Iuliano, Claude McKay tra Stati Uniti e Unione Sovietica Bibliografia Anderson, Kevin B., “The Rediscovery and Persistence of Dialectic in Philosophy and in World Politics”, Lenin Reloaded: Toward a Politics of Truth, Eds. Sebastian Budgen – Eustache Kouvélakis – Slavoj Žižek, Durham, Duke University Press, 2007: 120-147. Cooper, Wayne, “Claude McKay and the New Negro of the 1920’s”, Phylon, 25.3 (1964): 297-306. ______, “Introduction”, McKay 1973: 1-41. DuBois, W.E.B., “The Talented Tenth”, Id., Writings, Ed. Nathan Huggins, New York, Library of America, 1986: 842-61 (ed. orig. 1903). Foucault, Michel, “Des Espaces autres. Une Conférence inédite de Michel Foucault”, Architecture, Mouvement, Continuité, 5 (1984): 46-49. Holcomb, Gary Edward, “Diaspora Cruises: Queer Black Proletarianism in Claude McKay’s A Long Way from Home”, MFS Modern Fiction Studies, 49.4 (2003): 714-745. Iuliano, Fiorenzo, “Staging the Stigma: Syphilis and Its Metaphors in Claude McKay’s The Clinic”, Status Quaestionis, 6 (2014): 40-62, http://ojs.uniroma1.it/index.php/statusquaestionis/article/view/124 72/12467 Jahn, Hubertus F., “‘Us’: Russians on Russianness”, National Identity in Russian Culture. An Introduction, Eds. Simon Franklin – Emma Widdis, Cambridge, Cambridge University Press, 2004: 53-73. Jackson Griffin, Barbara, “The Last Word: Claude McKay’s Unpublished ‘Cycle Manuscript’”, MELUS, 21.1 (1996): 41-57. Keller, James R., “‘A Chafing Savage, Down the Decent Street’: The Politics of Compromise in Claude McKay’s Protest Sonnets”, African American Review, 28.3 (1994): 447-456. Marx, Karl, Zur Judenfrage (1843), trad. it. di Diego Fusari, Sulla questione ebraica, Milano, Bompiani, 2007. McKay, Claude, The Passion of Claude McKay. Selected Poetry and Prose, 1912-1949, Ed. Wayne Cooper, New York, Schocken Books, 1973. ______, Complete Poems, Ed. William J. Maxwell, Urbana – Chicago, University of Illinois Press, 2004. 20 Between, vol. V, n. 10 (Novembre/November 2015) ______, A Long Way from Home, New Brunswick – London, Rutgers University Press, 2007 (ed. orig. 1937). McLeod, A.L., “Claude McKay’s Adaptation to Audience”, Kunapipi, 2.1 (1980): 123-134. Piretto, Gian Piero, Il radioso avvenire. Mitologie culturali sovietiche, Torino, Einaudi, 2001. Ramesh, Kotti Sree – Rani, Kandula Nirupa, Claude Mckay: The Literary Identity from Jamaica to Harlem and Beyond, Jefferson, McFarland & Company, 2006. Smethurst, James Edward, The New Red Negro: The Literary Left and African American Poetry, 1930-1946, New York – Oxford, Oxford University Press, 1999. Tagirova-Daley, Tatiana A., Claude McKay’s Liberating Narrative. Russian and Anglophone Caribbean Literary Connections, New York, Peter Lang, 2012. Tillery, Tyrone, Claude McKay: A Black Poet’s Struggle for Identity, Amherst, University of Massachusetts Press, 1992. Vogel, Shane, “Rereading Du Bois Reading McKay. Uplift Sociology and the Problem of Amusement”, Id., The Scene of Harlem Cabaret. Race, Sexuality, Performance, Chicago – London, The University of Chicago Press, 2009: 132-166. Zumoff, J.A., “Mulattos, Reds, and the Fight for Black Liberation in Claude McKay’s Trial By Lynching and Negroes in America”, Journal of West Indian Literature, 19.1 (2010): 22-53. L’autore Fiorenzo Iuliano insegna Letteratura angloamericana all’Università di Cagliari. Si è occupato di letteratura americana contemporanea, studi sulla corporeità e teoria critica, e sta lavorando a un volume sulla scena sottoculturale di Seattle negli anni Novanta. 21 Fiorenzo Iuliano, Claude McKay tra Stati Uniti e Unione Sovietica L’articolo Data invio: 15/05/2015 Data accettazione: 30/09/2015 Data pubblicazione: 30/11/2015 Come citare questo articolo Iuliano, Fiorenzo, “Claude McKay tra Stati Uniti e Unione Sovietica: identità afroamericana e utopia socialista”, L’immaginario politico. Impegno, resistenza, ideologia, Eds. S. Albertazzi, F. Bertoni, E. Piga, L. Raimondi, G. Tinelli, Between V.10 (2015). http://www.Betweenjournal.it/ 22