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Aldo Sari Sono note le vicende che portarono alla conquista
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L’ARTE IN SARDEGNA NEL XIV-XV SECOLO
E IL POLITTICO DELL’ANNUNCIAZIONE DI JOAN MATES
Aldo Sari
Università di Sassari
Sono note le vicende che portarono alla conquista catalana della Sardegna. Il 13
giugno 1323 segna l’inizio del nuovo corso storico dell’Isola, preparato nell’ultimo decennio del XIII secolo dalla sua infeudazione a Giacomo II d’Aragona.1
Quel giorno di tarda primavera, infatti, le truppe catalane sbarcavano nel porto
di Palma di Sulcis (in territorio di San Giovanni Suergiu) e il 28 successivo
ponevano l’assedio a Villa di Chiesa (Iglesias).2 Quasi un anno dopo, il 19 giugno del 1324, Cagliari pisana era costretta a firmare un trattato di pace con il re
aragonese.3 Il 9 giugno 1326 i Catalani prendevano definitivo possesso del Castello di Cagliari.4
Nel primo quarto del Trecento, grazie alla presenza di Pisa, Genova e della
Chiesa, la Sardegna era pienamente inserita nel clima di rinnovamento economico-culturale che, come nel resto della Penisola italiana e dell’Europa, appariva il preludio dell’età moderna.
Alla presa di possesso del Castello da parte catalana la vitalità della cultura
artistica isolana era testimoniata a Cagliari, oltre che dall’architettura militare
(il cui ardimento costruttivo e la perizia tecnica suscitarono l’ammirazione dei
nuovi invasori, che ancora nel XVI secolo, durante i lavori di ampliamento e
rifacimento delle mura, preferirono conservare le belle torri del Capula), da
alcuni edifici religiosi sorti nel corso del XIII secolo: il S. Francesco, edificato
dai minoriti nel quartiere di Stampace, e la fabbrica del Duomo che, costruito in
forme romaniche nel primo Duecento, era ampliato, tra lo scorcio del XIII e il
primo quarto del XIV secolo, secondo stilemi ormai gotici.
La chiesa francescana, fondata nel 1274 (di essa, rovinata nel 1875 e incorporata in edifici posteriori, non sono visibili oggi che alcuni frammenti della
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F. C. CASULA, La Sardegna aragonese, 1: La Corona d’Aragona, Sassari, 1990, p. 61 ss.
Ivi, p. 14 ss.
Ivi, p. 174 ss.
R. CONDE Y DELGADO DE MOLINA, La Sardegna aragonese, in Storia dei Sardi e della Sardegna,
2. Il Medioevo, dai giudicati agli aragonesi, a cura di M. Guidetti, Milano 1987, p. 262; F. C.
CASULA, La Sardegna aragonese cit., p. 206 ss.
INSULA, num. 6 (dicembre 2009)
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tribuna e un portale laterale che, recuperato dalle macerie fu, sempre a Cagliari, ricomposto nel prospetto del Santuario di Bonaria), era, secondo una
tipologia di origine cistercense fatta propria dai francescani, a croce commissa,
con navata unica conclusa da transetto, su cui si aprivano il presbiterio quadrato fiancheggiato da due cappelle. I tre ambienti, a differenza dell’aula e del
transetto coperti in legname, erano voltati a crociera costolonata. Come si
intuisce dalla struttura rimasta, le costolature erano impostate su colonnine
pensili angolari, che nella tribuna sorgevano da peducci raffiguranti il
tetramorfo. L’edificio – che si poneva fra il tipo con transetto pronunciato su
cui si aprono numerose cappelle, attestato nei S. Francesco di Pistoia, Pisa e
Siena, e quello senza transetto con tre cappelle al termine dell’aula, riscontrabile
nelle chiese sempre francescane di Lucca, Cortona e Prato e in quelle
domenicane di Cortona e Arezzo – anticipava una disposizione di pianta e di
alzato diffusa in toscana nel XIV secolo.5 I suoi resti, ormai soprattutto scultorii,
consentono di riconoscere l’educazione culturale, se non la provenienza delle
maestranze. Di gusto toscano sono la dicromia, la modulazione chiaroscurale
e il motivo delle mensole a foglie d’acanto tra caulicoli bifidi del portale secondario oggi a Bonaria.6 L’ornato ancora romanico di queste ultime sembrerebbe confermare che l’edificazione della chiesa avvenisse subito dopo l’acquisto del terreno, fra l’ottavo e il nono decennio del Duecento. Lungo
l’archivolto sottili nervature segnano la superficie dei tori con effetto di spigoli secondo uno schema di origine francese che si diffuse dall’Anjou, attraverso la Borgogna, in tutta Europa dopo il sesto decennio del XIII secolo.
Gli stessi maestri del cantiere di S. Francesco di Stampace erano intervenuti
nelle opere di ampliamento della cattedrale di S. Maria di Castello, come provano la contiguità di alcune forme del braccio settentrionale del transetto con
quelle del portale della chiesa francescana, attualmente collocato nella facciata
del Santuario di Bonaria, ma, soprattutto, l’affinità della cappella nord della
tribuna con quelle che si affacciavano sul transetto nel S. Francesco di Stampace.
Come nella chiesa francescana, anche nella cappella del Duomo, di pianta quadrata e voltata a crociera costolonata, con identità di partito e d’ornato, le costole sono impostate agli angoli su capitelli di colonne pensili sostenute da peducci
scolpiti con i simboli degli evangelisti.7
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R. DELOGU, L’architettura del Medioevo in Sardegna, Roma 1953, p. 213.
Ivi, pp. 213-214.
Ivi, pp. 219-221.
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Durante l’assedio di Cagliari i Catalani s’erano accampati a poca distanza
dalla città, sulla collina di Bonaria, nella costa orientale, dove rapidamente avevano eretto un centro fortificato in grado di controllare il porto e le immediate
vicinanze.8 Il Castell de Bonaire, di cui i documenti tramandano le due porte di
accesso, una detta dell’Ammiraglio e l’altra di Quart,9 aveva all’interno delle
mura anche una chiesa, dedicata alla SS. Trinità, incominciata nel 1324. Al suo
disegno finale, così come al progetto dell’altra intitolata a S. Vittoria dei Catalani,
nell’appendice di Lapola, contribuiva probabilmente quel Guillem «magister
operis ecclesiae Tarracone», architetto della cattedrale di Tarragona, che nel
giugno del 1326 chiedeva di potersi trasferire a Bonaria.10
La chiesa – chiamata dal 1330 ecclesia Santae Mariae de Bonayre – non fu il
solo edificio religioso che i Catalani edificarono in Sardegna in quegli anni – le
fonti ricordano la cappella di Sant’Eulalia nel castello di Salvaterra, a guardia
della porta orientale d’Iglesias, e l’edicola commemorativa di Lucocisterna –, ma
è la sola che si sia conservata nel suo impianto originario, agevolmente identificabile
sotto le manomissioni successive. Esemplata sulla barcellonese chiesa palatina di
S. Àgata, costruita qualche decennio prima da Bertran Riquer, aveva pianta ad
aula conclusa da abside poligonale e copertura lignea su archi diaframma.
Al momento della conquista della Sardegna, l’architettura gotica catalana si
distingueva già per i suoi caratteri costitutivi: il predominio dell’orizzontalità delle strutture sulla verticalità, in opposizione a quello che era l’elemento precipuo
della contemporanea architettura nordeuropea; la sobrietà ornamentale e, soprattutto, la concezione unitaria dello spazio interno, suo dato saliente e qualificatore.
Un apporto fondamentale all’elaborazione dello spazio ampio e ininterrotto
le era venuto dagli ordini mendicanti. I domenicani e soprattutto i francescani,
come era accaduto in Italia, avevano conformato anche in Catalogna fin dall’origine i loro edifici a quelli cistercensi, consentanei nella loro severa bellezza
agli ideali di povertà e semplicità che essi praticavano. Poiché le loro costituzioni indicavano per le chiese dell’Ordine strutture semplici e funzionali, vie-
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Cfr. Crònica de Ramon Muntaner, in Les quatres grans cròniques, a cura di Ferran Soldevila,
Barcellona 1971, p. 915 ss.
F. SEGNI PULVIRENTI, L’architettura religiosa gotico-catalana: i primi esempi, in F. SEGNI
PULVIRENTI – A. SARI, Architettura tardogotica e d’influsso rinascimentale, Nuoro 1994, p. 14.
S. CAPDEVILA, La Seu de Tarragona. Notes històriques sobre la construcció, el tresor, els artistes,
els capitulars, Barcellona 1935, p. 36 e n. 7; vedi A. FRANCO MATA, Influenza catalana nella
scultura monumentale del Trecento in Sardegna, in «Arte Cristiana. Rivista internazionale di
Storia dell’Arte e di Arti liturgiche», Nuova Serie, LXXV, fasc. 721, luglio-agosto 1987, p. 240,
n. 3; F. SEGNI PULVIRENTI, L’architettura religiosa cit. p. 15.
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tando le volte in pietra, che erano consentite soltanto nel presbiterio, modellarono le loro prime chiese più che sugli edifici di culto cistercensi sulle soluzioni
architettoniche che quell’Ordine aveva adottato nei dormitori e refettori dei propri
monasteri, i cui spazi, ampi e unitari, avevano copertura lignea a doppio spiovente su archi diaframma trasversali a sesto acuto. E di quegli ambienti conservarono sempre, anche quando disattesero le norme delle costituzioni dell’Ordine, la visualizzazione chiara e immediata dello spazio interno.
L’influsso dell’architettura cistercense su quella degli Ordini mendicanti si
ravvisava nel primo impianto della chiesa di S. Francesco a Barcellona, fondata
nel 1229 e scomparsa nel secolo XIX, a navata unica con cappelle laterali e
abside quadrangolare, che presentava copertura in legname su archi diaframma
a sesto acuto, secondo lo schema dei dormitori cistercensi.
Al primitivo S. Francesco di Barcellona si attenevano le chiese minorite di
S. Francesco di Montblanc, il cui convento era fondato prima del 1238, e di
Palma di Maiorca, iniziata dopo il 1279, quando il convento era ceduto alle
suore di S. Margherita. Ad aula coperta con soffitto in legname su archi diaframma a sesto acuto e cappelle laterali tra i contrafforti, quest’ultima aveva
però abside poligonale con volta a nervature.11 Questo schema diveniva peculiare dell’architettura catalana durante il XIII e il XIV secolo, ma già intorno alla
metà del Duecento l’inosservanza delle costituzioni aveva portato ad un tipo di
chiesa che si sviluppò parallelo al precedente e che adottò la volta a crociera,
configurandosi ormai come pienamente gotico.
I domenicani nel 1219 avevano aperto una sede a Barcellona accanto al
ghetto ebraico, ma nel 1223 si erano trasferiti in alcune case cedute dalla municipalità presso la chiesetta di S. Caterina nel quartiere di Sant Pere, dove nel
1243 avevano cominciato la fabbrica del convento. Nel 1252 la chiesa era già
innalzata fino alla base delle arcate, e dieci anni dopo erano ormai ultimate
l’abside e le prime tre campate. I lavori continuarono fino al 1275, quando con
il lascito testamentario di Ponç d’Alast si potè voltare la settima e ultima campata. Il convento e la chiesa di S. Caterina subirono nel 1835 un incendio e due
anni dopo furono abbattuti. La chiesa, il cui impianto ci è noto grazie ai disegni
eseguiti da Josep Casademunt i Torrents nel 1837, si modellava probabilmente
su quella del S. Francesco della stessa Barcellona, ristrutturata intorno al 1247.12
Anche S. Caterina fu costruita ad aula con cappelle laterali aperte tra i contrafforti
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N. DE DALMASES – A. JOSÉ I PITARCH, L’època del Cister, s.
Barcellona 1985, pp. 119-121.
Ivi, pp. 122-124.
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Història de l’Art Català, II,
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esterni ed abside poligonale. Le sette campate, tante quanti i lati del poligono
absidale, furono voltate a crociera, come le cappelle e il presbiterio.
L’elemento unificante fra il primo tipo costruttivo, esemplificabile nel S.
Francesco di Montblanc, più elementare, con copertura in legname su archi
diaframma, e il secondo, cioè la S. Caterina di Barcellona, con volte a crociera
sull’aula, era l’unità dello spazio interno.
La definizione di spazi interni unici ritorna in tutte le edificazioni religiose
del XIV e XV secolo dei paesi dipendenti politicamente e culturalmente dalla
Catalogna, cioè le isole Baleari, il territorio valenzano, Napoli, la Sicilia e, con
qualche variazione, la Sardegna.13
Nel 1323, quando Alfonso d’Aragona sbarcava in Sardegna, i due tipi di
chiesa, che possono considerarsi varianti di uno stesso modello,14 erano ormai
definiti. Planimetricamente identici – ad aula con cappelle laterali, ricavate tra i
contrafforti esterni addossati alle pilastrate di scarico degli archi diaframma
interni, e abside poligonale –, si differenziavano solo per la copertura che in uno
era in legname a due spioventi, sostenuti da archi trasversali a sesto acuto, e
nell’altro a volte a crociera nervata tra archi diaframma che delimitano le campate. Con la pianta avevano in comune, inoltre, l’uso delle volte nell’abside e
nelle cappelle e il presbiterio della stessa ampiezza e altezza della navata.
Il sentimento unitario dello spazio interno è tale che non viene meno neppure negli edifici a tre navate, che utilizzano pilastri sottili e molto distanziati fra
loro a separare navi di altezza pressoché uguale con effetto di un’unica grande
sala, ancor più marcato che nelle Hallenkirchen tedesche, dove i pilastri hanno
una distanza meno accentuata.15 L’interno della Cattedrale di Barcellona, con
soltanto cinque coppie di pilastri che separano le tre navate, e la S. Maria del
Mar, sempre a Barcellona, cominciata nel 1329 dopo la cacciata definitiva dei
pisani dal Castello di Cagliari, con quattro coppie di altissimi pilastri poligonali,
sono gli esempi più significativi della concezione spaziale unitaria catalana negli edifici a più navate.
Ma la spazialità ininterrotta, sottolineata dal presbiterio della stessa sezione
trasversale dell’aula, non era compiutamente attuata nella chiesa di Bonaria, in
cui, a differenza del modello barcellonese di S. Àgata – dove la navata conti-
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N. DE DALMASES – A. JOSÉ I PITARCH, L’art gòtic, s. XIV-XV. Història de l’Art Català, III, Barcellona
1984, pp. 13-21.
A. FLORENSA, Il gotico catalano in Sardegna, in «Bollettino del Centro di Studi per la Storia dell’Architettura», Contributi alla storia dell’architettura in Sardegna, n. 17, Roma 1961, p. 85.
Ivi, p. 86.
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nuava senza alcuna interruzione nel vano absidale –, l’aula era conclusa da una
parete rettilinea in cui si apriva un presbiterio molto più basso e stretto dell’aula
stessa. Una soluzione che non trovava riscontri in Catalogna, tranne forse nella
chiesa di S. Maria la Real a Perpignano, l’antica parrocchiale dei re di Maiorca,
e nella Cappella reale della Cattedrale di Palma di Maiorca, costruita tra il 1313
e il 1327 sul medesimo schema di quella rossiglionese.
Poiché sul presbiterio si eleva la torre campanaria, Renata Serra spiega le
ridotte dimensioni del vano presbiteriale con l’esigenza di assicurare stabilità
alla struttura.16 Se la singolarità della collocazione del campanile – nelle chiese
continentali catalane le torri campanarie sorgono quasi sempre su cappelle laterali – giustifica per la chiesa di Bonaria l’adozione di un’abside poco più ampia
di una cappella, non si riesce a dare una spiegazione soddisfacente alla persistenza
di tale caratteristica in tutte le successive architetture religiose di gusto gotico
catalano edificate in Sardegna – ad eccezione del S. Francesco di Alghero –,
nelle quali il campanile fiancheggia la facciata o poggia su una cappella laterale, ma mai sul presbiterio.
Una ragione della peculiare tipologia delle chiese sorte nell’Isola in età
catalana, potrebbe forse trovarsi nell’influsso determinante delle locali architetture degli Ordini mendicanti, quali, a Cagliari, il S. Francesco di Stampace e il
S. Domenico e, a Sassari, la S. Maria di Betlem. Anche per il Santuario di Bonaria potrebbe non essere estraneo l’impianto della primitiva chiesa di Valverde
ad Iglesias, da poco conclusa al momento dello sbarco catalano. Proprio dall’esempio delle chiese francescane e domenicane isolane deriva il presbiterio
quadrato invece che poligonale – presente però ad Alghero e in poche chiese del
Meilogu –; mentre il campanile, almeno nel meridione dell’Isola, sarà posto sul
lato sinistro della facciata secondo il modello della Cattedrale tardoromanica di
Cagliari.17 Nel settentrione le torri campanarie, forse sullo schema di quelle,
sempre tardoromaniche, del S. Pietro di Silki e del Duomo di Sassari, si eleveranno sulle cappelle laterali, lungo i fianchi dell’edificio. Fanno eccezione, anche in questo caso, quelle di Alghero, che nel S. Francesco e nella Cattedrale
sorgono rispettivamente su una cappelletta retrostante e speculare al presbiterio
e sulla cappella radiale centrale.18
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R. SERRA, L’architettura sardo-catalana, in I Catalani in Sardegna, a cura di J. Carbonell e F.
Manconi, Cinisello Balsamo 1984, p. 125.
Ivi, p. 135.
A. SARI, L’architettura ad Alghero dal XV al XVII secolo, in «Biblioteca Francescana Sarda», IV,
1990, pp. 8 e 13-15.
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Lo iato tra la spazialità dell’aula e quella del presbiterio del Santuario di
Bonaria appariva certo assai più evidente prima che la copertura lignea su
archi trasversali fosse sostituita dalla secentesca bassa volta a botte spezzata segnata da sottarchi. Il soffitto in legname era del resto pressoché esclusivo negli edifici sardo-catalani del XIV-XV secolo. Avevano coperto in legname, ad esempio, sempre a Cagliari anche la chiesa di S. Giacomo, parrocchiale del quartiere di Villanova, documentata dal 1346, e quella di S. Eulalia,
parrocchiale della Marina e attestata dal 1371, i cui interni, rimaneggiati in
epoca posteriore, presentano oggi complesse volte a crociera. A Sassari i
lavori di rifacimento della chiesa francescana di S. Maria di Betlem, eseguiti fra il 1440 e il 1465, risparmiarono la copertura in legname, evidentemente conforme anche al gusto dei dominatori.19 In effetti le coperture a volta
nell’aula degli edifici ecclesiastici di impronta gotico-catalana risultano quasi
tutte posteriori al regno di Ferdinando II.
Queste particolarità, che distinguono le architetture sorte in Sardegna nel
XIV- XV secolo rispetto ai modelli d’oltremare, testimoniano, nella sintesi di
tradizione italiana e novità catalana, la nascita di una modalità isolana originale, pur con una preponderante connotazione catalana. Quasi una sorta di
resistenza all’acculturazione imposta da un nuovo ceto egemonico, ma che
non andrà mai oltre alcune soluzioni strutturali e l’interpretazione in chiave
neoromanica della plastica architettonica.
Fa eccezione Alghero che nel 1354, trent’anni dopo la conquista catalana
della Sardegna, era diventata villa regia.20 Consapevole del suo ruolo strategicamente indispensabile per il dominio dell’Isola, Pietro il Cerimonioso come
primo provvedimento, scacciati gli abitanti, l’aveva ripopolata, all’interno delle
poderose mura,21 con catalani e aragonesi, ai quali dava «totes les posessions,
ço és, cases e terres e vinyes del dit lloc e de son terme»,22 trasformando la
fortezza sardo-genovese in una preziosa testa di ponte catalana. E schiettamente catalana, di conseguenza, fu la sua architettura, dove l’emulazione dei
raggiungimenti estetici della madrepatria si evidenzia, oltre che nell’osserA. SARI, Storia di una chiesa francescana. Santa Maria di Betlem a Sassari, in «Nuova Comunità», VIII, gennaio 1989, p. 21.
20
Les quatres grans cròniques cit., p. 1121; G. MELONI, L’Italia medioevale nella Cronaca di
Pietro IV d’Aragona, Cagliari 1980, p.151, n. 2; R. CONDE, La Sardegna aragonese cit., p.
270.
21
Sul circuito murario della villa e sulla sua storia vedi G. Sari, La piazsa fortificata di Alghero,
Alghero 1988.
22
Les quatres grans cròniques cit., p. 1122.
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vanza dell’unità spaziale23 (mai rispettata compiutamente altrove nell’Isola),
nei partiti ornamentali.
In realtà la conquista catalana non significò per la Sardegna una rottura definitiva e immediata con la cultura artistica del Continente italiano, sino ad allora suo referente principale. Questa, infatti, convisse con l’ideologia dei nuovi
dominatori, pur in un ruolo ormai marginale, almeno fino agli inizi del XV secolo, come testimoniano, per non citare che alcune opere d’arte figurativa, il
polittico commissionato verso il 1340, un quindicennio circa dopo l’impresa
aragonese, dal convento di San Domenico di Cagliari al pisano Maestro della
Carità,24 stretto collaboratore di Francesco Traini (il pannello superstite, raffigurante S. Domenico, si trova nella Casa parrocchiale di Ploaghe), o il dossale,
di cui faceva parte la Madonna del Bosco, eseguito a Genova, alla fine del
Trecento, da un pittore dell’ambito di Nicolò da Voltri per la chiesa di S. Nicola
di Sassari.25 A uno scultore napoletano della cerchia del Camaino appartiene,
poi, la statua di calcare del Redentore nella cripta di Santa Restituta a Cagliari;26
mentre Nino Pisano è l’autore del San Basilio marmoreo per i conventuali di
Oristano. Intagliati da artisti toscani alla fine del XIV secolo sono pure l’Arcangelo Gabriele della parrocchiale di Sagama e l’Annunciata del Duomo di
Oristano. L’Arcangelo ligneo fu eseguito allo scorcio del Trecento, se dobbiamo dar credito alla lettura fatta da Francisco Vico dell’iscrizione che correva
attorno alla base (riapparsa in parte dopo l’ultimo restauro), tracciata «con letras
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Nella chiesa di S. Francesco, per esempio, ispirata in pianta e in alzato a moduli gotico-catalani,
il presbiterio, ampio e luminoso, era di altezza uguale all’aula – a differenza di ciò che si riscontra nelle chiese sarde di matrice catalana, in cui la navata termina in un muro dove s’apre
un’abside più bassa e stretta. La diretta adesione a principi costruttivi catalani era confermata
poi, nella stessa chiesa, dalla corrispondenza fra il numero dei lati del presbiterio pentagonale
(ottenuto in pianta dalla giustapposizione di un quadrato con un semiesagono) e quello delle
campate dell’aula (A. SARI, L’architettura ad Alghero dal XV al XVII secolo cit., pp. 179-183).
Tale corrispondenza, propria della tradizione planimetrica catalana, non trovava confronti nell’Isola, se si esclude il Santuario di Bonaria – edificato da maestranze catalane tra il 1324 e il
1326, nel periodo cioè che va dall’assedio di Cagliari alla presa definitiva del Castello da parte
delle truppe aragonesi –, il quale, precedentemente la sistemazione dell’attuale prospetto e il
prolungamento della navata (1895), aveva anch’esso un numero di campate identico a quello
dei lati del poligono absidale (R. SERRA, Il Santuario di Bonaria in Cagliari e gli inizi del
gotico catalano in Sardegna, in «Studi Sardi», XIV-XV, 1958, p. 348).
A. CALECA, Pittura in Sardegna: problemi mediterranei, in Cultura quattro-cinquecentesca in
Sardegna. Retabli restaurati e documenti, Catalogo della mostra, Cagliari 1985, p. 32.
R. SERRA, Retabli pittorici in Sardegna nel Quattrocento e nel Cinquecento, Roma 1980, p. 10;
EAD., Pittura e scultura dall’età romanica alla fine del ‘500, Nuoro 1990, p. 46 e scheda n. 17
a cura di R. Coroneo.
Ivi, p. 56 e scheda n. 20 a cura di R. Coroneo.
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de oro goticas, que dize assí: “Questo Angelo Gabrielle fece fare discreto viro
donno Simone de Sassari 1390”».27 È attribuito al Maestro dell’Annunciazione
di Montefoscoli da Gert Kreytenberg, che riferisce l’Annunciata di Oristano,
già assegnata a Nino Pisano da Raffaello Delogu, al Maestro della Madonna di
Cerreto.28
Tuttavia i catalani, consapevoli della funzione non secondaria della cultura
d’immagine nel processo di colonizzazione di un popolo, diffondevano, dai
primi momenti successivi alla presa di possesso dell’Isola, l’estetica gotica in
quella loro particolare accezione che improntava ben presto tutto il paese sino
allo scorcio del XVI secolo.
Se, nel 1324, quando ancora assediavano Cagliari, fondavano, come si è
detto, sul colle di Bonaria, con schemi peculiari della loro architettura e sul
modello della Sant’Àgata di Barcellona, una chiesa destinata, secondo un primo progetto, a divenire la parrocchiale di una nuova città da contrapporre al
Castrum pisano, nel 1326, subito dopo il definitivo ingresso nel Castello, sottolineavano la propria vittoria anche culturale con l’apertura della cappella gotica
nel braccio meridionale del transetto del Duomo, dove la matrice della nuova
concezione dello spazio era rimarcata dalle quatres barres, che ostentatamente,
con la nuova arma di Cagliari, si disponevano nei capitelli dell’arco di accesso
e nella chiave di volta.
Nessuna traccia resta, sempre a Cagliari, delle primitive strutture del San
Giacomo e della Sant’Eulalia. Si può supporre che, se non furono utilizzate
fabbriche precedenti, non si discostassero dalle caratteristiche di spazio e di
ornato delle contemporanee architetture di Catalogna.
Alla metà dello stesso XIV secolo si introduceva in Sardegna il retaule che,
nato in antitesi alla pittura murale e ai dossali orizzontali e poco visibili dell’epoca romanica, si era diffuso verso la fine del primo ventennio di quel secolo
in Catalogna, distinguendone originalmente la produzione artistica per tutta l’età
gotica. Nel retaule (‘retablo’, come si dirà più comunemente dal castigliano),
che deriva la propria denominazione da retrotabula altaris, cioè ‘tavola dietro
l’altare’ (rerataula), si concentrava la decorazione pittorica della cappella.
Già prefigurato nei paliotti dipinti del XII secolo, che nel successivo, per
ragioni liturgiche (la collocazione differente del sacerdote, che celebra dando le
spalle ai fedeli, e l’obbligo di elevare l’Ostia), avevano trovato collocazione
27
28
F. VICO, Historia general de la Isla y reyno de Sardeña, Barcellona 1639, VI, cap. V, c. 57v.
G. KREYTENBERG, Andrea Pisano und toskanische Skulptur des 14.Jahrhunderts, Monaco 1984,
p. 140, nn. 18-19.
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dietro l’altare, sulla mensa, addossati alla parete di fondo della cappella, trasformandosi in dossali e pale d’altare, il retablo sembra derivare più direttamente dalle tavole istoriate che i francescani diffondevano nel XIII-XIV secolo in
Europa, il cui schema, esemplato nella pala duecentesca (1235 c.) di Bonaventura
Berlinghieri conservata nella chiesa di S. Francesco di Pescia, prevedeva al
centro un’immagine del Santo fondatore dell’Ordine affiancata da una serie
sovrapposta di scomparti con storie della sua vita.
Non doveva differire da questa tipologia la «tabulam ad altare depictam et auro
stellata» del convento francescano di Reading, in Inghilterra.29 Ad un dipinto collocato dietro l’altare, e quindi quasi certamente ad un polittico, allude il termine
retrotabularium registrato nel 1294 nella raccolta di leggi di Giacomo II di Maiorca.
Come ha sottolineato Caterina Limentani Virdis: «Se pure le antiche denominazioni non sembrano registrarne affatto l’importanza, appare evidente che
la caratteristica saliente del polittico è la sua struttura multipla, la sua natura di
organismo complesso capace di saldare in un insieme armonioso un numero
variabile di tavole, secondo un programma iconografico e decorativo sottomesso alla gerarchia dei soggetti e dunque all’intenzione del committente».30
La schema del retablo – con un’organizzazione degli spazi dei singoli scomparti non solo pittorica, ma volta quasi sempre a prolungare la spazialità reale (o
in maniera indeterminata col fondo oro o definita con sfondi paesaggistici), e
con la suddivisione mediante montanti a pinnacolo, tra cui s’impostano, a chiusura delle storie laterali, archi gigliati – è allusivo all’architettura, divenendo
complemento e conclusione di quella della chiesa e del presbiterio.
Come conferma la terminologia utilizzata nei documenti catalani del XV-XVI
secolo per designare i singoli elementi del retablo, era sempre stata chiara la
consapevolezza che esso fosse una macchina architettonica e che in quanto tale
svolgesse un ruolo strutturale nello spazio presbiteriale. Altrettanto chiara doveva esserne la valenza simbolica: un’opera d’architettura, anzi, meglio, di urbanistica, dove si realizzava, grazie al Santo patrono e al suo operato, il Regno
di Dio sulla terra, ma allusiva anche ad una dimensione ultraterrena, la città di
Dio, cui dovrebbero aspirare tutti i fedeli.
Il retablo presenta due parti fondamentali: una inferiore con andamento orizzontale chiamata predella o bancal, e l’altra di maggiore estensione verticale
che vi si appoggia superiormente. Il termine bancal ha fra gli altri il significato
29
30
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Notizia citata in C. LIMENTANI VIRDIS – M. PIETROGIOVANNA, Polittici, San Giovanni Lupatoto
2001, p. 12.
Ivi, p. 15.
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di appezzamento di terreno e perciò anche di terreno compreso tra le mura e
l’incasato della città medievale. La parte superiore ha al centro la tavola con
l’effigie del santo cui è dedicato il polittico, che è detta compartiment, quindi
‘compartimento’, spazio in cui è diviso il territorio di questa immaginaria città
celeste, ma che riflette quella terrestre in cui vivono i fedeli e nella quale come
in un edificio religioso sta il santo titolare. Nella zona soprastante è un pannello
quasi sempre con la Crocifissione, detto cimal che può tradursi con ‘sommità’,
luogo alto e perciò luogo dove sorge il castello cittadino. Lateralmente sono i
departiments, cioè tavole di minori dimensioni organizzate in verticale in cui si
svolgono le storie e i miracoli del titolare: tavole che nei documenti catalani
sono chiamate cases, ‘case’, e l’insieme delle serie verticali forma i carrers,
cioè le strade. I carrers sono uniti tra loro da montanti, mentre le cases sono
separate da archeggiature e fregi. Infine, una fascia inclinata, i polvaroli, è detta
guardapols, cioè ‘tetti della tavola’, perciò tetti della città.
Per ovviare al rischio della frammentazione compositiva e all’attenuazione
della tensione emotiva dell’osservatore, sempre presenti in opere di così vaste
dimensioni suddivise in pannelli di soggetti differenti, pur se sottoposti ad un
unico tema, i pittori ricorrono a ferrei principi compositivi e strutturali che vanno dall’uso della prospettiva, che, per quanto possibile, unifichi lo spazio delle
varie tavole nell’unico punto di fuga centrale; alla sezione aurea; agli indicatori
di percorso e perciò di lettura progressiva delle tavole,31 principi costruttivi che
riducono l’effetto di disorganicità, quando non l’annullano del tutto, ripristinando l’unità spaziale ed emotiva.
Ad uno dei primi retabli importati nell’Isola è legata forse la Madonna Nera
del Duomo di Cagliari, ascrivibile, per via formale, alla metà del Trecento. L’intaglio, che sembra modellarsi su altro celebre della cattedrale di Palma di
Maiorca, assai probabilmente faceva parte, come suppose lo storico Giovanni
Spano, di un retablo che ornava l’altare maggiore.32
Allo scorcio dello stesso secolo un artista catalano scolpiva per il Duomo di
Oristano il retablo marmoreo del Rimedio, di cui avanzano alcuni elementi laterali
e la statua della Vergine col Bambino. Ad un polittico pure scultorio dovevano appartenere nella stessa chiesa oristanese i rilievi eseguiti qualche decennio prima sul
verso di due plutei marmorei romanici da un maestro della cerchia di Jaume Cascalls.33
31
32
33
Sugli indicatori di percorso vedi gli studi di R. Concas in corso di stampa.
G. SPANO, Guida del Duomo di Cagliari, Cagliari 1856, p. 32.
J. AINAUD DE LASARTE, Les relacions econòmiques de Barcelona amb Sardenya i la seva projecció
artística, in «VI Congreso de Historia de la Corona de Aragón», Madrid 1959, p. 638.
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I frammenti sono comunemente considerati come pertinenti ad un unico retablo,
cui si potrebbe pensare abbiano lavorato due scultori diversi; in realtà sia nei
frammenti riferibili al polittico della Madonna del Rimedio sia nei rilievi scolpiti
sul retro dei plutei romanici è raffigurata fra le altre la scena dell’Annunciazione,
ora, poiché è impensabile che in un retablo sia rappresentato due volte lo stesso
episodio, non resta che considerare l’eventualità di due polittici diversi, come
indicano pure le differenze stilistiche riscontrabili nei diversi frammenti. Opinione questa già espressa da Raffaello Delogu nel lontano 1952 e ripresa da Angela
Mata nel 1987, la quale ultima ritiene che le due lastre scolpite nel verso dei plutei
romanici fossero non una predella, ma gli elementi laterali di un retablo del tipo
catalano a sviluppo orizzontale, con al centro la statua della Madonna col Bambino, e che i frammenti con l’Annunciazione e l’Incoronazione della Vergine appartenessero ad un secondo retablo marmoreo di mano differente.34 In realtà ragioni
formali sembrerebbero accostare questi ultimi alla Madonna del Rimedio, piuttosto che i rilievi attribuiti all’ambito di Jaume Cascalls.
A questo proposito sarebbe interessante interrogarsi anche dove i due plutei
siano stati rilavorati: in Sardegna, ad Oristano, o in Catalogna? Se in Catalogna,
come probabile, cadrebbe l’attribuzione ad un maestro isolano dei rilievi romanici e la tesi della loro presenza ab antiquo nella cattedrale oristanese.
All’attività scultoria catalana di quegli anni risale, infine, la piccola Madonna seduta con il Bambino sulle ginocchia del Santuario di Bonaria a Cagliari.
Poco dopo la metà dello stesso secolo XIV, precisamente il 16 luglio 1364,
Llorenç Saragossa – «lo millor pintor» di Barcellona, a detta di Pietro il Cerimonioso35 – firmava il contratto per l’esecuzione di un retablo, dedicato ai santi Gabriele e Antonio, per una cappella della Cattedrale di Cagliari, che doveva essere
già ultimato il 30 dicembre del medesimo anno.36 Dell’opera non resta traccia,
anche se non è escluso che la sua presenza possa aver influito in qualche modo
sugli artefici isolani. Per la stessa cappella l’anno seguente, 1365, erano spediti da
Barcellona due candelabri in ferro battuto, che come ipotizza Ainaud de Lasarte
dovevano essere simili ad altri esemplari catalani esistenti ancora a Cipro.37
34
35
36
37
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A. FRANCO MATA, Influenza catalana cit., p. 231 ss.
A. RUBIÓ I LLUCH, Documents per la història de la cultura catalana mig-eval, II, Barellona
1921, doc. CLXXIV; J. GUDIOL – S. ALCOLEA I BLANCH, Pintura gòtica catalana, Barcellona
1986, p. 60.
J. MADURELL I MARIMON, El pintor Lluís Borrassà. Su vida, su tiempo, sus seguidores y sus
obras, in «Anales y Boletín de los Museos de Arte de Barcelona», VIII (Apéndice documental),
1950, docc. 13-15; J. AINAUD DE LASARTE, Les relacions econòmiques cit., p. 640.
Ivi, pp. 639-640.
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Ma artisti catalani, giunti sin dalle prime spedizioni militari di conquista, svolgevano a quell’epoca ormai attività stabile a Cagliari, partecipando così fattivamente al programma di catalanizzazione anche culturale della Corona.
Nel 1355 Pietro il Cerimonioso, nel quadro della politica di ripopolamento
della villa di Alghero, concedeva, per esempio, il trasferimento ad Alghero al
pittore catalano Pere Blanch, che risiedeva allora a Cagliari, dove teneva certamente bottega.38 Nel 1395 anche un altro pittore catalano, Ramonet de Caldes,
viveva nel Castello di Cagliari.39
Intanto continuavano le importazioni dirette dalla Catalogna. Il 4 marzo
1404, a Barcellona, Pere Serra si impegnava a dipingere per 30 lire un piccolo
retablo per Arnau ça Bruguera, cittadino algherese, che saldava il pagamento
il 25 settembre successivo.40 Qualche anno prima, il 10 aprile del 1399, anche
Leonardo De Doni, membro di una famiglia di commercianti d’origine pisana
stabilitasi a Cagliari, il quale svolgeva un ruolo preponderante nell’esportazione del corallo da Alghero a Barcellona, aveva commissionato un retablo al
Serra.41 Lo stesso Leonardo De Doni, come attesta un documento del 17 maggio 1403, era in rapporto con Joan Mates, collaboratore di Pere Serra. Sempre
Leonardo si faceva forse mediatore tra Mates e un familiare, Guido, residente
a Cagliari, per la realizzazione del retablo dell’Annunciazione, che era collocato nella cappella di patronato della famiglia De Doni nella chiesa di S. Francesco di Stampace a Cagliari.
Nei frammenti rimasti – lo scomparto mediano con l’Annunciazione, la sovrastante Crocifissione, lo scomparto laterale alto di sinistra con la Caccia di S.
Giuliano, la predella con i cinque scomparti, raffiguranti da sinistra: S. Antonio
Abate, S. Giovanni Battista, Cristo come Uomo dei dolori, S. Margherita e S.
Caterina d’Alessandria (tutti conservati nella Pinacoteca Nazionale di Cagliari) –
lo stile cortese del Mates, che appare lontano dagli italianismi di Pere e dal
patetismo di Lluis Borrassà, si rivela nella eleganza del segno, che fluisce in
accordo con la soavità della gamma cromatica.
J. MADURELL I MARIMON, El pintor Lluís Borrassà cit., doc. 401; J. AINAUD DE LASARTE, Les
relacions econòmiques cit., p. 640.
39
J. MADURELL I MARIMON, El pintor Lluís Borrassà cit., doc. 96; J. AINAUD DE LASARTE, La pintura
sardo-catalana, in I Catalani in Sardegna cit., p. 111.
40
J. MADURELL I MARIMON, El pintor Lluís Borrassà cit., doc. 68; J. AINAUD DE LASARTE, Les relacions
econòmiques cit., p. 640.
41
J. MADURELL I MARIMON, El pintor Lluís Borrassà cit., doc. 43.
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Così nel 1861 il canonico Giovanni Spano descriveva nella sua Guida della
città e dintorni di Cagliari, al paragrafo dedicato alla chiesa stampacina, il
polittico ancora intatto:
Nelle tre cappelle che stanno sotto la Tribuna o il Coro, è dove più splende il
bello antico, né meglio potria desiderarsi dai più illustri giotteschi fino al Masaccio.
Non è possibile poter descrivere minutamente le tavole che stanno in queste tre cappelle abbandonate ed interdette. Peccato che questi preziosi tesori siano ivi non curati, pieni di polvere, ed albergo dei ragni! Di più, coll’umidità che vi è continuamente,
un giorno verranno a perdersi, e perciò converrebbe di toglierli, ed assegnare ad essi
più decente luogo. Nella stessa condizione erano quelle quattro tavole della Chiesa di
S. Francesco d’Oristano, che abbiamo osservato in casa Decandia. Qual altro pregio
non avrebbero se a queste toccasse la medesima sorte!
La prima cappella a destra attigua a quella della Visitazione che abbiamo lasciato, è dedicata alla Annunziata che sta nello spartimento di mezzo, ingombrato da una
nicchia: a sinistra vi sta un personaggio, il conte Rogerio, in abiti da Principe con
sproni ai piedi, un cane sotto, con un falchetto in mano ed il cappuccio per lo stesso
falco. A destra un Santo Monaco in abiti ruvidi, che è S. Brunone l’institutore dell’Ordine Certosino, il quale vivendo in una spelonca di un eremo in Calabria, venne
scoperto dai cani del conte di Calabria, Rogerio, che verso quel sito attendeva alla
caccia. In mezzo vi è l’Annunciazione slanciandosi una mano dall’alto sulla Vergine.
Ai lati di sopra in piccola dimensione vi sta S. Giorgio a cavallo a sinistra, ed a destra
un gruppo d’angeli con Gesù bambino scherzando. Nel finimento avvi ripetuta la
Crocifissione, come nell’altro altare, con diversi gruppi e figure. Nell’imbasamento
finalmente altri cinque spartimenti a metà di figure di Santi e di Sante. Queste sono
ornate di diademi e di fregi dorati con pietre e gemme che sembrano fatte da poco. I
volti delle Sante sono delicatissimi, che potrebbero confondersi coi ritratti dei migliori che si conoscono del Giunta Pisano. Si vedono con una tale espressione, che si
potrebbero contare i peli ad uno ad uno nello sfilamento della barba e dei capelli.
Nel pavimento di questa cappella si osserva un marmo in cui è presentato in
basso rilievo un personaggio giacente in abito lungo colle mani incrociate, ed attorno
l’iscrizione in caratteri gotici: Hic jacet corpus nobilis viri Domini Guido De Dono
(Dedoni) mercatoris de Castro Calleris qui obiit anno Dom. 1410 indictione III die
12 Mensis Decembris cujus animam [sic] requiescat in pace.42 Al lato del cuscino vi
sono due stemmi di famiglia, uguali a quello che si vede sopra l’arcata della cappella,
che forse era patronato della famiglia Dedoni, una delle più antiche di Cagliari.43
Circa un cinquantennio più tardi, il retablo, smembrato e custodito nel
Museo Nazionale di Cagliari, dopo l’iniqua legge sulla soppressione degli
42
43
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Questa la lettura corretta: «HIC IACET CO/RPUS NOBILIS VIRI DOMINI GUIDO DE DONO
MERCATORIS DE CASTRO CALLE(R)IS/QUI OBIIT ANNO D(OMI)NI MCCCCX IN/
DICTIO(N)E III DIE XII MENSIS D(E)CE(M)BRIS CUIUS ANIMAM REQ(U)IESCAT IN
PACE AME(N)».
G. SPANO, Guida della città e dintorni di Cagliari, Cagliari 1861, pp. 172-173.
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ordini religiosi che aveva disperso gran parte del patrimonio artistico della
chiesa e del convento di S. Francesco di Stampace, era studiato da Carlo Aru,
che esponeva le sue deduzioni nel X Congresso di Storia dell’Arte, tenuto a
Roma nel 1912, pubblicandole poco dopo, in attesa degli Atti, nell’ «Anuari
de l’Institut d’Estudis Catalans».44
L’Aru, però, divideva le tavole che in origine avevano costituito il retablo
dell’Annunciazione in due gruppi che assegnava a due polittici differenti, attribuendo il primo, risultante di due dipinti (un Santo Cavaliere e una Crocifissione), a un pittore catalano della seconda metà del Trecento con influssi toscani, e
il secondo, comprendente cinque elementi di una predella raffiguranti rispettivamente Cristo al sepolcro e quattro santi, ad un artista della scuola di Lluís
Borrassà attivo nei primi anni del XV secolo. Negli Atti, apparsi soltanto nel
1922, lo studioso, che manteneva la divisione in due gruppi e le attribuzioni di
dieci anni prima, indicava nella cappella dell’Annunziata del S. Francesco di
Stampace la collocazione originaria del retablo di cui avrebbero fatto parte le
cinque tavole della predella.45
Nel 1927 lo stesso Aru, nel saggio intitolato Lineamenti storici della pittura
sarda,46 compiva «un altro passo verso la migliore conoscenza delle relazioni
intercorrenti tra queste sette tavole».47 Egli, infatti, riuniva, sulla testimonianza
della Guida del Canonico Spano, i due gruppi, che erano considerati così elementi del medesimo polittico descritto dallo Spano nella cappella
dell’Annunziata, e ne confermava l’esecuzione ad un seguace del Borrassà.
Ancora dieci anni dopo, nel 1936, la sua attribuzione era accolta nel catalogo del Museo Nazionale e della Pinacoteca di Cagliari, in cui Raffaello
Delogu scriveva:
Si nota in seguito un gruppo notevolissimo di opere fra le quali primeggiano,
per il vivissimo goticismo, i due frammenti raffiguranti un S. Cavaliere e la Crocifissione, parti di una stessa ancona della chiesa di S. Francesco, dove sono di facile
riscontro influenze coloristiche senesi. Alla stessa ancona apparteneva la sottostante
predella con le figure del Cristo, di S. Antonio Abate, di S. Giovanni Evangelista,
44
45
46
47
C. ARU, Storia della pittura in Sardegna nel secolo XV, in «Anuari de l’Institut d’Estudis Catalans»,
IV (1911-12), Barcellona 1913. Dieci anni dopo il saggio era pubblicato finalmente: C. ARU, La
pittura sarda nei secoli XV e XVI, in «Atti del X Congresso Internazionale di Storia dell’Arte»
(1912), Roma 1922.
Ivi, p. 263 ss.
C. ARU, Lineamenti storici della pittura sarda, in «Fontana Viva», II, fasc. 2, 1927, p. 11.
R. DELOGU, Chiosa al ‘Maestro di Peñafel’, in «Annali della Facoltà di Lettere, Filosofia e
Magistero della Università di Cagliari», XIV, 1946, pp. 3-4.
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S. Caterina d’Alessandria e di un’altra Santa; la squisita e delicatissima opera fu
dipinta da un seguace di Louis Borrassà, attivo nei primi anni del secolo XV. Notevole il fiabesco e lirico contrasto tra la delicata figurina dell’ultima Santa a destra
e il grottesco leone. L’opera costituisce la documentazione del primo apporto pittorico spagnolo alla terra sarda.48
Nel 1938, Chandler Rathfon Post identificava il Santo a cavallo con S. Giuliano Ospedaliere,49 raffigurato, secondo una diffusa iconografia derivata dalla
Legenda aurea, nell’atto di ascoltare attonito, durante una battuta di caccia, la
profezia del cervo che aveva scovato dalla macchia, secondo la quale egli avrebbe
ucciso i genitori di sua propria mano.50
In quello stesso anno il Delogu rinveniva nei magazzini del Museo Nazionale di Cagliari un’Annunciazione, che «per linguaggio e tecnica, oltre che per
l’aderenza alla descrizione dello Spano»,51 dichiarava la sua appartenenza a
quel medesimo polittico cui erano stati assegnati i sette frammenti attribuiti alla
scuola del Borrassà.
Si ricomponeva così l’ancona descritta nel XIX secolo dal Canonico Spano,
della quale «rimangono, quindi: tutta la predella, lo scomparto centrale con l’Annunciazione, la soprastante Crocifissione e lo scomparto superiore di sinistra
con la figura di S. Giuliano. Mancano, distrutti o probabilmente emigrati, tre
scomparti, oltre ai polvaroles, raffiguranti, stando alla descrizione dello Spano,
“il Conte Ruggero in abiti da principe”, S. Bruno da Colonia ed “un gruppo
d’angeli con Gesù Bambino”».52
In realtà il conte Ruggero è da identificare con lo stesso S. Giuliano
Ospedaliere e S. Bruno di Colonia con S. Giuliano di Padova Confessore,
mentre la tavola con Gesù Bambino tra gli angeli raffigurava il divin Pargolo
che gioca con i tre santi Innocenti, le cui reliquie appartennero a S. Giuliano
Confessore. Le storie più popolari della legenda dei due santi, che in un retablo
tradizionale sarebbero state confinate nei departiments, cioè nelle cases, oc-
48
49
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51
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R. DELOGU, La Pinacoteca di Cagliari, in A. TARAMELLI – R. DELOGU, Il R. Museo Nazionale e
la Pinacoteca di Cagliari, Roma 1936, p. 39.
CH. R. POST, History of Spanish painting, Harward 1938, VII, parte 2, p. 747.
IACOPO DA VARAZZE, Legenda aurea, a cura di A. e L. Vitale Brovarone, Torino 1995, pp. 176177.
R. DELOGU, Chiosa cit., p. 5. La tavola, le cui vaste cadute di colore avevano in gran parte
compromessa la lettura delle due figure, era stata restaurata nel 1935, «sotto la direzione dell’Arch.
Angelo Vicario, dal sig. Guido Fiscali mediante consolidamento del supporto, stuccatura delle
lacune e nuova loro campitura con tinte neutre» (ivi, p. 5, nota 7).
Ivi, p. 6.
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cupavano il posto di solito riservato all’arcangelo Gabriele e all’Annunciata,
in questo caso titolari del polittico e della cappella e perciò collocati nel
compartiment, cioè la tavola principale.
La presenza dei due S. Giuliano sembrerebbe un omaggio al capostipite
della famiglia Dedoni, del quale erano i santi eponimi.53
L’attribuzione proposta dall’Aru era stata accolta in Sardegna, come abbiamo visto, dal Delogu, ma anche alcuni tra i più noti studiosi stranieri di pittura
catalana avevano condiviso il suo riferimento a un seguace del Borrassà.54
Sempre nel 1938 il Post riuniva sotto la personalità di un anonimo Maestro
di Peñafel – così denominato dalla sede originaria di due ancone rispettivamente dedicate a S. Michele e a Santa Lucia – i sette frammenti cagliaritani, tolta
l’Annunciazione di cui sembrava non essere a conoscenza.55
Nell’importante Chiosa al ‘Maestro di Peñafel’, del 1946, Raffaello
Delogu descrive in maniera incomparabile quella che è la qualità formale
del Maestro di Peñafel, identificato qualche anno dopo da Joan Ainaud de
Lasarte in Joan Mates:56
Per il «Maestro di Peñafel» la forma è colore e nel colore si risolve tutta la
fenomenica del dipinto. In quale accezione debba poi, per lui, porsi l’astratto termine
di «colore», potrà intendersi ricostruendone la stesura; quella tecnica, cioè, nella
quale si concreta, e che è, la forma stessa; campite con tinte piatte fondamentali le
diverse zone cromatiche, mettiamo, della figura, il pittore ne rialza con una serie di
linee – pennellate approssimativamente parallele od incrociate – come in un affresco
– le parti in maggiore aggetto fino a sciogliere in una pasta chiarissima – che ricorda
molto approssimativamente il leonardesco «lustro» – le quote più rilevate. Altrettanto, in senso contrario, avviene per le zone rientranti o in ombra. Così la forma […] si
fa tumida, morbida e lievitante; i piani si sfaldano; i contorni si smagliano o addirittura spariscono. E ciò, s’intenda, non più per virtù di luce, e cioè tonalmente, ma per
53
54
55
56
Il nome del fondatore della casata, Giuliano, mi è stato segnalato dalla professoressa Maria
Grazia Scano Naitza, che ha in corso di stampa un saggio sulla famiglia Dedoni e sul suo ruolo
anche culturale nella Cagliari del xv secolo.
Vedi G. GODDARD KING, Sardinian painting, Filadelfia 1923, p. 66 (la quale tuttavia seguiva i
risultati dello studio che Carlo Aru aveva presentato nell’«Anuari de l’Institut d’Estudis Catalans»
del 1913, non riconoscendo l’appartenenza dei frammenti ad un medesimo polittico); G. RICHERT,
Mittelalterliche malerei in Spaniel, Berlino 1925, p. 55; A.L. MAYER, Historia de la pintura
española, Madrid 1928, p. 312.
A questo proposto scrive R. DELOGU, Chiosa cit., p. 7, nota 15: «Del rinvenimento e del restauro
di questa “Annunciazione”, oltre che del suo collegamento con gli altri scomparti dell’ancona,
diedi diretta comunicazione al Prof. Post nel 1938. Ignoro se Egli abbia poi pubblicato la riproduzione nell’occasione inviatagli e riferito sulle notizie trasmessegli».
J. AINAUD DE LASARTE, Tablas ineditas de Joan Mates, in «Anales y Boletín de los Museos de
Arte de Barcelona», IV, 1948, p. 341 ss.
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un più semplice modo di essere, in sé, del colore. Così avviene nelle ancone di S.
Lucia e di S. Michele, nell’altra dei due S. Giovanni, nella predella della collezione
Latecoére e così anche nella cagliaritana ancona dell’Annunziata. Nelle quali opere, in pieno accordo e concomitanza con la cennata sensibilità coloristica, è minore, o strettamente legato alle esigenze iconografiche, il gusto del «racconto» e le
diverse scene sono sentite come occasioni per il prezioso accordo dei colori nella
bellezza dei pigmenti.57
Joan Mates era nato a Vilafranca del Penedès da un sellaio. In un atto del
12 luglio 1391 figura come pittore residente a Barcellona. In questa notizia e
in un’altra del 17 novembre del successivo 1392 appare in rapporto con il
pittore Pere Serra, uno dei quattro figli d’un sarto barcellonese, Berenguer,
che dominarono durante la seconda metà del Trecento il panorama artistico
della capitale catalana. Essi condivisero la medesima bottega e furono tra i
più prolifici produttori del tempo di retabli, commissionati loro da tutti i territori della Corona catalano-aragonese.58
Il maggiore dei fratelli Serra, Francesc, può considerarsi con Ramon
Destorrents, dopo la morte di Ferrer e Arnau Bassa per peste nera nel 1348,
l’iniziatore della scuola pittorica barcellonese. Sebbene i documenti ci consentano di seguirne l’attività dal 1350 fino alla morte, nel 1362, tramandandoci preziose informazioni su stipulazioni di contratti e ricevute di pagamento,
non si è potuta identificare nessun’opera di sua mano. È quasi certo tuttavia
che egli sia il cosiddetto Maestro di Sixena, la cui pittura risulta formalmente
vicina a quella di Jaume e Pere Serra.59
La prima notizia di Jaume è del 1358, quando firma il contratto per il
retablo di S. Michele per la cattedrale di Girona, avvallato dal fratello maggiore Francesc. Jaume, che a quella data doveva essere un pittore già affermato, collaborava certamente con il fratello, come sembra confermare l’impegno, sottoscritto il 30 giugno 1360, a dipingere e dorare il tabernacolo dell’altare maggiore della chiesa del monastero di S. Pere de les Puelles, il cui retablo
era commissionato a Francesc, e il fatto che due anni dopo, nel 1362, egli si
incaricava di completare, insieme con l’altro fratello, Pere, il più giovane dei
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58
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R. DELOGU, Chiosa cit., p. 10. Le ancone citate sono quelle attribuite dal Post al gruppo del
Maestro di Peñafel e restituite nel 1948 a Joan Mates da Ainaud De Lasarte.
Vedi J. GUDIOL – S. ALCOLEA I BLANCH, Pintura gòtica catalana cit., pp. 52 ss; per Joan Mates si
rimanda all’importante monografia di R. ALCOY – M.M. MIRET, Joan Mates, pintor del Gòtic
Internacional, Barcellona 1998.
J. GUDIOL – S. ALCOLEA I BLANCH, Pintura gòtica catalana cit., pp. 52-53.
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tre, la pittura del retablo che Francesc, morendo prematuramente, aveva lasciato incompiuta. Jaume sostituiva il fratello anche nella direzione della bottega, nella quale ben presto brillava il genio di Pere.
Formatosi presso il fratello maggiore, la personalità artistica di Jaume è
attestata dal retablo commissionatogli nel 1361 da fra Martino de Alpartir per la
sua sepoltura nel convento del Santo Sepolcro di Saragozza (oggi al Museo di
Belle Arti). L’opera, realizzata prima della sua collaborazione con Pere, che in
questo momento si stava ancora formando nella bottega di Ramon Destorrents,
l’altro protagonista della scuola pittorica barcellonese della seconda parte del
XIV secolo, dimostra la dipendenza di Jaume da Destorrents e dall’autore del
retablo di Sixena, che è stato riconosciuto in Francesc Serra. Si notano, rispetto
a quelli, una minore complessità compositiva e un cromatismo poco variato,
anche se più delicato. Il 19 aprile 1389 faceva testamento e di lui non si hanno
più notizie fino al 1395, quando risulta già defunto.60
Di Pere, il minore dei tre, possediamo un’abbondante documentazione, che
dall’inizio del suo apprendistato nella bottega di Ramon Destorrents, previsto
della durata di quattro anni nel contratto stipulato il 14 aprile 1357, giunge fino
alla sua morte, avvenuta fra il 1405 e il 1408. Come scrive Josep Gudiol i Ricart:
«Il fatto che la sua formazione avvenisse nella bottega di Ramon Destorrents e
non in quella dei suoi fratelli dimostra la stretta relazione esistente fra i pittori
barcellonesi di quell’epoca».61 Nel 1362, anno della conclusione del suo tirocinio, morivano il maestro Destorrents e il fratello Francesc, e Pere entrava a far
parte dell’impresa familiare, impegnandosi con Jaume a condurre a termine il
retablo per la chiesa di S. Pere de les Puelles, che Francesc non aveva fatto in
tempo a finire.
La collaborazione con Jaume durò oltre venticinque anni e, alla morte di
questi, Pere assumeva il comando della bottega, mantenendo un’elevata produttività grazie all’aiuto di collaboratori – quali Joan Mates, che, alla sua morte, il
20 aprile 1409 si sarebbe incaricato di completare il retablo di S. Tommaso e S.
Antonio commissionato al maestro per una cappella del chiostro della Cattedrale di Barcellona e rimasto incompiuto; Mateu Ortoneda e Pere Vall – e discepoli, come il fratello Joan, il perpignanese Jalbert Gaucelm e Tomàs Vàquer.62
60
61
62
Ivi, pp. 53-55.
Ivi, p. 55: «El fet que la seva formació es produís al taller de Ramon Destorrents i no en el dels
seus germans demostra l’estreta relació que hi devia haver entre els pintors barcelonins d’aquella
època».
Ibid.
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La bottega di Pere, malgrado la presenza nella capitale di Lluís Borrassà e
Joan Mates, che avevano fatto proprie le novità formali del Quattrocento europeo, risultava fino alla prima decade del XV secolo ancora la più efficiente. Uno
degli ultimi contratti firmati da Pere Serra fu quello stipulato il 4 marzo 1404
con l’algherese Arnau ça Bruguera.
Lo stile di Pere Serra rivela la sua formazione nelle botteghe del Destorrents
e del fratello Jaume, ma vi si distacca per la sensibilità narrativa, che si manterrà
in tutta la sua produzione, e la ricchezza compositiva. «Le sottili armonie
cromatiche, l’eleganza delle figure e l’abilità nel disporle in suggestivi paesaggi, tanto rurali come urbani, sono alcune altre caratteristiche che differenziano
con chiarezza l’arte di Pere Serra».63 Negli ultimi anni della sua attività, forse
sotto l’influsso di Joan Mates, egli si avvicina timidamente al gusto internazionale, imprimendo maggiore movimento alle figure, attraverso la gestualità e il
fluttuare delle vesti, e più accentuati contrasti cromatici.64
Joan Mates è documentato a Barcellona come pittore dal 1391, ma in realtà
fino al 1406 non si hanno notizie della sua attività come artista indipendente, se si
esclude l’impegno stilato il 31 luglio 1400 con la confraternita di S. Eligio e S.
Matteo di concludere il retablo per la cappella della chiesa del Carmelo di Manresa,
che era stato commissionato al pittore fiammingo Jaume Lors, residente allora a
Barcellona, il quale però, appena ingessate le tavole, era tornato in patria.65 Più
numerosi sono invece i riferimenti, in quegli anni, ai suoi rapporti con i pittori
barcellonesi Mateu Ortoneda, Guillem Ferrer, Guerau Gener e, soprattutto, Pere
Serra, di cui fu valido collaboratore – come si è detto, dopo la morte di Pere fu lui
a portare a termine il lavoro lasciato incompiuto dal maestro.66
Dal 1406 la documentazione relativa all’attività pittorica di Mates diviene
più frequente e regolare. Dopo la commissione di un retablo per la cappella di
S. Anna e S. Michele della Cattedrale di Barcellona, gli atti d’archivio registrano numerosi altri incarichi assolti dal pittore nella Capitale del regno e nei territori della Corona.
Per poter onorare le rilevanti richieste, che hanno spinto a considerarlo l’erede
di Pere Serra nell’ambito pittorico catalano,67 Mates dovette servirsi di uno stuolo
63
64
65
66
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Ivi, p. 57: «Les subtils harmonies cromàtiques, l’elegància de les figures i l’habilitat a disposarles en els suggestius paisatges, tant rurals com urbans, són unes altres característiques que
diferencien amb claredat l’art de Pere Serra».
N. DE DALMASES – A. JOSÉ I PITARCH, L’art gòtic cit., p. 168.
J. GUDIOL – S. ALCOLEA I BLANCH, Pintura gòtica catalana cit., p. 88.
Ibid.
Ibid.
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di aiuti e collaboratori, il principale dei quali fu il figliastro Francesc Oliva.
Questi, che figurava come pittore dal 1408, moriva però prima del 1431. Quasi
certamente faceva parte della bottega del Mates anche il figlio Bernat, documentato fra il 1425 e il 1462, della cui attività pittorica non si ha altra notizia
che quella relativa ad un retablo eseguito per il castello di Vacarisses nel 1436.68
Nel 1426 iniziava l’apprendistato nella bottega del Mates il quattordicenne
Francesc Mates, figlio di un sarto barcellonese forse legato al pittore da vincoli
di parentela. Collaboratore stabile sembra sia stato l’imatger Colino, che il Mates
ricorda nel suo testamento, redatto il 29 agosto 1431. Doveva essere l’ebanista
che eseguiva la preparazione e l’intaglio dei retabli del pittore.69
Come attestano le opere documentate – il retablo dei santi Ambrogio e
Martino nella Cattedrale di Barcellona, quello di S. Sebastiano per la cappella
del refettorio della Pia Almoina di Barcellona e il retablo maggiore della chiesa
parrocchiale di Vilarodona – e le altre che gli si possono attribuire attraverso
l’analisi formale – come, per esempio, il retablo dei santi Lucia e Michele del
Santuario di Peñafel e quelli di S. Giacomo di Vallespinosa, dei santi Giovanni
Battista e Evangelista, dell’Annunciazione del S. Francesco di Cagliari –, Joan
Mates è un artista di grande talento:
Dotato di una personalità propria e creatore di una tipologia di facile identificazione, non conserva, almeno nelle opere che sono arrivate sino a noi, la più piccola traccia
dello stile di chi probabilmente fu il suo maestro, Pere Serra. Tanto meno accusa l’influenza di Lluis Borrassà, il pittore barcellonese di più rilievo durante gli anni in cui
Joan Mates svolse la sua attività. Mates rappresenta tuttavia una modalità distinta nella
cosiddetta pittura «internazionale», più prossima alle correnti stilistiche che si svilupparono nella regione che comprende il nord della Francia e i paesi Bassi e che ebbero
una grande risonanza nelle terre valenzane. Si tratta di un’arte che concede un’attenzione particolare al gesto dei personaggi, sempre eleganti e distinti, e che evita i violenti scorci borrassaniani. Il disegno, corretto e d’una grande sensibilità, si manifesta in
maniera speciale nei soavi ritmi suggeriti dalle pieghe delle vesti.70
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69
70
Ibid.
Ibid.
Ivi, p. 90: «Dotat d’una personalitat pròpia i creador d’una tipologia de fàcil identificació, no
conserva, si més no en les obres que ens n’han arribat, la més petita traça de l’estil del qui
possiblement fou el seu mestre, Pere Serra. Tampoc no acusa la influència de Lluís Borrassà, el
pintor barceloní de més pes específic durant els anys que Joan Mates desplegà la seva activitat.
Mates representa tanmateix una modalitat distinta dins la denominada pintura “internacional”,
més d’acord amb els corrents estilístics que es desenrotllaren a la regió que comprèn el nord de
França e els Països Baixos i que tingueren un gran ressò per terres valencianes. Es tracta d’un
art que concedeix una atenció particular al gest dels personatges, sempre elegants i distingits, i
que evita els violents escorços borrassanians. El dibuix, correcte i d’una gran sensibilitat, es
manifesta d’una manera especial en els suaus ritmes suggerits pels plecs de la indumentària».
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Protagonista della sua pittura è quasi esclusivamente la figura umana, il cui
elegante atteggiarsi conferisce un’aura profana anche agli episodi religiosi, secondo modalità proprie dell’arte cortese nordeuropea. S. Giuliano del polittico
di Cagliari; S. Sebastiano del retablo della Pia Almoina; S. Giovanni Battista e
S. Giovanni Evangelista del retablo dei Santi Giovanni; S. Martino del retablo
di S. Martino e S. Ambrogio nella cattedrale di Barcellona; S. Michele Arcangelo del retablo di S. Maria di Peñafel; S. Lucia del retablo omonimo già nel
medesimo monastero di Peñafel; S. Margherita del retablo di Valldonzella paiono più paggi e dame di una corte terrena che abitatori del paradiso cristiano.71
Per Rosa Alcoy e Maria Montserrat Miret il retablo dell’Annunciazione di
Cagliari sarebbe tra le prime opere eseguite dal Mates, anteriore perfino al retablo
di S. Jaume di Vallespinosa, databile intorno al 1406-1410. Le forme «arrotondate e piene» di S. Antonio, S. Giovanni Battista, S. Margherita o S. Caterina
infatti non hanno ancora perduto l’impronta medievale, e anche il Cristo in pietà, malgrado il comprensibile espressionismo, non può ancora dirsi inserito del
tutto nel clima internazionale. La tavola del Calvario mostra rispetto ad altre
sue pitture dello stesso tema una maggiore freschezza e la caccia di S. Giuliano
prende come modello immediato la tavola dipinta nella bottega di Pere Serra
per il retablo dei santi Giuliano e Lucia del convento del S. Sepolcro di Saragozza.
Malgrado la sua parziale sfortunata distruzione, il retablo di Cagliari è una delle
costruzioni figurative più singolari dipinte nella bottega di Joan Mates […] Le impertinenti lacune che profanano la pittura di Mates non devono essere d’ostacolo per
vedere in questa opera alcuni dei frammenti pittorici più teneri del primo Gotico
Internazionale catalano. Non ci deve sedurre lo stato rovinoso della superficie pittorica, ma ciò che si percepisce al di là di questo come una delle pagine in cui si forgia
la pienezza artistica del maestro di Vilafranca già prima del 1410. Le linee si modulano, i meandri si fanno più presenti, per creare un’arte sofisticata che non dimentica
la lezione dell’italianismo.72
Nella tavola con l’Annunciazione sono già presenti le peculiarità formali della
pittura di Mates: l’architettura relegata nello sfondo, ma che sopravanza lateral71
72
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N. DE DALMASES – A. JOSÉ I PITARCH, L’art gòtic cit., p. 220.
R. ALCOY – M. M. MIRET, Joan Mates cit., p. 47: «Malgrat la seva desafortunada destrucció
parcial, el retaule de Càller és una de les construccions figuratives més singulars que pintà el taller
de Joan Mates […] Les impertinents llacunes que profanen la pintura de Mates no han de ser
obstacle per veure en aquesta obra alguns dels fragments pictòrics més tendres del primer Gòtic
Internacional català. No ens han de seduir l’estat ruinós de la superfície pictòrica sinó el que es
percep més enllà d’aquest com una de les pàgines en què es forja la plenitud artística del mestre
vilafranquí ja abans del 1410. Les línies es modulen, els meandres es fan més presents, per a crear
un art sofisticat que no oblida la lliçó de l’italianisme».
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mente; i personaggi ravvicinati; il dialogo sottolineato dal gioco eloquente delle
mani, cui si unisce qui, sonora come uno squillo di tromba, la mano benedicente
dall’alto di Dio Padre; l’eleganza del ritmo compositivo, con gli ampi mantelli
che si svolgono sinuosi e, consentanei con l’intimità dell’episodio, quasi si saldano tra loro in una sorta di fusione mistica; il raffinato accordo cromatico e non
ultimo il punteggiato che orla le aureole e le vesti, rialzandone il colore.
Joan Mates il 21 settembre 1415 era testimone di un contratto stipulato da
Berenguer Carròs, conte di Quirra, con Ramon des Feu, decoratore di Barcellona,
per la pittura di uno scudo,73 mentre lo stesso conte affidava a Pere Alexandre
quella delle bandiere e dei pennoni di una galea.74
Ad artista di area catalana risale poi il Crocifisso detto di Nicodemo custodito nel S. Francesco di Oristano. Databile ai primordi del secolo, la scultura ripropone, attraverso il Devot Christ (1307) della Cattedrale di Perpignano,
il tipo renano del crocifisso gotico doloroso, in cui pietà e orrore si fondono
nella violenza della rappresentazione. Il torace espanso, il ventre incavato, il
capo abbandonato sul petto, l’audace flessione delle gambe e il conseguente
esasperato sporgere delle ginocchia, i piedi lacerati dal lungo chiodo saranno
poi ripresi, dal XVI al XVII secolo, in tutta una serie di Crocifissi scultorii e
pittorici isolani.75
Un altro tema legato alla Passione di Cristo, diffuso in Sardegna in età
catalana, è il Compianto scultorio. Tra i gruppi più notevoli e meglio conservati
sono quello in terracotta di San Giacomo a Cagliari; l’altro della Cattedrale
della stessa città, in cui alle statue lignee è accostata una Vergine in terracotta
appartenente ad altro gruppo poco più tardo; e, infine, il Compianto di Santa
Maria di Betlem a Sassari. Esemplati su modelli catalani, sono tutti ascrivibili
alla seconda metà del Quattrocento.
Nel primo quarto del XV secolo, un pittore tarragonese, assai prossimo al
Maestro di La Secuita, dipingeva il retablo per la chiesa di San Martino di
Oristano, in cui, come mostrano i due frammenti custoditi nell’Antiquarium
cittadino, le esperienze italiane appaiono ormai calate nel gusto internazionale.
Probabilmente ad Álvaro Pirez, un artista iberico che aveva allora bottega a
Pisa, si affidava, infine, intorno al 1420, l’esecuzione del polittico per la cappel73
74
75
J. MADURELL I MARIMON, El pintor Lluís Borrassà cit., VII, 1949, reg. 212; J. AINAUD DE LASARTE,
Les relacions econòmiques cit., p. 641.
J. MADURELL I MARIMON, El pintor Lluís Borrassà cit., VII, 1949, reg. 10; J. AINAUD DE LASARTE,
Les relacions econòmiques cit., p. 641.
A. SARI, Il Cristo di Nicodemo nel S. Francesco di Oristano e la diffusione del Crocifisso
gotico doloroso in Sardegna, in «Biblioteca Francescana Sarda», I, n. 2, 1987.
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la della Madonna dei Martiri, nel chiostro di San Domenico a Cagliari, di cui
resta la tavola con la Vergine e il Bambino (ora nella Pinacoteca Nazionale di
Cagliari), di evidente influsso senese.76
Per quanto le opere citate, mancando i riscontri d’archivio, possano essere
solo attribuite, le fonti documentarie, nondimeno, confermano, anche per il XV
secolo, le numerose commissioni ad artisti catalani e la presenza di alcuni di
essi in Sardegna. Presenza che, seppure momentanea, deve aver contribuito a
indirizzare in senso sempre più ispanico l’arte nell’Isola. Ricordiamo Pere Closa,
pittore barcellonese, che il 26 giugno 1433 affidava la sua bottega di Barcellona
al collega Pere Deuna per il periodo della sua permanenza in Sardegna.77
Qualche anno prima, nel 1429, Pere Alexandre, il pintor cortiner di cui si è
detto precedentemente, aveva affrancato il suo schiavo sardo, Antoni Despasa,
che negli anni 1437-49 avrebbe esercitato liberamente il mestiere di pittore a
Barcellona.78
Bernat Martorell, attivo nella capitale catalana dal 1427 alla morte, il 17
ottobre 1452 riceveva da Miquel Salou la somma di 40 lire come acconto per
l’esecuzione di un retablo destinato in Sardegna.79 Ma egli moriva il 23 dicembre senza avere, presumibilmente, condotto a termine l’incarico. L’8 marzo 1455
il pittore valenzano Miquel Nadal, che aveva rilevato la sua bottega, riscuoteva
un acconto di 10 lire delle 30 richieste per un retablo da inviare in Sardegna.80
Non sappiamo se si trattasse della stessa commissione o di un nuovo ordine.
Certo è che, se mai fu eseguita, non esiste più nell’Isola un’opera che si possa
accostare allo stile del Martorell o di Miquel Nadal.
Il 22 febbraio 1455, a Cagliari, i pittori Rafael Tomàs, di Barcellona, e Joan
Figuera, originario di Cervera, si impegnavano con il guardiano dei Minori
Conventuali, Miquel Gros, e con il mercante Francesc Oliver, a realizzare per la
chiesa di Stampace, entro un anno dal contratto, un retablo con le storie di San
Bernardino da Siena.81
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79
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R. SERRA, Pittura e scultura cit., pp. 96 e scheda n. 39 a cura di R. Coroneo.
J. AINAUD DE LASARTE, La pittura sardo-catalana cit., p. 118.
J. MADURELL I MARIMON, El pintor Lluís Borrassà cit., VII, 1949, regg. 10, 174; J. AINAUD DE
LASARTE, Les relacions econòmiques cit., pp. 640-641.
J. GUDIOL – S. ALCOLEA I BLANCH, Pintura gòtica catalana cit., p.124.
J. GUDIOL – S. ALCOLEA I BLANCH, Pintura gòtica catalana cit., p. 130.
C. ARU, Raffaele Thomas e Giovanni Figura, pittori catalani, in «L’Arte», XXIII, 1920, p. 136
ss; C. ARU, La pittura sarda nel Rinascimento, II. I documenti d’archivio, in «Archivio Storico
Sardo», XVI, 1926, pp. 194-195; C. MALTESE, Arte in Sardegna dal V al XVIII, Roma 1962, pp.
203-204; R. SERRA, Retabli pittorici in Sardegna cit., pp. 39-42, scheda 3; R. SERRA, Pittura e
scultura cit., pp. 97-101 e scheda n. 41 di R. Coroneo.
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Al polittico, conservatosi pressoché intatto – ancora nella seconda metà dell’Ottocento Giovanni Spano lo descrive completo di polvarolo,82 del quale ora
restano solo nove pannelli con figure di profeti, esposti con il retablo nella Pinacoteca Nazionale di Cagliari –, intervenne, però, anche un terzo pittore, cui si
devono il guardapols e le due tavole centrali più alte con la Crocifissione e il
Compianto, ad esclusione della figura di Cristo.83 Al Tomàs, stilisticamente legato
a Lluís Dalmau e al fiamminghismo iberico, spettano il comparto principale con il
Santo sorretto dagli angeli e le sei scene laterali, mentre al Figuera la predella.
Joan Figuera – che, a differenza del Tomàs, partito nel 1456 per Napoli,
rimase a Cagliari sino alla morte avvenuta fra il 1477 e il 147984 – fu l’esecutore, intorno al 1459, anche della pala con i santi Pietro Martire e Marco Evangelista per la cappella dei Calzettai in San Domenico a Cagliari, in cui appare
ancora evidente la sua dipendenza dai modi di Rafael Tomàs.
Nel retablo per il S. Lucifero, sempre a Cagliari, che può considerarsi la sua
opera più matura e del quale purtroppo rimane la sola predella con sette scomparti nella Pinacoteca Nazionale di Cagliari, egli mostra, invece, uno stile più
originalmente personale, in cui prevalgono i contrasti cromatici e le luci riflesse
di ascendenza huguettiana.
A Sassari aveva bottega, alla fine del secolo, un altro pittore catalano, Joan
Barceló,85 nativo di Tortosa, ma nel 1485 residente a Barcellona. Di lui, che,
sposatosi a Sassari nel 1510, risulta attivo in Sardegna fino al 1516, non resta
che l’ancona firmata per la cappella della Visitazione nel San Francesco di
Stampace, ora nella Pinacoteca Nazionale di Cagliari. Precedentemente, nel
1488, aveva eseguito un retablo, oggi perduto, per l’altare maggiore della rinnovata chiesa dei Conventuali di Alghero,86 e nel 1508 aveva firmato un contratto per il polittico presbiteriale della Santa Maria del Pi di Barcellona,87 che
quasi certamente non fu mai realizzato.
L’opera cagliaritana, che nel 1861 era già priva di predella e polvaroli,88 ci
consente di inserire entro un ambito culturale ancora manifestamente valenzanofiammingo la produzione del Barceló. È, infatti, strettamente collegabile al
82
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88
G. SPANO, Guida della città cit., pp. 173-174.
C. MALTESE, Arte in Sardegna cit., p. 203.
G. OLLA REPETTO, Contributi alla storia della pittura sarda nel Rinascimento, in «Commentari»,
XV, 1964, p. 123.
C. ARU, La pittura sarda cit., pp. 164-165.
C. ARU, Un documento definitivo per l’identificazione di G. Barcelo, in «Annali della Facoltà di
Filosofia e Lettere della R. Università di Cagliari», III, 1931, p. 169 ss.
CH. R. POST, A History of Spanish Painting cit., p. 467, n. 13.
G. SPANO, Guida della città cit., p. 171 ss.
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fiamminghismo di Joan Rexach, di cui fu probabilmente allievo. All’insegnamento del maestro valenzano appartengono la Crocifissione – che tuttavia ha
come prototipo quella del retablo della Santa Croce, dipinto da Miquel Alcanyís
tra il 1403 e il 1409 per la cappella di Nicolàs Pujades in San Domenico a
Valencia – e, anche iconograficamente, la Pentecoste e la Sant’Apollonia. Quest’ultima, poi, mutua dalla Sant’Orsola del retablo di Cubells, compiuto dal
Rexach nel 1458, oltre alla fisionomia e all’attitudine un po’ rigida pure il
frangersi delle vesti.
Della sua bottega faceva parte quasi certamente Nicolau de Liper, pittore di
Sassari, il cui figlio quattordicenne, Francesco, nel 1518, alla morte del padre,
entrava come apprendista a Barcellona dal pittore napoletano Nicolau de
Credensa.89
Accanto a retabli interamente pittorici continuavano a prodursi quelli che
accoglievano in luogo della tavola centrale la statua del titolare. Ad una struttura siffatta dovevano appartenere la bella effigie lignea della Vergine col Bambino del Santuario di Valverde, presso Alghero, opera di un maestro catalano di
educazione nordica databile alla seconda metà del XV secolo,90 e la Madonna
del Fico in San Pietro di Silki a Sassari. Eseguita pure in Catalogna, ma ai
primissimi del Quattrocento, è la Madonna seduta col Bambino sulle ginocchia
in Santa Maria di Betlem a Sassari. Degli ultimi del secolo è, invece, la grande
statua della Vergine di Bonaria, nell’omonimo Santuario cagliaritano, intagliata
probabilmente a Napoli, o in Sicilia, come farebbe pensare la qualità del legno
utilizzato, il carrubo, da un maestro di cultura ispanica.91
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J. AINAUD DE LASARTE, Les relacions econòmiques cit., p. 643.
A. SARI, L’arte, in F. MANUNTA – A. SARI, Il Santuario di Valverde tra arte, storia e leggenda,
Alghero 1994, pp. 43-44; vedi pure M. G. SCANO NAITZA, Percorsi della scultura lignea in
estofado de oro dal tardo Quattrocento alla fine del Seicento in Sardegna, in Estofado de oro.
La statuaria lignea nella Sardegna spagnola, Catalogo della mostra, Cagliari 2001, pp. 25-26;
e, nello stesso Catalogo, la scheda 54 a cura di M. Porcu Gaias.
C. MALTESE, Arte in Sardegna cit., p. 207, scheda n. 72 a cura di R. Serra; R. SERRA, Per il
‘Maestro della Madonna di Bonaria’, in «Studi Sardi», XXI, 1968-1970, pp. 52-72; EAD.,
Pittura e scultura cit., pp. 68-77, e scheda n. 29 a cura di R. Coroneo.
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1. Joan Mates, Retablo dell’Annunciazione (prima del 1410), Cagliari,
Pinacoteca Nazionale.
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2. Joan Mates, Retablo dell’Annunciazione (prima del 1410), Santa Margherita,
part. della predella, Cagliari, Pinacoteca Nazionale
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