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folli e "calmezza" nella prosa scotellariana, di Gianni

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folli e "calmezza" nella prosa scotellariana, di Gianni
SPECIALE ROCCO SCOTELLARO
“POPULARI”, FOLLI E “CALMEZZA” NELLA PROSA SCOTELLARIANA
Perché così come coloro che disegnano e’ paesi si pongono bassi nel piano a considerare la natura dei
monti e de’ luoghi alti, e per considerare quella de’ bassi si pongono alti sopra de’ monti,
similmente, a conoscere bene la natura de’ populi bisogna essere principe, e conoscere bene quella
de’ principi bisogna essere populare1.
È interessante e al contempo illuminante individuare, tra gli appunti presi
da Scotellaro ai fini della redazione del frammentario romanzo autobiografico,
un’annotazione desunta dall’incipit del Principe. Scotellaro non si limitava ad
antologizzare, ma esprimeva un netto giudizio sul Machiavelli, il quale, “più
psicologo che storico del suo tempo”, non aveva abdicato alla convinzione che
sia “determinante la condotta dei potenti a generare o governare la storia” e,
sostanzialmente, si era sottratto – circostanza che si sarebbe ripetuta anche dopo le
sue teorizzazioni – allo studio e all’analisi dello “stato dei governati”. Se, in
conclusione, il principe, per non ‘periclitare’ e ‘ruinare’, doveva mostrarsi
all’altezza di sostenere il mutamento (icasticamente effigiato nell’icona “de’ venti
della fortuna”), sembrava che al popolo non restasse altra strada all’infuori
dell’attestarsi sempre, “col variare dei tempi, dalla parte del più forte”.
L’intero cammino di Rocco Scotellaro ci sembra, in fondo, ripercorrere proprio
quel pensiero machiavelliano annotato aforisticamente tra gli appunti per
l’autobiografia. Il sindaco “pelo rosso” era, in fondo, stato un po’ “principe”
(nell’originario senso di primus inter pares) e, in tale condizione, aveva sperimentato
quella “schiavitù” verso il più debole, che in fondo gli era parsa così vicina alla vera
libertà. Ma, “a conoscere bene” la natura dei principi, “bisogna essere populare”; in tal
direzione, indicative appaiono le parole pronunciate da Laurenzana Antonio di
Domenico in Contadini del Sud:
Le elezioni di gennaio 1953 furono vinte dai democristiani perché il nostro Sindaco pelo rosso
si era allontanato e ci aveva lasciato per andare a guadagnare scrivendo poesie e racconti. Nella
prima riunione del nuovo consiglio fu deliberata la tassa su tutti i generi di consumo. Noi della
vecchia amministrazione l’avevamo respinta per ben quattro volte. Il popolo ora non può più parlare
come prima col Sindaco, che è un avvocato aristocratico. Prima era consentito fermare il Sindaco
anche in piazza dove firmava documenti e dava consigli2.
1
R. Scotellaro, Frammenti e appunti dai quaderni dell’Uva puttanella, in Id., Uno si distrae al bivio,
con una prefazione di C. Levi, Matera, Basilicata editrice, 1974, fr. 8, p. 108.
2
Id., Contadini del Sud, in Id., L’uva puttanella. Contadini del Sud, introduzione di N. Tranfaglia,
1
SPECIALE ROCCO SCOTELLARO
Proprio l’esperienza politica, culminata nell’arresto del febbraio 1950 per
accuse pretestuose e infondate3, aveva più che altro favorito in Scotellaro l’acquisizione
della consapevolezza di essere “uva puttanella”4, tanto tristemente e ineluttabilmente simile
a quell’“acino piccolo” che “forzava le porte per vedere il sole tra gli acini grossi”, e, così,
“non si moltiplicava, non si faceva grande”5, nell’attesa del giorno in cui, con gli altri,
sarebbe stato “gettato nel tinello per il mosto”6. E in quel tinello, il Sindaco di
Tricarico, punito – come Antonio Di Grazia, condannato alla solitudine – per aver
violato l’ideale dell’ostrica, è finito troppo presto, mentre, ben lontano dal dedicarsi
meramente a un letterario, improbabile, guadagno, o all’“attività culturale ‘pura’”7 cui
alludeva Alicata, affilava le armi dell’inchiesta, in un distacco esclusivamente fisico (e
solo apparente) dalla sua terra.
L’incipit dell’Uva puttanella è stato finemente analizzato da numerosi studiosi
e il suo valore simbolico decrittato dal Bronzini nel suo bellissimo L’universo contadino
e l’immaginario poetico di Rocco Scotellaro. Al momento delle dimissioni da sindaco, il
“poeta dei contadini” dichiara di voler avviarsi “in prima, verso il Cimitero” (che in una
delle liriche di Margherite e rosolacci definì “solo / giardino del paese”), in un ideale
procedere dalle “case alle tombe”8, forse perché i battiti del suo cuore – traditore dì lì
a poco – non abbiano a cessare e perché si possa riacquistare uno “spazio di libertà”9.
Non dimentichiamo il ruolo, oserei dire catartico, del cimitero nel Cristo leviano. Poi
l’immagine del bivio, cara a Scotellaro come al Levi, non a caso prefatore della raccolta
di racconti del Tricaricese, e il moto si converte verso la vigna di famiglia, che però, a
ben vedere, più che il luogo del labor omnia vincit appare cimitero essa stessa; nel II
capitolo della parte I dell’Uva, leggiamo, infatti, a proposito della vigna: “mamma non
vuol venire mai sola perché ti incontra vestito da serpente o ti ode borbottare sotto le
fabbriche”10. L’immagine dell’anima del padre metamorfico, con cui – sia “lare”11 o
Roma-Bari, Laterza, 2012, p. 223.
N. Tranfaglia, Introduzione. L’età di Rocco Scotellaro, ivi, pp. XIV-XVI. Il vero significato di
quell’esperienza era chiarito da M. Rossi Doria, Prefazione a Contadini del Sud, Bari, Laterza,
1954, poi in AA.VV., Omaggio a Scotellaro, a cura di L. Mancino, sotto l’auspicio del Sindacato
Nazionale Scrittori, Manduria, Lacaita, 1964, pp. 267-268.
4
L’uva puttanella è metafora polisemica: metafora del Sud rispetto al resto dell’Italia; del contadino
in rapporto alla vita e alla società; di Rocco rispetto ai suoi progetti umanitari grandiosi; della natura
del romanzo, ‘frammentario’, come ha sottolineato Vitelli e, infine, dell’esistenza umana in senso
lato. Un utile giudizio sull’opera è quello espresso da N. Carducci, Scotellaro tra mito e realtà, in
AA.VV., Omaggio a Scotellaro cit., p. 505.
5
Scotellaro, Frammenti cit., fr. 11, p. 109.
6
Ivi, fr. 14, p. 110.
7
Cfr. Tranfaglia, Introduzione cit. XXIX.
8
Il riferimento è al testo Le tombe e le case, definito da G. Barberi Squarotti una “nenia molle e
suasiva” nel saggio pubblicato in AA.VV., Omaggio a Scotellaro cit., p. 268.
9
G.B. Bronzini, Il viaggio antropologico di Carlo Levi. Da eroe stendhaliano a guerriero birmano,
Bari, Dedalo, 1996, p. 70.
10
Scotellaro, L’uva puttanella cit., p. 6.
11
P. Giannantonio, L’uva amara dei contadini meridionali, in AA.VV., Scotellaro trent’anni dopo,
atti del convegno di studio (Tricarico-Matera, 27-29 maggio 1984). Il rapporto con la figura paterna
2
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SPECIALE ROCCO SCOTELLARO
entità giudicante (vedi il caso di Ramorra) – il figlio prende a colloquiare, per esempio,
anche nei frammenti 28 e 2912, esalta l’idea della vigna come terra di confine, luogo del
libero colloquio con i morti e del ritorno a sé stessi, “artisti col capo volante, esseri
non esseri, ma uccelli, sia che abbiano o non abbiano pane e comodi”13. E come se, nel
gesto ideale delle dimissioni e del ritorno alla vigna, Scotellaro, dopo esser stato “uccello
frenetico” nell'inquieto nido del carcere di Matera, enunciasse la decisione di tornare
“populare”, per meglio poter analizzare lo “stato dei governati” e sopperire alle carenze
insite in tanti teorici della politica, poco inclini alla sperimentazione di nuove lenti.
La coralità del progetto dell’Uva e dei Contadini del Sud emerge nitida e si
riannoda alla produzione poetica e ai racconti del bivio. Si affollano volti di vinti,
ostriche che pagano la mancata cognizione del “segreto delle barche, delle petroliere,
delle portaerei e dei cacciatori subacquei”. Il loro emblema è senz’altro la celebre
figura di Pasquale il fuochista14, ma altri visi potremmo rievocare, dalla moglie di
Brancaccio, con la sua paura del buio e degli spiriti, allo stesso Agresti-Giappone, che si
sente confratello di Dante nel dolore e nell’esilio e coltiva la poesia con lo spirito del
proclama o dell’indovinello sibillino, atto a mettere in crisi il ben più colto pelo rosso.
Eppure proprio la sezione carceraria offre utili spunti di riflessione sull’anelito alla
rivincita degli acini piccoli e maturi. Purtroppo, esso appare esaurirsi sub specie
Saturnalium, in un momentaneo rovesciamento degli usuali rapporti di forza, inabile
tuttavia a produrre reale mutamento e foriero solo di stupore, a volte solo immaginato (e
vagheggiato) dall’autore.
Si staglia all'orizzonte un personaggio degno del Decameron, fratellastro dei frate
Cipolla e delle adultere argute, l’industrioso capraio Vasco Bartolomeo, che offre
all’autore – col suo memoriale, poi rielaborato dallo Scotellaro stesso – il destro per la
celebre riflessione sui giudici “pendoloni carichi”, con le lancette pronte a ‘scoppiare’
“all’ora voluta dal potere esecutivo”. Vasco suggerisce allo “scrivanello” un’arringa in
sette punti che, solecismi e sintassi disinvolta a parte, non sdice, per assurdo, a confronto
con convincenti prove dell’attico “γένος δικανικο;ν”. La capziosità delle affermazioni,
l’abilità nel ridicolizzare l’avversario –
meno accorto –
allo scopo di apparire
innocente a dispetto dell’evidenza ci mostrano come anche l’“uomo dell’uva puttanella”
possa, se dotato di un’innata e non culta eloquenza, riuscire a gabbare il potere e l’ordine
è tratteggiato in modo splendido anche da Michele Dell’Aquila, nel suo saggio in AA.VV., Omaggio
a Scotellaro cit., pp. 349-352. Sul serpente, legato alla figura paterna e “guardiano dell’altro regno”,
cfr. G.B. Bronzini, L’universo contadino di Rocco Scotellaro, ivi, pp. 238-240. Sul rapporto con i
defunti nella poesia di Scotellaro, notevole anche in Sinisgalli, Gatto e Bodini, cfr. A.L. Giannone,
Scotellaro e gli ermetici meridionali, ivi, pp. 356-359.
12
Scotellaro, Frammenti cit., fr. 29, p. 120: “Certo che parlo di me, e di chi dovrei parlare? – dissi
ad alta voce al serpente appena lo scorsi. Si girò indietro e scappò via”.
13
Ivi, fr. 12, p. 110.
14
Sulla tecnica narrativa nell’episodio del pirotecnico, cfr. M. Pagliara Giacovazzo, L’uva
puttanella: un’autobiografia imperfetta, in AA.VV., Scotellaro trent’anni dopo cit., pp. 82-83.
3
SPECIALE ROCCO SCOTELLARO
costituito.
L’arte della parola assume valore rigenerante, quasi salvifico, nella camerata
dell’autore. È il caso del momento di straordinaria suggestione della lettura del Cristo
leviano. Si tratta di uno di quei luoghi in cui l’inveterato francescanesimo dello Scotellaro
prorompe senza argini. Lo scrittore come categoria è definito non quale “amico”, ma
“fratellastro”, vicino per “amore di somiglianza”15 eppure a quella distanza che il tempo
e lo spazio hanno ineluttabilmente delimitato. La “lettura”, anzi “il libro”, diviene un
rituale quasi irrinunciabile, da differirsi soltanto in situazioni estreme, e, mentre le
parole del Levi risuonano nella cella, per i suoi abitanti sembra realizzarsi il principio
del “j’est un autre”. Il carcere si fa cenobio per poi ritornare carcere; Agresti-Giappone è
mutato in quello che forse, in altro tempo e in ben altra dimensione, sarebbe potuto
diventare: “un antico romano al triclinio”16. Per il suo effetto ineffabile, il libro sarà
conteso dalle altre camerate come il bene più prezioso per chi ha da lenire l’opprimente
sentore di reclusione, arabescando anelli che soli voleranno liberi di là dalle grate: una
sigaretta. Il fratellastro-scrittore trascolora nella figura di un altro fratellastro, quello che
“si è fermato a Eboli”; è da lui, più che dal Cristo stesso, che si deve “chiedere” e
impetrare “grazia” dei peccati trascorsi e presenti, per riceverne in risposta amore e
“συµπάθεια”.
Altra figura emblematica, in cui vivissima appare l’idea del Saturnale come
momento effimero di rivalsa, è quella del ‘cavaliere’ Carritelli, “l’uomo che avrebbe
ucciso un suo bambino, dandogli da ingoiare due soldi”17, tanto vicino al ‘matto’ dei
tarocchi di Calvino, in quel suo discendere sino “al cuore caotico delle cose”. Egli si
abbandona a uno smodato uso della parola, che, di primo acchito, potrebbe essere
classificabile nella categoria di una blateratio cui non è estranea la metafora sessuale18; i
suoi stessi connotati – nell’atto di esprimersi come un fiume in piena – sembrano subire
una metamorfosi animalesca: “cacciava la lingua come un cane”19. Le sue esternazioni,
accompagnate dalla strana espressione degli occhi, “pieni di quella libidine degli scemi”,
suscitano l’ilarità irrefrenabile della camerata, cui tuttavia egli non risponde con sdegno,
ma con aria di compiaciuta felicità:
II cavaliere si muoveva le mani addosso, apriva la bocca per un risolino continuo, mentre la
camerata gli gridava ferocemente: “Uomo inservibile!” e i suoi occhi erano felici calati sugli
15
Non possiamo non citare, a tal proposito, il bel volume di F. Vitelli, L’amore della somiglianza.
Saggi su Sinisgalli, Scotellaro, Bernari, Salerno, Laveglia, 1989.
16
Scotellaro, L’uva puttanella cit., p. 74.
17
Ivi, p. 67.
18
Cfr. T. Scappaticci, Lo scrittore al bivio: studi sulla letteratura del Novecento, Cosenza,
Pellegrini, 2004, pp. 143-144. Qui, lo studioso si sofferma anche sul già citato memoriale del
capraio Vasco, individuando in esso “errori, anacoluti, iterazioni, illogicità sintattiche”, sintomo
dell’adeguamento dell’autore “al parlato e in genere al mondo di cui (…) si sente partecipe e vuole
essere portavoce”.
4
SPECIALE ROCCO SCOTELLARO
zigomi, appena scoperti della splendente barba nera.
Eppure, questa figura, espressionisticamente deformata nei connotati e
lontana delle insegne dell’umanità, acquisisce una sua dignità nell’immaginazione
dello scrittore in uno dei momenti dell’Uva che potremmo qualificare come una sorta di
“festa dei folli”20.
È l’ora della messa domenicale, il “meraviglioso prete grasso” esagera con le
‘picconate’ anticomuniste durante l’omelia, suscitando una ribellione dei carcerati,
guidati da Purchia21. Quest’ultimo pretende di rientrare, mentre il sacerdote,
intimidito, tenta di mimetizzarsi, malgrado la mole. Alle istanze di Purchia, il
Maresciallo risponde pregandolo di rientrare, sì, ma nei ranghi e a questa
‘preghiera’, inusuale nella gerarchia di rapporti propria del carcere, fanno eco la
sardonica risposta del detenuto22 e l’ilarità generale della camerata, dopo l’anticipato
ritorno in cella, ai loro occhi una vittoria sul clero verbalmente inopportuno23.
L’episodio non solo diviene occasione per una recrudescenza di conti anticlericali nella
camerata, ma eccita l’immaginazione di Scotellaro, che riflette su cosa sarebbe avvenuto
se, quella domenica dell’insurrezione contro il prete, fosse arrivato in carcere il
procuratore per saggiare la situazione. Ecco che, nel moto immaginifico (tale lo rivelano
i “se” che introducono la circostanza), Carritelli assurge a matto-legislatore, ché in fondo i
lunatici sono i depositari dei segreti del cosmo. Dinnanzi alla basita autorità, egli recita il
“codice” del cavaliere, semplice eppure illuminante nei suoi cinque articoli: “è proibito
condannare gli innocenti” – e per “innocenti” Carritelli intende sé stesso e tutti i propri
“colleghi” detenuti; “non arrestare mai donne”, per non interferire col destino di
perpetrazione della specie; “è vietato cavalcare porci”, metaforica aspirazione a una
purezza negata all’uomo; “non
fumare
mai
all’aperto”,
per
una
sorta
di
francescanesimo tabagista o di ecumenismo edonistico; “le banche sono abolite”.
L’eliminazione delle banche è interpretata quale passo decisivo alla realizzazione
dell’uguaglianza, alla cancellazione di quella disparità nata, secondo Rousseau, col veleno
della proprietà privata. Il matto arriva dunque all’elaborazione di un codice che, pur
nella sua assurdità, risponde a insoddisfatti princìpi di equità. Eppure la recita del
Codice Carritelli (curiosamente in rima con Zanardelli) viene ipotizzata da Scotellaro
nel momento della lunatica rivolta anticlericale come puramente ludica, finalizzata a
19
Scotellaro, L’uva puttanella cit., p. 69.
Si trattava di una festa medievale, che si svolgeva tra Natale e l’Epifania, che celava “dietro il riso
bonario”, una notevole carica eversiva, attraverso “la contestazione sociale e il sovvertimento della
gerarchia”; cfr. G. Minois, Storia del riso e della derisione, Bari, Dedalo, 2004, p. 206.
21
L’episodio e il personaggio di Purchia sono approfonditi da G. Caserta, Il carcere: la caduta della
maiuscole, in AA.VV., Scotellaro trent’anni dopo cit., pp. 179-182.
22
Scotellaro, L’uva puttanella cit., p. 105: “‘Ti prego’, - disse il maresciallo. ‘Puoi farti la
comunione’, rispose Purchia indicandogli il prete che era rimasto al nascondiglio”.
23
Ibid.: “Stavamo contenti della ragione avuta sul prete”.
5
20
SPECIALE ROCCO SCOTELLARO
suscitare l’applauso delle camerate e a destare il buonumore del procuratore, perché, in
fin dei conti, “era domenica”. L’inusuale legislazione, figlia del matto del villaggio,
sarebbe potuta diventare argomento di conversazione e di riso durante il pranzo
domenicale del funzionario, fabula da narrare, col sorriso a fior di labbra, alla consorte e
agli amici. Eppure anche quest’ipotetica ed effimera ribalta del pazzo resta una fantasia
del Tricaricese: Carritelli “aveva avuto uno scoppio di nervi”24 e non aveva ascoltato
l’omelia domenicale. Il procuratore non era venuto in carcere (forse proprio perché
domenica) e il cavaliere non sarebbe stato comunque in grado di sciorinargli le proprie
teorizzazioni in materia di giustizia, perché impegnato a vaneggiare, solitario,
inneggiando e anelando inutilmente alla “pastasciutta”. Mentre “la piazza della città
diventava un cimitero”...
A ciò potremmo aggiungere che alla follia, reale o simulata che sia, spetta un
ruolo d’eccezione nell’opera scotellariana, dal ricordo di Nicola, “studente fallito”,
morto suicida in una cisterna, rievocato nell’incipit straniante – e all’insegna del
“peregrinare” – dell’Uva, al ritratto, sapido e irresistibile, di zio Michele Tribunale25, che
si lasciò infilzare le dita dei piedi con gli spilloni, pur di fingersi matto e sfuggire alla leva.
La sua “mattezza”, condita di contadina industria, sembra più che altro consistere nel
wildiano non saper resistere alle tentazioni (“Zio Michele Tribunale ebbe il desiderio,
grosso e tribunalizio com’è, di suonare la tromba a pompetta di un’automobile”26).
Se dalle istantanee dal carcere e dai frammenti del romanzo, volgiamo
all’esame dell’inchiesta degli ultimi anni, folgorante è l’incontro con un altro
personaggio: Michele Mulieri27. La sua “Repubblica dei Piani Sottani”, germinata dalla
ribellione all’oscura tirannide di una “putograzia” kafkiana, è un anarchico saturnale
ostinato28, una Narrenschiff29 all’insegna dell’inventiva (o dell’invettiva?) verbale e, a
24
Ivi, p. 110.
Scotellaro, Frammenti cit., fr. 40, p. 126.
26
Ibid.
27
Giorgio Napolitano ha contestato il valore di “rappresentatività” del mondo contadino meridionale
di personaggi come Mulieri; cfr. G. Napolitano, Personaggi nuovi delle campagne del Sud, in
AA.VV., Omaggio a Scotellaro cit., pp. 233 ss. Egli riteneva come la biografia di Laurenzana
rappresentasse, invece, un’occasione mancata, perché sbilanciata sul piano personale, mentre
avrebbe potuto offrire “un racconto più ricco di addentellati con la grande, appassionante storia
dell’emancipazione umana, morale, sociale e politica dei contadini meridionali”.
28
Come ha ben evidenziato A. Guiducci, L’uva puttanella, ivi, p. 588 (prima pubblicato in
“L’Avanti”, 6 marzo 1956), Rocco Scotellaro si dibatteva tra “la soluzione gramsciana del problema
contadino (alleanza delle masse rurali con la classe operaia e accettazione della sua funzione di
guida nella lotta organizzata) e la soluzione anarchico-populista della questione meridionale (frattura
irresolubile tra ‘società contadina’ e Stato)”. Mulieri ci sembra rappresentare una possibile
declinazione di tale soluzione. Un interessante raffronto tra Mulieri e lo stesso Scotellaro era
tracciato abilmente da Angelo Cappello, nel suo saggio in AA.VV., Omaggio a Scotellaro cit., pp.
755-772; egli evidenziava come le due figure possano in qualche modo integrarsi, perché “le
aspirazioni ‘culturali’ dell’uno si mescolano all’ansia di immedesimazione contadina dell’altro” (p.
764).
29
Anche se, come ha giustamente sottolineato Petronio, non ci troviamo di fronte a un pazzo, ma un
anarchico, con le sue “esplosioni” di “ribellione ostinata”; cfr. G. Petronio, Contadini del Sud, in
AA.VV., Omaggio a Scotellaro cit., p. 678.
6
25
SPECIALE ROCCO SCOTELLARO
tratti, dello sproloquio. Sorta a un bivio, consacrata sardonicamente all’“Anno Santo”
per la dichiarata volontà di “scacciare i demoni”, essa subirà la concorrenza (inefficace)
dello Stato, nelle vesti di una pompa di benzina destinata al fallimento e si configurerà
quale zona franca per i viaggiatori e terra di espressione di “eroici furori”. Mulieri è tanto
simile, eppure così differente, se paragonato a quel Mino rampante che Calvino
disegnerà nel 1957: entrambi si costruiranno un regno, per reazione e per protesta. Il
secondo eleggerà l’elce e la lussureggiante vegetazione di Ombrosa a reame da cui
muovere verso gioiose esplorazioni con i monelli e la Sinforosa, specola da cui potrà
– come dispettosamente urlerà al padre pedante – “pisciare più lontano”30; il secondo –
da buon contadino – si costruirà una repubblica terragna e ben angusta (un bugigattolo,
insomma), che lo Stato si affannerà a misconoscere, con accanimento addirittura
dispettoso. L’“avventuriere” Mulieri si trincererà nella sua repubblica (forse, a pensarci
meglio, una monarchia assoluta) a respingere gli assalti dell’Acquedotto, gestito da
politicanti dalle facili quanto mendaci promesse, o di quel nefasto fiore di cui, come
Chironna (che usava l’espressione “borrograzia”), lo ‘statista’ non pronunciava
correttamente il nome: la “putograzia”. Tale elemento è sintomatico, perché è un
chiaro indizio di come l’apparato burocratico italiano, quello neorepubblicano non
meno del regnicolo, rappresentasse per il contadino meridionale una presenza
pervasiva e oscura allo stesso tempo, in un’esistenza grama e all’insegna di un perenne
(donchisciottesco) conflitto. Non è un caso che al cavaliere “de la Mancha” Scotellaro
assimilasse sé stesso, riservando all’amico Mazzarone il ruolo dello scudiere Sancho. La
battaglia del Mulieri, seppure apparentemente sostenuta dalla famiglia, si rivela
tuttavia solitaria, non meno di quella dello stesso Scotellaro. All’arrivo dell’ufficiale
giudiziario, nel 1952, Michele brandisce il tricolore come una spada, allo scopo di
scacciare lo sconfinante dal suo dominio. Il funzionario finge di incassare il colpo e
andarsene, ma gli basta ammiccare alla moglie dell’“avventuriere” per farsi pagare le
9500 lire esatte, da ‘depravato’ “approfittante della debolezza di una donna debole con
famiglia disorientata”31. Sulla ‘debolezza’ delle donne del mondo scotellariano ci sarebbe
molto da dire, se la figura di maggior rilievo è rappresentata da quella Francesca
Armento, definita scherzosamente da Levi la vera poetessa (ricordiamo che alla morte
del figlio elevò quello che Mila in “Minerva” - sett. 1954 - ha definito un “rozzo
Stabat Mater laico e contadino”), che vediamo altrove respingere con veemenza le
insidie di una ‘capèra’, dopo aver inveito contro il marito “puttaniere, ubriacone,
malavita”. Scena non priva di sottocutanea comicità, con il padre di Rocco che –
atteggiamento, nella tradizione, tipicamente femminile – comincia a lanciare oggetti
contro la porta (poi chiusa) della consorte, salvaguardando però (da buon maschio di
30
I. Calvino, Il barone rampante, in Id., Romanzi e racconti. 1, a cura di M. Marenghi, B. Falcetto,
con prefazione di J. Starobinski, Milano, Arnoldo Mondadori editore, 1991, p. 609.
7
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casa) l’orciuolo di vino, vuoi per ingordigia, vuoi presagendo la puntuale intromissione
dei vicini, che interverranno a frotte e saranno liquidati con un buon bicchiere. “Quelli,
per prendere il bicchiere, scartavano i vetri rotti”32. Dall’intervista rilasciata a Scotellaro
dalla moglie di Mulieri si intuisce altro; si coglie l’attitudine alla rassegnazione (quella
della Sant’Agata Mena Toscano) e al sacrificio nella solitudine campestre. Nel reiterato
invito alla “calmezza” (“Ma sempre con la calmezza dobbiamo aspettare”), amuleto
per tollerare lo stato di minorità e le angustie dei tempi amari, si legge il verbo
dell’attesa, tipico dell’“uva puttanella”. Che sia aspettazione di giorni più lieti o
dell’uguaglianza livellatrice nella morte (“Siamo uguali,nel disamore e nella morte”33,
asserirà Scotellaro) in fondo ha un’importanza tutto sommato relativa... Quel che ci
pare certo è che, nonostante tutto, il Tricaricese abbia mostrato come, alle volte, i
contadini possano anche abdicare all’“attesa paziente” e, forse solo per un istante,
distogliere lo sguardo dal cielo “bambino capriccioso” e dalla terra “padrona severa”, per
elevare una “protesta”, forse ingenua (come quella del vecchio che grida rabbioso
“Ridatemi il voto!”, come se ciò fosse realmente possibile) e velleitaria, ma senza dubbio
“altamente politica”34.
GIANNI ANTONIO PALUMBO
31
Scotellaro, Contadini del Sud cit., p. 157.
Id., Uno si distrae al bivio cit., p. 74.
33
Id., Frammenti cit., fr. 6, p. 109.
34
Id., I contadini guardano l’aria, in AA.VV., Omaggio a Scotellaro cit., pp. 17-20.
32
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