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Valerio Massimo Manfredi I Greci di occidente - TED
Valerio M. Manfredi con Lorenzo Braccesi I Greci d’Occidente Arnoldo Mondadori Editore © 1996 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano I edizione Le Scie marzo 1996 I edizione Oscar saggi novembre 1997 ISBN 88-04-43503-8 Questo volume è stato stampato presso Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. Stabilimento Nuova Stampa - Cles (TN) Stampato in Italia - Printed in Italy INDICE Premessa Parte prima LA COLONIZZAZIONE I. Il quadro storico II. Caratteristiche dell’impresa coloniaria III. La spedizione IV. Il mare dell’età coloniale Parte seconda I COLONIZZATORI V. Gli Eubei Pitecusa, - Cuma, - Nasso e Leontini, - Zancle, - Reggio, VI. I Corinzi Siracusa, - Acre, Casmene, Camarina, VII. I Megaresi Megara Iblea, - Selinunte, VIII. I Rodii e i Cretesi Gela, - Agrigento, IX. Gli Spartani Taranto, La spedizione di Dorieo, X. Gli Achei Sibari, - Crotone, - Metaponto, XI. I Locresi Locri, - Epizefiri, - Ipponao XII. I Colofoni Siri, - la leggenda di Cassandra XIII. gli Cnidi Corcira Melaina, - le isole Eolie XIV. I Trezeni Posidonia xv. I Focei Marsiglia, - Velia XVI. I Terei Cirene Parte terza LE COLONIE XVII. Pitecusa e Cuma XVIII. Taranto XIX. Sibari XX. Crotone XXI. Locri XXII. Siracusa XXIII. Agrigento Conclusione Nota bibliografica I GRECI D’OCCIDENTE Ancora una volta, dopo Mare greco, i medesimi autori si rincontrano per dare vita a un nuovo libro: incentrato, questa volta, non più sugli eroi, ma sugli uomini protagonisti della grande avventura ellenica. Lorenzo Braccesi ha scritto la seconda parte del volume (I colonizzatori), Valerio M. Manfredi la prima (La colonizzazione) e la terza (Le colonie). A lui inoltre spetta la responsabilità dell’assemblaggio delle parti e dell’ultima, unificante lettura del libro. PREMESSA Chi direbbe che Antibes o Nizza sono state città greche? Il loro nome era Antipoli e Nicea ed erano entrambe colonie della greca Marsiglia, a sua volta fondazione di Elleni provenienti da Focea sulla costa dell’Asia Minore. Chi direbbe, parimenti, che greche siano state Cirene in Libia, Ampurias in Spagna, Ancona in Italia e Curzola nell’ex Iugoslavia? Il grande pubblico di solito identifica come città greche Napoli o Siracusa, ma non riconosce come tali tutte le altre disseminate sulle coste occidentali del Mediterraneo. Qui sono sorte, e hanno prosperato, un’infinità di città greche, indipendenti e sovrane, i cui possedimenti si estendevano poco all’interno e, il più delle volte, non confinavano con altre fondazioni elleniche. L’espansionismo dei Greci non si caratterizza dunque come un impero territoriale, quanto piuttosto come un dominio su rotte marittime costellato da innumerevoli approdi. Questi ultimi talora conservano, nei secoli, la loro primitiva natura di semplici fondaci commerciali (emporio) ma, più spesso, si evolvono divenendo veri e propri insediamenti cittadini con relativa sovranità territoriale: cioè colonie (apoikiai). Per oltre quattro secoli il greco è così lingua franca nel Mediterraneo occidentale, compresa sia dagli Etruschi che dai Fenici, popoli con i quali i nuovi venuti dall’Ellade devono convivere: in un rapporto basato sull’intesa commerciale o, più frequentemente, sulla concorrenza. I coloni greci, insieme alla lingua, portano nel lontano Occidente anche la propria cultura, la propria religione, la propria esperienza tecnica, la propria natura avventurosa, determinando una profonda ellenizzazione nelle popolazioni indigene con le quali instaurano rapporti di coesistenza, sia in forma pacifica sia, più raramente, in seguito a sottomissione violenta. Ma, al contempo, dal contatto con le genti dell’Occidente, maturano essi stessi una nuova, peculiare, identità: quella comune a ogni popolo colonizzatore che emigra e si stanzia in aree remote, dove la realtà è del tutto diversa dalla situazione del paese d’origine, e dove, inoltre, la continuità della specie è spesso affidata a matrimoni misti. I coloni greci trapiantano dunque in Occidente il proprio patrimonio culturale; e, a prima vista, parrebbero trasportarvi una cosa ancora più cara: il paesaggio della patria lontana. Nel senso, cioè, che li troviamo insediati in siti che geograficamente, il più delle volte, richiamano la conformazione della madrepatria. Il lettore di questo libro inseguirà così, lungo le coste del Mediterraneo, non solo angoli insediativi del mondo greco, ma anche suoi scorci paesaggistici. Realtà ambientale, archeologia, storia, con indagine innovativa, si fonderanno così insieme per accompagnarlo a navigare nel passato: in un viaggio di evasione che è, anzitutto, viaggio alla ricerca delle proprie origini. Parte prima LA COLONIZZAZIONE I. IL QUADRO STORICO. Verso la fine del XII secolo a.C. la civiltà micenea crollò. Le rocche di Micene, Tirinto, Pilo, Già, Argo, Orcomeno furono messe a ferro e fuoco ed ebbe inizio un periodo di oscurità e di decadenza: il cosiddetto Medioevo ellenico, appellativo introdotto per analogia con il Medioevo europeo che seguì la distruzione dell’impero romano. Non è chiaro che cosa abbia provocato la fine dei Micenei, il popolo che ispirò l’epopea della guerra troiana: a lungo si è creduto che fossero stati travolti dall’invasione dei Dori, popolazione anch’essa di stirpe ellenica che in età storica si trovava stanziata nel Peloponneso e che aveva nella città di Sparta il fulcro della propria potenza, ma da qualche tempo questa convinzione è stata minata da non pochi dubbi. Poiché gli scavi archeologici non hanno trovato traccia dei presunti invasori si è pensato che la civiltà micenea sia decaduta per cause interne: a un periodo di grande espansione, avrebbe fatto seguito un periodo di profonda crisi economica, sociale e politica durante il quale le classi più povere, oppresse dalla miseria, si sarebbero ribellate ai loro signori assaltando rocche e palazzi. La lontananza dei principi, impegnati in guerre di conquista (come il mitico assedio troiano), avrebbe dato luogo a crisi dinastiche e istituzionali del tipo di quelle adombrate dal ciclo epico dei «Ritorni» dove assistiamo all’assassinio di Agamennone a Micene, alla cacciata di Diomede da Argo e di Idomeneo da Cnosso, al lungo vagare diMenelao fino alle coste dell’Africa, alle insidie e alle congiure dei pretendenti di Penelope desiderosi di impadronirsi del trono di Ulisse, disperso sul mare. La decadenza succeduta alla crisi e ai sommovimenti interni avrebbe favorito una lenta infiltrazione di genti di stirpe affine e di parlata greca che dopo lunga gestazione e lungo silenzio, quello appunto del Medioevo ellenico, avrebbe dato origine al grande risveglio dell’VIII secolo a.C, di cui sono testimonianza l’inaugurazione dei giochi olimpici, la ripresa della vita religiosa dei grandi santuari, la rinascita delle città e l’inizio della colonizzazione, imponente fenomeno migratorio che portò la civiltà ellenica in Italia, in Nordafrica, in Gallia e in Iberia. In realtà il problema è ancora aperto e molti interrogativi restano per il momento senza risposta: è difficile in primo luogo immaginare una guerra intestina dove tutti distruggono tutti e in cui nessuno dei contendenti sopravvive, ed è difficile ignorare una folta serie di indizi che sembrano invece riferirsi a un invasore esterno. A parte la nota testimonianza diTucidide che nella Guerra del Peloponneso parla del «ritorno degli Eraclidi», ossia di un avvenimento mitico che sembra adombrare la calata di un invasore nel Peloponneso, è interessante notare come nei poemi omerici non si faccia alcuna menzione dei Dori, che, all’epoca in cui l’Iliade e l’Odissea passarono dalla tradizione orale alla versione scritta, già dominavano stabilmente la zona centrale del Peloponneso, ma si parli sempre e solo di Achei, come se gli eredi della diaspora micenea in Asia, a cui i poemi erano destinati, volessero rimuovere un ricordo sgradevole e umiliante. Nella Grecia centrale, inoltre, la piccola regione montana della Doride sembra conservare la memoria di un passaggio intermedio di una migrazione dorica dal Nord, e recenti scoperte in Macedonia paiono registrare l’ingresso di popolazioni da settentrione verso la fine dell’età del bronzo. Contemporaneamente, si assiste allo «svuotamento» di vaste aree sia nell’Europa balcanica sia nell’Europa centrale, come se i popoli autoctoni le avessero abbandonate migrando verso altre terre. In taluni territori il numero degli insediamenti si riduce anche dell’80 per cento. Gli affreschi del palazzo di Pilo, dove sono raffigurati guerrieri micenei che si battono contro rozzi awersari vestiti di pelli, vengono da alcuni considerati una rappresentazione di scaramucce con pastori dell’interno più che di lotte contro invasori; e così pure la famosa tavoletta di Pilo in cui si allertano guarnigioni della costa non è più interpretata come l’allarme che precede un’invasione ma piuttosto come una specie di inventario delle forze disponibili. Tuttavia sono stati scoperti i resti di un muro miceneo risalente al XII secolo nell’istmo di Corinto e si sa che a Micene, nel medesimo periodo, venivano scavate cisterne per accumulare riserve d’acqua, il che si potrebbe intendere come reazione alla minaccia di un assedio. Nell’area dell’Egeo orientale (specie a Cipro) è documentata, agli inizi dell’età del ferro, la sopravvivenza di linguaggi di chiara derivazione micenea, prova, secondo alcuni, che quelle zone erano rimaste fuori dalla sfera d’influenza di nuovi sopravvenuti, portatori dei dialetti dorici parlati in età storica nel Peloponneso. La critica più recente sembra rifuggire da ipotesi invasionistiche che configurino un blocco straniero ostile, magari guidato da un condottiero, che distrugge una civiltà già consolidata e si appropria del suo territorio. Si preferisce pensare a crisi interne e/o a lente e complesse infiltrazioni dall’esterno che producono mutamenti a lungo o lunghissimo termine. In questo modo è più facile spiegare il costituirsi, in determinati territori, di culture di cui è impossibile o molto arduo stabilire la provenienza. È il caso, per esempio, degli Etruschi giunti, secondo la leggenda, dalla Lidia al seguito di un condottiero, portatori di un linguaggio non affine a quello degli Italici preromani: è impossibile, allo stato attuale degli studi, determinare modalità, cronologia e area geografica del loro eventuale «arrivo». Oggi tutti accettano l’idea di «formazione» del popolo etrusco, mentre viene abbandonato il concetto di «origine», che non permette di giungere ad alcun risultato concreto. Lo stesso si può dire per i Fenici, popolazione che si sarebbe formata dalla mescolanza di numerosi gruppi, non necessariamente omogenei, provenienti dall’area siro-palestinese-sinaitica e confluiti nella striscia di territorio compresa tra il monte Libano e il mare Mediterraneo. Fenomeni di tal genere avvengono tuttora sotto i nostri occhi, basti pensare al popolo americano, che si è andato costituendo grazie all’apporto di innumerevoli componenti, per la maggior parte non anglosassoni, sebbene in questo caso ci sia stata in origine un’invasione con conseguente distruzione delle genti autoctone. È necessario comunque ricordare che la fine dell’età del bronzo fece da scenario a un’impressionante serie di avvenimenti catastrofici che scossero molti potentati del Mediterraneo. Ne serba ancora una volta memoria il mito: Quindi il padre Zeus un’altra stirpe di uomini mortali creò, la terza, di bronzo ... Essi avevano armi di bronzo, e case di bronzo, e con il bronzo lavoravano: ancora non esisteva il nero ferro. E questi, sopraffatti dalle loro stesse mani, se ne andarono alla squallida dimora del terribile Ade, ingloriosi: la nera morte li rapì, quantunque terribili, ed essi abbandonarono la luce splendente del sole. (Esiodo, Opp., 143-155) Entrò in crisi in questo periodo l’impero anatolico degli Ittiti, l’Egitto faraonico fu travolto dall’invasione dei cosiddetti Popoli del mare, una possente coalizione di molte nazioni di cui, grazie ai documenti egizi, conosciamo i nomi. Molti di loro sarebbero diventati, in età successive, protagonisti di importanti vicende storiche sul teatro mediterraneo: i Tersh (Etruschi?), i Shekelesh (Siculi), i Lukka (Liei), i Peleset (Filistei). Contemporaneamente, nel Nord dell’Italia, si estinse in pochi decenni la cultura dei Terramaricoli che avevano colonizzato la Valle Padana. Ancora non è stata proposta una spiegazione veramente convincente per questo evento. Tutto lascia pensare, insomma, che fosse un’epoca di grandi turbolenze, determinate forse da mutamenti climatici, da situazioni ambientali che dovettero influire profondamente sulle condizioni di vita di molti popoli creando sommovimenti e gravi disordini. Quando le acque si calmarono l’impero ittita era distrutto, l’impero babilonese dei Cassiti era prossimo al collasso, l’Egitto si avviava a un periodo di decadenza, i regni micenei non erano più che un ricordo, la Valle Padana, in cui erano sorti durante l’età del bronzo insediamenti terramaricoli con la densità, in certe aree, di uno ogni 5 chilometri, era quasi deserta. Da questo panorama desolato vennero però emergendo, con il passare degli anni, nuove realtà etniche e politiche che avrebbero dominato la scena nell’età del ferro. In Medio Oriente gli Assiri conquistavano gradualmente l’intera Mesopotamia, preparandosi a invadere e sottomettere l’Egitto; nell’area siro-palestinese, a sud si affermava il regno ebraico di Saul e di Davide dopo una lunga e incerta lotta contro le città filistee della costa, a nord, tra il Libano e il mare, fiorivano le città-stato cananee di Bi-blo, Arado, Tiro e Sidone. I loro abitanti sarebbero presto divenuti famosi nel Mediterraneo con il nome di Phoi-nikes («rossi») e avrebbero inaugurato la più grande avventura mercantile e marinara che il mondo antico avesse mai visto. In Italia genti nuove muovevano dalla Toscana attestan-dosi sui passi appenninici, come per prenderne possesso e prepararsi a scendere nella Valle Padana. Vengono chiamati Protovillanoviani perché la loro cultura, sulla base delle testimonianze materiali, è parsa preludere a quella meglio nota dei Villanoviani che si affermò in tutta la Toscana, nel Lazio settentrionale e in alcune località della Valle Padana a partire dal IX secolo a.C. Come i Villanoviani avrebbero dato origine alla civiltà storica degli Etruschi (tale è perlomeno la più diffusa convinzione), così in altre zone della penisola vennero connotandosi gradualmente culture che in età successive sarebbero state riconosciute come quelle dei Veneti, degli Umbri, dei Piceni, dei Dauni, degli Oschi. In Sicilia si affermavano i Siculi (forse i Shekelesh citati nella lista dei Popoli del mare) di probabile provenienza balcanica,, soppiantando i Sicani, antichi abitanti dell’isola. Nell’area centroeuropea e nella penisola iberica veniva caratterizzandosi la cultura dei Celti, che sarebbe poi via via filtrata anche in Italia dando origine alla cultura detta di Golasecca. In un certo senso si può dire che l’assetto dell’Europa storica e, in particolare, dell’Italia ebbe le sue dirette premesse tra la fine dell’età del bronzo e gli albori dell’età del ferro. L’aspetto più sorprendente dell’inizio della civiltà greca, da cui nacque il più vasto movimento coloniario dell’antichità classica, è il suo sbocciare in campo artistico e letterario. I vasi geometrici del Dipylon sono capolavori assoluti per la perfezione delle proporzioni, per l’efficacia e l’immediatezza delle raffigurazioni, per l’armonia tra forme e colori, così come i poemi omerici, messi per iscritto per la prima volta nello stesso periodo (VIII secolo a.C), restano tra i massimi capolavori della letteratura universale. Nulla invece ci è purtroppo pervenuto della statuaria e dell’architettura di questa età remota (a parte alcuni esemplari di bronzistica minore) perché quasi sicuramente si trattava di opere in legno. Tali erano gli xoana, le statue più antiche rappresentanti gli dei e gli eroi, e anche i templi dovevano essere in legno, probabilmente dipinti e con ornamenti in terracotta policroma. Pausania ebbe la possibilità di osservare la presenza, ancora nel I secolo, di colonne lignee nel peristilio del tempio di Era a Olimpia, il che fa pensare che quelle di pietra avessero rimpiazzato nel corso dei secoli quelle di legno che via via si deterioravano. Questa fioritura artistica non fu un miracolo: sappiamo bene che i poemi di Omero furono il risultato finale di una tradizione orale plurisecolare, probabilmente tramandatasi sulle coste dell’Asia Minore, dove è verosimile supporre che gli eredi della diaspora micenea avessero mantenuto un certo controllo del territorio e delle sue risorse anche dopo il crollo della loro civiltà nella penisola ellenica. Al tempo stesso, le più recenti esplorazioni hanno dimostrato che centri palaziali come quello di Lefkandi, nell’Eubea, prosperarono in area ellenica già in età molto antiche, mentre è noto che alcune aree come l’Attica, l’Eu-bea e le isole dell’Egeo orientale mantennero una certa continuità, fino all’inizio dell’età del ferro, con l’antico mondo miceneo. Tale continuità è comprovata dal dato archeologico: gli scavi effettuati di recente nella località di Porto Cesareo, non lontano da Taranto, hanno per esempio rivelato che la frequentazione micenea e submicenea non subì praticamente interruzioni fino alla fine dell’XI secolo quando il testimone, sia qui sia in altre località dell’Italia e del Mediterraneo, passò ai marinai cicladici e poi rodii nel corso del X e del IX secolo a.C. Come sempre in questi casi bisogna pensare a forme di interazione tra elementi immigrati da poco tempo e resti delle culture precedenti. La civiltà micenea nacque dall’incontro/scontro tra gli Achei del Peloponneso e i Minoici di Creta invasi e sottomessi. La civiltà greca dovette avere matrici analoghe: contatti e interscambi tra capisaldi sopravvissuti della diaspora micenea del bronzo tardo e nuovi elementi sopravvenuti forse dai Balcani, forse anche dal Nord della stessa Grecia. In modo simile la civiltà europea del Medioevo si originò dall’incontro/scontro tra la civiltà dell’impero romano e le genti germaniche giunte dalla Sarmazia. Certo, il nostro approccio a questi eventi può essere condizionato dall’abitudine a considerare l’assetto politico degli stati moderni che abbiamo da secoli sotto gli occhi: entità delimitate da confini invalicabili, con accessi regolati da rigide norme e da documenti di transito e di immigrazione, con simboli nazionali enfatizzati quali bandiere e inni, con linguaggi grammaticalmente e sintatticamente codificati, con sistemi legislativi e ordinamenti politici peculiari, a volte con religioni di stato le cui regole morali hanno anche valore di legge. Nondimeno è giusta l’idea che i popoli antichi (o almeno alcuni di essi, come i Greci) avessero coscienza dell’etnia di appartenenza e che questa coscienza fosse sostenuta da una notevole convinzione. Essi dovevano avere infatti l’istintiva percezione che l’affermazione dell’identità etnica coincideva con la sopravvivenza fisica delle comunità che ne facevano parte. I Greci, in particolare, seppero connotarsi in modo assai specifico e, intorno al V secolo, arrivarono a elaborare modelli intellettuali che definivano l’etnia come comunità di linguaggio, di religione e di cultura. La cosa è differente per i Fenici, che non si definirono mai come popolo ma piuttosto come abitanti di singole città (Tirii, Sidonii) oppure, genericamente, come abitanti della terra di Canaan. La diversità tra Greci e Fenici, clamorosa nella lingua, nella religione e nei costumi, portò, come vedremo in seguito, a un duro scontro militare, ma in genere le ragioni economiche finirono per prevalere, specialmente in ambito coloniale dove in età storica si assistette addirittura ad alleanze tra Cartagine (colonia fenicia) e città greche contro altri centri greci. L’ambiente coloniale dunque si caratterizzò per una serie importante di aspetti che ne fecero quasi una civiltà a sé, un fenomeno unico. Ed è tale straordinario fenomeno, imponente per le sue realizzazioni in ogni campo dello scibile, dell’arte, dell’architettura, dell’economia, che tenteremo di analizzare in queste pagine cercando il più possibile di coglierne l’anima. movimento coloniario dei Greci verso occidente? Che cosa provocò il Anche in questo, nel motivo che li spinse ad avventurarsi oltremare, i Greci si differenziarono dai loro avversari storici, i Fenici. Mentre costoro sembra fossero mossi soprattutto da ragioni commerciali e dal desiderio di espandere i loro traffici, i Greci furono spinti a lasciare il proprio paese sostanzialmente dalla povertà e dalla fame. I dati ambientali relativi a questa epoca non sono sufficienti per tracciare un quadro della situazione dei terreni nella Grecia del VII secolo e per informarci delle loro possibilità produttive rispetto alla popolazione, ma gli echi che ci giungono dalla letteratura sono abbastanza significativi. Dalla poesia di Esiodo esce un quadro nettamente negativo della situazione sociale ed economica di quegli anni: una classe di aristocratici grandi proprietari terrieri «divoratori di doni» (Opp., 39) possiede la maggior parte della terra migliore, mentre le classi più umili devono cercare di sopravvivere su terre ingrate o darsi al commercio rischiando la sorte sul mare. C’è inoltre una nutazione di carattere demografico in Esiodo: «La cosa migliore per un uomo è di avere un figlio solo» (Opp., 376-377). L’affermazione è interessante sia perché contrasta con l’opinione oggi corrente secondo cui in un’economia sottosviluppata le famiglie numerose sono inevitabili, sia perché questa esigenza del controllo demografico si configura fin dall’inizio della civiltà greca come una delle sue componenti fondamentali a livello sociale. La morale dei Greci, infatti, a differenza di quella degli Ebrei, non condannò mai le pratiche sessuali fini a se stesse e accettò sempre, o quantomeno tollerò, le pratiche di contenimento della popolazione, anche le più dure, come l’esposizione dei bambini che la famiglia non poteva mantenere. Si ritiene che la poesia omerica, benché di tradizione molto antica, rifletta pur sempre, nei toni e nella sensibilità, la mentalità contemporanea alla sua prima versione scritta. E, come in Esiodo, anche in questo caso ci troviamo di fronte a una visione assai pessimistica della vita. Il fatto è tanto più rilevante se si considera che Omero si rivolge agli aristocratici, a coloro cioè che si ritenevano discendenti o comunque eredi degli eroi descritti nel poema e si riconoscevano nel loro codice etico oltre che militare. Il titanismo iliadico non riesce a nascondere una vera e propria fatica del vivere, una visione della vita come sequenza di sofferenze e di lutti. Gli esseri umani, anche se eroi e sovrani, sono vittime di divinità capricciose e dispotiche. Il loro codice d’onore è più un fardello che un privilegio e la morte non è che l’ultimo atto di un’esistenza dominata da una competizione esasperata, da un continuo prepararsi alla perdita della vita e della luce del sole. Quest’atmosfera cupa e opprimente è, con ogni probabilità, il riflesso di una condizione generale di scontri continui per il possesso dello spazio vitale. Razzie di bestiame, devastazioni, atti di pirateria, rapimenti di donne e fanciulli sono episodi ricorrenti in tutta la tradizione epica anche non omerica. Una tale visione della vita non poteva non riflettersi nel concetto religioso e nell’immagine stessa degli dei e delle forze che presiedevano al creato. Idea particolarmente desolante, sia in Omero sia in Esiodo. Si pensi al mito di Prometeo che, mosso a compassione per le condizioni miserevoli degli uomini, dona loro il fuoco suscitando la vendetta degli dei: Per questa ragione [Zeus] riversò sugli uomini lacrimevoli affanni. (Esiodo, Opp., 49) Si pensi all’inganno di Pandora, atroce beffa divina a un’umanità indifesa, che riempie il mondo di malattie, piaghe, lutti di ogni genere: Invece le altre sciagure in numero infinito si aggirano in mezzo agli uomini; piena infatti è la terra di mali, e pieno il mare; le malattie giungono agli uomini spontaneamente, di giorno e di notte, recando malanno ai mortali, tacitamente, perché il saggio Zeus ha tolto ad esse la parola. (Opp., 100-104) È quasi incomprensibile, per un uomo moderno, l’idea di un dio «saggio», nel senso di «sadicamente astuto», che crea le malattie prive di parola in modo che giungano subdole e inaspettate a minare la salute, ad accendere la sofferenza. La speranza, patetico e fragile scudo contro un intero universo ostile, è l’unica forza che resta all’essere umano per affrontare la vita. E fu proprio sulle ali della speranza che presero il largo le navi dei primi coloni, ma il termine apoikia, che in greco indica la deduzione di una comunità stanziale oltremare, implica un significato triste, e cioè l’abbandono della propria casa. Non possiamo naturalmente recepire in modo acritico la testimonianza dei poemi omerici che tendono a eroizzare la figura dell’aristocratico e quindi a darne un ritratto di tragica grandezza. Non possiamo però nemmeno sottovalutare il significato di un’atmosfera tanto cupa come è quella che emerge sia da Omero sia da Esiodo, che si debbono considerare interpreti di una realtà in qualche modo riconoscibile dal pubblico a cui erano rivolte le loro opere. Come spiegare allora una situazione dove i poveri sono costretti ad abbandonare la patria e a emigrare ma dove anche i ricchi e i privilegiati sembrano immersi in un clima di profondo pessimismo? Il quadro sociale dell’età arcaica era pesantemente condizionato dalla struttura agricola dell’economia. I signori, «domatori di cavalli» come sono chiamati nell’Iliade (ma nell’Eubea dell’VIII secolo l’epiteto ippobotai, ossia «allevatori di cavalli», sopravviveva quasi invariato), erano proprietari di vasti latifondi e tendevano a espandere sempre di più le loro tenute a danno dei piccoli proprietari che dapprima erano costretti a indebitarsi e poi a vendere e a migrare in cerca di un pezzo di terra al di là del mare. Al tempo stesso però doveva esistere una situazione di conflittualità permanente sia tra i vari clan (ghene) aristocratici sia tra le varie etnie confinanti, fenomeno solo parzialmente attenuato da alleanze di carattere matrimoniale e da scambi di doni, ma con ogni probabilità esacerbato da qualunque peggioramento delle condizioni ambientali. Questa conflittualità, che si esprimeva in scontri armati, razzie, devastazioni e furto di raccolti e azioni di pirateria, pur sublimata in termini di eccellenza militare e di impresa eroica, certamente induceva, in generale, una visione della vita dominata dalle disgrazie, dal dolore, dalle distruzioni e dalla morte. La vita, insomma, se era durissima per i poveri, non era facile neppure per le classi dominanti. Non si può nemmeno escludere che un certo aumento della pressione demografica, unitamente a forme di degrado ambientale testimoniate dalle fonti, abbia contribuito a suscitare il flusso coloniario, come sembrerebbe di capire dalla raccomandazione di Esiodo di generare un figlio solo. La notevole scarsità di terreni coltivabili nel centrosud della Grecia e soprattutto nelle isole, oltre ai problemi, di sicuro preponderanti, di carattere sociale che abbiamo descritto in precedenza, dovettero provocare la scelta migratoria, ma non si può escludere che eventi e circostanze eccezionali come carestie, andamenti stagionali ripetutamente sfavorevoli, epidemie del bestiame abbiano innescato le primissime spedizioni oltremare di cui, come vedremo, resta ampia eco nelle fonti. Un elemento determinante dovette essere, in particolare nelle isole, il massiccio disboscamento che causò erosioni del suolo e siccità. Nell’era delle migrazioni coloniarie fu di fondamentale importanza il ruolo dell’oracolo di Delfi, che tutte le comunità elleniche riconoscevano e consultavano prima di organizzare una spedizione. L’oracolo diceva come, quando e dove si doveva fondare la nuova comunità e non di rado indicava anche l’ecista (oikistes, «fondatore»), ossia il condottiero che guidava la spedizione ed esercitava l’autorità politica e religiosa nella fase iniziale della vita della colonia. Non sappiamo come l’oracolo si fosse guadagnato tanto prestigio, ma poiché i vaticini che pronunciava la profetessa del dio (Pythia) erano di significato oscuro o a volte indecifrabile, l’interpretazione dei sacerdoti diveniva indispensabile e fondamentale. Tali interpretazioni dovevano quindi basarsi, oltre che sul timore reverenziale dei postulanti, anche su notizie precise e documentate delle situazioni dei territori verso i quali si indirizzava la migrazione di un gruppo. È lecito dunque ritenere che il santuario di Delfi [vedi inserto iconografico], che gli scavi hanno rivelato attivo già fin dall’età micenea, avesse accumulato nel corso dei secoli un patrimonio molto ampio di conoscenze, e potesse disporre di un’efficiente rete di informatori. Tutto questo contribuiva da un lato al crescere del suo prestigio, dall’altro a estendere ulteriormente il raggio delle sue conoscenze. Si può avanzare l’ipotesi che il santuario rappresentasse una continuità anche con le epoche passate in cui le entità politiche erano andate in rovina insieme al loro patrimonio di beni e di sapere. Con la prudenza del caso potremmo forse pensare, per analogia, al ruolo svolto dalla Chiesa di Roma ai fini della conservazione del patrimonio civile del mondo classico negli anni successivi alla caduta dell’impero romano. Il «possesso» della cultura conferiva alla Chiesa grande prestigio e autorità e al tempo stesso, favorendone l’espansione, comportava l’apporto continuo di nuove conoscenze. Il suo ruolo risultò così importantissimo, e talvolta fondamentale, all’epoca delle grandi scoperte geografiche per definire le sfere d’influenza e di espansione tra le potenze cattoliche. In sostanza le rotte percorse dai coloni ellenici a partire dall’VIII secolo per fondare le loro comunità oltremare erano non molto dissimili da quelle battute in tempi più antichi dalle navi dei Micenei e poi dei Rodii e dei Cicladici, dovevano quindi esistere nei grandi santuari conoscenze abbastanza precise sulle terre da colonizzare e sui popoli che le abitavano. Inoltre, qualora un’impresa coloniaria iniziata senza la benedizione del santuario delfico fallisse, l’evento veniva fortemente enfatizzato come monito per chi osasse sfidare l’autorità del dio, come nel caso della sfortunata impresa del principe spartano Dorieo, di cui esporremo più oltre la vicenda. La connessione tra centri religiosi, come l’oracolo delfico, e le colonie si può forse anche riconoscere nel patrimonio di miti e tradizioni che i coloni portavano con sé, riambientandoli nella nuova terra e arricchendoli con le usanze tipiche e specifiche della loro città di origine, con la quale mantenevano rapporti molto stretti soprattutto sul piano culturale. La stessa connessione si può inoltre riconoscere nel fatto che le città coloniali continuavano anche in seguito a inviare delegazioni a Delfi per consultare l’oracolo, o atleti a Olimpia per cimentarsi nelle gare. Vi fu un periodo, come vedremo, in cui gli atleti delle colonie la fecero da padroni nei giochi olimpici mietendo successi ripetuti e clamorosi. Da un punto di vista archeologico, l’importanza dei santuari è ribadita dal fatto che nel corso dell’VIII e del VII secolo, quando si diffonde in tutto il Mediterraneo e specialmente in Occidente il gusto per gli oggetti di lusso di stile orientalizzante, in Grecia se ne ha una scarsissima documentazione con la sola eccezione, appunto, dei santuari, unici centri che potessero permettersi spese ingenti e l’acquisizione di oggetti d’importazione di grande valore e prestigio. Tali relazioni commerciali sono la prova evidente che i santuari avevano contatti e conoscenze che andavano ben al di là del loro raggio immediato di influenza. Quando ebbe inizio, con la fondazione di Pitecusa nell’isola di Ischia (ca 770 a.C), la migrazione dei Greci verso occidente, la situazione politica nel Mediterraneo era abbastanza stabile: l’impero assiro si era affermato dovunque nel Vicino Oriente e dominava, oltre che sull’ Assiria, su parte dell’Armenia, sulla Mesopotamia e sull’area siro-palestinese, dove nel 743 a.C. Tiglatpileser III conquistò Tiro e nel 721 Sargon II distrusse Samaria annettendo lo stato d’Israele. L’Egitto conservava la sua indipendenza sotto la XXII e XXIII dinastia mentre in Anatolia si sviluppava il regno di Lidia destinato a diventare, fino al VI secolo, la maggior potenza della regione. In Italia la civiltà etrusca si avviava a un eccezionale sviluppo grazie allo sfruttamento dei metalli dell’Elba, della Tolfa e dell’Allumiere. Nasceva la civiltà urbana e si diffondevano altresì sontuose residenze principesche come i palazzi di Murlo e di Acquarossa. Gli Etruschi si espandevano a sud fino a Pontecagnano e a nord fino alla Valle Padana, dove il centro preurbano di Felsina cominciava ad acquistare i caratteri di una vera e propria città. Il mercato degli scambi era in gran parte in mano ai Fenici che avevano sfruttato a fondo il loro inserimento nello sterminato impero assiro sviluppando una moda artistica, l’orientalizzante, di cui prima abbiamo parlato, destinata a un successo commerciale strepitoso. Le commesse della grande aristocrazia orientale li avevano poi spinti a cercare sempre più lontano i luoghi dove approvvigionarsi dei metalli preziosi (argento, stagno, oro) che servivano ad alimentare il loro florido artigianato. Per questo motivo avevano stabilito relazioni commerciali con il Tartesso iberico e fondato stazioni commerciali lungo la costa del Nordafrica fino allo stretto di Gibilterra, dove sorgeva in quel tempo lo scalo ben presto fiorente di Cadice. Su questa stessa rotta si erano lanciati, già nell’VIII secolo, i navigatori eu-bei fondandovi scali e piccoli insediamenti che però erano stati ben presto soppressi dal fiorire delle colonie fenicie e in particolare di Cartagine. Sorte migliore ebbe invece la loro espansione tirrenica che culminò con la fondazione delle prime colonie greche di Occidente e, in seguito, degli avamposti più occidentali di Aleria in Corsica e di Marsiglia in Gallia. La tradizione vuole che nello stesso periodo fosse anche fondata Roma (21 aprile 743 a.C), ed è noto che i fondi di capanna ritrovati nell’angolo nordoccidentale del Palatino risalgono appunto a questi anni. Sappiamo bene che l’assetto di Roma come vero e proprio centro urbano risale all’età dei re Tarquini, quando per la prima volta venne pavimentata la valle del Foro e innalzato sul Campidoglio il tempio di Giove, ma è comunque dimostrato che fin dall’inizio dell’VIII secolo lo spiazzo che si affacciava sull’ansa del Tevere presso l’isola Tiberina era già sede di un vivace mercato. La presenza dell’isola Tiberina, che consentiva un facile passaggio del fiume in quel punto, favoriva indubbiamente il flusso dei traffici tra Nord e Sud, ma è assai probabile che quel mercato fosse frequentato anche da mercanti greci che risalivano la corrente del fiume. Forse a questi antichi visitatori si deve la diffusione, in quell’area, del culto di Èrcole che Virgilio avrebbe attribuito al mitico Evandro. Cinquant’anni prima, nell’800 a.C, su una laguna costiera della Tunisia da un gruppo di coloni provenienti da Tiro sarebbe stata fondata Cartagine, ma finora gli scavi non hanno rivelato resti anteriori al VII secolo. È comunque abbastanza evidente che gli anni fra il IX e l’VIII secolo incubarono, per una serie di complesse circostanze, le civiltà che avrebbero dominato la scena della storia mediterranea fino quasi all’inizio dell’era volgare e che in parte sarebbero state tramandate, attraverso i grandi rivolgimenti dell’alto Medioevo, fino ai nostri giorni. In quegli anni nacque la costellazione delle colonie greche in Occidente: Pitecusa e Cuma, Nasso, Sibari, Crotone, Metaponto, Reggio, che a loro volta diedero vita a molte altre città-figlie. Alcune di queste città scomparvero già nell’antichità per non essere mai più ritrovate, altre vissero un’avventura rapida e bruciante come la traiettoria di una meteora per poi morire improvvisamente di morte violenta, lasciandoci nei loro resti monumentali le commoventi testimonianze della loro grandezza. Altre ancora sopravvissero stentatamente come centri minori. Ma molte attecchirono come piante robuste continuando a vivere fino a oggi senza soluzione di continuità per oltre venticinque secoli. Per le vie di Napoli e Marsiglia, di Messina, Siracusa e Taranto si muove oggi una folla di operai, di impiegati, di manager, nei loro uffici il flusso dell’economia è regolato da computer, nei loro porti gettano l’ancora transatlantici e petroliere da centinaia di migliaia di tonnellate, dai loro aeroporti si alzano in volo aviogetti con centinaia di passeggeri a bordo e forse i frettolosi visitatori del nostro tempo non possono nemmeno immaginare l’epoca lontana in cui quelle coste erano ancora incontaminate, coperte di boschi e di fitte macchie di vegetazione, l’epoca in cui fragili imbarcazioni gettavano l’ancora, dopo un viaggio estenuante, per fare scendere gruppi di giovani guerrieri che avanzavano guardinghi verso la spiaggia silenziosa, temendo che dalla boscaglia potesse esplodere improvvisamente il grido di altri guerrieri accorsi a respingerli, a privarli per sempre del sogno di una nuova patria. Portavano con sé un pugno della terra natia e le braci del fuoco sacro che avevano attinto sull’acropoli della loro città-madre nella speranza di accendere un nuovo focolare, di costruire nuove case in cui condurre spose straniere rapite con la forza o convinte con i doni e generare figli di sangue nuovo. In questo libro vogliamo raccontare la loro avventura con tutta la fedeltà che ci consentono le nostre conoscenze ma anche con la gratitudine di chi ha ricevuto l’eredità di una civiltà preziosa e irripetibile, così forte e così grande da resistere al flusso dei millenni. II CARATTERISTICHE DELL’IMPRESA COLONIARIA Non sono note le cause precise della deduzione della prima colonia in Occidente, ma possiamo intuire il motivo per cui i navigatori eubei di Calcide scelsero il golfo di Napoli per il loro primo insediamento. Senza dubbio essi frequentavano già da tempo quelle acque per motivi commerciali, diretti verso il remoto Tartesso lungo una rotta che dalla Grecia attraversava il canale d’Otranto, lo stretto di Messina, il mar Tirreno e il mar Ligure e quindi il golfo del Leone e il mare delle Baleari. Conoscevano dunque le caratteristiche topografiche di quella zona e, evidentemente, le giudicavano favorevoli. Bisogna tener presente infatti che gli scali commerciali, che certo esistevano già prima dell’VIII secolo a.C. come dimostra il rinvenimento della ceramica geometrica in Sicilia e nel golfo di Napoli, non sempre rappresentavano la premessa per la deduzione di una colonia. Uno scalo commerciale infatti è tale per la sua posizione favorevole verso i mercati, ma non deve necessariamente possedere quelle caratteristiche che consentono la sopravvivenza di una comunità, condizione, quest’ultima, indispensabile per una località destinata a ospitare una colonia. Sappiamo che quasi tutte le prime colonie furono di carattere agricolo e che in gran parte erano costituite da giovani che in patria non avrebbero mai avuto la possibilità di possedere un pezzo di terra per il sostentamento della famiglia. Il luogo prescelto, dunque, doveva avere alcune caratteristiche morfologiche fondamentali: un rilievo facilmente difendibile su cui fondare l’acropoli, un’area circostante dove erigere l’abitato e tracciare le strade e, da ultimo, una zona pianeggiante (chora) da dividere tra i coloni per la coltivazione (principalmente grano, orzo, olivo, vite) e per il pascolo. Se le caratteristiche morfologiche delle località prescelte per queste fondazioni ci sono note, e così pure, in parte, gli aspetti urbanistici degli insediamenti, ci è assai meno facile risalire alle modalità secondo le quali una città decideva di dedurre una colonia. Chi prendeva la decisione? Con quali criteri si stabiliva il numero dei coloni? Come venivano scelti? Sappiamo che si trattava (con rarissime eccezioni, come nel caso di Locri e di Focea), di uomini giovani scapoli, e ciò consente alcune congetture. Essi dovevano provenire per la maggior parte da famiglie indigenti o non in grado di assicurare loro condizioni di vita decorose per un uomo libero: mezzi adeguati di sostentamento (terra coltivabile, animali da allevamento e da lavoro) e beni necessari per l’«acquisizione» di una sposa (si dovevano offrire costosi doni alla famiglia della ragazza) e per la costruzione o l’adattamento della casa ecc. La presenza di un buon numero di giovani frustrati e probabilmente aggressivi doveva costituire un fattore destabilizzante per le istituzioni (in generale oligarchie di aristocratici) e per la pacifica convivenza sociale; era così nell’interesse dell’intera comunità offrire loro una possibilità di sbocco. Non si riuscirebbe altrimenti a spiegare come potessero i più poveri tra i poveri affrontare i costi, indubbiamente elevati, della spedizione. È evidente che, se la loro partenza era un vantaggio per tutti, ciascuno era tenuto a contribuire. Doveva però verificarsi anche il caso in cui i coloni erano prescelti fra tutte le famiglie con più figli maschi, senza distinzione di censo per non irritare gli strati più poveri della popolazione che avrebbero potuto scatenare rivolte e tumulti. Un caso simile, come vedremo, è quello dell’isola di Tera, oggi Santorino [vedi inserto]. La città metteva a disposizione una flotta per il trasporto, o forse la faceva costruire, affinchè la nuova comunità potesse avvantaggiarsi delle attività connesse alla navigazione. Approntava i materiali necessari e operava la scelta degli uomini da inviare oltremare. Sarebbe di enorme interesse conoscere le modalità di queste operazioni nei dettagli ma purtroppo non è pervenuto alcun rapporto abbastanza particolareggiato sulla preparazione e l’invio di una spedizione coloniaria. Nondimeno, il racconto di Erodoto riguardo alla spedizione di un gruppo di Terei che fondarono in Libia la città di Cirene può essere considerato paradigmatico. La narrazione nelle Storie di Erodoto (IV, 149-158) è duplice e riferisce sia la versione dei Terei (madrepatria) sia quella dei Cirenei (colonia). Vale la pena di riportare le due versioni perché il lungo brano è ricchissimo di indicazioni preziose. Versione dei Terei: Grinno, figlio di Esania, che discendeva da Tera ed era re dell’isola di Tera, se ne venne a Delfi, conducendo dalla sua città un’ecatombe, e lo seguivano altri cittadini, e fra essi Batto figlio di Polimnesto ... Mentre il re di Tera, Grinno, interrogava l’oracolo su tutt’altro argomento, la Pizia gli rispose di fondare una città in Libia. Ma quello replicò: «O signore, io sono troppo vecchio ormai e carico d’anni per assumermi tale impresa; ma tu impartisci l’ordine di fare ciò a qualcuno di questi che sono più giovani». E mentre diceva tali parole, accennava a Batto. Allora si giunse fino a questo punto; ma poi, partitisi dì là, non fecero più alcun conto dell’oracolo, dato che non sapevano in qual parte della terra fosse la Libia e non osavano far partire una colonia verso destinazione ignota. Dopo questi fatti, però, su Tera non cadde pioggia per sette anni continui, durante i quali tutte le piante che si trovavano nell’isola, tranne una, s’erano inaridite. Ai Terei che consultavano l’oracolo, la Pizia ripetè il comando di condurre una colonia in Libia. E poiché non c’era rimedio per i loro malanni, mandarono degli inviati a Creta a cercare se qualcuno dei Cretesi, o dei forestieri che erano con loro, fosse mai giunto fino in Libia. Aggirandosi qua e là per l’isola questi messi arrivarono anche alla città di Itano e in essa incontrarono un pescatore di porpore, di nome Corobio, il quale affermava di esser giunto, portato dal vento, in Libia e a Platea, un’isola della Libia. Allora convincono costui, dietro compenso, e lo conducono a Tera; di qui poi degli uomini si imbarcano per esplorare i luoghi, dapprima in piccolo numero. Avendoli Corobio guidati a quest’isola di Platea, ivi lo lasciarono con una scorta di viveri per un certo numero di mesi; essi, invece, ripresero il mare in tutta fretta per fare ai Terei una relazione riguardo all’isola. Siccome, però, la loro assenza si prolungava più del tempo stabilito, Corobio venne a mancare di tutto. Ma poi una nave di Samo, di cui era proprietario Coleo e che faceva vela verso l’Egitto, fu dal vento dirottata verso quest’isola di Platea e i Sami, da Corobio informati di tutta la questione, gli lasciarono viveri per un anno ... Da questo gesto di Coleo ebbe origine l’amicizia a tutta prova che lega gli abitanti di Cirene e di Tera a quelli di Samo. Intanto, i Terei che, lasciato Corobio nell’isola, erano tornati in patria, riferirono che avevano preso possesso d’un’isola presso la Libia. Decisero allora i Terei di mandare colà degli uomini, tratti da tutti i distretti (che erano sette) in ragione di un fratello su due, designato dalla sorte, e che avrebbero avuto Batto come capo e re. E così essi inviarono a Platea due navi a 50 remi. Versione dei Cirenei: ...il resto del racconto ormai coincide con ciò che dicono quelli di Cirene; poiché, per quel che riguarda Batto, i Cirenei non vanno assolutamente d’accordo con i Terei: essi, infatti, la raccontano così. C’è nell’isola di Creta la città di Oasso, su cui allora regnava Etearco, il quale, siccome aveva una figlia di nome Fronima, rimasta senza madre, per lei sposò un’altra donna. Ma costei, introdottasi nella sua casa, pensò di dover essere, per Fronima, matrigna non solo di nome, ma anche di fatto, infliggendole ogni umiliazione e macchinando contro di lei inganni d’ogni sorta; alla fine, accusandola di dissolutezza, convinse il marito che ciò che diceva era vero. Quello, persuaso dalla moglie, tramò contro la figlia un empio disegno. C’era in Oasso un mercante di Tera, che si chiamava Temisone; Etearco, avendolo invitato a banchetto come ospite, gli fece giurare che senz’altro gli avrebbe reso il servigio di cui lo pregava. Quando l’ebbe legato a sé con giuramento, fece venire la propria figlia e lo pregò che la portasse fuori dal paese e l’affogasse in mare. Temisone, allora, sdegnato per l’inganno con cui gli era stato strappato il giuramento, rotto ogni legame di ospitalità, si comportò in questo modo: presa con sé la fanciulla, sciolse le vele; quando poi fu in alto mare, per liberarsi dal vincolo del giuramento fatto ad Etearco, la legò con delle funi e la fece calare in mare; ma poi, tiratala su di nuovo, se ne andò a Tera. In seguito Polìmnesto, uomo che godeva di prestigio fra i Terei, presa Fronima con sé, la tenne come sua concubina. Col passare del tempo, ne nacque un figlio, difettoso nel parlare e balbuziente, al quale, secondo i Terei e i Cirenei, fu posto il nome di Batto... Infatti, quando fu uomo maturo se ne venne a Delfi per consultare l’oracolo sul proprio difetto di pronuncia; ma alla sua domanda la Pizia diede questa risposta: «O Batto, sei venuto per la tua voce, ma il signore Febo Apollo ti manda a fondare una colonia nella Libia, nutrice di greggi.» ... Quello allora replicò: «O signore, io sono venuto a te per consultarti sulla mia pronuncia difettosa; tu, invece, mi rispondi tutt’ altra cosa, impossibile a farsi, ordinandomi di colonizzare la Libia: con quali mezzi? Con quali compagni?». Ma pur dicendo così, non riuscì a convincere la Pizia che gli desse un altro responso; ora, siccome quella ripeteva lo stesso vaticinio di prima, Batto, lasciatala nel bel mezzo, se ne tornò a Tera. In seguito, per lui e per gli altri Terei fu un continuo susseguirsi di malanni e i Terei, che non sapevano spiegarsene la ragione, mandarono a Delfi per interrogare il dio sui mali che li opprimevano. La Pizia rispose loro che avrebbero avuto sollievo dalle sventure se, insieme con Batto, avessero fondato Cirene in Libia. In conseguenza di ciò, essi fecero partire Batto con due navi a 50 remi. Questi, però, giunti che furono in Libia, poiché non avevano altro da fare, se ne tornarono nuovamente a Tera. Ma quando stavano per approdare, i Terei li presero a colpi di pietra, non permisero che s’accostassero a terra e imposero loro di riprendere il mare. Così, costretti con la forza, invertirono la rotta e colonizzarono un’isola che si trova sulla costa della Libia, quella che, come s’è detto precedentemente, si chiama Platea. E si dice che quest’isola abbia un’estensione pari a quella che ha attualmente la città di Cirene. L’abitarono per due anni; ma poi, visto che non c’era nulla che riuscisse favorevole, lasciato colà uno di loro, tutti gli altri fecero vela verso Delfi: giunti alla sede dell’oracolo, lo consultarono, facendo notare che essi abitavano bensì la Libia, ma le loro cose non andavano, per questo, meglio. A tali rimostranze la Pizia rispose così: «Se tu, pur non essendoci stato, conosci la Libia, nutrice di greggi, meglio dì me, che ci sono andato, io sono molto ammirato della tua sapienza.» Udite queste parole, Batto e i suoi ripresero di nuovo la via del ritorno. Era chiaro, infatti, che il dio non li riteneva assolti dall’obbligo della colonia, se prima non giungevano nella Libia propriamente detta. Arrivati all’isola e preso il compagno che v’avevano lasciato, colonizzarono nella Libia stessa, proprio di fronte all’isola, una località che si chiamava Aziri: da due parti la chiudono splendide colline, ricche di boschi, e, da un lato, un fiume che le scorre accanto. In questo luogo abitarono per sei anni; ma al settimo, i Libici avendoli scaltramente lusingati che li avrebbero condotti in un luogo migliore, li persuasero a lasciarlo. Toltili, quindi, di là, i Libici li condussero verso occidente e, per evitare che i Greci, attraversando la regione più splendida, vi lasciassero gli occhi, avendo calcolato il cammino in modo che coincidesse con la durata del giorno, ve li fecero passare di notte: è questa la regione che si chiama Irasa. Li condussero, quindi, presso una sorgente che si diceva sacra ad Apollo e dissero: «O uomini di Grecia, è qui che vi conviene abitare; poiché qui il cielo è forato». La storia che abbiamo ora letto doveva essere quella già codificata nella tradizione ufficiale sia di Tera, la città madre, sia di Cirene, la colonia. La versione dei Terei che organizzarono la spedizione è ricca di dati tecnici, concreta, «storica». Quella dei Cirenei è più fiabesca e folclorica, obbedisce cioè all’esigenza di nobilitare le origini della colonia avvolgendo, in particolare, il fondatore Batto nella nebbia del mito. La versione di Tera inizia con la consultazione dell’oracolo delfico: a Grinno la Pizia chiede di fondare una colonia in Libia e indica prima lui e poi Batto come ecista della futura colonia. Nessuno però sa dove si trova la Libia, per cui il progetto non viene realizzato. Arriva l’immancabile castigo: sette anni di siccità che richiamano i biblici anni delle sette vacche magre. I Terei riconsultano l’oracolo chiedendo la fine del castigo e ottengono nuovamente l’ordine di fondare la colonia in Libia. A questo punto non hanno scelta. Segue una fase operativa: si cerca a Creta un uomo che conosca le coste africane. E un pescatore di murici che forse vende a qualche manifattura per la tintura della porpora. Pagato adeguatamente, l’uomo accetta di fare da guida a un piccolo gruppo di esploratori che scelgono il posto: un’isoletta di nome Platea («Larga»), prospiciente la costa, che ben si presta alla realizzazione dell’insediamento. Quindi lo lasciano sul posto come un Robinson Crusoe ante litteram con viveri per alcuni mesi, e tornano a Tera a riferire. Il poveretto, esaurite le scorte, morirebbe di fame se una nave samia, probabilmente in viaggio verso Gibilterra lungo la rotta già battuta dai Fenici, non vi facesse scalo lasciandogli viveri per un anno. Intanto a Tera si prepara la spedizione: i componenti sono scelti per sorteggio, uno per ogni famiglia che abbia due figli maschi, in ciascuno dei sette distretti in cui l’isola è divisa. I prescelti vengono imbarcati su due penteconteri e fatti salpare. La versione dei Cirenei, come sappiamo, racconta i fatti dal punto di vista dei coloni. L’origine del fondatore è resa fiabesca dalla classica storia della ragazza odiata dalla matrigna che convince il marito a farla uccidere: il richiamo a Biancaneve per noi è inevitabile. In questa tradizione era consolidato l’aneddoto del fondatore che si reca a Delfi per ottenere un responso sulla propria balbuzie e al quale viene invece ingiunto di fondare una nuova colonia. Anche la risposta è classica, la stessa che diede Mosè, lui pure balbuziente, a Dio che gli imponeva di portar fuori Israele dall’Egitto «Come farò, Signore, con quali mezzi?». La cosa più interessante per noi è che, in ogni caso, c’è un oracolo delfico alla base dell’avventura. Abbiamo già detto che il santuario doveva essere una sorta di banca dati, probabilmente uno dei maggiori serbatoi di conoscenze esistenti in tutto il Mediterraneo. È il dio in persona (ossia i sacerdoti) a rivendicare queste conoscenze: «Se tu, pur non essendoci stato, conosci la Libia, nutrice di greggi, meglio di me, che ci sono andato, io sono molto ammirato della tua sapienza». Ma non solo: si rendeva evidentemente necessario impostare l’avventura coloniaria come un fatto sacro, un compito a cui era impossibile sottrarsi, voluto dagli dei. Batto espone più volte le sue ragioni al dio ma ottiene sempre la stessa risposta. Poiché è una risposta che non gli piace, decide di interrompere la consultazione, insomma di fare uno sgarbo al dio. Reiterare un’interrogazione al dio, nella speranza di ottenere una risposta diversa e più favorevole, faceva parte della procedura ammessa dai sacerdoti e in qualche caso funzionava. Il postulante otteneva una risposta migliore e se ne andava soddisfatto o, comunque, un po’ rincuorato. È quanto accadde agli Ateniesi che, nel 481 a.C, avendo chiesto al dio se dovevano o no opporre resistenza all’invasione persiana, avevano ottenuto una risposta così catastrofica che non osavano tornare a casa a riferirla. Un tale, che passava nei pressi e li vide così abbattuti, consigliò loro di chiedere al dio una risposta migliore minacciando altrimenti di lasciarsi morire di fame sulla soglia del santuario. La nuova risposta fu quella famosa del «muro di legno» che avrebbe salvato Atene e la Grecia e che diede a Temistocle il pretesto per costruire una potente flotta da battaglia. (Erodoto, VII 140-141). Ma torniamo alla storia di Batto. L’aver ignorato un comando del dio non rimase cosa impunita, e poco dopo sia Batto sia i suoi concittadini vennero colpiti da non meglio precisate sventure, che vanno forse identificate con i sette anni di siccità della versione terea. Non possiamo però escludere che l’espressione adombri anche turbolenze o disordini che forse accompagnarono la carestìa. L’oracolo è nuovamente interrogato e a Batto non rimane che partire. Per il resto, a detta dello stesso Erodoto, le due versioni sostanzialmente concordano, ma è interessante notare, nella versione dei Cirenei l’episodio impressionante dei coloni che, tornati a Tera per non essere riusciti nel loro tentativo di insediare la colonia, vengono cacciati a sassate dai compatrioti e costretti a riprendere il mare. Si tratta di un particolare drammatico che i Cirenei non possono dimenticare e che invece i Terei hanno censurato nella loro versione considerandolo evidentemente imbarazzante. In realtà un comportamento tanto spietato, e così difficile da capire per noi moderni, era invece perfettamente legittimo e rispondente alla altrettanto spietata legge della sopravvivenza. A questo proposito una preziosa testimonianza, di fatto unica nel suo genere, è costituita dall’iscrizione su marmo con cui i Cirenei ricordarono il giuramento pronunciato dai loro antenati al momento della partenza dalla madrepatria. Il testo è impressionante e vale la pena di riportarlo integralmente (R. Meiggs-D. Lewis, A Selection of Greek Historical Inscriptions to the Fifth Century B.C., 5, Oxford 1988 2): Fu deciso dall’assemblea. Poiché Apollo ha spontaneamente profetizzato a Batto e ai Terei di colonizzare Cirene, i Terei decidono che sia mandato Batto in Libia come guida e re; che i Terei salpino come suoi compagni; che essi salpino in base a una selezione egalitaria, secondo la famiglia; che un figlio sia scelto tra ogni famiglia; che partano gli adulti e ogni altro Tereo libero che lo voglia parta. Se i coloni fondano la colonia ciascuno dei loro concittadini che in seguito parta per la Libia partecipi della cittadinanza e degli onori e gli sia data una porzione di terreno non ancora assegnato. Ma qualora non riescano a fondare la colonia e i Terei non siano in grado di aiutarli ed essi soffrano per l’indigenza per cinque anni, partano da quella terra senza paura per tornare a Tera, e riabbiano i loro beni e la cittadinanza. Colui che non voglia partire malgrado la città lo abbia inviato, sia passibile della pena di morte e i suoi beni siano confiscati. Colui che lo accolga o gli dia rifugio, che si tratti del padre nei confronti del figlio o del fratello nei confronti del fratello, subisca le stesse pene di chi non vuole partire. A queste condizioni fecero dei giuramenti, quelli che rimanevano e quelli che salpavano per andare a fondare la colonia, e lanciarono delle maledizioni contro chi contravvenisse a questi patti e non vi rimanesse fedele, sia che si trattasse di quelli che vivevano in Libia, sia di quelli che rimanevano in patria. Foggiate delle statuine di cera le bruciarono lanciando tutti le seguenti maledizioni, radunati uomini, donne, fanciulli e fanciulle: «Colui che non rimanga fedele a questi giuramenti, ma vi contravvenga, possa liquefarsi e dissolversi come queste statuine, lui e la sua stirpe e i suoi beni. Per coloro che rimangono fedeli a questi giuramenti, sia quelli che partono per la Libia, sia quelli che rimangono a Tera, vi siano beni in abbondanza, per loro e per i loro discendenti». Dall’analisi di questa epigrafe possiamo dedurre una ricca messe di informazioni: 1. La madrepatria, retta a monarchia, secondo la testimonianza di Erodoto, impone di fatto la stessa forma istituzionale alla colonia che sarà pure una monarchia. 2. Chi, sorteggiato per la partenza, si rifiuta, è passibile della pena di morte e così pure chiunque, si tratti pure del padre o dei fratelli, gli dia ricetto o lo nasconda. La partenza è invece facoltativa per chiunque altro voglia unirsi alla spedizione. 3. Una volta fondata la colonia chiunque può, in seguito, raggiungerla e in tal caso avrà diritto alla cittadinanza e a un lotto di terreno non ancora assegnato. 4. Se, dopo cinque anni, non sarà stato possibile dar vita alla nuova colonia, i coloni potranno far ritorno e saranno riaccolti con dignità di cittadini e reintegrati nei loro beni. Il giuramento si conclude con le maledizioni di rito per gli spergiuri e con la distruzione dei feticci che li rappresentano. Sono concordi le notizie in nostro possesso concernenti la consistenza della colonia, che appare sorprendentemente ridotta: furono sufficienti a trasportare gli avventurosi due sole penteconteri. Erano, queste, navi da guerra con venticinque rematori per ogni murata. Non avevano ponte e disponevano forse soltanto di un gavone di prua e uno di poppa. Difficile pensare che vi fosse gran posto a bordo per altri passeggeri, tanto più che i gavoni dovevano servire a custodire armi, attrezzature e cibo. Se prendiamo per buone le parole di Erodoto, dobbiamo considerare che la prima spedizione dei Terei si avvalesse di circa centocinquanta-centosessanta uomini, un numero effettivamente esiguo ma tuttavia sufficiente a dare vita a una comunità se fosse giunto a destinazione senza perdite. L’uso delle penteconteri, ossia di veloci navi da guerra anziché di più stabili e capaci ma più lenti mercantili, doveva essere motivato dalla presenza di pirati nelle acque dell’Egeo orientale. In questo caso non c’erano pesi morti a bordo oltre lo stretto indispensabile. Ogni uomo era passeggerorematore e anche fante di marina se necessario. È tuttavia probabile che in caso di emergenza vi fosse un gruppo a bordo esclusivamente destinato al combattimento. Non si potevano infatti, almeno nelle prime fasi dello scontro, distrarre uomini dalla voga per non azzoppare la nave. Infine l’uso di navi da guerra per la spedizione consentiva agli stessi coloni la pratica della pirateria e del saccheggio delle coste durante il lungo viaggio. Non sappiamo perché la prima spedizione non riuscì a mettere radici; il racconto erodoteo è a questo proposito molto stringato e possiamo solo ipotizzare le cause del fallimento: forse i coloni incontrarono resistenza, forse si spaventarono per l’inospitalità dei luoghi, forse si resero conto che non avrebbero potuto procurarsi per l’anno successivo quantità sufficiente di cibo e di acqua potabile. Sta di fatto che pensarono di tornarsene a casa. Ma non c’era più casa per loro: una volta che una spedizione era partita, la madrepatria la considerava separata da sé e non più riaccettabile nel suo seno. Come abbiamo visto, i coloni che tentavano di attraccare vennero presi a sassate e costretti a riprendere il mare. Non è un evento di poco conto: erano i padri e i fratelli stessi di quei poveretti che li lapidavano! La versione dei Cirenei racconta poi di un secondo tentativo fallito di colonizzazione dell’isoletta di Platea, quindi di un terzo tentativo sulla terraferma durato sei anni, e finalmente dell’insediamento definitivo in una località più occidentale mostrata loro dagli indigeni. Là sarebbe sorta finalmente Cirene. Analizzando il testo del giuramento abbiamo appreso i termini giuridici e polìtici connessi alla fondazione della colonia; se ora noi assembliamo le due versioni riportate da Erodoto sull’impresa coloniaria dei Terei e le depuriamo degli elementi fantastici e favolosi, possiamo ottenere una sorta di scaletta, assai verosimile, di tutte le fasi operative di deduzione di una colonia: 1. Una delegazione della città consulta l’oracolo di Delfi che nomina un ecista quasi certamente su indicazione dei maggiorenti della città stessa. 2. In caso di resistenza della popolazione a effettuare la spedizione coloniaria, ogni evento di tipo negativo (siccità, carestie, tumulti) viene attribuito all’indignazione del dìo per la disubbidienza. 3. Si cerca una guida esperta dell’area in cui si pensa di dedurre la colonia e le si affianca un piccolo gruppo dì esploratori. Il loro compito è quello di effettuare un sopralluogo e individuare un sito capace di accogliere il gruppo che vi si dovrà insediare. 4. Vengono scelti i coloni nel modo più equo e imparziale possibile: da tutti i distretti cittadini, nessuno escluso, e poi famiglia per famiglia, per sorteggio. È molto probabile che il sorteggio colpisse anche le famiglie abbienti; in caso contrario l’ira dei poveri sarebbe esplosa in modo incontrollabile. Coloro che provenivano dalle famiglie più in vista avrebbero poi costituito la nuova aristocrazia coloniaria e affiancato probabilmente l’ecista nella sua opera di governo. Il fatto che a Pitecusa sia stata rinvenuta la ben nota coppa con l’iscrizione che si riferisce a un episodio dell’Iliade dimostra che in ambito coloniario esistevano anche persone di alto livello sociale e culturale. 5. Il primo insediamento è collocato su un’isoletta prospiciente la costa, probabilmente per motivi di sicurezza. È anche il caso di Pitecusa e, per quanto concerne le colonie fenicie, di Cadice e di Lixus. 6. L’insediamento definitivo è collocato sulla terraferma, dietro accordo con le popolazioni locali. Ci si è chiesti, a proposito di questo caso specifico, dove si trovasse il luogo del primo insediamento dei Terei, ossia l’isoletta di Platea. Non esistono isole di fronte alla costa cirenaica per tutto l’arco che si estende fra Derna e Bengasi. E posto che, per esplicita ammissione di Erodoto, Cirene sia stata fondata in una località situata a ovest (ma non specifica quanto) dell’isola di Platea, si dovrà cercare l’isola a oriente di Cirene. La candidata più verosimile per questa identificazione è l’isola di Al Marakib, una trentina di chilometri a sud del promontorio di Al Bunbah, l’unica in tutta l’area cirenaica abbastanza grande da ospitare una colonia e abbastanza vicina alla costa, piatta e sufficientemente estesa da meritare il nome di Platea. Inoltre il golfo di Al Bunbah, ancora oggi ricordato in talune carte geografiche come «golfo di Menelao», ci richiama alla mente una frequentazione lacedemone che ben si concilia con la presenza di un insediamento di Te-rei, coloni di origine laconica. Anche qui ci troviamo di fronte a un aspetto culturale importante, derivato dalla tradizione dei poemi omerici (in particolare il IV libro dell’Odissea dove Menelao racconta la propria avventura in Africa) che dimostrerebbe, come nel caso della coppa di Pitecusa, la presenza di gente colta tra i fondatori della colonia terea in terra africana. Il primo insediamento in terraferma, denominato Aziri, corrisponde all’incirca alla zona di Al Tamimi, a una ventina di chilometri a nordovest dell’isola di Al Marakib dove c’è una certa disponibilità d’acqua per il confluire del Wadi Shiqqah e del Wadi Mu’allak e dove la ricerca archeologica ha individuato resti di ceramica riferibili a questo periodo. Questa zona, oggi arida e inospitale, è distante dall’insediamento definitivo di Cirene circa centosessanta chilometri, una distanza non proibitiva, percorribile, in fondo, in una settimana di marcia. Un’ultima domanda verrebbe da porsi concludendo il commento dei passi erodotei che abbiamo prima citato: a che cosa alludeva il vaticinio delfico quando diceva: «Se tu, pur non essendoci stato, conosci la Libia, nutrice di greggi, meglio di me, che ci sono andato»? Si potrebbero forse interpretare quelle parole come l’effetto di una ricognizione diretta dei sacerdoti delfici o di loro inviati sul luogo in cui la colonia doveva essere dedotta? L’ipotesi è forse troppo audace ma non possiamo comunque escludere che il santuario possedesse nozioni geografiche importanti accumulate fin dagli anni delle prime esplorazioni della costa africana. In questo senso, forse, il dio poteva dire di essere stato in Libia. Ma può anche darsi che l’espressione si riferisse a un qualche arcaico luogo di culto dedicato al dio dai più antichi frequentatori di quelle coste. Sta di fatto che il culto di Apollo fu tra i più importanti e prestigiosi nella città di Cirene. Quella della colonizzazione di Cirene non è l’unica migrazione che Erodoto descrive. Lo storico di Alicarnasso racconta anche della migrazione dei Tirreni (ossia degli Etruschi) in Italia. Sappiamo bene che l’episodio non si configura come un evento riconoscibile a livello storico e che l’origine del popolo etrusco è vista oggi come un fenomeno molto complesso e diluito in un lungo periodo di tempo. È comunque interessante la parte finale del racconto erodoteo (I, 94) per gli aspetti tecnici che, evidentemente, dovevano essere tipici di ogni impresa coloniaria: Ma poiché il male [cioè la carestia] non diminuiva, anzi infuriava ancora di più, il re, divisi in due gruppi tutti i Lidi, ne sorteggiò uno per rimanere, l’altro per emigrare dal paese e a quello dei gruppi cui toccava di restare lì si mise a capo lui stesso come re, all’altro che se ne andava pose a capo suo figlio, che aveva nome Tirreno. Quelli di loro che ebbero in sorte di partire dal paese scesero a Smirne e costruirono navi e, posti su di esse tutti gli oggetti mobili che erano loro utili, si misero in mare alla ricerca di mezzi di sostentamento e di terra, finché, oltrepassati molti popoli, giunsero al paese degli Umbri. Anche qui abbiamo un evento drammatico - una carestia che dura per diciotto anni consecutivi - all’origine della spedizione coloniaria. La constatazione che le risorse non sono più sufficienti induce a dimezzare la popolazione maschile che viene sorteggiata come nel caso di Tera. Un breve accenno è poi fatto alla costruzione di una flotta e all’imbarco di tutte le attrezzature necessarie. È anche interessante l’accenno al fatto che «si misero in mare alla ricerca di mezzi di sostentamento e di terra», perché probabilmente con «mezzi di sostentamento» si deve intendere quanto i migratori potevano racimolare lungo il viaggio praticando il saccheggio degli insediamenti costieri inermi o scarsamente difesi, e la pirateria a danno dei mercantili che battevano la stessa rotta. La descrizione virgiliana della migrazione dei Troiani, guidati da Enea verso l’Italia, è troppo lontana da eventi storici similari perché possa essere utile alle nostre considerazioni: l’interesse che l’Enéide riveste per noi è limitato al recupero che Virgilio fa della tradizione dei nostoi, ossia della memoria epica legata alla più antica penetrazione dei marinai greci nelle acque dei mari occidentali. Inverosimile è la partecipazione delle donne alla spedizione, ed è, anzi, proprio la tradizione dei nostoi - dove gli eroi sposano principesse indigene - a contrastare con questa ipotesi narrativa. Enea che sposa Lavinia, Diomede che sposa la figlia del re Dauno non sono probabilmente altro che la memoria mitica dei matrimoni misti fra colonizzatori e donne indigene. Per quanto concerne la partecipazione delle donne alle imprese coloniarie non fa testo la migrazione focese ad Aleria perché si trattò di un esodo obbligato di massa; né fa testo la loro partecipazione, comprovata dalle fonti, alla fondazione di Crotone perché non sappiamo quante erano e soprattutto perché se ne parlò anche nell’antichità come di un’eccezione. Inoltre, pur considerando l’economia demografica, è assai improbabile che una comunità giudichi troppo elevato il numero delle donne e le selezioni per l’allontanamento. L’uso della poligamia, sebbene sotto forme velate come il concubinaggio ancillare (ricordiamo l’esempio di Fronima, la mitica madre di Batto), faceva sì che raramente esse fossero ritenute in eccesso nelle comunità antiche. I coloni quindi partivano anche con questa spada di Damocle sulla testa: se non fossero riusciti a trovare delle spose, tutti i loro sforzi e i loro sacrifici sarebbero andati perduti, il loro gruppo disperso, il loro sogno di una patria e di una famiglia dissolto. III. LA SPEDIZIONE Il trasferimento di un gruppo umano teoricamente autosufficiente a migliaia di chilometri di distanza con un viaggio via mare era, agli inizi dell’VIII secolo a.C, un’impresa assolutamente straordinaria e, di fatto, unica. Nessun popolo mediterraneo aveva mai osato tanto. A dire il vero la tradizione mitica riferisce che le più antiche colonie fenicie in Occidente, tra cui Utica e Cadice, sarebbero state fondate poco dopo la guerra di Troia, ma gli ultimi scavi in queste località non hanno fino a ora rivelato alcuno strato anteriore al VII secolo, per cui, allo stato attuale delle nostre conoscenze, dobbiamo ritenere che le imprese coloniarie di Pitecusa e Cuma siano le più antiche mai realizzate. Nella seconda metà del II secolo a.C, e cioè cinque secoli dopo i fatti di cui stiamo parlando, quando Cartagine era ormai stretta nella morsa delle armate romane di terra e di mare, circolò la voce (forse non del tutto infondata) che i Cartaginesi meditavano di trasferire tutta la popolazione, uomini, donne, vecchi e bambini con le loro suppellettili, oltre le colonne d’Ercole verso un misterioso arcipelago atlantico per evitare l’annientamento. L’impresa, che aveva il precedente - unico - della migrazione focese ad Aleria, era ovviamente impossibile più che disperata e le fonti contemporanee, fra cui Diodoro Siculo nella sua Biblioteca storica (V,), considerarono che solo la presunzione cartaginese in fatto di abilità ed esperienza di navigazione consentisse loro anche solo di immaginare un’impresa di quelle proporzioni: Ritenevano infatti, quali signori del mare, di essere in grado, con le masserizie e ogni altra cosa, di raggiungere un’isola completamente sconosciuta. Cerchiamo ora, in qualche modo, di salire a bordo delle navi che salpavano e di percorrere insieme ai coloni l’avventuroso viaggio verso la nuova patria, senza concedere nulla alla fantasia da un lato ma cercando, dall’altro, di raffigurarci condizioni di vita e ambientali che sono ormai molto lontane dalla nostra mentalità. Selezionati coloro che dovevano partire, le autorità cittadine mettevano probabilmente a disposizione tutto quanto era indispensabile per la spedizione. Anzitutto le navi. A quei tempi esistevano due tipi di navi: il mercantile e la nave da guerra. La nave mercantile aveva probabilmente una storia più lunga e consolidata e le sue caratteristiche tecniche e idrodinamiche, al momento in cui ebbero inizio le imprese coloniali, erano il risultato di un’esperienza ormai antica. Ci limitiamo qui, per fornire un’idea significativa di questo tipo di vascello, a ricordare il relitto di Ulu Burun ritrovato da George F. Bass a 50 metri di profondità poco a ovest del capo Chelidonio in Anatolia fra il 1982 e il 1987. Lungo circa 17 metri, il mercantile di Ulu Burun trasportava un carico di estrema importanza e la sua perdita, forse causata da una tempesta, dovette costituire un danno gravissimo per gli armatori. A bordo infatti furono rinvenuti duecento lingotti di rame dalla caratteristica forma «a pelle di bue» (ma si dovrebbe dire più propriamente «a barella», perché le quattro protuberanze erano manici per facilitare il trasporto), per un totale di ben 6 tonnellate. C’erano inoltre lingotti di stagno tutti del peso di 60 libbre ciascuno (ca 27 kg), equivalenti a un talento, una cinquantina di anfore del tipo «cananeo» piene di resina profumata, quattro grandi pythoi, lingotti di pasta di vetro azzurra e tronchi di legno esotico, probabilmente ebano di provenienza africana. A prua furono trovate inoltre sedici ancore di pietra. Molti erano gli oggetti preziosi, prevalentemente stivati a poppa: due spade di bronzo, una cananea di tipo egittizzante e una micenea, punte di lancia e di freccia, vasellame miceneo, gusci di uova di struzzo forse in origine decorati, e avorio. Il pezzo più prezioso era una coppa in lamina d’oro a forma di doppio cono, di fattura molto fine e probabilmente eseguita per un destinatario di altissimo rango [vedi inserto]. La parte superiore dello scafo era andata distrutta, ma la parte inferiore che giaceva sotto il carico ha potuto essere recuperata e studiata rivelando una tecnica costruttiva assai evoluta del tipo a fasciame legato da tenoni e mortase. Dall’analisi del carico (che comprendeva ambra del Baltico e stagno dell’Afghanistan) si è potuti risalire alla fitta rete di connessioni commerciali che univa regioni anche molto distanti del Mediterraneo e dell’entroterra, dimostrando che il commercio via mare fra il XIV e il XIII secolo a.C. (tale è la datazione del relitto) era in una fase di pieno sviluppo. Ignota è la «nazionalità» del vascello, ma le ipotesi oscillano tra un’origine cananea e una micenea o cipriota. Un mercantile dell’età del ferro non era molto diverso da quello che abbiamo descritto. Aveva una velatura quadrata proporzionata alla stazza, con un albero maestro e un pennone prodiero e una dotazione di remi per le manovre di entrata e uscita dal porto. I timoni erano costituiti da due remi laterali collegati da una barra sul castello di poppa. Queste navi, costruite in fasciame di pino e di quercia, erano in grado dì navigare con qualunque tempo e, per la loro buona tenuta del mare, anche di notte, ma erano molto vulnerabili a causa dello sfavorevole rapporto tra la quantità delle merci imbarcate e la consistenza dell’equipaggio che, a ogni buon conto, era pur sempre disposto a imbracciare le armi in caso di necessità, come ben si vede nel famoso cratere di Aristonoo conservato presso i Musei Capitolini [vedi inserto]. Le navi da guerra più diffuse erano sostanzialmente di due tipi: una con venti rematori, lunga poco più di una decina di metri e larga poco meno di tre; l’altra, la già menzionata pentecontere, che disponeva di cinquanta rematori, venticinque per parte, era lunga probabilmente 25 metri e larga forse 4. Un vaso geometrico del British Museum ritrovato nei pressi di Tebe e risalente all’VIII secolo, ossia all’epoca delle prime deduzioni coloniarie, rappresenta quasi certamente una di queste navi [vedi inserto]. La mancanza del senso di prospettiva fa sì che le due file di rematori appaiano sovrapposte l’una all’altra ma in realtà si devono immaginare affiancate. I rematori sono seduti sui banchi rivolti verso poppa e hanno di fronte il timoniere che siede nel castello di poppa impugnando la barra. È molto probabile che il timoniere svolgesse anche la funzione di comandante dell’equipaggio: egli si distingue infatti dai rematori per l’abbigliamento (indossa un chitone, ossia una corta tunica, con le maniche corte) e per il fatto che dispone di una sorta di alloggiamento. Le murate appaiono aperte, probabilmente per evitare che, in caso di mare al traverso, la fiancata offrisse troppa resistenza, ma questo implica anche che gli uomini erano esposti in continuazione agli spruzzi delle onde. La prua è alta, per fendere meglio il mare, e si prolunga nel rostro appuntito che a quei tempi era forse di legno rinforzato con un puntale di bronzo. Sul castello di prua si innalza una polena a forma di testa di cigno o di serpente. Dalla parte della poppa, a terra, si distinguono due figure, una maschile e l’altra femminile, di statura molto più alta del normale per cui si presume che rappresentino un eroe che saluta la sua sposa nel momento di imbarcarsi, oppure che riceve la benedizione di una dea. La figura femminile infatti regge nella mano destra una corona che potrebbe essere interpretata come un attributo divino. I timoni poppieri, per la loro funzione sterzante, hanno pale molto più grosse di quelle dei remi, ma bisogna tenere presente che il braccio di leva di questi strumenti era estremamente svantaggioso perché la resistenza non era in alcun modo demoltiplicata e di fatto il nocchiero doveva contrastare direttamente la forza del mare con le sue sole energie e grazie alla sua abilità e alla sua esperienza. L’unico modo per rendere almeno in parte vantaggioso il braccio di leva consisteva nell’allontanare il più possibile il punto di applicazione della potenza (cioè l’impugnatura del remo) dal fulcro (ossia dallo scalmo), e a tale scopo il castello di poppa doveva essere notevolmente più elevato del livello dei banchi di voga, cosa non direttamente percettibile in questo disegno per i problemi di prospettiva di cui si diceva. Un altro frammento di cratere geometrico, conservato al Louvre, mostra la prua di una nave da guerra simile alla precedente ma più elaborata [vedi inserto]. Sembra qui evidente la presenza di una sorta di gavone o alloggiamento prodiero che riceve luce da un oblò raggiato. Davanti alla nave si vede una distesa di corpi galleggianti rappresentati in modo abbastanza realistico. Uno di essi è passato da parte a parte da un giavellotto all’altezza della cintura. Nella ricostruzione realizzata dal Casson [vedi inserto] si può osservare la tecnica costruttiva a tenoni e mortase e un accenno di tavolato di ponte. Interessante è inoltre la resa dell’aplustre, che sembra derivato direttamente dai fasci di fibra che concludevano a prua e a poppa sia le navi egiziane di papiro sia quelle mesopotamiche di giunco. Può trattarsi di una eredità «culturale» filtrata dai Fenici che furono, se non gli inventori, certamente fra i primi ad adottare la struttura a fasciame con tenoni e mortase, già affermata fin dall’età del bronzo, come dimostra inequivocabilmente l’eccezionale relitto di Ulu Burun, di cui abbiamo già descritto la tecnica costruttiva. Altri due frammenti di ceramica geometrica provenienti dall’acropoli di Atene mostrano le murate di una nave da guerra forse a due ordini di remi sovrapposti. L’ordine inferiore, infatti, è parzialmente protetto da graticciati di canne o di vimini intrecciati. Come abbiamo detto, la struttura era quella a tenoni e mortase ma esistevano anche tecniche miste con cucitura del fasciame. Recentissimi sono la scoperta e lo scavo condotti dal Pommey a Place Jules Vernes a Marsiglia di una nave focea di pieno VII secolo. Si è trattato di uno scavo di emergenza motivato dalla realizzazione di un grande parcheggio sotterraneo, ma l’archeologo francese, sapendo che le ruspe lavoravano nell’area dell’antico porto greco, si era tenuto pronto a intervenire. Mentre scriviamo non è ancora uscita, a quanto ci risulta, la pubblicazione dello scavo. Le notizie sommarie che siamo qui in grado di riportare derivano dalla relazione che il Pommey ha tenuto al congresso di archeologia subacquea di Giardini-Naxos nel novembre del ‘94. La nave si rivelò un relitto abbandonato sulla banchina dell’antico porto, e i frammenti ceramici contestuali rivelarono la datazione sorprendentemente alta. Il relitto conservava ancora i segni di varie riparazioni effettuate sullo scafo e soprattutto rivelava l’impiego della tecnica mista: tenoni e mortase più cuciture del fasciame. Ci si trovava probabilmente di fronte a una fase di transizione tra la tecnica arcaica a cucitura e quella, più evoluta, a tenoni e mortase. La tecnica a cucitura, comunque, pratica ed economica, sopravvisse fino a epoche molto tarde, come testimonia il relitto della Fortuna Maris, la navìs sutilis romana del I secolo scavata recentemente da Fede Berti ed esposta in mostra a Comacchio. La nave di Marsiglia, ancora in fase di studio, costituisce un documento di importanza eccezionale in quanto risale alla generazione immediatamente successiva a quella dei primi coloni fondatori della città. In ogni caso la documentazione sia iconografica sia archeologica in nostro possesso è più che sufficiente per farci capire le condizioni di estremo disagio in cui dovevano operare i navigatori antichi. Al momento della partenza i coloni venivano probabilmente congedati con una cerimonia religiosa. Forse veniva consegnato loro il fuoco che ardeva sull’acropoli della città madre e un pugno della terra natia, dopo di che si issavano le vele e il nocchiero cominciava a governare conducendo le navi fuori dal porto e in mare aperto. La stagione era quella fra aprile e settembre, l’unica adatta per la navigazione antica, ma i periodi della primavera e quello fra estate e autunno erano i preferiti. E ancora una volta Esiodo (Opp., 660-682) a fornirci interessanti notizie: Tale invero è l’esperienza che ho fatto delle navi dai molti chiodi ... Cinquanta giorni dopo il solstizio [cioè alla fine d’agostol quando è giunta al termine la stagione dell’estate spossante, allora è tempo giusto per i mortali di mettersi in mare; allora tu non perderai in naufragio la nave, né il mare farà perire i tuoi uomini ... In quel tempo i venti sono costanti e il mare è sicuro; allora avendo fiducia nei venti, senza timore, tira al mare la nave veloce, e riponi dentro tutto il carico, ed affrettati a navigare di nuovo verso casa al più presto; non attendere il vino nuovo [primi d’ottobre] e la pioggia autunnale, e l’inverno che sopraggiunge e il soffio terribile di Noto, che sconvolge il mare ... Un’altra epoca esiste per gli uomini adatta alla navigazione primaverile: nel tempo invero in cui appare per primo all’uomo la foglia del fico sulla punta del ramo, tanto grande quanto l’orma che lascia camminando una cornacchia [i primi di maggio], allora il mare è navigabile. Chi si dirigeva verso lo Ionio o il Tirreno costeggiava le sponde orientali del Peloponneso in direzione sud finché raggiungeva capo Malea (Matapan), la punta più meridionale della penisola, molto pericolosa sia per le condizioni di vento e di mare, sia per i pirati, di solito appostati dietro l’isola di Citera. Lì bisognava virare e ridossarsi quanto prima dai meltemi, che soffiano spesso impetuosi da nord nell’Egeo durante la stagione estiva, e poi, se si era sfuggiti ai pirati, cercare di risalire la costa della Messenia in direzione di Zante e delle isole Ionie. Se si stringeva troppo sotto costa si rischiava di infrangere la chiglia contro gli scogli affioranti, se si passava troppo al largo c’era il pericolo di non riuscire a virare e, data la difficoltà delle navi antiche di strìngere il vento, di finire dritti sulle coste africane. Se giungeva sana e salva alle isole Ionie, la spedizione faceva probabilmente sosta per rifornirsi di cibo e di acqua, come vedremo più oltre in dettaglio, e poi ripartiva per la traversata in mare aperto del canale di Otranto, non di rado pericolosa per l’improvviso apparire di venti da nordest. La descrizione virgiliana della traversata di Enea da Butroto in Illiria alle coste pugliesi (Aen., III, 523 588.) è molto suggestiva, e il grido liberatore che erompe dal petto dei naviganti alla vista della terra italiana, bassa sul mare, riflette probabilmente lo stato d’animo non solo del poeta che quella traversata ebbe a fare personalmente, ma quello dei marinai di ogni epoca che nell’antichità solcarono le medesime acque. La navigazione proseguiva poi attraverso l’interminabile costa del golfo di Taranto (dove sorsero le colonie achee di Sibari e Crotone), per proseguire talvolta fino allo stretto di Messina. Di là si entrava nel Tirreno per prendere la direzione del golfo di Napoli o per raggiungere i più lontani lidi della Corsica o della Gallia. Chi invece si dirigeva a sud (come fu il caso dei coloni terei fondatori di Cirene) faceva una prima tappa a Creta, poi scendeva verso le coste africane con una lunga traversata in mare aperto giungendo direttamente sulle coste della Cirenaica. Di là, volendo, si poteva proseguire verso occidente spinti dalla corrente meridionale mediterranea fino allo stretto di Gibilterra. Fu questa la rotta di Coleo, il marinaio samio che sbarcò nell’isoletta di Platea salvando la vita a Corobio, la guida cretese lasciata dai Terei come presidio sull’isola di cui avevano preso possesso (Erodoto, IV, 152). È noto che gli antichi preferivano navigare in vista della costa, ma non è affatto vero che non sapessero navigare in mare aperto orientandosi con il sole e le stelle. Seguire la costa, comunque, presentava il vantaggio di poter mantenere più facilmente la rotta e di trovare un ricovero in caso di improvviso peggioramento del tempo. Quando si parla di navigazione in tempi tanto arcaici bisogna anche tenere presente, oltre all’impossibilità quasi totale di riposare a bordo, la mancanza pressoché assoluta di strutture d’appoggio come fari, segnalatori di secche o di scogli, e anche di porti. Le insenature naturali o, in mancanza di queste, le foci dei fiumi che fungevano da porto-canale, erano l’unico riparo per le navi in caso di pericolo. In una giornata di navigazione la spedizione copriva un centinaio di chilometri e abitualmente gettava l’ancora per la notte. Se in vista della costa c’era un’isola si preferiva questa, altrimenti si rischiava l’attracco in terraferma. Il nocchiero faceva virare di bordo, e quando la nave era prossima alla costa dava fondo all’ancora, poi metteva la prua al mare e arretrava di poppa fino a toccare terra e a mettere in tensione la cima. L’equipaggio scendeva armato e circospetto e alcuni formavano un semicerchio protettivo verso l’entroterra mentre altri conficcavano a terra due paletti a cui assicurare le cime che tenevano la poppa. Al primo accenno di pericolo gli uomini correvano ai banchi, recuperavano le cime e guadagnavano il mare aperto. Se la situazione era tranquilla la gente cenava e poi dormiva sulla spiaggia dopo aver messo delle sentinelle. La discesa a terra era resa necessaria dall’esiguo spazio per i rifornimenti esistente sulla nave. Bisognava attingere acqua di cui a bordo c’era grande dispendio per l’abbondante traspirazione causata dalla voga e per l’esposizione continua all’aria e al sole. E occorreva preparare il cibo e procurarsene di fresco. I coloni erano sempre gente esperta di mare e molto probabilmente durante la crociera e durante le soste praticavano la pesca, ma se capitava di saccheggiare un villaggio o qualche casolare isolato razziando donne e bestiame non si tiravano certo indietro. Questa era tuttavia un’arma a doppio taglio, nel senso che gli incursori potevano avere la meglio ma anche la peggio. Un paio di episodi esemplari sono descritti nell’Odissea. Uno descrive il primo sbarco di Ulisse dopo la partenza da Troia (IX, 39-61): Da Ilio il vento mi spinse e mi portò ai Ciconi / a Ismaro: lì saccheggiai la città, annientai gli abitanti. / Prendemmo le spose e molte ricchezze dalla città, / le dividemmo, perché nessuno partisse privato del giusto. / Io allora dissi che dovevamo fuggire con rapido piede, / ma quegli sciocchi non mi diedero ascolto. / Si bevve laggiù molto vino, molte greggi / sulla riva sgozzavano e buoi dal passo e dalle corna ricurve. / I Ciconi andarono intanto a chiedere aiuto ai Ciconi / che erano loro vicini, più numerosi e più forti / che nell’interno abitavano e sapevano battersi / con i nemici dal carro, e, dove occorreva, appiedati. / Arrivarono, come spuntano in primavera le foglie e i fiori, / al mattino: allora la mala sorte di Zeus fu a fianco a noi, / sciagurati, perché patissimo molti dolori. / Attaccarono battaglia presso le navi veloci / gli uni colpivano gli altri con le aste di bronzo. / Finché era ancora mattino e il sacro giorno cresceva / resistemmo, benché fossero più numerosi: / ma quando il sole raggiunse l’ora che fa sciogliere i buoi, / i Ciconi, sopraffatti gli Achei, li piegarono. / Perirono sei compagni dai saldi schinieri / per ogni nave, noi altri sfuggimmo alla morte e al destino. L’altro è un episodio fittizio inventato da Ulisse per Eumeo prima di rivelare la propria identità ma non meno significativo per il modo con cui è descritto (XIV, 257-272): Al quinto giorno all’Egitto bella corrente arrivammo, / nel fiume Egitto ancorai le navi ben manovrabili. / E là comandavo ai miei fedeli compagni / di rimanere presso le navi, di fare guardia alle navi, / e mandai esploratori in vedetta a esplorare. / Ma essi alla violenza cedendo, seguendo il loro furore, / subito i campi bellissimi degli Egiziani / saccheggiarono, le donne e i bambini lattanti rapivano, / uccidevano gli uomini; ma presto alla città giunse il grido. / E quelli, udito il grido, all’apparire dell’alba / arrivarono; s’empì tutta la piana di fanti e di cavalli / e del lampo del bronzo; e Zeus folgoratore / tra i miei gettò mala fuga: nessuno ebbe cuore / di sostenere la lotta, tutto era pericolo intorno. / Là molti dei miei m’uccisero con il bronzo affilato / altri con sé trascinarono vivi a lavorare per forza. Gli episodi descritti dal poeta dovevano essere relativamente comuni e facilmente riconoscibili dall’uditorio, atti di pirateria come se ne verificarono tanti nella storia millenaria del Mediterraneo, fino alle soglie dell’età moderna. Gli stranieri sbarcano all’improvviso cogliendo di sorpresa le popolazioni locali; prendono tutto quello che possono e poi se ne vanno. O almeno dovrebbero. Chi si attarda può subire la rappresaglia tanto più feroce degli indigeni. Le cronache narrano di un pirata turco che, ai primi dell’Ottocento, caduto nelle mani degli abitanti dell’isola greca di Paro, fu da questi, sue abituali vittime, arrostito a fuoco lento per oltre tre ore prima di morire. Si tratta di un episodio verificatosi alle soglie dell’età moderna, ma nell’antichità le cose dovevano andare non molto diversamente. Nel secondo brano che abbiamo sopra riportato, per esempio, i prigionieri vengono resi schiavi e costretti ai lavori forzati. È interessante notare in ambedue gli episodi dell’Odissea il particolare del rapimento delle donne, che non è detto fosse compreso nell’attività delle spedizioni coloniarie. È chiaro che i pirati rapivano le donne per poi rivenderle o chiederne il riscatto, ma per un gruppo di coloni le cose erano diverse. Come abbiamo già detto lo spazio a bordo di quelle navi era assai ridotto, e dunque il problema della compagnia femminile doveva verosimilmente essere rimandato al momento di insediarsi nella terra di destinazione, ammesso che ciò si verificasse. Ma non si può escludere che le donne venissero razziate e poi rivendute in un’altra località o scambiate con generi di necessità. Come si è detto, le insidie sul cammino della spedizione erano numerose: tempeste improvvise, attacchi di pirati, naufragi su secche o scogli affioranti, assalti di popolazioni rivierasche durante una sosta come risposta a un tentativo di razzia e, da ultimo, la reazione degli abitanti della terra da colonizzare. Fra tutti questi pericoli, quello rappresentato dalla pirateria merita un’attenzione particolare per l’estensione e la complessità del fenomeno. Su di esso torneremo nel prossimo capitolo. C’è poi da considerare il fatto che una prova tanto dura era destinata a falcidiare una parte considerevole dei migratori creando ulteriori difficoltà per la navigazione. Non a caso l’Odissea, nel passo sull’incursione nel paese dei Ciconi, quantifica le perdite degli Achei in relazione all’equipaggio di ciascuna nave. Queste perdite infatti creavano dei vuoti sui banchi di voga riducendo anche gravemente l’efficienza delle imbarcazioni. La lunga navigazione comportava anche la necessità di soste per le riparazioni, come quelle che si osservano nello scafo della nave massaliota scavata dal Pommey. I guasti più comuni consistevano nelle falle provocate dall’urto contro scogli affioranti, oppure, in caso di raffiche improvvise di vento e di mare, nella rottura di uno o ambedue i timoni, dell’albero e di un certo numero di remi o nella lacerazione della vela. A bordo c’era sicuramente il mastro d’ascia con la sua attrezzatura da taglio, con resina, stoppa e pece per la calafatura degli scafi, il velaio con aghi, spago e teli di scorta. In caso di viaggi molto prolungati è possibile che si dovesse effettuare anche la pulizia degli scafi da incrostazioni e proliferazioni di molluschi di vario genere per non compromettere la velocità dei natanti. Le riparazioni durante i viaggi potevano essere di grande entità. Abbiamo da Strabone testimonianza di un viaggio molto più tardo (circa metà del III secolo a.C.) del navigatore Eudosso di Cizico che addirittura, avendo fatto naufragio mentre risaliva la costa atlantica dell’Africa dalle latitudini equatoriali verso Gibilterra, smantellò il relitto e lo riassemblò in forma di pentecontere. È molto probabile che le navi trasportassero quantomeno le sementi delle piante alimentari da coltivare, mentre è meno verosimile che trasportassero animali domestici come capre, pecore e maiali con cui dare inizio, al loro arrivo, a un allevamento. Gli animali avrebbero creato confusione e problemi a bordo e avrebbero richiesto quantità supplementari di cibo e di acqua, sempre difficili da reperire. Non si può escludere però che ne venissero imbarcati all’inizio come riserva di carne fresca per le prime fasi del viaggio. A bordo della Fortuna Maris che, ripetiamo, è molto più tarda perché di età romana, sono state trovate ossa di animali (maiali, pecore) con chiari i segni della macellazione avvenuta a bordo: un simile uso poteva esistere anche ai tempi della colonizzazione arcaica. C’erano anche artisti a bordo, oltre ai tecnici? La tradizione narra che nella spedizione degli Argonauti era stato imbarcato anche il poeta Orfeo, ma stiamo parlando in questo caso del racconto mitico di una spedizione, non di una deduzione coloniaria. La nostra domanda, in ogni caso, non è oziosa se consideriamo l’importanza che ha avuto nell’Occidente coloniale la diffusione dell’Odissea omerica, le cui avventure, come abbiamo già avuto occasione di dire, furono riambientate nello Ionio e nel Tirreno dai marinai eubei. Per non parlare della famosa coppa di Pitecusa in cui si fa accenno a un passo dell’Iliade. Sappiamo che in questo stesso periodo si andava diffondendo l’alfabeto che i Greci avevano appreso dai Fenici, e forse proprio l’invio delle prime spedizioni coloniarie e la necessità per gli emigranti di portare con sé le proprie tradizioni culturali provocarono la prima messa per iscritto dei poemi omerici, fino a quel momento tramandati soltanto oralmente. Questo avrebbe evitato di trasportare materialmente al di là del mare il poeta in carne e ossa, autentico uomolibro: sappiamo comunque che ciò avvenne, almeno in un caso documentato dalla tradizione, quando i Corinzi, guidati da Archia, portarono con sé il poeta ciclico Eumelo, membro dell’aristocrazia cittadina (Pausania, Periegesi della Grecia, II, 1,1), diretti in Sicilia per fondare Siracusa. Nonostante l’impegno delle ciurme e l’abilità dei nocchieri, di sicuro molte spedizioni non ebbero successo. In alcuni casi gli uomini finirono preda dei pirati, in altri furono travolti dalle tempeste, in altri ancora, giunti a destinazione, furono annientati dalle popolazioni locali. Il frammento di un cratere tardogeometrico da Pitecusa [vedi inserto] ci mostra, impressionante, una scena di naufragio: la nave è rovesciata e tutt’ intorno galleggiano i cadaveri dei marinai mentre un grosso pesce spalanca le fauci per inghiottire la testa di uno di essi. È la rappresentazione realistica di un evento certo non raro; d’altra parte sia nell’Odissea omerica sia nelle Opere e i giorni di Esiodo la navigazione è sempre vissuta come un’attività assai rischiosa e il mare è comunque descritto con un certo timore reverenziale. Oggi il Mediterraneo è poco più che un lago interno attraversabile con un motoscafo d’altura in alcune decine di ore, ma a quei tempi, per navi che si muovevano a una velocità presumibile di tre-quattro nodi, esso aveva dimensioni sterminate e infinite occasioni di rischio mortale. La spedizione che dopo tante peripezie giungeva finalmente in vista della terra di destinazione cercava un luogo per l’approdo. Di là probabilmente poteva effettuare ricognizioni più accurate per individuare, dal mare o da terra, una località che offrisse i requisiti per la fondazione. Come abbiamo accennato, la località doveva essere accessibile dal mare, e quindi estendersi in prossimità della foce di un fiume (è il caso di Selinunte o di Velia) che fungesse da porto-canale o di una insenatura naturale destinata a divenire il porto vero e proprio della città (è il caso di Messina, di Siracusa, che di porti ne ha addirittura due, e di Napoli). La gente, insomma, era giunta dal mare e con il mare voleva continuare a vivere. Fatte pochissime e rare eccezioni, come nel caso di Leontini (Lentini), subcolonia di Nasso che fu fondata ben dieci chilometri nell’interno in posizione dominante rispetto alla fertile valle del Simeto, con chiaro scopo di sfruttamento agricolo della zona. Altro requisito della località prescelta era la presenza di un’altura in posizione dominante - possibilmente non troppo lontana dal porto - su cui fondare l’acropoli o «città alta». Sull’acropoli sarebbero sorti i templi degli dei, di solito gli stessi che erano oggetto di particolare culto nella madrepatria, ma anche una cinta fortificata che, in caso di necessità, diveniva un ridotto dove trincerarsi per la resistenza. Non era indispensabile che l’area dove costruire la città fosse pianeggiante, mentre era importante che lo fosse il territorio circostante da cui ricavare i terreni coltivabili: quel territorio sarebbe divenuto la chora, ossia l’area destinata allo sfruttamento agricolo ed eventualmente a insediamenti minori per la coltivazione dei campi. Individuato il luogo, probabilmente con navigazione a vista, si procedeva allo sbarco cercando di evitare l’incontro con la popolazione locale, giacché un tale incontro era sempre ad alto rischio. Agli inizi dell’età del ferro compagini statali paragonabili in qualche modo a quelle moderne, con eserciti regolari, amministrazioni burocratiche, confini definiti e un concetto di sovranità territoriale, esistevano solo in Oriente. Il resto del Mediterraneo era abitato e controllato per lo più da entità tribali peraltro molto legate al territorio (considerato una proprietà personale) assai diffidenti e ben consapevoli del fatto che chi giungeva armato dal mare era spesso un pirata, pronto a saccheggiare, razziare bestiame, rapire donne e fanciulli per venderli sul primo mercato di schiavi. Talvolta la popolazione locale era così numerosa e agguerrita da considerare i nuovi arrivati più come prede che come eventuali predatori. Nel VI libro dell’ Anabasi Senofonte descrive una tribù di Traci della costa del mar Nero che avevano praticamente lottizzato la spiaggia, riservando a ogni gruppo il diritto di saccheggiare e ridurre in schiavitù navi ed equipaggi che fossero naufragati nel lotto che gli era stato assegnato. Lo sbarco in terra deserta era la scelta più augurabile, la stessa che viene descritta da Virgilio nell’Eneide per lo sbarco di Enea nel Lazio. I Troiani si trincerano sulla spiaggia e poi mandano una delegazione a prendere contatto con il re indigeno. Un’azione simile non era difficile da realizzare: nell’VIII secolo a.C, in tutta Italia vivevano poche centinaia di migliaia di abitanti, anche se in gran parte stanziati lungo le coste per le migliori condizioni ambientali e la maggiore facilità di procurarsi il cibo. I coloni dunque indossavano l’armatura e scendevano a terra cercando di trovare al più presto un riparo che difendesse sia loro sia le navi, indispensabili per cercare un nuovo approdo se il primo tentativo fosse fallito. A quel punto si poneva ben presto il problema degli indigeni con i quali, bene o male, era inevitabile prendere contatto e poi trattare. È quello che fa, in fondo, Ulisse con Polifemo, che incarna l’indigeno primitivo, feroce e cannibale, con il risultato che tutti conosciamo. È interessante, a questo proposito, anche la leggenda della fondazione di Cartagine: benché la città sia una colonia fenicia di Tiro, il mito della sua fondazione è elaborato dai Greci che, confondendo il fenicio Bosra (nome dell’acropoli della città africana) con il greco byrsa («pelle di bue»), cerca di spiegarne l’origine con un aneddoto modellato sul genere letterario deli’aition («causa», «origine»). La storia racconta che la regina Elissar (la Didone virgiliana) chiese al re Jarba di Numidia il permesso di fondare una città. Questi rispose che avrebbe concesso tanto territorio quanto ne poteva coprire una pelle di bue. La regina allora fece tagliare la pelle in tante striscioline che legò una all’altra fino a ottenere una fettuccia lunga - a detta di Servio - ben ventidue stadi, circa quattro chilometri, che poteva circoscrivere un territorio sufficiente per la fondazione della città. Una storia che rientra nello stesso tema è quella della fondazione di Locri da parte di un gruppo di coloni achei in un territorio abitato dai Siculi che si presentarono per scacciarli. I coloni, già sbarcati, giurarono «per le [loro] teste e per la terra» (una formula terribile e solenne) che se ne sarebbero andati al più presto, ma mentre giuravano avevano delle teste d’aglio sotto gli elmi e della terra fra i piedi e la suola dei calzari. Quando gli indigeni furono lontani, gli ambasciatori gettarono le teste d’aglio, scossero la terra dai calzari e si trincerarono in modo da non poter più essere cacciati via. Si tratta ovviamente di storie di folclore, ma sono per noi ugualmente interessanti perché testimoniano i difficili rapporti che intercorrevano fra colonizzatori greci e popolazioni indigene. Questi contrasti divennero a volte permanenti e si acutizzarono fino a provocare situazioni di guerra endemica come accadde, per esempio, tra Taranto e i Bruzi. Una storia di questo genere ma con esito positivo è invece quella, riportata da Tucidide nella Guerra del Peloponneso, sulla fondazione di Megara. Il condottiero della spedizione, di nome Lami, in un primo tempo aveva tentato di insediarsi in una località non identificata di nome Trotilo, ma aveva fallito. Di là si era spostato con i suoi a Leontini da dove era stato scacciato. Si era allora insediato con i suoi sulla penisola di Tapso, dove però era deceduto. I suoi compagni, privi di armi e disperati, erano stati accolti da un re siculo di nome Iblone, che aveva loro concesso un territorio per fondarvi la città. Anche la fondazione di Cirene, del resto, come abbiamo visto, si realizzò alla fin fine grazie alla collaborazione degli indigeni che indicarono ai coloni un luogo dove il cielo era forato, ossia dove pioveva abbondantemente, anche se gli abitanti di Cirene si resero conto, in seguito, di essere transitati di notte per luoghi assai più appetibili ma che gli indigeni, evidentemente, preferivano tenere per sé. Sta di fatto che abbiamo sia il caso dello sterminio degli indigeni, come quando i coloni corinzi distrassero gli abitanti siculi dell’Òrtigia per fondarvi Siracusa, sia le prove archeologiche di una convivenza pacifica tra elemento indigeno e coloni greci, come è il caso di Pitecusa e quello, ben documentato, di Nasso. Sembra comunque che i colonizzatori, quando ne avevano la forza, tendessero a sottomettere gli indigeni o a ridurli in condizioni di pesante sudditanza: a Siracusa, per esempio, le classi sociali dei gamoroi (grandi proprietari terrieri) e dei kyllirioi (contadini in condizione di semischiavitù) riflettevano anche la divisione etnica fra aristocrazia di origine corinzia ed elemento indigeno siculo asservito. Dei Siculi si fa menzione due volte anche nell’Odissea, e in ambedue i casi essi sono degli schiavi (come la serva di Laerte) o comunque vengono presentati come i più disgraziati fra gli uomini, tanto che per scherno i Proci suggeriscono a Telemaco di vendere Ulisse (sotto le spoglie di mendicante) ed Eumeo ai Siculi perché solo loro - si sottintende - sono così miserabili da acquistare due straccioni del genere. Ma se mi dai retta, questo sarebbe grande guadagno: / i due stranieri dentro una nave multireme cacciamo / e in Sicilia mandiamoli, che ce ne venga buon prezzo! (Od. XX, 381-383) Come abbiamo detto, i coloni erano tutti maschi scapoli, per cui si poneva anche il problema di trovare delle spose per garantire un futuro alla nuova città. Se l’insediamento prendeva forma, quasi sempre si stabiliva un modus vivendi con le popolazioni locali: santuari extraurbani fungevano spesso da luoghi d’incontro e da centri di diffusione della cultura greca, quella stessa cultura che, per il suo fascino e per il suo livello più avanzato, finiva per influenzare fortemente gli indigeni. I reciproci vantaggi economici, che quasi sempre si basavano sullo scambio di manufatti (greci) contro materie prime (indigene), venivano probabilmente suggellati anche con la concessione di ragazze indigene quali future madri delle generazioni autoctone. Questo non esclude né il rapimento, ancora diffuso nel sud d’Italia come forma poco più che rituale, né la razzia da conquista qualora un accordo con le popolazioni locali si fosse rivelato impossibile. Ma anche quando la fondazione della colonia si concludeva con successo, non era detto che cessassero i problemi. Spesso i coloni venivano da etnie diverse e questo dava luogo a scontri e lotte intestine, come vedremo nei prossimi capitoli dedicati alle vicende dei colonizzatori. Comunque andassero le cose, la prima generazione autoctona era già di sangue misto il che contribuiva a conferire alla città un carattere particolare che la distingueva sia dalla madrepatria sia dai vicini indigeni sia dalle altre comunità coloniali: i Cirenei erano mezzo africani e i Massalioti mezzo Celti. E non si può certo escludere che il clamoroso successo della grecità d’Occidente in tutti i campi della vita civile si debba anche in parte attribuire alla particolare combinazione genetica, risultato dell’incontro di stirpi tanto lontane e diverse. La città-figlia cresceva completamente autonoma e indipendente dalla madrepatria, ma conservava con essa legami a volte anche molto forti nel campo civile, religioso, militare. In campo militare la collaborazione poteva realizzarsi con l’invio di un duce dalla madrepatria, come quando Corinto inviò Timoleonte a Siracusa. In campo religioso, la relazione si manifestava con una particolare forma di ossequio da parte della colonia: nella consultazione dell’oracolo delfico, per esempio, i delegati della colonia davano sempre la precedenza a quelli della madrepatria in segno di rispetto. Questi legami, nel caso di subcolonie dedotte in territori limitrofi (Agrigento rispetto a Gela, per esempio) potevano essere anche più stretti o, al contrario, degenerare in conflittualità per ragioni di competizione. Con il passare del tempo la figura dell’ecista veniva eroizzata e circonfusa da un alone leggendario, e le famiglie dei fondatori diventavano i pilastri dell’aristocrazia cittadina, un po’ come è successo anche in tempi moderni nelle colonie americane dell’Est. Gli episodi relativi alla fondazione venivano a mano a mano mitizzati e quindi nobilitati nella dimensione epica. Le tradizioni mitiche derivate dalla madrepatria venivano gelosamente conservate come componenti fondamentali dell’identità culturale della città. Solo la rivoluzione cristiana ebbe ragione di queste radici, senza mai riuscire tuttavia a cancellarle completamente. In un modo o nell’altro ciascuna delle antiche città dell’Occidente ellenico è riuscita a trasmettere, attraverso i secoli, la sua eredità millenaria. IV. IL MARE DELL’ETÀ COLONIALE Abbiamo visto che le spedizioni coloniali furono imprese difficili e pericolose. Il trasferimento avveniva in condizioni estremamente disagiate, su mezzi che non offrivano riparo né dal sole, né dalla pioggia, né dalle onde del mare. Navi sulle quali il rematore poteva trovarsi macerato nell’acqua salata per giorni interi, solo che il tempo peggiorasse o il vento rinforzasse un poco. Le esigenze, come abbiamo visto, facevano sì che si dovessero impiegare prevalentemente navi da guerra, legni assai poco stabili per il loro coefficiente di finezza esasperato, soggetti a scarrocciare in caso di vento al traverso per via della chiglia poco profonda che d’altra parte consentiva di trarle in secca dopo l’impiego o in caso di grave e improvviso peggioramento delle condizioni meteorologiche. Oltre a queste difficoltà, la navigazione in quanto tale era un problema di per sé, in quell’epoca, date le condizioni in cui avveniva. All’inizio dell’età del ferro si ebbe, come abbiamo visto, una grossa evoluzione nell’economia dei paesi rivieraschi del Mediterraneo, in particolare i commerci subirono un impulso formidabile e con essi il traffico marittimo. Le navi costruite con la tecnica a fasciame consentivano, per i mercantili, dei carichi notevoli e lo sviluppo della civiltà urbana in molte aree creava esigenze sempre maggiori di beni di consumo e di oggetti anche ricercati. Già nel corso del VII secolo navigatori sia greci sia fenici giunsero fino allo stretto di Gibilterra ed esplorarono una porzione delle coste atlantiche prendendo contatto con il Tartesso e con le sue enormi risorse in metalli preziosi, principalmente argento e stagno. I Fenici giunsero al punto di fondere le ancore in argento per ottimizzare al massimo i carichi di ritorno dall’estremo Occidente. Erano note e abitualmente battute le rotte che conducevano nel mar Nero e quindi al mar d’Azov, alle foci del Danubio e alle foci del Rion (il mitico Fasi del vello d’oro), si percorreva dalla Grecia una rotta diretta che raggiungeva prima Creta e poi il delta del Nilo. Nell’Odissea (XIV, 253-257) si dice espressamente che la distanza fra Creta e l’Egitto si poteva percorrere, con vento favorevole, in cinque giorni: ...dall’isola vasta di Creta / partimmo con vento di Borea bello e gagliardo / senza fatica, come secondo corrente; e nessuna / delle mie navi ebbe danno, ma senza pericoli o mali / stavamo seduti: il vento e i piloti le dirigevano. / Al quinto giorno all’Egitto bella corrente arrivammo... Sappiamo che si navigava fino a Gibilterra sia percorrendo la costa dell’Africa sia costeggiando la Corsica, la Gallia e l’Iberia attraverso il mare delle Baleari. Per raggiungere il Tartesso bisognava varcare lo stretto di Gibilterra e poi navigare nell’Atlantico verso settentrione, una rotta parimenti descritta nell’XI canto dell’Odissea dove si racconta l’episodio dell’evocazione dei morti. La nave di Ulisse percorre dapprima «il mare» fino all’estremo Occidente, poi entra nell’Oceano prendendo terra in un punto segnato da una rupe bianca dove si getta in mare l’Acheronte. Abbiamo già esposto in un precedente lavoro l’ipotesi che le localizzazioni delle varie avventure descritte nell’Odissea sono il frutto di una riambientazione operata dai marinai euboici che frequentavano le rotte occidentali. Ebbene, anche in questo caso ci troveremmo di fronte a una riambientazione: sappiamo che esisteva nella Grecia occidentale un oracolo dei morti nei pressi di Efira, dove erano localizzate anche la palude Stigia e la foce dell’Acheronte. Tale localizzazione risaliva probabilmente a un’età molto antica (gli scavi hanno indicato una frequentazione già in età micenea), quando il mondo dei morti veniva situato nella parte più occidentale della penisola ellenica, ed è interessante ricordare che nella stessa area, fino a qualche anno fa, si continuavano a seppellire i morti con in bocca una moneta da venti dracme. Quando però gli Eubei raggiunsero il Tartesso spostarono nella nuova, estrema frontiera occidentale il regno dei morti, e là riambientarono l’episodio dell’evocazione dei morti dell’XI libro dell’Odissea. Come si muovevano sul mare questi navigatori? Quali erano i mezzi tecnici di cui disponevano? Purtroppo di quell’epoca lontana non ci rimane quasi nessuna testimonianza. Non sappiamo se possedevano mappe marine del tipo dei portolani per la navigazione costiera né possiamo dire se possedevano mappe celesti per l’osservazione del cielo. Il famoso affresco da Akrotiri nell’isola di Santorino, proveniente dalla casa detta «dell’Ammiraglio» e risalente al 1600 a.C, è stato letto come un facsimile di mappa benché vi siano rappresentati uomini e animali. La resa del territorio infatti è molto realistica: vi si distinguono bene le montagne, un fiume, un piccolo centro abitato, un porto: insomma si potrebbe quasi definire una specie di mappa tridimensionale. Una sorta di mappa celeste sembra invece di poter riconoscere in una parte della decorazione dello scudo di Achille descritta nell’Iliade (XVIII, 483-489): Vi fece la terra, il cielo e il mare, / l’infaticabile sole e la luna piena/e tutti quanti i segni che incoronano il cielo, / le Pleiadi e ì’Ia-di e la forza d’Orione / e l’Orsa, che chiamano col nome di Carro: / ella gira sopra se stessa e guarda Orione, / e sola non ha parte dei lavacri d’Oceano. E evidente in questo brano la conoscenza dell’Orsa come perno della volta celeste e punto fondamentale di orientamento, e così pure delle Pleiadi che con la loro comparsa e scomparsa sull’orizzonte marino segnavano l’inizio e la fine della stagione della navigazione. Sappiamo che le prime mappe celesti e forse anche terrestri sono attribuite dalla tradizione ad Anassimandro di Mileto, discepolo di Talete, il filosofo che aveva viaggiato in molti paesi fino all’Egitto. Anassimandro sarebbe stato il primo a costruire una «sfera», termine con il quale è più probabile si voglia indicare una sfera celeste del tipo di quella che regge sulle spalle l’Atlante Farnese che non una sfera terrestre. Il concetto di una terra di forma sferica fu infatti codificato molto più tardi, prima con Aristotele e poi con Eratostene. Strabone attribuisce ad Anassimandro la realizzazione di un pinax, ossia di una tavola in cui probabilmente era rappresentata la superficie terrestre in forma piana. Da tale pinax sarebbe potuta discendere la mappa su tavola di bronzo che Aristagora di Mileto portò con sé a Sparta quando cercò di ottenere l’appoggio di quella città alla rivolta degli Ioni contro i Persiani. L’episodio, riferito da Erodoto (V, 49) è ben noto: Aristagora, tiranno di Mileto, si era posto a capo della rivolta delle città della Ionia contro l’impero persiano. Timoroso però della reazione del gran re Dario, impegnato temporaneamente nella sua campagna contro gli Sciti, era venuto in Grecia a cercare aiuto. In quell’occasione aveva mostrato al re Cleomene I di Sparta una mappa incisa su tavola di bronzo dove era rappresentato «tutto l’orbe terrestre e tutto il mare e tutti i fiumi». Su quella mappa egli indicava dapprima tutti popoli dell’Asia Minore fino alla Cilicia, di fronte alla quale era rappresentata, correttamente, l’isola di Cipro: Sono confinanti con questi i Cilici, i quali si estendono fino a questo mare in cui si trova, eccola, l’isola di Cipro. La descrizione erodotea del colloquio fra Aristagora e Cleomene fa pensare che la mappa fosse estremamente accurata e dettagliata e che comprendesse effettivamente, oltre alla terraferma, il mare. Nulla vieta quindi di ritenere che esistessero copie di mappe similari che potevano essere trasportate agevolmente a bordo delle navi. Resta comunque il fatto che la mappa di Aristagora risaliva al VI-V secolo e che quella di Anassimandro non era di molto più antica. Non c’è quindi alcuna notizia di mappe contemporanee alla deduzione delle prime colonie che, come sappiamo, risalgono all’VIII secolo a.C. È però probabile che esistessero, in un primo momento, dei «peripli», ossia delle descrizioni degli itinerari costieri forse trasmesse oralmente dai nocchieri che battevano le varie rotte. Da essi derivarono in seguito i primi peripli scritti, che però, allo stato attuale delle nostre conoscenze, non ci risultano risalire oltre il IV secolo a.C. In questi portolani le distanze dovevano essere espresse in termini molto approssimativi, probabilmente in giornate di navigazione, corrispondendo una giornata a circa 70 chilometri. Le rotte di queste navi erano in un certo senso obbligate, perché vascelli a vela quadrata con poca chiglia e timoni laterali potevano navigare prevalentemente con venti che spirassero dai quadranti di poppa. I remi consentivano una libertà un po’ maggiore di movimento, ma non certo di navigare contro vento e contro corrente su distanze di crociera. La conseguenza di questo fatto era lo svilupparsi della pirateria lungo i passaggi obbligati. Le piccole isole dell’Egeo e dell’Asia Minore, le coste della Cilicia e dell’Illiria erano tutti appostamenti ideali per i legni corsari. I pirati restavano nascosti con le loro navi snelle e veloci dietro un promontorio o dietro uno scoglio, e quando transitava una nave si slanciavano in avanti a tagliarle la strada e poi ad arrembarla. Se l’equipaggio veniva sopraffatto i prigionieri finivano venduti di solito come schiavi al primo mercato e questo già costituiva un bottino di grande valore cui si aggiungevano le merci razziate a bordo. Le navi impiegate dai corsari, dette «emiolie», erano vascelli leggeri e dallo scafo filante, molto adatti per assalti improvvisi condotti probabilmente da unità sia isolate sia «a sciami», quando la preda designata fosse in grado di opporre resistenza. Non esistevano organismi internazionali in grado di contrastare questa piaga: il mondo dell’età del ferro era prevalentemente senza regole, soprattutto nell’area del Mediterraneo dove nessuna potenza esercitava una qualche egemonia e dove la pirateria era semplicemente una delle molteplici attività con cui le varie entità etniche e tribali si procuravano il sostentamento. Era del tutto simile a operazioni di razzia di bestiame, come quelle tante volte descritte nell’Iliade, o a una guerra d’invasione. Solo parecchi secoli dopo, con l’avvento della potenza di Roma che ridusse il Mediterraneo a un lago interno, si pose mano alla più imponente operazione di polizia dei mari di tutta la storia. Vi presero parte più di mille unità da battaglia sotto il comando supremo di Cneo Pompeo che bonificò tutte le aree a rischio, in particolare la Cilicia, dove le popolazioni dedite alla pirateria furono in parte sterminate e in parte deportate nell’entroterra per creare nuove colonie agricole. Tucidide (1,4) riferisce che nell’età preistorica una talassocrazia (ossia un dominio del mare) fu esercitata dal re Minosse di Creta, che effettuò anche operazioni di polizia dei mari contro la pirateria. La notizia è stata discussa sotto diversi punti di vista. C’è chi l’ha contestata evidenziando che nelle tavolette in lineare B a Creta non è stato trovato alcun termine del linguaggio navale, a parte l’ambiguo du-ru-tomo (greco drytomos), letteralmente «taglia-querce» ma forse anche «mastro d’ascia». Da altri la cosa è ritenuta nel complesso verosimile per gli elementi testimoniali forniti dall’archeologia. In primo luogo il fatto che i centri e i palazzi minoici non avevano mura di difesa, il che induce a pensare a una potente flotta in grado di scoraggiare qualunque attacco. In secondo luogo il già citato affresco della casa dell’Ammiraglio a Santorino, in cui è rappresentata un’imponente parata navale in vista della costa (secondo alcuni Creta, secondo altri l’Africa), circostanza che dimostra quantomeno grande perizia e chiara fama dei minoici nella navigazione marittima. Nell’età delle prime deduzioni coloniarie non esisteva alcun tipo di talassocrazia, e anzi molti popoli già nella fase di sviluppo preurbano o urbano come i Greci stessi, i Fenici e gli Etruschi, erano ben noti per le loro attività corsare. È stato osservato che il santuario di Delfi, che in fondo sponsorizzava la maggior parte delle deduzioni coloniarie, dovette scoraggiare in qualche modo la pirateria; si è ipotizzato che la guerra sacra bandita dall’anfizionia delfica (l’organismo di controllo e di amministrazione del santuario) contro la città di Crissa potrebbe anche aver avuto, oltre alle cause ufficiali, quella di estirpare covi di pirati. È comunque indubbio che l’azione di polizia dei mari condotta dagli Ateniesi all’età di Cimone contro i pirati di Sciro fu sponsorizzata dal santuario delfico, di cui essi in quel tempo controllavano l’anfizionia. L’attività corsara risparmiava soltanto gli appartenenti alla stessa comunità cittadina o etnica. Corsari greci dunque attaccavano senza problemi mercantili greci durante la stagione dei traffici marittimi, integrando i proventi del commercio con quelli della pirateria. Un luogo assai pericoloso era capo Malea, passaggio obbligato per tutto il traffico tra l’Egeo orientale e lo Ionio. I pirati stavano di solito appostati dietro l’isola di Citera e di là attaccavano le navi in transito. La posizione, molto favorevole all’agguato, fu utilizzata per secoli fino quasi agli inizi dell’Ottocento. Sull’altro versante dell’Egeo, l’isola di Samo fu un covo di pirati che attaccavano le imbarcazioni provenienti dalla sponda occidentale attraverso le isole Cicladi o quelle che costeggiavano l’Asia Minore dagli stretti verso la Licia o l’Egitto. Durante la leadership del tiranno Policrate, l’isola fu una sorta di regno corsaro che si arricchiva con il saccheggio del traffico mercantile in transito. Viene da chiedersi come una pirateria tanto aggressiva e dannosa non abbia provocato col tempo l’estinzione del traffico mercantile stesso. Evidentemente, in una situazione dove il rapporto fra preda e predatore era determinato da un’ampia serie di variabili, l’esito finale era un sostanziale equilibrio per cui i profitti sulle merci trasportate e la posta in gioco del viaggio (esplorazione, deduzione di una colonia, apertura di una nuova rotta) erano proporzionali al rischio che veniva corso. Alla luce di queste considerazioni, l’ipotesi avanzata da alcuni secondo cui il traffico greco in Adriatico si sarebbe sviluppato relativamente tardi per l’alta densità della pirateria illirica non ha molto senso, in quanto non può esservi pirateria senza traffico mercantile. Se dunque c’erano pirati significa che il traffico già esisteva, anche se di matrice diversa. L’archeologia dimostra, d’altra parte, che gli scambi fra le due sponde di questo mare erano molto intensi ben prima della penetrazione greca in quelle acque. In ogni caso, a partire soprattutto dal V secolo, lo sviluppo di potenze navali come quella di Atene in Egeo e di Spina in Adriatico permise anche vaste operazioni di polizia dei mari, vere e proprie spedizioni con navi da guerra per snidare i pirati dalle loro basi. È il caso della spedizione di Milziade contro l’isola di Lemno abitata dai Pelasgi all’inizio del V secolo a.C. (Erodoto, VI, 137-140) e di quella già menzionata, condotta da Cimone contro l’isola di Sciro. La potente flotta della lega di Delo fondata dagli Ateniesi nel 478 a.C. fu di sicuro uno strumento di controllo dei mari e dei traffici di merci che erano vitali per la sopravvivenza e lo sviluppo della potenza dell’impero ateniese. Non abbiamo notizie specifiche sul ruolo che Spina avrebbe svolto in Adriatico, mare notoriamente infestato dai pirati illirici. Sappiamo però che la città, nel V secolo a.C, aveva a Delfi un «tesoro», ossia una cappella votiva, privilegio concesso assai di rado a potenze anelleniche (Spina era in maggioranza etrusca). Si ritiene che tale privilegio fosse stato concesso alla città per i suoi meriti nella lotta contro i pirati illirici. Atene, infatti, impegnata agli inizi del V secolo nelle guerre persiane e in parte tagliata fuori dall’importazione granaria dal mar Nero per gli eventi bellici, era assai interessata ai mercati della Valle Padana i cui prodotti agricoli confluivano nel porto di Spina, ma non aveva la possibilità di controllare militarmente le rotte adriatiche, il che spiegherebbe il ruolo chiave della supposta talassocrazia spinetica. La stele di Vel Kaiknas, rinvenuta a Bologna (l’etrusca Felsina), raffigura una nave da guerra con guerrieri imbarcati ed è forse il monumento funerario di un navarca spinete impegnato, è presumibile, nella lotta ai pirati. La pirateria, comunque, prosperando nei periodi di vuoto di potere o sopravvivendo stentatamente nei periodi di talassocrazia, non fu mai estirpata totalmente nel Mediterraneo fino alla fine dell’Ottocento, quando lo sviluppo delle moderne flotte da guerra e la colonizzazione europea del Nordafrica posero fine agli ultimi covi di pirati barbareschi. Quello che oppose sulle rotte del Mediterraneo i Greci ai loro concorrenti prima fenici e poi punici fu, all’inizio, uno scontro di tipo prevalentemente mercantile e commerciale ma che con il passare del tempo si trasformò in una lotta senza quartiere destinata a sfociare, soprattutto in ambiente coloniale, in sanguinosi scontri militari per terra e per mare che provocarono la distruzione di intere città. Quando i Romani nel III secolo a.C. ereditarono dai Greci il testimone della lotta antipunica, lo scontro divenne globale coinvolgendo per oltre un secolo risorse economiche e militari immani e culminando, alla fine, nella distruzione di Cartagine (146 a.C). Alla disfatta del mondo punico si aggiunse una sorta di damnatio memoriae, una condanna degli sconfitti, tramandati ai posteri come avidi, infidi, crudeli, decretata dalla storia (scritta dai vincitori). Ma chi erano in realtà i Fenici? come nacque la loro leggenda e che cosa rimane di questo popolo nel patrimonio delle culture mediterranee? Le ricerche più recenti, cui gli studiosi italiani hanno dato non poco contributo, hanno dimostrato che i Fenici non erano un gruppo etnico compatto ma la risultante di una aggregazione complessa di genti che provenivano dall’area siro-palestinese e sinaitica e che verso la fine dell’età del bronzo si stabilirono nella fascia di costa situata fra il monte Libano, il monte Amano e il mare, dove fondarono insediamenti destinati a uno sviluppo straordinario nel corso dei secoli successivi. Biblo, Arado, Ugarit, Tiro, Sidone, divennero centri pulsanti di intensa attività e, pur non giungendo mai a nessuna forma di unità politica (i Fenici chiamavano se stessi con il generico nome di Chnan, ossia «Cananei», oppure con il nome delle città di origine), seppero dar vita al più straordinario sistema di scambi commerciali che il mondo antico avesse mai visto e con la loro perizia artigianale, come sappiamo, imposero, tra l’VIIl e il VII secolo a.C, uno stile di enorme successo chiamato dagli archeologi «orientalizzante». Tale stile si diffuse in tutto il Mediterraneo con l’esportazione di oggetti di raffinata fattura dove forme e linee diffuse tra l’Egitto, la Mesopotamia e l’area siro-palestinese si fondevano in un elegante sincretismo. Le tracce di questo gusto e dell’oggettistica che ne fu il principale vettore (ma sono perduti, purtroppo, tutti i materiali deperibili come legno, cuoio, stoffa) si riscontrano addirittura nei poemi omerici. Lo scudo di Achille descritto nel XVIII libro dell’Iliade (478-607) è un oggetto di stile orientalizzante, e così pure la spilla che ferma il mantello di Ulisse descritta nell’Odissea (XIX, 225-231). Eppure è proprio nell’Odissea (XV, 415-484) che comincia il luogo comune del fenicio cattivo. Rileggiamo insieme le parole di Eumeo che racconta a Ulisse, travestito da mendicante e ancora irriconoscibile, come fu rapito da bambino e reso schiavo: Un giorno arrivarono dei Fenici, navigatori famosi, / furfanti, portando sulla concava nave gran quantità di cianfrusaglie. / E c’era nel palazzo del padre una donna fenicia, / alta e bella, esperta di opere magnifiche. / Gli astuti Fenici la sedussero: / prima, mentre lavava, uno si unì con lei presso la nave concava, / di letto e d’amore, che fa tralignare le donne, / anche di quelle che sono di onesto comportamento. / Poi qualcuno le chiese chi fosse e donde venisse / e lei subito rivelò l’alto casato del padre: / «Mi vanto di essere nativa di Sidone, ricca di bronzo, / sono figlia d’Arìbante, ricco come nessun altro: / ma mi rapirono pirati di Tafo / mentre tornavo dai campi e mi vendettero in questo luogo / nella casa di questo signore, che pagò il prezzo adeguato». / Allora le disse l’uomo che si era unito a lei di nascosto: / «Ma vorresti ora tornare in patria con noi / e rivedere l’alta dimora di tuo padre e di tua madre / e i tuoi stessi genitori? Sono ancora vivi e considerati ricchi». / E gli disse la donna e rispondeva: / «Questo si potrebbe fare, marinai, se voleste promettermi / con giuramento che mi condurrete in patria senza pericolo». / Così disse e quelli giurarono tutti come lei chiedeva. / E dopo che ebbero giurato e pronunciata la formula, / parlava di nuovo a loro la donna e diceva: / «Ora tacete, nessuno la parola mi rivolga / tra i vostri compagni, incontrandomi per strada / e nemmeno alla fonte: che qualcuno al vecchio non vada / a dirlo e quello, saputolo, non mi leghi / in ceppi terribili e a voi non prepari rovina. / Ma tenetevi in cuore la parola e caricate tutta la merce. / Quando la nave alfine sia carica di beni, / allora venite a dirmelo rapidamente al palazzo: / porterò oro, tutto quello che avrò sottomano. / E altro ancora potrò pagarvi per il mio passaggio: / allevo nel palazzo un figlio del mio padrone, roba / che si vende a buon prezzo. Lui mi viene dietro anche fuori dalla porta; / lo porterò alla nave e a voi grande guadagno / procurerà dovunque andiate fra genti straniere». / E detto questo tornò al bel palazzo. / Quelli, un anno intero restando al nostro paese, / nella nave concava molte ricchezze ammassarono commerciando. / E quando la concava nave fu carica e pronta a partire, / allora inviarono un messaggero che lo dicesse alla donna. / Venne un uomo molto astuto alla casa di mio padre / portando una collana d’oro, con ambra incastonata. / Là nella sala le ancelle e la madre sovrana / la giravano fra le mani, con gli occhi l’ammiravano, / ne stimavano il prezzo: e quello, in silenzio, le fece un cenno con il capo. / Poi, dopo averle fatto segno, tornò alla concava nave. / Lei, prendendomi per mano, mi portò fuori di casa; / e nell’atrio trovò tazze e vassoi / dei convitati, quelli che accompagnavano mio padre: / erano andati a sedere nel consiglio del popolo. / Quella rapidamente nascondeva tre calici in seno, / li portò via e io la seguivo perché non capivo. / Il sole tramontò e tutte le vie si fecero scure, / giungemmo al porto bellissimo, camminando veloci; / là era l’agile nave di quei Fenici. / Allora, saliti a bordo navigavamo sui liquidi sentieri. / Anche a noi Zeus mandava il vento / ... / A Itaca spinsero quelli il vento e la corrente / e qui Laerte mi comprò con i suoi beni/ così questa terra ho visto con gli occhi. La storia è un piccolo capolavoro di narrativa popolare e della narrativa popolare ha tutta l’immediatezza, la forza espressiva e anche i pregiudizi. In essa i Fenici vengono presentati sotto la luce più negativa possibile. Sono tutti cattivi: sia i marinai sia la donna, da tempo al servizio del padre di Eumeo nella reggia. Benché le sia data fiducia, le sia affidato da allevare il giovane principe, lei è subito pronta al tradimento. Di facili costumi, si lascia subito sedurre da uno dei marinai che così ha una sicura alleata dentro le mura del palazzo. Anche i marinai tradiscono la fiducia e l’ospitalità concessa. Un anno intero è loro permesso di restare e di commerciare arricchendosi, e per tutto ringraziamento, al momento di partire, mandano uno di loro nel palazzo con il pretesto di vendere una collana d’oro e d’ambra (anch’essa, potremmo giurarci, di stile orientalizzante!). Un cenno d’intesa è sufficiente con la donna. Questa ruba quello che può, coppe d’oro che nasconde in seno, e poi, approfittando dell’attaccamento di un innocente, di un bambino che le trotterella dietro dovunque, lo conduce al porto, lo prende con sé a bordo, per pagare così il suo passaggio. Il piccolo principe verrà venduto e sarà, per il resto della sua vita, uno schiavo. Come si può interpretare un simile ripugnante ritratto della gente fenicia? Certamente c’era del vero alla base del pregiudizio, nel senso che chi praticava il commercio sui mari, fenicio o greco che fosse, era disposto ad arrotondare i profitti anche con attività illecite, ma certamente v’è anche molto di falso: come avrebbero potuto i Fenici sviluppare una rete commerciale tanto imponente se non si fossero comportati correttamente sulle piazze che frequentavano? Simili prodezze si potevano compiere una volta ma non due, e d’altro canto un passo di Erodoto (IV, 196) che descrive la tecnica commerciale dei Cartaginesi con gli indigeni dell’Africa sembra smentire totalmente il comportamento infame descritto nell’Odissea: Quando giungono in questo paese essi scaricano le loro merci e le depongono sulla spiaggia, poi tornano alle loro navi e fanno dei segnali di fumo. Quando gli indigeni vedono il fumo scendono fino al mare, mettono sulla riva una certa quantità d’oro in cambio delle merci, e poi se ne vanno. Allora i Cartaginesi tornano a riva ed esaminano l’oro che vi è stato lasciato; se pensano che corrisponda al valore delle merci lo prendono e salpano le ancore, altrimenti tornano alle loro navi e aspettano finché gli indigeni non hanno aggiunto una quantità d’oro sufficiente a soddisfarli. Nessuna delle due parti inganna l’altra: i Cartaginesi non toccano mai l’oro finché non corrisponde in valore a quanto hanno portato da vendere, e gli indigeni non toccano le merci finché l’oro non è stato portato via. È questo un comportamento da autentici professionisti del commercio che rimase in uso, come è stato rilevato, durante il Medioevo e, in seguito, fino all’Ottocento. È vero che Erodoto scrive almeno due secoli dopo il poeta dell’Odissea ma è presumibile che il successo dei Fenici nell’attività commerciale, già fin dall’VIII secolo a.C, non avrebbe potuto consolidarsi senza un comportamento adeguato. Un brano del periplo dello Pseudo-Scilace (112), un portolano che risale al massimo al IV secolo a.C. ma per il quale si ravvisa, in questo particolare passaggio, una fonte cartaginese, sembra descrivere un comportamento del tutto analogo e parimenti impeccabile: A Cerne i Fenici [ossia i Cartaginesi] esercitano il commercio; quando arrivano, ancorano i gaulai - così sono chiamate le loro navi mercantili - e si attendano sull’isola. Dopo aver scaricato le loro merci, le trasportano sulla terraferma con delle piccole barche; là vivono gli Etiopi con i quali essi commerciano. In cambio delle loro merci, i Fenici ricevono pelli di cervo [antilope?], leone e leopardo, e cuoio e zanne d’elefante... i Fenici portano profumi, pietre egiziane e vasi e anfore ateniesi. Anche qui, come possiamo vedere, niente rapimenti, niente inganni, niente furfanterie. Si scambia merce contro merce in un rapporto assolutamente paritario. Ciò non toglie, è ovvio, che i Cartaginesi ricavassero un profitto sostanzioso dalle merci rare che riuscivano a importare da quei lontani paesi, ma anche questo fa parte del professionismo mercantile. L’ascesa di Cartagine, a partire dal VI secolo a.C, finì per provocare l’eclissi della madrepatria fenicia, e gli scavi recenti nelle colonie fenicie di Sardegna hanno dimostrato che Cartagine condusse una vera e propria opera di «normalizzazione» negli insediamenti fenici sorti in precedenza nell’isola, imponendo il culto della propria divinità poliade, Tanit, e installando probabilmente anche un controllo di tipo militare. Lo stesso accadde nell’Occidente iberico e mauritano dove i Cartaginesi si sostituirono completamente ai Fenici ricolonizzando Cadice, Tangeri e Lixus sulla costa atlantica marocchina. Fu anche questa aggressività di stile «imperiale», fra le altre cause, a condurre a situazioni di conflitto aperto specialmente con le città greche di Sicilia. La collisione si produsse prima con Siracusa e Agrigento e poi con buona parte della grecità isolana. Il conflitto si trascinò con alterne vicende, i Cartaginesi, dopo una prima sconfitta a Imera nel 474 a.C, reagirono fino alla grande offensiva della fine del V secolo, quando furono prese e rase al suolo Selinunte e Agrigento e quando la stessa Siracusa, che pure aveva sconfitto gli Ateniesi durante la guerra del Peloponneso, fu cinta d’assedio e rischiò la capitolazione. Le pagine di Diodoro Siculo che descrivono la presa e il saccheggio di Selinunte e di Agrigento destano orrore, ma le atrocità vennero equamente commesse da ambo le parti come sempre accade in questi casi. Quando l’esercito di Dionisio di Siracusa conquistò, l’anno dopo, la roccaforte punica di Motya gli abitanti furono massacrati senza pietà, inclusi, naturalmente, donne e bambini. È probabile che l’impiego di mercenari iberici e balearici, dai costumi piuttosto primitivi, abbia contribuito ad alimentare la fama di ferocia delle azioni militari cartaginesi, ma il pregiudizio greco nei confronti dei Fenici e dei Punici originava semplicemente dall’eterna diffidenza e avversione per lo straniero e per il diverso, oltre che per l’agguerrito concorrente. E proprio nel periodo in cui era messo per iscritto il passo odissiaco del racconto di Eu-meo, i Focesi prima e gli Eubei dopo venivano estromessi gradualmente ma inesorabilmente dai ricchi mercati iberici e dalle rotte a ovest del canale di Sicilia e della linea Sardegna-Corsica-Gallia. L’ombra di Ulisse che varca il limite tra il mare e l’Oceano sarebbe svanita finché non l’avesse resuscitata la penna di Dante Alighieri, e al greco Èrcole, vincitore di Gerione e conquistatore dei pomi delle Esperidi, si sarebbe sostituita per secoli la figura del fenicio Melkart. Le fasi del contrasto tra mondo greco e mondo fenicio-punico si snodano attraverso un periodo di oltre quattro secoli, a volte determinate dal confronto diretto, a volte dal caso, ma sempre e comunque enfatizzate dalle fonti greche che le vedevano di fatto come una costante ineluttabile. Erano fenicie le navi del Gran Re che combatterono contro gli Ateniesi a Salamina, ed Erodoto, che pure è fra i testimoni più equilibrati del duello greci-barbari, non tralasciò di riferire che Cartagine sarebbe entrata in alleanza con l’imperatore persiano nel 480 a.C. in un grandioso disegno che prevedeva l’annientamento, sotto tutte le latitudini, del nome e della cultura degli Elleni. La battaglia antipunica dei Greci sul fronte occidentale fu ripresa, come ben sappiamo, dalla potenza romana che pure fu scossa dalle fondamenta dal genio militare di Annibale. Si trattò di un duello senza esclusione di colpi che si concluse con la distruzione della grande città africana; ma, prima di quel conflitto sanguinoso, è interessante ricordare che le fonti riferiscono di un progetto occidentale di Alessandro Magno che avrebbe previsto la sottomissione di Cartagine e di Roma, ambedue nemiche, verso la fine del IV secolo, dei Greci d’Occidente. Per lungo tempo ritenuti fantastici, questi progetti del Macedone sono stati di recente riaccreditati, e d’altra parte lo stesso Tito Livio riferiva che i Romani avevano nominato, nella persona di Papirio Cursore, il generale che avrebbe dovuto respingere l’attacco di Alessandro, se mai il Macedone avesse osato sbarcare sulle coste della penisola italica. Il Mediterraneo antico avrebbe potuto essere prevalentemente greco o prevalentemente fenicio-punico e fu invece, alla fine, tutto romano. Ma nella romanità non sopravvisse solo la cultura ellenica, come di solito si pensa. Erano cartaginesi i manuali di agricoltura ai quali si ispirarono Varrone e Columella ed era cartaginese tanta letteratura tecnica, andata purtroppo perduta, per non parlare dell’esperienza navale. Quando Honor Frost ricompose il relitto punico dello stagnone di Marsala, i suoi architetti navali ricevettero importanti suggerimenti, per l’assemblaggio delle parti, dai mastri d’ascia marsalesi, eredi di una tradizione che affondava le sue radici nell’antica Lilibeo. E la componente semitica non si eclissò mai completamente né in Africa né in Sicilia né in Spagna. Il fatto che queste terre ricevessero in seguito e assimilassero con profonda adesione la cultura, pure semitica, degli Arabi, in una sovrapposizione geografica quasi identica a quella dell’antica espansione cartaginese, non può essere considerata semplicemente come una delle tante bizzarrie della Storia. Parte seconda I COLONIZZATORI V. GLI EUBEI Sulla scia dei Fenici, i primi coloni greci attivi in Occidente sono gli Eubei, provenienti dalle città di Calcide ed Eretria. Su questo punto concordano fonti letterarie e documentazione archeologica. Quest’ultima ci dice anche qualcosa di più: che i colonizzatori euboici seguono rotte già percorse dai loro mercanti, come testimoniano le tipiche coppe a semicerchi penduli che ne rivelano la presenza a Veio in Etruria e a Villasmundo in Sicilia già in età precoloniale, grosso modo intorno alla metà dell’VIII secolo, epoca in cui vengono creati i loro primi insediamenti emporici e fondaci commerciali, su entrambe le rotte mediterranee che conducono a Gibilterra. Sia, cioè, lungo la rotta meridionale che dall’Eubea poggia su Creta per poi raggiungere la costa africana e quindi costeggiarla verso Occidente; sia lungo la rotta settentrionale che dall’Eubea nell’Egeo conduce a Corcira (Corfu) nello Ionio per poi attraversare il canale di Otranto, puntare allo stretto di Messina, guadagnare le acque del Tirreno e quindi costeggiare l’Italia, la Francia e la Spagna fino a pervenire, a Gibilterra, presso le mitiche Colonne di Èrcole. In Africa l’attività commerciale degli Eubei darà vita sulla costa ad alcune colonie fra le più arcaiche della Tunisia, che però saranno presto bloccate nel loro sviluppo dalla sorgente potenza di Cartagine, che le sottomette politicamente o le ingloba nel proprio sistema economico. Quindi solo sulla rotta settentrionale si svilupperà una vera e propria colonizzazione euboica destinata a resistere nei secoli. Qui, sulle coste dell’Italia e della Sicilia, sorgeranno le colonie di Pitecusa (Ischia), di Cuma, di Reggio, di Zancle (Messina) e di Nasso, a loro volta metropoli di ulteriori subcolonie. E qui, nelle aree delle loro fondazioni occidentali, gli Eubei localizzano le avventure dell’Odissea così care all’immaginario collettivo di ogni popolo navigatore: nel golfo di Napoli, dove fondano Pitecusa e Cuma, ubicano il mondo degli Inferi e gli scogli delle Sirene; nello stretto di Messina, dove fondano Reggio e Zancle, i gorghi di Scilla e Cariddi, nella Sicilia orientale, dove fondano Nasso, i pascoli dei buoi del Sole e la terra dei Ciclopi, e via di seguito. Abbiamo detto come gli Eubei, su entrambe le rotte del Mediterraneo, navighino in direzione di Gibilterra. Qui infatti, sulle coste dell’Atlantico, presso Cadice, sorgeva il ricchissimo emporio di Tartesso, già frequentato dai Fenici e noto anche alla Bibbia. Emporio donde i Greci, come si è detto, potevano esportare ampi quantitativi di argento, abbondantissimo, nonché ambra o stagno o altri prodotti grezzi della metallurgia che giungevano fin là, via mare, dall’Europa del Nord: in particolare dalle isole britanniche o dai paesi baltici. Ma anche l’Etruria, prossima alle colonie euboiche fondate in area campana, costituiva un obiettivo primario per le importazioni greche: in questa regione, attraverso lunghe vie carovaniere terrestri, che si snodavano dall’Europa centrale, affluivano ulteriori metalli e materie preziose. Inoltre i giacimenti di ferro presenti nell’isola d’Elba costituivano in proprio un ricchissimo incentivo per qualsiasi mercante proveniente dall’area egea. Cosa che spiega perché tanto precocemente, già all’alba delle prime esplorazioni greche nel Tirreno, il poeta Esiodo, nella Teogonia (1011-1016), tramandi una leggenda che riconnette strettamente la saga di Ulisse all’area etrusco-laziale attraverso la discendenza che all’eroe sarebbe venuta dalla sua unione con Circe: Circe, figlia del Sole, stirpe di Iperione, unitasi in amore con Odisseo, dal cuore che sopporta, generò Agrio e Latino, irreprensibile e forte.... Questi regnavano molto lontano, nel mezzo di ìsole sacre, su tutti gli illustri Tirreni. Agrio e Latino sono i primi mitici re di Alba Longa e di Lavinio, e i Tirreni, sui quali essi regnano, sono gli interlocutori commerciali dei primi mercanti greci che, già da età remotissima, per importare metalli o prodotti greggi della siderurgia, raggiungono l’Etruria, diretti in particolare all’Elba e alle isole dell’arcipelago toscano. Probabilmente proprio le «isole sacre» che Esiodo circonfonde di un alone di mistero. Dunque anche i figli di Ulisse e di Circe ci indicano una delle mete primarie dei commerci greci nei mari di Occidente! Ma questa è una leggenda che presuppone che il suo primo divulgatore ubichi la reggia della maga Circe in area prossima al mondo etrusco-laziale: cioè presso il promontorio del Circeo. Il che ci rivela la sua identità: è di stirpe euboica poiché - come abbiamo detto - proprio agli Eubei si deve la prima ambientazione occidentale della geografia dell’Odissea. Pitecusa I versi di Esiodo che abbiamo riferito si datano fra i secoli VIII e VII, grosso modo nella medesima epoca che vede il potenziarsi e il fiorire dell’emporio commerciale di Pitecusa. All’isola, già intorno alla metà dell’VIII secolo, approdano i primi coloni euboici per stanziarvisi in forma stabile, come testimonia l’ampia e diffusa documentazione archeologica. Coloni che Strabone, in età romana, nella sua Geografia (V, 247-248), ci dice provenienti dalle città di Calcide e di Eretria. La testimonianza, ricca di particolari, è degna della massima attenzione: Subito dopo Pompei c’è Sorrento, città della Campania dove si trova l’Athenaion, che alcuni chiamano promontorio delle Sirene: sulla punta del promontorio c’è un tempio di Athena, fondato da Ulisse. Di lì all’isola di Capri c’è un breve tratto di mare. Doppiando il promontorio, ci sono alcune isolette deserte e rocciose, che chiamano Sirene ... Davanti a Capo Miseno c’è l’isola di Procida, che è un frammento staccatosi da Pitecussa. Pitecussa fu colonizzata da Eretriesi e Calcidesi, ma costoro, benché vivessero nella prosperità grazie alla fertilità della terra e alle sue miniere d’oro, abbandonarono l’isola in seguito a lotte e poi anche perché cacciati da terremoti, da eruzioni di fuoco, di mare e di acque bollenti... Deriva da tali fenomeni anche il mito secondo cui Tifone giacerebbe sotto quest’isola; quando egli si agita farebbe venire su le fiamme e le acque e talvolta anche piccole isole con getti d’acqua bollente. Sembra questa una testimonianza del tutto superficiale, ma, a saperla leggere, ci disvela dati documentari decisivi. Pitecusa è dunque popolata da coloni provenienti, congiuntamente, dalle città euboiche di Calcide e di Eretria. Ciò significa che tale colonizzazione è da situare in età anteriore alla guerra lelantea che, sul suolo dell’Eubea, intorno alla metà dell’VIII secolo, contrappone frontalmente le città di Calcide ed Eretria in un lungo ed estenuante conflitto destinato a concludersi con la distruzione di quest’ultima città e con il logoramento della sua rivale. Solo prima dello scontro le due metropoli potevano infatti agire in coppia: cioè prima della metà dell’VIII secolo, che è appunto la data cui, per la colonizzazione di Pitecusa, riconduce la testimonianza archeologica. La fondazione nel lontano Occidente costituisce non solo un ottimo trampolino di lancio per avventure commerciali in area tirrenica, ma - come precisa Strabone assicura ai nuovi coloni grande prosperità sia per la fertilità della terra, sia per la presenza di miniere d’oro. Le miniere sono, probabilmente, frutto di una leggenda che però testimonia come nell’immaginario collettivo degli antichi navigatori l’isola fosse associata a un’idea di grande e sconfinata ricchezza. Ricchezza che - assicura sempre Strabone - non impedisce ai coloni di emigrare verso altri lidi quando l’isola è scossa da forti rivolgimenti tellurici e contemporaneamente dilaniata da profonde lotte fratricide fra Calcidesi ed Eretriesi. Ma la nostra testimonianza, pertinente alle prime memorie euboiche presenti nel golfo di Napoli, è inoltre preziosa perché conferma l’esistenza di leggende relative a Tifeo e a Ulisse, rispettivamente nell’isola di Ischia e nell’area del vicino promontorio di Sorrento. Il ricordo di Tifeo, schiacciato sotto l’isola di Pitecusa, si ricollega alla saga della Gigantomachia, divulgatissima proprio presso gli Eubei, che traspongono dalla Calcidica alla regione del golfo di Napoli l’ubicazione dei Campi Flegrei dove Zeus avrebbe trionfato sui suoi smisurati, quanto sconsiderati, rivali. Il corpo di uno di essi, Tifeo, è appunto sepolto per sempre sotto l’isola di Pitecusa: la quale, proprio per questo, e per scherno, è definita «isola delle Scimmie» con una falsa etimologia che irride il rivale di Zeus. Il ricordo di Ulisse, presso il promontorio di Sorrento, si ricollega alla presenza degli scogli delle Sirene, confermandoci ancora una volta la stretta correlazione esistente fra la colonizzazione euboica e l’ambientazione occidentale della geografia dell’Odissea. Ma i più antichi coloni di Pitecusa, cioè i primi Eubei stanziati in Occidente, conoscevano davvero i poemi omerici? Conoscevano gli eroi dell’Iliade e dell’Odissea, immaginandosi di ripercorrere le rotte medesime che essi avrebbero seguito, reduci da Troia, nei loro difficili, e talora mancati, ritorni? Oggi una straordinaria scoperta archeologica ci consente di rispondere affermativamente a queste domande, attestando che i poemi omerici erano già profondamente radicati nella coscienza dei primi coloni euboici sbarcati a Pitecusa. Nell’isola, infatti, in una tomba databile all’VIII secolo, un’iscrizione graffita su una tazza ceramica di produzione rodia reca una sfida, o una comparazione, fra il contenuto della tazza e quello della celebre coppa di Nestore descritta nell’Iliade. L’epigrafe, che è di gran lunga la più arcaica fra quelle rinvenute in area occidentale, presenta un testo già evoluto sia per alfabeto sia per stilemi formali (Sup-plementum Epigraphicum Graecum, XIV, 604): La coppa di Nestore era certo piacevole a bersi, ma chi beve da questa coppa subito sarà preso dal desiderio di Afrodite dalla bella corona. Il morto che viene inumato con la sua bella tazza (probabilmente uno dei primi coloni) istituisce dunque un paragone fra questa e la coppa di Nestore; l’una, ricolma di vino, è solo piacevole a bersi, ma l’altra, la sua, se ricolma di altri beveraggi, ha il dono di essere afrodisiaca. Orbene, tale iscrizione mostra appunto che i poemi omerici erano ben noti presso i primi coloni euboici dell’Occidente, e fin nelle loro più minute suggestioni. L’archeologia, nel caso di Pitecusa, ci consente non solo di confermare il dato della tradizione letteraria, ma anche, inaspettatamente, di riscoprire lo spessore culturale dei coloni. Cuma Gli Eubei stanziati a Pitecusa avranno guardato con interesse alla limitrofa terraferma, dove ben presto altri concittadini, sopraggiunti dalla madrepatria e attratti dal loro richiamo, fondano la colonia di Cuma. Ne siamo nuovamente informati da Strabone (V, 243): Dopo queste città viene Cuma, fondazione assai antica dei Calcidesi e dei Cumani: è la più antica di tutte le colonie di Sicilia e di Italia. Ippocle di Cuma e Megastene di Calcide, che erano a capo della spedizione coloniale, si erano messi d’accordo fra loro che la città fosse colonia dei Calcidesi, ma portasse il nome di Cuma: per questo anche ora è chiamata Cuma pur avendola, come sembra, colonizzata i Calcidesi. La città ... era prospera e così la pianura chiamata Flegrea, dove viene localizzata la leggenda dei Giganti. Fra gli Eubei solo i Calcidesi partecipano alla fondazione di Cuma. L’assenza di Eretriesi denuncia che siamo già in un’età nella quale le metropoli dell’Eubea si fronteggiano nella guerra lelantea. Ciò è indizio di come la nuova colonia, per quanto arcaica, si dati in un’età leggermente posteriore a quella della fondazione di Pitecusa: quindi immediatamente dopo la metà dell’VIII secolo, fra il 750 e il 725 a.C, a stare alle risultanze di più dati fra loro convergenti. Il che ben si armonizza con il quadro storico offertoci dalla coeva documentazione archeologica. Strabone definisce sì Cuma «la più antica di tutte le colonie di Sicilia e di Italia»; ma egli intende parlare solo delle colonie che hanno avuto un loro divenire storico, e quindi prescinde qui dal ricordo di Pitecusa che - seppure più antica - non ha avuto lunga vita essendo stata abbandonata dai suoi abitanti. La presenza di due fondatori, Ippocle e Megastene, tradisce, per Cuma, un apporto coloniario legato a due gruppi etnici. I quali appunto, come precisa Strabone, sono costituiti da elementi di stirpe, rispettivamente, cumana e calcidese. Ma quali sono gli elementi cumani? E provengono da Cuma d’Asia, nell’Eolide, ovvero da un’altra Cuma, assai meno nota, situata nell’isola di Eubea? La prima posizione è sostenuta da Eforo, che, seppure storico affidabile, potrebbe esserne stato incentivato da motivi di campanile perché appunto nativo di Cuma in Asia; la seconda si ispira al buon senso e trae conforto dalla nutrita serie di autori latini che, per la Cuma campana, ricordano solo la sua origine calcidese. Comunque sia, fra i nuovi coloni si dovranno ascrivere anche elementi pitecusani, che certo avranno fatto da battistrada ai compatrioti in arrivo dalle lontane metropoli dell’Egeo. Così giustamente sottolinea Livio (Ab urbe condita, VIII, 22, 5-6), che però in forma arbitraria unifica le distinte spedizioni coloniarie che portano gli Eubei a stanziarsi prima a Pitecusa, donde occupano la limitrofa Enaria (Procida), e solo successivamente a Cuma, a sua volta metropoli delle due città di Napoli, la vecchia (Paleapolis) e la nuova (Neapolis): Palepoli sorgeva poco lontana dal posto in cui è ora Napoli: erano due città abitate da popolazione di uguale stirpe, oriunde da Cuma; ed i Cumani provengono da Calcide dell’Eubea. Con l’aiuto della flotta che li aveva lì portati dalla patria avevano acquistato molta potenza lungo le coste del mare da essi occupate, sbarcando prima nelle isole di Enaria e di Pitecusa, donde poi erano passati sulla terraferma. Livio, storico di Roma, appartiene agli autori latini che rivendicano, per Cuma, solo un’origine calcidese. Probabilmente egli ha ragione nel ricordarci come la fondazione di Cuma abbia quale premessa obbligata quella di Pitecusa, ma poi sbaglia nell’attribuire a un medesimo gruppo di coloni provenienti dall’Eubea la deduzione tanto dell’una quanto dell’altra città. Il suo interesse tuttavia è rivolto ad altro: a offrire al lettore, con notazione unitaria, il quadro avvolgente di uno sviluppo rettilineo della presenza greca nelle acque del golfo di Napoli. Egli inoltre ci dice che gli Eubei, che fonderanno Cuma, «avevano acquistato molta potenza lungo le coste del mare». E ciò significa - al di là di facili eufemismi - che essi esercitavano un controllo sulle rotte costiere praticando la pirateria; attività, come sappiamo, mai disgiunta, o disgiunta del tutto, nel mondo greco arcaico, dalla consuetudine della navigazione e del commercio. Peraltro - come diremo - anche lo storico Tucidide conosce pirati cumani che infestano i mari e gli stretti occidentali proprio all’alba della colonizzazione euboica. Ma, anche se originariamente - e disinvoltamente - mercanti e pirati, a Cuma questo popolo di avventurieri del mare si trasforma ben presto in un popolo di agricoltori. Come accennato nel primo capitolo, regioni della Grecia metropolitana stavano infatti attraversando una profonda crisi sociale che rivelava come esse fossero ormai troppo anguste per ì rispettivi abitanti. Non che mancasse la terra, ma questa era malamente distribuita e di fatto accentrata nelle mani di un chiuso latifondo che strozzava la piccola proprietà contadina. Gli appartenenti ai ceti più deboli erano così costretti a emigrare tentando l’avventura della colonizzazione. Ecco perché Cuma nasce sì come base commerciale, ma acquista poi tutti i caratteri della colonia di popolamento; cioè della colonia in grado di offrire, a successive ondate di coloni, quelle fertili aree coltivabili delle quali essi più non possono disporre nella madrepatria. Quella che la tradizione ci indica come la più antica città greca in Occidente ha dunque il duplice ruolo di colonia commerciale e di base agricola. Ma, data la sua posizione geografica, di più settentrionale fra tutte le fondazioni greche dell’Italia tirrenica, diviene, culturalmente, anche un’importantissima città di frontiera con il mondo etrusco-latino. Roma, in particolare, tramite Cuma, assimila nella propria la cultura greca, ricevendone continui arricchimenti, o condizionamenti, nel modello di vita: dall’introduzione dell’alfabeto alla genesi della lingua letteraria, dall’importazione di nuove divinità alla definizione di nuove forme di culto, dall’acquisizione di usi, costumi, tecnologie alla scelta di pratiche mediche. Ma il circolo delle eredità non si esaurisce qui, né è solo circoscritto al mondo antico. Se al giorno d’oggi noi chiamiamo Greci gli Elleni è perché i Romani li denominavano Grati. Ma, se i Romani così li definivano, è proprio perché gli Elleni di Cuma si dovevano autodefinire Graikoi. Nome di fatto distintivo solo di poche genti marittime della Beozia e della limitrofa costa dell’Eubea, ma che i Romani per errore recepirono come universale trasmettendolo fino a noi. Nasso e Leontini Come la città di Cuma è la più antica colonia greca di Italia, così Nasso lo è della Sicilia. Ed essa pure è fondata dagli Eubei di Calcide nella seconda metà dell’VIII secolo, probabilmente nell’anno 734. La città sorgeva ai piedi dell’odierna Taormina, sulla piccola penisola di Schisò, in un sito che costituiva il primo e più naturale approdo per le navi greche che, in rotta per la Sicilia, avevano appena doppiato l’estrema punta d’Italia. È Tucidide (VI, 3,1) che anzitutto ci informa della sua fondazione nel contesto di un prezioso excursus sulla più antica storia della Sicilia: Tra i Greci [che occuparono la Sicilia] i primi furono i Calcidesi che, salpando dall’Eubea con Tucle come capo della colonia, fondarono Nasso. Un cinquantennio dopo maggiori notizie, anche se non completamente attendibili, ci fornisce Eforo, anch’egli storico solitamente informato, in una testimonianza riferitaci da Strabone (VI, 267): Non esistono più Nasso e Megara ... Dice Eforo che queste furono le prime città greche a essere fondate in Sicilia, dieci generazioni dopo la guerra di Troia; prima infatti i Greci avevano timore delle scorrerie dei pirati etruschi e della crudeltà dei barbari della zona, al punto che non vi giungevano nemmeno per commerciare. L’ateniese Teocle, spinto dai venti in Sicilia, notò la scarsità degli abitanti e la ricchezza della terra; però, quando tornò in patria, gli Ateniesi non gli prestarono ascolto. Allora raccolse molti Calcidesi di Eubea e alcuni Ioni, oltre a un gruppo di Dori, dei quali la maggior parte era di Megara, e fece ritorno in Sicilia. I Calcidesi allora fondarono Nasso, i Dori Megara [Iblea]. Di Megara Iblea riparleremo più oltre; soffermiamo ora l’attenzione su Nasso, che, al pari della colonia megarese, è già una città morta nell’età di Strabone. I dati convergenti fra le due testimonianze, Tucidide ed Eforo, sono offerti dalla sostanziale rispondenza sul nome dell’ecista, Tucle o Teocle, e dall’affermazione che Nasso è la più antica delle colonie greche di Sicilia. Il principale dato divergente consiste nel fatto che per Tucidide il fondatore della nuova città sarebbe un colono calcidese, mentre per Eforo un navigatore di stirpe ateniese. Orbene, questa seconda notizia, relativa alla patria di Tucle o Teocle, sembra in effetti assai poco credibile, dato che è oltremodo sospetto il fatto che non la registri né l’ateniese Tucidide né, prima di lui, l’ateniese Ellanico. Quest’ultimo, pure ignorandone il nome, attribuisce anch’egli al fondatore di Nasso un’origine calcidese. Paradossalmente proprio due storici di ambiente attico ignorano la tradizione relativa al fondatore «ateniese» di Nasso. Tradizione che, oltretutto, non può essere maturata che in ambiente ateniese e, presumibilmente, nella loro medesima età. Se però l’ignorano, vuole dire che la rifiutano ritenendola falsa. E in effetti, con ogni probabilità, si tratta di una tradizione nata nel corso del V secolo per propagandare le mire di Atene in Occidente, legittimandole grazie a una nobilitante proiezione nel passato delle origini. Operazione che richiedeva appunto la presenza di presunti ecisti attici a capo di spedizioni coloniarie di altro segno e promosse da altre etnie che, come l’euboica, si ritrovano nel V secolo, e non a caso, a gravitare proprio in orbita politica ateniese. Eforo ci offrirebbe così un dato documentario meno attendibile, perché inquinato dai temi della propaganda politica ateniese. Cosa, peraltro, che bene si percepisce anche da un’altra sua notazione: quella relativa al terrore esercitato sui naviganti greci dai pirati etruschi. Orbene, questi ultimi costituiscono sì un concreto e reale pericolo per la navigazione commerciale ellenica, ma non nell’VIII secolo, e addirittura in un’epoca che è anteriore alla stessa fondazione di Nasso, bensì in pieno V secolo: cioè nell’età in cui Atene matura le sue mire espansionistiche sull’Occidente. Gli antichi coloni calcidesi, peraltro, non solo non dovettero rimanere atterriti sul mare dalla ferocia dei pirati etruschi, ma neppure, giunti a terra, dalla crudeltà degli indigeni siculi; i quali, a Nasso - a quanto sappiamo dall’indagine archeologica - convissero con l’elemento ellenico in pace e senza particolari motivi di contrasto. Secondo Eforo, sempre nella medesima spedizione co-loniaria guidata da Tucle/Teocle sarebbero giunti in Sicilia, insieme ai Calcidesi, anche altri Greci di stirpe ionica non altrimenti identificati. Si tratta di notizia pienamente attendibile. Ma in verità essi dovettero costituire un gruppo o molto variegato o non troppo consistente dato che la tradizione, per essi, non registra - a lato di Tucle/Teocle - il nome di un secondo ecista. L’ipotesi più probabile è che questo sottogruppo di colonizzatori ionici provenisse dall’isola egea di Nasso; la quale così, coinvolta nell’impresa transmarina, avrebbe finito per imporre il proprio nome al nascente stanziamento coloniario. Il dato archeologico conferma le notizie della tradizione storiografica. In particolare, per Nasso, l’archeologia ci ha restituito materiali ceramici riferibili alla fase più antica della colonia; tra i quali un’ampia serie già riconducibile a produzione locale. Ci ha inoltre restituito la cinta muraria fortificata del VI secolo e tracce, risalenti al V secolo, di un tempio di Afrodite di notevoli dimensioni. Più oltre, a livelli cronologici più bassi, non ci è dato discendere, poiché la distruzione della città a opera di Dionigi il Vecchio di Siracusa ci preclude l’acquisizione di ulteriori elementi documentari. Nasso risorgerà sì, in età successiva, ma non sarà altro che una misera borgata, destinata a cedere dinanzi al crescente potenziamento della limitrofa Tauro-menio (l’odierna Taormina) che finirà per assorbirne tradizioni ed eredità culturali. Troppo presto soffocata dalle mire imperialiste della potente città di Siracusa, Nasso esaurirà il suo ruolo propulsore in età arcaica, allorché sarà punto di partenza, o di raccordo, per spedizioni che conducono alla fondazione, in Sicilia, di altre due città, sue subcolonie: Leontini e Catania. Leontini (Lentini), più che figlia, è sorella di Nasso, dato che fu fondata solo cinque anni dopo quest’ultima e, per giunta, per iniziativa del medesimo ecista, che cacciò i Siculi dal suo territorio. Alla pari di Nasso, anche la fondazione di Leontini presenta elementi di commistione con tradizioni megaresi, che accentuano il ruolo svolto da Lami il quale, a capo di una spedizione megarese, si sarebbe insediato per un breve periodo a Leontini insieme ai Cal-cidesi, e poi, scacciatone, si sarebbe diretto a Tapso. Non stupisce che anche altre etnie greche abbiano cercato di insediarsi a Leontini, dato che il sito, abbondantemente irrigato dal fiume Simeto, domina su una delle più grandi e più fertili pianure della Sicilia occidentale. Colonia agricola per eccellenza, e quindi colonia di popolamento, sarà dunque Leontini, posta nell’interno, a 10 chilometri dal mare. Col tempo, in età classica, divenuta più importante della stessa Nasso, stringerà un trattato di alleanza con la potentissima Atene, quantomai interessata a intrattenere con essa relazioni diplomatiche sia per il suo allineamento antisiracusano sia per il suo ruolo di esportatrice di cereali, che le valse il nome di granaio della Sicilia. Catania, che ha come ecista Evarco, viene fondata più o meno nello stesso periodo. Posta sul mare, ai piedi dell’Etna, è colonia contemporaneamente agricola e commerciale. Ciò le assicura grande prosperità economica; ma, al contempo, le suscita contro brame di conquista da parte della potente e vicina città di Siracusa. La quale, nel 476, al tempo del tiranno Ierone, ne caccerà gli abitanti, la ripopolerà con coloni di stirpe dorica e le muterà perfino il nome: da Catania diventerà così Aitna (cioè Etna), si tratterà però di un ribattesimo del tutto effimero dato che, di fatto, il nuovo nome non riuscirà mai a prevalere sul vecchio. Zancle Dell’occupazione del sito di Zancle, e della sua fondazione, che avvengono in due tappe distinte, ci informa sempre Tucidide (VI, 4, 5-6), il quale ci dice pure come, successivamente, la città abbia cambiato il suo nome in quello di Messene (cioè Messina): Zancle fu fondata in origine quando dalla colonia calcidese di Cuma, nel territorio degli Opici, arrivarono dei pirati; in seguito venne un gran numero di coloni anche da Calcide e dal resto dell’Eubea, i quali si divisero la terra insieme agli altri: i fondatori della colonia furono Periere e Cratemene, il primo di Cuma, il secondo di Calcide. Dapprima il nome della città era Zancle, come era stata chiamata dai Siculi, perché il luogo ha la forma simile a quella di una falce (i Siculi chiamano la falce zanclon); più tardi i Calcidesi furono scacciati dai Sami e da altri Ioni, i quali, fuggendo dai Persiani, erano approdati in Sicilia. Anassilao, tiranno di Reggio, non molto tempo dopo espulse i Sami e lui stesso colonizzò la città con uomini di razza mista, e le mutò il nome, chiamandola Messene in ricordo della sua antica patria. Tale lunga testimonianza ci conserva quattro notizie, fondamentali per introdurci ai segreti della storia di Zancle/Messene. Notizie - che qui esamineremo singolarmente relative: 1) alla fondazione euboica; 2) all’etimologia del nome; 3) all’immigrazione dì genti di Samo e della Ionia; 4) alla ricolonizzazione da parte di Anassilao. La fondazione euboica, come abbiamo anticipato, avviene in due tappe: la prima per iniziativa di pirati provenienti dalla colonia calcidese di Cuma in Campania (situata, cioè, nel paese degli Opici), la seconda per iniziativa di Calcide di Eubea, che associa all’impresa coloniaria altre genti dell’isola. Pertanto Periere e Cratemene, gli ecisti, sono espressione ciascuno dei due gruppi coloniari euboici che fondano la città. Il che avviene però in fasi successive, dato che l’insediamento da parte dei pirati cumani ci riporta in età anteriore alla stessa fondazione di Nasso, mentre è da datare in età sicuramente posteriore il successivo, decisivo insediamento coloniario per iniziativa dei coloni provenienti da Calcide. Ovviamente è questo secondo l’evento che connota l’atto di fondazione della nuova polis affacciata sullo Stretto; a cui avrebbero partecipato - stando ad altre tradizioni - anche coloni sicelioti accorsi dalla limitrofa Nasso. Né certo stupisce una tale molteplicità di fondatori di stirpe euboica, provenienti sia dalla comune madrepatria sia dalle colonie dell’Occidente, se consideriamo che una base a Zancle veniva loro ad assicurare il monopolio dei commerci in transito sullo stretto di Messina, e quindi dei commerci interessati all’intera area tirrenica. L’etimologia del nome riconduce ad ambito siculo, il che per noi è sicuro indizio della sovrapposizione dell’insediamento greco su un più arcaico nucleo indigeno, con il quale è assai probabile che i nuovi venuti abbiano instaurato rapporti di pacifica coesistenza. Zanclon in dialetto siculo significa «falce», e con tale nome designarono appunto un sito il cui porto conserva tutt’oggi la forma dell’incurvatura della falce, che la fantasia dei Greci identificò con quella gettata in mare da Zeus dopo avere evirato il padre Crono. L’immigrazione di genti di Samo e della Ionia, che si sovrappongono ai più antichi colonizzatori euboici, è testimoniata da Erodoto, il quale riferisce che Sami e Milesi, scacciati dai Persiani, riparano prima a Locri in Italia e quindi a Zancle. Il fatto ci riporta all’anno 494, quando, dopo la battaglia di Lade, veniva soffocata la rivolta ionica, e pare fossero proprio gli abitanti di Zancle a invitare in Sicilia questi profughi dall’Asia per associarli alla fondazione di una nuova colonia, da dedurre a Kale Acte sulla costa settentrionale dell’isola. Ma Anassilao, il potente tiranno di Reggio, li avrebbe persuasi a impadronirsi della stessa città di Zancle, cacciandone gli abitanti. La ricolonizzazione da parte di Anassilao avviene in un momento ancora successivo: quando il tiranno di Reggio scaccia i Sami e gli altri Greci d’Asia, invitando più genti, e soprattutto genti di stirpe messenica, ad accorrere dal Peloponneso alla conquista di Zancle, conquista che avviene per merito decisivo delle sue armi. Allora, in ricordo dell’antica patria della sua stirpe, proveniente dal Peloponneso, impone alla città il nuovo nome - che tutt’oggi conserva - di Messene (Messina). Tale la vicenda di Zancle e delle sue successive immigrazioni di coloni. L’archeologia poco o nulla ci dice, poiché il sito è stato ripetutamente sconvolto da terribili terremoti che hanno interessato tutta l’area dello Stretto. Ma, anche in assenza del dato archeologico, possiamo affermare con tranquillità che l’importanza di Zancle risiedeva tutta nella sua collocazione strategica sullo Stretto, e quindi nella rete di infrastrutture del suo porto. Il che ne dovette condizionare lo stesso sviluppo territoriale, poiché la città, serrata tra il mare e il monte, e non disponendo quindi di sufficienti risorse agricole, fu costretta, per soddisfare le sue necessità, a fondare una subcolonia immediatamente dietro l’angolo di nordovest, subito al di là dell’impervia barriera montuosa che si precipita in mare. È questa la sua subcolonia di Mile, sull’omonimo promontorio (oggi Milazzo) proteso verso l’arcipelago delle Lipari. L’acropoli sorgeva sulla collina, dove oggi c’è il castello medievale, e solo la necropoli - che coincide con l’abitato moderno - si trovava sull’istmo che delimita il promontorio. Ancora più a occidente, sempre sulla costa settentrionale della Sicilia, sorgeva Imera, presso l’omonimo fiume. La città, in forma congiunta, fu fondata da Zancle e da Mile, ma con partecipazione di elementi dorici provenienti da Siracusa. La sua commistione etnica ne avrebbe condizionato la vicenda futura, così come elemento decisivo di tutta la sua storia sarebbe divenuta la collocazione di ultimo avamposto della grecità al confine della Sicilia cartaginese. Reggio Tramite Zancle gli Eubei di Calcide controllano dunque la via del mar Tirreno, ma, per controllarla ancora meglio, decidono di fondare un’altra colonia sull’opposta sponda dello Stretto. È questa la colonia di Reggio, in Calabria, situata sull’estrema punta d’Italia. Per popolare la nuova città, Calcide, sua madrepatria, non si rivolge solo agli abitanti dell’Eubea, ma accresce l’organico della spedizione coloniaria con genti della Messenia. Queste svolgeranno un ruolo primario nelle successive vicende della storia di Reggio, come ci informa Strabone (VI, 257) parlandoci della sua fondazione: Reggio è fondazione dei Calcidesi... Secondo Antioco furono gli abitanti di Zancle a invitare ì Calcidesi e a imporre loro come ecista Antimnesto. Fecero parte della colonia anche alcuni esuli Messeni del Peloponneso, costretti a lasciare il proprio paese da quanti non avevano voluto dare nessuna riparazione ai Lacedemoni per l’oltraggio fatto a Limne ad alcune fanciulle. Queste fanciulle infatti, mandate a compiere un sacro rito, erano state violentate dai Messeni, i quali avevano anche ucciso quanti erano accorsi in loro aiuto. Gli esuli, pertanto, essendosi rifugiati a Macisto, mandarono a consultare l’oracolo ... e domandarono come potessero salvarsi dalla rovina. Apollo pertanto ordinò loro di andare insieme con i Calcidesi a Reggio ... essi infatti non erano stati sventurati, ma anzi si erano procurati la salvezza, perché avrebbero evitato di perire insieme alla patria che sarebbe stata entro breve tempo distrutta dagli Spartani. Essi perciò ubbidirono. Per questo i capi dei Reggini, fino ad Anassilao, furono sempre della stirpe dei Messeni. Antioco è uno storico siracusano del V secolo, interessato alla storia dei Greci d’Occidente e degno della massima attenzione. Egli ci narra che la colonia di Reggio sarebbe sì stata fondata dai Calcidesi, ma per iniziativa, e su sollecitazione, degli Zanclei, i quali così, con una testa di ponte al di là dello Stretto, avrebbero meglio dominato l’accesso al mar Tirreno. Egli inoltre ci dice che ci sarebbe stata un’ampia, o comunque non trascurabile, compartecipazione messenica alla fondazione della città. La prima notizia è avvalorata dalla constatazione che la scelta dell’ecista avviene in ambito zancleo. La seconda notizia - come ormai sappiamo - dalla constatazione che Messene è la patria d’origine della famiglia del tiranno Anassilao. La colonia di Reggio è dunque posteriore a quella di Zancle. Alla sua fondazione avrebbero poi partecipato anche colonizzatori provenienti dalla Messenia, e quindi di ambiente dorico. Questi Messeni, già profughi a Macisto in Trifilia, erano stati costretti a emigrare dai loro concittadini che non tolleravano come essi volessero offrire riparazione agli Spartani per una comune violenza, perpetrata a Limne, contro loro fanciulle. Sono dunque Messeni doppiamente esuli. Da essi, in Reggio, discenderanno gli esponenti della classe destinata a dominare; almeno fino ad Anassilao, il quale appunto, perché memore della patria d’origine, impone a Zancle il nuovo nome di Messene. È quindi, questa di Reggio, una fondazione assai variegata per connotazione etnica, come oggi confermano ampiamente le sue iscrizioni che alternano al dialetto ionico marcate forme doriche. La testimonianza letteraria conserva inoltre memoria di due dati di rilievo relativi alla cronologia della colonia e alla funzione propulsiva della classe sacerdotale delfica. La data di fondazione di Reggio ci riporta all’età della prima guerra messenica, allorché gli Spartani - nella seconda metà dell’VIII secolo - conquistano e distruggono Messene, che è la patria appunto dei Messeni colonizzatori di Reggio, i quali si associano alla spedizione calcidese su consiglio della classe sacerdotale delfica. La loro consultazione dell’oracolo di Apollo per ottenere informazioni in vista di imprese coloniarie è infatti, come sappiamo, prassi normale, ed equivale alla consultazione di un’aggiornatissima banca dati, poiché nell’importante e assai frequentato centro religioso di Delfi convergono notizie relative a tutto il mondo mediterraneo. In questo caso, tramite l’oracolo, i sacerdoti di Apollo mettono in contatto, e in reciproca comunicazione, Calcidesi e Messeni in funzione dell’allestimento di un’unica spedizione coloniaria, che - nel nostro caso - nasce su sollecitazione di Zancle. Anche se nata per interessamento di Zancle, tuttavia, la nuova città sarà destinata a esercitare il ruolo di potenza dominante sulla consorella dello Stretto, soprattutto - come abbiamo detto - nell’età di Anassilao. Data la sua collocazione geografica, e per attrazione di interessi commerciali, era peraltro inevitabile che la storia di Reggio gravitasse più sulla Sicilia che sull’Italia. Il che, in età tarda, le sarà fatale: nel IV secolo, infatti, sarà conquistata e distrutta da Dionigi il Vecchio perché divenuta ricetto di profughi siracusani suoi oppositori politici. Oggi l’insediamento moderno si sovrappone all’antico, precludendoci l’indagine diretta sul territorio. Di conseguenza anche i dati archeologici in nostro possesso sono basati perlopiù su rinvenimenti occasionali o su scavi isolati, che di fatto poco ci illuminano sulla storia della colonia. VI. I CORINZI Sulla costa orientale della Sicilia sorgono dunque - per iniziativa di Calcide di Eubea le colonie ioniche di Nasso, Leontini e Zancle. E qui, nel medesimo periodo, poco più a meridione, nasce anche Siracusa, la colonia di stirpe dorica destinata a divenire la massima potenza greca dell’isola. Sua madrepatria è Corinto, grande dominatrice dei mari per tutta l’età arcaica, la cui vocazione alla colonizzazione e all’espansionismo oltremare matura in età molto antica, al tempo in cui la città è dominata, in forma oligarchica, dalla famiglia dei Bacchiadi. Allora muove già i primi passi una nascente classe imprenditoriale e marinara, con aspirazioni larvatamente borghesi, favorita nel suo decollo economico proprio dalla felicissima posizione geografica di Corinto. La città ha due grandi porti Lecheo e Kenchre - che si affacciano, rispettivamente, sui golfi Corinzio e Saronico, fra loro collegati, via terra, da un binario di legno, o diolkos, sul quale le navi vengono trasbordate da mare a mare per tutta la lunghezza dell’Istmo. Corinto - già a partire dalla metà dell’VIII secolo - costituisce così uno scalo primario, un punto di raccordo e un approdo obbligato per tutte le merci in transito fra Oriente e Occidente. Non meraviglia quindi che, in questo periodo, la città estenda il suo raggio di azione in aree lontane, e soprattutto verso occidente. Qui fonda le grandi colonie di Corcira (nell’isola ionica di Corfù) e Siracusa, a loro volta destinate a divenire metropoli di ulteriori stanziamenti. Ed è proprio questa spinta alla colonizzazione che la trasforma in una città trafficante, in grado di competere per mare con le stesse metropoli dell’Eubea. Città dove fiorisce un’industria ceramica destinata all’esportazione in cambio di materie prime e di schiavi; dove sorgono cantieri capaci - con soluzioni tecniche all’avanguardia - di varare le prime triremi greche. Tutto ciò porta, in seno alla popolazione, a una rapida e traumatica trasformazione delle vecchie strutture economico-sociali, consentendo a una classe imprenditoriale, precocemente matura, di rivendicare spazio politico, e con esso il monopolio dei commerci. La famiglia dei Bacchiadi è così costretta a cedere ai tempi nuovi, segnati dall’avvento insurrezionale della tirannide di Cipselo. Né peraltro è da escludere che la rivoluzione sociale sia stata determinata anche da una causa più contingente, cioè dalla necessità della classe marinara di salvaguardare il ruolo di primato del commercio corinzio, gravemente compromesso dall’affrancarsi di Corcira dalla tutela della madrepatria e dal potenziarsi, a livello concorrenziale, della limitrofa Megara, essa pure dotata di due porti e dell’accesso a due mari. Ovviamente Corinto sa giocare bene le sue carte, approfittando della situazione internazionale che accompagna e segue circa a metà dell’VIII secolo la già ricordata guerra lelantea. Nel corso del conflitto, alleata di Calcide, Corinto combatte Eretria sulle vie dell’Occidente, sovrapponendosi anche territorialmente ad alcune sue fondazioni. Finita la guerra, approfitta poi della sopraggiunta debolezza di Calcide per soppiantarne il ruolo guida sulle rotte commerciali del Mediterraneo. Siamo fra i secoli VIII e VII; la liquidazione occidentale di Eretria si data sotto il dominato dei Bacchiadi, la contrapposizione con Calcide sotto la tirannide dei Cipselidi. Siracusa Ribattendo rotte euboiche, i Corinzi, in Sicilia, si spingono ancora più a sud di Nasso, fondando la colonia di Siracusa in felicissima posizione geografica, tra il tavolato di Epipoli e la penisola di Plemmirio. Ce ne informa Tucidide (VI, 3,2) con la consueta stringatezza: L’anno seguente [alla fondazione di Nasso] Archia, della famiglia degli Eraclidi, venne da Corinto e fondò Siracusa, avendo prima scacciato i Siculi dall’isola, che ora non è più circondata dall’acqua e in cui si trova la parte interna della città; più tardi, con il passare del tempo, anche la parte esterna, che fu collegata all’altra con le mura, ebbe una grande popolazione. La data di Tucidide, correlata all’anno successivo alla fondazione di Nasso, ci riporta al 733 ca. Ed è la data che egli attinge da Antioco. Altra cronologia ci offre invece Filisto, anch’egli storico siracusano degno della massima attenzione: quella del 756 ca, l’anno della sesta Olimpiade. Le due datazioni portano a una sfasatura di circa ventitré anni. Non potrebbe essere, tale sfasatura, indizio di un duplice stanziamento di coloni? I primi presumibilmente euboici e solo i secondi corinzi? Non è da escludere, giacché il rinvenimento di frammenti euboici, dell’VIII secolo, nel vicino abitato di Castelluccio, e così pure le marcate analogie esistenti tra le più antiche ceramiche di Siracusa e le produzioni euboico-cicladiche, indurrebbero a concludere a tutto favore di una frequentazione ellenica del sito in età precorinzia. Frequentazione ovviamente di marca euboica, che verrebbe a spiegare anche la presenza a Siracusa di toponimi o idronimi - tipo Aretusa o Ortigia («isola delle quaglie») - del tutto affini ad altri riscontrabili in Eubea; nonché l’esistenza di talune «anomalie» ioniche presenti sia nell’alfabeto sia nel sistema ponderale. Quindi a Siracusa potrebbero essersi succeduti, con breve intervallo, due stanziamenti coloniali, destinati probabilmente a reciproca fusione: l’uno ionico-euboico e l’altro dorico-corinzio. Il che non sarebbe più anomalo di quanto avviene nella calcidese Leontini, dove assistiamo a una convivenza, seppure temporanea, fra i suoi primi coloni ed elementi di estrazione dorico-megarese. In questo caso, però, non i Corinzi con Archia, bensì i protocolonizzatori I euboici avrebbero cacciato i Siculi abitanti l’isoletta di Ortigia, dove anche materiali archeologici oggi segnalano la loro presenza in età anteriore all’arrivo dei Greci. Comunque, anche se nata per integrazione di stirpi e per fusione di insediamenti, Siracusa come città nasce con la fondazione corinzia, per iniziativa della spedizione capitanata da Archia. Egli è designato quale appartenente alla famiglia degli Eraclidi. Ciò significa che è un esponente della nobile famiglia dei Bacchiadi, proclamatasi discendente da Eracle e détentrice del potere in Corinto. A lui, secondo la tradizione, si sarebbe accompagnato un altro bacchiade illustre: il poeta ciclico Eumelo che conosciamo quale grande cantore di avventure e di leggende ambientate in Occidente. La più antica fondazione di Siracusa interessa solo l’isola di Ortigia, dotata di una abbondante fonte di acqua dolce e di ben due approdi, destinati, col tempo, a divenire munitissimi porti sia militari sia commerciali. Soprattutto quando l’isola, come ricorda Tucidide, sarà unita alla costa da un molo artificiale che li verrà maggiormente a delimitare. Successivamente, crescendo il numero degli abitanti, Siracusa si estende anche sulla terraferma, occupando il tavolato triangolare di Epipole dove sorgono i suoi quartieri più popolosi: cioè Achradina, Tyche e Neapoli. La città finisce così per spostarsi sulla terraferma, presto circondata da una robusta cinta muraria, mentre l’isola di Ortigia, col tempo, diviene reggia e caserma per i suoi tiranni. Queste, sostanzialmente, le notizie che ricaviamo da Tucidide. Più ricco invece il racconto offertoci da Strabone (VI, 269-270): Siracusa fu fondata da Archia, venuto da Corinto, pressappoco nello stesso periodo in cui furono fondate Nasso e Megara. Si racconta che Miscello e Archia si recarono insieme a Delfi: a entrambi, che lo interrogavano, il dio chiese se preferissero la ricchezza o la salute; Archia scelse la ricchezza, Miscello la salute. Allora all’uno concesse di fondare Siracusa, all’altro Crotone, e avvenne che i Crotoniati abitassero una città salubre ... e i Siracusani giungessero a tanta ricchezza che anch’essi passarono in proverbio, dato che di persone eccessivamente prodighe si dice che «non basterebbe loro nemmeno la decima dei Siracusani». Mentre navigava verso la Sicilia, Archia lasciò a colonizzare l’odierna Corcira, che in passato si chiamava Selleria, Chersicrate, della stirpe degli Eraclidi, con una parte dei compagni di viaggio. Chersicrate colonizzò l’isola, dopo averne scacciato i Liburni che l’abitavano; Archia, invece, approdato al Capo Zefirio e trovativi alcuni Dori lì giunti mentre tornavano a casa dalla Sicilia, dopo essersi separati dai fondatori di Megara [Iblea], li prese con sé e insieme a loro fondò Siracusa. Strabone riferisce qui una tradizione che risale a Eforo, storico del IV secolo, autore di una storia universale. Con l’espressione «pressappoco nello stesso periodo» egli ci offre un quadro più ampio che contestualizza la fondazione di Siracusa con quelle di Corcira, Megara e Nasso. Il che non solo è rispondente a quanto sappiamo dalla tradizione, ma costituisce anche un dato che ci aiuta a meglio focalizzare i meccanismi e la dinamica dell’impresa coloniaria corinzia. La quale - tramite il sostanziale sincronismo fra le spedizioni transmarine di Archia e di Miscello - è anche sincronizzata con la fondazione di Crotone, che però ci riporta a una data troppo bassa: quella del 708 ca. Il che complica notevolmente i termini del problema. Che dire? Strabone, dipendendo da Eforo, segue qui una terza cronologia, differente da quelle di Antioco e di Filisto? Miscello, l’ecista di Crotone, ha guidato non una, bensì due spedizioni, la prima abortita e solo la seconda concretizzatasi con la fondazione del 708 ca? Siracusa ha fatto proprio un ecista che la tradizione più antica assegnava forse a Sibari? Tali gli interrogativi che formula la critica, senza riuscire ad approdare ad alcuna definitiva risposta. Ancora una volta Strabone documenta l’importantissima funzione svolta dal santuario di Delfi nel consigliare, orientare e dirigere le spedizioni coloniali. Archia e Miscello si dirigono infatti in Occidente dopo avere consultato l’oracolo di Apollo. Qui il primo fonda Siracusa in Sicilia, il secondo Crotone in Italia. L’aneddoto relativo alla ricchezza dell’una e alla salubrità dell’altra città si elabora ovviamente post eventum, a seguito della loro potenza, e quindi della notorietà che presto acquisiscono in seno al mondo greco. Importante il dato relativo al sostanziale sincronismo tra le fondazioni di Corcira e di Siracusa, frutto di una medesima spedizione coloniaria corinzia con duplice meta e con duplici ecisti, rispettivamente Archia e Chersicrate. Anche quest’ultimo, in quanto discendente da Eracle, è esponente della potente famiglia dei Bacchiadi che, in forma oligarchica, detiene il potere in Corinto. Né c’è dubbio che per Strabone anche Archia appartenga alla medesima famiglia, poiché il bacchiade Chersicrate gli è subalterno e suo, e non di quest’ultimo, è il comando della spedizione coloniaria. Entrambi, stando ad alcuni indizi, sarebbero stati costretti a esulare e ad abbandonare Corinto perché macchiatisi di colpe, e quindi divenuti elementi pericolosi o quantomeno indesiderati in patria. Corcira, prima della fondazione corinzia, si sarebbe chiamata Scheria, che è il nome che il poeta dell’Odissea attribuisce all’isola dei Feaci. Ciò è indizio non trascurabile di una precedente frequentazione dell’isola da parte degli Eubei, dato che proprio questi - come abbiamo detto - sono i primi a trasporre e riambientare in Occidente la geografia del poema. Indizio che ci è confermato da una notizia tramandata da Plutarco, secondo la quale i Corinzi avrebbero cacciato da Corcira i più antichi coloni euboici, provenienti da Eretria. Orbene, pressoché identica situazione deve essersi verificata anche a Siracusa, dove appunto più dati parlano a favore di uno stanziamento di Eubei in età precorinzia. Erano Eretriesi anche loro? O misti, Eretriesi e Calcidesi, come i più antichi colonizzatori di Pitecusa? Se la congettura ha un senso, ciò significa che il primitivo, ipotetico, insediamento euboico a Siracusa è da datare, come nel caso di Pitecusa, in età anteriore alla guerra lelantea scoppiata fra le due città che aprono la via alla colonizzazione greca nei mari di Occidente. Infatti solo in età anteriore a questa guerra si data l’azione coloniaria di Eretria, o comunque si data una sua politica transmarina condotta in accoppiata con Calcide. Cioè prima della metà dell’VIII secolo, dato che ottimamente si armonizza con il livello cronologico cui riconduce l’evidenza archeologica testimone di un’arcaicissima frequentazione euboica del sito di Siracusa. La spedizione coloniaria di Archia, all’altezza di Locri, presso il capo Zefirio, viene poi intercettata da «alcuni Dori» reduci dalla Sicilia, dove giungono insieme ai fondatori di Megara. Ciò significa che, per Eforo, cui attinge Strabone, Megara sarebbe stata fondata addirittura prima della stessa Siracusa. La qual cosa non stupisce, poiché l’anteriorità insediativa di Siracusa su Megara risale alla pagina di Tucidide, e quindi alla testimonianza di Antioco. Il quale, essendo storico siracusano, potrebbe benissimo avere collocato la fondazione della sua città immediatamente dopo quella di Nasso, che una tradizione concorde indicava come la più antica colonia greca in terra di Sicilia. Ma chi sono i Dori che, reduci da questa isola, vi ritornano con Archia? Non è da escludere che possano essere anch’essi Corinzi, i quali si sarebbero potuti separare dai coloni megaresi proprio allo scoppio della guerra lelantea, quando Corinto, loro metropoli, si schiera con Calcide mentre Megara - omonima madrepatria della città siciliana - prende le parti di Eretria. Ma, pur ammettendo che questi Dori non fossero stati Corinzi, la loro presenza non ci stupirebbe lo stesso, perché sappiamo che anche elementi di altra stirpe hanno preso parte alla fondazione di Siracusa. Qui, infatti, il poeta Pindaro testimonia la presenza di un membro della famiglia sacerdotale degli Iamidi che, in Olimpia, nell’Elide, presiedeva al culto di Zeus. Dato non privo di rilievo, perché ci illumina sulla stessa diffusione a Siracusa della leggenda di Alfeo e Aretusa, leggenda che necessita di una duplice incubazione: elea e siracusana. L’Alfeo è infatti un fiume dell’Elide che, scomparendo sotto terra e passando quindi tra le onde del mare, senza però mescolarsi con esse, ricongiunge le sue acque a quelle dell’amata Aretusa: la fonte che sgorga nell’isola di Ortigia. La storia di Siracusa, col tempo, diviene poi la storia di una grande potenza, ricca, prospera e destinata a dominare sulle altre città greche di Sicilia. È ancora Strabone (VI, 270) che ci offre, in rapida sequenza, un’incisiva istantanea sulla sua storia a venire: La città poi andò sempre più prosperando, grazie alla fertilità del suolo e all’efficienza dei porti. I suoi abitanti assursero così a una posizione di egemonia e avvenne che, essendo i Siracusani soggetti ai tiranni, tiranneggiarono anche sugli altri, essendo invece essi in regime di libertà, liberarono quelli che erano asserviti ai barbari. Due le ragioni della ricchezza e della grande prosperità di Siracusa: l’agricoltura e il commercio, quest’ultimo facilitato da porti attrezzati e da approdi sicuri. Il commercio non è però il primo obiettivo perseguito dai coloni corinzi, poiché Siracusa è anzitutto una colonia agricola popolata con contadini provenienti dal villaggio rurale di Tenea, nella valle dell’Anapo, i quali si insediavano su tutto il territorio circostante, asservendo i Siculi. Loro discendenti saranno i gamoroi, esponenti di una solida aristocrazia terriera destinata a influire notevolmente sulla storia di Siracusa; discendenti dei Siculi saranno, viceversa, i kyllyrioi, braccianti ridotti alla servitù della gleba alla stregua degli Iloti della Laconia. Legati ai singoli appezzamenti in forma inalienabile, essi coltivano le terre, un tempo di loro proprietà, per conto dei nuovi padroni. Alla grande prosperità economica corrisponde un ruolo di supremazia politica. Infatti i Siracusani saranno destinati a esercitare una posizione egemone sugli altri Greci di Sicilia. I quali - a detta di Strabone - sono da essi dominati allorché Siracusa è retta da regimi tirannici (tanto a opera della dinastia dei Dinomenidi quanto di quella dei Dionigi, rispettivamente nei secoli V e IV); mentre sono da essi liberati dalla minaccia del barbaro quando la città è retta da regimi democratici. Quadro, quest’ultimo, certo di bell’effetto, ma assai poco rispondente alla realtà, perché è proprio merito precipuo delle tirannidi svolgere un’azione propulsiva nella lotta contro il barbaro. Da quanto abbiamo detto, seppure indugiando solo sul momento della sua fondazione, Siracusa ci appare di gran lunga la più importante fra le colonie greche di Sicilia. Il che risulta pienamente confermato dal dato di scavo. Il quadro archeologico complessivo indica infatti una costante crescita di ricchezza nel corso dei secoli VII e VI, con ambiziosi programmi di edilizia sacra, certo sostenuti dalla potente aristocrazia dei gamoroi. A partire dal V secolo anche l’archeologia conferma, in forma più che eloquente, come Siracusa si collochi fra le maggiori potenze cittadine del mondo ellenico, non solo in ambito occidentale, ma anche in area metropolitana. Acre, Casmene, Camarina Siracusa, in età arcaica, non potendosi estendere a settentrione per non entrare in conflitto di interessi con Leontini, si espande di necessità a meridione, in direzione della vasta zona montuosa delimitata, a mare, dalle coste dello Ionio (fino a capo Pachino) e del canale di Sicilia (fino al golfo di Gela) e circoscritta, a monte, dal crinale del monte Lauro, che incombe sulle vallate dell’Anapo e del Dirillo. Per dominare su questa vasta regione Siracusa fonda, in posizione strategica, tre subcolonie di confine, che avrebbero dovuto assolvere due funzioni: il controllo sui Siculi e il contenimento delle mire espansionistiche della troppo vicina colonia di Gela. Sono esse le fondazioni di Acre, Casmene e Camarina, che costituiscono una sorta di barriera siracusana da mare a mare, resa possibile solo dalla conquista e dalla distruzione della forte rocca sicula di Pantalica. Camarina ci appare come una vera e propria città [vedi inserto]; le altre, con tutta probabilità, furono semplici fortezze di confine. È ancora una volta Tucidide che ci informa della loro fondazione (VI, 5, 2): Acre e Casmene furono colonizzate dai Siracusani: Acre settant’anni dopo Siracusa, Casmene circa venti dopo Acre. Camarina fu fondata la prima volta dai Siracusani, centotrentacinque anni dopo la fondazione di Siracusa secondo l’approssimazione più vicina: i suoi fondatori furono Daskon e Menekolos. Ma i Camarinesi vennero espulsi dai Siracusani dopo una guerra dovuta a una rivolta, e, parecchio tempo dopo, Ippocrate, tiranno di Gela, ricevette il territorio dei Camarinesi come riscatto per alcuni prigionieri siracusani, e lui stesso divenne il fondatore e colonizzò nuovamente Camarina. E dopo che essa fu di nuovo spopolata da Gelone [di Siracusa] fu colonizzata per la terza volta dai Geloi. Acre è ora da identificare con Palazzolo Acreide, Casmene, non ancora localizzata, è da ricercare più a meridione. La loro fondazione ci riporta, rispettivamente, agli anni 663 e 643 ca; quella più arcaica di Camarina al 598 ca. Di fatto la testimonianza di Tucidide appunta la sua attenzione solo su quest’ultima città; tramanda il nome dei suoi fondatori - i siracusani Daskon e Menekolos - e sottolinea con forza come la sua vicenda si intrecci di continuo con la storia di Gela e di Siracusa. Quest’ultima, da madre, divenuta matrigna. Colpevole di «rivolta» per essersi alleata con i Siculi, nel 553, viene infatti sconfitta e distrutta da Siracusa, che poi ne cede il territorio a Ippocrate di Gela. Questi la ricostruisce nel 492, ma ben presto, nel 484, è per la seconda volta «spopolata» e distrutta da Siracusa, allora governata dal tiranno Gelone. Successivamente, per la terza volta, viene ricostruita, sempre per intervento di Gela, nel 461. Sarà questo - fino a una nuova distruzione a opera dei Cartaginesi - il momento più felice della vicenda storica di Camarina che, nella seconda metà del V secolo, consolida notevolmente il suo potere e allarga la sua influenza su tutta l’area circostante, fino a inglobare, nel momento di massima espansione, la stessa città sicula di Morgantina. Siracusa l’aveva fondata come sentinella ai propri confini meridionali, ma di fatto, ben presto, altro è il ruolo che assolve Camarina, quello cioè di un’autonoma città di frontiera, ai confini tra i territori di Siracusa e di Gela. Era fatale dunque che, rotti i rapporti con la madrepatria, finisse per gravitare proprio nell’orbita di Gela. Che però non riesce a fagocitarla, perché Camarina sa sfruttare al massimo grado il proprio ruolo di emporio e di sbocco sul mare per il retroterra indigeno, con cui stabilisce solidi legami fin dalle sue prime generazioni. Il livello di prosperità raggiunto dalla città, nel periodo successivo alla sua seconda rifondazione, appare pienamente confermato dall’indagine archeologica. Questa segnala per Camarina la presenza di una cinta muraria di tutto rispetto, il cui perimetro, di 7 chilometri, delimita una superficie di 150 ettari. VII. I MEGARESI I Megaresi, in Sicilia, fondano Megara Iblea, colonia che prende nome dalla madrepatria: Megara, anzi Megara Nisea. Le vicende di questo centro, su scala ridotta, ricalcano quelle di Corinto. Anch’esso è città istmica che dispone di due buoni porti - Paghe e Nisea - affacciati, rispettivamente, sui golfi Corinzio e Saronico. Anch’esso promuove un’intensa attività di colonizzazione, soprattutto in Oriente, dove fonda stanziamenti sulle rive del Bosforo e del mar Nero. Il suo governo è inoltre saldamente retto da un’oligarchia che, come a Corinto, è già precocemente détentrice del monopolio sui traffici commerciali. Anche in questo caso l’oligarchia viene abbattuta da una tirannide rivoluzionaria sorretta da un ceto imprenditoriale che è maturato sull’onda dei commerci, dei profitti e dei guadagni. È questo il mondo nuovo contro il quale polemizza la poesia aristocratica di Teognide. Il colpo di stato, che si data sullo scorcio del VII secolo, ha il suo capopopolo in Teagene; ma la tirannide che egli instaura non riesce a trasformare Megara in una grande potenza, assicurandole come per la Corinto dei Cipselidi - nuova prosperità con una seconda ondata di fondazioni coloniarie. La città infatti è soffocata da vicini troppo potenti, che le precludono la supremazia sui mari sui quali si affaccia. Da un lato Corinto, détentrice del pieno controllo dei traffici dell’Istmo per la più fortunata dislocazione dei suoi porti, assai meno distanti fra loro di quelli megaresi; dall’altro lato Atene, rivale nel conflitto, sempre rinascente, per il possesso dell’isola di Salamina, dove Megara non riesce mai ad affermare un predominio duraturo. Come la madrepatria, anche Megara Iblea, in Sicilia, sarà circondata da vicini troppo potenti, il che spiega la ragione del suo limitato decollo e quindi del suo precoce tramonto. In attesa di approfondire l’argomento, limitiamoci qui a concludere con un’osservazione. Sia Siracusa sia Megara Iblea sono entrambe colonie fondate nell’età delle vecchie oligarchie; ciò significa che le tirannidi, con i loro rivolgimenti sociali, seguono, e non preludono, all’espansionismo transmarino. Megara Iblea Come denuncia l’omonimia con la madrepatria, sono senz’altro coloni megaresi i fondatori di Megara Iblea in Sicilia, città situata sulla costa del golfo di Augusta, immediatamente a settentrione di Siracusa. È di nuovo Tucidide (VI, 4, 1-2) a informarci della spedizione transmarina dei Megaresi, che si rivela assai travagliata al suo approdo e soprattutto nelle sue successive vicende insediative: Circa alla stessa epoca anche Lami venne in Sicilia, conducendo una colonia da Megara, e sopra il fiume Pantacìa fondò una città dal nome di Trotilo; più tardi andò da lì a Lentini e si associò in una comunità politica con i Calcidesi per un po’ di tempo; da essi fu scacciato, e dopo avere fondato Tapso morì, mentre gli altri [suoi compagni], costretti a partire da Tapso, fondarono Megara, detta Iblea, dopo che Iblone, un re siculo, aveva consegnato loro il territorio e li aveva condotti a quel luogo. Dopo avervi abitato per duecentoquarantacinque anni, furono espulsi dalla città e dal territorio da Gelone, tiranno dei Siracusani. Né la località di Trotilo né il fiume Pantacìa sono oggi identificabili. Comunque, con tutta probabilità, ci troviamo nella parte più meridionale del golfo di Catania, a ridosso del monte Tauro. Questa di Trotilo sarà stata però solo una primitiva tappa insediativa, una stazione provvisoria presso la località dello sbarco. Altro è infatti l’obiettivo di Lami e dei coloni megaresi: puntare direttamente sulla fertile pianura di Leontini. Qui Lami e i Megaresi riescono ad associarsi per breve tempo con i coloni calcidesi di Teocle (o lucie), dando vita a una colonia mista. Ma poi, sorta una qualche contesa fra i due gruppi etnici, sono costretti a fuggire da Leontini. Polieno, autore di cose militari, ci informa che Teocle, in un primo tempo, apre ai Megaresi le porte di Leontini per sbarazzarsi dei Siculi con il loro aiuto, ma che poi, sei mesi più tardi, si libera anche dei nuovi venuti, dopo averli astutamente privati delle armi. Comunque siano andate le cose, un dato è certo: un’impresa coloniaria capitanata da Lami parte da Megara nello stesso periodo in cui Teocle conduce i coloni calcidesi in Sicilia. Il che induce a datare, e a circoscrivere, la fondazione di Megara Iblea tra quelle di Nasso e di Leontini. Scacciato da Leontini, Lami ripiega a Tapso, dove muore. Il nuovo insediamento, sulla penisola di Magnisi nel golfo di Augusta, si trova in località facilmente difendibile, e per questo motivo già frequentata dai mercanti micenei, ma purtroppo del tutto priva di sorgenti d’acqua. Qui si arroccano i nuovi coloni sognando il possesso di terre più fertili, e qui appunto muore Lami. Nessuno potrà mai giurare che sia lui l’inumato dell’VIII secolo, riscoperto a Tapso all’interno di una tomba a camera indigena vistosamente riadoperata, ma la cosa, in effetti, è altamente probabile. Anche se privati del loro capo, i coloni megaresi non restano però a lungo nell’inospitale Tapso, perché, trovato un accordo con i Siculi, ricevono da loro il permesso di fondare Megara Iblea sulla costa settentrionale del golfo di Augusta. La nuova città, omonima della madrepatria, si arricchisce del secondo nome di Iblea da quello di Iblone, il buon re siculo che favorisce l’insediamento dei coloni greci sulla sua terra. Nasce così la Megara di Sicilia, in una località che, pure mancando di porto, consente lo stesso un ottimo approdo. In una località, tuttavia, che la destinava a un’espansione assai limitata, troppo comprimendola o soffocandola fra i territori di Leontini e Siracusa, ragione per cui anche di qui altri coloni erano presto costretti all’emigrazione per dirigersi a fondare Selinunte, in area lontana, sulla frontiera della Sicilia cartaginese. La storicità del personaggio Iblone può anche essere messa in dubbio, ma la vicenda nel suo complesso appare verosimile; non sarebbe certo questo, infatti, il primo caso di incontro amichevole, e non cruento, fra colonizzati e colonizzatori. Peraltro i Megaresi, dopo tante traversie, dovevano essere rimasti in pochi, e forse - come abbiamo detto - erano privi di armi. Ragione che senza dubbio li induceva a ricercare una costruttiva intesa con gli indigeni come condizione essenziale per non soccombere. Non è quindi, questa dei Megaresi, un’impresa coloniale che possa dirsi perfettamente riuscita: subì infatti tre scacchia Trotilo, a Leontini, a Tapso - e neppure nell’approdo definitivo sortì pieno successo a causa di una troppo limitata possibilità di espansione territoriale. La cronologia di fondazione di Megara Iblea, successiva di soli cinque anni a quella di Siracusa, riconduce, per Tucidide, all’anno 727 ca. Cioè a duecentoquarantacinque anni prima della sua distruzione, avvenuta, per responsabilità di Siracusa, nell’anno 483. Allora - come ricorda Erodoto - il tiranno Gelone deportò tutti i Megaresi di Sicilia: i «grassi», cioè i ricchi, li trasformò in cittadini di Siracusa, e gli altri, cioè i poveri, li vendette come schiavi fuori dall’isola. Queste, sostanzialmente, le notizie che ci offre Tucidide. Con il quale non concorda Strabone (VI, 267), nella testimonianza - già riferita - pertinente alla fondazione di Nasso: Non esistono più Nasso e Megara ... Dice Eforo che queste furono le prime città greche a essere fondate in Sicilia, dieci generazioni dopo la guerra di Troia ... L’ateniese Teocle, spinto dai venti in Sicilia, notò la scarsità degli abitanti e la ricchezza della terra ... Allora raccolse molti Calcidesi di Eubea e alcuni Ioni, oltre a un gruppo di Dori, dei quali la maggior parte era di Megara, e fece ritorno in Sicilia. I Calcidesi allora fondarono Nasso, i Dori Megara [Iblea]. Strabone, derivando da Eforo, offre, rispetto a Tucidide, una differente ricostruzione dei fatti: le due colonie più antiche della Sicilia sarebbero state Nasso e Megara Iblea, fondate rispettivamente da Eubei calcidesi e da Megaresi partiti insieme dalla Grecia sotto la guida di Teocle. Questi ultimi, insieme a un «gruppo di Dori» non meglio identificati, avrebbero fondato una loro colonia a seguito di una presumibile contesa sorta coi compagni di Calcide. Dunque, per Strabone, Megara Iblea, e non Siracusa, sarebbe stata la seconda colonia greca di Sicilia. Ma, pur discordando da Tucidide sulla cronologia di fondazione, Strabone viene pur sempre a concordare con lui su un dato di rilievo relativo al comportamento dei coloni. I Calcidesi, i Megaresi e un gruppo di Dori avrebbero in un primo tempo associato il loro destino per poi differenziarlo, contrapponendosi gli uni agli altri, in terra di Sicilia. Quale dunque il motivo? Probabilmente perché molto frequenti e molto aspre dovevano essere le liti che scoppiavano nelle nuove fondazioni, soprattutto fra colonizzatori appartenenti a differenti etnie. Ma forse anche, in questo caso, per la ripercussione in ambito coloniale di una contesa metropolitana, segnata dall’avvio della guerra lelantea. La quale contrappone sul suolo di Eubea Calcide, Eretria, e anche le principali città della Grecia che si schierano per l’una o per l’altra delle due potenze rivali. Contro Calcide si schiera Megara, ed è quindi probabile che proprio questa sia stata la causa della rottura fra i coloni delle due città, appena approdati in Sicilia. Non solo, ma questa è altresì la probabile causa per la quale il nostro «gruppo di Dori» si scinde ulteriormente dagli stessi Megaresi per associarsi ad Archia, sulla via del ritorno, e con lui rientrare in Sicilia. Lo riferisce sempre Strabone (VI, 270) in un’altra testimonianza riguardante, questa volta, la fondazione di Siracusa: Archia ... approdato al Capo Zefirio e trovativi alcuni Dori lì giunti mentre tornavano a casa dalla Sicilia, dopo essersi separati dai fondatori di Megara [Iblea], li prese con sé e insieme a loro fondò Siracusa. Non c’è dubbio che qui i Dori siano i medesimi già menzionati da Strabone, e sempre in compagnia dei Me-garesi, nella testimonianza relativa alla fondazione di Nasso. Ma chi sono costoro? Come abbiamo detto, con ogni probabilità sono Corinzi; i quali prendono, a loro volta, le distanze dai Megaresi poiché, in occasione della guerra lelantea, la loro madrepatria si schiera con Calcide contro Eretria, anziché (come Megara) con Eretria contro Calcide. Altri dati ancora, sulla storia più antica di Megara Iblea, vengono dalle risultanze dell’indagine archeologica. La quale, anzitutto, smentisce la credenza - accreditata da antichi e moderni - che la colonia sia sorta sulla città sicula di Ibla, e rivela inequivocabilmente che l’abitato greco non fu preceduto da alcun insediamento indigeno. L’antica Ibla è dunque da ricercare altrove. Non dove i coloni megaresi fondano la loro città, dando vita, come rivela sempre l’archeologia, al primo esempio di pianificazione urbanistica del mondo occidentale, presto seguita, già nel VII secolo, da una vivace e fiorente scuola ceramografica. Dati che mostrano come la nuova colonia fosse ricca di molte potenzialità espressive allorché Siracusa, sopraffacendola, la cancellò dalla stessa carta geografica all’alba dell’età classica. Selinunte Subcolonia di Megara Iblea è Selinunte, città di frontiera protesa a occidente sulla costa del canale di Sicilia, destinata a superare la stessa metropoli per fama, ricchezza e prosperità. È nuovamente Tucidide (VI, 4, 2) che ci da notizia della sua fondazione: [I Megaresi] cento anni dopo essersi insediati a Megara Iblea, avevano fondato Selinunte, inviando Pamillo; e [lacuna nel testo] sopraggiungendo da Megara, la loro metropoli, aveva contribuito alla rifondazione [sunkatoikisen] della colonia. Questa la traduzione che ci sembra più corretta, e che tiene conto sia di una lacuna testuale (che nasconde il nome di un secondo fondatore, anzi di un successivo rifondatore) sia dell’esatto valore da assegnare qui al verbo katoikizein, «rifondare», donde sunkatoikizein, «contribuire alla rifondazione». La data di fondazione, per Tucidide, risale al 627 ca, cioè a cento anni dopo la fondazione della madrepatria Megara Iblea. Ovviamente si tratta di una data da prendere con tutto beneficio d’inventario, poiché cento è numero troppo tondo, e quindi sospetto. Altra, viceversa, è la data che ci fornisce Diodoro nella sua Biblioteca storica (XIII, 59, 4), accennando alla sua distruzione per mano dei Cartaginesi, avvenuta nel 408: «La città fu espugnata e rasa al suolo duecentoquarantadue anni dopo la sua fondazione», avvenuta quindi nel 650 ca. La critica ha invano battagliato sulla validità dell’una data o dell’altra. Ma è probabile che le cose stiano altrimenti. La data di Diodoro è quella della prima spedizione di Pamillo, che parte da Megara Iblea. La data di Tucidide è la data della seconda spedizione, di rincalzo, cui partecipa il fondatore o il soccorritore che proviene dalla Grecia, anzi - secondo una prassi altrimenti documentata - dalla stessa madrepatria di Megara Iblea. Due successive fasi insediative non sono infrequenti nella storia della colonizzazione greca. Già le abbiamo viste documentate per la calcidese Zancle, e anche in questo caso potrebbero testimoniare come la stessa fondazione di Selinunte sia stata preceduta, da parte dell’elemento greco, da un periodo di progressiva penetrazione commerciale segnato dallo stabilirsi di «fondaci» o «mercati di transito» che poi evolvono nelle forme della definitiva fondazione coloniaria. La quale, nel nostro caso, richiede ben due successivi interventi, indizio che il lento processo di evoluzione spontanea - nel quale forse aveva sperato Pamillo - non bastava da solo a garantire la nascita di un ordinato nucleo cittadino. Peraltro il fatto che il passaggio dall’abitato indigeno all’abitato greco sia avvenuto senza soluzione di continuità parrebbe proprio avallare l’ipotesi che la definitiva fondazione della città sia stata preceduta da un periodo di progressive infiltrazioni commerciali. L’approdo presso Selinunte costituisce infatti una tappa importante sulle rotte marittime che circumnavigano l’isola, o comunque costeggiano il canale di Sicilia, come dimostra la recente scoperta di un quartiere commerciale sorto, già a partire dall’epoca della sua fondazione, nella zona del porto occidentale. Sbaglierebbe però chi assegnasse a Selinunte solo un ruolo mercantile, poiché la colonia è, anzitutto, di popolamento a carattere agricolo. Il che, per essa, determina la necessità di conquistare, e quindi di difendere, un territorio sempre più ampio da contendere agli indigeni: Sicani e soprattutto Elimi. Tale territorio a oriente si estende fino alla foce del fiume Platani (l’antico Halikos), dove sorge la subcolonia di Eraclea Minoa che diverrà agrigentina; e include in profondità l’entroterra di Terme di Selinunte, presso l’odierna Sciacca. A occidente arriva fino a Mazara, suo estremo avamposto fortificato, confinando all’interno - nel momento di massima espansione con la città elima di Segesta. Questa, al tempo della guerra del Peloponneso (431-404 a.C), si alleerà con Atene; Selinunte con Siracusa. La nuova colonia è fondata su una spianata che un rilievo divide in due lobi, successivamente fortificati, i quali si estendono a meridione fra due depressioni, corrispondenti agli antichi porti, ora interrati, formati dalle foci dei fiumi Cottone e Modione (l’antico Selino) rispettivamente a oriente e a occidente. Il più antico insediamento selinuntino interessa solo il lobo meridionale della spianata, a strapiombo sul mare, il quale, quando in età classica la città si estende anche sul lobo settentrionale, si trasforma in acropoli e in sede di templi, che ancora oggi, con le loro rovine grandiose [vedi inserto], testimoniano anche al turista più frettoloso il livello di prosperità e di ricchezza raggiunto da Selinunte nei secoli VI e V. La sua storia, come la storia di tutte le città di confine, è caratterizzata dal tentativo di intessere buone relazioni diplomatiche con l’altro, con lo straniero: in questo caso il cartaginese. Vi riesce Selinunte al tempo della spedizione punica del 480, allorché diviene alleata dei Cartaginesi nella battaglia di Imera. Non vi riesce - ormai troppo compromessa sul piano delle relazioni intergreche - al tempo della rinnovata spedizione punica del 409, quando i Cartaginesi la espugnano, radendola al suolo. Da allora in poi, sulla costa meridionale dell’isola, sarà Agrigento a ereditarne il ruolo di città di frontiera sul confine della Sicilia greca. Anch’essa sarà distrutta di lì a pochissimo; ciò nonostante rimarrà sempre nell’ambito di influenza greca. Selinunte, al contrario, sarà per sempre relegata entro l’area controllata da Cartagine; risorgerà sì a nuova vita, ma solamente come piazzaforte punica. VIII. I RODII E I CRETESI. Le colonie greche di Sicilia, fondate nel corso dell’VIII secolo, sono tutte dislocate sulla costa orientale dell’isola: la più accogliente e la prima che incontrano i naviganti provenienti dalla Grecia (i quali attraversano il canale di Otranto e quindi costeggiano le coste elleniche d’Italia). Ma, con l’inizio del VII secolo, già non c’è più posto per nuovi coloni. Questi devono ora cercarsi nuovi spazi sulla costa meridionale dell’isola. Così, prima che Siracusa allunghi le sue ali fino a Camarina, colonizzatori provenienti da Rodi e da Creta fondano Gela, cui segue, di lì a un secolo, la deduzione di Agrigento. Gela La più antica testimonianza relativa alla fondazione di Gela ci viene fornita da Erodoto (VII, 153) in una delle sue consuete digressioni. Parlandoci di Gelone, il tiranno di Siracusa, egli dice come un suo antenato partecipi alla spedizione coloniaria che porta alla fondazione di Gela per iniziativa di Rodii provenienti dalla città di Lindo e guidati da Antifemo: Un [suo] antenato, abitante nel territorio di Gela, proveniva dall’isola di Telo, situata presso il Triopio. Egli, quando Gela fu fondata dai Lindii di Rodi e da Antifemo, non fu lasciato indietro. L’isola di Telo, nelle Sporadi meridionali, si trova fra l’isola di Rodi e il capo Triopio, che è un promontorio della Caria, prossimo a Cnido. Il fatto che tale sia la patria dell’antenato di Gelone dimostra che alla spedizione rodia di Antifemo si associano anche altre genti doriche abitanti le isole o le terre circonvicine. La notizia erodotea relativa all’antenato di Gelone è peraltro confermata da un prezioso documento rodio: la Cronaca del tempio di Lindo. In essa però l’antenato di Gelone, di nome Dinomene, si trasforma nel suo omonimo padre; ma è facile spiegare la confusione per sovrapposizione onomastica di un nome che si perpetua identico in seno alla medesima famiglia. Per Erodoto Gela è dunque colonia dei Rodii di Lindo, che, in un modo o nell’altro, associano alla propria spedizione altre genti circonvicine. Più ampio e articolato il quadro offerto da Tucidide (VI, 4, 3), che allarga l’orizzonte fino a inglobarvi una partecipazione cretese: Gela la fondarono in comune Antifemo, che conduceva coloni da Rodi, ed Entimo, che li conduceva da Creta, nel quarantacinquesimo anno dalla fondazione di Siracusa. Alla città fu dato nome dal fiume Gela, ma il luogo in cui ora si trova l’acropoli, e che fu il primo a essere munito di mura, si chiama Lindi. Agli abitanti furono date istituzioni doriche. La testimonianza non nasce da una digressione, e quindi è molto più precisa. La data di fondazione della colonia è ulteriormente suffragata dalla tradizione, e ci consente di risalire con sicurezza fino all’anno 689 ca; cioè fino al quarantacinquesimo anno dopo la fondazione di Siracusa. La notizia sui due fondatori, Antifemo ed Entimo, il rodiota e il cretese, è confermata da Diodoro che, attingendo ad altra tradizione, ci informa come i due, recatisi a Delfi, avessero ricevuto dall’oracolo l’indicazione di andare a fondare Gela, sulla costa del canale di Sicilia. Tale loro duplice presenza a una medesima impresa presuppone la compartecipazione alla fondazione coloniaria di due distinti gruppi etnici: il rodiota, appunto, e il cretese. Ma il gruppo cretese, probabilmente, ebbe un ruolo secondario, perché la tradizione insiste sulla figura di Antifemo, al quale Entimo - nominato sempre per secondo - appare in qualche modo subordinato. Ciò spiegherebbe il silenzio di Erodoto sui Cretesi, e spiegherebbe altresì perché l’acropoli di Gela prenda univocamente nome da una località di Rodi, anzi dalla patria stessa di Antifemo: Lindi, cioè Lindo. La storicità del fondatore rodiota è peraltro confermata da una eccezionale scoperta archeologica costituita da una coppa sulla quale, in dialetto dorico, è graffito il nome di Antifemo. Egli, come tutti gli eroi fondatori, avrà goduto di un proprio culto cittadino, il quale incentiva una mano pia a tramandarne memoria. A Rodii e Cretesi altre tradizioni, di marca erudita, assommano anche coloni provenienti dall’isola di Tera o dalla costa del Peloponneso. Ciò, comunque, non altera il quadro. Il contingente coloniario principale, con Antifemo, sarà salpato da Rodi trascinandosi poi dietro altre genti incontrate lungo la propria rotta, a Telo, a Creta e forse a Tera e sulla costa meridionale del Peloponneso. Sono, comunque, genti che si associano tutte in forma disordinata all’impresa coloniaria, fatta eccezione dei Cretesi, per i quali la presenza di un fondatore segnala una strutturazione di gruppo. È dunque Gela una fondazione che interessa più gruppi coloniali provenienti dall’area sudorientale del mare Egeo, ma solo Lindo, nell’isola di Rodi, può essere indicata quale sua reale e costitutiva madrepatria. La tradizione storiografica sottolinea poi come la nuova colonia assuma subito istituzioni doriche; ciò conferma la forte omogeneità culturale esistente fra colonizzatori di base e colonizzatori associati per via. Per decenni Gela fu ricercata presso Licata, alla foce del Salso; ma - come ha chiarito l’indagine archeologica - è da localizzare più a oriente, presso Terranova di Sicilia. È questa la città, oggi ribattezzata Gela, che fu riedificata da Federico II sopra i ruderi della colonia greca, già morta e spopolata in età romana. Qui, diciannove secoli prima, approdano i coloni guidati da Antifemo e da Entimo; e qui, presso il promontorio di capo Soprano, su una lunga dorsale parallela al litorale, edificano la loro città, munita di un comodo approdo fluviale. Questa, in breve volgere di tempo, si espande verso occidente, inglobando tutta la costa compresa tra i fiumi Gela e Salso e puntando - con la partecipazione alla successiva fondazione di Agrigento - a un’ulteriore espansione ancora più a ovest. Ma la nuova colonia realizza una spinta espansionistica ancora maggiore nel proprio entroterra. Qui i due corsi d’acqua che confluiscono alla foce, formando il fiume Gela, assicurano grande fertilità alle colture, rendendo celebri per tutta l’antichità i «campi Geloi» dei quali anche l’Eneide di Virgilio ci tramanda memoria. Ovviamente la conquista dell’entroterra non avviene in forma indolore. Come nel caso di Siracusa abbiamo lotte, guerre e contese con gli indigeni, questa volta Sicani e non più Siculi, come mostrano i loro corredi che conservano oggetti estranei alla cultura di questi ultimi. Lo stesso Antifemo, secondo la tradizione, avrebbe combattuto contro i Sicani asserragliati nella roccaforte di Onface (oggi probabilmente Butera), sconfiggendoli e distruggendone la munitissima postazione. Tutto ciò dovette portare a una forma di dominazione violenta, che archeologicamente si traduce nella riscoperta, lungo le vallate del Gela e del Dirillo, di insediamenti indigeni connotati da tratti di forte e precoce ellenizzazione, già a partire dalla fine del VII secolo, e lungo una traiettoria che, in profondità, si addentra fino a Caltagirone e all’altopiano di Piazza Armerina. Abbiamo aperto il discorso ricordando come geloa fosse la famiglia del tiranno Gelone, capostipite della dinastia dei Dinomenidi. Possiamo ora concludere dicendo che egli, signore di Gela, riuscì a impadronirsi anche della signoria su Siracusa. Città che, da allora in poi, finisce fatalmente per attrarre anche Gela, per luce riflessa, nell’orbita splendente del proprio dominato. Agrigento. Agrigento è anch’essa situata sul canale di Sicilia, presso le correnti dell’antico Akragas, immediatamente a occidente di Gela e in posizione intermedia fra quest’ultima città e Selinunte. Della sua fondazione siamo, ancora una volta, informati da Tucidide (VI, 4,4): Circa centootto anni dopo la fondazione della loro città i Geloi fondarono Agrigento [Akragas], denominando la città dal fiume Akragas. Furono scelti come fondatori Aristonoo e Pistilo e alla colonia vennero date le istituzioni che erano proprie di Gela. La data della fondazione coloniaria - che è tra le più basse - ci riporta all’anno 580 ca, trovando ampia conferma tanto in ulteriori segnalazioni storiografiche quanto nelle risultanze dal dato archeologico. Madrepatria di Agrigento, per Tucidide, è Gela, ma non tutti gli autori antichi concordano su questo punto. Alcuni, come Timeo, accettano sì il dato della fondazione geloa, ma, ciò nonostante, riferiscono come da Rodi, senza tappe intermedie, fosse approdata in Agrigento la famiglia «regale» degli Emmenidi (cioè dei tiranni che avranno signoria in età classica). Altri, come Polibio, attribuiscono con decisione alla colonia un’origine rodiota. Qualche spiraglio di luce potrebbe venirci dall’informazione che in Agrigento sono adottate le medesime istituzioni di Gela, ma purtroppo la nostra documentazione pressoché inesistente - ci preclude qualsiasi verifica in questa direzione. Perché mai due fondatori, se i colonizzatori appartengono a uno stesso gruppo etnico? Si devono essi riferire entrambi a Gela, o non piuttosto l’uno a Gela e l’altro a Rodi? E, anche se entrambi provenienti da Gela, non potrebbero essere espressione dei due gruppi etnici - il rodiota e il cretese - a loro volta costitutivi del tessuto della città? Interrogativi, questi, che inducono a un’unica conclusione: se anche Agrigento non è una colonia mista in senso puramente giuridico, lo è certo in prospettiva etnica. La compresenza di due fondatori e la discordante tradizione sulla sua metropoli le assegna una duplice componente insediativa: geloa e rodia, ovvero geloo-rodia e geloo-cretese. Il dato è degno della massima attenzione, e ci aiuta a comprendere meglio come il problema della tirannide di Falaride si saldi al problema stesso dell’origine di Agrigento. Infatti la sua conquista del potere avviene a meno di un decennio dalla data della nuova fondazione: l’anno 572 ca. Ci perdonerà quindi il lettore se, con una lunga quanto necessaria digressione, polarizzeremo l’attenzione su Falaride nel tentativo di lumeggiare la più antica storia della città. Una tirannide, in età arcaica, è solitamente frutto di una profonda conflittualità sociale esistente all’interno di una compàgine cittadina fra una vecchia oligarchia dominante, legata per lo più a strutture connesse alla proprietà terriera, e una nascente «borghesia» aperta al commercio, all’artigianato e all’espansionismo transmarino. Ma quale conflittualità sociale è mai possibile in una colonia fondata da meno di dieci anni, dove il trascorrere delle generazioni non può avere ancora creato profonde differenziazioni di censo nella compagine cittadina? In una colonia dove la ricchezza e la povertà dovrebbero essere ancora equamente ripartite fra tutti i cittadini, o - se vogliamo - fra tutti i soci fondatori? Non dovremo quindi guardare a Falaride, sul metro analogico delle tirannidi rivoluzionarie di età arcaica, come a un tirannodemagogo, e quindi eversore, impostosi sulla scena politica a seguito di lotte fra il popolo e le aristocrazie. E neppure - in ossequio a uno schema più marcatamente occidentale, e per analogia con le più tarde tirannidi siceliote dei Dinomenidi e degli Emmenidi - dovremo guardare a lui come al tiranno, di fatto stratega autocrate, nato sull’onda della lotta patriottica contro il barbaro. Entrambe le spiegazioni urtano, infatti, contro una cronologia che pone in sostanziale concomitanza la fondazione della colonia e la genesi della tirannide, quasi che i due eventi, in un modo o nell’altro, fossero vicendevolmente concatenati fra loro. Proprio tale cronologia deve indurci a ricercare soluzioni alternative, che non implichino, per la genesi della tirannide, né conflittualità sociale fra i neocoloni, né tanto meno loro precoci e inattuali sentimenti di patriottismo filoelleno. La tirannide, comunque nasca, si impone sempre violentemente nel quadro di profonde lacerazioni intestine, e queste ad Agrigento, nella nascente Agrigento, non sono certo - come abbiamo detto - di carattere economico, o nate dall’istanza di precoci nazionalismi, bensì, con tutta probabilità, di sapore etnico. Abbiamo detto che due furono gli ecisti della colonia, e che il fatto, comunque sia, è da porre in relazione a due distinte componenti etniche costituenti la sua compagine cittadina: una componente geloa e una rodia, ovvero una componente geloo-rodia e una componente geloo-cretese. Per cui è assai credibile che la tirannide, cronologicamente ancorata alla stessa fondazione della città, sia nata sull’onda di profondi contrasti etnici esistenti fra i neocoloni, e si sia potenziata con l’intento sia di ristabilire pace all’interno della nascente città, sia di affrancarla dalla tutela della madrepatria, o comunque di quella che fra le metropoli risultava territorialmente più incombente. La tradizione storiografica vuole pure che Falaride, appena consolidato all’interno il suo potere, abbia esteso a oriente il territorio agrigentino fino a Emonio, e poi fino oltre il corso dell’Imera meridionale, l’attuale Salso, presidiandolo con munite fortezze. Il che pare proprio confermato dal dato archeologico. Se però le cose stanno davvero così, ne consegue una conclusione di estrema rilevanza: che dunque la prima espansione territoriale di Agrigento, all’epoca di Falaride, si compie ai danni di Gela, ricacciata così dalla nuova fondazione fino oltre il fiume Imera, cioè fino oltre quello che d’ora in poi sarà il confine naturale fra i comprensori delle due città. La ricaduta dell’evento è duplice per la storia agrigentina. A livello economico, perché, assicurandosi in tal modo il controllo della valle dell’Imera, Agrigento si conquista la più importante e più vitale via di penetrazione verso l’entroterra della Sicilia. A livello ideologico perché, ponendosi in posizione conflittuale con Gela, la città non solo mostra di avere superato da sé le proprie conflittualità intestine, ma addirittura ostenta in politica estera il suo raggiunto piano di parità con la madrepatria, o comunque con quella tra le metropoli territorialmente più incombente. Grazie alla tirannide Agrigento diventa così non solo una città, ma una libera città anche nei confronti di Gela. La sua non è una guerra di indipendenza, perché non ve ne sono i presupposti, e neppure una guerra di affrancamento economico, ma semplicemente una guerra dovuta all’orgoglio municipale di essere e di esistere. La tirannide - è bene ripeterlo coincide cronologicamente con la stessa fondazione della città, la quale brucia in fretta anche l’esperienza della conflittualità fra metropoli e colonia, inevitabile quando quest’ultima ha la forza di porsi in diretta competizione con il centro d’origine. Assicuratosi, ai danni di Gela, il confine orientale segnato dal corso dell’Imera, Falaride mira poi ad assicurare ad Agrigento l’altro suo grande confine naturale: segnato, a occidente, dal fiume Halikos, l’attuale Platani. Ovviamente deve combattere e strappare il territorio ai Sicani. Ma, in parte almeno, ci riesce: se non proprio la foce, certo la media valle del fiume cade già in questo periodo sotto il suo controllo. L’azione militare culmina con la conquista della roccaforte di Camico, antica sede della reggia di Cocalo, mitico dinasta della Sicilia pregreca. Espugnazione - da localizzare nel sito di Sant’Angelo Muxaro - che è suffragata da una preziosa testimonianza della Cronaca del tempio di Lindo (F. Jacoby, Die Fragmente der Griechischen Historiker, F 32 F 27) recante notizia di un arcaico cratere con dedica di Dedalo a Cocalo, inviato a Rodi da Falaride e, a sua volta, da lui dedicato alla dea Atena venerata a Lindo: «Falaride di Agrigento ad Atena Lindia». Un unico cratere con due dediche. La prima è probabilmente una falsa iscrizione elaborata da Falaride; ma la seconda è certo autentica, e ci testimonia la sua conquista di Camico: la roccaforte sicana di Cocalo che - secondo la leggenda sarebbe stata edificata da Dedalo, qui profugo da Creta e inseguito da Minosse. È questo, con tutta probabilità, il primo sfruttamento in Sicilia della leggenda di Minosse; assassinato dalle figlie di Cocalo a Camico e ora, con l’espugnazione della fortezza sicana, vendicato proprio da Falaride. Ma, anche qualcosa di più, che rimanda, in Agrigento, alla politica di coesistenza fra elemento rodio e geloo-cretese (ovvero geloo-rodio e geloo-cretese). La dedica di Falaride riconduce, infatti, tanto all’isola di Rodi quanto a quella di Creta; all’una per l’offerta votiva al tempio di Lindo, all’altra per la memoria storica della leggenda di Minosse, che diviene appunto presupposto obbligato per il dono alla dea Atena. Tale dunque e tanta l’attività di Falaride. Con lui Agrigento si attesta, come abbiamo detto, sui confini naturali segnati dai corsi dei fiumi Imera e Halikos, limita il raggio di azione di Gela, conquista ampi territori ai Sicani, guarda forse anche al Tirreno, avanzando precoci mire su Ime-ra. Tutto ciò avviene nel corso di soli sedici anni. Quindi Falaride cade vittima di una congiura e perisce miseramente della stessa morte che egli - secondo la tradizione aveva riservato ai propri avversari. Arrostito, cioè, assieme alla madre e agli amici, all’interno del celebre toro di bronzo che muggisce con la voce straziante delle vittime che vi sono rinchiuse. È Falaride senz’altro un politico che governa con pugno di ferro, un autocrate che forse anche instaura un regime di terrore. Ma, con buona probabilità, immeritevole della fama di crudeltà e depravazione che tutta la tradizione di età successiva gli ha riservato. Una condanna tanto violenta, tanto colorita, tanto infamante richiede un preciso mandante, rintracciabile nel grande Terone della famiglia degli Emmenidi vissuto quasi un secolo dopo. Il tiranno che sigla, anche monumentalmente, l’immagine urbana di Agrigento dominata dalla distesa abbagliante della sua valle dei Templi. Ma se così è, se un tiranno e non un esponente democratico crea il cliché negativo di un altro collega suo predecessore, è presumibile che Falaride sia anche tutto ciò che non è il suo denigratore. Quindi non un tiranno demagogo, non un tiranno autocrate, non un tiranno con precoci aspirazioni a crearsi una dinastia. Ma probabilmente come appunto abbiamo detto - un semplice arbitro al di sopra delle conflittualità cittadine: di fatto qualcosa di simile a un «pacificatore», che rimane però travolto da una congiura prima di poter spontaneamente abdicare dal suo potere. Se conoscessimo chi, e perché, ne ha provocato la caduta, potremmo anche rispondere alla domanda se egli sia stato in realtà un tiranno o un pacificatore con poteri assoluti. L’idea del pacificatore è certo idea controcorrente; ma - a ben vedere - nulla ci autorizza a inferire che Falaride abbia mirato a instaurare in Agrigento un potere ereditario. Anzi il silenzio, presente nella tradizione, su suoi presunti figli o fratelli potrebbe proprio indurci a congetturare il contrario. Così dunque decolla una città che il poeta Pindaro definisce «la più bella delle città dei mortali», e che ancora oggi sbalordisce il visitatore per l’imponenza delle sue vestigia monumentali. Una città però destinata a bruciare in fretta ogni modello di sviluppo; la sua grande avventura si consuma, infatti, nell’arco di poco meno di due secoli, potenziandosi con Falaride, assurgendo con Terone al rango di grande potenza siciliana e quindi tramontando repentinamente nell’anno 406. Allorché è distrutta dai Cartaginesi e - come Selinunte e Imera - quasi annullata dalla carta geografica degli insediamenti greci. IX. GLI SPARTANI. Sparta non fonda colonie; preferisce risolvere le conflittualità sociali, e con esse i problemi demografici, estendendosi ai danni delle popolazioni vicine. Sicché, quando Eubei o Corinzi battono le rotte dell’Occidente, essa si ritrova impegnata a combattere contro i Messeni per impadronirsi della loro terra. Conosciamo due sole imprese coloniarie che costituiscono un’eccezione alla regola. Diversissime per obiettivi e per esiti, entrambe, almeno in certa misura, sono riconducibili a fenomeni di emarginazione dalla metropoli di persone sgradite, o politicamente ingombranti, o comunque aliene dal conformarsi ai codici di comportamento vigenti. Tali sono le spedizioni coloniarie capitanate da Falanto e da Dorieo; l’una ha per meta Taranto, l’altra - senza fortuna - l’Africa e la Sicilia. Taranto. Taranto, in felicissima posizione geografica, è fondata sul declinare dell’VIII secolo da coloni spartani, i cosiddetti Parteni. I quali in patria - senza loro colpa - sono cittadini di seconda categoria o elementi indesiderati, o comunque rappresentanti di frange sociali da emarginare. Tali Parteni, secondo lo storico siracusano Antioco, sarebbero nati a Sparta, durante la prima guerra messenica, da padri che avevano pagato con la servitù l’onta di essersene rimasti a casa, venendo designati, da allora in poi, come Iloti. Lo riferisce Strabone (VI, 278-279) mentre appunto ci informa della fondazione di Taranto: Antioco, parlando della fondazione di Taranto, dice che, al tempo della guerra messenica, quelli fra gli Spartani che non parteciparono alla spedizione furono dichiarati schiavi e vennero chiamati Iloti. Chiamarono Parteni tutti i figli nati durante la spedizione e li giudicarono privi dei diritti di cittadinanza. Essi però erano molti e non si sottomisero a tale stato di cose. Organizzarono perciò un complotto contro i cittadini che costituivano l’assemblea ... Fra essi c’era anche Falanto, che era considerato loro capo, ma che non era per niente gradito a quelli dell’assemblea ... Avendo però capito che il complotto era stato scoperto, alcuni scappavano, altri domandavano grazia. Fu loro ordinato di farsi animo e furono presi sotto custodia. Falanto, invece, fu mandato a Delfi per consultare il dio circa la fondazione di una colonia. Il dio rispose: «Ti ho concesso Satyrion, per potere così abitare la ricca città di Taranto e diventare rovina per gli Iapigi». I Parteni andarono dunque con Falanto; li accolsero i barbari e i Cretesi che avevano precedentemente preso possesso del luogo ... La città fu chiamata Taranto dal nome di un eroe. Falanto, secondo il migliore copione delle spedizioni coloniarie, si reca a Delfi per avere informazioni in merito alla meta della spedizione transmarina. La situazione dei Parteni, che egli guida, è analoga a quella dei Messeni che si aggregano ai Calcidesi per fondare Reggio a seguito di un’identica consultazione oracolare, avvenuta quando anch’essi, per faide intestine, erano stati costretti a prendere la via dell’esilio. La reale esistenza di Falanto potrebbe essere provata dall’attestazione in Taranto di una famiglia dei Falantiadi. Ma troppi sono gli elementi favolosi che militano contro un’effettiva storicizzazione del personaggio. Fra essi, il più noto è il suo avventuroso salvataggio, dopo un naufragio, sul dorso di un delfino, episodio immortalato nella stessa monetazione tarantina, che reca appunto come emblema distintivo un uomo a cavallo di un delfino. Il primo insediamento - come profetizza la Pizia - sarebbe avvenuto al promontorio Satyrion, nella rada del mar Grande. E qui si stanziano, in effetti, i primi coloni di Taranto; in un sito che - come il limitrofo scoglio del Tonno - l’archeologia mostra frequentato dai Greci già in età precoloniale, a partire dall’epoca micenea. E qui, a Satyrion, i coloni spartani sono bene accolti dagli indigeni; i quali sono Iapigi, che per la leggenda greca - vantano un’ascendenza cretese. Ovviamente si inizia solo molto più tardi - quando Taranto è diventata una delle più ricche città greche d’Italia - l’aspra contesa fra Iapigi e coloni spartani, profetizzata dalla Pizia. Di questa lotta, che riconduce a età classica, l’episodio più clamoroso sarà la disfatta dei Tarantini poco dopo le guerre persiane, con successiva loro rivincita, resa celebre dalla donazione di un ricco bottino nel santuario di Delfi. La città, a stare sempre ad Antioco, si sarebbe chiamata Taranto da Taras; dato, questo, che riporta l’attestazione del toponimo a età precoloniale. Infatti Taras sarebbe stato il nome di un eroe locale, figlio del dio Posidone e di Satyria (la figlia del cretese Minosse dalla quale prende nome l’omonimo promontorio di Satyrion), il quale, per la leggenda greca, avrebbe fondato Taranto in età mitica; città poi rifondata da Falanto in epoca storica. Il che spiega la confusione che troppo spesso dobbiamo registrare intorno ai due personaggi. Ma torniamo ai Parteni. Secondo lo storico Eforo sarebbero nati, per esigenza demografica, dall’unione di tutte le vergini di Sparta con pochi guerrieri prescelti a perpetuare la stirpe. Gli Spartani, infatti, partiti per assediare Messene, hanno giurato di non tornare in patria se non vincitori. Ma, dopo dieci anni di guerra, le loro donne li avvertono che la città rischia ormai di restare spopolata. Allora essi si rivolgono ad alcuni guerrieri giovanissimi, non vincolati al giuramento a causa dell’età, perché si trasformino in una sorta di «inseminatori» di stato. Lo riferisce nuovamente Strabone (VI, 279-280), informandoci sempre della fondazione di Taranto: Eforo racconta in questo modo la fondazione della città: gli Spartani stavano combattendo contro i Messeni ... Essi avevano giurato che non sarebbero tornati in patria prima di avere distrutto Messene o di essere morti tutti... In seguito, nel decimo anno di guerra, le donne spartane, essendosi riunite, mandarono alcune di loro dagli uomini a lagnarsi perché essi non combattevano contro i Messeni a parità di condizioni (quelli, infatti, rimanendo in patria generavano figli, mentre gli Spartani, accampati in territorio nemico, avevano lasciato le loro donne come vedove) e c’era pericolo che la patria rimanesse priva di uomini. Gli Spartani dunque, desiderosi di tenere fede al giuramento, ma insieme prendendo anche in considerazione il discorso delle donne, mandarono gli uomini più vigorosi e più giovani dell’esercito, sapendo che non avevano partecipato al giuramento perché erano partiti per la guerra ancora fanciulli a fianco degli adulti. Ordinarono loro di congiungersi tutti con tutte le vergini, pensando che, in questo modo, avrebbero generato più figli. Una volta nati, questi figli furono chiamati Parteni ... Gli Spartani..., tornati in patria, rifiutarono di accordare ai Parteni gli stessi privilegi degli altri cittadini, perché erano nati fuori dal matrimonio. Quelli, allora, alleandosi con gli Iloti, cospirarono contro gli Spartani... [Ma poi] desistettero e gli Spartani li persuasero, attraverso l’influenza dei loro padri, di partire per andare a fondare una colonia ... Essi dunque partirono e trovarono sul posto gli Achei che stavano combattendo contro i barbari. Dopo avere condiviso con essi i rischi della guerra, fondarono Taranto. Le due tradizioni - di Antioco e di Eforo si integrano a vicenda. In entrambe ritroviamo i medesimi elementi caratterizzanti: i Parteni che diventano cittadini di seconda categorìa, la loro congiura e la loro emarginazione. La differenza più cospicua fra le due tradizioni sta nel fatto che, per Eforo, le donne prendono l’iniziativa di recarsi dai loro mariti perché stanche di essere «vedove» e che, per lui, sono Achei, e non Cretesi, o loro discendenti, coloro che accolgono in Italia i nuovi venuti. Questo secondo dato lo chiariremo in seguito. Soffermiamo l’attenzione sulle mogli, che restano lo stesso insoddisfatte. Tale loro comportamento testimonia una volta di più la notevole libertà di costumi delle donne di Sparta, cui la tradizione assegna espressioni verbali e ruoli decisionali che davvero stupiscono in una società chiusa ed emarginante come la greca. Parteni per Eforo significherebbe «nati da vergini» (cioè da parthenoi); né abbiamo motivi fondati per dubitare della sostanziale veridicità della sua spiegazione. Anche se, fra i moderni, non sono mancati coloro che hanno proposto soluzioni diverse, invocando per i Parteni un rapporto tra il loro nome e il culto di Atena Parthenos, ovvero tra il loro nome e il monte Parthenios di Arcadia. Ma sono fantasie, alla pari di quelle che - contro la tradizione - trasformano i Parteni in genti stanziate in Puglia già prima dell’arrivo dei Greci: discendenti, a seconda dei casi, dai Partini di Illiria, ovvero dagli Achei fuggiti dalla Laconia al tempo dell’invasione dorica. La verità è un’altra, quella degli autori antichi, di Antioco e/o di Eforo; poiché tutta la tradizione antica concorda sulla provenienza spartana dei coloni di Taranto. Si tratta di una tradizione confermata, indirettamente, dalla lingua, da pratiche culturali e da rispondenze in ambito toponomastico; ma anche pienamente suffragata dall’archeologia, che documenta i fitti rapporti intrattenuti fra colonia e metropoli attraverso i vasi laconici ritrovati, in forma cospicua, nelle sepolture tarantine di età arcaica. Ulteriore conferma al quadro fornito dagli autori antichi viene poi dalla cronologia della colonia. La fondazione di Taranto non può essere avvenuta prima dell’ultimo decennio dell’VIII secolo, considerando che la guerra messenica era già al suo undicesimo anno quando sono nati i Parteni, e considerando che questi saranno emigrati almeno una ventina di anni dopo. Orbene, è questa medesima la cronologia offerta dalla tradizione, che fissa per la fondazione di Taranto la data del 706 ca, data peraltro confermata dalle arcaiche importazioni corinzie rinvenute nella più antica tomba della sua necropoli. Siamo esattamente due anni dopo la fondazione di Crotone, dovuta agli Achei. È più che legittimo quindi concludere che gli Achei, cui Falanto e i Parteni portano soccorso mentre combattono i barbari, siano proprio gli Achei di Crotone, i quali poi, a loro volta, li avrebbero aiutati a fondare Taranto. Ottimale la cornice geografica nella quale si inserisce la nuova colonia, che si estende, come l’abitato moderno, su una penisola prospiciente la vasta laguna del mar Piccolo. Viene così a essere dotata del più munito porto dell’Italia greca, e inoltre controlla gli unici ricchi territori agricoli posti ai margini dell’arido altopiano apulo. Ragioni, entrambe, destinate ad assicurare a Taranto una proverbiale ricchezza; la quale le consentirà, dopo una storia plurisecolare, di essere l’ultima città di Magna Grecia a soccombere, sopraffatta direttamente da Roma, anziché dalla pressione delle genti indigene. Se è vero che a causa della sua floridezza è l’ultima a cadere, è anche vero che la sua potenza terrestre si sviluppa assai lentamente. Soltanto con il IV secolo, infatti, Taranto raggiunge l’acme della sua potenza, come Sibari nel VI, o Crotone nel V. E tuttavia anche allora, sebbene la sua influenza ellenizzatrice si faccia sentire per tutta la Puglia, il territorio che essa controlla rimane molto limitato, tanto più se consideriamo che in quest’area la sua unica subcolonia - e neppure sicura - è costituita da Gallipoli; cioè da una fondazione situata a brevissima distanza. La spedizione di Dorieo. Esistono anche spedizioni coloniarie mancate, e fra queste si colloca quella del principe spartano Dorieo, interessata prima all’Africa e quindi alla Sicilia. Dell’impresa - che ci riporta alla fine del VI secolo - ci informa ampiamente Erodoto (V, 42-48), seppure in un contesto anzitutto interessato a riferirci della discendenza del re spartano Anassandrida, padre sia di Cleomene sia appunto del nostro Dorieo: Cleomene, a quanto si dice, non era sano di mente, ma un po’ pazzo; Dorieo invece era il primo di tutti i coetanei, e ben comprendeva che per valore personale egli avrebbe dovuto avere il regno. Poiché dunque aveva questa idea, quando [il re] Anassandrida morì e gli Spartani secondo le leggi elessero re Cleomene che era il più anziano, Dorieo, sdegnato e non ritenendo giusto di essere governato da Cleomene, chiese agli Spartani degli uomini e li guidò a fondare una colonia, senza chiedere all’oracolo di Delfi in quale terra dovesse andare a fondarla e senza far nulla di ciò che era indicato dalla tradizione; sdegnato com’era partì con le sue navi verso la Libia guidato da uomini di Tera. Giunto nel territorio di Cinipe, si stanziò in una località bellissima della Libia presso un fiume. Ma, scacciatone al terzo anno dai Maci e dai Cartaginesi, ritornò nel Peloponneso. Lì Anticare di Eleone gli diede, desumendolo dai vaticini di Laio, il consiglio di colonizzare «la terra di Eracle in Sicilia», dicendo che tutto il paese di Erice apparteneva agli Eraclidi, poiché Eracle stesso l’aveva conquistato. Sentito ciò egli andò a Delfi per chiedere all’oracolo se avrebbe conquistato la terra verso la quale si dirigeva; e la Pizia gli rispose che l’avrebbe conquistata. Allora Dorieo con il gruppo che aveva condotto anche in Libia si recò in Italia. In quel tempo, a quanto narrano i Sibariti, essi e il loro re Telis erano sul punto di fare una spedizione contro Crotone, e i Crotoniati, spaventati, pregarono Dorieo di aiutarli, e riuscirono a convincerlo. Allora Dorieo marciò con loro contro Sibari e con loro la conquistò... Si erano imbarcati con Dorieo come compagni nella fondazione della colonia anche altri Spartiati, Tessalo, Parebate e Celea ed Euri-leonte, i quali, quando giunsero con tutta la spedizione in Sicilia, morirono vinti in battaglia dai Cartaginesi e dagli abitanti di Segesta. Dei fondatori della colonia solo Eurileonte sopravvisse a questo disastro. Egli, presi con sé i superstiti dell’esercito, occupò Mi-noa, colonia dei Selinuntini, e aiutò i Selinuntini a liberarsi del tiranno Pitagora. Ma poi, dopo averlo abbattuto, egli stesso tentò di impadronirsi della tirannide di Selinunte e ci riuscì, ma per poco tempo perché i Selinuntini si ribellarono e lo uccisero ... Dorieo dunque finì in tal maniera. Se invece avesse sopportato di essere suddito di Cleomene e fosse rimasto a Sparta ne sarebbe diventato re, poiché Cleomene regnò per poco tempo e morì senza figli maschi. La prima spedizione di Dorieo interessa le coste della Libia, dove egli approda guidato da esploratori di Tera. I quali sono senz’altro le guide più esperte, poiché Tera, proprio in terra d’Africa, ha fondato la grande colonia di Cirene. E Cinipe, presso l’omonimo fiume, non lungi da un’oasi, la sede prescelta da Dorieo per il suo stanziamento. Ma da lì, dopo tre anni, è ricacciato in mare dai Cartaginesi e dai Maci, gli indigeni che abitano quelle contrade. Siccome poi apprendiamo che, dopo essere tornato in patria, Dorieo è già di nuovo in mare nel 510 ca, ciò significa che la sua fondazione africana si data nel 514 ca. Dunque solo tre anni sulle coste d’Africa! La causa dell’insuccesso è probabilmente da ricercare davvero nella mancata consultazione dell’oracolo delfico. Non per motivazioni di carattere superstizioso, ma perché a Delfi, dove circolavano tante notizie di interesse coloniario, avrebbe potuto sapere dei pericoli enormi che avrebbe corso la sua impresa. La trasgressione della consuetudine gli è così fatale. Non ripete però lo sbaglio la seconda volta, quando, tornato in patria, viene consigliato di tornare in Occidente per colonizzare «la terra di Eracle in Sicilia». Salpa, questa volta, con tutto il conforto e la benedizione delfica; ma, anziché recarsi direttamente in Sicilia, si ferma a Crotone che si trova sulla sua rotta. Qui, dopo essersi fatto pregare - e probabilmente anche pagare - dai Crotoniati, li aiuta a espugnare Sibari. Il fatto, che si data nel 510 ca, ci consente a sua volta di datare la seconda spedizione coloniaria di Dorieo. Il quale, dopo poche settimane, o pochi mesi, avrà ripreso la navigazione alla volta della Sicilia. Qui deve conquistare la terra di Eracle. Cioè la regione che l’eroe aveva sottratto al re Erice, dopo averlo sconfitto. Dorieo, in quanto figlio di un re di Sparta, è discendente di Eracle, ed egli, nelle contrade della Sicilia occidentale, vuole ora appunto rivendicare l’eredità del mitico antenato. La meta della seconda spedizione è dunque da localizzare nell’area di Drepanon (Trapani), ai piedi del monte di Erice, dove - come ci informa Diodoro fonda la colonia di Eraclea. Ma nuovamente la sua impresa è votata all’insuccesso, poiché egli viene assalito e sconfitto dai Cartaginesi e dagli Elimi di Segesta, loro alleati, che lo uccidono, radendo al suolo la sua nascente colonia. Notevoli sono le analogie, al negativo, fra questa e l’impresa coloniaria di Pentatlo di Cnido, avvenuta sempre nella medesima area; ciò tuttavia - come diremo - è da attribuirsi a rispondenze di carattere ambientale piuttosto che a sovrapposizioni narrative fra i due episodi. Ma perché fallisce anche questa seconda spedizione di Dorieo? Non aveva l’oracolo predetto successo? L’oracolo non sbaglia mai! È Dorieo che ne ha trasgredito la volontà, fermandosi presso i Crotoniati e divenendo loro alleato. Così, almeno, sostengono i Sibariti, da lui sconfitti, secondo quanto ancora ci riferisce Erodoto (V, 45,1): Dorieo era morto per avere trasgredito i precetti dell’oracolo, perché, se non li avesse trasgrediti in nulla, avrebbe realizzato ciò per cui era partito: avrebbe conquistato il paese di Erice e dopo averlo conquistato lo avrebbe tenuto in suo potere, e né lui né il suo esercito sarebbero periti. Testimonianza questa che fa pure sospettare che forse Dorieo non fu sconfitto subito appena sbarcato, ma appunto dopo avere conquistato il paese di Erice, che però non seppe tenere «in suo potere». È un’interpretazione sottile, ma di fatto confermata da quanto dice Diodoro, cioè che i Cartaginesi, visto il rapido potenziamento di Eraclea, presero a temere per la propria egemonia nella Sicilia occidentale; ragion per cui marciarono con un grande esercito contro la nuova colonia spartana, distruggendola. Ciò confermerebbe che Dorieo, prima di essere sconfitto, avrebbe effettivamente conquistato, sottraendolo agli Elimi, il territorio che si prefiggeva di conquistare. Ma come si inserisce questo episodio nel quadro dei rapporti altalenanti fra Greci e Cartaginesi? E’ difficile dirlo. È sicuro però che ancora nel 480 Gelone, tiranno di Siracusa, rampogna gli Spartani di non avere appoggiato i Greci di Sicilia nella loro lotta contro il barbaro, pagata col sangue di Dorieo. L’anno è il medesimo che vede Gelone trionfare a Imera sui Cartaginesi. Dobbiamo pensare che la lotta iniziata contro Dorieo si sia protratta, fra alterne vicende, fino a questa data? Non lo possiamo escludere. Non tutti i compagni di Dorieo muoiono con lui. Si salva Eurileonte che guida i superstiti a Minoa. Questa è colonia di Selinuntini, e con tutta probabilità, proprio in quella occasione, trasforma il suo nome in Eraclea Minoa. Eurileonte aiuta poi i Selinuntini a disfarsi del tiranno Pitagora, ma quando si prova a sostituirlo questi si ribellano e l’uccidono. Come decodificare questi fatti? È molto probabile che i Selinuntini avessero prestato aiuto a Dorieo prima di accogliere a Minoa Eurileonte con i resti dell’armata sconfitta. Ma perché poi uccidono quest’ultimo, accusandolo di essere divenuto tiranno? Chiaramente il motivo è pretestuoso. Altra è la verità. La risposta ci è fornita dall’informazione che i Selinuntini, nel 480, al tempo della battaglia di Imera, parteggiano per i Cartaginesi. Cosa è successo nel frattempo? E’ successo che i Selinuntini, già alleati di Dorieo, sono ora costretti a mutare politica se vogliono sopravvivere in una terra che confina con la Sicilia punica. Cambia, di conseguenza, anche il loro atteggiamento nei confronti di Eurileonte: prima accolto da amico, poi ucciso come tiranno. X. GLI ACHEI. Allineate a breve distanza fra loro, sulla costa dello Ionio, sorgono le colonie achee di Sibari, Crotone e Metaponto. Le prime due sono contigue; la terza è intervallata dall’enclave ionica di Siri, fondata - come diremo - da emigrati provenienti da Colofone. Queste colonie, le più note dell’Italia greca, sono pressoché contemporanee a Siracusa e a Megara; posteriori, invece, di qualche decennio alle fondazioni euboiche. Loro fondatori sono coloni provenienti, questa volta, da una regione, anziché da una città o da una pluralità di città. È questa regione l’Acaia, che si affaccia sulle coste peloponnesiache del golfo di Corinto. Qui gli Achei, cacciando gli Ioni, si erano insediati all’alba del primo millennio, quando a loro volta erano stati cacciati dalla Laconia dall’invasione dei Dori (miticamente adombrata nella favola del ritorno degli Eraclidi). Questa - una colonizzazione da parte di Achei dell’Acaia - è la soluzione più ovvia ed economica, ma non possiamo neppure escludere che l’etichetta di «achea» assegnata alla colonizzazione di Sibari, Crotone e Metaponto - perpetui, nel medesimo sito, la memoria di frequentazioni da parte degli Achei cantati nei poemi omerici, oggi archeologicamente identificabili come Micenei. In queste colonie achee, fra le più importanti dell’Occidente, nasce il concetto stesso di Magna Grecia, che viene a denominare l’Italia ellenica: cioè, per i Greci, l’Italia. Ma cosa significa Magna Grecia? Quale concetto implica? Non, - come a lungo si è creduto, - un concetto di comparazione nei confronti della madrepatria, bensì un concetto assoluto. Non quindi Magna Grecia in quanto più estesa o più fertile o più ricca o più vivace della madrepatria, bensì in quanto, con il mondo coloniale, espressione di un’Ellade sempre più espansa che proprio non conosce confini; ovvero di un’Ellade che diventa davvero infinita dilatandosi verso occidente. Sibari. Sibari, fra le colonie achee, è la prima a nascere e - come diremo - la prima a scomparire. La data più attendibile per la sua fondazione è quella, canonica, del 709 ca. Ma ne esiste anche una seconda che pone la sua nascita duecen-todieci anni prima della sua distruzione: cioè nel 720 ca. Data che però, solitamente, si considera arrotondata, perché potrebbe esser stata calcolata per addizione di sei generazioni di trentacinque anni. Poche e avare le notizie di cui disponiamo, tramandate da Strabone (VI, 263) che, in questo caso, non precisa la sua fonte di informazione: Sibari ... colonia degli Achei situata in mezzo a due fiumi, il Crati e il Sibari. Ne fu fondatore Is di Elice. La città raggiunse anticamente tanta fortuna che esercitò il suo potere su quattro popoli vicini. Essa ebbe a sé soggette venticinque città e ben trecentomila furono i suoi uomini che combatterono contro i Crotoniati. Inoltre, con le sue case, riempiva tutt’intorno, lungo il Crati, un cerchio di cinquanta stadi. Tuttavia, a causa del loro modo di vivere lussurioso e tracotante, i Sibariti furono privati di tutta la loro fortuna, e ciò a opera dei Crotoniati, nello spazio di settanta giorni. Costoro, infatti, presa la città, vi indirizzarono il corso del fiume e la sommersero. In seguito pochi, sopravvissuti a quella rovina, si riunirono insieme e vennero di nuovo ad abitarvi. Col passare del tempo però anche questi scomparvero per opera degli Ateniesi e degli altri Greci i quali, venuti qui per abitare con loro, non li tennero in alcun conto, ma li fecero loro schiavi e trasferirono la città in un altro luogo lì vicino, chiamandola Turi. La colonia sorge tra i fiumi Crati e Sibari (oggi Coscile), i quali, in età antica, avevano due foci distinte che costituivano, per la città priva di porto, due comodi approdi naturali. Poi le foci furono unificate quando i Crotoniati, vinta e distrutta Sibari, deviarono le acque del Crati sulle sue rovine. Sul nome dell’ecista - a causa di corruttela della tradizione manoscritta - può sussistere dubbio, ma non sulla sua patria: Elice in Acaia. Infatti non pochi sono i toponimi della Sibaritide che trovano rispondenze in Elice e nelle limitrofe città di Bura e di Ege. Ma non solo dai villaggi dell’Acaia dovevano provenire i nuovi coloni, bensì anche da altre regioni della Grecia. Aristotele sa di Trezeni che convissero a Sibari con i coloni achei, i quali però, approfittando della propria superiorità, li cacciarono dalla città, costringendoli a emigrare sulla costa del Tirreno. Il che, per mano dei Crotoniati, attirò su di loro la vendetta degli dei. Altri autori sanno della presenza a Sibari di Callia, membro della famiglia sacerdotale degli Iamidi di Olimpia. Anch’egli emigrato in Occidente come il suo congiunto che già abbiamo incontrato tra i fondatori di Siracusa. Altri autori ancora ricordano, fra i colonizzatori di Sibari, il locrese Sagari. Ma, assai probabilmente, la notizia pertiene alla tradizione leggendaria, anziché a quella storica. Sibari, nei due secoli di vita, assurge a un livello di potenza tale da consentirle di sottomettere ben quattro popoli indigeni e venticinque loro città. Anche se la notizia riferita da Strabone è forse esagerata, è pur sempre indicativa della fama di grandezza che, nella tradizione, si accompagna alla memoria della colonia achea. La quale si estende su quasi tutto il doppio bacino del Crati e del Sibari, controllando le vie istmiche che, attraverso i valichi della Sila, uniscono il mare Ionio al Tirreno. Qui, al di là dell’istmo calabro, sorgono le subcolonie di Lao e Scidro, e qui Sibari controlla molte altre città sulle quali estende la propria egemonia, fra le quali Temesa, Pissunte e Siriflo. A settentrione - in direzione di Siri si estende poi fino al promontorio di Trebisacce; a meridione - in direzione di Crotone - fino al confine del fiume Traente, l’attuale Trionto. Non stupisce allora la notizia che la sua cinta muraria avesse raggiunto un’estensione di 50 stadi, ossia di ben 9 chilometri, la quale delimitava così un’area insediativa di 500 ettari. Doveva trattarsi, oltretutto, di un’area densamente popolata, se Sibari potè armare contro Crotone - fra Greci e indigeni - un esercito di addirittura 300 mila uomini. Proverbiale è la ricchezza della città, che domina su una contrada di grande fertilità agricola: adatta alla coltura del grano in pianura o della vite e dell’olivo sulle prime pendici montane. Una contrada ricca anche nel sottosuolo attraversato da vene di argento e dove, inoltre, altra ricchezza affluisce per il controllo dei commerci, da mare a mare, lungo le sue vie istmiche. Mileto, in particolare, cui i Calcidesi taglieggiavano i traffici nello stretto di Messina, commercerà con l’area tirrenica proprio in virtù di una proficua intesa con Sibari. A tanta ricchezza si accompagna il benessere e l’alto livello di vita dei suoi abitanti, i quali vengono ingiustamente connotati come «lussuriosi» o «tracotanti» in ossequio a un cliché storiografico che ricerca nella decadenza morale degli uomini la causa della rovina delle loro città. L’astro di Sibari tramonta repentinamente nel 510 ca, allorché viene distrutta da Crotone dopo una lunga rivalità e una breve guerra. Il fatto è epocale e ha ripercussioni fino in terra d’Asia, dove i Milesi prendono il lutto in ricordo della città amica. D’allora in poi Crotone eserciterà un controllo sulla Sibaritide, assumendo in Magna Grecia il ruolo di potenza egemone. Circa sessant’anni dopo «pochi sopravvissuti a quella rovina», e, molto più probabilmente, i loro figli, capitanati da un nuovo ecista di nome Tessalo, tentano di far nascere una seconda Sibari. Ma Crotone lo impedisce. Essi allora chiedono aiuto alle più grandi potenze della Grecia, Sparta e Atene. Quest’ultima città, all’apogeo della sua potenza e assai interessata a un espansionismo in area occidentale, raccoglie l’invito. Così, per iniziativa di Atene, risorse Sibari come colonia panellenica. Gli interessi dei nuovi coloni urtano però con i propositi dei vecchi Sibariti, e i due gruppi si separano prima ancora di edificare la nuova città. Siamo nell’anno 445 ca; gli Ateniesi e i coloni panellenici fondano Turi, la cui pianificazione insediativa reca la firma del grande urbanista Ippodamo di Mileto; i vecchi Sibariti, che sono da loro cacciati via, edificano allora una terza, effimera Sibari presso il fiume Traente. A causa dei molti depositi alluvionali sedimentati in sito, e a causa della consistente profondità - siamo sotto il livello del mare -, nulla ancora, in forma sistematica, ci dice l’archeologia circa la grande Sibari distrutta da Crotone. Solo Turi, la città «ateniese» del V secolo, è stata riportata alla luce a seguito di una serie di recenti campagne di scavo. Della floridezza e della prosperità della grande Sibari del VI secolo possiamo avere un’idea, a livello di cultura materiale, solamente dai ricchi corredi riscoperti nelle necropoli di villaggi indigeni - già fortemente ellenizzati - gravitanti nella medesima area, come Amendolara e Franca villa Marittima. Crotone Dove oggi un’isolata colonna segnala la presenza dì un santuario greco, lì, nelle vicinanze, sorgeva l’antica città di Crotone. La colonna - che ha dato nome all’omonimo promontorio, l’antico capo Lacinio - appartiene a un tempio extraurbano del VI secolo, dedicato alla dea Era, che perpetua il culto di una precedente divinità indigena. Crotone è fondata nell’anno 708 ca presso il fiume Esaro, e tale data - canonica conosce più di una conferma. E’ Strabone (VI, 262), nuovamente, che ci informa della sua fondazione riferendo la testimonianza dello storico Antioco: Antioco dice che, avendo l’oracolo ordinato agli Achei di fondare Crotone, Miscello venne a esplorare il paese e vedendo che in quella zona già era stata fondata Sibari presso il fiume omonimo, gli parve che fosse da preferire questa città; tornò quindi di nuovo dall’oracolo per domandare se fosse lecito fermarsi a Sibari invece che a Crotone. Il dio però gli rispose... «cercando altro al di fuori di quello che ti è concesso, corri incontro alla tua rovina; accetta di buon animo il dono che ti è destinato». Di ritorno dall’oracolo Miscello perciò fondò Crotone e con lui cooperò anche Archia, fondatore di Siracusa, approdato per caso là mentre andava a fondare Siracusa ... Sembra che questa città coltivasse le arti della guerra ... Perciò questa città ebbe moltissimi vincitori a Olimpia, sebbene poi essa non sopravvisse per lungo tempo a causa della gran perdita di uomini che subì nella battaglia della Sagra. La fama di questa città si accrebbe anche grazie al gran numero di Pitagorici che essa generò e, primo fra tutti, quel Milone che fu il più illustre degli atleti e fu discepolo di Pitagora, il quale visse anch’egli per lungo tempo a Crotone. Sappiamo da un’altra testimonianza che il fondatore della colonia, Miscello, è originario di Ripe. Ciò conferma non solo la sua storicità, ma anche la tradizione sull’origine achea della città, dato che Ripe è appunto un piccolo villaggio dell’Acaia. Origine ribadita dalla tradizione, nonché ulteriormente suffragata dal fatto che Crotone, in Italia, stipula alleanze con città greche circumvicine avvalendosi del modello offerto dalla lega Achea. Miscello preferirebbe fermarsi a Sibari, ma l’oracolo di Delfi - da lui di nuovo consultato dopo un primo viaggio in Italia - ribadisce la volontà del dio: quella ch’egli fondi Crotone. Più diffuse notizie ancora ci offre lo storico Diodoro, che ricorda tre successive ingiunzioni del dio. La prima gli avrebbe ordinato di fondare Crotone. La seconda gli avrebbe chiarito dove esattamente fondare la nuova città, non distante dal capo Lacinio e presso il fiume Esaro. La terza, infine, gli avrebbe proibito di insediarsi nella Sibaritide. Divieto che, adombrando una sorta di predestinazione storica, tradisce la sua matrice post eventum, poiché lega la vicenda di Crotone, fino dai suoi primordi, a invidia nei confronti di Sibari, la città destinata a cedere alla sua potenza. Il ruolo dell’oracolo di Apollo riguardo alla colonizzazione di Crotone è peraltro ribadito dalla monetazione della città, la quale, sul retro delle singole emissioni e già a partire dal VI secolo, reca incisa l’immagine del tripode delfico. Miscello - a stare al racconto di Antioco - sarebbe dunque venuto due volte in Italia: la prima per esplorare il sito, la seconda per fondare la colonia di Crotone. Ora, poiché la sua data di fondazione cade nell’anno 708 ca, questa è anche la data della seconda spedizione di Miscello. A questo punto, a quando riportare la sua prima esplorazione dei lidi d’Italia? Sappiamo solo che, quando egli vi giunge, Sibari esiste già. Orbene, disponiamo di due date per la fondazione di questa città: il 709 ca e il 720 ca. La prima data è quella, solitamente, privilegiata dalla critica. Ma è verosimile che Miscello nello spazio di un solo anno abbia organizzato ben due spedizioni, e con esse si sia diretto, entrambe le volte, in Italia? Ed è verosimile che, sbarcando a Sibari nel 709 ca, egli abbia già visto una città edificata e abitata in quello che è l’anno medesimo della sua fondazione? Tutto ciò potrebbe indurre a concludere che Sibari, in effetti, non sia stata fondata nel 709 ca, ma appunto un decennio innanzi: nell’anno 720 ca. Ciò consentirebbe di datare il viaggio esplorativo di Miscello, cioè il primo, in un lasso di tempo molto più ragionevole, compreso fra il 720 ca (fondazione di Sibari) e il 708 ca (fondazione di Crotone). Ma è davvero questo il primo viaggio occidentale di Miscello? Non dobbiamo infatti dimenticare che con lui c’è Archia, diretto in Sicilia per fondare Siracusa. Evento, quest’ultimo, che si data nell’anno 733 ca. Cosa dobbiamo pensare? Che c’è nella tradizione un’insuperabile contraddizione cronologica? Ovvero che Miscello, per la prima volta, a nostra insaputa, è arrivato davvero a Crotone in tale data? Ipotesi sì in apparenza aberrante, ma resa legittima dalla constatazione che il legame fra Miscello e Archia è presente in due tradizioni fra loro indipendenti: quella riferita da Antioco in merito alla fondazione di Crotone e quella accreditata da Eforo in merito alla fondazione di Siracusa. In effetti siamo a conoscenza di una pre-fondazione di questa città, poiché l’eruditissimo Pausania ci informa che gli Spartani inviano coloni a Crotone e Locri Epizefirì al tempo della prima guerra messenica. Siamo nel terzo quarto dell’VIII secolo, in anni compresi fra il 750 e il 725, ed è questa notizia - almeno per Crotone sostanzialmente attendibile per più elementi concatenati tra loro. In primo luogo perché, per Eforo, i Parteni prima di fondare Taranto portano soccorso ad Achei, i quali - come abbiamo detto - altri non sono che i fondatori di Crotone. Il che mostra, senza dubbio, come esista uno stretto legame fra Sparta (patria dei Parteni) e Crotone già attivo da età precoloniale. In secondo luogo perché, per Eforo, Archia non solo fa sosta a Crotone, ma anche come pure abbiamo detto - al capo Zefirio, cioè in quello che sarà il futuro territorio lo-crese. Il che è dato non privo di profonda incidenza documentaria, poiché Pausania associa proprio Locri a Crotone quale meta per i coloni spartani. Né cessano qui le segnalazioni della tradizione. Infatti, come i Parteni aiutano gli Achei a insediarsi in Crotone, così - lo vedremo - i Tarantini, loro discendenti, aiutano i Locresi a fondare la loro città. In terzo luogo perché, secondo Erodoto, il principe spartano Dorieo - come sempre abbiamo detto - coopera con i Crotoniati nell’espugnazione della rivale Sibari. Il che testimonia il persistere, anche nella successiva storia di Crotone, di un suo legame privilegiato con Sparta. Tutto ciò, in effetti, potrebbe indurre a congetturare che Miscello sia stato interessato anche a una pre-fondazione di Crotone. Considerazione che porterebbe a concludere che egli sia venuto tre volte in Italia, e due volte per partecipare in fasi successive alla fondazione della medesima città: la prima volta insieme ad Archia, quale fondatore di una colonia spartana, o forse acheo-spartana, chiaramente mai decollata; la seconda volta da solo, quale fondatore della Crotone achea. L’intervallo fra le due imprese, di venticinque anni, è sì grande, ma non tale da escludere per esse un unico protagonista. Tanto più che il nostro Miscello, per tenersi in allenamento, fra l’una e l’altra spedizione sarebbe venuto ancora una volta in Italia. In quell’occasione constata che Sibari è già stata fondata; ciò nonostante - e pur sapendo di disattendere il volere di Apollo - tenta anch’egli di insediarsi nella medesima area. Perché mai? Per la ragione, appunto, che già una volta, tanti anni prima, ha fallito in una spedizione coloniaria indirizzata su Crotone. Senz’altro è questa la soluzione più economica del problema, quella cioè che presuppone, per Crotone, il medesimo fondatore Miscello tanto al tempo della ipotetica pre-fondazione (733 ca) quanto al tempo della reale costituzione (708 ca). Tuttavia, volendo, potremmo anche pensare all’esistenza di due distinti fondatori rispondenti a un medesimo nome. Ma lasciamo Miscello, e torniamo alla nostra testimonianza. Strabone ci informa anche della battaglia della Sagra, dove i Locresi sbaragliarono i Crotoniati intorno alla metà del VI secolo. In quell’occasione, sul campo di battaglia, apparvero i Dioscuri, e in quel luogo - lo ricorda Strabone in un altro contesto - sorge un loro altare. Nella battaglia 10 mila Locresi e pochi Reggini avrebbero sconfitto ben 130 mila Crotoniati! Anche se le cifre destano sospetti, fu questa certo una battaglia storica. Ma è assurdo affermare che essa, per il gran numero dei caduti, abbia avviato Crotone a rapida decadenza. Probabilmente Strabone, che sta accennando ai giochi di Olimpia, vuole solo sottolineare come, dopo tale scontro, Crotone non sia più in grado di fornire alla grecità i più validi campioni per gli agoni panellenici, giacché un’intera generazione di giovani è stata stroncata dal ferro locrese. L’atleta Milone, ricordato più sopra, tramanda memoria perenne dei campioni crotoniati. Ma egli è anche qualcosa di più: non solo è atleta, ma anche filosofo pitagorico. Assomma, cioè, in un’unica persona le due anime più peculiari della ricca umanità crotoniate, la quale popola un sito che la tradizione antica non si stanca mai di celebrare tanto per la bellezza e la forza dei suoi abitanti quanto per l’invidiabile salubrità del clima. È Crotone una città che vìve di agricoltura, anche se la sua campagna è meno fertile di quella sibarita. È inoltre una città di transito per le molte navi che attraversano il golfo di Taranto in rotta d’altura, doppiando il promontorio Iapigio e puntando dritte sul capo Lacinio. Ed è anche l’unica città greca dello Ionio che disponga di un duplice porto, seppure di dimensioni modeste, in corrispondenza del promontorio sul quale sorge la sua acropoli. La tradizione letteraria ci dice che, ancora nel III secolo, le sue mura di cinta raggiungevano un perimetro di 18 chilometri e l’archeologia testimonia che la città antica - cui oggi purtroppo si sovrappone alla moderna - si estendeva su entrambe le sponde dell’Esaro. Il territorio di Crotone, prima della conquista di Sibari, si estendeva soprattutto a meridione con le subcolonie di Petelia, Squillace e Caulonia, sentinella, quest’ultima, sul confine locrese. Ma si estendeva anche oltre la Sila, fino a raggiungere il Tirreno. Qui, al terminale della più breve delle vie istmiche della Calabria, sorgeva Terina, proprio in corrispondenza di Squillace e distante solo 30 chilometri dallo Ionio. Sulle prime balze della Sila erano inoltre completamente ellenizzate, e sotto il suo pieno controllo, le fortezze indigene di Crimisa e di Macalla. Metaponto. A circa 50 chilometri a sudovest di Taranto sorge Metaponto, là dove ancora oggi le quindici colonne del tempio delle Tavole Palatine segnalano la presenza di un insediamento greco. La colonia è sì priva di porto, ma può contare sul possesso di un ottimo territorio agricolo. Essa inoltre è città di frontiera sul confine del Bradano, fiume che oggi separa la Basilicata dalla Puglia, ricalcando la linea di demarcazione romana fra terza e quarta regio augustea, e che, in età ellenica, segnava il termine dell’Italia propriamente detta: cioè dell’Italia. La tradizione cronografica, per Metaponto, fissa la data di fondazione all’anno 773 ca, sincronizzandola con quella della fortezza indigena di Pandosia. Ma ciò è in contrasto con la tradizione storica che - come ora diremo - la data esplicitamente dopo Sibari e Taranto, nonché prima di Siri. Essendo peraltro inaccettabile anche il sincronismo con la fondazione di Pandosia, siamo indotti a fissare la data di colonizzazione della città in età successiva: negli ultimissimi anni dell’VIII secolo o nei primi anni del VII (appunto dopo la fondazione di Sibari e di Taranto e prima di quella di Siri). Della sua fondazione ci informa Strabone (VI, 264-265), riferendo ancora una volta la testimonianza dello storico Antioco: Antioco dice che il sito fu colonizzato in seguito da alcuni Achei mandati a chiamare dagli Achei di Sibari, giacché era abbandonato. In realtà costoro furono mandati a chiamare per l’odio atavico che gli Achei avevano nei confronti dei Tarantini che li avevano cacciati dalla Laconia e per impedire pertanto che i Tarantini stessi, loro vicini, mettessero piede sul medesimo luogo. Essendoci due città, Siri e Metaponto, di cui quest’ultima era più vicina, i nuovi arrivati furono persuasi dai Sibariti a occupare Metaponto: il possesso di questo sito, infatti, avrebbe assicurato anche il possesso della Siritide, mentre, se si fossero rivolti alla Siritide, avrebbero fatto in modo da aggiungere Metaponto al territorio di Taranto, che era proprio lì a fianco. La fondazione di epoca storica si pone «in seguito» a una precedente colonizzazione leggendaria avvenuta - come ricorda sempre Strabone - per iniziativa di Achei del Peloponneso, qui giunti con Nestore dopo la guerra di Troia. Dato, questo, che ne accomuna le memorie a quelle della limitrofa Siri, la quale sarebbe stata anch’essa originariamente fondata dopo tale celebratissima guerra, seppure per iniziativa di coloni troiani anziché achei. L’odio degli Achei di Sibari verso i Tarantini è molla per la fondazione di Metaponto, che avviene quando essi, appunto, chiamano altri Achei a insediarsi in area limitrofa per contenere il raggio di influenza di Taranto. Il loro sarebbe un odio atavico contro i Tarantini in quanto, come coloni spartani, sono discendenti dai Dori che, all’alba del primo millennio, ne hanno cacciato gli antenati dalla Laconia. Ma ha senso l’esistenza fra i Sibariti e i Tarantini di un odio di così vecchia data, risalente addirittura all’età dell’invasione dorica? Difficile crederlo. Tanto più che lo storico Eforo, parlando della fondazione di Taranto, testimonia esattamente il contrario, cioè che i coloni di Sparta, prima di insediarsi nella loro terra, aiutano proprio genti achee impegnate in lotte con gli indigeni. Un’unica conclusione appare a tutt’oggi la più convincente: che Antioco, figlio del suo tempo, abbia proiettato in età arcaica il tema «contemporaneo» della contesa fra Turi (erede di Sibari) e Taranto per il possesso della Siritide. Dunque gli Achei di Sibari, per arginare mire impongono ad altri Achei di colonizzare questo Siri. Essi, infatti, occupando il Metapontino, si sulla Siritide, mentre se si fossero insediati Metapontino sarebbe caduto sotto il controllo di tarantine sul territorio di Metaponto, sito, e non quello, più meridionale, di sarebbero assicurati anche il dominio in questa seconda località, tutto il Taranto. Ma quale l’eroe di Metaponto? Quali le leggende di fondazione relative alla colonia? Seguita a illuminarci Strabone (VI, 265), che riferisce questa volta la testimonianza dello storico Eforo: Secondo Eforo, fondatore di Metaponto fu Daulio, tiranno di Crisa, presso Delfi. C’è poi anche una leggenda secondo cui colui che fu inviato dagli Achei per condurre l’opera di colonizzazione intrapresa con i Sibariti fu un certo Leucippo, che, essendosi dapprima fatto prestare il posto dai Tarantini per un giorno e una notte, si rifiutava poi di restituirlo: di giorno infatti rispondeva alle loro proteste di avere richiesto e ottenuto il luogo per la notte successiva, di notte sosteneva di averne diritto anche per il giorno seguente. Gli storici antichi pongono in diretta relazione fra loro la genesi delle tirannidi e l’espansionismo transmarino. Ma solo nel caso di Metaponto siamo informati di un tiranno che partecipa a una spedizione coloniaria, divenendo fondatore di un’importante città di Occidente. È questi Daulio, tiranno di Crisa, località focidese limitrofa a Delfi, il quale con la sua sola presenza segnalerebbe come all’impresa achea abbiano partecipato pure altre genti che si affacciano sul golfo di Corinto. Ma è questa notizia che non possiamo riferire alla colonizzazione storica, poiché sappiamo per altra via dell’esistenza di un eroe Daulieo, che dà nome a Daulide, città della Focide. Costui è inoltre fratellastro di un certo Crisa e, come lui, figlio di un padre che di nome si chiama Tiranno. Dobbiamo dunque fare i conti con una notizia della tradizione leggendaria, che è ricca di segnalazioni relative a saghe focidesi. Fra queste brilla con particolare intensità la leggenda di Epeo, il mitico artigiano costruttore del cavallo di Troia. Non meno favolosa è la notizia relativa all’astuto Leucippo. Egli riesce a ottenere dai Tarantini il permesso di occupare un sito, posto sotto loro controllo, per un giorno e per una notte; ma dopo si rifiuta di andarsene, rispondendo - a quanti vengono a reclamare di giorno - di avere chiesto e ottenuto il permesso di restarvi per tutta la notte successiva, e replicando - a quanti vengono a reclamare di notte - di avere diritto a rimanervi per tutto il giorno seguente. Tradizione, questa, identica ad altra relativa a Gallipoli, che conosce di nuovo per protagonista Leucippo, il quale è intento a ordire la medesima astuzia. Qui però l’eroe è connotato come spartano, con un dato che trova ulteriore riscontro in Laconia - la regione di Sparta - dove gli è dedicato un culto eroico. Così stando le cose, dovremmo respingere la storicità del nostro Leucippo quale fondatore di Metaponto. Eppure, sorprendentemente, la sua immagine è riprodotta su monete metapontine della seconda metà del IV secolo, dell’età di Alessandro il Molosso. Il che significa che, in quest’epoca, Leucippo è davvero considerato l’eroe fondatore della città, come tramanda Eforo. È molto probabile tuttavia che il suo culto, proprio perché di matrice spartana, sia stato importato in Metaponto da Taranto, nella cui orbita, nel IV secolo, ormai gravita la città. Né urta contro questa conclusione il fatto che la documentazione numismatica ci riporti all’età di Alessandro il Molosso. È sì vero che Metaponto, con l’aiuto del potente re di Epiro, cerca di liberarsi dalla sudditanza nei confronti di Taranto, ma solo in un secondo tempo: solo dopo che il re, chiamato in Italia proprio da Taranto, rovescia le alleanze schierandosi contro l’antica alleata. Altrimenti, molto faticosamente, per giustificare il culto metapontino di Leucippo dovremmo pensare che egli sia stato un eroe predorico, la cui saga possa essersi conservata assai meglio presso gli Achei cacciati dalla Laconia, anziché presso i Dori che li cacciarono. Sull’origine achea di Metaponto la tradizione concorda. Già nei primi decenni del V secolo, il dato è sottolineato dal poeta Bacchilide. Questi, componendo un’ode in onore del metapontino Alessidamo, vincitore di una gara di lotta a Delfi, allude ben due volte agli Achei fondatori della sua città. Ma chi erano, più precisamente, questi Achei? Leucippo attua un’«opera di colonizzazione» che Strabone definisce come synoikismos. Il termine greco implica che i colonizzatori non provengano tutti da una medesima città dell’Acaia. È probabile che alcuni di essi siano stati originari delle città di Dime e di Ripe (la patria di Mi-scello). Infatti a Dime riconduce il culto metapontino dell’Acheloo, fiume che scorre nelle sue vicinanze; a Ripe, come sua località di nascita, la dedica di un colono che sacrifica nel tempio di Apollo. La ricchezza e la prosperità della città sono segnate dalla sua posizione geografica. Essa, infatti, è situata al polo terminale di un’importantissima via carovaniera che, lungo le valli del Basento e del Sele, univa Ionio e Tirreno, e quindi le colonie greche di Metaponto e Posidonia. Ma, ancora una volta è, anzitutto, una fiorentissima agricoltura cerealicola ad assicurare il benessere della colonia, la quale batte monete recanti come emblema la spiga o addirittura - come ricorda Strabone - dona una messe d’oro nel santuario di Delfi, quale offerta votiva. Metaponto sorge nella piana compresa tra i fiumi Basento e Bradano, che fungono da suoi porti. L’archeologia, in questi ultimi decenni, ne è venuta restituendo l’abitato che si palesa, sotto ogni aspetto, di imponenti dimensioni. L’abitato indigeno, anteriore all’insediamento ellenico, sorge invece a breve distanza; là dove oggi si ergono i resti del tempio delle Tavole Palatine, che fu un santuario di Era, e prima ancora un luogo di culto enotrio. L’importantissima documentazione restituita dalla località indigena dell’Incoronata ci dimostra che i Greci frequentarono il sito già in età anteriore alla stessa fondazione della colonia. Metaponto, per la sua vicinanza a Taranto, non può espandersi che a meridione, in direzione di Siri, dove fonda al confine con questa città la subcolonia di Lagaria, anch’essa legata a leggende di marca focidese. La sua storia è caratterizzata da un apogeo facilmente databile nella seconda metà del VI secolo, dopo la distruzione di Siri per iniziativa delle tre colonie achee; a cui segue, di lì a un cinquantennio, l’inizio di un lento declino politico che l’appiattisce in orbita tarantina. XI. I LOCRESI. Il golfo di Corinto guarda a occidente, ed è naturale che dalla sua area si siano mossi i principali popoli colonizzatori della Sicilia e dell’Italia greca. Così i Corinzi, i Megaresi, gli Achei e i Locresi. Ma questi ultimi, destinati a fondare Locri in Italia, sono proprio Locresi Ozoli, abitanti la costa del golfo di Corinto? O non piuttosto Locresi Opunzi, insediati sulle rive del canale di Eubea? Il problema, a tutt’oggi, è aperto. Nel primo caso i coloni locresi sono giunti in Occidente a rimorchio dei Corinzi e degli Achei; nel secondo caso ribattendo le rotte degli Eubei. Ma - come diremo - non possiamo neppure escludere che coloni di entrambe le Locridi siano approdati in Italia o in quanto compartecipi di una medesima spedizione o, più probabilmente, in ondate e generazioni successive. Locri Epizefiri. Sulla costa calabrese dello Ionio, poco a nord di capo Bruzzano, l’antico promontorio Zefirio, i Locresi fondano una Locri che, dal promontorio, prende nome di Locri Epizefiri. La nuova colonia, presso Gerace Marina, confina a nord con Crotone e a sud con Reggio. È priva di porto naturale, ma, riparata com’è dal promontorio Zefirio, costituisce uno scalo obbligato per il navigante in rotta per la Sicilia o interessato al transito dello stretto di Messina. Ancora una volta è Strabone (VI, 259) che ci informa della colonizzazione della Locri d’Italia, riferendo due tradizioni relative ai suoi fondatori: Il promontorio... di Locri, detto Zefirio,... ha il porto protetto dai venti occidentali e da ciò deriva anche il nome. Segue poi la città di Locri Epizefiria, che fu colonizzata da quei Locresi che stanno sul golfo di Crisa, condotti qui da Evante, poco dopo la fondazione di Crotone e di Siracusa. Eforo, perciò, non è nel giusto quando afferma che si tratta di una colonia dei Locresi Opunzi. Questi coloni, dunque, abitarono per tre o quattro anni presso lo Zefirio e c’è là una fonte, chiamata Locria, dove i Locresi posero il loro accampamento. Poi trasferirono la loro città con l’aiuto dei Siracusani. La colonia si data, secondo la cronologia tradizionale, nel 679 o nel 673 ca. Sicuramente - come precisa Stradone - dopo che Corinzi e Achei hanno colonizzato Siracusa e Crotone. Tenendo conto di entrambi questi dati, potremmo dunque con relativa tranquillità fissarne la fondazione nel terzo decennio del VII secolo. Ma è colonia dei Locresi Ozoli? A favore dei Locresi Ozoli si pronuncia Strabone, senza però rivelarci la sua fonte di informazione. Tuttavia questa tesi è più che verosimile poiché la Locride Ozolia, affacciandosi sul golfo di Corinto, è regione già per sua natura proiettata ad avventure occidentali. Inoltre la stessa memoria di Evante, il capo dell’impresa coloniaria, riconduce a questa anziché all’altra Locride. A favore dei Locresi Opunzi si pronuncia invece lo storico Eforo, contestato da Strabone. Ma, se è più logico che i coloni siano venuti dalla Locride occidentale, come è nata la tradizione che riporta alla Locride orientale, cioè alla Locride Opunzia? La domanda è legittima, e non siamo in grado di rifiutare a priori la tesi di Eforo. Tanto più che nativo della Locride Opunzia è Aiace Oileo, eroe la cui leggenda è indissolubilmente congiunta alla storia di Locri. Si potrà obiettare che questo dato, relativo alla nascita di Aiace Oileo, non prova proprio nulla, poiché il suo culto è presente in entrambe le Locridi; forse, tuttavia, è più prudente concludere che l’impresa coloniaria fu duplice: tanto se si trattò di due successive spedizioni, l’una ozolia e l’altra opunzia, quanto se fu un’unica spedizione frammista di coloni provenienti dalle due Locridi. In tal caso - come è ovvio - questi ultimi sarebbero tutti salpati dalla costa del golfo di Corinto, cioè dalla Locride Ozolia, avendo quindi per capo un locrese occidentale, quale in effetti tutto indica che sia stato il nostro Evante. I coloni locresi sostano per tre o quattro anni presso il promontorio Zefirio, così chiamato perché forma un riparo dallo zefiro, cioè dal vento di ponente. Poi, da questo primo approdo, si trasferiscono poco più a nord, fondando la loro città alle pendici della collina di Epopi. Ma, prima di loro, già altri Greci erano approdati presso il promontorio Zefirio. Qui, infatti, sosta il corinzio Archia diretto a Siracusa; qui sostano ancora i Dori (Corinzi?) reduci dalla Sicilia dopo essersi separati dai Megaresi, ciò indica, con buona probabilità, che quello presso il promontorio Zefirio non solo è un punto di attracco obbligato, ma anche uno scalo posto sotto controllo corinzio, o corinzio/siracusano, e come tale ancora pienamente operante allorché vi approdano i coloni locresi. Questi, appunto, fondano Locri con l’aiuto e l’appoggio dei Siracusani. Ma chi sono costoro? Chi sono questi Siracusani o, più probabilmente, Corinzi/Siracusani? Quelli qui giunti con Archia, ovvero loro discendenti che, in età successiva, conservano il controllo sullo scalo presso il promontorio Zefirio? Se la spedizione coloniaria è una sola, non possiamo che pensare a Siracusani da tempo stanziati presso questo approdo, i quali, magari, hanno spinto gli stessi confratelli locresi all’avventura transmarina. Se però due sono le spedizioni coloniarie, l’una di Locresi Ozoli e l’altra di Locresi Opunzi, nulla vieta di pensare che gli uni siano venuti ai tempi di Archia (733 ca) e gli altri al tempo della fondazione di Locri (679 o 673 ca). In tal caso la sosta presso il promontorio Zefirio non sarebbe stata di tre anni, bensì di tre generazioni di venti anni ciascuna (733 - 60 = 673). Inoltre, in tal caso, Archia, fondatore di Siracusa, avrebbe avuto non solo un ruolo di compartecipe nella colonizzazione di Corcira operata da Chersicrate, non solo un ruolo di aiuto nella prefondazione di Crotone promossa da Miscello, ma anche un ruolo di esploratore nella scelta del sito dove, in seguito, sorge Locri. Se le cose stessero davvero così, si comprenderebbero meglio anche le strette connessioni di Locri con tradizioni di marca tarantino/spartana, quali - come diremo - leggende di fondazione modellate su quelle dei Parteni, ovvero notizie intorno a presunti aiuti forniti da Taranto ai colonizzatori del sito. Sappiamo infatti che Sparta invia propri coloni a Crotone e a Locri proprio ai tempi di Archia e di Miscello, cioè nel 733 ca. Poiché in quell’occasione Miscello può essersi accompagnato ai coloni spartani che sbarcano a Crotone, nulla vieta di congetturare che agli stessi si siano accodate anche genti della Locride dirette nella zona del promontorio Zefirio e provenienti, con buona probabilità, proprio dalla Locride Opunzia, dove la contiguità con gli Eubei le aveva allenate a ribatterne le rotte occidentali. Note al filosofo Aristotele e allo storico Polibio sono poi una serie di leggende di fondazione che accomunano le origini di Locri a quelle di Taranto. Il primo dice che i Locresi d’Italia discendono da schiavi fuggitivi, da briganti, da adulteri e da buone donne. Il secondo, Polibio, narra che le donne locresi si sarebbero congiunte con schiavi mentre i loro mariti combattevano al fianco degli Spartani nella prima guerra messenica; i figli nati da tale unione sarebbero poi stati spediti a Locri, così come i Parteni nati dalle vergini spartane erano stati esiliati a Taranto. Entrambe le tradizioni sono vistosamente influenzate dalla filigrana di memorie tarantine, ma la seconda merita attenzione perché dice qualcosa di più. Ricordando che i Locresi sono alleati degli Spartani nella prima guerra messenica ci conforta, infatti, nell’ipotesi che gli uni, per la prima volta, siano venuti a Locri proprio a rimorchio degli altri. Non nell’età della fondazione della colonia (679 o 673 ca), ma sessant’anni Prima (733 ca), quando appunto doveva essere ancora in atto l’alleanza contratta nell’età della guerra messenica. In qualche modo connesse alle leggende di fondazione sono poi le tradizioni sulla prostituzione sacra di Locri, nonché sulla sopravvivenza in loco di usanze matriarcali. Sopravvivenza che è retaggio di popolazioni preelleniche abitanti le Locridi o, più probabilmente, di popolazioni indigene «impattate» dai colonizzatori sul suolo della penisola. Comunque sia, la pratica matriarcale ha in Locri radici profonde, se è vero che qui erano considerati nobili solo i cittadini che discendevano in linea femminile dalle «cento famiglie» della madrepatria, alcune delle cui donne avevano partecipato alla spedizione coloniaria trasmettendo la nobiltà del casato ai propri discendenti, cioè ai Locresi membri, appunto, delle cento famiglie. Ciò non annulla tuttavia per queste donne la tradizione di una loro colpa originaria, simboleggiata anche nella leggenda delle vergini locresi trascelte dalle cento famiglie e inviate, annualmente, a Troia per espiare la colpa di Aiace, colpevole - come diremo - di violenza sacrilega contro Cassandra. L’archeologia oggi rivela che, all’arrivo dei coloni locresi, il sito era già occupato da indigeni, che furono cacciati dai nuovi venuti. E mostra altresì come questi indigeni - Siculi ancora superstiti sul suolo d’Italia abbiano intrattenuto rapporti commerciali con i Greci che frequentarono il sito già in età precoloniale. I vasi di tardo periodo geometrico ritrovati nelle loro tombe documentano, infatti, sull’esistenza di contatti con genti di provenienza euboicocicladica. Queste genti, con tutta probabilità, sono le medesime di cui i Locresi Opunzi, affacciati sul canale di Eubea, possono avere ribattuto le rotte proprio al tempo della spedizione occidentale di Archia. La colonia greca, posta a nord di capo Bruzzano e poco a sud di Gerace Marina, ha rivelato - sempre all’indagine archeologica - una cinta muraria che si estende per ben 7 chilometri e mezzo, racchiudendo un’area insediativa di 230 ettari. Una colonia quindi di tutto rispetto, come mostrano, ancora oggi, i monumentali resti templari del V secolo, che a loro volta conservano vestigia di importanti edificazioni di età arcaica. Ipponio. Locri è serrata fra le città greche di Reggio e Crotone, con le quali confina, rispettivamente, presso i fiumi Alice e Sagra. Inoltre non può contare né su vaste pianure, né su un territorio particolarmente ricco e disponibile a colture intensive. La sconfitta inferta a Crotone presso la Sagra, pur assicurando capacità di sopravvivenza e ampia credibilità politica, non le consente però un progetto di conquista a settentrione. A meridione poi è bloccata da Reggio e dalla sua compagine territoriale. Quindi possiamo ben comprendere come abbia concentrato ogni suo sforzo espansionistico verso il mar Tirreno, al di là delle catene montuose dell’Aspromonte e della Piccola Sila. Qui, sull’altra costa della penisola, fonda le subcolonie di Medma, Metauro e Ipponio, che unite a Locri circondano completamente il territorio reggino, costituendo una barriera che di fatto lo isola dalla realtà dell’Italia greca, avvicinandolo sempre più alla dinamica politica e alla vita del mondo siciliano. Fra queste fondazioni, è degna di menzione solo Ipponio, ribattezzata oggi Vibo Valentia per recupero dell’antica onomastica di età romana. Si estende su una superficie di ben 200 ettari delimitata da una cinta muraria di oltre 6 chilometri, dominando il Tirreno di lontano, dall’alto di una munita acropoli naturale. Essendo la più settentrionale di tutte le fondazioni locresi, estende il suo controllo fino alle acque del golfo di Sant’Eufemia (che, non a caso, gli autori antichi ricordano anche come golfo di Ipponio). La sua ricchezza, prevalentemente agricola, era assicurata da una vasta pianura che si estende fino al mare. Grazie al suo porto, Ipponio poteva poi sommare ai proventi agricoli anche i profitti del commercio e della pesca. Nella seconda metà del V secolo ci appare come una città fra le più floride dell’Italia greca, in grado - insieme a Medma - di contrastare con le armi l’ingerenza della madrepatria. XII. I COLOFONI. Enclave ionica in area achea è Siri, affacciata sul mare Ionio. Ha per madrepatria la lontana Colofone, città della Ionia d’Asia, e domina su una fertile e prospera pianura la Siritide - che le è sempre contesa da potenti vicine. La sua storia, brevissima e intensa, si consuma nell’arco di un secolo o poco più, e pone ancora oggi molti interrogativi. Siri. Siri, - come il lettore già sa - si trova serrata fra Metaponto e Sibari. Ciò ne segnerà la storia futura per le mire sul suo territorio presto avanzate da tanto potenti vicine. Infatti, fra le città di Magna Grecia, è quella che ha vita più breve, seppure non meno luminosa. Le sue origini, in parte, sono avvolte da un fitto mistero, che Strabone (VI, 263-264) non aiuta certo a dissipare fornendo una testimonianza che mescola insieme leggenda eroica e tradizione storica. La sua Siri, posta sul fiume omonimo, nasce alla storia nientemeno che come fondazione troiana: A riprova della colonizzazione troiana viene addotto il simulacro di Athena Iliaca, lì situato, che dicono abbia chiuso gli occhi quando coloro che si erano rifugiati come supplici presso tale simulacro vennero trascinati via dagli Ioni che avevano conquistato la città. Raccontano infatti che costoro, in fuga dalla dominazione dei Lidi, giunsero come colonizzatori e conquistarono con la violenza la città, che era dei Choni, dando a essa il nome di Polieon ... Antioco afferma che i Tarantini combatterono, per il controllo della Siritide, contro gli abitanti di Turi... e che essi concordarono di abitare insieme, ma la colonia fu attribuita ai Tarantini. In seguito essa fu denominata Eraclea, dopo avere cambiato nome e sito. Siri, per Strabone, è anzitutto fondazione dei Troiani. Ne è riprova lo xoanon di Atena Iliaca, cioè l’antico simulacro ligneo della dea che essi qui trasferiscono dalla distrutta città di Troia. È questa, ovviamente, una fondazione leggendaria, che però si salda al ricordo della colonizzazione storica tramite il racconto dello xoanon di Atena che chiude le palpebre allorché gli Ioni, qui sopraggiunti di lontano, occupano Siri sconfiggendo i Choni, discendenti dei Troiani, e rendendosi responsabili di una strage sacrilega di supplici all’interno del tempio della dea. Ma chi sono questi Ioni? Sono abitanti della Ionia, qui giunti fuggendo dall’Asia per sottrarsi alla conquista della loro terra da parte del regno di Lidia. Strabone non aggiunge di più. Ma sappiamo dallo storico Timeo e dal filosofo Aristotele che essi provengono dalla città greca di Colofone. Questa, in età storica, è dunque la madrepatria di Siri. Quanto ai conquistatori provenienti dal regno di Lidia, non possono che essere quelli guidati da Gige all’assalto delle città greche della Ionia e dell’Eolide. Il che, per noi, è un importantissimo elemento cronologico per ancorare la fondazione di Siri nella prima metà del VII secolo: intorno al 675 ca. Lo stanziamento dei Colofoni si chiama Polieon. Ma sarebbe più esatto definirlo SiriPolieon, così come il mitico insediamento troiano si chiama Siri-Sigheion e quello tardo, tarantino, Siri-Eraclea. Infatti, quello di Siri (dal fiume omonimo) è nome generico relativo al sito; quelli, invece, di Sigheion, Polieon ed Eraclea nomi che caratterizzavano le realtà insediative e, come tali, imposti dai colonizzatori. Strabone ci parla poi della seconda guerra della Siritide, senza nulla dirci della prima. Ci informa, cioè, della lotta fra Taranto» e Turi per il possesso di quell’area avvenuta nella seconda metà del V secolo, tacendo, viceversa, della guerra - assai più importante - fra Siri e le colonie achee di Sibari, Crotone e Metaponto coalizzate fra loro. Evento, quest’ultimo, di cruciale importanza perché porta alla stessa distruzione di Siri intorno alla metà del VI secolo. Strano silenzio davvero, questo di Strabone; e tanto più strano perché egli ricaccia nella mitica storia delle origini l’episodio della sacrilega strage di supplici all’interno del tempio di Atena. Strage da riferire all’età storica, e operata, viceversa, non contro i Choni/Troiani dai Colofoni, bensì dagli Achei di Metaponto, Sibari e Crotone ai danni di questi ultimi, divenuti coloni di Siri. Ne siamo edotti dalla pagina di Trogo (Storie Filippiche, XX, 3-4), storico autorevolissimo, in un contesto in cui ci informa anche della prima guerra della Siritide: Ma, al principio della loro storia, i Metapontini, insieme con i Sibariti e con gli abitanti di Crotone, decisero di espellere dall’Italia gli altri Greci. Avendo conquistato dapprima la città di Siri, nell’espugnarla trucidarono, fra gli stessi altari, cinquanta giovani, che avevano abbracciato la statua di Athena, nonché il sacerdote coperto dagli ornamenti della dea ... Gli abitanti di Crotone ... sdegnati poiché, durante l’attacco contro Siri, questa città era stata aiutata dai Locresi, mossero guerra contro questi ultimi. Dunque sono i colonizzatori achei di Sibari, Crotone e Metaponto che marciano contro i confratelli della ionica Siri, compiendo atti sacrileghi e atterrando la loro città. In quell’occasione Siri avrebbe ricevuto aiuti dai Locresi. Ciò genera un ulteriore conflitto fra questi ultimi e i Crotoniati, che si risolve però - come già sappiamo - con la schiacciante vittoria dei Locresi presso la Sagra di poco posteriore, con tutta probabilità, alla sconfitta e alla distruzione di Siri. Ma perché Strabone tace della prima guerra della Siritide? Perché mai addossa sui Colofoni la responsabilità di tanta strage sacrilega? È presto detto. Egli si documenta sulle pagine dello storico Antioco, che parteggia per le colonie achee e ha quindi tutto l’interesse a tacere di un episodio in cui esse si sono macchiate di empietà e di sacrilega violenza. Ovviamente non può rimuovere il fatto in sé, già entrato nella fantasia popolare, ma lo rielabora riversandone in altra occasione tutta la responsabilità sui Colofoni. Dopo la prima, a distanza di oltre un secolo scoppia la seconda guerra della Siritide, combattuta fra Turi (erede di Sibari) e Taranto, la quale già estende il suo controllo su Metaponto e tende a dilatarlo ancora in direzione di Siri. La guerra si conclude nel 433-432; di fatto - al di là delle intese ufficiali - con la piena vittoria di Taranto che fonda la nuova città di Eraclea, popolata da coloni tarantini, turini e acheo-siriti. Questi ultimi sono gli abitanti di Siri ripopolata dagli Achei dopo la distruzione della colonia di Colofone. Il che ci porta - nella testimonianza di Strabone - a individuare ben quattro stadi «etnici» della storia di Siri: il troiano (legato alla leggenda), il colofonio (legato alla fondazione di Siri ionica), l’acheo (successivo alla distruzione di Siri ionica) e il tarantino (connotato dalla fondazione di Eraclea). Ma, ovviamente, la vera Siri è quella fondata dai Colofoni, che vive poco più di un secolo. Anzi stupisce che in sì breve tempo sia riuscita a raggiungere un tale livello di prosperità e ricchezza da indurre più autori antichi a considerare il lusso o il benessere dei Siriti non inferiore a quello, proverbiale, dei Sibariti. Peraltro fra i pretendenti occidentali alla mano di Agariste, la figlia del tiranno Clistene di Sicione, non figura solo il sibarita Smindiride, ma anche il sirita Damaso, figlio di Amiri il Saggio. Dato che ci autorizza a supporre che in quest’epoca Siri non fosse meno prospera di Sibari: intorno, cioè, al 575 ca. Quasi inesistenti per il periodo più antico di vita della colonia sono le tracce di cultura materiale, che si riducono a un’iscrizione su peso da telaio. La documentazione archeologica finora ci ha restituito l’abitato di Eraclea, presso odierna Policoro, rivelandoci che il sito era frequentato dall’elemento ellenico già dalla fine dell’VIII secolo. È certo probabile che già la Siri colofonia abbia qui esercitato un controllo, adibendo la località ad avamposto fortificato. Anche Siri, nonostante la brevità della sua vita, si procura uno sbocco e un approdo sul mar Tirreno, deducendo - oltre le giogaie della Sila - la subcolonia di Pissunte sulla costa del golfo di Sapri, città oggi identificata con Policastro Vetere. La leggenda di Cassandra. La tradizione relativa al sacrilego eccidio dei Colofoni, perpetrato dagli Achei al tempo della prima guerra della Siritide, è attestata - già prima di Trogo - dal poeta ellenistico Licofrone in un oscuro, criptico, prezioso, componimento dedicato alle «non credute» profezie di Cassandra, l’infelice figlia del re troiano Priamo. In questo nostro libro sui Greci in Occidente parliamo di tradizioni storiche anziché di leggende eroiche; ma, in questo caso, dobbiamo fare proprio un’eccezione perché nel poemetto di Licofrone le prime sono legate alle seconde in forma davvero inscindibile. Veniamo dunque a Cassandra. Quando, nell’ultima notte di Troia, la sacerdotessa di Atena è violentata da Aiace Oileo nel penetrale del tempio, il simulacro della dea, benché inanimato, chiude gli occhi per non assistere a tanta furia sacrilega. Orbene come abbiamo visto - una reduplicazione del portentoso miracolo si verifica nella colonia di Siri, avendo sempre per protagonista il simulacro - lo xoanon - della dea Atena, nuovamente offesa da un altro sacrilegio che si consuma nel suo tempio. Per Licofrone (Alessandra, 978-992) il sacrilegio si àncora nuovamente a un fatto storico, quello compiuto dagli Achei contro i Colofoni, supplici nel tempio della dea. E’ Cassandra - come al solito - a profetizzare l’evento: Quegli infelici colonizzeranno una città come Troia e daranno dolore alla dea del bottino, la Trombettiera, uccidendo nel suo santuario i discendenti di Xuto che abitavano in quel paese. La statua chiuderà le palpebre inanimate, vedendo il massacro degli Ioni compiuto dagli Achei, la strage dei consanguinei, degna di lupi selvaggi, quando morrà il giovane sacerdote figlio della sacerdotessa e bagnerà per primo l’altare di nero sangue. In questa testimonianza la parola di Licofrone, già di per sé criptica, è resa ancora più oscura dalla dipendenza del poeta da una tradizione ateniese, la quale, volutamente, contamina fra loro memorie troiane con memorie ioniche. Perché Licofrone non evoca, in forma esplicita, i Troiani? Perché - per lui - la loro immagine di mitici fondatori di Siri sfuma in quella degli Ioni di Colofone, suoi rifondatori in età storica. Motivo per il quale gli Achei («quegli infelici»), sovrapponendosi agli Ioni («i discendenti di Xuto»), ricolonizzano una città che è definita «simile a Troia». Perché Licofrone, di conseguenza, non distingue fra Troiani e Ioni? Perché - per lui sono insieme Troiani e Ioni anche i supplici che, in Siri, vengono massacrati dinanzi alla statua di Atena («la Trombettiera»), la quale, ancora una volta, abbassa gli occhi per non assistere a tanta violenza sacrilega. Troiani perché, sempre in presenza di un simulacro di Atena, rinnovano il dramma del loro popolo trucidato dalla ferocia dei leggendari Achei omerici. Ioni perché discendenti dai coloni di Colofone, anch’essi trucidati, in età storica, da altri Achei: appartenenti, questa volta, alle limitrofe città di Metaponto, Sibari e Crotone. Perché Licofrone evoca sia Greci fondatori di una città «simile a Troia» sia Greci suoi ricolonizzatori? Perché - per lui - la loro identità è distinta. Fondatori della colonia sono gli Ioni di Colofone, che edificano una Siri «simile a Troia» perché volutamente confusi con i Troiani nella tradizione ateniese cui attinge il poeta. Rifondatori sono, invece, gli Achei i quali, sovrapponendosi loro, ricolonizzano Siri: che, in quanto ionica, è definita appunto «città simile a Troia». Perché Licofrone proietta in epoca eroica avvenimenti storici? Perché gli è impossibile non ancorare in età leggendaria anche la stessa distruzione di Siri sia per ossequio cronologico alla trama narrativa del suo poemetto, sia per condizionamento dell’assimilazione, quivi presente, di Ioni in Troiani. Comunque, data l’opposizione fra Achei e Ioni, non c’è dubbio che - per lui - il sacrilegio si ponga al tempo della distruzione di Siri. Operati questi noiosi, quanto necessari chiarimenti, torniamo ai versi di Licofrone, cercando di spiegare un «giallo» legato alla leggenda sulla più antica storia di Siri. Chi è «il giovane sacerdote», figlio della sacerdotessa, che per primo tinge l’altare del suo «nero» sangue? In proposito tacciono, con palese imbarazzo, commentatori antichi e moderni. Anche lo storico Trogo - come abbiamo detto - ci informa della strage dei coloni colofoni di Siri nel tempio di Atena, nonché dell’assassinio del sacerdote della dea, rivestito di sacri ornamenti. Ma è solo Licofrone ad attestar-ci che il giovane sacerdote è «figlio della sacerdotessa» di Atena. Dea che, in Siri, è venerata con un simulacro qui direttamente approdato da Troia. Quindi il giovane non è figlio di una sacerdotessa qualsiasi, ma di una sacerdotessa in qualche modo connessa con l’Atena venerata a Troia, cioè con l’Atena Iliaca. Chi è dunque, la nostra sacerdotessa? Tutto parrebbe suggerire che essa sia proprio Cassandra; la quale - protagonista del poemetto di Licofrone - non solo profetizza, con nota autobiografica, che il simulacro di Atena chiude gli occhi dinanzi alla violenza dissacrante consumata da Aiace Oileo contro di lei, ma anche presagirebbe una reduplicazione del portentoso miracolo allorché il medesimo simulacro della dea, approdato a Siri, diviene testimone di altra, gravissima scelleratezza sacrilega. Ma qual è il nesso fra i due episodi? La risposta è obbligata: il primo episodio ha per vittima innocente l’infelice sacerdotessa Cassandra, violentata da Aiace Oileo, mentre il secondo episodio un suo sventurato figliolo, il quale ne eredita l’abito sacerdotale. Cassandra, divenuta concubina di Agamennone, ebbe da lui due figli gemelli, che furono uccisi da Egisto dopo l’assassinio di entrambi i loro genitori. L’apprendiamo dalla letteratura antica; ma nulla ci impedisce di congetturare che una tradizione alternativa abbia attribuito a Cassandra anche un altro figlio o un’altra coppia di figli. Ma, in tal caso, in seguito a quale sua unione? Tutti sappiamo come, già prima di Agamennone, essa, con la violenza, sia stata posseduta da Aiace dinanzi al simulacro della dea Atena. Quale conclusione più convincente, per noi, di quella che dunque ci porta a congetturare che il giovane sacerdote della dea sia in effetti il frutto di tanta violenza sacrilega? La supposizione è certo ardita, ma resa plausibile da una circostanza davvero curiosa. Licofrone, in un poemetto tutto teso a rievocare le sventure di Cassandra, tace infatti la notizia dei figli avuti da Agamennone e trucidati ancora infanti. Omissione che appare tanto più inspiegabile se poi consideriamo come Cassandra sia profetessa anche della propria morte e di quella dei suoi più stretti congiunti. Ciò, in effetti, costituisce indizio non trascurabile del fatto che sul dato della maternità di Cassandra il poeta innova la leggenda, attribuendole altra prole, cioè una discendenza sacerdotale nata, senza colpa, dalla sacrilega colpa di Aiace. Ma le leggende mai si innovano dal nulla. Quindi, per avvalorare il ragionamento, dobbiamo sapere rispondere ad almeno tre domande che, concludendo, si impongono obbligate. Il poeta Licofrone, pure innovando la leggenda, poteva disporre di materiali alternativi che attribuissero a Cassandra altra prole? E, in tal caso, tali materiali mitici potevano ricondurne la paternità ad Aiace? E, in tal caso, erano questi materiali proiettabili anche su circuiti occidentali? Per rispondere possiamo richiamare in discussione un’iscrizione votiva allo Zeus di Dodona. Essa conserva menzione di un tale Agatone, nativo di Zacinto, che nella sua isola esercita da trenta generazioni «funzioni consolari» in favore della dinastia dei Molossi, che ha sovranità sulla terra di Epiro. Egli si definisce «progenie della troiana Cassandra» e correda l’iscrizione, dopo la memoria dell’illustre antenata, di un’iconografia fallica che - almeno a prima vista - ci appare davvero inspiegabile. Esistono così materiali alternativi che attribuiscono a Cassandra altra figliolanza, dato che è proprio impossibile congetturare che il capostipite della famiglia di Agatone sia uno dei figli gemelli avuti da Agamennone e trucidati ancora infanti. E’ invece un loro fratellastro: quindi un terzo figlio di Cassandra. Ma quale la sua paternità? Se tale capostipite della famiglia di Agatone non è nato da Agamennone, allora possiamo solo concludere che sia frutto della violenza di Aiace. Ciò spiegherebbe meravigliosamente perché Agatone, nell’iscrizione, si fregi solo di una nobilitante ascendenza femminile, nascondendo, viceversa, il nome del progenitore maschile della sua stirpe. Come spiegherebbe, altresì, perché Agatone corredi l’iscrizione di un’iconografia fallica subito appresso al nome di Cassandra. Perché, appunto, tale iconografia perpetua memoria della violenza da lei subita. L’iscrizione ci consente così di concludere che esisteva veramente una seconda leggenda sulla discendenza di Cassandra: alternativa, riferibile alla violenza di Aiace e, per giunta, in quanto legata a Zacinto, facilmente proiettabile su un circuito di respiro occidentale. Leggenda che dunque Licofrone poteva conoscere, traendone spunto per ulteriori innovazioni in ambiente magnogreco. Quindi due tradizioni sulla discendenza di Cassandra: una prima legata ad Agamennone, da riportare a probabile matrice peloponnesiaca; e una seconda, collegata con la colpa di Aiace, probabilmente da ascrivere a marca ateniese in quanto ancorata a Zacinto. Città che - come Siri - rientra nell’orbita di interessi dell’Atene imperialistica del V secolo, e che - sempre come Siri - si fregia di una nobilitante origine troiana. Di qui breve è davvero il passo che porta a congetturare l’arrivo a Siri di un secondo figlio di Cassandra e di Aiace, in un processo di reduplicazione della loro prole, di fatto favorito dalla stessa tradizione dei parti gemellari di Cassandra. Se le cose stessero davvero così, tanto più aggressivo, nella pagina di Licofrone, si paleserebbe il dettato della profezia di Cassandra relativo all’assassinio del giovane sacerdote. Perché, ancora una volta, dettato di marca autobiografica volto a congiungere i destini di Troia e di Siri a una più introspettiva e segreta memoria di violenza e di sangue. La stessa cui il poeta àncora anche l’accadimento storico della prima guerra per la Siritide, con relativa strage di coloni ionici perpetrata da consanguinei eserciti achei. XIII. GLI CNIDI. Gli Cnidi si interessano all’Occidente quando esso, all’espansionismo dei Greci, non è più in grado di offrire contrade ricche e sicure. Per questo le loro spedizioni o abortiscono sul nascere, per l’ostilità dell’elemento indigeno, o trovano meta in isole inospitali perché troppo boscose o perché più simili a covi di pirati che a sedi di colonizzatori. Corcira Melaina. Sappiamo di una colonia degli Cnidi in Adriatico da un antico geografo, il cosiddetto Pseudo-Scimno, il quale però nella sua opera Perieghesis si limita a fornire solo questa curiosissima annotazione (426-430): Non lontano dalle terre illiriche si trova l’isola di Faro, fondazione dei Parii, e l’isola chiamata Corcira Nera, colonizzata dagli Cnidi. L’isola di Faro è Lesina (Hvar); quella di Corcira Nera, la greca Corcira Melaina, è Curzola (Korcula). L’una conosce una colonizzazione paria, ma solo in un’epoca tanto tarda che qui non interessa; l’altra una fondazione cnidia ancora in età arcaica. La colonia cnidia, con tutta probabilità, è da riportare ai primi decenni del VI secolo, al tempo del grave scontro fra Corinto, governata dal tiranno Periandro, e la sua antica fondazione di Corcira nel mare Ionio, che ora rifiuta ogni forma di dipendenza politica dalla madrepatria. Sappiamo, infatti, che in questo periodo gli Cnidi, assieme ai Sami, si rendono benemeriti, nei riguardi dei Corciresi, della liberazione di ben trecento loro fanciulli divenuti preda di guerra di Periandro, che li invia in dono ad Aliatte re di Lidia. Sappiamo inoltre che, in riconoscenza del loro gesto generoso, i Corciresi tributano agli Cnidi grandi onori, fra cui lo stesso diritto di risiedere nella loro terra senza pagare tributo di sorta. Così stando le cose, non è quindi azzardato congetturare che gli Cnidi siano venuti in Adriatico in seguito agli stretti legami di amicizia che li univano ai Corciresi, sia che questi ultimi gli abbiano spianato la strada per una penetrazione in area illirica; sia che, in segno di riconoscenza, gli abbiano assegnato un lembo dell’isola di Corcira Melaina, che forse - data l’evidenza del nome - gravitava proprio sotto il loro controllo. La notizia della colonia cnidia in Adriatico, nonché l’ipotesi della sua deduzione per interessamento di Corcira, acquistano maggiore pregnanza se poi riflettiamo su due dati, concreti, che riconducono alle logiche della politica internazionale. L’episodio dell’intervento cnidio in favore dei trecento fanciulli corciresi - al di là del gesto umanitario - può benissimo trovare spiegazione nel contrasto o nell’urto esistente fra le città greche d’Asia e i dinasti microasiatici, in fase di grande espansione territoriale. In secondo luogo occorre considerare l’interesse concreto di Corcira a favorire, sotto la sua egida, fondazioni coloniarie in Adriatico con l’obiettivo di superare lo stato di isolamento in cui versava in seguito al sempre crescente contrasto con Corinto. Nulla in più sappiamo di questa colonia degli Cnidi, che probabilmente ebbe breve vita. L’archeologia non ne ha neppure individuato il sito. Il nome di Corcira Melaina, o Nera, rivela che l’isola era tutta ricoperta di fitte foreste. Le quali forse, per abbondanza di legname, ne favorivano economia di scambio; ma non certo ne incentivavano la possibilità di incremento delle risorse agricole. Molto probabilmente la colonia - come la Taso boscosa e selvaggia cantata dal poeta Archiloco - puntava a un diretto espansionismo sulla limitrofa terraferma, dove sboccava la ricca via carovaniera della Neretva che conduceva ai mercati dell’entroterra danubiano. Come nel caso di Taso, tuttavia, un suo espansionismo sulla costa dirimpetto dovette essere presto precluso dalla bellicosità delle popolazioni indigene, tutt’altro che disponibili al dialogo con nuovi venuti. Le isole Eolie. Conosciamo pure una colonizzazione delle isole Eolie operata dagli Cnidi. La notizia, ampia e dettagliata, ci viene da Diodoro (V, 9,1-3) il quale però, preliminarmente, ci informa della spedizione di Pentatlo e della mancata fondazione di una colonia cnidiorodia in Sicilia, presso il promontorio Lilibeo: Essendo le isole [Eolie] di nuovo e sempre più disabitate, alcuni di Cnido e di Rodi, malcontenti del pesante giogo imposto dai re d’Asia, decisero di inviare una colonia. Scelsero come loro capo Pentatlo di Cnido, che faceva risalire la sua origine a Ippote, discendente di Eracle; al tempo della cinquantesima olimpiade (nella quale vinse la corsa dello stadio lo spartano Epitelida) Pentatlo e i suoi uomini navigarono fino alle vicinanze del capo Lilibeo in Sicilia e trovarono che gli abitanti di Segesta e Selinunte erano in guerra fra loro. Persuasi dai Selinuntini ad allearsi con loro, persero nella battaglia molti uomini fra i quali anche Pentatlo. Non è questa la prima volta che ritroviamo insieme genti di Cnido e di Rodi, perché, già in Sicilia, genti provenienti dai medesimi territori le ritroviamo compartecipi - con altre etnie ancora - della colonizzazione di Gela. La quale fu fondata non solo da cittadini di Rodi, ma anche da coloni provenienti da Telo, l’isoletta delle Sporadi meridionali vicinissima al capo Triopio di Caria, e quindi prossima alla stessa Cnido. Molto probabilmente gli eventi storici che provocano l’emigrazione dei coloni cnidi, guidati da Pentatlo, sono i medesimi che, all’inizio del VI secolo, spingono altri loro confratelli a emigrare in Adriatico, dove fondano la colonia di Corcira Melaina. Eventi, cioè, da riconnettere alla pressione esercitata sulle città greche d’Asia dal re di Lidia Aliatte. Ma se questo vale per Cnido, come causa di emigrazione, non vale ovviamente per Rodi, i cui coloni con tutta probabilità si saranno mossi al rimorchio di quelli partiti da Cnìdo. Ciò, peraltro, parrebbe confermato dal fatto che cnidio è il capo della spedizione coloniaria, cioè Pentatlo della famiglia di Ippote, a sua volta della stirpe di Eracle. Discendenza la cui nobiltà è qui puntualmente ribadita dal nome dell’antenato Ippote, che dice come la famiglia di Pentatlo, già da generazioni, appartenga alla nobile classe dei cavalieri: cioè - in greco - degli ippeis. Ogni città ellenica conosce un proprio sistema di datazione di carattere annuale. Ma un criterio comune a tutta la grecità, universalmente valido, è offerto dalla datazione basata sui giochi panellenici di Olimpia. Poiché questi si celebrano ogni quattro anni, la cinquantesima Olimpiade - che data la spedizione di Pentatlo - ci riporta al quadriennio compreso fra gli anni 580 e 576. In questo breve lasso di tempo Pentatlo muove dunque verso la costa occidentale della Sicilia, desideroso di insediarsi presso il promontorio Lilibeo. Infelice è però l’esito della sua spedizione, giacché è coinvolto in una delle endemiche guerre fra Selinuntini ed Elimi di Segesta. Alleatosi con i primi, combatte contro gli indigeni, rimanendo sconfitto e cadendo ucciso nella mischia. Poiché sono i Selinuntini che sollecitano l’azione di Pentatlo, è davvero probabile che egli sia venuto in Sicilia proprio perché da loro invitato a fondare una colonia presso il promontorio Lilibeo, cioè in un sito che essi vogliono porre sotto controllo greco. Altrimenti bisognerebbe pensare a un incontro casuale fra Pentatlo e i Selinuntini, avvenuto nella loro città in seguito a uno scalo tecnico qui operato, nel corso della navigazione, dal condottiero cnidio. Ovviamente ci sono anche le spedizioni coloniarie mancate, e questa di Pentatlo ne rappresenta un classico esempio. Esso, oltretutto, ha analogie sbalorditive con l’impresa dello spartano Dorieo, anch’egli soccombente dinanzi agli indigeni proprio nel medesimo territorio. Ma tali analogie sono da imputare più alla rispondenza speculare delle situazioni che a una confusione, o sovrapposizione, fra i due episodi nella memoria della storiografia antica. Molto diversa da quella dei compagni di Dorieo è, invece, la sorte dei superstiti dell’impresa di Pentatlo. Questi, infatti, sulla via del ritorno, fondano una colonia nelle isole Eolie, come ci informa ancora Diodoro (V, 9, 3-6): I superstiti allora, poiché i Selinuntini erano stati sconfitti, decisero di ritornarsene in patria; scelsero come capi i parenti di Penta-tlo, Gorgo, Testare, Epiterside, e si allontanarono attraveso il mare Tirreno. Giunti a Lipari, e accolti amichevolmente, furono persuasi dagli indigeni a fermarsi qui... In seguito, attaccati dagli Etruschi, che saccheggiavano le località costiere, allestirono una flotta e si divisero in due gruppi: gli uni coltivavano le isole, diventate proprietà comune; gli altri si opponevano ai pirati; avendo socializzato i beni e adottato il sistema delle mense comuni, trascorsero un certo tempo facendo vita di comunità. Successivamente si divisero l’isola di Lipari (sulla quale sorgeva la città) ma coltivarono le altre isole come proprietà comune. Infine si divisero tutte le isole per un periodo di venti anni, trascorso il quale procedevano a una nuova lottizzazione per sorteggio. Vinsero poi gli Etruschi in molte battaglie navali e dedicarono spesso a Delfi ricche decime del bottino. I compagni di Pentatlo, sollecitati dagli indigeni, si insediano così nelle isole Eolie, fissando in Lipari la base della loro colonia. La loro attività è d’ora in poi divisa tra la vita del mare e quella dei campi. Sono infatti, contemporaneamente, agricoltori e marinai. Gli uni coltivano le isole dell’arcipelago, gli altri, per reprimere le scorrerie dei pirati etruschi, si tramutano essi stessi in corsari, come apprendiamo da altri autori antichi. Il che è ovvio, considerando le difese naturali offerte dalle loro sedi e tenendo conto che alla guerra da corsa si può rispondere solo con analoga guerra da corsa. Per difendersi dalle loro razzie, i coloni cnidi di Lipari diventano così pirati non meno agguerriti degli Etruschi, arrivando, perfino, a inviare nel santuario di Delfi la decima delle loro prede di guerra. Decisamente unica è la loro scelta di vita. Riescono, infatti, ad attuare una sorta di regime comunistico che prevede la proprietà comune della terra, nonché la socializzazione dei beni e delle stesse risorse giornaliere di sussistenza. Dividono fra loro poi il territorio di Lipari, seguitando lo stesso a coltivare le altre isole come proprietà comunitaria. Infine dividono anche queste, ma solo per un periodo di vent’anni; trascorso il quale procedono a una loro nuova lottizzazione mediante sorteggio. L’esempio è sì unico, ma risponde a sentite istanze sociali che trovano la loro più fertile estrinsecazione proprio in ambiente coloniario. In fondo, come i Sami, approdati a Pozzuoli un cinquantennio più tardi, fondano la colonia di Dicearchia, «la città della giustizia», così gli Cnidi insediati nelle isole Eolie realizzano il proprio ideale di equità e uguaglianza instaurando un regime comunistico. Diodoro presenta come fortuito il fatto che – morto Pentatlo - i coloni di Cnido, sulla via del ritorno, si insedino a Lipari. Ma chi torna in patria fa solitamente la medesima via già percorsa nell’andata. Perché, allora, i coloni di Cnido, che approdando a Selinunte avevano navigato lungo la rotta del canale di Sicilia, tornano ora in patria passando per il mare Tirreno? La rotta è insolita e, come tale, Diodoro la segnala. Non è forse questo un indizio del fatto che i coloni di Cnido sapevano benissimo dove intendevano approdare? Solo una più attenta riflessione sulla cronologia della colonizzazione delle isole Eolie può offrire una convincente risposta a tale interrogativo. La spedizione di Pentatlo - come abbiamo detto - si data fra il 580 e il 576. Ma, nella cronologia tradizionale, la fondazione della colonia cnidia a Lipari si data addirittura un cinquantennio prima: nell’anno 627 ca. È questo l’anno medesimo della seconda spedizione coloniale che interessa Selinunte. La coincidenza è perlomeno sospetta. Non si potrebbe pensare che gli Cnidi, colonizzatori di Lipari, sino giunti in Occidente a rimorchio dei Megaresi della madrepatria che intervengono, con un proprio ecista, nella fondazione (definitiva) di Selinunte? In tal caso la data fornita da Diodoro andrebbe bene solo per l’impresa di Pentatlo (cinquantesima Olimpiade = 580-576); mentre l’altra, dovuta alla cronologia tradizionale, funzionerebbe per la sola colonizzazione delle isole Eolie (627 ca). Con ciò si chiarirebbe meglio l’intero quadro storico. Pentatlo è venuto in Sicilia occidentale perché già erano intercorsi rapporti di solidarietà fra coloni cnidi e coloni selinuntini. Contando proprio su questi rapporti, o esplicitamente invitato dai confratelli di Selinunte, egli tenta di fondare una colonia in un’area strettamente limitrofa, rimorchiando con sé, per rafforzare i suoi effettivi, anche coloni di Rodi. Sconfitto e ucciso Pentatlo, è ben verosimile che i superstiti della sua spedizione abbiano preso la via del Tirreno per ricongiungersi agli Cnidi che, già in età precedente, avevano colonizzato le isole Eolie. Inverosimile è il contrario: cioè quanto riferisce Diodoro sull’assoluta casualità dell’insediamento a Lipari dei compagni di Pentatlo. Poco credibile, inoltre, è che questi avessero scelto addirittura tre capi - Gorgo, Testore, Epiterside - per farsi ricondurre in patria. Più credibile, invece, è che tale triade di condottieri sia in qualche maniera da collegare a una ripartizione di terre avvenuta sulla base di una suddivisione dei coloni nelle tre tribù doriche. Diodoro è un compendiatore. E qui, secondo la sua abituale maniera di procedere, fonde tra loro - arbitrariamente unificandoli - due differenti e distinti episodi: quello relativo all’avventura di Pentatlo e quello relativo alla colonizzazione delle isole Eolie. Episodi che fra loro hanno in comune solo il fatto che i superstiti dell’impresa di Pentatlo si dirigono appunto verso questo gruppo di isole. È possibile addurre ulteriori elementi di conforto a favore di una tale risoluzione del problema? Orbene, sappiamo che Pentatlo muove verso il promontorio Lilibeo insieme a coloni provenienti anche da Rodi. Ciò induce a concludere che fra i superstiti della sua spedizione, giunti a Lipari, vi fossero anche elementi rodioti. Il grande storico Tucidide (III, 88, 22) ricorda però che i Liparesi sono «solo» coloni degli Cnidi. La sua testimonianza è esplicita allorché, narrandoci della guerra del Peloponneso, ci informa di come gli Ateniesi e i Reggini abbiano fatto un’incursione contro Lipari e tre delle isole Eolie: Didime («Gemella»), Strongile («Rotonda») e lera («Sacra»): Gli Ateniesi che erano in Sicilia e i Reggini fecero una spedizione con trenta navi contro le cosiddette isole di Eolo ... Le coltivavano i Liparesi, che sono coloni di Cnido. Abitano in una delle isole, che non è grande e che è chiamata Lipara: partendo da questa coltivano le altre, Didime, Strongile e lera. Come conciliare i discordi dati in nostro possesso? È semplicissimo. Per Tucidide le isole Eolie non sono colonizzate dai soli Cnidi, perché in effetti la loro colonizzazione non è avvenuta quando vi approdano i superstiti dell’impresa di Pentatlo, bensì cinquant’anni prima, allorché vi giungono gli Cnidi venuti in Occidente a rimorchio, o sulla scia, dei Megaresi che partecipano alla seconda fondazione di Selinunte. L’archeologia conserva traccia di importazioni ceramiche corinzie e greco-orientali risalenti ai primi anni di vita della colonia, ma è davvero difficile che un loro riesame possa dirci una parola definitiva in merito a così delicati problemi cronologici. XIV. I TREZENI. Esistono le colonie e le subcolonie; ma esistono anche le fondazioni che non sono né l’una cosa né l’altra, ovvero che sono contemporaneamente entrambe le cose. Tale il caso di Posidonia, fondata da ben individuabili colonizzatori, i Trezeni; i quali, però, non giungono qui direttamente dalla madrepatria, bensì da Sibari, alla cui fondazione essi stessi hanno partecipato. Posidonia. Si affaccia sulle acque tirreniche del golfo di Salerno la colonia greca di Posidonia, che gli Italici e i Romani ribattezzeranno Paestum. È una delle fondazioni di Magna Grecia oggi più parlanti all’immaginario collettivo per i ruderi monumentali dei suoi tre grandi templi dorici [vedi inserto]; ma anche quella sulla quale abbiamo più avare notizie storiografiche. Estremamente succinta sulla storia della città è, infatti, l’informazione che ci viene da Strabone (V, 251): Dopo la foce del fiume Silari, si giunge alla Lucania e al santuario di Hera argiva ... Vicino, a cinquanta stadi, sorge Poseidonia. I Sibariti avevano alzato fortificazioni sul mare, ma gli abitanti si trasferirono più verso l’interno; più tardi i Lucani presero la città e i Romani, a loro volta, la presero ai Lucani. Il fiume Silari è l’odierno Sele, dove i Posidoniati, presso la sua foce, costruiscono un famosissimo Heraion, cioè santuario di Era. Proprio a 50 stadi (cioè a 9 chilometri) di lontananza sorge la colonia di Posidonia. Questa, appunto è la città che fondano i nuovi coloni dopo un primo stanziamento «fortificato» sul mare nel luogo del loro approdo, cioè presso la foce del Sele. Meno convincente è l’ipotesi - suggerita dalla sostanziale coincidenza cronologica esistente tra la fondazione della città e l’edificazione dello Heraion - che il primo insediamento dei coloni sia da ricercare più a meridione, presso Agropoli, dove forse sarebbe esistito un santuario di Posidone. Strabone dice che sono Sibariti i Greci fondatori di Posidonia. Ma quali Sibariti? La risposta la offre Solino, un tardo autore antico, bene informato e pienamente attendibile, il quale narra che Posidonia fu fondata da Dori. Chi dei due autori ha ragione? Strabone o Solino? A ben vedere le loro testimonianze non sono inconciliabili, poiché sappiamo che alla fondazione di Sibari parteciparono anche Trezeni, cioè Dori, che poi vennero cacciati dai Sibariti-Achei. Orbene, proprio questa frangia di Sibariti-Trezeni esiliata da Sibari potrebbe avere costituito il nucleo dei fondatori della colonia. Ne sarebbe una riprova il nome stesso di Posidonia, da Posidone; una dio che in Trezene era oggetto di un culto del tutto particolare. La notizia poi dell’esistenza di una città di Trezene situata proprio in questo angolo di Italia costituirebbe un altro elemento a favore di questa tesi. Ma, anche se Posidonia è fondata da Trezeni esiliati da Sibari, non dobbiamo pensare che fra le due città sia esistita, necessariamente, una forma di latente ostilità. Anzi, tutta una serie di elementi induce a congetturare proprio il contrario. Molto probabilmente i Trezeni, di cui Sibari si vuole disfare, sono sì inviati a colonizzare Posidonia, ma Per sua stessa iniziativa; così come i Parteni, da Sparta, sono esiliati in Italia senza che con ciò rompano i vincoli politici che li legano alla metropoli. Né possiamo escludere che Posidonia abbia ospitato, insieme ai coloni Sibariti-Trezeni, anche coloni Sibariti-Achei. Agli uni va certo riferito un sistema ponderale diverso da quello degli Achei dello Ionio. Agli altri, forse, le labili tracce di alfabeto acheo riscontrabili nelle iscrizioni. Tutto ciò aiuta a meglio focalizzare la storia delle due città, costellata da segnali di associazione anziché di opposizione. Sibari - come abbiamo detto - in opposizione agli Eubei commercia con l’Etruria per le vie istmiche che attraverso la Sila, l’uniscono al Tirreno. Orbene, la fondazione stessa di Posidonia, considerando la sua posizione geografica, costituisce una sfida davvero clamorosa al monopolio esercitato dalle colonie euboiche nei traffici commerciali con il mondo etrusco. Sibari e Posidonia sono quindi allineate sulle medesime posizioni politiche! Ciò spiega il perché della coniazione posidoniate di monete - databili al VI secolo - che recano in alcune serie il presunto nome dell’ecista di Sibari (Is) insieme ai più tradizionali contrassegni locali costituiti dalla legenda con il nome etnico abbreviato dei suoi coloni e dall’immagine emblematica di Posidone con il tridente. Ciò spiega pure la presenza di Posidonia, come città garante, in un trattato internazionale contratto insieme da Sibariti e ancora sconosciuti Serdaioi. Ottime relazioni - queste fra Sibariti-Trezeni e Sibariti-Achei - che, con tutta probabilità, si rinsaldano ulteriormente in seguito alla distruzione di Sibari, allorché non pochi profughi «achei» si rifugiano nella «trezenia» Posidonia, ricevendovi ampia ospitalità. Nulla sappiamo di preciso sulla data di fondazione della colonia, ma non sarà azzardato riportarla agli anni attorno al 600 ca, considerando che il terreno ha finora restituito materiali non anteriori alla fine del VII secolo. In ogni caso un dato è sicuro: la fondazione di Posidonia ha come terminus ante quem non quella di Sibari, che è da riportare alla fine dell’VIII secolo (probabilmente al 709 ca). La colonia sorge su una terrazza tufacea, munita di sorgente e posta all’estremità meridionale della pianura costiera del fiume Sele. Ancora oggi si possono ammirare le rovine della sua cinta muraria, da riportare al VI secolo, nonché le vestigia dei tre grandi templi dorici che, in elevato si ergono in tutta la loro maestosità (la cosiddetta Basilica della metà del VI secolo, nonché i cosiddetti templi di Cerere e di Nettuno della fine del VI secolo e della metà del V). Fra tante rovine monumentali, un interesse particolare riveste poi un semi-ipogeo costruito in pietra, con il solo tetto emergente dal livello del terreno, collocato all’interno di un piccolo recinto sacro e databile fra il 530 e il 510 ca. Di che monumento si tratta? Sembra proprio un edificio tombale; ma l’assenza delle ossa del defunto lo classifica come vuoto cenotafio, ossia come sepolcro privo di inquilino. Ma cenotafio di chi? Molto probabilmente del fondatore stesso di Sibari. Cioè cenotafio eretto dai profughi di questa città, qui riparati dopo la sua distruzione. La datazione del monumento - seppure di stretta misura - non contraddice questa ipotesi, che è e rimane suggestiva. L’archeologia, inoltre, ci mostra che, almeno a partire dalla metà del VI secolo, Posidonia sa instaurare rapporti di cordiale convivenza con le genti indigene come testimoniano i materiali di esportazione ritrovati in località limitrofe, soprattutto a Palinuro e a Molpa. Peraltro, a rapporti di buona convivenza con l’elemento lucano riportano anche le famosissime tombe a lastroni, decorate nelle facce interne con pitture di stile ellenico. Tombe - come quella del Tuffatore - destinate a onorare la memoria di indigeni, anziché di coloni greci. A breve distanza dalla città, presso la foce del Sele, si erge lo Heraion, anch’esso riscoperto dalla tenacia della ricerca archeologica. Si tratta di un santuario, costituito da più edifici sacri (templi e thesauroi), già attivo intorno alla fine del VII secolo, come suggeriscono i ritrovamenti di ceramica corinzia. Il tempio principale, in ordine dorico, dedicato a Era, è però costruito poco prima del 500 ca. Da esso provengono molte delle metope arcaiche che ci stupiscono sia per qualità di fattura sia per quantità di documentazione. Alla foce del Sele approdano, dal mare, i primi coloni di Posidonia e seguitano a mantenervi il più Venerato santuario. In un sito che, ancora in età classica, si segnala come importantissima stazione di commerci posta all’incrocio fra le rotte che qui convergono dal Tirreno e le due vie carovaniere che di qui si dipartono lungo la valle del Sele: in direzione l’una di Metaponto (lungo la via del Basento) e l’altra di Sibari (guadagnando il passo del vallo di Diano lungo la via del Tanagro). Il corso del Sele segna anche il confine del territorio posidoniate, il quale occupa, con il rispettivo entroterra, solo la metà meridionale della pianura formata dal fiume. La metà settentrionale, a partire dall’ultimo quarto del VI secolo, cade sotto il controllo degli Etruschi della Campania. Il corso del Sele diviene allora l’unico «diretto» confine esistente fra grecità ed etruscità. XV. I FOCEI. I Focei fondano Marsiglia, la più importante colonia greca dell’estremo Occidente. Ciò nonostante essi sono da ricordare, prima ancora che come colonizzatori, quali espertissimi esploratori di ogni rotta dell’Occidente, e in particolare della rotta che conduce ai mercati della costa atlantica, oltre Gibilterra, oltre le mitiche colonne di Èrcole. Della loro navigazione sappiamo molte cose da un lungo racconto di Erodoto (1, 163-167) che ci narra prima del loro approdo nella leggendaria terra di Tartesso e poi del loro esodo forzato dalla Ionia d’Asia in seguito all’assalto contro Focea, la loro città, compiuto da soverchianti forze persiane: I Focei, primi tra i Greci, praticarono lunghe navigazioni: sono essi ad avere esplorato l’Adriatico, la Tirrenia, l’Iberia e il Tartesso. Non navigarono con navi rotonde, ma con penteconteri. Giunti nel paese dei Tartessi divennero amici del loro re, Argantonio, che regnò ottanta anni e ne visse centoventi. I Focei divennero tanto amici di quest’uomo che dapprima egli li invitò a lasciare la Ionia e ad abitare, dove volessero, nel suo paese. Quindi, poiché non persuase i Focei, sapendo quanto aumentava presso di loro la minaccia dei Persiani, diede a essi ricchezze, per fortificare la loro città. Le diede, inoltre, senza risparmio; infatti il circuito delle mura è di non pochi stadi, ed è tutto di pietre, grandi e ben congiunte. Le mura furono costruite dai Focei in questo modo ... Arpago fece muovere l’esercito, assediandoli... I Focei, ai quali doleva la servitù, dissero che volevano prendere consiglio per una sola giornata .... Mentre Arpago allontanava l’esercito dalle mura, allora essi calarono in acqua le penteconteri imbarcandovi i figli, le mogli e le Masserizie, e inoltre le statue dei templi e gli altri doni votivi, escluso ciò che era di bronzo, di pietra o dipinto. Caricata ogni cosa e imbarcatisi essi stessi, salparono ... I Persiani occuparono Focea deserta di uomini. I Focei... si diressero verso la Corsica. Già venti anni prima per responso di un oracolo, avevano fondato in Corsica (cioè a Cimo) una città di nome Alalia. A quel tempo Argantonio era già morto Quando giunsero in Corsica, per cinque anni abitarono insieme a quelli che erano arrivati in precedenza e fondarono santuari. Poiché razziavano e saccheggiavano tutti i vicini, Etruschi e Cartaginesi di comune accordo mossero dunque contro di loro, ciascuno con sessanta navi. I Focei, avendo anch’essi armato sessanta navi mossero loro incontro nel mare chiamato Sardo. Scontratisi in battaglia navale, toccò ai Focei una vittoria cadmea; infatti furono distrutte quaranta delle loro navi, mentre le venti che restavano non potevano essere utilizzate per la perdita degli speroni. Approdati ad Alalia, presero i figli, le mogli e ogni altro bene che le navi potessero trasportare; quindi, lasciando la Corsica, navigavano verso Reggio .... Quelli fuggiti a Reggio, muovendo di là, si procurarono una città nella terra degli Enotri: oggi si chiama Velia. La fondarono per aver saputo da un uomo di Poseidonia come il Cimo, che la Pizia aveva vaticinato loro di fondare, fosse il santuario dell’eroe, non l’isola [cioè la Corsica]. I Focei sono i primi fra i Greci che si dedicano ad ampie navigazioni. La notizia è esatta, se la intendiamo nel senso che essi sono i primi ad attrezzare, con tutta una serie di appositi scali intermedi, stabili rotte che conducono nell’estremo Occidente. Inesatta, se la accogliamo in senso assoluto, poiché essi furono senz’altro preceduti, nelle loro esplorazioni, da navigatori venuti dall’Eubea, da Rodi e da Samo. Un dato che ben conosce Erodoto, il quale ci informa che la stessa terra di Tartesso, meta abituale di commerci focei, è scoperta, seppure casualmente, da un marinaio di Samo, Coleo, che vi approda intorno al 630 ca. Come grandi esploratori dell’Occidente, i Focei giungono in Adriatico, in Tirrenia, in Iberia e nella terra di Tartesso. L’Adriatico è sicuramente l’alto Adriatico, dove sfociano il Po, l’Adige e il Timavo. La Tirrenia - in senso lato - dall’Italia alla Francia, l’area del mare Tirreno dove sfociano il Tevere, l’Arno e il Rodano. L’Iberia è la lunga costa della Spagna mediterranea dove sfocia l’Ebro. La terra di Tartesso, infine, è la regione intorno alla foce del Guadalquivir nell’area (tra Huelva, Siviglia e Cadice) anticamente abitata dai Turdetani. Qui, sulla costa atlantica, in un sito non ancora identificato sul terreno, sorgeva la mitica, ricchissima città commerciale di Tartesso, che è la Tarshish dei Fenici nota anche alla Bibbia. In sostanza i Focei sono interessati ai poli terminali di importantissime vie carovaniere di provenienza nordica, che arrivano nel Mediterraneo, adriatico e tirrenico, ligure e iberico, ridiscendendo le vallate dei grandi fiumi europei. I Focei non usano, per le loro esplorazioni, un naviglio mercantile, ma una flotta da guerra. Questa la loro rivoluzione. Le penteconteri, come sappiamo, sono infatti navi da combattimento, munite di grande sperone di ferro e lunghe circa 32 metri. Imbarcano ottanta uomini di equipaggio, dei quali cinquanta rematori disposti, per gruppi di venticinque, su ciascuna fiancata. In età arcaica sono, per eccellenza, navi corsare o da guerra. La figura del buon re Argantonio, longevo e generosissimo, appartiene alle belle favole sviluppatesi nel VI secolo intorno al miraggio della regione di Tartesso, vera e propria terra di Eldorado. Ovviamente, a monte della leggendaria generosità di Argantonio, c’è la realtà concreta dei favolosi guadagni introitati dai Focei a seguito dei loro commerci con le mercanzie importate dall’emporio atlantico, dove affluivano, soprattutto, metalli preziosi come l’argento e lo stagno. Guadagni che senz’altro consentono loro di fortificare la propria città con una nuova cinta muraria, in vista della crescente minaccia persiana. Fatica inutile, perché Focea cade fra il 545 e il 540 ca, non potendo resistere all’armata di Arpago, generale del gran Re. Ma i suoi abitanti (o almeno parte cospicua di essi) non conoscono l’onta della servitù: con uno stratagemma, infatti, riescono a evacuare per mare dalla loro città, che consegnano deserta alla rabbia degli assalitori. L’evacuazione di massa non si fa però in un solo giorno, e tantomeno al cospetto del nemico. Ma non è questo il dato degno di attenzione, bensì il fatto che la conseguente migrazione dei Focei in Occidente, anziché come spedizione coloniaria, si configura come vero e proprio esodo con tanto di corredo di mogli e figli. I profughi fanno rotta su Alalia in Corsica, oggi Aleria alla foce del Tavignano. Qui altri loro connazionali avevano fondato una colonia venti anni prima: quindi fra il 565 e il 560 ca. In un’età che è intermedia fra la fondazione di Marsiglia (della quale, curiosamente, Erodoto tace) e la distruzione di Focea. Giunti ad Alalia, coabitano con i confratelli già stanziati in sito e con loro operano attivamente per fare della giovanissima colonia una fiorente città marinara. Non riescono però a trasformarsi in pacifici coloni perché la vocazione del mare è, per essi, davvero irresistibile. Forti del possesso di navi da guerra, non esitano così a farsi corsari compiendo atti di pirateria contro i popoli vicini. Contro quanti, finora, con assoluta sicurezza avevano navigato nelle acque comprese fra la Sardegna e le coste del Lazio, cioè i Cartaginesi e gli Etruschi di Cere. Questi, coalizzati insieme e forti di una flotta doppia di quella focea, si scontrano con i Greci, che riportano una «vittoria cadmea», cioè una vittoria pagata a carissimo prezzo, che costa loro la distruzione di ben quaranta navi su sessanta e l’avaria di altre venti, con perdita, fra morti e prigionieri, di circa duemilaquattrocento uomini. E’ questa la battaglia di Alalia, che si data nell’anno 540 ca e un tempo additata come una disfatta di portata storica per la grecità di Occidente. Oggi viene invece assai ridimensionata e considerata un evento locale, di rilievo storico circoscritto alla Corsica. Il fallimento, prima ancora che dei Focei, fu dei sacerdoti di Delfi che, spingendoli in Corsica, avevano mirato ad ampliare la presenza greca anche in questo delicato settore del Mediterraneo. Tornati ad Alalia, e imbarcati nuovamente averi e familiari, i profughi di Focea riprendono ancora una volta la dura via del mare. Tutto lascia pensare che i connazionali della prima ondata, già stanziati in Alalia, non li abbiano seguiti. Come non li hanno appoggiati nello sbaragliare il nemico etrusco-cartaginese, così ora non li trattengono presso di sé in Corsica. Ma - nel nuovo, mutato quadro politico, - tale disimpegno non li salverà, poiché adesso l’antagonista etrusco-cartaginese non si potrà più accontentare della loro neutralità, tollerandone l’insediamento in un’isola come la Corsica, di importanza davvero strategica per i commerci in area occidentale. Molto probabilmente, come i confratelli di Marsiglia rimasti alla finestra, pure questi Focei, primi colonizzatori di Alalia, non condividono la politica aggressiva attuata dagli ultimi profughi d’Asia ai danni dei Cartaginesi e degli Etruschi di Cere. Un fatto comunque è certo: questi ultimi hanno sì tollerato una precedente colonizzazione dei Focei, ma ora non tollerano più una loro migrazione di massa. La prima tappa dei profughi di Focea, reduci da Alalia, è Reggio. La seconda, e definitiva, è Velia in terra enotria, cioè in area bruzio-lucana. Non stupisce né che i Focei si siano diretti a Reggio, né che di qui si siano mossi su Velia per pressione di un messo di Posidonia. L’incursione a Reggio è determinata dagli ottimi legami sempre esistiti fra i navigatori focei e i coloni euboici di Reggio e Zancle. Senza il loro aiuto, infatti, mai i Focei, rivali dei Milesi, avrebbero potuto sviluppare la loro potenza nelle acque del Tirreno. L’intermediazione di Posidonia è resa tanto più necessaria dal fatto che Velia - sede della nuova colonia - gravita proprio nelle sue retrovie meridionali. Il dio - anche quando fallisce - ha sempre ragione, e il Posidoniate spiega come i Focei, sbarcando ad Alalia, abbiano frainteso il suo volere. Finora essi hanno interpretato l’ordine di «fondare Cimo» nel senso, ovvio, di «colonizzare la Corsica». Ma i Focei - chiarisce il Posidoniate - dovevano limitarsi a istituire un culto a Cimo, figlio di Eracle; eroe sì eponimo della Corsica, ma che poteva essere venerato anche altrove. Quindi i profughi focei sono, ed erano, liberi di scegliersi il sito della nuova sede dove più piacesse loro. La spiegazione dell’oracolo offerta dal Posidoniate funziona come una seconda ingiunzione del dio poiché dà ai Focei, inutilmente reduci dalla Corsica, il benestare per colonizzare un nuovo sito. Peraltro il Posidoniate ben supplisce l’oracolo, poiché la funzione di quest’ultimo consiste appunto, nell’orientare la colonizzazione, offrendo indicazioni su località di migrazione delle quali sia stata accertata, in precedenza, la disponibilità ricettiva da parte delle genti residenti o confinanti, greche o non greche. Marsiglia. Sulla via dell’Iberia e dell’estremo Occidente, in area limitrofa alla foce del Rodano, i Focei fondano Marsiglia, l’antica Massalia. Una città presto destinata a svolgere un autonomo ruolo guida nella colonizzazione di tutta la regione del Mediterraneo occidentale, nonché - per la sua collocazione geografica - nell’acculturazione della Gallia meridionale. La colonia è fondata nell’estremo scorcio del VII secolo, intorno all’anno 600 ca. Lo testimoniano più elementi, desumibili tanto dall’informazione storiografica quanto dalla documentazione archeologica. Ma, a lato di questa cronologia più tradizionale, ne esiste un’altra, da respingere, che lega la fondazione di Marsiglia alla battaglia di Alalia, o comunque alla migrazione dall’Asia dell’ultima ondata di Focei. Così ci informa lo storico Antioco per testimonianza di Strabone (VI, 252): Dice Antioco che, presa Focea da Arpago, condottiero di Ciro, quelli che poterono, imbarcatisi su navi con tutta la famiglia, navigarono prima verso la Corsica, poi a Massalia sotto la guida di Creontiade, ma che, respinti, andarono a fondare Velia. I profughi di Focea hanno qui una duplice meta: la Corsica e Marsiglia. Il «respinti» va chiaramente legato solo ai focei che si dirigono in Corsica, e che vengono dissuasi dallo stanziarsi nell’isola - ovvero dal proseguire nel loro stanziamento - dall’esito della battaglia presso Alalia. Dal racconto di Antioco parrebbe evincersi, seppure confusamente, che gli ultimi profughi focei salpano diretti tanto in Corsica quanto nella Massaliotide. Quelli fra di loro che non riescono a insediarsi in Corsica puntano quindi a Velia. Il racconto è conseguente, credibile, confermato da altri autori, e nulla ci autorizza a correggere la nostra testimonianza, inserendo nel testo Alalia in luogo di Massalia. Peraltro anche Tucidide (1,13, 6) concorda con Antioco nel dato di fondo, cioè nel porre in correlazione la fondazione di Marsiglia e la battaglia di Alalia. Egli ci parla infatti di una vittoria per mare riportata, contro i Cartaginesi, dai Focei che muovono a colonizzare Marsiglia: I Focei, diretti a fondare Marsiglia, vinsero i Cartaginesi combattendo per mare. Ovviamente la presunta vittoria è la disfatta di Alalia. Medesimo è il dato cronologico che emerge tanto da Antioco quanto da Tucidide. Ma, se pure è da rifiutare la cronologia che i due autori propongono, Antioco offre ugualmente un dato molto importante relativo al nome del fondatore foceo di Marsiglia, che si sarebbe chiamato Creontiade. Ma qual è il significato di questa versione, che indebitamente lega tra loro la fondazione di Marsiglia e la battaglia di Alalia? Con buon margine di probabilità essa è nata proprio per giustificare il totale disimpegno di Marsiglia in occasione della battaglia di Alalia. Se infatti Marsiglia non era stata ancora fondata, o comunque non era ancora ascrivibile al rango di potenza, allora ben si poteva capire perché non fosse intervenuta al fianco dei confratelli focei nella lotta contro il barbaro di Occidente. La verità è però un’altra. Marsiglia non interviene contro i Cartaginesi e gli etruschi di Cere per la stessa ragione per la quale non intervengono i primi colonizzatori focei di Alalia. Cioè per non alterare il delicato rapporto di forze esistente fra Greci e non Greci nelle acque del Tirreno, fra Lazio e Sardegna Conclusione tanto più convincente se poi consideriamo che i Massalioti rimangono in rapporti commerciali con quest’isola anche quando essa gravita definitivamente in orbita cartaginese. Conclusione, inoltre, resa ancora più persuasiva dalla constatazione dell’esistenza di rapporti di amicizia fra Marsiglia e la «città tirrenica» di Roma, limitrofa e confinante con l’etrusca Cere. Lo storico Trogo - documentatissimo su ogni traccia di grecità relativa alla sua patria gallica - ci informa infatti che i Focei, colonizzatori di Marsiglia, nel corso della loro lunghissima navigazione sbarcano nel Lazio, dove stipulano un patto di amicizia con i Romani. Solo una politica di buoni rapporti con i popoli dell’area tirrenica può assicurare a Marsiglia di crescere, prosperare, espandersi, e la città ne è pienamente consapevole. Fiorisce così in fretta la sua fortuna, che, per proprietà transitiva, è parallela alla stessa opera di acculturazione svolta sulle genti della Gallia meridionale. Se in quest’area e in tutta la Provenza oggi fiorisce la cultura della vite e dell’olivo lo si deve proprio alla perizia contadina dei coloni focei di Marsiglia. Lo sa bene lo storico Trogo (XLIII, 41,2) che ci regala questa preziosa testimonianza sull’eredità ellenica filtrata nella cultura gallica: I Galli appresero dai Greci più evolute consuetudini di vita, che li portarono ad abbandonare i propri costumi primitivi. Cominciarono a coltivare i campi e a fortificare le città; impararono, inoltre, a vivere secondo le leggi, anziché secondo la forza delle armi, e a coltivare la vite e l’olivo. Il progredire del loro grado di civiltà e l’aumentare della loro ricchezza fu talmente vistoso che la Gallia sembra fosse diventata parte della Grecia piuttosto che una colonia di questa. La testimonianza è tanto eloquente che non necessita di chiose moleste. Pratiche agricole, tecniche di costruzione, costumanze giuridiche: tanto devono i Galli all’azione di ellenizzazione e acculturazione svolta da Marsiglia. Chi scrive è un autore romano, e come tale adopera il termine colonia in un’accezione molto più vicina alla nostra sensibilità che non alla coscienza giuridica ellenica. Chiarissimo, comunque, il suo messaggio. Determinante, per il processo di rapida acculturazione dei Galli, è così l’incontro con l’elemento ellenico: al punto che la loro patria, col tempo, sembra essere una regione della Grecia anziché una sua lontana «colonia» periferica. L’indagine archeologica rivela, peraltro, quanto profondo sia stato il processo di ellenizzazione della Gallia meridionale già a partire dal VI secolo. Ampia, infatti, nei corredi indigeni è la varietà degli oggetti di chiara origine, o imitazione, grecoorientale, insieme ovviamente ai consueti, tradizionali manufatti in bucchero grigio, diffusissimo nella Ionia d’Asia, e in Occidente ritenuto contrassegno privilegiato di importazione diretta di merci focee. Il periodo d’oro della prosperità di Marsiglia ha inizio con la seconda metà del VI secolo. A questa età ci riporta la prima, abbondante diffusione della sua monetazione, la quale diventerà presto conosciuta e rispettata in tutta l’area celtica posta al di qua e al di là delle Alpi. Al punto che la stessa Padova venefica, molti secoli dopo, per i suoi commerci si avvarrà ancora di circolante di imitazione massaliota. A questa medesima età ci riporta, inoltre, la costruzione di un ricco e raffinato thesauros in marmo, eretto dalla città nel santuario di Delfi quale evidente testimonianza della sua potenza e della sua ricchezza. Il the-sauros è dedicato da una delle più occidentali fra tutte le colonie elleniche, ma i suoi capitelli sono ancora, significativamente, scolpiti a forma di palma secondo la foggia ionica cara alle città greco-orientali. Pochi decenni dopo la sua fondazione, Marsiglia a sua volta fonda un’importante subcolonia sulla costa dell’Ibe-«a settentrionale: Emporion, oggi Ampurias. Il suo nome, cne significa appunto emporio o mercato, è quanto mai aPpropriato: il nuovo insediamento, da un lato, è centro propulsore dei traffici commerciali in transito sulla rotta che conduce a Gibilterra, e quindi alla costa atlantica d’altro lato è collettore delle mercanzie e dei metalli che qui affluiscono dalla ricca regione dei Pirenei. Successivamente Marsiglia, sulla Costa Azzurra, fonda ancora le subcolonie di Nicea e di Antipoli, oggi Nizza e Antibes che contribuiscono davvero - come scrive Trogo - a trasformare questo angolo della Gallia in un lembo di vera e propria grecità. Marsiglia così, caduta la madrepatria Focea, ne diventa l’erede politica, spirituale e commerciale nell’intero ambito del mondo occidentale, allungando, non disinteressatamente, le sue ali protettive anche su Alalia in Corsica e su Velia in Campania. La prosperità di Marsiglia, tuttavia, non si basa solo su un’economia derivata dai traffici marittimi, poiché a essa fanno capo anche vie carovaniere terrestri di vitale importanza commerciale, come quella - alternativa alla rotta di mare - che, risalendo la valle del Rodano e inoltrandosi nel settentrione della Gallia, raggiungeva le coste della Manica, dove affluiva lo stagno delle isole della Britannia. O, ancora, quella che congiungeva l’Iberia all’Italia padana, passando per Marsiglia e quindi inoltrandosi dalla valle del Rodano in quella del Po, attraverso i difficili sentieri scavati dai loro affluenti, la Durance e la Dora Riparia. Era questa una pista carovaniera ben nota agli antichi, che la ribattezzano via «di Eracle», come narra un ignoto scrittore greco (Pseudo-Aristotele, De Mirabilibus auscultationibus, 85), autore di cose meravigliose: Narrano che dall’Italia fino alla Celtica, al paese dei Celtoliguri e al paese degli Iberi, vi sia una strada cosiddetta «di Eracle», lungo la quale gli indigeni vigilano affinchè non venga recata offesa alcuna ai viaggiatori, siano essi greci o nativi. La Celtica è l’Italia padana, la Celtoligure la Massaliotide, l’Iberia la Spagna. È questa una via carovaniera che nasce in Adriatico, costeggia il Po fino all’altezza di Torino, si inoltra lungo la Dora Riparia per la valle di Susa, valica il Monginevro, ridiscende per la Durance, si allinea al corso del Rodano, raggiunge Marsiglia, e quindi prosegue in direzione di Ampurias e dell’Iberia. ‘ Abbiamo detto che i Focei hanno esplorato anche l’alto Adriatico. Il primo troncone di questa via non può essere messo che in relazione al raggio, sempre più esteso, dei loro commerci. Infatti è questa una pista carovaniera che va da mare a mare, dall’Adriatico al Tirreno, congiungendo fra loro, per terra, le basi focee dell’alto Adriatico alla grande colonia di Marsiglia. È in definitiva una via franca, dove - come sottolinea il nostro autore - gli indigeni, e massime i popoli alpini, vigilano affinchè, alle asperità del percorso, non si sommino pure i rischi, sempre in agguato, del brigantaggio stradale. Velia Dopo Marsiglia, le altre due colonie fondate dai Focei in area tirrenica sono Alalia e Velia. Sulla prima nulla c’è da aggiungere al già detto. Sulla seconda, Velia, è bene soffermare ancora l’attenzione. La sua data si pone fra il 540 e il 535 ca, cioè venticinque anni dopo la fondazione di Alalia in Corsica, quando Focea è già caduta in mano dei Persiani e quando gli ultimi suoi esuli già hanno conseguito la sfortunata «vittoria cadmea» su Cartaginesi ed Etruschi di Cere. Della sua fondazione ci informa nuovamente Strabone (VI, 252) descrivendo la costa campana a sud del golfo di Salerno: Doppiando il promontorio si presenta, contiguo, un altro golfo in cui c’è una città chiamata «Hyele» dai Focei che l’avevano fondata, ma che altri chiamarono «Eie» dal nome di una fontana. Oggi si chiama Elea; da essa nacquero Parmenide e Zenone, filosofi pitagorici. Sia per opera di costoro, sia anche prima, mi pare che la città fosse governata con buone leggi, per la qual cosa gli abitanti resistettero ai Lucani e ai Poseidoniati e li vinsero, pure essendo inferiori per territorio e per numero. Per la sterilità della terra, però, sono costretti ad applicarsi alle attività marinare, a salare i pesci e ad altre opere siffatte. L’antica Velia [vedi inserto] è presso l’odierno villaggio di Castellammare della Bruca, in un sito dove attualmente la linea di costa si trova molto più avanzata verso il mare di quanto non fosse in età antica. È punta Licosa il promontorio che la separa dal golfo di Salerno, nascondendola all’orizzonte dell’antica Posidonia. Il suo nome più antico è quello di Hyele, che doveva designare una stazione indigena dove sgorgava un’omonima fontana. Da Hyele, Vele, deriva il nome greco di Elea, già attestato a partire da Platone, e - con recupero del digamma (v) - il nome romano di Velia. Le monete più antiche attestano sia la forma Hyele sia la forma Vele. Una moneta, in particolare, reca sopra le lettere YE (iniziali di Yele) la lettera P (iniziale greca di Reggio), offrendo così una conferma preziosa alla testimonianza erodotea che ci informa, appunto, dell’amicizia esistente fra i Reggini e i futuri colonizzatori di Velia. Vanto precipuo di Velia è la sua vitalità intellettuale, poiché la città da i natali a Parmenide e Zenone, genericamente classificabili anche come filosofi di matrice pitagorica, ma di fatto esponenti sommi di una scuola di pensiero autonoma, che da Velia prende nome di scuola eleatica. Le faceva corona una scuola medica, o iatrica, parimenti famosa. Entrambe, certo, avranno influito in forma decisiva sull’elaborazione di un codice di leggi che assicura alla città ottime forme di governo, la cui memoria - come testimonia Strabone - sopravvive nei secoli. Ma Velia non solo è patria di filosofi famosi, ma riesce ad attrarre a sé altri intellettuali ancora a partire dal momento della sua fondazione. Qui, infatti, con i primi coloni approda anche il poeta e filosofo Senofane di Colofone. Lo testimonia Platone, mentre un altro autore ci rivela come egli, addirittura, avrebbe scritto un poema sulle origini della colonia. Ma perché ritroviamo Senofane fra i colonizzatori di Velia? La critica, sulla base di questo dato e della comune ricorrenza dell’idronimo Alete tanto a Colofone quanto a Velia, ha ipotizzato una compartecipazione di altre genti della Ionia alla fondazione della colonia. Ma è questa ipotesi scarsamente convincente, soprattutto se consideriamo che i colonizzatori di Velia non provengono dalla Ionia in seguito a una regolare spedizione transmarina, bensì dalla Corsica dopo una migrazione forzata. Cosa pensare allora? La cosa più semplice: che, cioè, Senofane sia emigrato a Velia non da Colofone in Asia, bensì dalla sua colonia di Siri in Italia. Ed è questa conclusione tanto più persuasiva se riflettiamo sul fatto che la fondazione di Velia è, grosso modo, contemporanea alla distruzione di Siri. Nulla di strano che proprio una parte dei dispersi coloni ionici di Siri sia riparata a Velia, ricevendo ospitalità da parte dei confratelli ionici di Focea, bisognosi di ingrossare i propri effettivi. Né urta contro tale, più lineare ricostruzione degli eventi il fatto che fra Colofone e Velia vi sia comunanza di un idronimo; poiché tale comunanza non è da respingere, bensì da riferire anch’essa a Siri, che avrà in precedenza ribattezzato un suo corso d’acqua col nome di un consimile fiumicello fluente nella madrepatria. Velia non è dunque fondata con compartecipazione di coloni qui giunti dalla Ionia né qui venuti da Marsiglia. Il fatto che alcuni autori antichi designino l’area di Velia come «Massaliotide di Italia» non è, infatti, indizio sufficiente in questo senso; poiché Marsiglia - come abbiamo detto - è erede di Focea e, come tale, in grado di rivendicare anche una sorta di spirituale paternità sulla colonia campana. Nulla sappiamo purtroppo di lotte combattute da Velia contro Lucani e Posidoniati. Un conflitto con i primi sarebbe stato nell’ordine naturale delle cose. Un conflitto con i secondi, cioè con i Greci di Posidonia, potrebbe essere sorto, molto probabilmente, per dispute di confine. Ma non certo nei primi decenni di fondazione della colonia; poiché - come racconta Erodoto - sono proprio i Posidoniati a spingere i coloni focei a insediarsi ai margini meridionali del loro territorio. Gli ultimi venuti devono sempre accontentarsi degli ultimi posti, e così avviene anche per i coloni focei. Il loro territorio non solo non è fra i più ricchi, ma è decisamente inadatto a grandi colture. Pertanto essi - unici fra quanti coloni conosciamo - devono trarre i propri mezzi di sussistenza dal mare e non dalla terra, dalla pesca e dalla conservazione dei prodotti ittici anziché dall’agricoltura. La città è compresa fra due corsi d’acqua, le cui foci sono in grado di offrire ricetto alle navi antiche. L’archeologia ci ha restituito le banchine dei suoi porti, ai piedi di un’ampia acropoli fortificata, nonché imponenti vestigia di tutto l’abitato greco. XVI. I TEREI. I Focei raggiungono l’Atlantico e la favolosa terra di Tartesso lungo la rotta settentrionale, che costeggia l’Italia tirrenica, la Gallia e l’Iberia. Ma esiste pure una rotta meridionale - solcata dai Focei, e prima ancora dagli Eubei e dai Sami - che conduce al medesimo approdo con navigazione di cabotaggio della costa africana. Su questa rotta si trova la città di Cirene, fondata da coloni dorici provenienti dall’isola di Tera nelle Cicladi. Cirene. L’impresa che porta alla fondazione di Cirene - intorno all’anno 630 ca - richiede ben tre consultazioni oracolari, avviene in tre tappe e sperimenta un successivo rincalzo coloniario. Di tutti questi eventi siamo ampiamente informati da Erodoto (IV, 149-161) il quale racconta l’insolita vicenda in un luogo già richiamato - in altra prospettiva all’attenzione del lettore e al quale facciamo qui riferimento. (cfr. parte prima. capitolo II: caratteristiche dell’impresa coloniaria). La prima sentenza oracolare esorta i Terei a fondare una colonia in Libia, cioè in Africa. Si tratta di una regione così remota che essi non sanno in quale parte della terra cercarla: per loro è come indirizzare una spedizione coloniaria verso l’ignoto. La seconda sentenza oracolare li ammonisce a rispettare il volere del dio. Per questo i Terei - colpiti da una grave carestia - cercano a Creta, la più meridionale delle isole egee, chi possa indicare loro la via della Libia. Dal racconto si evince che i Terei sono essenzialmente agricoltori spinti a ricercare nuove terre al di là del mare a causa di una grave siccità abbattutasi sulla loro isola. Con Corobio, la loro guida cretese, gli esploratori terei raggiungono l’isola di Platea posta di fronte alla costa libica della Cirenaica. Isola che, già in età precedente, ha svolto il ruolo di stazione commerciale fra Greci e indigeni, poiché sappiamo che pure qui approda Coleo di Samo, il quale dunque non solo precede i Focei nella regione di Tartesso, ma anche i Terei in terra di Libia. Qui, a Platea, gli esploratori terei abbandonano temporaneamente Corobio e corrono in patria per dare il via libera alla vera e propria spedizione coloniaria. L’abbandono di Corobio non è frutto di capriccio, ma atto funzionale e responsabile. Basta, infatti, la presenza di una sola persona per affermare la continuità dell’occupazione di un sito, e quindi la sua proprietà. La medesima cosa faranno ancora i Terei poco dopo, lasciando nell’isola libica uno o più coloni, mentre essi, in gruppo compatto, si recano per la terza volta a Delfi. La terza sentenza oracolare li rimprovera di avere scambiato un’isola prospiciente la Libia con la Libia stessa. I Terei prontamente traslocano sulla vicina terraferma e si insediano ad Aziri, che allora - come narra Erodoto - doveva essere una località davvero incantevole, mentre oggi è arida, brulla e battuta dal vento. Qui, come si è detto altrove, la ricerca archeologica ha restituito frammenti di ceramica riferibili, con buona sicurezza, proprio all’età dell’insediamento tereo, seppure esso - come diremo - vivrà solo sei anni. Infatti, al settimo anno, i Libi li convincono a insediarsi altrove, perché troppo vicini ai loro abitati. Li guidano in una località altrettanto fertile, e dove, oltretutto, «il cielo è forato»: cioè in un’oasi rigogliosa per le molte e abbondanti piogge. Qui, finalmente, sorge la greca Cirene su una collina ricca di acqua, facilmente difendibile, che domina su un altopiano fertile, adatto a colture agricole intensive. Il sito è talmente ricco che, dopo tre generazioni, i coloni possono qui promuovere, con la piena benedizione delfica, un’ulteriore colonizzazione di carattere panellenico, che interessa - come poi apprendiamo - abitanti del Peloponneso, di Creta e delle isole egee di stirpe dorica. I Greci che lo desiderino sono così incoraggiati dai sacerdoti di Delfi a partire per la Libia, «ad abitare insieme» con i Cirenei, perché essi stessi li invitano per una ripartizione della terra. Ed è questa appunto la prima condizione «dell’abitare insieme» (in greco synoikizein). Questa «ricolonizzazione» del sito si data al tempo di Batto il Felice, il quale, dopo un periodo contrassegnato da attriti fra Cirene e l’Egitto, instaura ottimi rapporti con il suo ultimo faraone, Amasi, detto appunto il Filelleno. Ma perché - vista la situazione ottimale - i Greci non hanno perseverato nella colonizzazione della Libia? Probabilmente a causa dell’improvvisa avanzata dei Persiani che, nel 525, conquistano l’Egitto, costringendo alla sudditanza la stessa Cirene. Sudditanza, però, che è atto puramente nominale, senza riflettersi al negativo sul suo livello di vita; l’archeologia infatti mostra che, proprio in questo periodo, la prosperità di Cirene si accresce. Lo testimoniano le necropoli con i loro ricchi corredi, le elaborazioni originali della scultura, nonché le imponenti realizzazioni dell’architettura templare. Ed è questo, peraltro, il medesimo periodo al quale risalgono le sue prime emissioni monetali. Come in tutte le comunità dove convivono fra loro etnìe diverse, anche a Cirene insorgono presto problemi di relazioni fra cittadini provenienti da differenti città. Problemi che - come sempre - si acuiscono in momenti di turbolenze internazionali. Ecco allora che i Cirenei fanno ricorso a un riformatore esterno, Demonatte di Mantinea. Egli riesce a elaborare una costituzione che prevede l’inquadramento della popolazione in tre tribù, nonché il mantenimento dell’istituzione monarchica, che - nella storia della colonizzazione greca - è prerogativa unica di Cirene. La convivenza civile è così assicurata e, oltretutto con presupposti così solidi che ancora dopo due secoli i Cirenei possono tutti riconoscere Tera come loro comune madrepatria, ritrascrivendo orgogliosamente su marmo il testo originario del giuramento pronunciato dai loro antenati al momento della partenza per la Libia che abbiamo già riportato per intero (cfr. parte prima, capitolo secondo Caratteristiche dell’impresa coloniaria). Il lettore ha già avuto modo di comprendere il significato di questo giuramento, cui seguono le maledizioni contro gli spergiuri. Giova qui ribadire che la selezione dei coloni è sì egalitaria, ma obbligatoria, come obbligatoria, pena la morte, è la loro partenza. In quanto al ritorno, esso sarà possibile in caso proprio di insuccesso, ma non prima di cinque lunghi anni, come sempre secondo Erodoto - ben sanno alcuni Terei che, tornati prematuramente in patria, sono presi a sassate dai compaesani che impediscono loro lo sbarco. La colonizzazione dei Greci in Libia avviene per mediazione di Creta, l’isola che è ponte fra Europa e Africa. Ma Corobio non solo è cretese, bensì anche - in quanto pescatore di murici - un trafficante in porpora, cioè in una merce che è di esclusiva pertinenza dei Fenici. Il dato è importante perché i Greci scoprono la via per la Libia proprio a contatto, e quindi a rimorchio, dei mercanti fenici, la cui rotta passa appunto per Creta, come ricorda il poeta dell’Odissea (XIV, 240-302) narrando la bella favola del figlio di Castore di Ilace, il navigatore cretese dietro cui si cela Ulisse, nel suo incontro con il porcaro Eumeo: Là [a Troia] nove anni facemmo la guerra noi figli degli Achei, al decimo, distrutta la rocca di Priamo, partimmo verso la patria sopra le navi; e un dio disperse gli Achei. Per me misero, allora, sciagure meditò il saggio Zeus. Un mese solo rimasi a godermi i miei figli e la sposa legittima e i beni: ma poi il cuore mi spinse a faf viaggio in Egitto armate bene le navi con i compagni divini. Nove navi armai: rapidamente si raccoglieva la ciurma. E per sei giorni allora i miei fedeli compagni banchettarono: io molte vittime davo, da offrire agli dèi e prepararsi il banchetto. Al settimo giorno, imbarcati, dall’isola vasta di Creta partimmo con vento di Borea bello gagliardo, senza fatica, come secondo corrente ... Al quinto giorno all’Egitto bella corrente arrivammo, nel fiume Egitto ancorai le navi ben manovrabili... Là sette anni rimasi, e molte ricchezze adunai fra gli Egizi: me ne davano tutti. Ma quando l’ottavo anno arrivò, compiendo il suo giro, capitò un uomo fenicio, esperto d’inganni, un ladrone che molti mali aveva fatto tra gli uomini. Costui mi portò via, raggirandomi con le sue astuzie, fintanto che arrivammo in Fenicia, dov’erano le sue case e i suoi beni. Là con lui stetti un anno completo. Ma quando i mesi e i giorni passarono e compiendosi un anno le stagioni tornarono, per la Libia mi fece imbarcare su nave marina, tessendo inganni, che il carico portassi con lui... Questa [la nave] filava con vento di Borea bello e gagliardo in alto mare su Creta; ma Zeus a loro preparava rovina. Quando Creta avevamo lasciato, e ormai nessun’altra delle terre appariva, ma solo cielo e mare... Creta, per i Greci, è duplice avamposto verso l’Africa: per una navigazione interessata tanto all’Egitto quanto alla Libia. Ma la rotta sulla Libia, decisamente più rischiosa, è anzitutto rotta aperta e attrezzata dai Fenici. Questi, con scalo nelle isole di Cipro e di Rodi, guadagnavano Creta rasentando le Cicladi più meridionali; quindi ridiscendevano verso la Libia facendo rotta su Cirene e sulla costa delle Sirti. Esplicita in tal senso è la testimonianza dell’Odissea. Qui non solo ritroviamo insieme, sulla medesima rotta, accomunati a un medesimo destino, un marinaio greco e un mercante fenicio, ma per giunta essi navigano - proprio perché compagni di avventura - «in direzione della Libia» e «al di là di Creta». Sulle coste dell’Africa la colonizzazione greca muove dunque a rimorchio di quella fenicia, ed entrambe hanno in Creta il loro punto di incontro, nonché il loro avamposto obbligato. Ben lo sanno i coloni di Tera che, diretti in Libia, ricalcano rotte già aperte alla navigazione greca da Eubei, Sami e Focei. I quali, al seguito dei Fenici, raggiungono Gibilterra e la costa atlantica anche lungo la rotta mediterranea meridionale che tocca la Cirenaica e quindi si affianca alla sponda africana. Cirene batte moneta già in età arcaica. Particolarmente rilevanti sono alcune sue emissioni con contrassegni squisitamente locali, come quelle con l’immagine di Zeus Ammone, identificabile per le corna di ariete, che testimoniano la precoce influenza in ambiente ellenico del veneratissimo santuario di Amun situato presso l’oasi egizia di Siwa. Oppure quelle, ancora, con l’immagine della pianta del silfio che cresceva solo in Cirenaica. Pianta di origine selvatica refrattaria a qualsiasi trapianto e che scompare del tutto in età romana; la sua foglia era commestibile come quella del cavolo e molto pregiate ne erano la linfa e la radice dalle quali venivano estratte essenze e sostanze medicamentose. In Atene, nell’età di Cleone, il prezzo delle importazioni di silfio è addirittura calmierato; ciò indica - al di là di qualsiasi altra considerazione - come questa pianta dovesse costituire la più importante voce dell’esportazione cirenaica, superiore a generi di prima necessità come i cereali, ovvero a prodotti di lusso come i cavalli. L’archeologia testimonia che, già a partire dalla fine del VI secolo, Cirene non sfigurava, per l’importanza dei suoi santuari, accanto alle principali città della Grecia, con le quali poteva tranquillamente competere anche per ricchezza. Particolarmente significativa è la tipologia delle sue tombe arcaiche, che sono scavate nella roccia con facciate scolpite e sorrette architettonicamente da finte colonne. Si tratta di schemi non greci, i cui raffronti riconducono ad ambiti marcatamente orientali. Non possiamo escludere che i Cirenei abbiano fatta propria questa tipologia per diretta influenza della Persia, dopo il loro assoggettamento al Gran Re. Come Marsiglia fonda una serie di subcolonie che influiscono in forma decisiva sull’ellenizzazione del Mezzogiorno della Gallia, così Cirene, a sua volta, promuove una serie di fondazioni che trasformano la Cirenaica in un’appendice transmediterranea del mondo greco. Sorge prima Barce sul medesimo altopiano di Cirene; quindi, sul mare, da oriente a occidente, Euhesperides (oggi Bengasi), Taucheira (oggi Tokra) e Apollonia. Si tratta di una grecità periferica, il cui ruolo è davvero decisivo se consideriamo come tali fondazioni si interpongano con grande flessibilità culturale ed elasticità politica, fra due mondi contrapposti quali Cartagine e l’Egitto, prima faraonico poi persiano, infine tolemaico. Parte Terza LE COLONIE XVII. PITECUSA E CUMA Fu certamente sulla scorta di conoscenze acquisite nei loro traffici lungo il Tirreno meridionale che gli abitanti di Calcide e di Eretria, nell’isola di Eubea, fondarono il primo insediamento coloniario dell’Occidente: Pitecusa, nell’isola di Ischia. Il luogo, certamente, non venne scelto a caso: un’isola sufficientemente grande da fornire sostentamento a una piccola comunità, ma anche abbastanza piccola da poter essere difesa con successo in caso di attacco. L’insediamento fu collocato sulla sommità del Monte di Vico, dominante e prospiciente la piccola baia di San Montano. L’isola era inoltre ricca di un materiale povero ma all’epoca prezioso: l’argilla. Gli abitanti della nuova colonia, dedotta intorno al primo quarto dell’VIII secolo a.C, poterono così creare una grande industria ceramica i cui prodotti sono stati trovati in tutte le principali località del Tirreno. Questa industria secondo un’antica interpretazione avrebbe dato il nome alla colonia: «città dei vasai» da pithos, «orcio»; ma, come già sappiamo, esiste anche un’etimologia da pithekos, «scimmia». La ricerca archeologica, ancora in corso negli insediamenti del Monte di Vico e di Mezzavia, ha dimostrato che i coloni greci convivevano in buona armonia con gli indigeni dell’isola, gli Ausoni, da cui sarebbe nato il nome Ausonia che spesso indicò nel passato la nostra penisola. La convivenza dovette realizzarsi su una sorta di proficua simbiosi: gli indigeni coltivavano la terra, fertilissima, dell’isola, mentre i Greci fornivano manufatti e tecnologia, per quei tempi, avanzata. Si disse anche che vi fossero delle miniere d’oro ma si trattò probabilmente di un equivoco sul nome chryseiai che può anche significare «laboratori per la lavorazione dell’oro». La vera miniera d’oro era costituita dalle capacità imprenditoriali dei suoi artigiani e dalle esportazioni sia dei manufatti sia della manodopera. Dagli scavi archeologici condotti in alcune zone dell’Etruria (come Bisenzio) e della Campania (come Pontecagnano) è infatti evidente che Ischia esportava anche l’esperienza dei suoi abili vasai, che aprivano le loro botteghe sul continente formando, probabilmente, apprendisti locali in grado di imitare i prodotti originali con una certa abilità. Pitecusa sviluppò un’economia florida, affiancando presto alla produzione di vasi e di argilla (che veniva anche esportata grezza per la sua ottima qualità) la lavorazione del ferro dell’Elba importato dagli Etruschi e trasformato in manufatti di ogni genere (armi comprese), anche se non è pensabile che questi manufatti venissero riesportati in area etrusca in cambio del minerale grezzo perché il livello della siderurgia etrusca, a quell’epoca, era già molto avanzato e non aveva bisogno di apporti esterni. A Pitecusa si lavorava probabilmente oro importato dall’Oriente, il rame di Cipro e l’argento spagnolo. Alcune testimonianze epigrafiche su anfore e su un piatto hanno incoraggiato l’ipotesi della presenza di un piccolo fondaco fenicio, che lascia pensare a un periodo in cui i traffici incrociati greci e fenici non erano ancora giunti alla competizione esasperata. È difficile per noi oggi immaginare come doveva essere il territorio dove sorsero, nell’arco di un secolo (dalla metà dell’VIII alla metà del VII), Cuma, Dicearchia (Pozzuoli) e Partenope-Neapolis (Napoli). La terra era incredibilmente fertile e produceva grano, vino, olio d’oliva, frutta. I colli e le rive erano coperti di foreste di pini marittimi, di querce, di lecci; il mare incontaminato era ricchissimo di pesci, molluschi e crostacei. Tutto il paesaggio doveva essere di una bellezza divina, paragonabile solo ai più splendidi angoli di Grecia. E in quel paesaggio i coloni eubei ambientarono alcune delle più suggestive avventure di Ulisse: le sirene agli scogli dei Galli presso punta Campanella, l’evocazione dei morti ai Campi Flegrei, l’isola di Circe poco più a nord, nel promontorio Circeo. Protetta dalla sua acropoli naturale, dotata di un porto ben riparato, circondata da mura possenti, Cuma, fondata intorno al 730 da Eubei di Calcide e di Cuma (un toponimo che ci conduce a un centro dell’Eubea), si arricchì commerciando con Etruschi, Egizi, Fenici, Liguri e altri popoli del Mediterraneo. Costruì un impero commerciale di grande potenza, dedusse, come abbiamo visto, due subcolonie: Partenope e Dicearchia. Gli Etruschi, che dal VI secolo si erano installati in Campania e dominavano Roma con la dinastia dei Tarquini, sorvegliavano quei Greci con sospettosa attenzione, ma, poiché erano interlocutori commerciali troppo importanti, non li disturbavano. Ognuno manteneva la propria peculiarità culturale e la propria indipendenza politica. Quando nel 540 gli Etruschi, alleati con i Cartaginesi, batterono i Focesi nelle acque di Corsica massacrando i prigionieri inermi, divenne chiaro chi comandava nel Tirreno e non passò molto che l’espansione etrusca nel Sud cominciasse a minacciare gli insediamenti greci. In Campania, dunque, i rapporti economici fra le città etrusche, come Capua e Pontecagnano, e quelle greche continuarono, ma senza compromissioni politiche con Cuma e le sue subcolonie. A quel punto, però, l’equilibrio del potere nel Tirreno faceva pendere decisamente la bilancia dalla parte della potenza etrusca, sempre più interessata all’enclave euboica del golfo e al pingue retroterra agricolo che l’alimentava. Si giunse così, nel 525, allo scontro armato: l’esercito etrusco con gli alleati Umbri, Dauni e Messapi avrebbe raggiunto, secondo Dionigi di Alicarnasso (1,53,3; VII, 3,2, XII, 1,9), l’incredibile cifra di mezzo milione di uomini. L’orda si infranse contro la falange schierata davanti alle mura, arretrò in preda alla confusione e, mentre il cielo si addensava di nubi tempestose, la cavalleria cumana attaccava sui lati. Nel diluviare del temporale l’armata etrusca fu fatta a pezzi, e Cuma mantenne l’indipendenza potenziando ulteriormente la sua flotta. Dionigi di Alicarnasso (V, 26,1-4) dà informazioni anche sulla ricchezza della produzione agricola di Cuma. Al tempo della guerra di Porsenna contro Roma, infatti, il senato romano avrebbe chiesto ai Cumani la fornitura di partite di grano per la città stretta dalla penuria. Forse questi primitivi contatti fra Roma e Cuma furono ispirati dal comune avversario etrusco e probabilmente l’osmosi culturale che dovette seguirne favorì il formarsi di tradizioni che poi sarebbero confluite nella vulgata virgiliana dell’Eneide. Le fonti (Livio e Dionigi di Alicarnasso) raccontano ancora di un intervento cumano contro gli Etruschi, quando Porsenna diede l’assalto ad Ariccia. I Cumani sarebbero stati guidati da Aristodemo che aveva già sconfitto l’esercito etrusco-italico nel 525. Egli avrebbe ucciso di sua mano il generale nemico, figlio del re Porsenna, di nome Arunte e in seguito, schierandosi dalla parte del popolo e degli schiavi, avrebbe sterminato gli oligarchi e instaurato una tirannia che durò fin quando i figli degli uccisi, riparati a Capua, lo attirarono in un’imboscata, lo catturarono e lo misero a morte fra atroci tormenti. Le sconfitte di Cuma e di Ariccia, la cacciata dei Tarquini da Roma e l’affrancamento delle altre città latine dalla tutela etrusca misero in crisi il dominio territoriale rasenna a sud del Tevere isolando i centri della Campania. Respinti per via di terra, gli Etruschi tentarono ancora di prendere Cuma dal mare ma questa volta i Cumani chiesero aiuto a un potente alleato, Ierone di Siracusa, che inviò una grande flotta riportando una clamorosa vittoria nel 474 a.C. Questa vittoria, che faceva seguito a quella ateniese di Salamina contro i Persiani (480) e a quella di Imera contro i Cartaginesi (480 o 479), segnava il trionfo degli Elleni contro i «barbari» dell’Est, del Sud e del Nord tanto che in seguito alcuni storici vollero che le tre battaglie fossero state combattute nello stesso giorno mese e anno, quasi per potenziarne l’impatto ideologico e propagandistico. Cuma era all’apogeo della potenza, della prosperità e della ricchezza a poco più di duecento anni dalla sua fondazione mentre la madrepatria, Eretria, era stata annientata dal ferro e dal fuoco dell’invasore persiano solo pochi anni prima e risorgeva ora faticosamente dalle sue ceneri. Vale la pena di fermarsi un momento a considerare il fatto, molto significativo, che i protagonisti di queste battaglie erano dei tiranni. Aristodemo che all’inizio non lo era lo divenne poi, inaugurando un comportamento che sarebbe diventato regola. Questo fenomeno è stato esaminato a fondo e attribuito a varie cause, come la commistione dei Greci con le popolazioni locali, l’influsso di mentalità di ambiente coloniale, lo sradicamento delle comunità stesse, spesso trasferite da una città all’altra con un semplice atto d’imperio, l’isolamento delle comunità circondate da ambienti indigeni sempre più ostili. Sta di fatto che la tirannide, che ha in Aristodemo uno dei primi antesignani in ambiente coloniale, si affermò sempre di più creando vere e proprie dinastie a Siracusa come ad Agrigento, a Gela come a Reggio, a Messina come a Catania e Imera, sopravvivendo per secoli dopo che era del tutto scomparsa in Grecia. L’isolamento e la distanza dalla madrepatria ellenica contribuirono alla cristallizzazione, nelle colonie, di comportamenti aristocratici ispirati a modelli eroici di tipo arcaico, incarnati nella figura del capo-sovrano. Non è un caso che il documento epigrafico più antico in ambiente coloniale, la famosa coppa di Pitecusa, più volte ricordata, ci riporti proprio all’ambiente eroico omerico. E alla stessa ideologia riconducono le sepolture a incinerazione all’interno di calderoni di bronzo, un rituale in cui si è riconosciuta una matrice eroica di tipo omerico e che si diffuse anche in ambienti anellenici come status symbol dell’aristocrazia guerriera. Era quel tipo di cultura che i primi coloni avevano conservato migrando dalla madrepatria (sepolture analoghe, del VII secolo, sono state rinvenute in Eubea e in particolare a Eretria) ed erano quelli i modelli di comportamento in cui si riconoscevano i membri delle aristocrazie coloniali. Che il tiranno provenisse dall’oligarchia o si facesse appoggiare dal popolo (fatto questo più frequente) poco importa: il risultato era comunque l’affermarsi di poteri personali illimitati e smisurati che, se da un lato produssero manifestazioni anche stupefacenti di grandezza e di potenza, dall’altro costituirono senza dubbio il seme di una decadenza inarrestabile. Il vuoto di potere lasciato dal declino della potenza etrusca in Campania fu presto colmato dall’ascesa delle forti popolazioni osche dell’interno, e in particolare dai Sanniti che assalirono in forze Cuma nel 421. I guerrieri furono battuti in campo aperto, le difese travolte, l’acropoli espugnata. La popolazione fu sterminata o venduta schiava e la città fu occupata dai nuovi padroni. Quando i Romani, a loro volta, nel 338 a.C. occuparono l’antica città, un tempo loro alleata contro la potente armata di Porsenna, l’unica traccia delle sue origini era l’oracolo della Sibilla nascosto in un antro oscuro presso un bosco sacro. Là si diceva che fosse sbarcato Enea, il loro eroe nazionale, e là si diceva che dal cielo fosse sceso Dedalo, addolorato per la morte di Icaro, per scolpirne la vicenda sulle porte del tempio di Apollo. In quelle memorie venerande i Romani videro, avvolte nelle nebbie del mito, parte delle loro origini che un giorno la penna di Virgilio avrebbe consacrato nell’epopea. Gli scavi di Cuma sono tuttora in corso e l’ultima campagna è stata condotta dalle Università di Napoli nel corso del 1994. Non è ancora possibile, dunque, giungere a conclusioni definitive. La tradizione che vuole la città fondata su un promontorio prospiciente un ancoraggio naturale nel territorio abitato dagli Opici sembra però confermata dal ritrovamento di una necropoli indigena nei cui corredi sono state rinvenute ceramiche euboiche più antiche di quelle di Pitecusa, un fatto, questo, che riconduce al tema della precolonizzazione, ossia della frequentazione commerciale antecedente gli insediamenti coloniari veri e propri. L’occupazione non avvenne probabilmente in modo pacifico e i coloni procedettero subito a fortificare l’acropoli con una muraglia appoggiata a possenti costruzioni e terrazzamenti. La linea di costa attuale si è estesa verso ovest a causa del progressivo insabbiamento, ma quella antica doveva essere molto più vicina alla città e aprirsi in una specie di baia ai piedi dell’acropoli. Sulla sua sommità sono stati individuati i resti del tempio di Zeus (ma l’attribuzione è incerta) e quelli del tempio di Apollo sul bordo sudorientale. L’attribuzione ad Apollo di questo secondo santuario è motivata dal collegamento del tempio con cripte sottostanti, delle quali una è stata identificata come antro della Sibilla. Il taglio trapezoidale di questo antro, la cui vera funzione ci è ancora ignota, lo fa datare a tempi molto arcaici, con ogni probabilità antecedenti all’VIII secolo, in cui si collocano le fondazioni coloniarie di Pitecusa e di Cuma. Non sembra che questo fosse l’antro che vide Virgilio e al quale si ispirò per le scene dell’Eneide ambientate in area flegrea. Egli forse vide un antro che si apre di fianco a un’altra cripta che passa da parte a parte il colle dell’acropoli. La città vera e propria, di forma grosso modo rettangolare, si estendeva a ovest dell’acropoli e fu subito circondata dalla cinta delle mura urbiche che sono state localizzate in vari tratti prevalentemente sui lati nord e sud. La necropoli, a nord della città, ha restituito ceramica corinzia ed euboica e vasi probabilmente importati da Pitecusa. Il porto non è stato ancora individuato con sicurezza e le ricerche sono in corso. XVIII. TARANTO. La chiusa laguna del mar Piccolo e l’ampia baia ben riparata del mar Grande offrirono, fin dalla più remota antichità, il primo vero approdo alle navi che venivano da oriente. Si può immaginare che, dopo la sua scoperta, i naviganti studiassero la rotta in modo da poterci fare tappa. Allo scoglio del Tonno gli scavi archeologici hanno rinvenuto ceramica minia risalente al XVII secolo e inoltre ceramica micenea risalente al XII e questo può far pensare a una frequentazione importante anche se non necessariamente a un vero e proprio insediamento. Sembra invece che Metaponto, posta più a ovest tra le foci del Bradano e del Basento, esistesse come centro abitato già in età micenea e facesse addirittura parte del regno di Pilo (ma è ipotesi da considerare con grande prudenza). Appare infatti nelle tavolette in lineare B rinvenute in quella città un toponimo Meta-ba che sembra si possa ricondurre a quello di Alibanto che appare nell’Odissea (XXIV, 304). In ogni caso l’area di Taranto ha rivelato segni di insediamento e frequentazione anche nell’età del ferro, il che testimonia una posizione geografica estremamente favorevole. Come abbiamo già visto in altra parte del volume, la città sarebbe stata fondata dai Parteni, ossia dai giovani che erano nati dall’unione tra le vergini spartane e un gruppo di guerrieri distolti, per ordine degli efori, dalla interminabile guerra messenica e inviati in città a perpetuare la stirpe. Esiliati alla fine della guerra, i Parteni, guidati da Falanto, fondarono appunto una città in Italia che prese il nome di Taranto dal suo fondatore. È piuttosto difficile intendere esattamente cosa volesse dire Antioco di Siracusa nella storia raccontata da Strabone (VI, 278-279), anche se è noto che, a Sparta, la morale del matrimonio e della famiglia era spesso subordinata alle esigenze, anche riproduttive dello stato. C’è tuttavia da considerare la coincidenza cronologica fra le prime attestazioni archeologiche della presenza dorica a Taranto (ultimo decennio dell’VIII secolo) e la data tradizionalmente connessa all’arrivo dei Parteni (706). D’altra parte il nome del presunto ecista, Falanto, non sembra avere molto a che fare con quello della città che in effetti vantava anche un ecista alternativo, un mitico eroe di nome Taras che forse è solo il nome dell’insediamento indigeno preesistente all’arrivo dei coloni laconici. Comunque sia, Taranto fu sempre strettamente legata a Sparta, a cui richiese per secoli i comandanti e i soldati per respingere gli attacchi delle agguerrite popolazioni barbare dell’interno: Iapigi della Puglia e, soprattutto, Bruzi e Lucani. Fu sempre caratterizzata dagli aspetti salienti della cultura dorica, specialmente nella religione e nei culti (si sa, per esempio, che il culto di Apollo Hyakynthos era originario di Amyklae, un piccolo centro a sud di Sparta). Ebbe però un tipo di sviluppo economico in contrasto con la propria tradizione: mentre gli Spartani si rendevano famosi per le virtù militari e la totale mancanza di propensione al commercio e alle attività economiche, i Tarantini lo divennero, da un lato, per le straordinarie ricchezze accumulate con la produzione agricola, artigianale e commerciale, dall’altro per la scarsa efficienza militare e il carattere poco bellicoso della popolazione. La città venne costruita sul promontorio che si protende da sudest, quasi a chiudere l’imbocco delle due lagune interne, esattamente di fronte allo scoglio del Tonno, e l’acropoli con i suoi templi sorse sulla parte più alta d esso. I quartieri residenziali si estesero invece a ventaglio in direzione sudest fino a coprire un’area di 570 ettari in cui era inclusa, fatto piuttosto raro, anche la necropoli. Il suo sviluppo commerciale fu eccezionale. I Tarantini riservavano la laguna interna alla coltura di molluschi per la porpora e nelle campagne circostanti allevavano cavalli e una razza di pecore dalla lana pregiata. Le fattorie agricole producevano inoltre una grande quantità di cereali da destinare anche all’esportazione. Famosa era l’industria ceramica che produceva statuine di deliziosa fattura [vedi inserto], molto simili alle tanagrine, e ancor più ricercata era la produzione orafa. Le oreficerie tarantine erano di livello elevatissimo e si avvalevano delle tecniche più raffinate come la lavorazione a sbalzo, a incisione, a maglia, a granulazione. Si creavano orecchini, bracciali, spirali, anelli, pendenti, collane, diademi, corone, fibule, cinture [vedi inserto]. Di particolare effetto era l’accostamento all’oro di altri materiali preziosi come l’argento, l’ambra e l’avorio che creavano armonie di colori e di forme di effetto straordinario. L’eccellenza di quella tecnica si rifletteva anche nella monetazione, che diffondeva il prestigio della città all’estero con belle monete d’oro e d’argento. Verso la fine del V secolo Taranto passò da un regime aristocratico a una democrazia che giunse al suo apogeo con il governo di un famoso filosofo, Archita. La ricchezza della città aumentò ancora e la grande flotta di navi da guerra garantiva le rotte e le vie commerciali dell’esportazione. Nel 314 a.C. venne eretta, a opera di Lisippo, la più grande statua di Zeus in bronzo che fosse mai stata realizzata nel mondo greco, espressione tipica della grandiosità coloniale. Un’altra meraviglia del paesaggio urbano tarantino era una seconda statua colossale di bronzo, sempre opera di Lisippo, alta circa 8 metri, che rappresentava un Èrcole in riposo. A lungo andare l’eccezionale benessere tolse ai Tarantini l’abitudine e la volontà di combattere. Cominciarono a subire pesanti sconfitte, prima dai Messapi e poi dai Lucani. Invece di cercare in se stessi le energie e la determinazione per contrattaccare, preferirono affidarsi ai comandanti fatti venire da Sparta o da altre regioni della Grecia i quali, spesso, avevano la peggio perché non disponevano di buone truppe. Quando invece avevano successo finivano quasi sempre per urtarsi con il governo tarantino, per il poco coraggio di cui dava prova e per il poco sostegno che forniva alle truppe ospiti. La serie impressionante degli insuccessi riportati da questi strani capitani di ventura sotto le insegne tarantine sembrava non insegnare nulla al governo della città. Re Archidamo II di Sparta fu battuto dai Lucani nel 338 a.C; re Alessandro I di Epiro, detto il Molosso, fratello della regina Olimpiade e zio di Alessandro Magno, riuscì a battere i Lucani ma poi entrò in contrasto con i Tarantini e alla fine fu egli stesso sconfitto e ucciso con la complicità di un’alluvione improvvisa che costrinse il suo esercito a disperdersi in tanti gruppetti che i Lucani annientarono uno per uno. Alessandro era riuscito a ritagliarsi un vasto dominio in Italia meridionale ed è opinione diffusa che egli non fosse che l’avanguardia del più famoso nipote al quale si attribuiva il progetto, come già abbiamo avuto occasione di dire, di invadere anche l’Occidente una volta soggiogato l’Oriente. Secondo una testimonianza di Tito Livio (IX, 38) i Romani avevano nominato un duce, Papirio Cursore, che avrebbe dovuto impedirgli lo sbarco sul suolo italiano. I Tarantini continuarono intanto a sviluppare sempre di più la loro economia aggiungendo alle pregiatissime manifatture tessili anche un’industria di ceramica; estesero i rapporti commerciali fino alla valle del Po, ma continuarono ad affidare ad altri la difesa militare per non abbandonare le attività economiche e commerciali. E così alla fine del IV secolo chiamarono da Sparta il re Cleonimo contro i Bruzi e i Lucani. Cleonimo fu sconfitto e per di più si scontrò duramente con il governo della città. Ormai, alla fine del IV secolo, le città greche dell’Italia meridionale erano poco più che enclave costiere in territorio completamente in mano ai «barbari», ossia agli indigeni. Fra questi indigeni i più pericolosi erano diventati i Romani. In soli due secoli avevano battuto praticamente tutti i popoli dell’Italia centromeridionale e ora avevano assunto il protettorato della colonia ateniese di Turi, di cui aveva fatto parte lo storico Erodoto. I Tarantini, grazie alla loro potenza e soprattutto alla consistenza della loro flotta da guerra, erano riusciti a ottenere, con un trattato, che le navi romane non entrassero nel golfo superando capo Lacinio. Un giorno, mentre erano a teatro, scorsero dagli spalti dell’emiciclo navi straniere veleggiare nel golfo, così scesero al porto, salirono sulla flotta e colarono a picco le navi. Quelle navi erano romane ed erano state spinte nel golfo da un vento di ponente che non avevano potuto controllare, o almeno questa fu la versione ufficiale fornita da Roma. Venne anche un ambasciatore a chiedere spiegazioni dell’affondamento proditorio. Parlava un greco approssimativo e i Tarantini si misero a schiamazzare e a deriderlo. Uno (ma questa è una versione sospetta di parte romana) lo avrebbe addirittura bersagliato con manate di sterco bovino sulla candida toga. Era la guerra. I Tarantini ricorsero ancora una volta a un campione straniero, Pirro, il re d’Epiro, che si vantava discendente di Achille tramite Neottolemo/Pirro, figlio del Pelide e mitico fondatore della dinastia dei Molossi. Pirro era un condottiero di scuola macedone, un avventuriero come tanti nell’epoca dei Diadochi e degli Epigoni che aveva fatto seguito alla frantumazione dell’impero di Alessandro. Coltivava il sogno di costruirsi un impero in Occidente così come Alessandro lo aveva costruito in Oriente. Si battè con valore prima in Italia e poi in Sicilia conseguendo notevoli successi grazie all’impiego degli elefanti e grazie allo schieramento impenetrabile delle sue truppe secondo gli schemi della falange macedone. Sconfisse i Romani due volte in campo aperto, poi però si rese conto che i Greci d’Occidente erano inaffidabili e che i nemici erano troppo agguerriti per le sue possibilità. Battuto a Benevento, consegnò Taranto ai Romani e se ne tornò in Grecia dove una sorte beffarda lo attendeva per le strade di Argo. Cadde colpito dalla tegola lanciata da una donna che lo aveva visto togliersi l’elmo dopo averle ucciso il figlio. Con la calata di Annibale, Taranto passò dalla parte del condottiero cartaginese, ma nel 208 a.C. fu ripresa da Fabio Massimo. I Romani misero a sacco la città e ne trasportarono le spoglie a Roma. Fra queste la colossale statua di Èrcole seduto in atteggiamento malinconico. Quest’ultima reliquia dello splendore tarantino fu poi trasportata, cinque secoli dopo, a Costantinopoli dove divenne subito oggetto di culto da parte della popolazione. Fu allora rimossa dalla sua sede e collocata come meta nella spina dell’ippodromo dove rimase per altri nove secoli. Venne fusa dai crociati, che presero la città nel 1204, per essere trasformata in monete. Del barbaro scempio fu testimone Niceta Coniata che lo descrisse nella sua Storia. La topografia dell’antica città di Taranto è solo parzialmente riconoscibile nella città moderna, la cui espansione ha causato distruzioni gravissime e cancellato per sempre testimonianze fondamentali per la comprensione dell’antico tessuto urbano. La città arcaica era costruita sul promontorio detto oggi Isola della Città vecchia e incombeva, con enorme peso strategico, sull’unico ingresso delle lagune interne. Qui sono stati identificati due santuari nell’estremità orientale: un tempio dorico arcaico e un temenos dedicato ad Afrodite. Sempre sull’acropoli sorgeva il tempio di Eracle con la statua colossale dell’eroe, opera di Lisippo. A oriente dell’acropoli si apriva la sterminata agorà dei Tarantini, come la definì Strabone, nell’area grosso modo triangolare adiacente. In mezzo a questa piazza fu innalzato, sempre nel IV secolo, l’altro colosso lisippeo, la statua di Zeus, alta 40 cubiti, ossia 17,76 metri, che fu per molti anni la statua più alta del mondo mediterraneo. Solo Carete, allievo di Lisippo, osò superare il maestro realizzando il Colosso di Rodi, alto il doppio della statua di Lisippo. Ma, com’è noto, la statua crollò solo settant’anni dopo la sua erezione a causa di un terremoto. Lo Zeus di Taranto rimase, fino all’inizio dell’età imperiale romana, la statua più grande dell’ecumene, superata solo, poco tempo dopo, dal colosso neroniano opera di Zenodoto che, al pari di Carete, tentò di raddoppiare le proporzioni dello Zeus di Lisippo. I due piccoli promontori che sporgono dal fronte settentrionale della linea delle mura ospitarono due santuari, di cui solo il secondo sembra potersi identificare come dedicato a Persefone. A partire dal V secolo, in coincidenza con la massima espansione della potenza tarantina, l’abitato si estese verso est con un impianto urbano rigorosamente ortogonale che venne a sua volta incluso in una nuova cinta muraria lunga quasi 10 chilometri (le mura della città vecchia erano lunghe meno di un quinto) che delimitò al suo interno un’area di circa 500 ettari. I sondaggi più recenti hanno anche permesso di definire la proporzione degli isolati, di forma rettangolare, con il lato lungo doppio di quello breve. Ancora più a est, ma sempre all’interno del circuito murario, si trovava la necropoli con i suoi monumenti funebri [vedi inserto]. XIX. SIBARI. Un’estate di sessantatré anni fa Umberto Zanotti Bianco vide affiorare sotto il piccone degli scavatori le vestigia di un antico santuario. Era il segnale che gli sforzi di tanti anni di ricerche erano finalmente premiati: quella colonna era la prima testimonianza che la favolosa città di Sibari era stata finalmente individuata nei pressi della foce del fiume Crati. Da allora lo scavo scientifico di quella che fu una delle più famose città della Magna Grecia si può dire che non abbia più avuto sosta, benché l’esplorazione abbia presentato e presenti difficoltà tecniche enormi a causa delle infiltrazioni di acqua marina che richiedono in continuazione l’uso di wellpoints (pompe aspiranti che mantengono lo scavo all’asciutto) con costi altissimi di gestione. I risultati di molti decenni di scavi e di esplorazioni hanno permesso di tracciare ormai con notevole precisione la topografia di massima dell’insediamento urbano. È stata individuata a meno di un chilometro dalla spiaggia l’antica linea di costa su cui sorse la città, con forma grosso modo rettangolare e con il lato lungo fronte al mare. Il porto era sostanzialmente un porto-canale sulla foce del Coscile, come nel caso di tante altre città greche d’Occidente. Lo scavo non si è esteso all’intero insediamento ma è stato condotto in diverse zone-, a nord, nell’area degli «Stombi», è stato messo in luce un quartiere arcaico che probabilmente non faceva parte della città vera e propria ma costituiva forse un sobborgo abitato da artigiani, come farebbero pensare i resti delle fornaci e i frammenti ceramici che sono emersi numerosi. Le abitazioni non avevano nulla di «sibaritico». Si trattava di edifici molto modesti con fondazioni in ciottoli di fiume e alzato in mattoni crudi coperti da travetti in legno. Nella zona detta invece «parco del Cavallo», nell’angolo compreso tra il corso del Crati-Coscile e la strada statale 106 bis, è stato individuato il centro arcaico della città con edifici datati all’VIII secolo, di fatto quasi coevi alla deduzione della colonia. Non molto è stato rinvenuto che testimoni il fasto dell’antica città, ma le dimensioni dell’area urbana, calcolabili in circa 500 ettari, i basamenti di numerose fontane e la larghezza di una delle plateiai (le vie larghe principali) di ben 13 metri bastano già a confermare la grandiosità tramandata dalle fonti. La zona archeologica di Sibari, che include anche i resti della successiva Turi periclea di impianto rigorosamente ippodamico e della tarda Copia-Turi romana, è caratterizzata dalla mole imponente di due tumuli, detti con nome locale «timponi» e nei quali sono state ritrovate cinque lamine d’oro con testi misterici che fanno riferimento al viaggio dell’anima nell’aldilà [vedi inserto]. Laminette simili sono state rinvenute in altre località della Magna Grecia e venivano deposte sotto il capo del defunto per fungergli da guida nel regno delle ombre. Esse testimoniano la vasta diffusione dei culti di ispirazione orfica tipici, secondo alcuni, della cultura popolare. Recenti studi hanno messo in rilievo una vasta documentazione di questa dottrina della rinascita e della trasmigrazione delle anime, diffusa in molti centri e in molti strati sociali. I temi iconografici più interessanti sono quelli dell’uovo di Elena (simbolo di rinascita a nuova vita) e la stupenda tomba posidoniate del «tuffatore», interpretata dai più come il volo del defunto nella dimensione ultraterrena. Di questa antica città non è rimasta nella memoria collettiva che l’aggettivo «sibarita», sinonimo di «gaudente rammollito». Così, d’altra parte, la penna di Diodoro Siculo ci ha tramandato il ritratto degli abitanti di questa città che, come tante altre fondazioni coloniarie dei greci in Italia, conobbe una breve ma fulgida stagione di potenza militare e di prosperità economica, prima di cadere nell’oscurità e nell’oblio. Secondo la sua testimonianza i Sibariti erano schiavi del ventre e dediti a un lusso smodato, terrorizzati solo all’idea della fatica e del lavoro (VIII, 18,1-2 ss.). Su di loro circolavano una quantità di storie alle quali, peraltro, è abbastanza difficile prestar fede. Le fonti infatti raccontano, fra le altre cose, che Sibari dominò quattro popoli indigeni e duecentocinquanta città, fondò tre colonie sul Tirreno - Laos, Scidro e Posidonia (Paestum) - e una sullo Ionio, Metaponto, e che arrivò a mettere in campo trecentomila guerrieri, tutte notizie che contrastano con il topos tradizionale dei sibariti molli e decadenti. Sembra evidente che non avrebbero mai potuto raggiungere simili eccezionali risultati se avessero passato il tempo a mangiare e divertirsi. Qualche eccessiva esibizione di lusso ci sarà stata, ma se consideriamo che tale era ritenuta l’abitudine di portarsi ai banchetti il pitale (chiaramente per un’esigenza igienica) ci rendiamo conto subito di come il topos del sibarita possa essere di molto ridimensionato. Nell’antichità, infatti, anche il moderato ma esteso benessere di una comunità poteva essere rappresentato dalle altre, meno fortunate, per invidia e per campanilismo, come una forma depravata di lusso e come impudente esibizione di ricchezza. «Caricavano il ventre tre volte al giorno» dice scandalizzato degli Etruschi Dionigi di Alicarnasso, attribuendo a questa crapula indecente la decadenza e la fine di quel popolo. E Yobesus Etruscus diventò così pure un luogo comune fortunatissimo pur confortato, bisogna ammetterlo, da una certa diffusa iconografia funebre. I Sibariti erano Achei, quindi discendenti delle antiche popolazioni micenee respinte dai Dori ai confini settentrionali del Peloponneso a condurre una vita di fame e di stenti in una zona sterile e montuosa. Insieme agli abitanti di Trezene, città del Peloponneso orientale, e guidati dal loro ecista Is di Elice, erano sbarcati alle foci del Crati per istruzione dell’oracolo delfico dove avevano fondato la città intorno al 720 secondo Pseudo-Scimno o nel 708 secondo la tradizionale cronologia di Eusebio. Era una zona di fertilità prodigiosa e i nuovi coloni riuscirono a produrvi quantità enormi di grano, un bene che a quei tempi aveva un altissimo valore strategico, paragonabile solo a quello del petrolio oggi. Chi possedeva il grano poteva espandersi demograficamente, ridurre la mortalità infantile (sempre comunque molto elevata), aumentare la consistenza del proprio esercito, vincere le battaglie e le gare sportive, resistere agli assedi e provvedersi di metalli, tecnologie, beni di consumo di qualunque genere. Chi percorre quel territorio non può non domandarsi come potessero quelle pianure, oggi devastate dal dissesto ambientale, essere così prodigiosamente fertili, mentre il reddito medio attuale dell’agricoltura, nonostante i miglioramenti indotti dalle bonifiche e dalla riforma fondiaria, rimane tanto basso. Si possono dare molte risposte di ordine climatico, pedologico, antropico, storico e sociale. Ma la causa principale probabilmente sta nel disboscamento e nell’erosione di vaste aree a ovest delle pianure che per secoli hanno provocato disastrose alluvioni della piana (le famigerate fiumare). Ma Sibari non si affidò solo alle risorse pur generose della terra. Oltre alla produzione di grano, frutta, olio d’oliva, all’allevamento di pecore e soprattutto di cavalli, aprì e sfruttò, nell’interno, miniere di rame, di ferro e d’argento. E con l’argento vennero coniate, per molti anni, le più belle monete delle città greco-italiote [vedi inserto]. Produsse legname da costruzione e pece per gli arsenali. Aprì una linea commerciale privilegiata con Mileto, allora forse la più bella e ricca città del mondo, capolinea di tutte le principali vie carovaniere che attraversavano gli altopiani di Battriana, Iran, Anatolia, e portò sulle rive del Mediterraneo le stoffe fenicie, i lini egiziani, le perle d’India, i profumi d’Arabia oltre ai prodotti raffinatissimi della Ionia: bisso, ceramiche, gioielli, legni e avori lavorati. Per quei prodotti così raffinati, i Sibariti individuarono il giusto mercato: le potenti città etrusche del Tirreno, ricchissime per le loro risorse naturali, industriali e artigianali, all’apogeo della potenza militare e politica. E siccome lo stretto di Messina era, come abbiamo visto, in mano ai Calcidesi di Messina e di Reggio, essi aprirono vie interne nei punti in cui la Calabria è più stretta, facendo capolinea sul Tirreno nei porti di Laos, di Temesa e di Scidro. Le merci asiatiche risalivano le valli del Crati e dell’Esaro in lunghe carovane di asini e muli, scortate da drappelli della temuta cavalleria sibarita. E giunte nei porti del Tirreno riprendevano il mare per Pirgi, Caere., Populonia, facendo scalo nell’amica Posidonia. È sicuramente eccessivo pensare che i Sibariti riuscissero a mettere in campo trecentomila guerrieri, perché bisognerebbe presupporre una popolazione superiore al milione di abitanti. Ma è senz’altro possibile che quella cifra si riferisca alla popolazione complessiva della città e dei dintorni, e anche in questo caso ci troviamo di fronte a uno sviluppo paragonabile, a quei tempi, forse solo a quello di Cartagine nel Mediterraneo occidentale. Verso gli inizi del VI secolo i Sibariti accolsero un gruppo di cittadini di Colofone, in Asia Minore, che fuggivano dall’occupazione lidia del loro paese. Si stanziarono nella pianura a nord di Sibari, presso la foce del Sinni, dove fondarono Siri che divenne anch’essa ben presto prospera e ricca, tanto che la sua fama si sparse in tutto il Mediterraneo. «Taso è come una schiena d’asino» scriveva il poeta Archiloco mentre montava di presidio in un’isoletta rocciosa dell’Egeo, «non è amabile come il paese alle foci del Siri». Ma la giovane comunità avrebbe avuto vita breve e non per intervento dei barbari, ma degli altri Greci della zona, che temevano un eccessivo sviluppo della nuova città e che forse avevano bisogno delle terre fertili del suo entroterra. Una coalizione di Crotoniati, Metapontini e degli stessi Sibariti invase la Siritide e pose l’assedio alla città che cadde dopo una strenua difesa. Nel massacro generale, che non risparmiò quasi nessuno, gli assalitori si macchiarono anche di un orribile sacrilegio uccidendo cinquanta giovinetti che avevano cercato rifugio nel tempio di Atena ponendosi sotto la protezione della dea. Come sappiamo, il simulacro, uno xoanon di legno antichissimo, avrebbe chiuso gli occhi per non vedere la carneficina, avrebbe versato lacrime, e in seguito una pestilenza avrebbe fatto strage fra i Crotoniati e i Sibariti finché il delitto non venne espiato con solenni cerimonie e le ombre dei morti placate con sacrifici. Come si vede, il pianto delle nostre Madonne ha, nel Sud, antichissimi precedenti. La possibilità di chiudere gli occhi era considerato uno degli attributi del favoloso Palladio, la statua di Atena che era caduta dal cielo e stava sulla rocca di Troia. Molte città si vantarono di possederlo, inclusa Roma, ed è abbastanza probabile che anche la statua di Siri fosse considerata un Palladio. Nel suo entroterra, infatti, sorgeva un santuario dedicato a Epeo, il costruttore del cavallo di Troia, e al suo interno erano conservati come reliquie gli strumenti che aveva usato per compiere l’opera. Comunque quel massacro inutile si sarebbe ritorto contro le due città compiici, Crotone e Sibari, come una maledizione. I Crotoniati furono duramente sconfitti dai Lo-cresi, nelle cui file combatteva nientemeno che il fantasma di Aiace Oileo. Eliminata Siri, Sibari e Crotone si volsero l’una contro l’altra. Il pretesto fu di carattere politico: i Sibariti avevano espulso gli oligarchi e si erano dati una costituzione democratica ben presto degenerata in tirannia. Gli esuli si rifugiarono a Crotone e da Sibari ne pretesero l’immediata restituzione. Al rifiuto di Crotone risposero con la guerra. Lo scontro fu all’ultimo sangue. I Sibariti, che secondo le fonti schieravano in linea trecentomila guerrieri, presero l’iniziativa dell’attacco, ma si lasciarono sorprendere in marcia da un’imboscata dei Crotoniati. Non ebbero il tempo di schierarsi, reagirono disordinatamente tentando di far fronte alle falangi impenetrabili dei nemici che caricavano compatti con le lance spianate. Fra di loro un colosso dalla forza smisurata travolgeva chiunque gli si parasse contro: era Milone, cinque volte vincitore alle Olimpiadi nella lotta e nel pugilato, un uomo capace di abbattere un toro con il suo pugno borchiato. Anche il toro sibarita fu messo in ginocchio in quella giornata terribile. La caccia ai superstiti della battaglia durò fino al tramonto quando la piana apparve un’enorme distesa disseminata di cadaveri dei guerrieri caduti. La città fu cinta d’assedio, ma ormai era dilaniata anche all’interno dalle fazioni opposte e le lotte intestine, più che l’assalto crotoniate, la fecero cadere dopo appena settanta giorni. Solo coloro che si diedero alla fuga poterono salvarsi, e non furono pochi se poi tentarono per ben due volte di ricostruire, con caparbia determinazione, ma senza successo, la loro città. Gli altri, a migliaia, furono passati a fil di spada. Poi i Crotoniati deviarono il corso del Crati nel Sibari (l’attuale Coscile) che straripò e seppellì la città sotto un mare di fango e di sabbia. Così la trovò Erodoto quando giunse in quel luogo per la fondazione di Turi e vide il vecchio alveo asciutto del Crati a valle della deviazione. Una città che aveva coperto un’area di 500 ettari e aveva inviato le sue navi in tutti i mari conosciuti era già archeologia quando il padre della Storia si accingeva a narrarne le vicende. XX. CROTONE. Per anni e anni i Crotoniati dovettero apparire nei giochi panellenici un po’ come apparivano a noi i ginnasti di certi regimi comunisti dell’Est: specie di superuomini programmati come macchine formidabili di muscoli, nervi e tendini. Vincevano tutto: le Olimpiche, le Nemee, le Istmiche, le Pitiche; nel salto, nel pugilato, nel pancrazio, nella corsa, nel disco; nelle gare per adulti e nelle competizioni per ragazzi. I viali delle grandi città dei giochi sacri si riempivano delle statue di quei campioni con iscrizioni celebrative. Fra loro Milone, il campione dei campioni, il superuomo in assoluto, capace di portare un torello sulle spalle e poi di abbatterlo con un pugno in mezzo alla fronte, un uomo che in una pubblica assemblea aveva retto un’architrave pericolante, prodigiosa cariatide umana, guerriero dalla forza mostruosa capace di far vacillare da solo una linea nemica. Qual era il segreto di quegli incredibili successi? Perché gli atleti crotoniati vincevano tutti gli altri e perché i loro guerrieri, per un certo periodo, furono in grado di battere eserciti di gran lunga più numerosi? Gli antichi testi non rivelano il segreto ma ne fanno intuire l’origine. Tutto ciò aveva probabilmente un nome: Pitagora di Samo. Pitagora era un grande saggio delle isole orientali, sbarcato un giorno, esule dalla sua terra dove regnava la tirannia di Policrate. Aveva trovato una città fiaccata da una battaglia che ne aveva decimato la gioventù: la tremenda giornata campale della Sagra. Il disastro era stato tale che anche i Locresi vincitori avevano pensato che gli eroi degli antichi miti fossero scesi in campo ad aiutarli: Aiace Oileo in persona e i Dioscuri Castore e Polluce. Erano apparsi infatti sul campo di battaglia due guerrieri sconosciuti con mantelli scarlatti e qualcuno giurava di aver visto, dietro uno scudo insanguinato, balenare nell’ombra di una celata gli occhi rapaci di Aiace Oileo. E il duce crotoniate, ferito dalla lancia invisibile dell’eroe, aveva dovuto recarsi nella remota «isola di Achille» nel mar Nero per trovare il rimedio a una ferita che non si rimarginava più. Pitagora, dunque, appena giunto a Crotone, sedette su un mucchio di mercanzie al molo e cominciò a parlare. La gente si fermava, si passava la voce, accorreva da ogni parte e alla fine arrivarono anche i maggiorenti della città. La fama della sua saggezza si sparse dovunque, persino nelle altre città, ed egli divenne a Crotone poco meno che un dio, ispirando i governi (o forse controllandoli direttamente) e informando tutta la società dei suoi principi etici e filosofici. Pitagora, come Buddha, Socrate e Gesù, non lasciò scritto nulla e divenne in poco tempo un personaggio mitico, quindi è assai difficile se non impossibile ricostruirne il pensiero filosofico. Sembra però che egli concepisse l’universo come un complesso armonico regolato da rapporti numerici, e che considerasse la vita umana come una serie di passaggi da un corpo all’altro (anche attraverso le piante, da cui la tradizione secondo la quale i pitagorici non mangiavano fave). Il concetto della metempsicosi, o trasmigrazione delle anime da un corpo all’altro fino alla purificazione totale, era probabilmente giunto dall’India con le carovane che facevano capo a Mileto e si era diffuso nella grecità d’Occidente con grande rapidità. Ne troviamo traccia evidente in Pindaro (01, II, 66-73): ... ma alla presenza degli dei venerandi, coloro che si compiacquero di tener fede ai giuramenti, trascorrono senza lacrime la vita mentre gli altri sopportano supplizi che nessun uomo può guardare. E tutti coloro che, abitando in un mondo o nell’altro, ebbero la forza per tre volte [cioè per tre vite successive] di tenere l’animo completamente puro da ingiustizia compirono il cammino di Zeus fino alla torre di Kronos dove le brezze dell’Oceano soffiano attorno alle Isole dei beati. A livello sociale il pitagorismo diede vita ad associazioni dette eterie, specie di logge iniziatiche di cui potevano far parte anche le donne e che forse costituirono delle vere e proprie lobby in grado di promuovere sistemi politici aristocratici, non più fondati sulla nobiltà del sangue ma sulla eccellenza intellettuale, fisica e morale delle persone. Va da sé che, essendo quel tipo di eccellenza riconosciuto solo ai pitagorici, le eterie divenivano dei veicoli di potere tout court. D’altra parte, se le cognizioni di Pitagora e dei suoi seguaci nel campo della medicina e delle diete alimentari erano molto avanzate, si può facilmente immaginare che procurassero un prestigio e un credito altissimi e di conseguenza garantissero anche un peso politico rilevante. Solo così si possono spiegare i «miracoli» che vennero attribuiti a Pitagora, forse guarigioni ritenute impossibili, recuperi fulminei e simili altre manifestazioni di potere «soprannaturale». È probabile che di questo potere Pitagora e i suoi approfittassero eccessivamente, tanto che in città scoppiò una rivolta, e Pitagora e i suoi dovettero fuggire da Crotone per rifugiarsi a Metaponto dove il filosofo trovò la morte. Anche Crotone era una città achea come Sibari e Metaponto e si diceva fondata da un ecista gobbo, «Miscello dalla schiena corta», come lo chiamò l’oracolo di Delfi. Ma su questo argomento e le sue importanti implicazioni storiche, il lettore è già stato informato dalla parte seconda del volume. Crotone godette per lungo tempo di una invidiabile prosperità, anche grazie al clima ritenuto uno dei più salubri d’Italia. Dopo l’espulsione dei Pitagorici, che si risolse in una vera e propria caccia all’uomo, la città, passata in mano ai democratici, continuò a indebolirsi sia per le discordie interne, sia per gli attacchi continui dei Bruzi, i nativi dell’interno, sia per la fondazione della colonia panellenica di Turi da parte degli Ateniesi nel sito dell’antica e odiata Sibari. Le guerre sannitiche e la guerra punica fecero il resto. Sono scarsi i resti dell’antica città perché il centro abitato ha continuato a sopravvivere attraverso i secoli fino alla moderna Crotone che con l’unità d’Italia recuperò l’antico prestigioso nome originario. Solo in occasione di scavi urbani si ha l’opportunità di recuperare lacerti dell’antico piano della città che quasi certamente doveva essere impostato secondo i rigorosi modelli ortogonali dell’epoca. Il perimetro delle mura crotoniate, secondo la testimonianza di Livio, era di ben 12 miglia romane (quasi 20 chilometri) ma è probabile che la notizia sia approssimativa o che tale perimetro includesse anche una porzione di territorio destinato ad attività agricole o a giardini o alla stessa necropoli. L’acropoli doveva trovarsi nel punto dominante del capo Lacinio e prospiciente la rada settentrionale del porto, approssimativamente dove sorse nel Cinquecento il castello spagnolo. Dell’antico santuario di Era Lacinia, pressoché intatto fino al 1638 quando fu devastato da un terremoto, resta soltanto una colonna [vedi inserto] che ha reso famoso il luogo (capo Colonna). Il tempio era di stile dorico, periptero, con sedici colonne sul lato lungo e otto su quello breve, e aveva un frontone adorno di statue marmoree che si ergeva verso il mare. L’interno era decorato con affreschi del grande pittore Zeusi. Resti di un altro santuario sono stati rinvenuti in località Vigna Nuova ma non è stato possibile identificare la divinità a cui era dedicato. Gli oggetti votivi rivelano però una continuità di culto che va dal VII al III secolo a.C. XXI. LOCRI. Delle vicende relative alla fondazione di Locri si è già detto nel capitolo XI. Sappiamo che all’origine della loro fondazione c’era una tradizione assai simile a quella dei Parteni di Taranto: i coloni di Locri sarebbero nati dalle donne locresi che si erano unite ai loro schiavi mentre i mariti erano impegnati nelle guerre messeniche a fianco degli Spartani. Già nell’antichità si faceva notare che una cosa simile era impossibile perché in tempi così remoti i Greci non possedevano schiavi. Resta comunque il fatto che nella società locrese la donna godeva di una posizione di particolare rilievo, cosa rarissima in una società greca, tanto da far pensare a un regime matriarcale. Le successioni patrimoniali erano su linea femminile e l’aristocrazia dominante, molto conservatrice, era quella delle cento case, ossia dei discendenti delle donne che si erano unite agli schiavi e che in un certo numero (cento, per l’appunto) avrebbero partecipato alla fondazione della colonia. Anche l’invio annuale di due vergini, che dovevano servire nel tempio di Atena Iliaca come espiazione dello stupro consumato da Aiace Oileo sulla principessa Cassandra la notte della caduta di Troia, sembra inquadrarsi in una forma di venerazione e di rispetto della entità femminile (Cassandra, Atena) e di condanna della violenza maschile. Le vergini, inoltre, erano sempre scelte fra le cento famiglie che discendevano dalle donne che si erano unite agli schiavi. Pur accettando l’idea che a Locri Epizefiri si perpetuasse un antichissimo regime matriarcale di origine dorica o addirittura preellenica (nella Locride Opunzia, per esempio, la componente dorica era molto forte e molto antica), è comunque problematico spiegare il significato del mito originario. Quale comunità, infatti, vorrebbe mai vantarsi di discendere da una stirpe di illegittimi concepiti da donne sposate che avevano preso degli schiavi nei loro letti? Già dai tempi di Omero lo schiavo era considerato un mezzo uomo: «Zeus toglie a un uomo la metà del suo senno il giorno in cui lo priva della libertà» dice Eumeo a Ulisse che gli si presenta sotto mentite spoglie. Abbiamo già esaminato in precedenza l’ipotesi che i Locresi, giunti sul promontorio Zefirio a rimorchio della colonizzazione spartana diretta a Siracusa, abbiano assorbito influenze tarantine (quelle della leggenda dei Parteni, appunto) e tradizioni laconiche (quella delle guerre mes-seniche), ma si possono prendere in considerazione anche altre possibilità. La prima è che la comunità avesse costumi matriarcali che non cominciarono con la fondazione della colonia ma che vennero importati dalla madrepatria; la seconda è che la comunità coloniaria abbia assorbito tradizioni e costumi dei Siculi che occupavano il territorio e che già da molto tempo intrattenevano rapporti commerciali con i mercanti euboici, come dimostrano i vasi geometrici trovati nelle tombe indigene. Una terza possibilità, che può sembrare eccessivamente ovvia, non è tuttavia da trascurare, e cioè che la tradizione abbia un fondamento di verità. Le piccole comunità emerse dal «Medioevo ellenico» avevano una vita piuttosto precaria sia per l’alta mortalità infantile, sia per le guerre intestine che in certi casi falcidiavano la popolazione maschile sul campo di battaglia. Non ci sarebbe da meravigliarsi se in una simile situazione la comunità avesse stabilito che le donne dei guerrieri caduti, ancora in età di procreare, si unissero in nuove nozze con maschi di rango inferiore (come i Perieci o gli Iloti di Sparta) trasmettendo però ai loro figli il proprio blasone che si sarebbe così perpetuato in linea femminile. Non è forse un caso che proprio a Locri fiorisse una delle più famose poetesse del mondo greco: Nosside. E che a Locri fosse tanto in auge il culto della dea Persefone di cui si sono conservati delicatissimi ex voto (i famosi pinakes) sotto forma di tavolette di terracotta a rilievo [vedi inserto]. In ogni caso nel panorama di forte conflittualità di cui è caratterizzata tutta l’avventura, pur esaltante, della Magna Grecia, la storia delle signore di Locri e del loro omaggio di espiazione per un antico stupro suona come un canto d’amore e di pietà in un coro di grida bellicose. Fra le glorie della città non va dimenticato il mitico legislatore Zaleuco, una figura in qualche modo accostabile a quella degli altri grandi legislatori della Grecia arcaica come Solone e Licurgo. Sarebbe stato l’autore del più antico codice di leggi scritte d’Europa e, secondo una testimonianza di Eforo, l’unico a inserire nel codice delle leggi anche le pene da applicare per i violatori, cosa che abitualmente era invece lasciata alla discrezione dei giudici. Per ciò che se ne sa questa legislazione somigliava abbastanza a quella di Sparta, tanto che secondo una tradizione accreditata sia Zaleuco sia Licurgo sarebbero stati discepoli dello stesso maestro, il cretese Taleta. Questo codice era concepito in modo da mantenere stabili e immutabili i patrimoni delle cento famiglie aristocratiche e da impedire sia l’ostentazione della ricchezza sia il progredire delle proprietà degli uni a scapito degli altri. Il commercio era penalizzato con la proibizione della vendita nei mercati pubblici mentre era permessa la sola transazione diretta da produttore a consumatore. Una simile norma, apparentemente democratica, probabilmente serviva invece a impedire la crescita di quella classe media che in Grecia avrebbe promosso l’avvento delle riforme della società in senso democratico. La straordinaria uniformità dei corredi trovati nelle tombe aristocratiche confermerebbe, secondo alcuni, questa notizia, ma è bene non dimenticare che il rito funebre è di per sé, presso molte culture, rigido e ripetitivo. Locri a sua volta fondò delle subcolonie sul versante tirrenico, probabilmente per la scarsezza delle terre agricole a sua disposizione. Sorsero dunque nei luoghi delle attuali città di Rosarno e Vibo Valentia le città di Medma e di Hipponion, quest’ultima di dimensioni quasi uguali alla madrepatria. Il fatto più clamoroso della storia locrese fu la battaglia della Sagra di cui già si è detto a proposito di Crotone e che avrebbe avuto luogo intorno al 540. Il fatto d’armi fu la conseguenza della presa di posizione di Locri a favore di Siri contro la coalizione achea capeggiata dai Crotoniati. Caduta Siri i Locresi, che si erano troppo esposti, si trovarono a dover fronteggiare da soli (o forse con il solo aiuto delle loro subcolonie di Medma e Hipponion) la potenza crotoniate. Fu allora che, secondo la testimonianza di Strabone, essi mandarono un’ambasceria per chiedere aiuto agli Spartani. Costoro, impressionati dalla fama dell’esercito crotoniate, se la cavarono con un espediente di tipo religioso, offrendo cioè l’appoggio dei loro eroici protettori Castore e Polluce. Il resto è noto. Centrotrentamila Crotoniati furono sbaragliati da diecimila Locresi (ma le cifre sono, è ovvio, tutt’altro che certe) grazie appunto all’intervento dei gemelli divini e dello stesso Aiace Oileo, il cui fantasma si diceva combattesse in prima linea in un punto appositamente lasciato vuoto nello schieramento locrese. Il duce crotoniate, vista quella falla nel fronte nemico, vi si gettò immediatamente, ma subito una lancia invisibile gli aprì le carni sul fianco. Dalla ferita si produsse una piaga purulenta che non rimarginava più. Interrogato in proposito, l’oracolo rispose che per guarirla bisognava recarsi nell’isola di Achille nel Ponto (mar Nero) dove era conservata la lancia del Pelide. La ruggine della punta di quella lancia, applicata alla ferita, l’avrebbe guarito. E così fu. Nel corso del V secolo continuò l’ascesa militare ed economica della città, che durante la guerra del Peloponneso si schierò apertamente con Siracusa e Sparta contro Atene, offrendo una base d’appoggio al contingente di cinquemila soldati lacedemoni condotti da Gilippo e destinati a spezzare l’assedio ateniese e a ridare così fiducia ai Siracusani. L’asse Locri-Siracusa sopravvisse alla guerra del Peloponneso, e al tempo del grande espansionismo di Dionisio I, l’unico leader greco d’Occidente che abbia avuto serie ambizioni territoriali, Locri divenne la potenza regionale che garantiva l’egemonia siracusana nel continente mantenendo il controllo su quasi tutte le colonie greche della penisola calabrese. Il matrimonio tra Dionisio e una nobildonna locrese rafforzò i rapporti di fedeltà reciproca. Durante la guerra tarantina, Locri sostenne Pirro ma in seguito entrò nell’orbita di Roma alla quale rimase sostanzialmente fedele. Visse da allora, inglobata nell’impero, una vita tranquilla e sonnolenta di cittadina di periferia fino a quando, nell’età carolingia, venne distrutta dalle incursioni dei pirati saraceni. Gli scavi archeologici a Locri hanno potuto solo parzialmente delineare la topografia della città antica. I resti sono infatti sepolti sotto coltivazioni intensive, e sarebbe necessario espropriare i terreni per condurre un’esplorazione completa e sistematica. Sembra che la città arcaica si sviluppasse secondo un piano ortogonale nella parte sudorientale fronte al mare, dove ancora sono visibili tratti delle mura in grossi blocchi di calcare e la grande porta marina. All’estremità nordovest si ergono tre alture sulle quali ancora restano i torrioni di difesa e le porte fortificate risalenti al V secolo a.C. Nel complesso la città aveva una pianta grosso modo rettangolare, più regolare verso il mare, più approssimativa verso i colli dell’interno, forse perché si adattava ai valloncelli dei corsi d’acqua che la fiancheggiavano. La lunghezza complessiva del lato più lungo è di circa 800 metri mentre la larghezza è di circa 400. Il rettangolo appare intersecato ai piedi delle colline da una via trasversale, il dromos, che divide la parte alta della città con i templi di Atena sul colle della Mannella e di Persefone, nella valle dell’Abbadessa. È da questo santuario che provengono i famosi ex voto fittili, di squisita fattura, noti con il nome di pinakes (quadri) di Locri. Tra gli oggetti votivi ricordiamo due elmi con dedica e un piccolo cippo in pietra con una iscrizione. In seguito, in quella stessa zona collinare, ma più a sud, nei pressi del dromos, sarebbe sorto anche il teatro, con la cavea ovviamente volta al mare. Il santuario fu spogliato dei suoi tesori da Pirro durante il suo viaggio di ritorno in Grecia, ma questo sacrilegio gli avrebbe attirato la maledizione che lo fece poi cadere per le vie di Argo. Nella parte meridionale, corrispondente al nucleo più antico, sorgeva l’Olympieion (tempio Marafioti) attorniato da abitazioni in massima parte ancora da scavare. Si suppone che sorgesse nell’area dell’agorà. Nella parte sudoccidentale della città ma fuori dalle mura, che in qualche modo deviano il proprio corso rettilineo per rispettarne la struttura, sorge la grande stoà con undici oikoi (camere) a forma di U che, dato il grande numero di oggetti votivi rinvenuti, è stata interpretata come area sacra. Una dedica ad Afrodite e altre testimonianze epigrafiche fanno pensare che si trattasse di un santuario dedicato alla dea dell’amore in cui probabilmente si praticava la prostituzione sacra. In prossimità del mare, ma questa volta all’interno delle mura, era situato il tempio in stile ionico di cui si può ancora vedere parte dell’alzato e da cui proviene un capitello ora esposto al Museo Nazionale di Napoli. Questo tempio sorgeva al centro di un più vasto recinto sacro, di struttura assai articolata, e costituiva un complesso sacro collocato su di un’area cultuale molto antica. Sono state infatti riconosciute nel tempio due fasi arcaiche risalenti agli inizi e alla fine del VI secolo. L’ultima fase, del 480, culminò nell’erezione del grande tempio ionico che comportò la distruzione del precedente. Da questo santuario provengono i due stupendi gruppi marmorei acroteriali che rappresentano i Dioscuri su cavalli sostenuti da Nereidi [vedi inserto], ora conservati al Museo Nazionale di Reggio Calabria e attribuibili a un rifacimento del tetto effettuato nel 420 a.C. Non si può non mettere in relazione questi simulacri con la tradizione che vuole i Dioscuri protagonisti della battaglia della Sagra a fianco delle truppe Locresi. Da Locri vengono altri stupendi capolavori come il trono Ludovisi in cui si vede Afrodite che esce dal bagno e il trono di Boston. Recentemente si è voluto mettere in dubbio l’antichità di questi capolavori, ma gli studiosi ne hanno ribadito con decisione l’autenticità riconoscendone l’inconfondibile finezza nel panneggio ionico e l’armonia delle figure, che richiamano il culto di Afrodite. Le numerose tavolette fittili sono prodotti dell’artigianato locale, realizzati in serie ma di fattura assai raffinata nella cura dei particolari, nella resa dei volti, delle mani, della gestualità dei personaggi. Ognuno di essi è per noi una finestra che ci consente non solo di ammirare la tecnica di una classe artigiana di assoluta eccellenza, ma anche di entrare nell’interno delle case locresi dell’epoca, con le loro suppellettili, i loro mobili, il loro vasellame. Il circuito complessivo delle mura era di circa 7 chilometri mentre la superficie su cui si estendeva il centro abitato è calcolata in circa 280 ettari, notevolmente inferiore quindi a quella delle principali città magnogreche. XXII. SIRACUSA. Il successo della colonizzazione greca in Sicilia fu di eccezionale portata tanto che, a partire dal V secolo, anche le sorti di Sparta e Atene, le maggiori potenze della madrepatria, sembrarono legate a quelle della grecità siciliana; un po’ come accadde per le potenze europee nei confronti dell’America nella prima metà del nostro secolo e durante le due guerre mondiali. Questo discorso vale in particolare per Siracusa e Agrigento che diventarono vere e proprie superpotenze tanto che per un certo periodo Siracusa fu la più grande città del mondo conosciuto e Agrigento, forse, la più ricca. La prima a svilupparsi fu Siracusa, già nota agli Eubei e, come sappiamo, fondata da Archia di Corinto che consultò l’oracolo insieme a Miscello, il gobbo che poi avrebbe fondato Crotone. Il dio chiese loro se preferissero la ricchezza o la salute: Miscello preferì la salute, Archia la ricchezza; così al primo fu detto di fondare Crotone che sarebbe divenuta famosa per la salubrità del clima e per la forza dei suoi atleti, al secondo di fondare Siracusa che avrebbe acquisito una eccezionale prosperità. Il primo insediamento di Siracusa fu creato nell’ isoletta di Ortigia (che ha rivelato strutture insediative dal neolitico all’età del bronzo), vicinissima alla costa e collegata in seguito alla terraferma con un istmo artificiale. Il nome Ortigia significa «isola delle quaglie» ed è probabile che, in effetti, fosse un punto di sosta del piccolo volatile lungo le rotte migratorie dal Nordafrica. L’isoletta presentava una situazione ideale potendo contare su due ottimi porti naturali, uno a nord e uno a sud, e avendo una ricchissima fonte di acqua dolce nella mitica Aretusa che ancora oggi sgorga a pochissima distanza dal mare. Si diceva che le sue acque fossero quelle del fiume Alfeo che lambisce il santuario di Olimpia in Elide e che, innamorato della ninfa Aretusa fuggita in Sicilia per non concedergli le sue grazie, riemergeva, dopo aver attraversato tutto il Mediterraneo, nell’Ortigia per ributtarsi subito in mare. A riprova di questo si narrava che una tazza gettata in acqua a Olimpia era riemersa a Siracusa nella fonte; e che, un’altra volta, la fonte era sgorgata rossa del sangue dei buoi immolati a Olimpia per un grande sacrificio. Se appare ingenuo l’aneddoto sull’amore tra un fiume dell’Elide e una fonte della Sicilia, non meno ingenua è la confutazione di Strabone: se la corrente di Alfeo attraversasse davvero tutto il mare, le acque di Aretusa non sarebbero certo potabili. A ogni buon conto l’acqua di Aretusa fu la provvidenza che consentì ai Corinzi di installarsi sull’Ortigia senza esporsi subito a uno sbarco in terra siciliana saldamente in mano agli indigeni. La presenza dei due ottimi porti e l’occupazione successiva della strategica piattaforma continentale della Epipole e poi dei fertilissimi territori circostanti fecero il resto. Dall’isola delle Quaglie la città si estese sulla terraferma dando vita ai quartieri di Achradina («il luogo del pero selvatico»), Tyche («la buona sorte») ed Epipole («il belvedere») e divenne scalo obbligato per tutte le navi in rotta verso la Sicilia occidentale e l’Africa. A soli duecento anni dalla fondazione, la città possedeva una flotta da guerra poderosa con equipaggi ben addestrati, e aveva riserve alimentari e di denaro imponenti (coniava gli stupendi decadrammi d’argento con il ritratto della ninfa Aretusa circondata dai delfini). L’Ortigia era circondata da mura e tutte le vie d’accesso terrestre ai quartieri di terraferma erano presidiate da arcigne fortezze e da agguerriti posti di guardia. Quando, nel 480 a.C, la sterminata armata di Serse si mosse dall’Asia per invadere la Grecia, Spartani e Ateniesi, che guidavano il fronte della resistenza antipersiana, interrogarono sul da farsi l’oracolo di Delfi; la voce del dio, controllata dalle nazioni del Centronord impossibilitate a resistere, proferì risposte terrificanti per scoraggiarli. Quelli allora stabilirono di affrontare da soli il conflitto e andarono a chiedere aiuto, fra gli altri, ai Siracusani. Questi avevano la più grande flotta del Mediterraneo e guidavano, alleati ad Agrigento e a Gela, la più poderosa coalizione greca di quei tempi. L’artefice di quella possente compagine politica e militare era Gelone, un ex ufficiale di cavalleria di Gela che, con un colpo di stato, aveva riportato a Siracusa gli aristocratici igamoroi) discendenti dei primi coloni, cacciati dal popolo e dai servi della gleba (kyllyrioi), di cui abbiamo già fatto menzione. Lasciata Gela in mano al fratello Ierone, Gelone si insediò a Siracusa dove ampliò la cerchia delle mura fino a includere tutta l’Achradina, il porto settentrionale e gli arsenali. Per popolare la «grande Siracusa», deportò gli abitanti di Camarina, una colonia siracusana che si era ribellata alla madrepatria, oltre a quasi la metà degli abitanti di Gela, e si legò agli Agrigentini con matrimoni incrociati tra la sua famiglia e quella di Terone, tiranno dì Agrigento. Quando arrivarono i delegati greci a chiedere aiuto contro la Persia di Serse, Gelone mirò in alto: era pronto a prendere il largo con le sue duecento navi da battaglia ma voleva il comando supremo della guerra. L’orgoglio spartano s’inalberò a quella richiesta e Gelone disse allora che si accontentava dei galloni di ammiraglio in capo delle forze navali confederate; gli Ateniesi, che avevano messo in mare con uno sforzo enorme cento triremi, gioielli della tecnica più avanzata, potevano accettare di prendere ordini dal navarco spartano Euribiade (tanto gli equipaggi obbedivano al loro comandante ateniese Temistocle) ma non da un provinciale come Gelone. Non se ne fece nulla: i Greci se la cavarono lo stesso da soli sbaragliando i Persiani a Salamina, a Platea e a Micale (480 e 479 a.C), mentre Gelone si trovò a dover risolvere problemi forse non minori. La potenza impressionante della sua coalizione gli aveva attirato notevoli inimicizie tra gli altri Greci delle colonie: i Selinuntini, per cominciare, furenti per come Gelone aveva annientato la loro madrepatria Megara Iblea, si allearono con i Cartaginesi, e Anassila, tiranno di Reggio, fece altrettanto perché Agrigento si era presa Imera sua alleata. Furono proprio Imera, Reggio e Selinunte a chiamare i Cartaginesi nella Sicilia orientale e la rabbia di Anassila di Reggio giunse al punto che consegnò al comandante cartaginese, per garantirgli la sua fedeltà, i suoi figli in ostaggio. L’armata punica, al comando di Amilcare, sbarcò a Palermo verso la fine dell’estate del 480 e dopo tre giorni di riposo marciò lungo la costa verso Imera, seguita di conserva dalla flotta. Era spaventosa, un’orda immensa di guerrieri provenienti da tutto il Mediterraneo, una legione straniera cartaginese: Spagnoli, Balearici, Sardi, Mori, Berberi, Campani, Bruzi. Giunti davanti alla città presidiata dagli Agrigentini, i Cartaginesi si trincerarono e bloccarono la città da nord e da ovest, da dove cioè potevano arrivare gli aiuti. Gli Agrigentini, che avevano pensato di farcela da soli, tentarono una sortita ma furono travolti e ricacciati dentro le mura. Al calar della notte spedirono a Siracusa un drappello di cavalieri per chiedere aiuto a Gelone, il quale si mosse immediatamente alla testa di cinquantamila fanti e diecimila cavalli. Strada facendo intercettò un messaggio di Amilcare: fissava l’appuntamento con la cavalleria selinuntina che doveva giungere di rinforzo e così, al momento convenuto, fu invece la cavalleria siracusana che irruppe nel campo nemico seminando lo scompiglio. Uscirono allora anche gli Agrigentini per unirsi agli alleati e tutti insieme avanzarono contro il fronte punico che intanto era riuscito a schierarsi. La battaglia durò tutta la giornata con continui assalti finché i Greci riuscirono a travolgere la fanteria pesante africana che, per non cedere un palmo di terreno, si era incatenata scudo a scudo. Il comandante cartaginese Amilcare continuava a sacrificare vittime su vittime perché i suoi dèi fenici rovesciassero le sorti dello scontro, ma invano. Al calar del sole il terreno era disseminato dei corpi senza vita dei suoi guerrieri, gli ufficiali erano passati a fil di spada, la flotta ardeva in un rogo immane alzando vortici di fumo e faville verso il cielo che s’incupiva. Allora, memore di un antico e tremendo rito della sua gente, votandosi egli stesso agli dei della vendetta, Amilcare si gettò tra le fiamme dove ardevano i resti delle vittime. I Greci trionfavano a oriente e a occidente contro i più forti awersari del mondo e dopo pochi anni avrebbero ripetuto il successo anche a nord, dove gli Etruschi vennero sbaragliati nelle acque di Cuma. Selinuntini e Imeresi chiesero la pace e la ottennero a miti condizioni, la Sicilia greca visse settant’anni senza più l’incubo della guerra ma nella megalopoli africana il rogo che aveva divorato il corpo e l’anima di Amilcare aveva acceso un rancore che non si sarebbe spento più. Alla morte di Gelone, ai cui funerali partecipò l’intera cittadinanza siracusana, prese il potere il fratello Ierone che proseguì in una politica di potenza rifondando Catania e Leontini. Nel 474 a.C. inviò la sua flotta nel golfo di Napoli, in aiuto a Cuma, sbaragliando gli Etruschi e mettendo in crisi, da quel momento, i loro domini a sud del Tevere. Di questa grande vittoria resta l’eco nei versi di Pindaro ma anche nella dedica di un elmo etrusco di tipo Negau ritrovato negli scavi di Olimpia e oggi esposto nel museo di quella città. L’iscrizione dice: Ierone, figlio di Dinomene, e i Siracusani Alla morte di Ierone prese il potere il terzo dei fratelli, Trasibulo, che però fu deposto da una insurrezione democratica ed esiliato; finì tranquillamente i suoi giorni a Locri. I Dinomenidi furono cacciati anche da Catania - ribattezzata Etnea - che recuperò così il suo nome originario. Nel 451 i Siracusani dovettero intervenire in aiuto di Agrigento minacciata dall’assalto del capo indigeno Ducezio che aveva già distratto le piazzeforti di Inessa e Morgantina e si accingeva a investire Motion. Non riuscirono a impedire la caduta della fortezza ma l’anno successivo batterono Ducezio in campo aperto restituendo Motion agli alleati Agrigentini. Il capo siculo entrò di nascosto a Siracusa e chiese clemenza in atteggiamento di supplice ai piedi di un altare. Gli fu concessa, a patto che andasse a vivere in esilio a Corinto. Ducezio finse di accettare ma poi ritornò, colonizzando una località di nome Kalé Akte con una popolazione mista di Siculi e Peloponnesiaci che aveva condotto con sé dall’esilio, singolare esempio di imitazione delle operazioni coloniarie greche da parte di un indigeno. Curiosamente non gli mancò nemmeno l’istruzione di un oracolo, come sempre in questi casi. Siracusa continuò così la sua espansione nell’interno rendendo tributarie le popolazioni sicule che però mantennero una propria coscienza nazionale, se è vero che durante la guerra del Peloponneso dettero il loro appoggio agli Ateniesi aggressori di Siracusa. Fu in questa occasione che la Sicilia venne coinvolta nel più vasto conflitto che fosse mai divampato fra gli stati della madrepatria ellenica. Atene si schierò con i nemici sicelioti di Siracusa, che appoggiava i suoi antagonisti Spartani. Il ruolo della potenza siracusana era tale che ad Atene si ritenne vitale eliminarla per poter prevalere. Non sembra che sia mai esistita tra i Greci d’Italia alcuna forma di ostilità tra gruppi in rapporto alle origini regionali: Dori contro Ioni oppure contro Eoli. La comune origine achea non impedì, viceversa, ai Crotoniati di sterminare i Sibariti o, peggio, ai Selinuntini e ai Reggini, Greci, di allearsi con i Cartaginesi contro Siracusani e Agrigentini. D’altro canto l’anno della gloriosa vittoria di Imera, il 480 a.C, i Tebani furono alleati degli invasori persiani contro gli Spartani di re Leonida e contro i suoi alleati greci alle Termopili. Eppure ci fu un momento in cui la propaganda politica cercò di inventarsi una sorta di razzismo che opponesse Ioni a Dori: fu durante la guerra del Peloponneso (431-404), che vide opposte in un conflitto interminabile le due superpotenze della Grecia, Sparta e Atene, fino alla sconfitta di quest’ultima. Nell’ultima fase della guerra Atene cercò di stroncare la forza di Sparta colpendola nelle sue alleanze oltremare, togliendole in particolare l’appoggio di Siracusa, da sempre legata a doppio filo alla città lacedemone proprio in virtù delle comuni origini doriche. L’idea fu di Alcibiade, nipote del grande Pericle, giovane più ricco di ambizioni che di effettive capacità di leader, ma chi dovette sobbarcarsi all’onere di uno scontro durissimo e sfortunato furono altri: Lamaco, buon generale ma di scarsa fantasia, e Nicia, contrario alla guerra, irresoluto e superstizioso. Alcibiade infatti aveva appena toccato la terra di Sicilia che un dispaccio del governo lo aveva richiamato in patria per subire un processo sulla base dell’accusa gravissima di empietà. La mattina della partenza dell’«armada» ateniese per la Sicilia erano state trovate mutilate tutte le erme della città, cippi sormontati dal busto del dio Ermes e forniti quasi sempre di un vistoso attributo fallico. Un’offesa tanto sacrilega agli dèi proprio nel momento della partenza della spedizione poteva rischiare di compromettere tutto, per cui fu subito istruito un processo per scovare il colpevole e punirlo onde placare la collera degli immortali. Non sappiamo quanto consistenti fossero gli indizi a carico di Alcibiade, ma qualcuno giurò che il giovane non era nuovo a imprese del genere dato che aveva celebrato in casa sua una parodia dei misteri eleusini. Alcibiade, comunque, non volle rischiare e sparì dalla circolazione passando poi per un certo periodo dalla parte del nemico. Intanto l’esercito ateniese perdeva un anno per l’allestimento di una base a Catania, dando ai Siracusani tutto il tempo di rifornirsi e di fortificarsi. Quando finalmente scattò il blocco, la città era ampiamente preparata per resistere a un lungo assedio. Accampati in una zona bassa e paludosa gli assedianti, privi di ripari, si trovarono ben presto a mal partito e la flotta, senza manutenzione, marcì lentamente nelle acque del porto Piccolo. Siracusa, che pure fu sul punto di capitolare, ricevette rinforzi da Sparta e fu in grado di contrattaccare. Gli Ateniesi stremati dalle febbri, privi ormai di collegamento, demoralizzati, cercarono di salvarsi in direzione di Catania ma furono circondati al guado dell’Assinaro e sbaragliati. Il fiume scorreva rosso del loro sangue mentre si dibattevano nel fango tentando di bere un sorso d’acqua sotto il tiro incrociato degli arcieri nemici. I superstiti furono rinchiusi nelle orride Latomie, le cave di pietra che si aprivano in un colle dietro il teatro [vedi inserto]. Oggi sono uno dei luoghi più suggestivi d’Italia e sul fondo ospitano un giardino fiabesco perché la volta della collina, svuotata dall’interno, è crollata per i terremoti, e il cielo sì affaccia su quel paesaggio divenuto solare. Nelle pareti si aprono enormi squarci, grotte umide e cupe, crepacci; piccoli specchi d’acqua raccolgono il gocciolio delle volte immense in conche sabbiose e calcaree. È difficile immaginare l’oppressione di un inferno sotterraneo e completamente buio: impalcature alte quindici, venti metri, un continuo polverio prodotto da migliaia di scalpelli al lavoro, il rumore ossessivo dei martelli, l’umidità fortissima, il fetore dell’urina e degli escrementi di migliaia di larve umane condannate a marcire lentamente tagliando pietre per le mura e i palazzi della città. Nicia e Lamaco furono passati per le armi, e dei prigionieri non si salvò praticamente nessuno (un’eccezione fu fatta, pare, per chi sapeva declamare versi di Euripide). Siracusa aveva umiliato la più grande potenza navale e mercantile del mondo di allora conquistando un prestigio immenso, mentre Atene praticamente non si risollevò più da quel disastro in cui aveva perso trentamila dei suoi uomini migliori e oltre trecento navi da guerra. Fiera della vittoria, Siracusa iniziò una politica espansionistica che portò alla costituzione di un vero e proprio impero esteso, per un certo periodo, a quasi tutta la Sicilia orientale e buona parte della Calabria. I suoi mercantili fecero vela per l’Adriatico del Nord in cerca di nuovi mercati e la sua possente squadra da guerra mantenne per un certo periodo unificata buona parte della grecità occidentale. Il momento della resa dei conti con Cartagine, però, era ormai vicino e la scintilla fu una contesa di confine tra Segesta, una città degli Elimi, e Selinunte, estrema punta avanzata dei Greci di Sicilia. Selinunte attaccò con decisione respingendo i Segestani e questi ultimi chiamarono in aiuto i Cartaginesi. Non sappiamo se il governo della città africana avesse davvero in mente un’operazione radicale contro i Greci di Sicilia o se il comandante designato abbia forzato la mano al suo governo. Il duce cartaginese Annibale era il nipote di Amilcare, il comandante sconfitto a Imera ottant’anni prima e bruciato vivo tra le fiamme del rogo sacro da lui stesso acceso. Le fonti lo dipingono come assetato di vendetta e pieno di odio per i nemici di sempre e, visto come condusse la campagna, la testimonianza non sembra infondata. Annibale sbarcò a Motya e poi a Trapani con un esercito immenso fatto di Libi, Mori, Spagnoli e Balearici. Questi ultimi, in particolare, erano noti per la ferocia e per la tremenda aggressività sia in battaglia sia dopo. L’armata, fiancheggiata da una flotta possente, prese subito la via del Sud dirigendosi su Selinunte. I Selinuntini mandarono immediatamente corrieri in tutta la Sicilia e in particolare a Siracusa invocando aiuto, e ottennero dovunque assicurazione di pronto intervento. A Siracusa il personaggio più promettente era in quel momento un giovane generale di nome Dionigi, il futuro tiranno, un uomo astuto e determinato su cui circolò nell’antichità una ricca aneddotica fra il tetro e il grottesco. L’uomo, certo privo di scrupoli, era comunque un leader di prima grandezza con le doti sia militari sia politiche per aspirare a una posizione egemonica nel Mediterraneo centrale. Arruolò immediatamente quanti più uomini potè ma capì nel contempo, dalla piega che presero gli avvenimenti, che quell’Annibale era sbarcato con la precisa intenzione di mettere in ginocchio tutti i Greci dell’isola e di vendicare l’umiliazione di Imera e la morte di Amilcare. Annibale attaccò fulmineo e Selinunte non ebbe il tempo né di attendere i rinforzi né di prepararsi a resistere. Le mura vennero sbriciolate da mostruosi arieti manovrati da centinaia di uomini e l’esercito punico si riversò all’interno da più punti. I Selinuntini, consci che tutto era perduto e che le loro famiglie erano alla merce dei barbari, si batterono fino all’ultimo. Arretrarono dalle mura verso l’interno facendo argine con gli scudi all’imbocco di ogni strada sotto lo scrosciare della «grandine balearica», la micidiale pioggia di pietre scagliata dai frombolieri delle Baleari. Gli ultimi morirono con la spada in mano sulle soglie delle loro case tra le urla delle donne e dei bambini, poi i mercenari di Annibale ebbero in mano la città. Molti degli abitanti furono arsi vivi dentro le loro case o soffocati dal fumo o stritolati sotto il peso dei tetti che crollavano. Vecchi e bambini furono trucidati senza pietà e i mercenari celti percorsero la città ostentando, secondo il loro uso, macabri trofei: le teste dei nemici conficcate su picche, le mani mozze legate a coppie alle ghiere delle lance. Le donne e le fanciulle in età da marito furono alla mercé della marmaglia per giorni e notti subendo ogni forma di oltraggio; i templi furono spogliati, le case saccheggiate. Furono massacrate sedicimila persone e cinquemila ridotte in schiavitù. Poi Annibale marciò su Agrigento. La fine di Selinunte, consumata in soli nove giorni, aveva riempito di orrore il resto della Sicilia greca. Da Siracusa marciava un’armata di rinforzo, la flotta di Dionigi avanzava minacciosa e diecimila mercenari campani fiancheggiavano i giovani di Agrigento che presidiavano lo sterminato perimetro delle mura. Annibale si presentò davanti alla città dispiegando il suo enorme potenziale bellico. Decine di migliaia di mercenari manovravano nella piana mentre avanzavano, gemendo e cigolando, immense macchine da guerra. Il comandante diede ordine di demolire le lussuose tombe agrigentine (alcune custodivano persino i resti di famosi cavalli da corsa) e di usare il materiale per costruire le rampe d’assalto alle mura. Riportiamo nelle prossime pagine, nel profilo che abbiamo tracciato di Agrigento, le vicende drammatiche che seguirono e che culminarono, dopo fasi alterne e nonostante gli sforzi di Siracusa, con la caduta e la distruzione della città (405 a.C). Il terrore dilagò per tutta la Sicilia e a Siracusa Dionigi capì che l’ultima partita, come ai tempi della guerra del Peloponneso, si sarebbe giocata sotto le mura della sua città. Nelle fucine del quartiere industriale si lavorò giorno e notte e i migliori architetti progettarono il più formidabile sistema di fortificazioni che fosse mai stato costruito: una vera e propria Maginot dell’antichità. Sessantamila schiavi vennero reclutati per trasportare centinaia di migliaia di blocchi, gigantesche impalcature sorsero dovunque, macchine enormi, slitte e argani trascinarono dalle cave decine di migliaia di metri cubi di materiali sui cantieri di costruzione. Nessuna coercizione fu adottata sui lavoratori ma Dionigi istituì una specie di sistema a cottimo. Agli schiavi vennero dati generosi incentivi in cibo e denaro e il compenso cresceva in proporzione al lavoro svolto. Fu loro promessa la libertà e l’immensa opera sorse quasi improvvisamente come un miracolo. Gli ultimi 5 chilometri furono alzati e completati in soli sessanta giorni. Ma la struttura più straordinaria fu realizzata da un ignoto genio dell’architettura militare in un punto nevralgico a nordovest della cerchia: il castello Eurialo [vedi inserto]. Una trappola ingegnosa, concepita non solo per respingere il nemico ma, una volta che fosse penetrato oltre le prime difese, per invitarlo a entrare attraverso una serie di aperture, prima ampie e poi sempre più strette, tortuose, per frantumarlo, disperderlo, atterrirlo, costringerlo in un labirinto diabolico dal quale sarebbe emerso improvvisamente sotto il tiro incrociato di tre baluardi, si sarebbe di nuovo inabissato in un baratro, per poi essere convogliato in una spianata, accecato d’un tratto nel barbaglio della pietra bianca sotto il sole, sgomentato con una serie di piani sfalsati e di trompe-l’oeil, perché cercasse scampo dove era preparata l’ultima trappola mortale. Sottoterra era scavato un intrico di gallerie per spostare, non visti, interi reparti di cavalleria da un punto all’altro della cerchia e far poi riemergere improvvisamente i difensori a cavallo come furie infernali. I Cartaginesi sembravano inarrestabili: presero Messina infilando, con un provvidenziale colpo di Ponente, tutta la flotta nel porto. Anche i venti del cielo sembravano soffiare dalla loro parte. Non restava ormai che Siracusa e poi tutti gli altri si sarebbero arresi. La flotta riuscì a sbarcare nel porto Grande, ma la formidabile cintura fortificata, nuova di zecca, non venne nemmeno scalfita dagli attacchi e la stessa maledizione che aveva distrutto gli eserciti Ateniesi dieci anni prima si abbattè anche sull’armata punica che fu presto aggredita da una pestilenza e ridotta in poche settimane allo stremo. Il comandante cartaginese portò via per mare i superstiti prima che i Siracusani li facessero a pezzi. Sbarcò a Cartagine con i suoi uomini laceri e macilenti tra due ali di folla attonita e muta. Dionigi proclamò a Siracusa la riscossa e radunò sotto le sue bandiere i profughi superstiti di Imera, Messina, Agrigento, Selinunte: alcune migliaia di guerrieri schiumanti di rabbia e di odio schierati in linea insieme ai Siracusani, fiancheggiati da decine di squadroni a cavallo. Si riprese in pochi mesi tutta la Sicilia e si presentò, l’anno dopo, davanti a Motya, la città-isola imprendibile. Una nuova flotta cartaginese si parò a difesa ma dalla costa sicula centinaia di macchine sconosciute, progettate dagli ingegneri militari di Dionigi, la crivellarono di colpi scagliando arpioni e dardi, proiettili incendiari. Quindi Dionigi costruì un molo fino all’isola perché i Motyei avevano interrotto la strada che la collegava alla terraferma e vi fece avanzare le torri e le macchine ossidionali. I Motyei sapevano che cosa li attendeva e opposero una strenua resistenza, ma alla fine furono respinti dalle mura e incalzati strada per strada, casa per casa, nell’intrico della città vecchia. I guerrieri siracusani, ma soprattutto imeresi, agrigentini, selinuntini, con ancora negli orecchi le grida dei loro figli sgozzati e delle loro donne violate, si abbandonarono alla più spaventosa carneficina. La città, ridotta a un ammasso di ruderi, non risorse mai più. Nel culmine dell’azione e sotto il grandinare dei dardi, qualcuno aveva trascinato dalla vicina area sacra una statua di marmo a ridosso di un muro e l’aveva coperta di detriti: un’azione disperata e difficile per noi da capire. Quella statua fu trovata alcuni anni fa dagli archeologi di Palermo ed è ora nota come l’Efebo di Motya, detto anche «Il giovane in tunica» [vedi inserto]. Sfregiata a martellate sul volto e sul sesso, strappata dal suo piedistallo e trascinata nella polvere, doveva rappresentare qualcuno che i Greci odiavano visceralmente e che era invece per i Motyei un eroe nazionale. L’uomo dai tratti idealizzati, avvolto nell’abito nazionale fenicio, e in posizione superba, da vincitore, forse era Annibale di Gisgone, il vincitore di Selinunte, o, addirittura, il suo avo Amilcare, immolatosi nel fuoco a Imera per impetrare la vittoria della sua nazione. Il dominio sul mare consentì a Cartagine di mantenere la sua presenza in Sicilia, e più tardi di contrattaccare. Sappiamo che vi fu un’altra guerra, che durò dal 382 al 378, in cui Dionigi venne sconfitto e fu costretto a pagare una pesante indennità. Prima di morire, tuttavia, riuscì a riprendersi Erice e Selinunte e a porre le premesse per la pace che fu poi siglata dal figlio Dionigi II. Il regno di Dionigi II coincise con un lungo periodo di anarchia e decadenza nel corso del quale sarebbero avvenuti due discussi viaggi del filosofo Platone volti a ispirare all’imbelle e corrotto sovrano i principi del buon governo. Non ebbero, naturalmente, alcun esito, e la situazione continuò a deteriorarsi finché un gruppo di oppositori del tiranno decise di chiedere aiuto a Corinto, madrepatria di Siracusa. La città dell’Istmo decise - stranamente - un intervento, rompendo una tradizione secolare di non ingerenza negli affari interni di Siracusa, seguita perfino durante la guerra del Peloponneso, e inviò un aristocratico di nome Timoleonte che pare avesse assassinato il fratello quando si era reso conto che aspirava alla tirannide. Secondo Plutarco, che ne parla nelle Vite parallele (Titnol, 7) i notabili di Corinto, congedandolo, gli avrebbero detto: «Saremo disposti a crederti un tirannicida se combatterai bene, un fratricida se combatterai male». È ancora oggetto di discussione il motivo per cui Corinto, che da tempo era ormai solo il simulacro dell’antica potenza, avrebbe deciso una simile avventura, inviando un uomo in età non più verde, con pochi mezzi e con scarsissime forze, ma la penuria di informazioni in nostro possesso e la lacunosità della nostra fonte principale, Diodoro Siculo, ci impediscono di dare una risposta soddisfacente. L’avventura di Timoleonte fu stupefacente: in sei mesi cacciò Dionigi dall’Ortigia, sconfisse i tiranni in varie città della Sicilia e li eliminò con esecuzioni spietate risparmiando solo Andromaco, padre dello storico Timeo e suo primo alleato quando era sbarcato a Taormina. In un secondo momento invase il territorio cartaginese e, benché a capo di forze di gran lunga inferiori di numero, sbaragliò l’esercito punico al fiume Crimiso (l’attuale Belice) costringendo i Cartaginesi entro i confini imposti dalla prima guerra vittoriosa di Dionigi I. Ormai in età molto avanzata e quasi cieco, Timoleonte abbandonò spontaneamente il potere, non prima però di aver riformato la costituzione siracusana in senso moderatamente oligarchico. Infatti, benché la città fosse stata governata da due tiranni, continuava stranamente a conservare la vecchia costituzione democratica. Durante il suo governo la Sicilia greca rinacque, diverse città furono ricolonizzate, ampi territori furono ripopolati e i terreni rimessi a coltura. Megara Iblea fu rifondata ex novo, Agrigento e Gela, ridotte a borghi insignificanti, rinacquero a nuova vita. Nel 317 un avventuriero di nome Agatocle prese il potere a Siracusa appoggiandosi alle classi meno abbienti, cui promise la distribuzione di terre e la cancellazione dei debiti, ed eliminando nel sangue l’opposizione aristocratica. La sua politica aggressiva ed espansionistica lo portò presto in rotta di collisione con Cartagine, e quando la città africana appoggiò il partito oligarchico ad Agrigento, Messina e Gela, Agatocle invase la Sicilia occidentale. Abbandonato dalla maggior parte delle città greco-siceliote e costretto dai Cartaginesi dentro le mura di Siracusa, rispose con un colpo di incredibile audacia. Invase l’Africa e, sfruttando la sorpresa dello sbarco inaspettato, avanzò di successo in successo fin sotto le mura della città nemica trincerandosi nella baia di Tunisi mentre suo fratello, lasciato a presidiare Siracusa, riusciva a sconfiggere e a catturare il comandante cartaginese Amilcare. La rivolta di Agrigento e di altre città siceliote lo costrinse a tornare e a stipulare la pace con i Cartaginesi sulla base della situazione precedente l’inizio delle ostilità, lasciando loro Segesta e Selinunte. Pacificata la Sicilia orientale, Agatocle - imitando i sovrani ellenistici che si erano spartiti l’impero di Alessandro - si proclamò re e diede vita a una fase fortemente espansiva della politica estera siracusana. Occupò Leucade e Corcira e diede la figlia Lanassa in sposa a Pirro, re dell’Epiro. Morì assassinato nel 289 a.C. Seguì un altro periodo di anarchia e poi di nuovo la guerra contro Cartagine. Quando Pirro sbarcò a Taormina, Siracusa si schierò dalla sua parte e mise a sua disposizione la flotta permettendogli di sfidare così i Cartaginesi con possibilità di successo. In soli due anni Pirro cacciò i Cartaginesi da tutta la Sicilia occidentale con la sola eccezione dell’imprendibile fortezza di Lilibeo, ma i suoi metodi troppo autoritari gli alienarono presto la simpatia della maggior parte degli alleati che lo costrinsero, di fatto, ad abbandonare l’isola. Poco dopo la sua partenza, a Siracusa prese il potere Ierone, un militare suo vecchio sostenitore, che segnò con le proprie scelte politiche gli ultimi anni della potenza siracusana. Combattè i mercenari campani, detti Mamertini, che si erano impadroniti di Messina, ma quando questi chiamarono in loro soccorso i Romani, si schierò dalla parte di Cartagine, la nemica secolare. Non gli ci volle molto però a capire da che parte spirava il vento, e dopo un solo anno dall’inizio della prima guerra punica passò dalla parte dei Romani a cui rimase fedele per tutta la durata del suo lungo regno, che si concluse con la sua morte nel 215 a.C. Il successore Ieronimo fu quasi subito assassinato e il controllo della città venne assunto da due agenti di Annibale, due greci che avevano però vissuto a Cartagine e avevano sposato donne cartaginesi. I Romani reagirono stringendo d’assedio la città, ma il console Marcello non riuscì a ottenere alcun successo contro le formidabili fortificazioni siracusane, difese, per di più, dalle macchine da guerra inventate dal famoso scienziato Archimede. Non sappiamo quanto vi sia di vero nella descrizione dei suoi «specchi ustori» che avrebbero concentrato i raggi del sole sulle navi romane incendiandole, o sulle macchine con cui sollevava le navi dal porto sfracellandole sulle rocce, ma è certo che la sua fama era tale da alimentare, quantomeno, queste leggende. A quel punto Siracusa era la chiave di volta di tutta l’operazione annibalica in Italia e la sua tenuta avrebbe potuto far pendere la bilancia della guerra definitivamente dalla parte di Cartagine, permettendo la saldatura fra la madrepatria e l’armata del suo generale imbottigliata nell’Italia meridionale. Nella primavera del 211 a.C. il generale punico Bomil-care, inviato a Cartagine, fece ritorno con una flotta di centotrenta navi da guerra e settecento navi onerarie cariche di rifornimenti e vettovaglie, e costituì una base a Era-clea Minoa da cui rifornire gli assediati, ma la situazione meteorologica non gli permise di doppiare capo Pachino. Marcello intanto, temendo che la flotta di Bomilcare lo bloccasse nel porto, uscì al largo e gli andò incontro. Bomilcare, non osando giocarsi l’esito della guerra in uno scontro in mare aperto, rimandò a Cartagine la flotta mercantile e si sganciò dalla squadra romana puntando verso lo Ionio in direzione di Taranto. Il comandante siracusano Epicida, che gli era venuto incontro con le sue navi, spiazzato da quella mossa incredibile e non sapendo che fare, si ritirò ad Agrigento presso il campo cartaginese per consultarsi con gli alleati rimasti. A Siracusa intanto scoppiò una sommossa innescata da un gruppo di Siculi che si erano introdotti in città con il pretesto di una mediazione con i Romani. Vennero eletti nuovi strateghi che cercarono di venire a patti con Marcello ma al loro ritorno vennero uccisi dai mercenari e dai più accesi fautori del partito antiromano. Furono eletti altri strateghi ma uno di loro, di nascosto, si accordò con Marcello. Il piano si svolse con assoluta precisione: i Romani finsero un attacco contro l’Achradina, richiamando in quel settore la maggior parte dei difensori; nello stesso momento il traditore apriva le porte dell’Ortigia che cadde quasi senza colpo ferire. Poi fu la volta degli altri quartieri della città, che furono abbandonati al saccheggio con la sola eccezione delle case degli amici di Roma. La caduta di Siracusa di fatto significò la caduta di tutta la Sicilia, che da allora sarebbe divenuta una provincia per il resto dei suoi giorni. Il bottino fu immenso, la città fu spogliata delle sue riserve d’oro e d’argento e di centinaia di opere d’arte, bronzi, marmi, dipinti, che furono inviati a Roma per adornare le piazze, i portici e i templi della città. Anche Archimede morì in quei giorni benché Marcello avesse dato ordine tassativo di risparmiarlo. Si dice (Livio, XXVI, 31; Valerio Massimo, VIII, 7,7) che un legionario facesse irruzione in casa sua mentre era intento a tracciare una formula, e che quando questi gli chiese chi fosse lo pregò di non disturbarlo: il legionario, infuriato, lo decapitò. Moriva con lui l’ultimo grande scienziato dell’Occidente greco. Un secolo e mezzo dopo Cicerone, che ricopriva l’incarico di questore alle dipendenze del governatore della Sicilia Peduceo, compì una vera e propria ricerca archeologica e ne individuò la tomba coperta di rovi e mezzo sepolta nel fango in un cimitero abbandonato. La topografia di Siracusa è nel complesso abbastanza conosciuta, anche se la città non ha mai cessato di vìvere dalla sua fondazione, e dunque i quartieri e gli edifici della parte antica giacciono sotto gli strati urbanistici moderni. Questo discorso vale soprattutto per l’Ortigia, che fino alla fine dell’Ottocento era la sola zona abitata, mentre gli antichi quartieri di terraferma sono stati oggetto dell’espansione edilizia solo nel corso del nostro secolo. Occasioni irripetibili sono quindi andate perdute (come nel caso di Taranto), per conoscere e salvare l’antico tessuto urbano della città. Sappiamo che il nucleo primitivo, abitato fin dall’età neolitica, fu l’isoletta di Ortigia, che in un primo tempo rispondeva pienamente alle esigenze di una fondazione arcaica coincidente, in sostanza, con i punti di approdo delle rotte commerciali dell’età del bronzo. La successiva costruzione dell’istmo artificiale che collegava l’isola alla terraferma consentì di occupare via via le alture vicine e soprattutto il vasto altopiano sovrastante, che divenne una specie di enorme acropoli-fortezza vigilata nella sua estremità occidentale dal castello Eurialo. Questo processo fu graduale, ma il grande impulso di espansione sulla terraferma si verificò soprattutto a partire dalla metà del VI secolo a.C, un periodo che coincide con lo sviluppo dell’urbanizzazione nel resto dell’Italia, a Roma e nelle città etrusche del Centro e perfino del Nord. Le fortificazioni dell’Epipole e la costruzione dell’Euria-lo furono opera, come abbiamo visto, di Dionigi I verso la fine del V secolo, e rispondevano alle esigenze di una città che, non potendo più da tempo vivere solo di commercio per la concorrenza sia di Cartagine sia degli altri centri greci della penisola italiana, doveva garantirsi un dominio territoriale e la capacità di controllare, anche militarmente, le risorse agricole e le materie prime dell’interno. Questo cambio di vocazione dell’intero complesso urbanistico ridusse parzialmente le caratteristiche dell’Ortigia, che divenne cuòre politico ma anche religioso della città. Ospitò infatti i palazzi dei tiranni con i loro presidi di mercenari, e i santuari. Là sorse il tempio di Atena, oggi inglobato nella cattedrale, e là sorse il tempio di Apollo di cui è visibile parte dell’alzato, frutto di restauro, con alcune colonne in stile dorico. Scavato fra il 1938 e il 1942, il tempio si rivelò un edificio lungo 58 metri, con sei colonne sul lato breve e diciassette sul lato lungo. Datato agli inizi del VI secolo, è forse il più antico di tutta la Sicilia. Lo scavo della cella ha evidenziato la presenza di due colonnati interni che la dividevano in tre navate. Pochi i resti dell’ornato che era in terracotta policroma e di cui si conservano alcuni frammenti nel museo archeologico. Il tempio di Atena, inglobato nel duomo, fu costruito probabilmente dai Dinomenidi verso l’inizio del V secolo. Era di ordine dorico, periptero esastilo, con sei colonne sul lato breve e quattordici sul lato lungo (è evidente la differenza di proporzioni con quello, più arcaico, di Apollo in cui prevale la dimensione longitudinale). Era ricchissimo e adorno di ogni meraviglia; le porte erano in avorio e oro e all’interno della cella una serie di affreschi rappresentava le imprese di Agatocle. Sulla sommità del tempio, forse a mo’ di acroterio, scintillava lo scudo dorato della dea che con il suo bagliore serviva di riferimento ai naviganti. Gli scavi del 1963 hanno rivelato nei sotterranei del palazzo municipale, a poca distanza dal duomo, i resti di un tempio ionico forse dedicato ad Artemide. Più antico del tempio di Atena, misurava 59 x 25 metri, ma non fu mai terminato, forse a causa dei rivolgimenti che portarono al potere le classi politiche inferiori all’ombra della tirannide di Gelone. L’agorà si estendeva nella parte più bassa e pianeggiante del quartiere di Achradina, mentre nel quartiere di Neapolis, tra gli edifici pubblici, spiccava il teatro, probabilmente ideato nel V secolo da un architetto di nome Demokopos [vedi inserto]. Scavato nella viva roccia della rupe su cui insistevano le fondazioni delle mura dell’Epipole e si appoggiava alle cave delle Latomie che si dice facessero da cassa armonica. Poteva ospitare quindicimila spettatori e ancora oggi è utilizzato dall’Istituto nazionale del dramma classico per le sue rappresentazioni. Si vuole che qui andassero in scena per la prima volta I Persiani di Eschilo (il poeta, com’è noto, morì a Gela), e certamente vi furono rappresentate anche le numerose tragedie scritte da Dionigi I. Sembra che fosse utilizzato anche per le assemblee popolari. Fra il teatro e l’anfiteatro romano, in direzione nordest, si colloca l’ara di Ierone II, enorme altare sullo stile di altri esempi di età ellenistica destinato alle cerimonie pubbliche sacrificali della città. Era lungo uno stadio (180 metri ca) e aveva due accessi da due rampe laterali, una delle quali, la settentrionale, era fiancheggiata da due telamoni. È conservata dell’ara solo la parte inferiore tagliata nella viva roccia. La parte superiore, costruita da un vasto paramento in opera quadrata, fu demolita in età rinascimentale. Le mura greche sono conservate per ampi tratti del circuito originale, e in fondo a via Teracati, nel settore nord, è stato identificato uno degli ingressi principali della città antica, una porta urbica a sei fornici che dava verso Catania. All’ingresso del quartiere della Epipole, nella punta nordoccidentale, sorge il castello Eurialo il cui nome originale pare fosse Eurvelos («chiodo dalla testa larga»), che conserva una gran parte delle strutture originali solo parzialmente modificate in età bizantina. Copre una superficie di 1,5 ettari e connetteva i due segmenti, meridionale e settentrionale, delle mura. Difeso da tre fossati sul lato ovest e da uno sul lato sud, il castello subì molti rimaneggiamenti già in età antica e si vuole che lo stesso Archimede vi ponesse mano prima che l’assedio romano stringesse la città. XXIII. AGRIGENTO. La chiamarono Akragas dal nome di un piccolo fiume che scorreva nei pressi dal lato est (oggi è il torrente San Biagio) e la costruirono con un disegno urbanistico imponente. Due gli ecisti, per cui si è pensato a due componenti etniche nettamente distinte: una geloa e l’altra rodia, oppure una geloo-rodia e una geloo-cretese. Le due colline che la sovrastano da nord - la rupe Atenea e l’altura su cui oggi si distendono i quartieri moderni - non erano che l’acropoli e la sede del presidio militare della città antica, che si estendeva su una superficie quintupla rispetto a quella attuale. La città vera e propria fu disegnata nella valle sottostante compresa tra le rupi dell’acropoli e la lunga collina costiera meridionale destinata ad accogliere la maggior parte dei templi. Il reticolo urbano, di tipo ippodamico, presenta sei plateiai (le grandi vie principali) orientate in senso ovest-sudovest ed est-nordest, mentre gli stenopoi (le vie secondarie), in numero di trenta, le tagliano in senso ortogonale da nord verso sud. La larghezza delle vie minori è di 5 metri, una misura notevole per i tempi, mentre quella delle plateiai è più del doppio. La pendenza di ciascuna via è costante e supera con delle rampe le ondulazioni del terreno. La pavimentazione a mattoni cotti in opus spicatum è, ovviamente, di origine romana. Il contrafforte naturale che si ergeva verso sud, fronte al mare, fu utilizzato come basamento del principale bastione murario che poi si estendeva per oltre 7 chilometri su un perimetro totale di 13. In totale il perimetro cittadino racchiudeva un territorio di 550 ettari. Sulla collina situata parallela al mare sorsero, soprattutto a partire dal V secolo, i templi dorici di cui ancora oggi si possono ammirare le superbe rovine. Sulla sommità del colle, nell’estremità orientale, fu realizzato il tempio tradizionalmente attribuito (ma senza alcuna base documentale sicura) a Era Lacinia [vedi inserto]. È un edificio dorico, lungo 38,25 metri e largo 16,90, periptero, esastilo, che si erge su uno stilobate a cinque gradini di cui restano venticinque colonne e l’intero architrave del lato settentrionale. A mezza costa sorge il tempio detto della Concordia (in realtà forse era dedicato ai Dioscuri), che con il Theseion di Atene è tra i meglio conservati della grecità: è anch’esso un edificio dorico, periptero, esastilo, che mantiene praticamente intatti gli architravi e i due frontoni [vedi inserto]. È tra i più bilanciati e armonici, lungo 39,44 metri e largo 16,90 con trentaquattro colonne (sei di fronte e tredici di lato) e un rapporto tra i lati di circa 1 a 2. L’architettura del santuario utilizza sofisticate correzioni ottiche come la riduzione, al centro delle facciate minori, della luce degli intercolumni. La cella, i cui muri laterali inglobano due piccole scale a chiocciola che salivano sul tetto, è ancora conservata. Le arcate dei muri lunghi della cella furono aperte nel VI secolo d.C, quando il tempio fu trasformato in basilica cristiana a tre navate. Procedendo verso ovest si incontrano le rovine del tempio di Èrcole, di cui restano alcune colonne e, ai piedi della collina, all’inizio dell’agorà, il grande complesso del santuario delle divinità ctonie. Poco più che il basamento rimane del gigantesco Olympieion lungo 111 metri, largo 55 e alto 38. I materiali del tempio furono utilizzati dai Borboni per costruire il basamento del molo di Porto Empedocle. Il gigante coricato al suolo non è che una copia, mentre l’originale, insieme ai frammenti di altri telamoni, è custodito all’interno del museo. Dall’Olympieion in direzione ovest si apriva la grande agorà, in fondo alla quale si ergeva il tempio di Efesto. Altri due santuari, dedicati a Demetra, sorgevano nella parte orientale della cerchia delle mura, quasi all’estremità della rupe Atenea. Le necropoli furono a lungo identificate nella zona della porta a mare, dove si trova tuttora la tomba detta di Terone che in realtà è un cenotafio di età romana. L’equivoco, che trasse in inganno i viaggiatori ottocenteschi, veniva dalle testimonianze delle fonti che situavano la tomba del tiranno presso la porta marina e affermavano essere stata l’unica risparmiata da Imilcone. Successivamente si ipotizzò che la necropoli fosse costituita dalle tombe scavate nella roccia e nello spessore delle mura nella collina dei templi che sono in realtà di età bizantina e paleocristiana. Si disse addirittura che fossero i sepolcri dei più valorosi guerrieri i cui fantasmi si pensava avrebbero terrorizzato gli assalitori dall’alto dei bastioni. Suggestione, questa, ispirata probabilmente sia dal mito dello spettro di Aiace Oileo che si batteva in linea tra i Locresi alla battaglia della Sagra, sia dalla testimonianza di Diodoro secondo il quale i fantasmi degli Agrigentini, le cui tombe erano state profanate, atterrivano di notte le sentinelle cartaginesi. In seguito, con il progredire degli studi, le necropoli furono individuate correttamente. Esse si estendono tutte al di fuori della cinta muraria. Una di queste, la necropoli Pezzino, di gran lunga la più ricca e importante, si insinua nel lato nordoccidentale della città e si estende fino all’attuale via Dante. Molte tombe di tale sepolcreto vennero poste in luce al momento della costruzione del discusso viadotto che attraversa la valle a occidente della città e in occasione dei vari interventi che hanno irrimediabilmente deturpato il paesaggio di Agrigento. Le sepolture dimostrano una continuità d’uso che va dal VI al V secolo a.C. e si susseguono una accanto all’altra con una densità incredibile. Un secondo settore si trova a est della necropoli Pezzino in contrada Villaseta. Sul lato orientale della città sono state scoperte la necropoli del vallone San Biagio e la necropoli Mosè [vedi inserto]. Più che con i vari quartieri della città i sepolcreti erano in relazione con le vie d’accesso in corrispondenza delle porte. Le tombe si allineavano spesso, con i loro monumenti funerari, ai lati delle vie, un’usanza, questa, che venne assimilata totalmente dai Romani. Lo scavo delle necropoli, a partire dagli interventi clandestini che ne determinarono il saccheggio fin dal XVIII secolo, ha restituito corredi di straordinaria ricchezza che confermano la tradizione letteraria sull’opulenza della città [vedi inserto]. Le origini di Agrigento, fondata attorno al 585 a.C. da coloni dorici di Gela, di Rodi e di Coo, sono connesse a vicende fosche e crudeli, legate soprattutto al nome del tiranno Falaride. Costui avrebbe preso il potere tra il 570 e il 574 in modo decisamente bizzarro, ma in fondo non dissimile da quello di certe storie della Sicilia d’oggi. Avendo ottenuto l’appalto per la costruzione di un tempio, egli utilizzò il denaro pubblico per armare gli operai del cantiere. Costituì così una banda con cui occupò l’acropoli e prese il controllo della città. Sarebbe stato crudele e dispotico, Falaride, e non privo di un macabro senso dell’umorismo. Un artista ateniese, Perilao, aveva inventato una macchina di tortura infernale, un toro di bronzo in cui venivano rinchiusi i condannati: una volta che il prigioniero vi fosse entrato bastava accendere il fuoco sotto il ventre del finto animale e la vittima, urlando, avrebbe creato, tramite le cannule inserite nelle narici del toro, l’impressione di un vero e proprio muggito. Perilao era convinto che un simile marchingegno avrebbe dilettato grandemente Falaride ogniqualvolta avesse dovuto sbarazzarsi di qualche oppositore o avversario politico. L’idea entusiasmò a tal punto il tiranno che egli volle immediatamente fare una prova e utilizzò come cavia lo scultore stesso facendolo arrostire dentro il suo capolavoro. È impossibile per noi stabilire che cosa ci sia di vero in tutto ciò, e non pochi studiosi attribuiscono questo aneddoto all’agiografia nera sulla tirannide diffusa principalmente da tardi moralisti di ispirazione stoica. Non manca invece chi pensa alla deformazione di un episodio autentico riferibile a qualche rito tipico della religione punica. Agrigento, infatti, fu terra di confine con la Sicilia punica anche se, da un punto di vista geografico, era Selinunte a fronteggiare direttamente la provincia cartaginese. Con Cartagine gli Agrigentini ebbero un rapporto strano, contraddittorio, molto probabilmente dettato da opportunismo in campo economico, politico e mercantile. La loro politica fu in ogni caso sempre spregiudicata, tanto che sembra confermato che l’iniziale espansione della città, già sotto Falaride, sia avvenuta a spese della stessa madrepatria, Gela. La prima fase dei rapporti con Cartagine condusse a scontro aperto quando Terone, signore della città, cacciò da Imera il tiranno Trasillo, incorporando nel dominio agrigentino una larga fascia di territorio che attraversava tutta l’isola, dal canale di Sicilia al mar Tirreno. Trasillo, spalleggiato dal genero Anassila di Reggio, chiese aiuto ai Cartaginesi e questi decisero di intervenire unendo a sé anche i Selinuntini: probabilmente temevano che la potenza di Terone si accrescesse troppo e potesse assumere caratteri egemonici. Tali ibride alleanze fra barbari ed Elleni scandalizzavano i Greci della madrepatria, che avevano un concetto esclusivo della loro cultura. Se le spiegavano solo con il fatto che, in fondo, anche gli stessi Greci di Sicilia erano una strana razza nata dalla mescolanza dei coloni greci con le più varie stirpi indigene e aliene. Minacciato dall’armata cartaginese, Terone si alleò con suo genero Gelone, tiranno di Siracusa, e insieme affrontarono a Imera, sulla costa settentrionale della Sicilia, l’esercito nemico. Fu una giornata memorabile che si concluse con la disfatta dell’esercito cartaginese e la morte del suo generale Amilcare, che - come sappiamo si gettò tra le fiamme che bruciavano le vittime da lui immolate sull’altare. Terone, celebrato dalle odi di Pindaro come difensore della grecità, nominò il figlio Trasideo suo rappresentante a governare e si prese, come parte del bottino di guerra, un numero incredibile di prigionieri che poi furono venduti in città come schiavi. Questa grande massa di manodopera servile ebbe l’effetto di un volano sull’economia di Agrigento che conobbe uno sviluppo senza precedenti. La città, che era stata progettata con un piano regolatore degno di una metropoli (tanto che l’abitato non raggiunse mai completamente il perimetro delle mura), diventò tutta un cantiere. Dalla valle che si stende oggi ai piedi della zona medievale fino alla sommità della collina che fiancheggia il mare furono messi in costruzione, nel giro di un’ottantina d’anni, ben nove templi di cui, ancora ai giorni nostri, si possono ammirare in buona parte i resti monumentali. Architetti, artisti, decoratori affluirono da ogni angolo del Mediterraneo e l’economia della città fu ulteriormente potenziata dalla loro febbrile e intensa attività. Le campagne attorno divennero allora la più prospera regione agricola dell’intero bacino mediterraneo. Si produceva una quantità enorme di vino e olio d’oliva delle migliori qualità. Gli agricoltori agrigentini riuscirono a selezionare e ad allevare un ceppo di cavalli da corsa e da guerra dalle caratteristiche eccezionali; animali che divennero famosi in tutto il Mediterraneo, specialmente dopo che l’auriga Exeneto ebbe vinto con la sua quadriga di purosangue agrigentini le gare della novantaduesima Olimpiade. Al suo ritorno, il campione fu scortato da un corteo di trecento cocchi trainati da seicento candidi destrieri, tutti appartenenti a cittadini di Agrigento. Ad alcuni stalloni plurivincitori si dedicarono addirittura monumenti funebri con tanto di statue e bassorilievi. Di fatto le vittorie olimpiche dei tiri a quattro agrigentini avevano sull’esportazione dei cavalli d’allevamento un effetto d’immagine straordinario, paragonabile in un certo senso a quello che oggi ottengono con le vittorie di formula le case automobilistiche per le vendite di serie. Tanta ricchezza era dovuta anche al grande flusso di esportazione di prodotti agricoli verso il Nordafrica. Ciò che stupisce di più è che il migliore mercato era costituito proprio dalla dirimpettaia Cartagine, la cui potenza era stata umiliata sul campo di Imera dalle armi agrigentine e siracusane. Ma i Cartaginesi erano gente pratica che ragionava in termini di convenienza, e lo scambio commerciale con Agrigento doveva essere economicamente vantaggioso. Durante la guerra del Peloponneso (431-404 a.C), quando Atene attaccò Siracusa, Agrigento si mantenne rigorosamente neutrale, e trasse così ulteriori, enormi vantaggi dal conflitto che infuriava nelle immediate vicinanze, vendendo a caro prezzo viveri, rifornimenti, attrezzature, materiali di ogni genere. La ricchezza della città assunse proporzioni sbalorditive con manifestazioni di lusso smodato. Le fonti di Diodoro Siculo, che ne ha tramandato la memoria, dovevano descriverle con un certo senso di fastidio come si fa nei confronti del kitsch più sfacciato: monumenti funebri dedicati a cavalli da corsa e a uccellini da gabbia che avevano allietato le giornate di nobili fanciulle e dame delle migliori famiglie, feste di nozze con migliaia di invitati, centinaia di cocchi con tiri a quattro di scorta alla sposa, vino a fiumi. Si calcola che la cantina privata di un certo Tellias avesse una capacità di 13 mila litri, uno sproposito per quel tempo. Una volta invitò a ripararsi in casa sua un intero squadrone di cavalleria geloa che passava nelle vicinanze sotto lo scrosciare di un temporale. A tutti diede da bere e da mangiare senza risparmio. Divenne proverbiale, di quest’uomo, anche il senso dell’umorismo: inviato come ambasciatore presso una città straniera, fu deriso dai cittadini per la voce fessa con cui pronunciava il discorso ufficiale e per l’aspetto modesto della persona. Rispose che facevano bene a ridere, perché la sua città aveva l’abitudine di mandare gli uomini di miglior portamento e di parola più eloquente alle potenze di rango mentre agli staterelli da nulla inviava ambasciatori piccoletti e con la voce fessa come lui. Pare che a tutti passasse d’un tratto la voglia di ridere. A proposito del gusto degli Agrigentini per lo strabiliante e lo spettacolare, si narra che in occasione di una festa di nozze il padre della sposa avesse distribuito a ogni negoziante legna da ardere e fiaccole con l’ordine di accendere i fuochi contemporaneamente quando avessero visto il fuoco sull’acropoli. Così, nel momento in cui la sposa varcava la soglia della nuova casa, l’intera Agrigento si illuminò d’un tratto con un effetto che sbalordì gli abitanti e gli stranieri presenti in città. Ma se le manifestazioni private di ricchezza erano tanto fastose, non lo erano meno quelle pubbliche. Nella valle che oggi ancora chiamiamo «dei Templi», sorgeva il complesso sacro più grandioso di tutta la grecità, certamente meno raffinato dell’acropoli ateniese ma senza dubbio stupefacente. Vi era il più grande tempio mai edificato fino ad allora nel mondo classico, l’Olympieion. Aveva un muro perimetrale anziché un colonnato da cui sporgevano semicolonne verso l’esterno e pilastri quadrati verso l’interno. Il perimetro di ogni pilastro era di 6 metri. Secondo le ricostruzioni più accreditate (ma restano molti dubbi in proposito) nello spazio tra una colonna e l’altra, a due terzi circa dell’altezza del muro, si ergevano, da basamenti inseriti nel muro stesso, dei giganti di pietra alti 5 metri in atto di reggere sulle spalle la trabeazione del tempio. Sui due frontoni erano rappresentate una gigantomachia e la presa di Troia, un tema tipico del ciclo dei nostoi. Altri templi, come quello ancora oggi ben conservato e detto della Concordia, sorgevano sul crinale della duna costiera collegati da una via sacra che seguiva in quel punto il circuito delle mura. Non sappiamo però quale fosse la vista di questi monumenti dall’esterno della città, perché non conosciamo l’elevazione della cinta muraria. All’interno della valle era stata ricavata una piscina che accoglieva le acque reflue delle fonti della città. Aveva un perimetro di quasi un chilometro, era piena di pesci di ogni sorta e vi nuotavano candidi cigni. Si può facilmente immaginare l’effetto di questo specchio d’acqua, incastonato nella valle luccicante di olivi e di allori che rifletteva le forme superbe dei templi e dei monumenti. Doveva essere uno spettacolo straordinario, tanto che Pindaro, nella seconda Pitica, la definì «la più bella città dei mortali». Il filosofo Empedocle, vissuto tra il 493 e il 433 a.C, fu il rappresentante più alto dell’intellettualità agrigentina. Nipote di un campione olimpico, fu filosofo, scienziato, poeta e uomo politico, e fu anche dotato di un carisma personale che gli conferì un’aura da taumaturgo. Secondo una testimonianza di Diogene Laerzio (8, 66-67), tentò di promuovere delle riforme istituzionali rendendo elettiva l’assemblea dei Mille, cercando cioè di trasformare un’oligarchia in democrazia. Dei suoi concittadini ebbe a dire: «Gli Agrigentini si godono il lusso come se domani dovessero morire, ma costruiscono palazzi come se dovessero vivere in eterno». Sul piano politico Agrigento passò dalla tirannia a un ordinamento democratico quando il figlio di Terone, Tra-sideo, si scontrò con Siracusa e ne uscì sconfitto, ma le vicende storiche della città sono difficili da seguire negli anni che trascorsero tra la vittoria di Imera e l’invasione ateniese della Sicilia. Fu avversaria di Siracusa ma anche sua alleata nella guerra contro le tribù sicule condotta dal capo indigeno Ducezio. Seguì un nuovo conflitto che vide Agrigento sconfitta nel 446 a.C, dopo di che, come abbiamo detto, si chiuse in se stessa e non intervenne durante l’invasione ateniese della Sicilia. Lo splendido isolamento però era destinato a non durare molto. All’inizio del 406 un ennesimo scontro di confine tra Segesta, città degli Elimi alleata di Cartagine, e la greca Selinunte indusse Cartagine a prendere le armi contro quest’ultima. E’ difficile spiegarsi la vera ragione dell’intervento punico che avrebbe travolto anche Agrigento, perché la stessa situazione si era già verificata tante volte senza che la megalopoli africana intravedesse i motivi per scatenare una guerra. Si sa che il nuovo comandante Annibale (da non confondere con il famoso condottiero della seconda guerra punica) era ben contento di guidare un’invasione per vendicare la morte del suo avo Amilcare caduto sotto le mura di Imera. Annibale assalì Selinunte con un’azione fulminea, cosicché altre città greche non ebbero il tempo di inviare rinforzi. Fu poi la volta di Imera. Questa volta i Siracusani giunsero in tempo per impegnare i Cartaginesi in alcuni scontri durissimi ma senza esito: una metà circa degli Imeresi riuscì a trovare scampo a Messina, gli altri dovettero essere abbandonati al loro destino. Annibale, per vendicare la morte dell’avo, li torturò a morte e li massacrò in massima parte, poi sciolse l’esercito e ritornò in Africa. È opinione di alcuni studiosi che i Cartaginesi non avessero intenzione di ampliare il loro territorio in Sicilia e che la loro fosse solo una spedizione dimostrativa. Paghi del successo ottenuto si sarebbero probabilmente fermati se un avventuriero siracusano, Ermocrate, non si fosse installato con un gruppo di armati fra i resti di Selinunte attaccando tutte le città siciliane tributarie di Cartagine, comprese Motya e Palermo. A nulla valse il fatto che il governo siracusano sconfessasse quell’azione: la reazione punica fu terribile. Alla testa di un esercito grandissimo (ma la cifra di centoventimila uomini riportata da Diodoro è forse esagerata) Annibale venne a porre il campo sotto le mura di Agrigento. La città non era colpevole di nulla ma Annibale evidentemente cercava un pretesto: impose agli Agrigentini di schierarsi con lui o di rimanere neutrali. Questi, che intanto si erano affidati a un comandante spartano (tale Dexippo) e avevano assoldato un buon numero di mercenari campani, gli sbatterono le porte in faccia, forti anche dell’appoggio promesso da Siracusa e da altre città. I Cartaginesi si trincerarono sul fiume Hypsas (oggi fiume di Sant’Anna) e fecero subito avanzare due torri per battere le mura dall’alto, ma durante la notte gli Agrigentini con una sortita le bruciarono. I Cartaginesi allora cominciarono a demolire i monumenti funebri che sorgevano in area suburbana (tra i quali anche la tomba di Terone, il vincitore di Imera) per costruire una rampa su cui far avanzare le macchine da guerra e gli arieti. Mentre quest’opera demolitrice era in corso, un fulmine si abbattè sulla tomba di Terone, fenomeno che fu interpretato come foriero di sventura per l’esercito punico. Poco dopo si diffuse tra i militi una pestilenza che mietè numerose vittime e anche Annibale si ammalò e morì. Il terrore dilagò tra i soldati. Si diceva che nottetempo le ombre dei morti, le cui tombe erano state distrutte, apparissero improvvisamente alle sentinelle che montavano la guardia, e pure la pestilenza, ovviamente, fu attribuita alla profanazione. La città assediata potè respirare; in realtà pare che non avesse subito ancora gravi privazioni. Il decreto di austerità che aveva accompagnato l’inizio delle ostilità stabiliva che le sentinelle non dovessero avere in dotazione più di un materasso, una coperta, un vello di pecora e due cuscini a testa! Il successore di Annibale, Imilcone, ordinò che non si toccassero più le tombe, celebrò un sacrificio di espiazione immolando un giovinetto a Baal e riprese a costruire la rampa. Le truppe siracusane, guidate da Dafneo, giunto in soccorso degli Agrigentini, per poco non riuscirono a distruggere l’esercito cartaginese e l’operazione avrebbe forse avuto successo se gli abitanti si fossero gettati fuori dalle mura sul nemico in rotta inseguito dai Siracusani. Ma i loro comandanti (più tardi accusati di tradimento) li trattennero, e così i Cartaginesi riuscirono a rifugiarsi nel campo trincerato. L’armata siracusana tentò a più riprese di sbloccare la città, e con azioni continue di disturbo riuscì a tagliare i rifornimenti all’esercito cartaginese che si ritrovò quindi a mal partito. Fu la sorte a ribaltare improvvisamente la situazione: i Cartaginesi riuscirono a intercettare un convoglio di navi cariche di grano destinate a rifornire Agrigento e così la città non potè più alimentare i mercenari e gli alleati italioti e sicelioti che a quel punto se ne andarono. Gli Agrigentini, rimasti soli, non considerarono neppure per un momento la possibilità di difendere la loro città a ogni costo. Presero anzi l’incredibile decisione di abbandonarla ritirandosi verso Gela. Evidentemente l’atroce destino di Selinunte li terrorizzava. Uomini, donne e bambini marciarono sotto scorta militare: i vecchi e i malati furono abbandonati al loro destino, mentre ci furono anche cittadini che si rifiutarono di lasciare la patria in cui erano nati e vissuti. Fra costoro il ricchissimo Tellias, il piccolo uomo capace di ospitare un esercito nella sua dimora e di ubriacarlo con il vino delle sue cantine. Si chiuse in uno dei templi che ancora oggi innalzano le loro colonne sulla collina che fronteggia il mare, pensando forse che i nemici avrebbero rispettato il luogo sacro. Ma quando vide i barbari salire armati e urlanti, afferrò una fiaccola e appiccò il fuoco. Bruciò vivo con i suoi dei e con le sue memorie. Da lontano la lunga teoria di guerrieri curvi sotto il peso delle armature e di donne e fanciulli in lacrime vide le fiamme levarsi all’orizzonte: Agrigento bruciava ed era alla mercé del barbaro. In duecento anni di vita la città aveva conosciuto splendori inimitabili; aveva consumato, in una febbrile voglia di vivere, ogni possibile forma istituzionale e ogni possibile esperimento politico, dalla tirannide all’oligarchia alla democrazia; aveva rivestito, per i Greci di tutto il mondo, il ruolo di scudo e baluardo della loro civiltà, di avamposto verso la barbarie; e ora moriva improvvisamente, diventando, in un giorno, preda inerme e indifesa. Nella valle tra i giardini e gli stagni, il gran tempio di Zeus si ergeva, colosso mutilo e incompiuto, in mezzo a quella devastazione. Sul frontone un grande artista venuto dalla Grecia aveva scolpito le scene della caduta di Troia e ora le tragiche figure di marmo palpitavano come animate dai bagliori del fuoco che divorava Agrigento, ergendosi tra vere urla e veri lamenti. La mimesi dell’arte si trovava a rappresentare, per una sorte beffarda, l’opposta realtà della storia. La città, benché più volte ricostruita, non si sarebbe ripresa mai più. In seguito, infrantasi l’offensiva cartaginese contro le forze siracusane di Dionigi e conclusa la pace, gli Agrigentini tornarono nella loro città e la riedificarono senza che però essa raggiungesse il primitivo splendore. Furono per un certo tempo sotto la tutela siracusana, poi, ai tempi del tiranno Agatocle che aveva portato la guerra in Africa contro Cartagine, diedero aiuto ai suoi oppositori favorendo così la città africana. Nella lotta fra Cartagine e Siracusa per la supremazia sulla Sicilia (309 a.C), Agrigento tentò di porsi come leader di una federazione di città che costituisse una potenza alternativa, ma l’operazione non ebbe successo e la città continuò a vivere fra alterne vicende e con alleanze che variavano secondo le convenienze del momento. Allo scoppio della prima guerra punica (264 a.C), quando i Romani invasero la Sicilia, Agrigento era alleata di Cartagine e per questo dovette subire una serie impressionante di devastazioni e rappresaglie da una parte e dall’altra. Nel 262 i Romani la conquistarono e portarono via venticinquemila schiavi; nel 255 fu la volta dei Cartaginesi che demolirono le mura e bruciarono le case. La sorte della città non fu migliore durante la seconda guerra punica (218-201 a.C.). Nuovamente alleata di Cartagine, Agrigento fu presa dal console Levino nel 210: i fautori dell’alleanza con Cartagine furono passati per le armi, il resto della popolazione ridotta in schiavitù. La città dovette essere rifondata ex novo. CONCLUSIONE. I Greci d’Occidente crearono una sorta di multiforme habitat politico-culturale: l’impronta di straordinaria originalità che lo caratterizzò fu determinata dall’incontro della civiltà greca con le culture locali, nonché dalla necessità di far fronte a condizioni ambientali sotto ogni aspetto molto diverse da quelle originarie. La disponibilità di terreni vasti e fertili, la presenza di vie commerciali (per terra e per mare) che collegavano aree dove si producevano beni di grande valore, i contatti con culture eterogenee e stimolanti, e infine l’orgoglio del povero che, costretto a emigrare, vuole dimostrare le sue capacità e affermarsi sino a superare in prosperità gli ex concittadini rimasti in patria: tutto ciò e altro ancora contribuì a realizzare il miracolo dei Greci d’Occidente. La vicenda storica delle città che essi edificarono fu in genere abbastanza breve ma estremamente intensa. Nell’arco di duecento anni o poco più dalla loro fondazione, Cuma e Sibari, Taranto e Siracusa, Locri e Agrigento raggiunsero l’apogeo passando attraverso differenti esperienze istituzionali per poi imboccare la via della decadenza e in molti casi venir distrutte: fu questo il tragico destino oltre che di Sibari, Siri e Metaponto, anche di Selinunte, Imera, Cuma. Ognuna ebbe le sue vittorie, le sue alleanze e i suoi rovesci, ma tutte condivisero il gusto per il grandioso che si espresse nel tempio di Zeus ad Agrigento con i suoi giganti, nella sterminata agorà di Taranto con i colossi scolpiti da Lisippo, nell’ampia cinta muraria e nell’immenso castello Eurialo di Siracusa. I colonizzatori greci amarono il lusso e lo sfarzo che rese leggendarie le ricchezze di Sibari, le feste e le parate di Agrigento, i templi di Siracusa rutilanti di oro e avorio, di bronzo e di pietre preziose. (Quando Pericle, nel suo celebre discorso per i caduti di guerra del Peloponneso, disse «amiamo il bello ma con moderazione» aveva forse presente tutto ciò.) Amarono la gloria e il prestigio, e questo amore accomunò i tiranni di Gela e Siracusa, di Agrigento e Catania nella sete infinita di potere, nella temerarietà delle imprese militari, nella vastità dei progetti politici, nella continua ricerca di vittorie agonistiche, nell’imponenza delle realizzazioni monumentali, ma anche nel piacere per la poesia e la letteratura in cui, non di rado, si cimentarono. Lo stesso desiderio di gloria animò i meravigliosi atleti di Crotone e gli aurighi agrigentini, gli uni e gli altri vincitori di innumerevoli gare olimpiche, pitiche, nemee. Amarono l’avventura e furono marinai audacissimi come Eutimene e come Piteas, ambedue di Marsiglia: il primo raggiunse le foci del Senegal, il secondo superò il circolo polare artico, vide e descrisse gli iceberg. In nome del sapere fondarono le scuole filosofiche di Parmenide di Elea, di Archita di Taranto, di Empedocle di Agrigento; e immaginarono, sulla scia delle predicazioni pitagoriche, una sopravvivenza nell’aldilà. Affidarono questa speranza a lamine d’oro che accompagnassero come viatico i defunti o la raffigurarono in meravigliose immagini di sogno, come quella del «tuffatore» di Posidonia. Fra di loro si distinsero legislatori come Zaleuco, poeti come Ibico e Nosside, scienziati di livello eccelso come il grande Archimede, artisti come lo scultore Pitagora di Reggio che qualcuno non ha ritenuto indegno della paternità dei bronzi di Riace, ingegneri e architetti dalle intuizioni innovative o addirittura rivoluzionarie. Orgogliosamente, vollero scrivere la propria storia attraverso la penna di Filisto, Antioco di Siracusa, Ippi di Reggio; e soprattutto attraverso Diodoro Siculo e la sua più tarda ma preziosa compilazione. Non a caso Antioco, a differenza dei grandi storici della madrepatria che avevano cominciato la loro narrazione dalla guerra di Troia, iniziava la sua opera proprio dal buon re siciliano Cocalo, attribuendo così all’elemento indigeno un valore distintivo e quasi discriminante nei confronti della terra d’origine. Quando Roma conquistò la Grecia assorbendone la civiltà per diffonderla nel mondo intero - anziché umiliarla e distruggerla come spesso fanno i conquistatori - non si trattò di un miracolo. Erano stati i Greci d’Occidente a preparare quell’evento, inserendo la loro cultura ibrida e meravigliosa come una chiave di volta fra Oriente e Occidente e legando un remoto passato di stenti e fatiche a un futuro di grandezza. Per questo si può dire che tutti noi, a un certo punto della storia, fummo Greci e, forse, lo siamo ancora.