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la collezione dei dipinti della Banca del Monte di
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Cinque secoli di storia, cinque lustri di mecenatismo:
la collezione dei dipinti della Banca del Monte di Lucca
Arte
di Roberto Santamaria
Sono ormai 2000 anni che si parla di mecenatismo.
Dai tempi in cui l’influente consigliere dell’imperatore Ottaviano
Augusto, Gaio Cilnio Mecenate, dal quale deriva il termine,
trascorreva i suoi pomeriggi nel produttivo ozio delle argomentazioni
letterarie con Orazio, Virgilio e Properzio, questo fenomeno
di protezione degli artisti e di sostegno concreto delle loro opere
ha cambiato più e più volte protagonisti e modalità.
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A fronte
Alfredo Meschi, “Piazza San Martino”,
pastello su carta.
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Matteo Civitali, “Madonna in trono
con il Bambino”, tempera su tavola.
L’epoca d’oro del mecenatismo coincide con quella che è stata considerata l’età insuperata dell’arte, il Rinascimento. E non è un caso che i
mecenati del giorno d’oggi, fra i quali vanno senz’altro annoverati gli istituti di credito, abbiano fra i principali obiettivi la ricerca di capolavori di quell’epoca. È questa una delle
principali direttrici della politica
culturale della Banca del Monte di
Lucca, città entro le cui mura, in quel
periodo aureo, trovarono accoglienza artisti come Ghirlandaio, Fra’ Bartolomeo e Filippino Lippi.
L’istituto, collocato nell’antica Casa dell’Opera di Santa Croce, ha da
tempo intrapreso un’attività di acquisizione di importanti opere d’arte, provenienti per lo più dal mercato
antiquario, che ad oggi ha consentito di raccogliere alcune decine di
opere, essenzialmente dipinti ma
anche arazzi e mobili. Questo patrimonio ha trovato ospitalità e visibilità pubblica proprio nella storica sede di piazza San Martino, nel
cuore antico della città, a fianco del
duomo, una collocazione che attesta
l’indiscutibile e affermato riconoscimento di prestigio dell’istituto fin
dall’inizio della sua cinquecentenaria storia.
La costruzione dell’edificio prende
il via nel 1291, sotto la direzione del
magister lapidum Gianni da Como,
area geografica da cui provenivano
molti di quei maestri “antelami” che
tanta importanza hanno avuto anche
nella storia architettonica e urbanistica di Genova.
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La ricchezza del patrimonio artistico della Banca si può oggi riscontrare
facilmente grazie al catalogo edito a
cura dell’istituto stesso nel 19971. Sfogliare queste pagine costituisce l’occasione per conoscere un corpus di
opere che la disparata provenienza riesce solo in parte a rendere disomogeneo. Questo vale soprattutto per la
preziosa sezione dei più antichi dipinti lucchesi, databili fra la fine del
Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, fra i quali spicca la Madonna
in trono con il Bambino (tempera su
tavola, cm 146 x 74), in catalogo attribuita a Baldassarre di Biagio, ma
recentemente assegnata a Matteo
Civitali anche in virtù della stringente
assonanza stilistica con il bassorilievo autografo del Civitali “Madonna
del latte” detta anche “Madonna della Tosse” conservata presso il Museo
Nazionale di Villa Guinigi. Le due
opere, entrambe risalenti agli anni
Ottanta del Quattrocento, evidenziano analogie compositive e stilistiche che sembrano confermare agli
storici dell’arte il Civitali come autore anche del dipinto; senza dubbio
uno dei capolavori della pittura
quattrocentesca lucchese, forse da
identificare con l’opera che egli dipinse per la chiesa domenicana di San
Romano nel 1480.
Oltre ai “primitivi” lucchesi, la collezione annovera altri interessanti esempi della scuola locale, a partire da un
dipinto che costituisce un punto imprescindibile nel catalogo delle opere
del raro Pietro Sigismondi (Lucca, ?
– Roma 1623), il Sansone e Dalila (olio
su tela, cm 152 x 132), datato 1606 e
quindi fra le prime prove dell’artista
che, in questa come in altre opere, si
firmava “Lucensis”, di Lucca.
Un riferimento ad un primo, ipotetico ma probabilissimo caso di mecenatismo dell’istituto è costituito
dalla intensa tela che raffigura il BeaPietro Sigismondi, “Sansone e Dalila”,
olio su tela.
Paolo Biancucci, “Il Beato Bernardino
da Feltre”, olio su tela.
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to Bernardino da Feltre (cm 71,5 x
53), attribuito a Paolo Biancucci
(Lucca 1596-1650/51), pittore che solo adesso viene rivalutato e che in vita fu concorrente dell’oggi più noto
conterraneo Pietro Paolini. Il Santo,
ripreso frontalmente, addita con
l’indice della mano destra uno stendardo recante l’immagine del Cristo
sofferente e retto da un’asta impostata su tre sassi, simbolo appunto del
Monte di Pietà, antesignano della
Banca del Monte di Lucca, con sede
- dal 1517 - nella Casa dell’Opera di
Santa Croce.
In questa sezione dedicata agli artisti locali trovano spazio anche alcune opere contemporanee fra le quali
i pastelli su carta di Alfredo Meschi
(Lucca 1905-1981), raffiguranti tre
punti di vista assai cari ai lucchesi: la
piazza del Duomo (cm 40 x 50), fiancheggiato proprio dall’antico palaz-
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zo dell’Opera con il suo alternarsi dei
rossi del cotto e dei bianchi del marmo apuano; una veduta dall’alto delle celebri mura verso la città (cm 35
x 49), con le case filtrate attraverso gli
alberi e le piante; infine, uno scorcio
prospettico del canale della Burlamacca (cm 35 x 49), simbolo dell’aspirazione marittima di una città che
nel Quattrocento scrutava l’orizzonte del Tirreno.
Il legame con il territorio e l’attenzione per i nomi certo meno noti ma
in qualche maniera documentati, si ritrovano nelle due tavolette con Miracoli di San Frediano (cm 29 x 65,5),
titolare del seggio vescovile della città dal 560 al 588. La coppia di tempere è ciò che resta della predella di
una pala d’altare, forse quella dipinta nel 1483 per la cappella della Compagnia di San Frediano, detta “della
Alfredo Meschi, “Dalle Mura”,
pastello su carta.
“La Burlamacca”, pastello su carta.
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Bruciata”, nella omonima chiesa fiorentina. Autore dell’ancona, distrutta nel secondo conflitto bellico, era
un allievo di Filippo Lippi, Jacopo del
Sellaio, alla bottega del quale si formò il figlio Arcangelo (Firenze
1477/78-1532), pittore che, come recita il contratto di commissione,
portò a termine nel 1506 l’opera lasciata incompiuta dal padre, in particolare eseguendo la predella, allora
mancante, e di cui queste due formelle
verosimilmente costituiscono quanto sopravvissuto alle vicende del
tempo.
Certo più noto è Jacopo Negretti, detto Palma il Giovane (Venezia 1548 –
1628), al quale, anche sulla scorta di
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un disegno recentemente pubblicato
che pare esserne il bozzetto preparatorio, è attribuita la scena con Giuditta
e Oloferne (olio su tela, cm 98,2 x
122,5). Erede della generazione dei
grandi veneziani cinquecenteschi, il
pittore si misura qui con un tema che
sarà tanto caro a Caravaggio e ai suoi
seguaci, artisti che muovevano i loro
passi quasi in contemporanea con
questa tela, da porre cronologicamente già nel secolo XVII.
Pienamente caravaggesco, almeno
per quanto riguarda l’ambientazione
notturna della scena rischiarata dalla luce di una lanterna, è la Cattura
di Cristo (olio su tela, cm 96 x 134),
il cui autore è sicuramente da ricer-
care fra i molti “franzesi e fiamenghi
che vanno e vengono” e “non li si può
dar regola”, come affermava - nel
1620 circa - Giulio Mancini, scrittore d’arte nonché medico di papa Urbano VIII. Roma, meta obbligata per
il completamento degli studi artistici, è infatti anche il luogo di convergenza di numerosi giovani d’Oltralpe, la cui sensibilità è stimolata – nel
primo decennio del Seicento – dalla
rivoluzionaria figura del Merisi. E,
come il loro ideale capo-scuola, anche questi pittori, che avevano resiArcangelo di Jacopo del Sellaio,
“Due miracoli di San Frediano”,
tempere su tavola.
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denza e ritrovo nei pressi di piazza di
Spagna, erano personaggi fuori dagli
schemi che sfuggivano alle convenzioni e che, pertanto, sono di precaria identificazione. È, quella di Lucca, una scena di ambientazione notturna, tenebrosa, un quadro “di notte”, come venivano definiti allora dipinti del genere. Il “campione” di
questo genere fu l’olandese Gerrit
Van Honthorst, la cui fortuna nel periodo italiano è testimoniata dal soprannome che gli fu attribuito, Gherardo delle Notti. La sua è una maniera che ha precedenti anche nostrali,
poiché fu Luca Cambiaso uno dei primi sperimentatori del notturno. E
non è improbabile che l’artista di
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Utrecht abbia potuto ammirare tali
dipinti proprio a Genova, forse nel
corso del viaggio di andata verso Roma, attorno al 1610, o in quello di ri-
torno in patria, nel 1620. Certo è che
i suoi modi determinarono l’esplosione di un gusto che il dipinto di
Lucca ben testimonia.
Jacopo Negretti detto Palma il Giovane,
“Giuditta e Oloferne”, olio su tela.
Pittore franco-fiammingo
“La Cattura di Cristo”, olio su tela.
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Pittore genovese, “Ritratto
del Cardinal Guido Bentivoglio”,
olio su tela (copia da Van Dyck).
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Giovanni Maria Delle Piane,
detto il Mulinaretto “Ritratto
di condottiero”, olio su tela.
Pittore italiano del Centro Nord,
“Ritratto di gentiluomo”, olio su tela.
Ottavio Vannini, “David con la testa
di Golia”, olio su tela.
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L’importanza di alcuni temi trattati da
artisti celeberrimi già al loro tempo
o la reinterpretazione degli stessi è
evidente nel David con la testa di Golia (olio su tela, cm 144 x 115) del fiorentino Ottavio Vannini (1585-1644),
un dipinto che nasce nella mente del
pittore con una contaminazione precisa, quella derivata dalla Giuditta con
la testa di Oloferne di Cristofano Allori, conservata alla Galleria Palatina
di Firenze. Anche la temperie culturale è quella del neoclassicismo dell’Allori: in un’epoca ormai “violentata” dalla luce caravaggesca, questo
dipinto, pur nella crudezza della scena rappresentata, è impostato sulla
statica e fissa figura di David, con il
corpo in leggera torsione, quasi a
spingere in primo piano la testa del
gigante filisteo sconfitto.
L’affascinante e dibattuta questione dei
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modelli e delle copie o repliche derivate da un prototipo, si ripresenta nella raccolta di Lucca in due dipinti. Il
primo è la settecentesca Adorazione
dei Magi (olio su tela, cm 90 x 74) ricalcante l’opera di Carlo Maratta nella chiesa di San Marco a Roma. La tela, di autore ignoto, è un omaggio fedele ad uno dei più affermati pittori
del suo tempo, soprattutto negli ambienti che perseguivano la ricerca del
“Bello” teorizzata dal suo amico e biografo Giovan Pietro Bellori. Il secondo dipinto in copia è il Ritratto del
Cardinale Guido Bentivoglio (olio su
tela, cm 198 x 145), ottima riproduzione dell’originale di Anthon Van
Dyck, oggi alla Galleria Palatina di Firenze, realizzato per l’influente e dotto prelato ferrarese dopo il 1621, anno della nomina cardinalizia. Rispetto all’originale, è da evidenziare nel-
la copia, con buona probabilità coeva,
un minore approfondimento di alcuni particolari decorativi (si vedano, per
esempio, la trama dei tessuti trattati
più in superficie e con una gradazione dello stesso colore del fondo o la
semplificazione dello schienale della
poltrona). Ma i graduali e delicati passaggi dalla penombra alla luce e soprattutto lo sguardo vivido e arguto
del cardinale sono indizi della spiccata personalità dell’ignoto copista, da
ricercare nell’ambiente genovese anche se non necessariamente fra gli artisti della scuola locale, quanto – forse – fra i numerosi conterranei del pittore di Anversa che soggiornavano stabilmente sotto la Lanterna.
Il genere ritrattistico, così aulico e necessario per attestare il prestigio e lo
status politico-sociale raggiunto da
personaggi immortalati dai pennelli di
artisti più o meno noti, è testimoniato nella raccolta di Lucca da ulteriori due tele, la prima delle quali rappresenta un gentiluomo (olio su tela,
cm 127 x 102). L’opera è databile all’ultimo quarto del secolo XVIII e
ascrivibile alla mano di un autore non
ignaro dei modi del più grande ritrattista dell’epoca, il lucchese Pompeo Batoni. Quale autore dell’effigie
del condottiero idealmente dipinto sul
campo di battaglia che compare alle
sue spalle (olio su tela, cm 126 x 101),
è stato fatto il nome del più noto ritrattista genovese fra Sei e Settecento,
vale a dire Giovanni Maria Delle Piane, detto il Mulinaretto (1660-1745).
Oltre alla supposta scuola meridionale,
la genesi nell’area emiliana non è da
escludere a priori per un’altra opera
con cui si conclude questa breve rassegna dei dipinti della Banca del
Monte di Lucca, e cioè la seicentesca
Suonatrice di liuto (olio su tela, cm 70
x 55) che forse altro non è che una pacata e languida allegoria della musica.
Nota
La Banca del Monte di Lucca. L’edificio e le
collezioni d’arte, a cura di Maria Teresa Filieri,
Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca 1997. Per i
riferimenti bibliografici delle opere illustrate in
questa sede si rimanda alle schede del catalogo.
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Pittore dell’Italia Meridionale,
“Suonatrice di liuto”, olio su tela.
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Pittore dell’Italia Centrale,
“Adorazione dei Magi”, olio su tela.
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