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Famiglia e DiCo: una mutazione antropologica?

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Famiglia e DiCo: una mutazione antropologica?
Famiglia e DiCo:
una mutazione
antropologica?
Indice
PREFAZIONE
di Giancarlo Cesana
INTERVENTI
9
«Raggio divino al mio pensiero apparve, Donna, la tua beltà»
di Julián Carrón
15
Le evidenze dell’esperienza
di Carmine Di Martino
27
Libertà in relazione
di Francesco Botturi
35
Il significato dell’insistenza della Chiesa
sulla questione della “legge naturale”
di Alfonso Carrasco Rouco
47
Famiglia, fulcro di ogni esperienza di cultura e di socialità
di S.E. Luigi Negri
49
Desideri, cuore e diritto
di Stefano Alberto
55
Coppie di fatto: un disegno di legge incostituzionale?
di Lorenza Violini
59
La famiglia come protagonista della sussidiarietà
e la Costituzione italiana
di Marta Cartabia
65
Genitori sposati “tartassati” pagheranno i diritti dei conviventi
di Luca Antonini
69
La famiglia relazione sorgiva del sociale
di Giovanna Rossi
75
Famiglia: luogo di composizione della differenza
di Eugenia Scabini
79
Perché la famiglia non si snaturi va difesa socialmente
di Paola Soave
81
DiCo: un problema di metodo
di Carlo Bellieni
85
Biopolitica e difesa della creaturalità
di Eugenia Roccella
93
C'è in gioco la sopravvivenza dell'umano
di Assuntina Morresi
Prefazione
di Giancarlo Cesana*
Questo quaderno riassume i lavori di un seminario della Fondazione per
la Sussidiarietà a sostegno della manifestazione per la famiglia e contro
i DiCo (Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi), indetta a
Roma, per il 12 maggio 2007, dalle associazioni del laicato cattolico.
La manifestazione è molto attesa, enfatizzata quasi di più da coloro che
la avversano, piuttosto che da quelli che vi parteciperanno. Sono in
gioco due questioni assai vive nel nostro Paese: il futuro di un governo
debole, che sui DiCo ha fatto una scommessa di coesione tra alcune sue
componenti cattoliche e quelle della sinistra estrema; il destino di una
società che sembra voler relativizzare i valori tradizionali, come la
famiglia, che l’hanno fin qui costruita. Questa seconda questione riguarda non solo l’Italia, ma tutto il mondo occidentale ed è oggetto di un
confronto, e di uno scontro, culturale e politico senza precedenti. Negli
ultimi trent’anni, una quota significativa, soprattutto intellettuale, delle
società cosiddette avanzate, pare voler dimenticare la storia dei secoli
precedenti, a riguardo della concezione dell’uomo e dei suoi rapporti
affettivamente più intensi. Ha dato così avvio a una “guerra” culturale,
verosimilmente lunga e generale, perché fondata non su un problema
qualsiasi, ma sul problema dell’esperienza umana e del suo significato.
Don Giussani, in un libro pubblicato lo scorso anno, Dall’utopia alla
presenza, osserva che per ricostituire l’ideale della società cristiana - i
valori di cui stiamo parlando sono fondati nel Cristianesimo - ci potrebbero volere secoli.
Poiché le guerre si fanno per vincere, occorre essere persuasi della loro
durata e difficoltà e impegnarsi in battaglie che riescano ad andare al
nocciolo della questione. Altrimenti, facilmente ci si disperde e, soprattutto, si tralascia l’aspetto più rilevante, che è quello educativo. Le
* Professore di Medicina del Lavoro, Università degli Studi di Milano-Bicocca
8
PREFAZIONE
nostre iniziative devono avere un carattere popolare, nel senso di contribuire alla formazione della mentalità comune. Parole del linguaggio
comune, che descrivono la vita di tutti i giorni, devono diventare nuove,
capaci di suggerire ipotesi esistenziali non previste.
Come riferito dai diversi interventi di seguito riportati, una parola centrale - che caratterizza la posizione di chi è a sostegno della famiglia - è
«esperienza». L’esperienza non definisce la verità, ma è l’offerta di una
proposta per approssimarsi ad essa. Insistere sulla documentazione dell’esperienza di umanità che la famiglia produce, vuol dire insistere su
un’evidenza che evita lo scontro ideologico e che all’ideologia, al progetto sociale, antepone la speranza.
Esperienza della famiglia e speranza di una società migliore: su cosa si
fondano? Per rispondere, è molto difficile trascurare il problema di
Gesù Cristo. È la presenza di Cristo che ha introdotto una speranza positiva e definitiva per la vita, per i suoi legami e le sue conseguenze generative. Allora, forse, la parola che più ha bisogno di diventare un neologismo, di essere appresa e riconosciuta, è Cristo.
Come ripetuto più volte in questo seminario, facendo eco al richiamo
del Papa e dei Vescovi, il problema centrale a riguardo della famiglia è
quello del rispetto di un ordine naturale, ossia dell’originalità della struttura umana. Il rispetto di un ordine naturale richiede sacrificio, richiede
di arrendersi a Dio, alla verità di chi ci ha fatto, proprio perché non ci
siamo fatti da noi. Non si può fare un sacrificio se non ne vale la pena,
se non c’è, appunto, una speranza, un fascino, che lo sostenga. Per vivere intensamente e decisamente la famiglia, con tutto il sacrificio che
essa comporta, bisogna essere affascinati da ciò che la sostiene e da ciò
che essa “produce”.
Nel Medioevo è nata l’assistenza infermieristica perché uomini e donne
di allora, affascinati dall’umanità di Cristo, dalla promessa di vita eterna della Resurrezione, non temettero di rischiare la vita per supportare
malati contagiosi e quindi pericolosi. La medicina occidentale è nata in
gran parte da questo atteggiamento.
Le nostre manifestazioni necessitano soprattutto della testimonianza di
più esperienza e più speranza.
«Raggio divino al mio pensiero apparve,
Donna, la tua beltà» (G. Leopardi)
di Julián Carrón *
Viene qui proposto il testo dell’intervento al Congresso “La trasmissione della
fede nella famiglia”, che si è svolto in occasione del V Incontro mondiale delle
famiglie con Benedetto XVI (Valencia, 5 luglio 2006), perché solleva la questione antropologica che sta alla radice di tutto il dibattito in corso sulla famiglia.
Risulta ogni volta più evidente che non si può dare per scontata la maturità del
soggetto umano che si accosta al matrimonio. Indipendentemente dalla loro
buona volontà, la realtà è che tanti giovani arrivano al matrimonio senza la
coscienza adeguata della natura dell’avventura che stanno per intraprendere.
Ciò non si può dare per scontato neanche per i giovani cristiani, che in non
poche occasioni si avvicinano al matrimonio in condizioni non dissimili da
quelle dei loro amici non cristiani, con l’unica differenza che si sposano in
chiesa e hanno quanto meno un desiderio di sposarsi secondo la concezione
del matrimonio che la Chiesa difende e testimonia. Questa carenza di coscienza non si può risolvere con i corsi prematrimoniali che conosciamo, i quali per
loro propria natura non possono dare risposta alla situazione di quanti li frequentano. Grande è la sfida che si presenta all’intera comunità cristiana: è
messa alla prova la sua capacità di generare personalità adulte, uomini e
donne, in grado di accostarsi al matrimonio con una minima prospettiva di un
esito positivo.
In un intervento come questo, è impossibile affrontare tutta la problematica del
matrimonio e della famiglia. Mi concentrerò su una questione che mi sembra
essenziale per mettere in luce quella relazione particolare che si stabilisce fra
un uomo e una donna.
La crisi della famiglia è una conseguenza della crisi antropologica nella quale
ci troviamo. Gli sposi infatti sono due soggetti umani, un io e un tu, un uomo
e una donna, che decidono di camminare insieme verso il destino, verso la felicità. Come impostano il loro rapporto, come lo concepiscono, dipende dall’immagine che ciascuno si fa della propria vita, della realizzazione di sé. Ciò
implica una concezione dell’uomo e del suo mistero. «La questione del giusto
rapporto fra l’uomo e la donna - ha detto Benedetto XVI - affonda le sue radici dentro l’essenza più profonda dell’essere umano e può trovare la sua rispo* Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione
10
FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
sta soltanto a partire da qui. Non può essere separata cioè dalla domanda antica e sempre nuova dell’uomo su se stesso: chi sono? che cosa è l’uomo?»1.
Per questo il primo aiuto che si può offrire a quanti vogliono unirsi in matrimonio è l’aiuto a prendere coscienza del mistero del loro essere uomini. Solo
in questo modo potranno mettere adeguatamente a fuoco la loro relazione,
senza attendersi da essa qualcosa che per loro natura nessuno di loro può dare
all’altro. Quanta violenza, quanta delusione potrebbero essere evitate nel rapporto matrimoniale, se fosse compresa la natura propria della persona!
Questa mancanza di coscienza del destino dell’uomo conduce a fondare tutto
il rapporto su un inganno, che si può formulare così: la convinzione che il tu
può rendere felice l’io. Il rapporto di coppia, in questo modo, si trasforma in
un rifugio, tanto desiderato quanto inutile, per risolvere il problema affettivo.
E quando l’inganno si manifesta, è inevitabile la delusione perché l’altro non
ha compiuto l’aspettativa. Il rapporto matrimoniale non può avere altro fondamento che la verità di ciascuno dei suoi protagonisti. È la stessa relazione amorosa che contribuisce in maniera particolare a scoprire la verità dell’io e del tu,
e insieme con la verità dell’io e del tu si manifesta la natura della vocazione
comune.
In effetti, «il mistero eterno del nostro essere» ci viene rivelato dalla relazione
con la persona amata. Nulla ci risveglia, nulla ci rende tanto consapevoli del
desiderio di felicità che ci costituisce, quanto la persona amata. La sua presenza è un bene così grande che ci fa cogliere la profondità e la vera dimensione di questo desiderio: un desiderio infinito. Ciò che il poeta Cesare Pavese
dice del piacere si può applicare al rapporto amoroso: «Quello che l’uomo
cerca nel piacere è un infinito, e nessuno rinuncerebbe mai alla speranza di
raggiungere questo infinito»2. Un io e un tu limitati suscitano l’uno nell’altro
un desiderio infinito e si scoprono lanciati dal loro amore verso un destino infinito. In questa esperienza si rivela a entrambi la propria vocazione. Sentono la
necessità l’uno dell’altro per non restare paralizzati nel proprio limite, senza
altra prospettiva che la noia della solitudine.
Ma nello stesso momento in cui si rivelano a noi stessi le dimensioni senza
limite del nostro desiderio, ci viene offerta una possibilità di compimento. Più
ancora, intravedere nella persona amata la promessa del compimento accende
in noi tutto il potenziale infinito del desiderio di felicità. Per questo non c’è
nulla che ci faccia comprendere il mistero del nostro essere uomini meglio del
rapporto fra un uomo e una donna, come ci ha ricordato Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est: «l’amore tra uomo e donna, nel quale corpo e
anima concorrono inscindibilmente, […] all’essere umano si schiude una pro-
«RAGGIO DIVINO AL MIO PENSIERO APPARVE, DONNA, LA TUA BELTÀ»
11
messa di felicità che sembra irresistibile, […] al cui confronto, a prima vista,
tutti gli altri tipi di amore sbiadiscono»3.
In questo rapporto l’uomo sembra incontrare la promessa che gli fa superare il
proprio limite e gli permette di raggiungere una pienezza incomparabile4. Per
questo storicamente si è percepita una relazione fra l’amore e il divino:
«L’amore promette infinità, eternità - una realtà più grande e totalmente altra
rispetto alla quotidianità del nostro esistere»5.
È l’esperienza che testimonia il poeta italiano Giacomo Leopardi nel suo inno
ad Aspasia:
«Raggio divino al mio pensiero apparve,
Donna, la tua beltà»6.
La bellezza della donna è percepita dal poeta come un “raggio divino”, come
la presenza della divinità. Attraverso la sua bellezza, è Dio che bussa alla porta
dell’uomo. Se l’uomo non comprende la natura di questa chiamata, e invece di
assecondarla si ferma alla bellezza che vede davanti a sé, presto essa si manifesta incapace di compiere la sua promessa di felicità, di infinito.
«Or questa egli non già, ma quella, ancora
Nei corporali amplessi, inchina ed ama.
Alfin l’errore e gli scambiati oggetti
Conoscendo, s’adira; e spesso incolpa
La donna a torto»7.
Vuol dire che la donna, con il suo limite, desta nell’uomo, anch’egli limitato,
un desiderio di pienezza sproporzionato rispetto alla capacità che essa ha di
rispondervi. Suscita una sete che non è in condizione di estinguere. Suscita una
fame che non trova risposta in colei che l’ha destata. Da qui la rabbia, la violenza, che tante volte sorgono fra gli sposi, e la delusione nella quale vanno a
cadere, se non comprendono la vera natura del loro rapporto.
La bellezza della donna è in realtà «raggio divino», segno che rimanda oltre,
ad altra cosa più grande, divina, incommensurabile rispetto alla sua natura
limitata8. La sua bellezza grida davanti a noi: «Non sono io. Io sono solo un
promemoria. Guarda! Guarda! Che cosa ti ricordo?»9. Con queste parole il
genio di C.S. Lewis ha sintetizzato la dinamica del segno, della quale il rapporto fra l’uomo e la donna costituisce un esempio commovente. Se non comprende questa dinamica, l’uomo cade nell’errore di fermarsi alla realtà che ha
suscitato il desiderio. Come se una donna che riceve un mazzo di fiori, rapita
dalla loro bellezza, si dimenticasse del volto di chi glieli ha mandati, e del
quale sono segno, perdendo il meglio che i fiori recavano. Non riconoscere
12
FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
all’altro il suo carattere di segno conduce inevitabilmente a ridurlo a ciò che
appare ai nostri occhi. E prima o poi si manifesta incapace di rispondere al
desiderio che ha suscitato.
Per questo, se ciascuno non incontra ciò a cui il segno rimanda, il luogo dove
può trovare il compimento della promessa che l’altro ha suscitato, gli sposi
sono condannati a essere consumati da una pretesa dalla quale non riescono a
liberarsi, e il loro desiderio di infinito, che nulla come la persona amata desta,
è condannato a rimanere insoddisfatto. Di fronte a questa insoddisfazione, l’unica via d’uscita che oggi tanti vedono è cambiare la coppia, dando inizio a
una spirale in cui il problema viene rinviato fino al momento della prossima
delusione.
Il poeta tedesco Rainer Maria Rilke ha identificato con singolare efficacia il
dramma del rapporto amoroso, intuendo che entrare in questa spirale non può
essere l’unica via d’uscita: «Questo è il paradosso dell’amore fra l’uomo e la
donna: due infiniti si incontrano con due limiti; due bisogni infiniti di essere
amati si incontrano con due fragili e limitate capacità di amare. E solo nell’orizzonte di un amore più grande non si consumano nella pretesa e non si rassegnano, ma camminano insieme verso una pienezza della quale l’altro è
segno».
Solo nell’orizzonte di un amore più grande si può evitare di consumarsi nella
pretesa, carica di violenza, che l’altro, che è limitato, risponda al desiderio
infinito che desta, rendendo così impossibile il compimento di sé e della persona amata. Per scoprirlo bisogna essere disposti ad assecondare la dinamica
del segno, restando aperti alla sorpresa che questa possa riservarci.
Leopardi ha avuto il coraggio di correre questo rischio. Con una intuizione
penetrante del rapporto amoroso, il poeta italiano intravede che ciò che cercava nella bellezza delle donne di cui si innamorava era la Bellezza con la B
maiuscola. Al vertice della sua intensità umana, l’inno Alla sua donna è un
inno alla «cara beltà» che cerca in ogni bellezza; tutto il suo desiderio è che la
Bellezza, l’idea eterna della Bellezza, assuma una forma sensibile10. È ciò che
è accaduto in Cristo, il Verbo fatto carne. Per questo Luigi Giussani ha definito questa poesia come una profezia dell’Incarnazione11.
Questa è la pretesa di Gesù, che troviamo in alcuni testi che a prima vista possono risultarci paradossali. «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla
terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a
separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i
nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa. Chi ama il padre o la madre
più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno
«RAGGIO DIVINO AL MIO PENSIERO APPARVE, DONNA, LA TUA BELTÀ»
13
di me; […] Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua
vita per causa mia, la troverà. Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me
accoglie colui che mi ha mandato»12.
In questo testo Gesù si presenta come il centro dell’affettività e della libertà
dell’uomo. Ponendo se stesso al cuore degli stessi sentimenti naturali, si colloca a pieno diritto come loro radice vera. In tal modo Gesù rivela la portata
della promessa che la sua persona costituisce per quanti lo lasciano entrare.
Non si tratta di una ingerenza di Gesù a livello dei sentimenti più intimi, ma
della più grande promessa che l’uomo abbia potuto mai ricevere: senza amare
Cristo, la Bellezza fatta carne, più della persona amata, quest’ultimo rapporto
avvizzisce, perché è Lui la verità di questo rapporto, la pienezza alla quale l’un
l’altro si rinviano e nella quale il loro rapporto si compie. Solo permettendogli
di entrare in esso è possibile che il rapporto più bello che può accadere nella
vita non si corrompa e con il tempo muoia. Tale è l’audacia della sua pretesa.
In questo momento appare in tutta la sua importanza il compito della comunità cristiana: favorire un’esperienza del cristianesimo come pienezza di vita per
ogni uomo. Solo nell’orizzonte di questo rapporto più grande, come diceva
Rilke, è possibile non consumarsi, perché ciascuno trova in esso il suo compimento umano, sorprendendo in sé una capacità di abbracciare l’altro nella sua
diversità, di gratuità senza limiti, di perdono sempre rinnovato. Senza comunità cristiane capaci di accompagnare e sostenere gli sposi nella loro avventura sarà difficile, se non impossibile, che essi la portino a compimento positivamente. Gli sposi, a loro volta, non possono esimersi dal lavoro di una educazione di cui sono i protagonisti principali, limitandosi a pensare che l’appartenenza alla comunità ecclesiale li liberi dalle difficoltà.
In ciò si rivela pienamente la natura della vocazione matrimoniale: camminare insieme verso l’unico che può rispondere alla sete di felicità che l’altro
suscita costantemente in me, verso Cristo. Così si potrà non passare, come la
Samaritana, di marito in marito13 senza riuscire a soddisfare la propria sete. La
coscienza della propria incapacità a risolvere da se stessa il proprio dramma,
neppure cambiando cinque volte marito, le ha fatto percepire Gesù come un
bene così desiderabile che non ha potuto evitare di gridare: «Signore […],
dammi di quest’acqua, perché non abbia più sete»14.
Senza un’esperienza di Cristo come pienezza dell’uomo, l’ideale del cristianesimo per il matrimonio si riduce a qualcosa di impossibile a realizzarsi.
L’indissolubilità del matrimonio e l’eternità dell’amore appaiono come chimere irraggiungibili. In realtà esse sono frutto di una tale intensità dell’esperienza di Cristo che appaiono agli stessi sposi come una sorpresa, come la
14
FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
testimonianza che «per Dio nulla è impossibile». Solo un’esperienza così può
mostrare la razionalità della fede cristiana, come totalmente corrispondente al
desiderio e alle esigenze dell’uomo, anche nel matrimonio e nella famiglia.
Un rapporto vissuto così costituisce la migliore proposta educativa per i figli,
che attraverso la bellezza del rapporto fra i genitori sono introdotti, come per
osmosi, nel significato dell’esistenza. La loro ragione e la loro libertà sono
costantemente sollecitate a non staccarsi da tale bellezza; la stessa bellezza
risplendente nella testimonianza degli sposi cristiani che gli uomini e le donne
del nostro tempo hanno bisogno di incontrare.
1 Benedetto XVI, Apertura del Convegno ecclesiale della Diocesi di Roma su Famiglia e
Comunità Cristiana, in «La Traccia», n. 6, 2005, p. 160.
2 C. Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino 2000, p. 190.
3 Benedictus P.P. XVI, Deus caritas est, Roma 25/12/2005, n. 2.
4 Ibid., n. 4: «I greci - senz’altro in analogia con altre culture - hanno visto nell’eros innanzitutto l’ebbrezza, la sopraffazione della ragione da parte di una “pazzia divina” che
strappa l’uomo alla limitatezza della sua esistenza e, in questo essere sconvolto da una
potenza divina, gli fa sperimentare la più alta beatitudine. Tutte le altre potenze tra il
cielo e la terra appaiono, così, d’importanza secondaria: “Omnia vincit amor”, afferma
Virgilio nelle Bucoliche - l’amore vince tutto - e aggiunge: “et nos cedamus amori” cediamo anche noi all’amore».
5 Ibid., n. 5.
6 G. Leopardi, Aspasia, vv. 33-34.
7 Ibid., vv. 44-48.
8 Ct 8, 6-7: «Mettimi come sigillo sul tuo cuore, / come sigillo sul tuo braccio; / perché
forte come la morte è l’amore, / tenace come gli inferi è la passione: / le sue vampe son
vampe di fuoco, / una fiamma del Signore! / Le grandi acque non possono spegnere l’amore / né i fiumi travolgerlo. / Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa in cambio
dell’amore, non ne avrebbe che dispregio».
9 C.S. Lewis, Sorpreso dalla gioia, Jaca Book, Milano 2002, p. 160.
10 G. Leopardi, Alla sua donna, vv. 45-47 : «Se dell’eterne idee / l’una sei tu cui di sensibil
forma / sdegni l’eterno senno esser vestita…».
11 Il tema è affrontato più ampiamente in L. Giussani, Le mie letture, Bur, Milano 1996.
12 Mt 10,34-37; 39-40.
13 Cfr. Gv 4,18.
14 Gv 4,15.
Le evidenze dell’esperienza
di Carmine Di Martino *
La frontiera antropologica
In un ormai ovvio orizzonte di auto-decostruzione, l’Occidente sta rapidamente procedendo allo smantellamento del “suo” modello di famiglia, frutto
di un incontro tra la tradizione greco-romana (fin dai poemi omerici il matrimonio si trova già ampiamente strutturato, in un senso che non ci è affatto
estraneo) e quella ebraico-cristiana. È indubbiamente con il cristianesimo che
il cammino che passa attraverso oikos e familia - che rimandano entrambi alla
“casa” come sistema di rapporti parentali incentrati sul matrimonio, sulla
generazione e sulla cura (comunque intesa) dei figli e dei membri - mette capo
a quella fisionomia di famiglia che ha caratterizzato la vita sociale italiana ed
europea fino a pochissimi anni or sono e che è ora presa di mira. Si tratta di
una forma di famiglia in cui sono spinte al culmine quelle caratteristiche di
stabilità del legame, di reciprocità di rapporto, di mutuo sostegno fra i coniugi (marito e moglie), di sollecitudine per i figli, che sono comunque anticipate e adombrate in momenti e dimensioni della storia precedente, come ben
documenta - sul versante greco - la posizione di Aristotele1.
Ma che cosa sta propriamente accadendo? Qual è la trasformazione in corso?
Si tratta forse di un ampliamento delle possibilità? Qual è la reale posta in
gioco?
Si è di recente tornati a evocare la “legge naturale”, e il riferimento a questa
categoria, di matrice greca e romana, prima ancora che cristiana, segnala se
non altro la natura del problema: si può ancora parlare, al di là delle diversità
delle culture, delle epoche e delle umanità storiche, di una struttura che caratterizza l’umano come tale, pur essendo suscettibile di una rivelazione molteplice, indefinita e sempre aperta? Oppure bisogna dire, con Rorty, che «non vi
è niente nel profondo di noi, se non ciò che noi stessi vi abbiamo messo; nessun criterio che non sia stato creato da noi nel corso di una pratica, nessun
canone di razionalità che non si richiami ad un tale criterio, che non sia l’osservanza delle nostre stesse convenzioni»2?
Al di là della discussione sulla tutela giuridica delle forme di convivenza eterosessuale diverse da quella del matrimonio, il punto più significativo per
* Docente di Propedeutica filosofica, Università degli Studi di Milano
16
FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
comprendere ciò che sta avvenendo riguarda l’equiparazione tra le unioni eterosessuali e quelle omosessuali (in Gran Bretagna tale equiparazione è già
operante: le disposizioni della nuova Legge sull’uguaglianza non consentono
a nessuna organizzazione impegnata nelle adozioni di negare l’affidamento di
bambini a coppie omosessuali, in quanto tale rifiuto è ritenuto atto gravemente discriminatorio). La questione è aperta e rappresenta per più di un motivo
un luogo strategico di quella frontiera antropologica che ha segnato sin qui il
modo di concepire l’umanità dell’uomo, non solo in Occidente.
Eterosessualità e vita
Scrive Platone nel Simposio (206c-d): «Fusione d’uomo e donna frutta vita.
Questa è cosa celeste. Nel vivente destinato a morte solo questo è senza morte:
concepimento, vita che nasce. Non può sorgere vita nella sconnessione». Nella
vicenda storica, nella indefinita variazione degli stili sociali, questo rimane
invariabile. Perciò, anche presso quelle culture che hanno contemplato la pratica di forme di omosessualità, essa non è mai stata proposta come base relazionale della società (la relazione omosessuale, pur mimando quella eterosessuale, non può eguagliare quest’ultima in quanto luogo di generazione della
vita): tutte le umanità storiche fin qui conosciute si sono, per così dire, mantenute fedeli a una fenomenologia della generazione e dello sviluppo della vita
umana. Se ci domandiamo a quali condizioni si origina la vita di un essere
umano, non possiamo che rispondere, in base alle evidenze dell’esperienza: la
relazione uomo-donna e perciò la differenza sessuale. Sarebbe grottesco ascrivere questa affermazione a una cultura piuttosto che a un’altra: si tratta di evidenze originarie che attraversano e accomunano tutte le culture. E non è un
caso che in molte di esse la differenza sessuale costituisca addirittura un
modello cosmologico.
Appartiene alla struttura della relazione umana etero-sessuale il riferimento
alla generazione. Se ogni relazione io-tu - ogni diade - possiede costitutivamente il rimando al terzo, porta cioè inscritta una dimensione triadica e dunque sociale, quella tra l’uomo e la donna lo possiede in modo del tutto peculiare ed essenziale. Il riferimento al terzo si annuncia qui, infatti, come originaria apertura generativa, fondamento della socialità: telos intrinseco alla relazione uomo-donna è il terzo come generazione. La triade padre, madre, bambino si rivela pertanto come un altro nome del dispiegarsi della vita, della sua
continuità, e quindi come nucleo fondante di ogni costruzione sociale. Le
LE EVIDENZE DELL’ESPERIENZA
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viventi radici della “famiglia” (al di là della molteplicità delle sue declinazioni, incluse quelle che si presentano a prima vista contraddittorie) affondano
dunque nell’esistenza stessa dell’uomo e della donna («uomo e donna li
creò»), ovvero nella differenza dei sessi, nella loro reciproca complementarietà e nella costitutiva dimensione generativa della relazione fra essi. Se ci manteniamo nei limiti dell’esperienza, di ciò che in essa si manifesta, così come si
manifesta, senza deduzioni o costruzioni speculative, dobbiamo affermare che
l’umanità è originariamente differenziata, si presenta cioè in una duplice
forma, maschile e femminile - ogni individuo appartiene fin dalla nascita all’una o all’altra forma, sebbene essa debba poi svilupparsi in attualità nel corso
dell’esistenza -, e che la relazione eterosessuale è condizione di insorgenza
della vita umana.
Se, oltre a ciò, interroghiamo le condizioni dello sviluppo dell’essere umano si
mostra ad un ulteriore livello in che senso la famiglia fondata sull’unione
matrimoniale non sia facilmente classificabile come un che di circoscritto,
riferibile all’una o all’altra cultura. L’uomo è un essere strutturalmente aperto,
definito dal compito inesauribile di «divenire ciò che è», come diceva
Nietzsche. Rispetto a tutti gli altri viventi, ha una caratteristica del tutto particolare: ha bisogno per la propria formazione di una “educazione” eccezionalmente lunga. Mentre gli animali, in un tempo breve, a volte brevissimo, sono
in grado di attuare autonomamente tutti i comportamenti di cui geneticamente
dispongono, per l’uomo vi è la necessità di una lunga traiettoria educativa e,
da un certo punto di vista, non si può dire che egli sia mai completamente compiuto. La stabilità della relazione generativo-educativa e la continuità della
cura sono, perciò, richieste dalle caratteristiche stesse dell’itinerario di sviluppo della vita umana personale. Tale processo non implica solo la diade madrebambino, bensì anche la figura maschile-paterna: esprimendoci sbrigativamente, l’emergenza dell’identità del soggetto umano ha un essenziale bisogno
di avvalersi di differenza, complementarietà e chiarezza delle figure e dei ruoli
rappresentati dall’uomo e dalla donna.
La produzione dell’individuo
Gli elementi richiamati appartengono indubbiamente a un patrimonio di evidenze che sono state condivise anche al di là dei confini della nostra cultura.
Se esse sono oggi poste radicalmente in questione è in ragione di una singolare e profonda alleanza tra le derive relativistiche e nichilistiche che pervadono
18
FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
la nostra cultura e la marcia “apodittica” delle tecno-scienze. Mediante il solidale concorso di relativismo etico e razionalità tecno-scientifica ci incamminiamo oggi verso una inaudita possibilità di produzione dell’uomo, di cui la
clonazione rappresenterebbe la tappa più significativa, che promette (o minaccia) lo sganciamento della vita umana dalla relazione uomo-donna e dai corpi:
la clonazione dell’individuo umano - qualora venisse realizzata e legalizzata segnerebbe di fatto il superamento o la relativizzazione del concepimento e
della nascita, come eventi di dipendenza da un corpo materno e dal rapporto
tra un uomo e una donna. Senza dubbio, tale produzione artificiale dell’uomo
resterebbe di principio derivata rispetto alla procreazione originaria; ma quest’ultima, nella misura in cui rimanesse praticabile e socialmente ammessa,
rischierebbe di venire chiamata «naturale», non più nel senso di originaria,
bensì in quanto semplicemente opposta a quella «artificiale». Alla domanda se
tutto ciò si ponga ancora come un problema, se sia in qualche modo contestabile, non si può rispondere - al di là di una certa retorica dei limiti - che vi siano
margini effettivi di controfattualità: ciò che si può fare è oggi considerato per
ciò stesso legittimo.
Ora, dal momento in cui le tecno-scienze possono produrre individui “umani”
e la vita si separa dalle sue originarie condizioni d’insorgenza e di crescita (è
questo, al di là degli intendimenti soggettivi e degli scopi umanitari, il senso
destinale della fecondazione artificiale e della prospettata gravidanza in uterimacchina), il figlio può venire decontestualizzato, considerato come un
“oggetto” programmabile e trasferibile in qualsivoglia contesto relazionale
(etero o omosessuale): l’unica clausola è che sia rivendicato dall’insindacabile libertà di individui adulti soggetti di inalienabili diritti, prescindendo del
tutto dalla tipologia della relazione (etero o omosessuale) e dalla connessa possibilità della coppia di rappresentare un ambito idoneo allo sviluppo del nuovo
individuo umano. A questo livello scatta infatti il veto relativistico a qualunque forma di discriminazione.
Differenza sessuale e storicizzazione dell’uomo
Nella equiparazione di omosessualità ed eterosessualità sottesa alla discussione intorno alla famiglia, ciò che viene più o meno esplicitamente preso di mira
è il carattere originario della differenza sessuale, vale a dire, cogliendo per
intero la posta in gioco, l’esistenza nell’uomo di un livello strutturale, che resista alla sua riconduzione alla storia. Vi è nell’uomo qualcosa di originario,
LE EVIDENZE DELL’ESPERIENZA
19
invariabile, indeducibile dalle circostanze storico-sociali? Nella questione
della differenza sessuale si gioca allora un problema tutt’altro che localizzato:
la supposta definitiva risoluzione dello strutturale nello storico.
Non occorre compiere sforzi particolari per notare che, relativamente alla sessualità, la linea che si sta imponendo nella nostra cultura e nelle legislazioni
che più coerentemente la esprimono è la seguente: portare la differenza sessuale sul lato delle “realtà” esclusivamente culturali, sprovviste di qualsivoglia
originarietà e quindi essenzialmente infondate e di diritto modificabili.
L’identità sessuale viene intesa come un mero prodotto storico-culturale e
sociale. In quest’ottica, lo sviluppo dell’identità sessuale non obbedirebbe ad
alcuna predelineazione di senso: il possesso di una struttura corporea sessuata
e differenziata all’origine non rappresenterebbe un apriori o una condizione
potenzialmente vincolante della differenza di identità (di identificazione) sessuale e non alluderebbe ad alcun orientamento o vocazione dell’individuo.
Sta avvenendo un radicale e sinora sconosciuto sradicamento di principio dell’identità sessuale dalla sua base corporea e perciò da ogni condizionamento
per così dire “strutturale” (Freud, al contrario, pur nella sua prospettiva riduzionistico-biologistica, interrogandosi sulla genesi delle strutture psichiche, si
imbatte nell’indeducibilità della differenza sessuale: «in tutto il suo mistero si
erge dinanzi a noi il dato biologico della duplicità dei sessi, elemento ultimo
del nostro sapere, caparbiamente irriducibile ad altro»3). Il processo di identificazione - dal punto di vista della sessualità, ma non solo - non ha in sé nulla
che lo orienti. Il possesso di organi sessuali differenziati, in primo luogo, non
rappresenta più un’indicazione e non condiziona (non deve farlo) lo sviluppo
sessuale dell’essere umano, il quale può prendere indifferentemente e legittimamente qualsiasi direzione. L’identità sessuale diviene a tutti gli effetti una
scelta, un’opzione (in Spagna la legislazione prevede che si possa «decidere»
l’identità sessuale, qualunque sia la propria struttura corporea; nella medesima
scia, la Regione Toscana ha approvato nel 2004 una legge che, all’articolo 10,
tutela la «scelta dell’orientamento sessuale o della identità di genere»).
La manipolazione dei corpi
Se l’identità sessuale viene di principio separata dal possesso di un corpo sessuato, ciò che si produce è una frattura nell’umano, che dà luogo da un lato a
una riduzione oggettivistica (biologistica) del corpo e dall’altro a una forma
estrema di soggettivismo, vale a dire a una immagine di soggetto come asso-
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FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
luta possibilità di dominio, arbitrio incondizionato. Ma se il corpo umano è
originariamente sessuato, come ciò può essere senza connessione con una possibilità di esistenza, con un modo d’essere orientato al mondo e all’altro, che,
per quanto non garantito a priori e necessariamente chiamato ad attuarsi, trova
già all’inizio la sua prefigurazione? Negare che la differenza sessuale sia già
una intenzionalità, una “tensione verso”, e porti in sé la ricerca di ciò che è
altro e complementare, significa ridurre il corpo umano a pura “biologia”.
Detto altrimenti: quando avviene la radicale separazione tra organi sessuali e
sessualità il corpo diviene intrinsecamente insensato. All’opposto di ciò che si
potrebbe supporre, la libertà nichilistica dai vincoli di una struttura originaria
dell’uomo non celebra il trionfo del corpo, bensì la sua soppressione, ne rappresenta cioè una forma sottile e paradossale di relativizzazione e di annullamento. Le conseguenze di questo sacrificio del corpo si estendono al di là dei
confini della questione sessuale. Privati di ogni valore identificativo, di ogni
senso nella prefigurazione dell’identità, i corpi si offrono infatti a una manipolazione di principio senza limiti, in quanto supporti divenuti interamente
insignificanti, congegni biologici da smontare e rimontare, tecnologicamente
riproducibili, puri strumenti della volontà soggettiva e della volontà generale
(dei poteri e del mercato). Il corpo viene trasformato in puro materiale di sperimentazione.
Attraverso questa linea - che caratterizza in modo esplicito tendenze dominanti
della nostra cultura, in grado di imprimere la loro direzione alle legislazioni si sta facendo largo, per quanto ciò possa sorprendere, una concezione immaterialistica, o spiritualistica in un senso nuovo, dell’individuo, altra faccia di
quella biologistica, in cui si consuma una drastica separazione tra il fisico e lo
psichico, lo scioglimento del legame tra il livello corporeo e quello psicologico-personale. Ci troviamo di fronte a uno “spiritualismo tecnologico”, in cui il
corpo viene rimosso, in quanto privo di senso e dunque illimitatamente manipolabile. Si tratta di un tentativo di disincarnare l’uomo, cioè di pensare il
soggetto fuori dalla sua caratterizzazione corporea concreta e dalla trama strutturale di dipendenze che quest’ultima reca necessariamente con sé, al fine di
sottrarlo a ogni dipendenza.
Le differenze indifferenti
Con ciò si esaspera la supremazia del principio di volontà e il rapporto volontaristico con il mondo, tipico dell’epoca moderna: anche la sessualità - in
LE EVIDENZE DELL’ESPERIENZA
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quanto perde la sua caratteristica di pre-datità - cade sotto il dominio della
volontà. Nel sodalizio di relativismo etico e tecnologia si compie in un certo
senso l’idea moderna di soggettività, che mira a neutralizzare ogni dipendenza e ogni eteronomia a favore di un soggetto sovrano, provvisto di una libertà
concepita come incondizionata indipendenza e libertà di scelta. Ma che cosa
vuole questo soggetto assolutamente autonomo? Non vuole altro che se stesso. Non vuole dipendere dall’altro, da altro. Non vi è discontinuità tra l’abolizione della dipendenza originale, che ha in quella dal corpo un suo segno peculiare, e la negazione dell’alterità dell’altro, la negazione cioè della differenza.
L’una comporta l’altra, è prodromo dell’altra. Non è solo la differenza sessuale, ma è la differenza come tale a venire oggi profondamente posta in questione e con essa ogni forma di relazione, tra soggetti come tra culture. Senza alterità, senza differenza, infatti, non vi può essere relazione.
Nella equiparazione dell’omosessualità alla eterosessualità, nella riduzione
dell’identità sessuale a una scelta, si evidenzia e si riflette - al di là di ogni
valutazione ideologico-soggettiva - il tratto profondamente narcisistico del
nichilismo, come impotenza o incapacità di uscire da sé, di pensare e di accogliere la differenza, l’alterità. Narcisismo e “omo-sessualità”, allora, prima e
più che costituire i temi di una psicologia o di una fisiologia delle pulsioni,
rappresentano forse - intesi in senso lato - una cifra del nostro tempo, in cui il
desiderio dell’altro si “converte” in desiderio di sé, di un altro se stesso, della
propria immagine, del proprio clone. Ma la corsa alla clonazione umana non
nasconde anch’essa l’aspirazione a una narcisistica e infinita replica di se stessi? Ora, l’abolizione o il misconoscimento della differenza chiude lo spazio del
desiderio e della relazione amorosa, giacché il desiderio è sempre e costitutivamente desiderio dell’altro, di altro, oltre sé (non è un aspetto insignificante
del nostro presente il deprimersi dei desideri e la necessità di provocarli artificialmente, attraverso opportune eccitazioni, come per esempio documenta il
dilagare di una sempre più capillare pornografia).
Com’è possibile - si potrebbe facilmente replicare - dire questa assurdità? C’è
qualcosa di più celebrato oggi delle “differenze”? Guardiamo più a fondo. È
vero, oggi non si fa che parlare di differenze e di salvaguardia delle differenze, ma non si porta allo scoperto la condizione o il prezzo di tale legittimazione: il loro svuotamento, la loro totale formalizzazione. Esse sono tutte egualmente ammesse in quanto divenute tutte egualmente ingiudicabili, cioè arbitrarie e indifferenti. Le differenze per un verso vengono difese in nome dei
diritti e delle libertà, per altro verso e più profondamente esse vengono annullate in una in-differenza. Si può scegliere di essere maschio, femmina, bises-
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FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
suale, omosessuale, ecc. (la lista è di principio inchiudibile): le differenze sono
tutte concepibili e giuridicamente garantite, proprio in quanto sono tutte indifferenti, intrinsecamente insensate e solo soggettivamente valutabili. Il giudizio
di valore è divenuto politicamente scorretto poiché teoreticamente impensabile: esso presupporrebbe infatti il riferimento a un nucleo originale dell’umano,
a una istanza strutturale sottratta allo storico. Nella radicale storicizzazione
dell’uomo, tutto sprofonda invece nel regno dell’indifferenziato: niente può
essere dichiarato falso, ma solo diverso, tutt’al più incomprensibile a questo o
quel paradigma culturale; tutto è ugualmente etico perché niente lo può essere
in modo superiore a qualcos’altro. L’indifferenza alle differenze rappresenta la
forma suprema dell’omologazione.
La legge dell’uguaglianza
L’uguaglianza diviene l’unico incondizionato principio del relativismo etico, il
solo valore irrinunciabile di fronte al pluralismo delle credenze e dei valori.
Scrive Boudon: «Questo valore implica che tutti gli individui, tutti i gruppi e
tutte le culture siano trattati come uguali; ma poiché gli individui hanno opinioni diverse su ogni sorta di problema, e poiché i gruppi e le culture aderiscono a valori che variano, non si può restare fedeli a questo principio se non
ammettendo che non esiste né verità, né oggettività, nel caso di valori diversi
da quello dell’uguaglianza. Questi valori devono essere considerati come semplici punti di vista, altrimenti bisognerebbe ammettere che i valori degli uni
possano essere superiori a quelli degli altri, e ciò sarebbe in contraddizione con
il principio d’eguaglianza»4.
Si realizza in sostanza un decisivo e inindagato trasferimento di piano: da
quello etico dell’uguaglianza nella dignità, a quello ontologico e gnoseologico
dell’uguaglianza nella verità. Tutto viene così rigorosamente sottoposto alla
legge dell’equivalenza. Un sintomo di ciò è la nostra incapacità di pensare l’inumano, l’anomalia, l’anormalità, o quello che fino a qualche decennio fa si
chiamava perversione. L’anomalia diviene essa stessa una scelta (si pensi alla
“riabilitazione” della pedofilia in Olanda, rubricata tra le differenti tendenze
possibili e giuridicamente tutelabili), e cessa perciò di poter essere pensata
come anomalia. Il tema dei nuovi modelli di convivenza è solo uno dei risvolti di questo medesimo nodo teorico. Come si sceglie l’identità sessuale, così si
deve poter scegliere il modello di convivenza che soggettivamente si riconosce come più confacente (tra quelli disponibili nessuno dovrebbe di principio
LE EVIDENZE DELL’ESPERIENZA
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essere escluso, nemmeno, per quanto l’ipotesi possa essere triviale, quello promiscuo uomo-animale, poiché ogni esclusione rappresenterebbe un’implicita
discriminazione, la riproposizione di un giudizio di valore, il riferimento surrettizio a un invariante). Il catalogo delle scelte può avere solo limiti di fatto,
non di principio; l’argine può essere di natura politica, ma non teoretica.
Il ritorno all’esperienza
Se gli accenni compiuti hanno una qualche pertinenza, nella discussione sulla
famiglia ne va dell’intera questione antropologica. Ora, nel rapportarsi all’urgenza dell’attualità, non bisogna rinunciare a esercitare la critica, a rivendicare l’uso della ragione, a produrre tesi, a vigilare sulla formulazione e la promulgazione delle leggi. Ma insieme occorre essere consapevoli che tutto ciò,
per quanto necessario, non basta. Occorre diventare nuovamente capaci di
ritornare alle cose stesse. Si tratta di riguadagnare un accesso all’esperienza e
alle evidenze che le sono proprie, e ciò implica l’individuazione di un metodo,
affinché non ci si limiti a dibattere argomentazioni che rischiano di essere inefficaci e lasciare tutto come prima. È necessario insomma che si rispalanchi lo
sguardo della ragione a ciò che si offre originalmente nell’esperienza. Ogni
soggetto che lo voglia deve poter fare il percorso da se stesso e non semplicemente sentirsi chiamato ad aderire ai pregiudizi degli uni o degli altri. «Non ci
possono bastare i significati ravvivati da intuizioni lontane e confuse, da intuizioni indirette - quando sono almeno intuizioni. Noi vogliamo tornare alle
“cose stesse”»5, scriveva Husserl. Oltre l’esperienza non vi è altra fonte di
legittimazione: ogni “realtà”, nel senso più lato, si rivela e può rivelarsi nel suo
senso solo in una esperienza. Tutto ciò che si manifesta è relativo o interno ad
una esperienza. Ma interrogare l’esperienza non è un esercizio al quale normalmente ci si appresti o si venga stimolati. Assai più comodo è affidarsi ai
luoghi comuni, quanto più sono ammantati di una patente di scientificità.
Riflettiamo. Se l’uomo può essere ridotto senza resti alle circostanze storicosociali e ai suoi antecedenti biologici, le conseguenze sono inevitabili.
Estremizzando: se non si dà nulla di simile ad una istanza strutturale ultima,
identica in tutti, per quanto vissuta in modi diversi e apparentemente persino
opposti, un nucleo di evidenze, esigenze e disposizioni originarie per cui ogni
uomo è uomo come noi e un riconoscimento reciproco è sempre di principio
possibile, in nome di che cosa potremmo razionalmente ricusare la pratica
della pedofilia, dell’incesto, del cannibalismo o dei sacrifici umani (esercitata
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FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
in un passato per nulla remoto, poco più di cinque secoli)? Perché tali pratiche
non dovrebbero essere considerate come costumi “differenti”, giustificabili nei
loro rispettivi contesti e non giudicabili in base alle nostre categorie culturali?
Se ragioniamo relativisticamente, non vi è alcuna possibilità di ricusazione e
di critica, si può solo esercitare un divieto politico “immotivato”. Siamo disposti a questo disarmo? Soprattutto: rispecchia con fedeltà l’esperienza che
tutti compiamo?
La testimonianza come metodo
Il problema con cui abbiamo a che fare è il seguente: è possibile oggi pensare
un invariante umano? Meglio: l’esperienza non ci costringe ad ammettere che
nell’uomo è all’opera qualcosa di indecostruibile, per quanto esso si sottragga
all’esclusiva di questo o quel paradigma? È per questo che, più che di legge
naturale, preferiamo parlare di evidenze ed esigenze elementari da attingere
mediante un rinnovato sguardo all’esperienza. È l’esperienza, in quanto luogo
del manifestarsi di qualunque “realtà”, che può e deve testimoniare a favore o
contro la struttura dell’umano (da non fraintendere con la “natura” in senso
biologico), l’appello a evidenze originali.
Un aiuto possibile a guardare all’esperienza come fonte originaria di ogni
conoscenza è oggi a nostro avviso fornito da una più attenta considerazione
degli “effetti”. Si moltiplicano in questo senso, soprattutto negli USA (che ben
prima dell’Europa hanno dato via libera alla decostruzione del modello occidentale di famiglia), ricerche empiriche in campo sociologico, psicologico,
antropologico, ecc., che mostrano a quali effetti personali e sociali (relativi ad
adulti, bambini e adolescenti) mettano capo i “nuovi modelli” di convivenza,
legati a determinate pratiche e stili di vita individuali e collettivi. Si tratterebbe pertanto di muovere dagli effetti per ritrovare la via alle genuine evidenze
dell’esperienza.
Occorre tuttavia un’ulteriore e più decisiva considerazione. Possiamo anche
vivere “a mollo” negli effetti distruttivi, dissolutori e derealizzanti della diffusione di determinati modelli di vita, ma questo ancora non dice l’essenziale.
Resta da stabilire che cosa significhi e come sia possibile accorgersene. In
primo luogo occorre dire che l’esperienza di un “disagio” è già di per sé rivelatrice di un dissidio o di uno scarto tra lo stile di vita assunto e un livello che
abbiamo chiamato strutturale, qualcosa che proprio in tale vissuto si annuncia
LE EVIDENZE DELL’ESPERIENZA
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come irriducibile. In secondo luogo bisogna segnalare che è più abilitato a
cogliere criticamente il senso degli effetti, a leggerli come sintomi, chi vive in
qualche misura già dislocato rispetto ad essi, chi vive cioè un’esperienza in più
profondo accordo con un’istanza umana originaria. La presenza nel tessuto
sociale di persone che vivano una più compiuta esperienza di soddisfazione e
di verità dell’umano è ciò che ridesta un bisogno superiore alla codificazione,
che ripristina per così dire - al di là delle griglie e delle cristallizzazioni sociali - la consapevolezza delle proprie esigenze e disposizioni originarie. La scoperta della propria fisionomia avviene sempre a partire dall’altro, dall’incontro con figure di umanità, con forme di vita, che si impongono come più conformi a un presupposto che si rivela tale in quello stesso momento. È l’incontro con la testimonianza dell’altro - con un’esperienza vissuta - che può far
emergere consapevolmente quell’antecedente e indeducibile “struttura nativa”, suscettibile di un’indefinita attuazione, che ci accomuna all’altro e che
rende possibile la relazione stessa. L’originario si rivela e si riscopre sempre e
soltanto attraverso l’accadere di una testimonianza.
È in questa direzione che MacIntyre, in riferimento al declinare dell’impero
romano verso i secoli oscuri, faceva appello alla necessità di «forme nuove di
comunità entro cui la vita morale potesse essere sostenuta, in modo che sia la
civiltà sia la morale avessero la possibilità di sopravvivere all’epoca incipiente di barbarie e di oscurità»6. È di questo, della dimensione testimoniale della
verità dell’umano, che abbiamo bisogno; è di questo, più che di ogni altra cosa,
che bisogna occuparsi.
1 Vedi in particolare Etica nicomachea, VIII, 12, 1162a 15-25.
2 R. M. Rorty, Consequences of pragmatism, University of Minnesota Press, Minneapolis
1983, p. XLII.
3 S. Freud, Opere, vol. 11, Boringhieri, Torino 1989, p. 615.
4 R. Boudon, Il senso dei valori, Il Mulino, Bologna 2000, pp.192-193.
5 E. Husserl, Ricerche logiche, vol. II, Il Saggiatore, Milano 1968, p. 271.
Libertà in relazione
di Francesco Botturi *
Gli affetti e la loro scomposizione
Stiamo vivendo a ritmo accelerato un passaggio culturale di grande rilievo dall’epoca dello scontro delle grandi ideologie politiche totalizzanti a un’epoca in
cui, come diceva Giovanni Paolo II, al centro è «la disputa sull’humanum» in
quanto tale, come frontiera sulla quale sono in gioco l’esistenza e l’identità del
soggetto umano stesso. Ma il proporsi della questione dell’umano non avviene nel contesto di una cultura umanistica, bensì in quello di un prevalente
orientamento nichilista, che non è una qualche forma di ateismo, ma una
nuova sensibilità esistenziale e una nuova visione del mondo in cui si mescolano, in un equilibrio instabile ed equivoco, un certo senso della gratuità dell’accadere del mondo e una sua sfrenata manipolazione tecnoscientifica. In
comune, la crisi profonda dell’idea di fondamenti intangibili dell’umano e il
venir meno di riferimenti universalistici, anche quelli moderni come natura e
scienza, famiglia e diritto, politica e storia, ecc.
In questa temperie diventa difficile all’uomo contemporaneo fare davvero
esperienza della sua vita, vivere l’esistenza alla luce di un criterio di senso che
la renda una totalità unificata.
Un ambito di particolare significato antropologico, in cui questa difficoltà a
comporre l’esperienza è visibilmente operante è la scomposizione di ragione e
affetti. Il prevalere sociale della razionalità tecnologica, che è ormai pervasiva di ogni ambito dell’esistenza e si impone di fatto al di là di ogni resistenza
o dissenso, tende ad assimilare a sé ogni forma di razionalità; ma la razionalità analitica e calcolatoria tecno-scientifica di per sé estranea l’affettivo dalla
sfera del razionale. Mentre l’affettività, a sua volta, essendo sempre meno in
comunicazione con criteri razionali, si sviluppa in termini sempre più soggettivistici e anomici.
In definitiva, la scissione tra razionalità calcolante (tecnologico-scientifica) e
vissuto affettivo ed emotivo sta diventando la condizione “normale” dell’uomo
contemporaneo. La tecnologia diviene la dea realizzatrice di tutti i desideri
(come appaiono - ad esempio - le biotecnologie nell’immaginario collettivo);
l’esistenza lavorativa è vissuta come cosa opaca, oppressiva e senza gusto,
* Professore ordinario di Filosofia morale, Università Cattolica di Milano
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FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
mentre la vita affettiva è vissuta come sua immagine speculare, mondo raffinato senza regola, nomade e gratificante oppure erotismo volgare nella forma
dello sfogo compensatorio e del commercio di massa, ecc. A riprova che, se
razionalità vuol dire tecnicità, calcolo e potere analitico, tutto ciò che non vi
appartiene diventa trasgressivo, irrazionale e nomade.
In tal modo si stabilisce complessivamente una sindrome culturale radicata
e coerente, costituita da due momenti simmetrici e complementari: quello
della razionalità come potere e quella dell’affettività come emotività. Le due
dimensioni si completano e si sostengono fra loro; scisse e complementari
nella loro opposizione. La sfera emozionale esclude la razionalità, la regola,
la progettualità; la sfera razionale esclude invece l’esistenziale, il relazionale, l’affettivo.
Si dà in tal modo una «fatale separazione di emozione e razionalità - afferma a mio avviso con acume Kamper - che nessuna precedente epoca dell’umanità ha conosciuto in forma così acuta, [che] conduce a una dolorosa e
sorda anti-logica, da un lato, e dall’altro lato a una vuota logica formale che
si ripercuote sulle emozioni secondo lo schema del dominio e dello sfruttamento». In questo senso è in atto «una catastrofe emotiva», per la quale da
un lato «la socialità degli uomini si è perduta in un potere di costrizione delle
cose e, dall’altro, gli stessi essere umani sono rinchiusi nella loro dimensione privata come in una prigione senza sbarre»1.
Uno spesso velo ideologico cerca di normalizzare tutto ciò, rappresentando
questi processi come forme di una raggiunta libertà. Ma è difficile negare
l’evidenza di una sofferenza diffusa e di una frustrazione ripetuta da parte di
vite senza fisionomia affettiva definita, senza progettualità in crescita, senza
fecondità generazionale. In breve, senza storia. Nell’effettività biografica
dei singoli e nell’immaginario collettivo sembra prevalere come regola l’episodicità affettiva e l’assenza della “storia d’amore”.
Il fatto che oggi si faccia spettacolo di questa condizione, recuperando in
questo modo una certa socialità dell’asociale, non toglie in nulla, anzi aggrava la patologia delle relazioni, e quindi il vulnus collettivo. Le varie agenzie
della cultura e della comunicazione sociale sembrano interessate a gestire il
problema attraverso una sorta di scansione ritmica continuamente ripetuta:
massima liberalizzazione dei comportamenti e dei costumi; drastica privatizzazione delle esperienze e delle forme affettive, che implica isolamento,
marginalizzazione, abbandono a se stesso del singolo (del giovane, in specie); spudorata spettacolarizzazione dei casi, che significa realizzazione di
quella “società trasparente”, in cui l’importante è esibire, non capire, né aiu-
LIBERTÀ IN RELAZIONE
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tare, perché il centro dell’interesse non è affatto la cosa in se stessa (cioè la
vicenda dei soggetti reali), bensì la gestione del consenso e del conformismo
sociali. La spettacolarizzazione poi, a sua volta, legittimando la liberalizzazione e sancendo la privatizzazione, riavvia il gioco ripetitivo e sterile, cioè
senza alcun accrescimento delle relazioni.
L’esperienza e la concezione affettive contemporanee si concentrano così
sempre più nell’emozionale. Ma l’emozione è autoreferenziale, in essa l’alterità è presente solo come occasione esterna, ed è istantanea, ripetitiva,
intensiva. La situazione diviene preoccupante, quando tutta l’affettività
tende a risolversi in emozione e l’emozionalismo diviene una forma culturale predominante. Come la razionalità tecnologica è pervasiva dal punto di
vista razionale, così l’emozionalismo è pervasivo sul piano degli affetti:
diventa la forma paradigmatica del sentire nella pubblicità, nella moda, nei
mass media, nella pubblicistica, negli sport estremi, nel divertimento, nella
politica urlata.
Si comprende dunque che ciò che è in gioco non sono comportamenti discutibili o aberranti, ma qualcosa di più strutturale, cioè il modo dello stesso
“far esperienza”. Non è un problema di serietà etica degli individui, ma di
una forma mentis generalizzata, che è più forte delle (buone) intenzioni soggettive, donde, per esempio, quella ormai tipica fragilità, instabilità, volubilità dei rapporti, di cui tutti facciamo esperienza e che sorprendiamo in particolare a livello giovanile. Una mentalità emozionalista, infatti, abitua a far
attenzione a sé, ad ascoltarsi e a sentirsi sovra ogni cosa, rendendo esponenzialmente fragili nei confronti della fatica delle relazioni.
«Certo, Eros - osserva Bauman - non è morto. Ma è stato esiliato dal suo
regno ereditario e condannato - come un tempo lo fu Ahaspher, l’ebreo
errante - a vagare senza meta, a trascinarsi senza posa nell’interminabile perché eternamente vana - ricerca di un riparo. Oggi Eros lo si trova dappertutto, ma in nessun luogo resterà a lungo. Non ha indirizzo fisso»2.
Ciò conduce anche alla scomposizione dell’esperienza affettiva stessa, alla
frammentazione dell’amore; nella proporzione in cui prevale la chiave di lettura emotiva, diventa difficile vedere con chiarezza i nessi profondi di senso
e di valore tra sessualità e affettività, tra concezione e generazione, essendo
il proprio sentire la misura che pone o scompone, depone o ricompone l’esperienza affettiva. Ma soprattutto diventa più facile assimilare la relazione
affettiva a bene di consumo, a «relazione tascabile» - come la chiama
Bauman -, considerata soddisfacente e liberante nella misura in cui non crea
legami e vincoli.
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FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
Libertà e potere
In questo quadro che cosa significa “libertà”? La libertà si identifica con l’energia di autoaffermazione, con la rivendicazione della propria differenza, con
il potere delle proprie scelte.
Ora, questo è conforme al sentire comune molto diffuso e fortemente sostenuto dall’opinione e dalla comunicazione pubblica. Tanto che si potrebbe dire
che nell’Occidente attuale, caratterizzato appunto dalla crisi di un’universalità
culturale riconosciuta, questa idea della libertà costituisca l’(unica) idea dominante dell’ethos condiviso.
In concreto ciò significa che tutti gli ambiti dell’esperienza umana sono anzitutto ed essenzialmente esercizi di libera scelta e perciò siano interamente “a
disposizione”. Il comune denominatore è insomma la persuasione che tutti gli
ambiti in cui il soggetto appare immediatamente protagonista - come sessualità, affetti, paternità/maternità, vita, morte - sono campi di esercizio della libertà, in cui il soggetto (o quel che resta di esso) gioca tutta la sua consistenza e
dignità. La difesa della libertà è, infatti, l’argomento pubblico per eccellenza a
sostegno della temporaneità dei legami affettivi, dell’equivalenza antropologica e morale delle identità sessuali (etero/omo/bi/trans), della fecondazione tecnologica, dell’aborto procurato, della liceità dell’eutanasia. E dunque sono
scelte da difendere ad oltranza, perché ne va della libertà degli individui e delle
conquiste della modernità. Argomento che si impone anche a chi non condivide tali scelte e stili di vita, ma, in quanto scelte possibili, è pronto a riconoscerne il valore equivalente: io non sono e non faccio così, ma ogni scelta in
quanto libera vale a pari titolo di ogni altra (e quindi non può essere esternamente regolata).
Ciò significa che il contenuto della scelta viene riassorbito dalla forma della
libertà: non conta se ciò che è scelto è bene o male, ma solo se è stato scelto,
è la forma dell’essere scelto che attribuisce valore al contenuto. Indifferenza
del contenuto dunque e trionfo della forma: il formalismo della libertà come
unica origine del valore. Alle spalle sta la cancellazione dell’idea della libertà
come adesione al bene, essendo lo stesso scegliere l’unico bene.
Per questo i dibattiti sui temi etici del nostro tempo sono spesso dialoghi tra
sordi: per quanto sforzo ci si metta a richiamare alla realtà dei fatti, alle ragioni delle cose, al fine della persona, al bene comune, se il valore è la libertà di
scelta, non ci sarà argomento in grado di persuadere di alcunché, perché esiste
un argomento unico e monotono, vincente e sempre pronto: il primato della
libera scelta.
LIBERTÀ IN RELAZIONE
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Questo, a ben vedere, è anche l’unico criterio che sta a capo del rispetto, del
dialogo, della tolleranza, insomma dei maggiori valori pubblici dell’Occidente, il cui contenuto in molti dibattiti non è che lo spazio neutro delle opzioni; si dialoga per dialogare: la questione della verità del bene e della libertà
stessa non è mai in gioco (appunto perché si ritiene che non vi sia verità e bene
come misure della libertà stessa). Dove incontrare ormai un dibattito che discuta del bene/male di un certa scelta e dunque dove trovare una qualche preoccupazione per la buona o la cattiva sorte di chi la compie o anche solo per gli
effetti che essa produce? Si fa irreperibile l’interesse per la giustezza delle cose
e per il destino delle persone; basta che siano libere: l’indifferenza ostentata per
il contenuto diventa indifferenza sostanziosa per le persone. Anzi, ogni apprezzamento di valore dei contenuti può essere considerata già una mancanza di
rispetto, un’ingerenza nello spazio neutro della condivisione.
Ovviamente non è in questione il valore della libera scelta, del rispetto, del dialogo, della tolleranza, ma che l’idea della libertà si sta sempre più riducendo a
un significato unico e isolato, astratto e vuoto; che questo sembra essere l’ultimo fondamento di valore dell’ethos occidentale; di cui esso peraltro va orgoglioso e a cui è attaccato come ostrica allo scoglio, quasi per trattenersi dallo
sprofondare nell’abisso del nulla.
Libertà generativa
Non c’è da meravigliarsi che in questo contesto si formuli una sindrome che
unisce l’esperienza libertaria della libertà, il desiderio ridotto ad emozione narcisistica, il potere tecnologico disponente, e che l’esistenza si progetti come
potere della libertà, che usa una tecnica (ritenuta) capace di trasformare integralmente ogni natura, per realizzare qualunque desiderio della libertà; cerchio perfetto, in cui l’uomo fa della sua vita l’oggetto del suo proprio esperimento (mentale, affettivo, empirico).
La realtà maggiormente messa a prova da questo vortice sono le relazioni tra
gli uomini, e in specie quelle che più intimamente coinvolgono i soggetti come
quelle affettive e sessuali, perché anche le relazioni saranno inevitabilmente
interpretate come paradiso dei desideri, resi oggetto di manipolazione illimitata ed esperimenti della libertà. E correlativamente l’identità dei soggetti, per
loro natura sempre in definizione entro le loro relazioni, sarà vissuta come una
costruzione totalmente affidata alla libertà. Inevitabilmente la famiglia non
potrà essere concepita come un progetto orientato a beni propri e vincolanti:
32
FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
una differenza sessuale irriducibile, una stabilità esigibile, una fecondità predisposta; ma sarà anch’essa una forma disponibile a molti modi e contenuti.
Più una recita a soggetto, insomma, che un progetto.
Tutto ciò ha degli evidenti costi umani, ma è anche terribilmente coerente, se
libertà, tecnica e desiderio sono interpretati in quel modo. Non è facile perciò
un cambiamento di prospettiva, come l’esperienza dimostra. Solo un dubbio
sulla reale soddisfazione delle aspettative della propria libertà e del suo desiderio può riaprire il gioco dell’attesa verso beni più belli e più grandi.
Ciò passa anzitutto attraverso un diverso senso della libertà. Certamente la
libertà è potere di scelta, ma ha anche bisogno di essere attivata, sollecitata e
orientata per essere pienamente se stessa. Come la bella addormentata - pur
essendo già perfetta nella sua bellezza - ha bisogno di essere risvegliata dal
bacio del principe, così la libertà umana ha bisogno della graziosa e gratuita
relazione ad altra libertà per entrare in possesso pieno di se stessa, per dar
forma compiuta all’identità umana di cui essa è portatrice. Questa del resto è
l’esperienza universale del bisogno che il piccolo d’uomo ha dell’adulto per
crescere e diventar se stesso; fenomeno che accompagna la sua vita lungo tutto
il suo corso, perché l’amore, l’amicizia, il riconoscimento sociale sono su piani
e in gradi diversi tutte forme della relazione interumana necessaria alla stabilità e alla crescita dei soggetti, cioè alla definizione storica della loro identità.
La dinamicità di questo essere in relazione è affidato, dunque, al bisogno dell’altro che il soggetto ha per entrare e rientrare continuamente in possesso
delle sue stesse capacità. La libertà ha bisogno che un’altra libertà si rivolga a
lei per giungere a se stessa, per acquisire il suo potere di decisione e la sua
forza di identificazione. Il soggetto ha bisogno di riconoscimento, ma essere
riconosciuto significa essere ospitato e venir ad abitare in altri, nella sua conoscenza e nel suo affetto. In qualche modo l’accoglienza positiva da parte di
altri offre al soggetto un accertamento e una prospettiva che il soggetto non
potrebbe darsi. La libertà ha bisogno di un’altra libertà per giungere a se stessa e per esercitarsi nella pienezza della sua capacità.
Anche l’esperienza del bene prende forma e rilievo nella relazione. Il senso del
bene non lo si ha attraverso un’astratta idea, ma nell’esperienza di una relazione buona e indispensabile, di cui cioè sperimentiamo il bisogno inderogabile. Ciò è così fondamentale che la maturazione umana di questa struttura dell’esperienza coincide con la formazione stessa della coscienza morale, che di
tale struttura evidenzia che la libertà non è fine a se stessa, ma ha un senso, una
direzione che va dall’essere suscitata e costantemente nutrita dalla relazione
da/con altra libertà all’essere orientata al bene proprio e dell’altro.
LIBERTÀ IN RELAZIONE
33
In questo triangolo della relazione, della scelta e del bene prende consistenza
l’esperienza morale, in cui la libertà prende coscienza di essere vincolata a
questa struttura, di doverle rispondere, non come a qualcosa che le si impone
dall’esterno, ma come ciò che le permette di vivere. Rispettare l’obbligo (legame) morale dell’altrui libertà e del bene è il modo con cui la libertà conserva
e realizza se stessa.
Infine, il nesso tra le forme della libertà (di scelta, di bene, di relazione) suggerisce che il soggetto umano ha la sua identità non in un’astratta differenza,
e neppure in una unità comunitaria, ma in un legame generativo. La relazione
di riconoscimento, infatti, è una forma - forse la fondamentale - di generazione, dal momento che essa ha il potere di portare alla luce l’altro uomo. Non
solo per chi riceve il riconoscimento esso è generativo, ma anche per chi lo
concede l’offerta di ospitalità fatta all’altro è già esercizio di libertà e quindi
assicurazione e incremento di un legame generativo. In tal modo l’identità
umana ottiene la sua fisionomia all’interno del gioco delle relazioni, nella
misura in cui queste si realizzano come scambio generativo: l’essere umano
esiste in proporzione del suo essere generato e quindi dell’essere in relazione
d’appartenenza con un luogo d’origine; e questo sta a fondamento di una concezione umanistica dell’uomo e della sua società.
La modernità ha identificato spesso la dignità dell’uomo con una astratta autonomia, che lo ha sottratto all’esperienza elementare, realistica e benefica della
dipendenza antropologicamente originaria e originante dall’Altro, che unica
mette in grado di essere a propria volta generatore e quindi protagonista. E la
postmodernità, a sua volta, ha proseguito nella linea della demolizione dell’individualismo, ma senza rimetterne in discussione il paradigma fondamentale.
È fortemente simbolico il fatto che l’ideologia tecnocratica diffusa nell’attuale esercizio delle biotecnologie lavori alla rinominazione della generazione
come riproduzione (eventualmente assistita). È ovvio infatti che là dove il vincolo generativo non è avvertito come cifra dell’umano come tale, si finisca per
puntare alla disposizione illimitata della vita umana.
Al contrario, la cifra della generazione riarticola l’esperienza in modo unitario
e plurimo insieme, perché implica un complesso antropologico ricco di contenuto, dinamico nella realizzazione, affidato ad eventi di libertà. La generatività umana, infatti, significa genesi e legame, trasmissione e tradizione, cura ed
educazione, responsabilità e fedeltà.
Allora l’avventura famigliare ritrova senso e attrattiva, non come impegno
specializzato, ma come paradigma di identità, libertà e relazione in cui l’umano trova più degna soddisfazione. L’idea occidentale di famiglia, infatti,
34
FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
incorpora un’idea di uomo che costituisce un vertice di ogni possibile umanesimo. È appunto l’idea che l’uomo ha un’identità relazionale generativa, un’identità che si esercita e si costruisce come relazione generatrice d’altra identità, che consiste in un essere in relazione che accoglie l’altro nella sua reale e
piena differenza e in questo senso lo genera e consegna a se stesso: il rilievo
della differenza sessuale, il valore della durata del legame in cui l’altro permane significativo nel tempo, l’apertura alla corposa alterità del figlio sono
caratteri tipici di questa concezione dell’identità umana che si costruisce
facendo esistere in molti modi l’altro accolto nelle sue irriducibili differenze.
Una fisionomia umana e di una dinamica d’esistenza, la cui perdita non significa una sconfitta della tradizione religiosa cristiana, ma la perdita di un patrimonio e la dissipazione di una risorsa essenziali per la conservazione e la fruttificazione di tutto ciò che vi è di più prezioso della civiltà occidentale.
1. D. Kamper, Desiderio, in A. Corsari (a cura di), Cosmo, corpo, cultura. Enciclopedia
antropologica, Mondadori, Milano 2002, p. 1021 e ss.
2. Z. Bauman, Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Laterza, Roma-Bari 2004,
p. 55.
Il significato dell’insistenza della Chiesa
sulla questione della “legge naturale”
di Alfonso Carrasco Rouco *
Magistero della Chiesa e legge naturale
L’affermazione dell’esistenza della “legge naturale” appartiene alla tradizione
cattolica dal suo stesso inizio ed è stata mantenuta nel corso dei secoli1. Per
essa, non è stato un ostacolo neppure la radicale questione antropologica della
Riforma e nemmeno, in un primo momento, il razionalismo moderno, che parlerà anche di religione e di morale naturale o razionale2.
La novità della negazione di questa “legge naturale” avviene dopo il cambio
del regime politico che apre il XIX secolo, e che si imporrà nel corso di questo secolo. La risposta ecclesiale starà in nuove sintesi di diritto naturale di
stile neoscolastico3.
Proprio in quest’epoca le questioni relative alla “legge naturale” cominciarono ad essere oggetto di trattamento magistrale, inizialmente da parte di Pio IX4
e in maniera decisa da Leone XIII5 e Pio XI6.
L’appello alla legge naturale raggiunge un momento culminante con l’insegnamento di Pio XII, in risposta alla tragedia dei totalitarismi e della seconda
guerra mondiale. Il Papa ricorderà in differenti occasioni che il criterio della
giustizia è la legge inscritta dal Creatore nel cuore dell’uomo, che riceve la
luce della ragione ed è confermata dalla rivelazione7.
Anche Giovanni XXIII presenta la “legge naturale” quale guida del giusto
comportamento dell’uomo e dello Stato8, come fonte dei diritti essenziali dell’uomo9.
In continuità con ciò, il Concilio Vaticano II ricorda l’esistenza della “legge
naturale”10, ma senza insistere particolarmente su argomentazioni giusnaturaliste. La Gaudium et spes mette al centro la coscienza dell’uomo, nella quale
risuona una legge inscritta da Dio11, sottolineando come la verità e il bene che la
persona è chiamata a cercare per la sua stessa natura, la sua stessa dignità, si
chiariscono solamente nell’incontro con Gesù Cristo, il figlio di Dio fatto uomo.
Paolo VI raccoglie questi insegnamenti conciliari sulla persona, e ribadisce
anche il significato della “legge naturale”, particolarmente nell’enciclica
Humanae vitae12. Giovanni Paolo II presenta l’uomo come la creatura prima e
* Facoltà di Teologia San Dámaso, Madrid
36
FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
unica, la cui grandezza si scopre solamente in Cristo e al cui servizio c’è tutta
la proposta morale della Chiesa; in questo contesto il Pontefice propone
un’ampia dottrina sulla “legge naturale”, sintetizzata nel Catechismo della
Chiesa cattolica13 e nel Compendio della Dottrina sociale della Chiesa14.
La prima enciclica di Benedetto XVI ricorda anche che la Dottrina sociale
della Chiesa «argomenta a partire dalla ragione e dal diritto naturale, cioè a
partire da ciò che è conforme alla natura di ogni essere umano»15.
Così dunque, senza la necessità di fare un’analisi dettagliata del recente magistero, si può facilmente osservare come, in mezzo ai cambiamenti sociali e
politici, nonostante le diverse obiezioni filosofiche, e spesso apertamente in
contrasto con la mentalità dominante, la Chiesa non ha smesso di insistere sull’esistenza e l’importanza di questa particolare “legge” per la vita degli uomini e delle società.
Questa costanza del magistero non può essere intesa come la semplice continuità di una dottrina tradizionale, ma come una risposta pastorale che la Chiesa
giudica imprescindibile di fronte alle sfide del tempo, nonostante le possibili
incomprensioni.
Conviene, pertanto, chiedersi: che significa, in fondo, la sorprendente insistenza della Chiesa nel sostenere l’idea di una “legge naturale” in mezzo alle
nostre società?
Superamento dell’idea di una “legge naturale”?
L’assunzione della ragione scientifica come «nuovo fondamento delle capacità umane in relazione con il mondo»16 può essere situata nel XVII secolo. Si
tratta di un assunto differente da quello proposto dalla tradizione della filosofia greca e dal messaggio della Chiesa. L’uso rigoroso e veritiero della ragione, secondo il metodo scientifico, renderebbe possibile all’uomo di far diventare trasparente ai suoi occhi il mondo, di conoscere e utilizzare la realtà, di
dominare le circostanze della vita. In questo modo, egli otterrebbe una libertà
nuova, si farebbe signore della propria vita nel mondo, signore di se stesso. I
miracoli della scienza e della tecnica sembrarono confortare questa speranza.
L’insufficienza di questa speranza utopica nel progresso fu indicata fin dall’inizio da Pascal: nello scenario immenso dell’universo, oggetto della ragione
scientifica, l’io si scopre insignificante, non riceve alcuna risposta sui motivi
della propria esistenza17. L’utopia del progresso non considera le urgenze vitali dell’uomo che esiste realmente nel mondo.
IL SIGNIFICATO DELL’INSISTENZA DELLA CHIESA SULLA QUESTIONE DELLA “LEGGE NATURALE”
37
Questo singolare paradosso si manifesterà ugualmente nell’applicazione di
questo modo di intendere la ragione all’ambito sociale e politico. Anche qui si
stabilirà l’uomo quale principio sufficiente e signore di se stesso, costituendo
liberamente ogni vincolo sociale; ma in un modo in fondo “mitico”, non riferito all’uomo esistente nel presente. Ciò trova la sua espressione storicamente
più influente nel pensiero di Hobbes18 e, successivamente, con alcune variazioni, in Rousseau19. Hobbes afferma che: non c’è niente a cui l’uomo non
abbia, per natura, diritto; il diritto naturale è la libertà di ciascun uomo di usare
il proprio potere a suo piacimento20; la conseguente condizione di guerra di
ogni uomo contro ogni altro uomo21 si risolve per mezzo di accordi che generano diritti e culminano nel potere dello Stato22.
Si esprime in questo modo un assioma antropologico centrale del pensiero
descritto: l’uomo è un individuo sovrano e libero per il quale ogni vincolo
può essere solamente il risultato di un accordo volontario: una sorta di “contratto”. L’astrazione di questo modo di considerare l’individuo, la singola
persona, porta a concezioni mitiche dello stato originale dell’uomo in natura, che tendono a svuotare di contenuto il riferimento del sistema politico a
una “legge naturale”, mentre offrono il fondamento teorico al potere dello
Stato.
Questo paradosso, per il quale in nome del dominio umano si dimenticano le
esigenze proprie della persona storicamente esistente, si manifesterà pienamente all’inizio del XIX secolo, in una filosofia idealista che sostiene radicalmente la libertà dell’uomo per poi assorbirla, tuttavia, nell’oggettività della
realtà giuridica istituzionalizzata23.
Questo cammino ha portato al predominio del diritto storico positivo, soprattutto del diritto “naturale” o “razionale”, già considerato, circa a metà del XIX
secolo, un semplice sogno vuoto. Il positivismo giuridico si imporrà generalmente a partire dalla seconda metà del secolo e, solamente dopo la straordinaria esperienza di ingiustizia e negazione della più elementare dignità umana
che ha dovuto sperimentare l’Europa nella seconda guerra mondiale, avrà
luogo una svolta decisiva nelle fondamenta del sistema politico verso una giustizia e una “legge naturale”, trascendente l’arbitrio del potere umano.
Il Concilio Vaticano II, che non volle limitarsi alla condanna del positivismo
giuridico, sostiene, inoltre, la trascendenza della persona umana concreta, la
cui dignità e libertà, ovvero i diritti fondamentali, non potranno mai essere
ridotti ad un prodotto di nessun sistema giuridico24. Insisterà, in particolare, sul
significato della libertà religiosa e di coscienza di ciascuno, che non può essere impedita o costretta da nessun potere umano25.
38
FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
Nel centrare così l’attenzione sul significato unico e trascendentale dell’uomo,
il Vaticano II si riferisce a ciò che era, fin dall’inizio, l’obiezione maggiore alle
utopie della ragione “scientifica” moderna: l’assenza di considerazione e
risposta all’uomo concreto, che deve realizzare la sua esistenza nel presente.
In quel momento sembrava evidente l’impossibilità di accontentarsi di orizzonti utopici o mitici, soprattutto quando il richiamo ad essi, in versione nazionalista o rivoluzionaria, era servito a giustificare l’ingiustizia e il disprezzo
dell’umanità. In effetti, per un certo periodo apparve con chiarezza il significato di una “legge naturale”, l’invito al riconoscimento da parte di tutto il sistema giuridico della trascendenza della dignità e dei diritti fondamentali dell’uomo, quale garanzia della sua legittimità26.
Attualmente, tuttavia, si sta generalizzando di nuovo la convinzione dell’insuccesso di questo rinascimento del diritto naturale. Si presuppone una conoscenza razionale della natura umana e si pretende di imporre, di fatto, una
determinata concezione filosofica27. Ma l’espressione normativa di una particolare concezione del mondo non può essere la base della convivenza in una
società di tipo democratico e plurale.
Si proverà, di conseguenza, a percorrere cammini differenti per la costruzione
della convivenza, evitando da un lato una “legge naturale” di cui già non si
riconosce un’universalità, e dall’altro un positivismo giuridico i cui errori e
pericoli sono già stati sperimentati ampiamente.
In questo senso, è degna di essere citata la proposta di Habermas28 che espone
esplicitamente il problema: i fondamenti morali del diritto positivo da un lato
non possono essere intesi come la supremazia di un diritto razionale; dall’altro però non possono neanche essere semplicemente liquidati. Propone, pertanto, di considerare il procedimento giuridico stesso come luogo in cui la
razionalità morale si presenta all’ambito del diritto e della politica, garantendo il principio di imparzialità nella formazione di giudizi e decisioni. Il principio morale che deve essere presente nel procedimento è la partecipazione in
libertà e uguaglianza di tutti gli interessati. Gli ordinamenti giuridici così prodotti, con procedimento democratico, ottengono legittimità.
L’argomentazione di Habermas ha il merito di rifiutare chiaramente il positivismo e di affermare la necessità dei fondamenti morali del diritto. Tuttavia, la
sua identificazione della legittimità propria del diritto con un procedimento
democratico, rispettoso della libertà e dell’uguaglianza di tutti, risulta essere
più l’affermazione di un fatto che la sua spiegazione. La condizione per cui è
possibile una democrazia realizzata è precisamente la salvaguardia, davanti al
potere dello Stato, dell’uguale dignità, libertà e diritti fondamentali di ciascu-
IL SIGNIFICATO DELL’INSISTENZA DELLA CHIESA SULLA QUESTIONE DELLA “LEGGE NATURALE”
39
no. In questo senso, si potrebbe dire che l’argomentazione di Habermas non
esclude a priori un’adeguata comprensione della “legge naturale”; ma la sua
reinterpretazione puramente procedimentale corre il rischio di avere minor
difesa di fronte all’abuso di gruppi di potere o di fronte a un’assolutizzazione
del sistema politico.
Una riduzione alla dinamica socio-politica della “legge naturale” è contenuta,
ad esempio, nella «teoria del sistema sociale»29, che la presenta come un
momento all’interno dell’evoluzione della teoria giuridica fino all’attuale positivizzazione completa del diritto. Si tratterebbe, quindi, di un passo nel cammino dal diritto arcaico al moderno, positivo per aver introdotto una differenziazione che permetteva la critica e la correzione del diritto vigente.
L’evoluzione culminerebbe, infatti, nell’attuale situazione occidentale secolarizzata, in cui la normativa giuridica tiene già conto dei rapidi cambi sociali,
segue le esigenze della dinamica scientifica, tecnica ed economica di una
società altamente complessa. L’assunzione di questa flessibilità giuridica si
giustifica, perché la dinamica tecnico-economica libera l’uomo da molte
schiavitù e gli offre nuove possibilità di azione.
In questo contesto, la stessa connessione democrazia-costituzione-diritti
umani, in quanto espressione di un momento dell’evoluzione socio-giuridica,
è relativizzata e dovrebbe essere, per le rigidezze che introduce nel sistema,
lasciata indietro. Il diritto è legittimato dal suo servizio all’uomo, quindi serve
alla sua libertà, ma senza vincoli come “soggetto” in senso classico. Se fosse
conveniente, lo Stato potrebbe stabilire l’esistenza di diritti soggettivi, però su
base positiva.
Queste posizioni arrivano alla loro formulazione più radicale in ciò che è
stato definito «neopositivismo giuridico», che definisce il diritto come un
principio che assicura il sufficiente equilibrio degli interessi presenti30. La
ragione moderna, “scientifica” e neutra, capace di integrare il pluralismo,
deve considerare i valori morali e gli ideali personali come preferenze e convinzioni “casuali” di individui e gruppi determinati, mancanti, quindi, di universalità. Un uso della ragione rigoroso e universale, con la pretesa di essere
accettato da tutti, non potrà riferirsi a questioni soggettive, se non solamente
al calcolo delle necessità o esigenze di soddisfazione espresse da esseri
coscienti; questa sarebbe la via per la costruzione di norme giuridiche socialmente riconosciute.
Si privilegiano così coloro che possono difendere coscientemente le proprie
necessità fondamentali, e il diritto si converte in strumento di imposizione dei
propri interessi. Chi non può sostenere le proprie necessità biologiche, sem-
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FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
plicemente non possiede diritti; tale potrebbe essere il caso dei non nati, ad
esempio, e potrebbe non essere, invece, quello di alcuni animali31.
La riduzione della ragione all’oggettivo è completa, ed è accompagnata dalla
piena coscienza del fatto che ciò implica anche la riduzione di ciò che è umanamente rilevante a dato biologico, in cui si riassume ogni valore morale.
La sfida continua a proporsi attorno agli stessi grandi nuclei, e ogni volta con
maggiore evidenza: è urgente superare una concezione della ragione che si traduce in un puro strumentalismo e positivismo, se si vuole difendere il soggetto umano, la persona, la cui libertà e dignità finisce di essere fattore determinante in un sistema sociale definito dalla sua dinamica tecnico-economica
ovvero, anche, direttamente biologica. Il paradosso di un uomo che teorizza la
propria insignificanza nel nome della logica razionale del sistema, si risolve
anche qui con un richiamo più mitico che razionale a un evoluzionismo naturalista come spiegazione ultima e globale della ragione e dell’universo.
Salvaguardia della persona come dimensione etico-giuridica decisiva
Il percorso realizzato voleva mostrare che l’insistenza della Chiesa nell’affermazione della “legge naturale” non cerca di universalizzare indebitamente una
concezione particolare dell’uomo, ma di affermare la rilevanza radicale del
soggetto, inteso come persona reale, responsabile della realizzazione della propria esistenza.
Le concezioni che si rifanno alla definizione moderna della ragione come
dominio hanno preteso di porre l’uomo nel mondo come padrone, liberato da
ogni dipendenza, e di rendere possibile la sua piena libertà. Ma hanno mostrato i propri limiti nella storia, e proprio su questa pretesa essenziale. È insufficiente definire la ragione come strumento di potere sulla realtà; ciò non tiene
conto di tutte le dimensioni del reale né, di conseguenza, della relazione dell’uomo con il mondo, e così neanche dell’uomo stesso. Questo si manifesta nel
tacere le iniziali pretese di questa impresa razionale, lasciando fra parentesi le
esigenze dell’esperienza elementare dell’uomo concreto32.
L’affermazione della “legge naturale” arriva al cuore del dibattito moderno,
rendendo noto che non è possibile dimenticare il soggetto storico originale, e,
tanto meno, negare direttamente il suo significato. Come ogni sistema ideologico, anche ogni sistema socio-giuridico dovrà riconoscere che non può assolutizzarsi in se stesso, che è riferito a un fatto irriducibile, che è l’uomo reale.
Questa è la funzione prima della teoria della “legge naturale”: non è possibile
IL SIGNIFICATO DELL’INSISTENZA DELLA CHIESA SULLA QUESTIONE DELLA “LEGGE NATURALE”
41
sottomettere o negare il fatto irriducibile della dignità e della libertà dell’uomo in nessuna forma di sistema sociale e giuridico. Si tratta di un primo dato,
non trascendibile per la volontà di ciascuno e per il potere politico33.
Allora così, l’idea della “legge naturale” non considera solamente o in primo
luogo il problema delle formule procedimentali di positivizzazione del diritto,
ma innanzitutto il «riconoscimento del dato primo e indispensabile della persona, della libertà e dignità umana, come dimensione etico-giuridica decisiva»34. Qui è radicata da sempre una funzione essenziale di questa dottrina: salvaguardare la persona dinnanzi al potere statale e così, allo stesso tempo, fondare la legittimità dell’ordinamento giuridico.
L’insistenza sul significato della “legge naturale” non deriva quindi dalla
volontà di introdurre un determinato concetto della natura umana. Al contrario, la Chiesa sostiene che non esiste nessuna elaborazione razionale che possa
chiarire il mistero che è l’uomo per se stesso. Sarebbe sempre un errore, perciò, intendere il problema della “legge naturale” come quello del raggiungimento del sistema filosofico perfetto, con la vana speranza di ottenere così il
consenso universale in una società plurale. Qualsiasi sistema è insufficiente ed
è, invece, essenziale affermare, invece, il valore radicale della persona, che si
esprime nella sua ragione e nella sua libertà, nel rispetto dovuto ai suoi beni
essenziali.
Di conseguenza, il primo modo con cui la Chiesa favorisce il riconoscimento
della “legge naturale” è la salvaguardia del dato intangibile della persona, la
generazione di un soggetto originale cosciente della sua dignità e libertà, della
sua irriducibilità. Ciò non si raggiunge perché ciascuno viene indottrinato a un
modo di pensare, ma attraverso l’esperienza reale di verità e libertà propria di
ogni fedele cristiano, di chi scopre in Cristo la grandezza del proprio essere e
del proprio destino. Il dato irriducibile di questa esperienza impedisce definitivamente di accettare il fondamento della propria dignità o speranza personale in qualche ordinamento del potere umano, e permette di rispettare allo stesso tempo le esigenze di una positivizzazione giuridica. Di ciò ha dato testimonianza la vita della Chiesa cattolica dai suoi stessi inizi e precisamente prima
di una delle forme statali più poderose della storia, caricata di ambizione di
assoluto.
Nei fatti, l’esperienza della fede pone l’uomo in una relazione con la trascendenza, con Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, che fonda l’intangibilità della sua
dignità e della sua libertà, non solamente in relazione a qualsiasi ordinamento
giuridico, ma anche per la persona stessa, che le riconosce come dono del Dio
creatore e salvatore35. Ciò implica che l’uomo è chiamato a riconoscere la pro-
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FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
pria dignità o libertà, ma non le costituisce mai e tanto meno le costituisce per
il prossimo e, di conseguenza, non può neanche perderle mai radicalmente né
decidere che altri non le possiedano ancora36. Da qui la testimonianza perenne
in mezzo alla società di questo nucleo trascendente in ogni persona, anche dinnanzi al nemico o al persecutore, ben oltre i condizionamenti morali e ideologici oppure della situazione sociale.
In modo simile, la stessa esistenza della Chiesa, stabilendo una differenza ineliminabile tra la società e lo Stato, impedirà sempre che questi si identifichi
con l’espressione piena ed esaustiva della società. Anche in questo modo la
Chiesa fa presente di fronte allo Stato l’irriducibilità del fattore personale e
sociale da cui proviene ogni ordinamento giuridico. Da questo punto di vista,
le esigenze intrinseche della “legge naturale” possono essere simbolizzate dal
diritto fondamentale alla libertà di coscienza e alla libertà religiosa.
L’affermazione di questo significato dell’esperienza cristiana non riguarda le
forme democratiche di una società plurale. Quindi, vivendo con chiarezza le
proprie convinzioni, il cristiano non pretende di sostituire la fede alla ragione,
ma di collaborare a una miglior percezione dei valori essenziali per la comune costruzione della giustizia e del diritto37.
La vita del Popolo di Dio come affermazione della “legge naturale”
La proposta della “legge naturale” mette al centro l’importanza del soggetto
originale. Sostenere l’esistenza di questa “legge” nella società contemporanea
implica una prima opzione di metodo per la Chiesa: il protagonismo del
Popolo di Dio38, della vita cristiana realizzata in mezzo al mondo. Non si può
sostituire la presenza di un’esperienza cristiana viva, di comunità credenti,
dove prende forma un modello di vita che salvaguarda e realizza l’essere
umano, in modo convincente, con intelligenza e capacità di comunicazione39.
Questo coincide con il più proprio della missione ecclesiale, dunque, «in realtà, quel profondo stupore riguardo al valore e alla dignità dell’uomo si chiama
Vangelo, cioè la Buona Novella. Si chiama anche Cristianesimo. Questo stupore giustifica la missione della Chiesa nel mondo, anche, e forse di più ancora, “nel mondo contemporaneo”»40. Si sottolinea così, allo stesso tempo, l’importanza della vita ecclesiale nella sua dimensione educativa, nel senso ampio
della parola, come introduzione a una esistenza nella quale l’intangibilità della
propria persona - l’essere figlio di Dio - non sia mai negata nel rapporto con
la realtà.
IL SIGNIFICATO DELL’INSISTENZA DELLA CHIESA SULLA QUESTIONE DELLA “LEGGE NATURALE”
43
La comunione della Chiesa appare così la prima forma di aiuto alla formazione della coscienza, il luogo concreto nel quale si rivela ed è reso possibile
vivere in nuova pienezza il nucleo stesso della “legge - naturale - del cuore
umano”, che è l’amore41. D’altra parte, questa esperienza di vita nuova, la vita
di santità, costituirà ugualmente il cammino più semplice e affascinante perché l’uomo percepisca la bellezza della verità morale, la forza liberatrice dell’amore di Dio che afferma definitivamente la dignità trascendente della persona42.
Razionalità dell’esperienza storica del soggetto
La stessa presenza della Chiesa, come realtà umana viva e cosciente, capace di
esplicitare e provare a comunicare la verità della propria posizione nel mondo,
è un rifiuto permanente alla pretesa di negare la rilevanza del soggetto, sacrificandolo in qualche modo a un sistema socio-giuridico.
Allo stesso tempo sostiene la positività fondamentale dell’esperienza della
persona concreta, la ragionevolezza della sua relazione con il mondo, principalmente attraverso i fatti.
Quindi, l’affermazione della “legge naturale” non implica solamente il riconoscimento dell’irriducibilità della persona concreta, ma anche una considerazione dell’esperienza umana, in cui possano unirsi storicità e razionalità. Non
è possibile sostenere allo stesso tempo il significato del soggetto e l’insignificanza della sua esperienza storica.
Allo stesso modo, il rifiuto dell’importanza etico-giuridica dell’intangibilità
del soggetto originale è solo una variante dell’antico assioma razionalista,
«fatti storici casuali non possono essere mai la prova di razionali verità universali»43, applicato in questo caso alla stessa presenza umana. Tuttavia, accettare questa importanza sarebbe profondamente coerente con una sana ragione
scientifica, che non può smettere di valorizzare il dato sperimentale dell’esistenza umana44, le cui esigenze elementari si fanno più evidenti quando l’uomo è costretto a soffrire l’ingiustizia, la violenza e l’oppressione.
La radicale messa in questione del significato di una “legge naturale” riflette
in buona misura l’incapacità di integrare ragionevolmente le esigenze della
trascendenza e dell’intangibilità della persona concreta, che sono reinterpretate con riferimenti mitici: il progresso, il nazionalismo, o un evoluzionismo
naturalista inteso come filosofia radicale.
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FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
Conclusione
La stessa realtà della comunione ecclesiale costituisce la condizione di comprensibilità del richiamo cristiano alla “legge naturale”, poiché una Chiesa
viva significa la presenza di un soggetto irriducibile, la cui dignità, libertà e
coscienza trascendono ogni formalizzazione del potere umano e, in realtà ,
indicano il fondamento della sua legittimità.
La sua dinamica educativa, che insegna a non tacere le esigenze elementari
dell’uomo - percepite chiaramente alla luce del Vangelo - risulta insostituibile
affinché la proposta della “legge naturale” raggiunga una forma visibile all’interno della società, sia nella modalità di testimonianza positiva che di riflessione critica dinnanzi a realtà o sistemi di pensiero che mettono in pericolo il
significato irriducibile del soggetto originale umano.
In questa maniera, la presenza viva della Chiesa significa una difesa permanente della “legge naturale”, come un dato di dimensione etica e giuridica
decisiva. Non si tratta di imporre una propria concezione delle cose, né di recuperare privilegi del passato, ma di un gesto di responsabilità verso l’uomo; non
dell’uomo astratto, ma proprio dell’essere umano e di ogni uomo reale, concreto e storico. La Chiesa non potrebbe abbandonare questa responsabilità
senza rinunciare alla propria missione45.
1 Cfr. P. Delhaye, Permanence du droit natural Nauwelaerts, Louvain 1960; W. Kluxen,
Naturrecht; I. Philosophisch, in W. Kasper (a cura di), Lexikon für Theologie und Kirche,
vol. 7, Freiburg im Bresgau, Herder 1998, pp. 684-688.
2 Cfr. F. Wagner, Naturrecht II. Neuzeitliche und evangelische Interpretationen seit der
Reformation in AA.VV., Theologische Realenzyklopädie, W. de Gruyter, Berlin-New
York 1994, vol. 24, pp. 153-185.
3 Cfr. L. Taparelli D’Azeglio, Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto,
Palermo 1857.
4 Cfr. Pius P.P. IX, Syllabus, Roma 08/12/1864, nn. 56, 57, 61.
5 Cfr. Leo P.P. XIII, Libertas praestantissima, Roma 20/06/1888; Leo P.P. XIII Rerum
novarum, Roma 15/05/1891.
6 Cfr. Pius P.P. XI, Casti connubii, Roma 31/12/1930; Pius P.P. XI, Quadragesimo anno,
Roma 15/05/1931; Pius P.P. XI, Mit brennender sorge, Roma 14/03/1937.
7 Così già dalla sua prima enciclica, Summi pontificatus, Roma 20/10/1939.
8 Cfr. Ioannes P.P. XXIII, Mater et magistra, Roma 15/05/1961.
9 Cfr. Ioannes P.P. XXIII, Pacem in terris, Roma 11/04/1963.
10 Concilio Vaticano II, Dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa, Roma
07/12/1965, n. 14.
11 Concilio Vaticano II, Costituzione Pastorale Gaudium et spes, Roma 07/12/1965.
IL SIGNIFICATO DELL’INSISTENZA DELLA CHIESA SULLA QUESTIONE DELLA “LEGGE NATURALE”
45
12 Acta apostolicae sedis 60 (1968), nn. 483, 487, 488, 489, 494; Fa una forte critica di questo uso della “legge naturale” H. Küng, Infallibile? Una domanda, Anteo, Bologna 1970.
13 Catechismo della Chiesa cattolica, Libreria editrice vaticana, Roma 2005, nn. 1954-1960,
1978-1979.
14 Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina sociale della
Chiesa, Libreria editrice vaticana, Roma 2004, nn. 140-143.
15 Benedictus P.P. XVI, Deus caritas est, Roma 25/12/2005, n. 28a.
16 H. G. Gadamer, Los fundamentos filosóficos del siglo XX, in G. Vattimo (a cura di), La
secularización de la filosofia, Gedisa, Barcelona 1992, p. 91.
17 Cfr. B. Pascal, Pensées, edizione curata da L. Brunschvicg, Paris 1897, nn. 205-206.
18 Cfr. T. Hobbes, Leviathan: On the Matter, Form and Power of a Commonwealth
Ecclesiastical and Civil, 1651.
19 J. J. Rousseau, Du contrat social, Amsterdam 1762.
20 Cfr. T. Hobbes, Leviathan: On the Matter, Form and Power of a Commonwealth
Ecclesiastical and Civil, cit., cap. 14.
21 Ibid., c. 13.
22 Ibid., c. 15.
23 Cfr. G. W. F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, Meiner, Hamburg 1995.
24 Cfr. Concilio Vaticano II, Costituzione Pastorale Gaudium et spes, cit.,
nn. 40c, 42, 76, 89.
25 Concilio Vaticano II, Dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa,
cit., nn. 2, 3.
26 Cfr. A. M. Rouco Valera, Los fundamentos de los derechos humanos: una cuestión urgente, San Pablo, Madrid 2001.
27 Una presentazione sintetica delle obiezioni alla “legge naturale” in F. D’Agostino, Il
diritto come problema teologico ed altri saggi di filosofia e teologia del diritto,
Giappichelli, Torino 1997, pp. 171-195.
28 Cfr. J. Habermas, Die Einbeziehung des Anderen. Studien zur politischen theorie,
Suhrkamp, Frankfurt am Main 1996, pp. 289-300; J. Habermas, Faktizität und Geltung.
Beiträge zur Diskurstheorie des Rechts und des demokratischen Rechtsstaats, Suhrkamp,
Frankfurt am Main 1994, pp. 541-599; J. Habermas, Naturalismus und Religion,
Suhrkamp, Frankfurt am Main 2005, pp. 106-118.
29 Cfr. N. Luhmann, Ausdifferenzierung des Rechts. Beiträge zur Rechtssoziologie und
Rechtstheorie, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1999.
30 Cfr. P. Singer, Practical Ethics, Cambridge University Press, Cambridge 1993; P. Singer,
How are We to Live? Ethics in an Age of Self-Interest, Oxford University Press, Oxford
New York 1997.
31 N. Hoerster, Abtreibung im säkularen Staat. Argumente gegen den 218, Suhrkamp,
Frankfurt am Main 1991. H. Kuhse, P. Singer, Muß dieses Kind am Leben bleiben? Das
Problem schwerstgeschädigter Neugeborener, Harald Fischer Verlag, Erlangen 1993.
32 Con la categoria «esperienza elementare» Scola presenta la “vena profonda” del magistero di Giovanni Paolo II sulla persona in A. Scola, L’esperienza elementare. La vena profonda del magistero di Giovanni Paolo II, Marietti 1820, Genova 2003.
33 J. Römelt, Menschenwürde und Freiheit. Rechtsethik und Theologie des Rechts jenseits
von Naturrecht und Positivismus, Herder, Freiburg im Bresgau 2006, pp. 161-166.
34 Ibid., p. 176.
46
FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
35 Cfr. Concilio Vaticano II, Costituzione Pastorale Gaudium et spes, cit., nn. 12, 19a, 22,
40c, 41; Ioannes Paulus P.P. II, Evangelium vitae, 25/03/1995, nn. 80-82.
36 Cfr. Ioannes Paulus P.P. II, Evangelium vitae, cit., nn. 87, 101.
37 Cfr. J. Ratzinger, Werte in Zeiten des Umbruchs. Die Herausforderungen der Zukunft
bestehen, Herder, Freiburg im Bresgau 2005, p. 137; J. Ratzinger, Lettera a Marcello
Pera, in M. Pera, J. Ratzinger, Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, islam,
Mondadori, Milano 2005, pp. 116-122.
38 Cfr. Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium sulla Chiesa, Roma
21/11/1964, cap. II.
39 Su questo insiste J. Ratzinger, Lettera a Marcello Pera, cit., pp. 109-114; J. Ratzinger,
L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Cantagalli, Siena 2005, pp. 63-65.
40 Ioannes Paulus P.P. II, Redemptor hominis, Roma 04/03/1979, n. 10b.
41 Cfr. Ioannes Paulus P.P. II, Veritatis splendor, Roma 06/08/1993, nn. 9, 64.
42 Ibid., n. 107.
43 Cfr. G. E. Lessing, Über den Beweis des Geistes und der Kraft, in G. E. Lessing, Die
Erziehung des Menschengeschlechts und andere Schriften, Reclam Verlag, Stuttgart 1965.
44 Cfr. J. Ratzinger, Svolta per l’Europa? Chiesa e modernità nell’Europa dei rivolgimenti,
Edizioni paoline, Milano 1992; J. Ratzinger, Glaube, Wahrheit, Toleranz. Das
Christentum und die Weltreligionen, Herder, Freiburg im Bresgau 2005, pp. 182-183; J.
Ratzinger, Werte in Zeiten des Umbruchs: die Herausforderungen der Zukunft bestehen,
Herder, Freiburg im Bresgau, p. 27.
45 Ioannes Paulus P.P. II, Centesimus annus, Roma 01/05/1991, n. 53.
Famiglia, fulcro di ogni esperienza
di cultura e di socialità
di Luigi Negri *
La questione dei DiCo rappresenta una svolta epocale, in quanto si inserisce in uno scontro radicale fra due antropologie. Nella Evangelium vitae,
Giovanni Paolo II parlava di una «cultura della morte» contrapposta alla
cultura della vita.
Il contesto vero dei DiCo è appunto l’estremo esprimersi, individuale e
sociale, di una cultura della morte.
Un individualismo razionalistico, illuministico e totalitario sostiene una
esperienza individuale tesa a ottenere il massimo di potere nei confronti
della realtà. L’individuo conosce la realtà e la manipola tecno-scientificamente, in modo da ottenerne il massimo benessere. L’Occidente ha visto per
secoli questo individuo che conosce e organizza gli oggetti, e li manipola
attraverso la tecno-scienza: tutti gli oggetti, anche gli altri uomini che sono
considerati, più che uomini, oggetti umani.
In questo contesto è addirittura difficile parlare di «rapporti» che nascano
da una autentica solidarietà umana e formino così una societas: dalla famiglia, società naturale, alle più ampie, articolate e sinergiche espressioni
sociali.
La società attuale ha alla sua base un individuo che, cercando di attuare tutti
i suoi desideri, cerca di procurare per sé il massimo di benessere, con il
minor rischio possibile e, quindi, con la minore responsabilità. Le convivenze, di cui si cerca una consistente garanzia sul piano dei cosiddetti diritti
individuali (espressione questa estremamente significativa), durano evidentemente fino a tanto che dura il benessere. Il benessere è un valore indipendentemente dal contesto che lo produce: ecco perché sullo sfondo dei DiCo
italiani sta la sostanziale equivalenza fra omo sessualità ed etero sessualità.
Per addentrarsi criticamente nella cultura della vita occorre riaprire quella
stagione di intelligenza allargata che è stato uno dei nodi fondamentali dell’insegnamento di Mons. Giussani. E occorre riprendere quella sua densa
definizione di cultura come «coscienza critica e sistematica dell’esperienza
umana» che ha trovato una singolare conferma e svolgimento nel grande
insegnamento di Giovanni Paolo II1.
* Vescovo di San Marino–Montefeltro
48
FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
La cultura è animata dall’inesorabile tensione verso la verità, cioè la risposta alle grandi esigenze che costituiscono la struttura e il dinamismo fondamentale del cuore umano.
Solo una persona in movimento verso il Mistero scopre attorno a sé una
solidarietà innegabile e inscavalcabile.
La persona non mai è un individuo, perché strutturalmente è «alle prese con
Dio»; «l’uomo supera infinitamente l’uomo»2. Ma l’uomo è anche sempre
alle prese con gli altri, con quelli che Levinas ha definito «uno come me,
accanto a me nel grande Mistero delle cose».
Così dal senso del Mistero e da questa sorgiva esperienza di compagnia
nasce la società, luogo di memoria del Mistero (valga per tutto l’esemplarità della famiglia), e luogo di condivisione e di corresponsabilità nella percezione e nel tentativo di affrontare e di risolvere i problemi grandi e piccoli della vita.
Così la famiglia, impegno responsabile di fronte al Mistero e nell’accettazione di quella strutturale “differenza” che la natura ha stabilito («maschio e femmina li creò»), diventa il fulcro di ogni esperienza di cultura e di socialità.
L’esperienza della fede cattolica è il massimo di chiarezza rivelativa di questa grande verità naturale e, insieme, l’offerta gratuita di una energia che
consenta di vivere il cammino della storia, cioè della moralità.
Pertanto la questione ecclesiale dei DiCo impegna la Chiesa ad opporre alla
cultura della morte la cultura della vita, ma soprattutto a porsi come luogo
dove questa cultura della vita diventa, nell’educazione, esperienza vissuta e
comunicabile a tutti. Non è un caso che la famiglia, nata nel sacramento
ecclesiale sia divenuta, laicamente, la forma della società.
1 Cfr. Discorso di Giovanni Paolo II all’Organizzazione delle Nazioni Unite per
l’Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO), Parigi 02/06/1980.
2 B. Pascal, Pensées, n. 434.
Desideri, cuore e diritto
di Stefano Alberto *
Il mio contributo vuole offrire alcuni spunti sull’influsso che la crisi antropologica della modernità ha avuto e ha sulla concezione del diritto e, in particolare, sul fenomeno attuale della pretesa “moltiplicazione” dei diritti individuali.
Il Ddl di iniziativa governativa, inteso a regolare «i diritti e doveri del convivente» (i DiCo), se non aggiunge nuove situazioni giuridiche attive in favore
dei conviventi eterosessuali, in quanto i “diritti” ivi contemplati o sono già presenti nell’ordinamento o possono essere garantiti dall’autonomia privata,
introduce diritti dei conviventi dello stesso sesso (di norma conviventi omosessuali). A essi vengono per la prima volta riconosciuti in sede legislativa
diritti identici a quelli dei conviventi eterosessuali e analoghi a quelli della
famiglia. Non si tratta, come molti tendono a far credere, di un istituto giuridico di marginale incidenza sull’ordinamento. L’istituto ha una chiara rilevanza pubblicistica che lo spinge in un’orbita para-familiare. A ben vedere, il trattamento complessivo riservato ai conviventi si distingue da quello dei coniugi
solamente per grado di intensità, anche se i DiCo non creano alcun rapporto
parentale, a differenza del matrimonio e della famiglia su di esso fondata,
essendo essenzialmente chiusi in se stessi.
Questa iniziativa, che rappresenta una seria minaccia alla tutela dell’istituto
familiare, si inserisce in un clima culturale, diffuso soprattutto in Europa, nel
quale diventa sempre più evidente la pretesa, in ambito culturale, politico, giuridico e nei mass-media, di trasformare ogni desiderio in diritto.
Paolo Grossi ha parlato, in una recente intervista, di «un certo parossismo soggettivistico» derivante da come «si è venuto a costituire durante la modernità
il soggetto». Esso «è stato separato completamente dalla società e si è pensato solo a un individuo autoreferenziale, assolutista, egoista. Il risultato è la
moltiplicazione dei “diritti”, anche di quelli più aberranti sul piano sociale»1.
Viviamo in una società nella quale la soggettività individuale e la ricerca del
proprio benessere diventano il criterio supremo dell’organizzazione sociale: si
nega, praticamente e teoricamente, che esistano beni umani insiti nella natura
della persona che tutti devono riconoscere; si arriva a negare, cioè, che esista
un bene comune che non sia la pura somma delle utilità individuali. Così,
* Docente di Introduzione alla Teologia, Università Cattolica di Milano
50
FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
come osserva Natalino Irti in un suo saggio sul nichilismo giuridico, «ciò che
conta è avvedersi come la forza di un diritto corrisponda alla somma delle scelte individuali: una quantità di solitudini, le quali non costituiscono una entità
ulteriore, una unità di volontà, ma rimangono puri elementi di un calcolo
numerico»2. All’autosufficienza proclamata del singolo individuo, così come
viene profilandosi nel percorso della modernità3, non più considerato come
soggetto relazionale in tensione con l’altro da sé, corrisponde una concezione
del diritto come mere forme e procedure che traducono in norme la volontà del
più forte4.
Il primato della volontà ha scalzato la dinamica della conoscenza e il realismo
che ha contraddistinto tutta l’eredità classica, greco-romana e medioevale.
Possiamo ritrovare questa impostazione nella definizione di legge di San
Tommaso: «un ordinamento della ragione rivolto al bene comune, proclamato
da colui che ha il governo di una comunità»5. In primo piano è la dimensione
conoscitiva della legge, e l’oggettivo contenuto della realtà riconosciuto dalla
ragione: «Ordinatio è la parola che sposta l’asse della definizione dal soggetto all’oggetto, perché insiste non sulla sua libertà ma sui limiti alla sua libertà; ordinare è infatti una attività vincolata, giacché significa prendere atto di un
ordine obbiettivo preesistente e non eludibile entro il quale inserire il contenuto della lex»6. Il soggetto si concepisce parte di un cosmo e di una società,
di una realtà da cui dipende, il cui ordine è intelligibile e fruibile attraverso la
conoscenza. È attraverso di essa che la persona esce dalla propria individualità per riconoscere i nessi di dipendenza originali che la costituiscono, da Dio,
alla famiglia, alla ricchezza di realtà intermedie che formano il corpo sociale
della comunità civile. La legge è ragionevole lettura del reale.
Verso la fine del Medioevo a questo primato della conoscenza subentra una
impostazione volontarista. Così si inizia a evidenziare in modo via via più
esclusivo la volontà e l’autorità del Principe, prima, e dello Stato, poi, come
unico fondamento della legge. Già Montaigne può osservare nei suoi Essais:
«le leggi si mantengono in credito non perché sono giuste, ma perché sono
leggi. È il fondamento mistico della loro autorità; non hanno altro fondamento, ed è bastante. Spesso sono fatte da sciocchi […]. Chi obbedisce loro per il
motivo che sono giuste, non dà loro l’obbedienza dovuta»7.
La “mistica della legge” poggia tutta non sul suo contenuto, ma sulla sua
forma. Essa diviene un atto «cui non sarà mai un determinato contenuto a conferire il crisma della legalità, ma sempre e soltanto la provenienza dall’unico
soggetto sovrano»8, il solo e unico legislatore. Hobbes condensa questa concezione nella celebre sentenza: «Auctoritas non veritas facit legem».
DESIDERI, CUORE E DIRITTO
51
A questo “assolutismo giuridico”, ossia al ridursi del diritto alla legge (fino al
positivismo giuridico) e all’affermarsi del formalismo sembra poter fare da
efficace contrappeso, nell’età contemporanea, la nascita delle dichiarazioni dei
diritti fondamentali dell’uomo, favorite dalle riflessioni del giusnaturalismo
illuminista. Si parla però di un individuo singolo, solo davanti alla legge, un
microcosmo. Non si vuole minimamente negare il valore di questo importante e decisivo processo di riconoscimento di diritti “inviolabili”, che troveranno adeguata accoglienza nelle vigenti Carte costituzionali o in importanti
documenti di vari organismi internazionali. Occorre però cogliere, paradossalmente da una comune radice, una possibile contraddizione, che proprio oggi
emerge con virulenza. La radice comune è, per usare l’espressione ormai classica di Paolo Grossi, quella «mitologia» della modernità che riduce il panorama giuridico unicamente a due soggetti, Stato e individuo, privando di rilevanza giuridica la ricchezza delle realtà sociali intermedie, a partire dal complesso di vincoli sociali originari di cui vive la persona. La contraddizione
emerge proprio a riguardo del “fondamento” dei diritti dell’uomo. Sono essi
una concessione da parte dello Stato, unico produttore del diritto e, quindi, in
ultima istanza arbitro della loro conclamata “inviolabilità”? O sono propri, originali dell’individuo, concepito però come autoreferenziale, autonomo (letteralmente “legge a se stesso”), e quindi teoricamente abilitato a rivendicare l’allargamento ad libitum del riconoscimento da parte dello Stato di sempre nuovi
“diritti”? Su cosa si fonda allora la convivenza? Su quali valori condivisi? Ed
è possibile pensare a una democrazia che si riduca solo a forme e procedure,
in un crescente relativismo? La necessaria laicità dello Stato non viene così
concepita come neutralità rispetto a qualsiasi valore?9 Siamo vicini alla rottura delle regole e al ritorno dell’«homo homini lupus»10, dal momento che risulta quanto mai attuale la tesi, ormai classica, dell’autorevole giurista tedesco
Böckenförde11 secondo cui «lo Stato secolarizzato vive di presupposti che non
è esso stesso in grado di garantire»?
Da più parti si osserva l’esigenza di una rinnovata riflessione antropologica sui
fondamenti dell’ordinamento giuridico e di una riscoperta della legge naturale, anche se questa è una parola, come ha ricordato Benedetto XVI, «per molti
oggi quasi incomprensibile a causa di un concetto di natura non più metafisico, ma solamente empirico»12. L’allora Cardinale Ratzinger, nel suo dialogo
col filosofo Habermas alla Katholische Akademie di Monaco, espresse la consapevolezza della problematicità della nozione di diritto naturale: «Come ultimo elemento del diritto naturale, che nella dimensione più profonda voleva
essere un diritto razionale, comunque, nell’epoca moderna, sono rimasti i dirit-
52
FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
ti umani. Essi non si possono comprendere senza il presupposto che l’uomo
come uomo, semplicemente a motivo della sua appartenenza alla specie uomo,
è soggetto di diritto, che il suo stesso essere porta in sé valori e norme, i quali
si devono trovare, ma non inventare. Forse oggi la dottrina dei diritti umani
dovrebbe essere integrata con una dottrina dei doveri umani e dei limiti dell’uomo, e ciò potrebbe ora comunque aiutare a rinnovare il problema se non
possa darsi una ragione della natura e così un diritto naturale per l’uomo e per
il suo dimorare nel mondo»13.
In questo tentativo di rinnovare il problema del diritto naturale in senso dinamico e esistenziale mi pare fondamentale cogliere il contributo di Luigi
Giussani, che, nella nozione di «esperienza elementare» o «cuore», pone in
luce quel «complesso di evidenze ed esigenze originali con cui l’uomo è
proiettato dentro il confronto con tutto ciò che esiste»14. È il riconoscimento di
un criterio fondamentale di giudizio che è proprio e interno al soggetto e al suo
dramma esistenziale, ma oggettivo, sostanzialmente uguale in ogni uomo: «è
solo qui, in questa identità ultima della coscienza, il superamento dell’anarchia. L’esigenza della bontà, della giustizia, del vero, della felicità costituiscono il volto ultimo, l’energia profonda con cui gli uomini di tutti i tempi e di
tutte le razze accostano tutto»15.
A partire da queste evidenze ed esigenze originali occorre recuperare un
approccio realista e non formalista dell’esperienza giuridica, riconoscendo
nuovamente il diritto, nella sua dimensione oggettiva di giustizia, come esigenza originale della persona nel suo essere relazionale (soggetto cioè non
solo di diritti, ma anche di doveri), e quindi nella sua responsabilità sociale.
Senza questa ragionevolezza, cioè senza «allargare la ragione» nel riconoscimento delle evidenze e delle esigenze originali della persona nel suo rapporto
con la realtà «si cerca di trasformare in diritti interessi privati o desideri che
stridono con i doveri derivanti dalla responsabilità sociale»16.
È esercizio fondamentale di questa responsabilità sociale la tutela della famiglia, riconosciuta come la prima società naturale, fondata sul matrimonio, in
cui si origina e si sviluppa ogni persona. In una società pluralista non si tratta
di discriminare nessuno per le scelte affettive o per gli stili di vita personali,
ma di salvaguardare la tutela dell’unione coniugale nelle sue caratteristiche
originali evidenti: di differenza sessuale (tra un uomo e una donna), in una
dimensione di dono reciproco, aperta alla procreazione. Conferire tutela pubblicistica a unioni che mancano di queste caratteristiche sarebbe negare il dato
della realtà, indebolire la famiglia e rendere assolutamente precario il futuro
della società.
DESIDERI, CUORE E DIRITTO
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E. Castagna, Così cade il diritto, «Avvenire», 07/03/2007, p. 29.
N. Irti, Nichilismo giuridico, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 139.
Cfr. L. Giussani, Il senso di Dio e l’uomo moderno, Rizzoli, Milano 1994, pp.83-116.
Così si esprime ancora Irti in un recente dialogo con Magris: «Rimangono le forme, le
procedure capaci di generare norme in ogni ora del giorno e in ogni luogo della terra. I
contenuti sono determinati, di volta in volta, dalla volontà più forte ed efficace […]. Se
nessuna norma è presidiata di verità, da un vincolo assoluto e oggettivo, allora tutte vengono dal nulla e nel nulla possono essere risospinte», C. Magris, La legge e il nulla, «Il
Corriere della Sera», 06/04/2007, p. 47.
S. Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 90, art. 4.
P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, Giuffrè, Milano 2001, p. 25.
M. de Mointaigne, Essais, libro III, cap. XIII, cit. in P. Grossi, Mitologie giuridiche della
modernità, cit., p. 31.
P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, cit., p. 32 e ss.
Cfr. A. Scola, Una nuova laicità. Temi per una società plurale, Marsilio, Venezia 2007.
Cfr. G. Rossi, Homo homini lupus?, in «Micromega» 1/2006, pp. 76-85.
Citato ultimamente da Habermas nel suo dialogo con il Cardinal Ratzinger del 2004, vedi
J. Habermas, I fondamenti prepolitici dello stato liberale, in J. Ratzinger, J. Habermas,
Etica, religione e Stato liberale, Morcelliana, Brescia 2005, p .21.
Discorso di Sua Santità Benedetto XVI ai partecipanti al Congresso internazionale sulla
legge morale naturale promosso dalla Pontificia Università Lateranense, Roma
12/02/2007.
J. Ratzinger, Ciò che tiene unito il mondo, in J. Ratzinger, J. Habermas, Etica, religione e
Stato liberale, cit., p. 51 e ss.
L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 2003, p. 8.
Ibid., p. 13.
Discorso di Sua Santità Benedetto XVI ai partecipanti al Congresso internazionale sulla
legge morale naturale promosso dalla Pontificia Università Lateranense, Roma
12/02/2007.
Coppie di fatto:
un disegno di legge incostituzionale?
di Lorenza Violini *
Davanti al progetto governativo sul riconoscimento delle coppie di fatto è
legittimo chiedersi se si tratti di un provvedimento costituzionalmente legittimo o se esso sia contrario alla Costituzione. Molti ritengono che conferire
riconoscimento giuridico alle coppie di fatto eterosessuali ed omosessuali troverebbe il suo fondamento costituzionale non nell’articolo 29, bensì nell’articolo 2 che tutela le formazioni sociali. Ora, se l’instaurarsi di una relazione
affettiva può trovare nell’articolo 2 una protezione da eventuali divieti o sanzioni, non è scontato che lo stesso valga per il riconoscimento ex lege di tale
relazione. Si tratta, allora, di determinare se le unioni di fatto riconosciute
siano più simili alle mere convivenze, facenti parte delle formazioni sociali, di
cui parla l’articolo 2, o al matrimonio, cui fa riferimento l’articolo 29. Fa propendere per la seconda ipotesi il fatto che, sia l’atto di matrimonio, sia l’atto
che sancisce l’esistenza di una convivenza, siano atti pubblici provvisti di precise conseguenze giuridiche: una volta “comunicata” l’esistenza della convivenza, le conseguenze si producono automaticamente, senza necessità che le
parti le confermino espressamente.
Nel caso della convivenza, così come regolamentata dal progetto di legge
governativo sui DiCo, sorprendentemente l’ordinamento, prevedendo la possibilità di una dichiarazione non contestuale, sembrerebbe prescindere, non solo
da una positiva manifestazione di volontà di entrambe le parti produttiva di
effetti giuridici, ma anche dalla conoscenza delle relative conseguenze, visto
che la comunicazione all’anagrafe non comporta l’obbligo di mettere al corrente il partner dei doveri che egli in tal modo si assume, cosa che invece è prevista sia per il matrimonio civile che per quello concordatario, al momento
della loro celebrazione. Se non si tratta di una svista, occorre desumere che
questo istituto (ma lo stesso può dirsi anche di altre analoghe proposte) potrà
essere dotato di una forza vincolante tutta particolare.
Ma a prescindere da questo dettaglio, non sembra sia possibile mettere in dubbio la natura pubblicistica comune ai due atti, nonché la qualità della posizione giuridica che ne discende per i contraenti, i quali dichiarando all’esterno la
loro unione, la costituiscono come fatto rilevante per il diritto statale e social* Ordinario di Diritto costituzionale, Università degli Studi di Milano
56
FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
mente identificabile, se non altro a fini statistici. Sia col matrimonio, sia con
la dichiarazione di convivenza, i partner escono così dall’anonimato e dal privato per creare un’entità ulteriore e diversa dalla mera unione di fatto delle
loro due persone.
Posta questa similitudine di base, vi sono - è vero - molte differenze nella regolamentazione delle due fattispecie (quali, ad esempio, la competenza di due
diversi uffici, quello dell’anagrafe per le convivenze e quello dello stato civile per il matrimonio, e le relative diverse formalità di comunicazione) che tuttavia non paiono tali da giustificare che si faccia ricorso ad una diversa copertura costituzionale, almeno per quanto riguarda le coppie eterosessuali. Diritti
e doveri dei conviventi infatti non si discostano, se non su un piano quantitativo, da quelli delle coppie coniugate: singolarmente coincidente è la natura
del vincolo, di natura affettiva e caratterizzato da reciprocità nel dovere di assistenza e di solidarietà materiale e morale; analogo il dovere di “convivenza”,
che sembrerebbe comportare anche il dovere dei rapporti coniugali; non dissimili i doveri di supporto monetario in caso di scioglimento della convivenza.
Quanto ai diritti, pur ampiamente enfatizzati e invocati come necessari dai promotori della normativa, molto è lasciato a regole future; il progetto di legge in
esame predispone tuttavia un quadro di riferimento che individua negli istituti successori, in quelli relativi ai contratti di affitto della casa comune, nei diritti in caso di malattia di uno dei conviventi e nei diritti relativi all’immigrazione, le figure cui si dovrà in seguito dare attuazione; tali diritti sono espressamente finalizzati a non lasciare senza tutela chi convive rispetto a chi ha contratto regolare matrimonio. Il che, ancora una volta, giustifica l’affermazione
che tra il matrimonio propriamente detto e il patto di convivenza la distanza
sia, tutto sommato, assai breve.
La vera differenza consiste allora nella natura dei due partners, che possono
essere, come è noto, dello stesso o di diverso sesso. Con ciò, l’istituto in esame
avrebbe come scopo di introdurre un patto non dissimile dal matrimonio che
consente sì alle coppie eterosessuali ma, eminentemente, a quelle omosessuali, di accedere ad una posizione molto simile a quella dei coniugi. Detto ancora più direttamente, saremmo qui di fronte ad una normativa che consente alle
coppie omosessuali di contrarre non un regolare matrimonio, ma qualcosa di
singolarmente analogo: dati i vincoli discendenti dall’articolo 29, si introduce
un istituto che, presentando qualche variante rispetto al matrimonio, consente
di aggirare l’ostacolo costituzionale. Non a caso, sul piano della mera identificazione linguistica, da più parti si è asserito che si tratta (o non si tratta) di
un matrimonio di serie B o di un “matrimonietto”, una variante cioè dell’ar-
COPPIE DI FATTO: UN DISEGNO DI LEGGE INCOSTITUZIONALE?
57
chetipo di cui all’articolo 29. Il che fonda i dubbi di costituzionalità cui si è
sopra fatto cenno.
Si può infine ricordare un altro dato: tutti sappiamo che la scelta, contestatissima per vari ed opposti motivi, delle diverse formalità di conclusione dell’accordo - e in particolare la non contestualità dello stesso - è stata voluta da
parte del ministro di parte cattolica a meri scopi simbolici, volti ad impedire,
cioè, che si “celebrassero” matrimoni tra omosessuali. Ora, perché evitare la
“celebrazione” se la sostanza dell’atto fosse sufficientemente dissimile dal
matrimonio da non dar luogo ad equivoci? In realtà, trattandosi di un atto
matrimoniale nella sua natura e nella sostanza, è stato necessario sancirlo in
modo il più difforme possibile, proprio per evitare che – nell’opinione pubblica - si attestasse la consapevolezza che non vi sia differenza tra matrimonio
etero e unione omosessuale. Ed è pertanto doveroso chiedersi se le diverse
modalità di conclusione dell’accordo siano effettivamente una sanzione della
diversità dei due istituti, come è stato ampiamente enfatizzato, o se non sia
invece il tentativo di coprire con una forma difforme una sostanziale analogia.
Rilevate le similitudini, ci si può chiedere se possa sussistere un istituto che
riconosca sul piano del diritto pubblico un’unione tra persone dello stesso
sesso senza intaccare il nucleo essenziale dell’istituto matrimoniale, di cui
altera una delle caratteristiche naturali, vale a dire l’eterosessualità dell’unione. Dire che ciò non è possibile senza snaturare, non solo la famiglia, ma anche
la Costituzione, non vuole dire assumere una posizione omofobica, come invece spesso si asserisce, sostenendo con una certa ambiguità che gli oppositori
dei DiCo siano contrari ai diritti delle persone omosessuali. Non si tratta certo
di negare diritti alle singole persone: è vero invece che diritti e doveri delle
coppie di fatto, omosessuali o no, possono essere ben ospitati nell’ambito del
diritto privato tramite contratto o testamento, così rispettando in massimo
grado la libera e responsabile volontà dei due partners, cosa che non può fare
un atto pubblico con conseguenze predeterminate. È l’accordo, infatti, che
rispetta e concilia le eventuali difformità di intenti dei due contraenti che non
possono/vogliono accedere all’istituto matrimoniale, con ciò essendo ben più
coerente ai principi di libertà e di autodeterminazione di un patto a conseguenze legalmente fissate.
Certamente, non tutto quanto previsto dal progetto di legge è definibile in via
contrattuale: se si tratta di accedere a benefici garantiti ai coniugi da leggi sul
pubblico impiego (trasferimenti di sede per i coniugi), da normative previdenziali (reversibilità della pensione), da norme sull’immigrazione (permessi di
soggiorno o ricongiungimenti familiari) e da norme sulla tassazione delle suc-
58
FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
cessioni, occorre chiedersi se sia davvero necessario e/o opportuno che essi
siano estesi alle coppie di fatto ed anche alle coppie omosessuali. Troppo poco
si riflette, infatti, sulla natura e sulle finalità di quelle posizioni di vantaggio
che l’ordinamento attribuisce in determinate circostanze ai propri cittadini: se
si tratti cioè di veri e propri diritti soggettivi suscettibili di estensione in forza
del principio di eguaglianza o, invece, di benefici da ricondursi a doveri che
l’individuo si è assunto, ad esempio tramite l’istituto del matrimonio o la generazione di figli. Chi decide di porre in essere, tramite il matrimonio (civile),
una relazione stabile come luogo che la Costituzione considera il più adatto
all’espletamento del dovere di mantenere ed educare i figli, può poi venire
sostenuto dall’ordinamento - sempre per stare al precetto della nostra Carta
costituzionale - con il conferimento di determinate posizioni di vantaggio non
dovute, almeno per precetto costituzionale, a chi si colloca al di fuori di tale
istituto.
Concludendo, va ricordato che la famiglia ha delle caratteristiche intrinseche
(monogamia, esogamia ed eterosessualità) non definibili né modificabili dall’ordinamento che le ha riconosciute: se se ne tocca una, si mina alla radice
l’intangibilità dell’istituto matrimoniale e nulla può garantire che in futuro
anche le altre siano soggette a modificazione, come dimostra - tra l’altro - il
tentativo di porre in dubbio la costituzionalità delle sanzioni penali per l’incesto in Germania nel noto caso dei fratelli della Sassonia uniti more uxorio e
perciò condannati.
Non resta dunque che compiere, con la dovuta chiarezza, una precisa scelta di
campo e far sì che chi condivide la necessità di riconoscere, non certo per
ottemperare a obblighi costituzionali o per rispetto a vincoli imposti dall’ordinamento europeo ma per libera e consapevole scelta politica, le unioni omosessuali, lo dica ex professo e si confronti con i problemi derivanti dalla loro
legittimità costituzionale senza delegittimare chi ritiene che la difesa della
famiglia naturale, come delineata in sede costituente, comporti un fermo no al
riconoscimento di unioni che della famiglia sono solo il simulacro.
La famiglia come protagonista della
sussidiarietà e la Costituzione italiana
di Marta Cartabia *
Nell’ambito del dibattito che si è acceso in Italia intorno ai temi legati alla
famiglia, a seguito della presentazione da parte del Governo del disegno di
legge sui DiCo, può essere utile richiamare l’attenzione sul quadro costituzionale di riferimento, al cui interno tale dibattito deve essere collocato. Infatti, la
Costituzione italiana contiene ben tre articoli, gli artt. 29, 30 e 31, tutti diretti
a promuovere e a sostenere la famiglia. Da questo punto di vista la nostra
Costituzione si distingue decisamente da quelle di altri Paesi: anche in molte
altre Carte costituzionali si incontrano garanzie dei diritti legati alla vita familiare, ma raramente si trova tanta enfasi e si dedica tanta attenzione alla famiglia come istituzione.
Il tono della Costituzione italiana è, in un certo senso, unico: oltre ai diritti del
singolo nell’ambito del matrimonio e della vita familiare, si impegna a garantire, a sostenere e a promuovere la famiglia stessa. Soggetto dei diritti non è
solo l’individuo, ma anche l’istituzione-famiglia, o meglio la formazione
sociale-famiglia e il contenuto delle norme costituzionali è decisamente di
segno promozionale: «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come
società naturale fondata sul matrimonio»1; «la Repubblica agevola con misure
economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose»2.
In questo breve intervento vorrei richiamare rapidamente le ragioni storiche
del chiaro favor costituzionale per la famiglia e abbozzare una risposta a due
interrogativi: la famiglia riconosciuta, protetta e agevolata dalla Costituzione
italiana risponde a un modello sociale e giuridico preciso? Nel caso di risposta affermativa, è costituzionalmente accettabile una legge che introduca un
modello diverso e alternativo rispetto alla famiglia garantita dalla
Costituzione?
La storia costituzionale italiana offre indicazioni molto chiare per rispondere
ai quesiti che ci siamo posti e che sono rilevanti per una corretta impostazione giuridica del problema dei DiCo.
Lo Statuto Albertino del 1848 non conteneva alcun riferimento alla famiglia,
ai suoi diritti o ai diritti dei singoli nell’ambito delle relazioni familiari. Ciò è
* Professore Ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico,
Università degli Studi di Milano-Bicocca
60
FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
del tutto coerente con l’impostazione delle Costituzioni dell’epoca, dirette a
garantire pochi, essenziali diritti del singolo individuo nei confronti dello Stato
e del tutto disinteressate al ruolo dei gruppi intermedi e delle formazioni sociali. Del resto, la famiglia era oggetto tipico di trattazione del codice civile, che
ne disciplinava, anche dettagliatamente, i vari aspetti.
Viceversa, all’epoca dei lavori dell’Assemblea Costituente si decise di introdurre non uno, ma ben tre articoli sulla famiglia, anche se alle spalle permaneva intonsa l’abbondante legislazione del codice civile. Scorrendo le pagine
dei dibattiti dell’epoca emerge chiara la ragione di tanta enfasi sull’istituto
familiare. All’interno dell’Assemblea Costituente l’accordo - non facile - tra le
forze politiche comuniste, socialiste e cattoliche fu raggiunto perché, al di là
delle diverse opzioni morali di riferimento, tutti avevano chiaro che la famiglia avrebbe giocato un ruolo fondamentale nella ricostruzione sociale ed economica del Paese annientato dalla guerra.
Il favore costituzionale per la famiglia, chiaramente e particolarmente documentato dall’articolo 31, non derivava anzitutto da un’opzione etica, su cui
difficilmente si sarebbe raggiunto un accordo, ma dal realismo dei Costituenti
che avevano di fronte a sé un’Italia distrutta socialmente ed economicamente
e che si trovavano caricati della comune responsabilità di far rinascere. Su
molti aspetti, il dibattito in Assemblea Costituente ha visto contrapposti gli
esponenti della cultura cattolica e di quella socialista e comunista: ci fu scontro e divisione, ad esempio, sulla questione dell’indissolubilità del matrimonio, sul difficile contemperamento dell’eguaglianza dei coniugi e delle esigenze dell’unità familiare, sul trattamento dei figli naturali, e su altri aspetti
ancora.
Benché il termine «sussidiarietà» non compaia nella versione originaria del
testo costituzionale, non è forzato affermare che la Costituzione italiana esige
interventi promozionali e di favore a sostegno della famiglia, perché in essa
ravvisa una grande protagonista della sussidiarietà, un soggetto da sostenere
e agevolare per la costruzione della società intera, per realizzare un interesse
pubblico, di tutti.
La storia politica dei decenni successivi sembra aver poi dimenticato le norme
di favore contenute nella Costituzione italiana, che sono rimaste vergognosamente trascurate e inattuate. Le agevolazioni economiche per le famiglie - specie quelle numerose - si sono arenate di fronte allo spettro delle politiche
demografiche di stampo fascista e così, la legislazione italiana - specialmente
quella tributaria - è ancor oggi tra le più avare nei confronti della famiglia,
nonostante la generosità e la lungimiranza della Carta costituzionale.
LA FAMIGLIA COME PROTAGONISTA DELLA SUSSIDIARIETÀ E LA COSTITUZIONE ITALIANA
61
Sullo sfondo di questo scenario, in cui risaltano e contrastano da un lato il
favor costituzionale per la famiglia e dall’altro il sostanziale abbandono della
stessa da parte del legislatore, il tema della famiglia è tornato prepotentemente nell’agenda politica, in occasione del recepimento della direttiva europea sui
ricongiungimenti familiari, nell’autunno del 2006.
La famiglia era sostanzialmente assente dalle agende politiche dalla metà degli
anni ‘70, quando i temi dell’eguaglianza tra i coniugi e l’equiparazione dei
diritti dei figli naturali a quelli dei figli legittimi, avevano sollecitato dapprima
numerosi interventi della Corte costituzionale e poi avevano spinto il legislatore ad operare la riforma del diritto di famiglia del 1975.
Sul finire del 2006 è stato invece il diritto europeo - come spesso accade - a
dettare i contenuti dell’agenda politica. Incapace di addivenire a una scelta
condivisa sull’ambito di applicazione dei diritti di ricongiungimento familiare
in sede di recepimento della direttiva europea, il Governo ha proposto il disegno di legge sui DiCo, che per la prima volta in Italia vorrebbe introdurre una
disciplina organica delle convivenze more uxorio, sia eterosessuali che omosessuali, estendendo ad esse alcuni diritti fino ad ora riservati alla famiglia
legittima, quali la pensione di reversibilità, i diritti di successione, il diritto di
assistere il convivente nelle strutture ospedaliere e di assumere decisioni rilevanti in campo sanitario, alcuni diritti riguardanti l’abitazione, e così via. A
parte ogni considerazione specifica riguardante le singole previsioni del disegno di legge, la domanda che vorrei porre, perché mi pare preliminare, è se
l’introduzione di una forma di convivenza familiare diversa dalla famiglia
legittima sia compatibile con la Costituzione italiana.
La domanda è fondamentale e radicale e vorrei far notare per inciso che la
risposta a questo problema può avere conseguenze su questioni di grande rilievo che già si affacciano all’orizzonte, quale quello dell’ammissibilità di famiglie poligamiche.
Dunque, esiste un modello di famiglia nella Costituzione italiana?
Se confrontiamo il testo degli artt. 29, 30 e 31 della Costituzione italiana con
altre formule costituzionali, non vi è dubbio che la nostra Costituzione abbia
previsto una specifica tutela della famiglia intesa come unione di un uomo e di
una donna, determinata da un vincolo matrimoniale e aperta alla procreazione
dei figli.
La Costituzione spagnola del 1978, ad esempio, afferma (art. 32) che: «l’uomo e la donna hanno diritto a contrarre matrimonio su basi di piena eguaglianza giuridica». La Convenzione europea, all’art. 12 recita: «a partire dall’età matrimoniale, l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare
62
FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
una famiglia secondo le leggi nazionali». Nella Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea (art. 9) si legge: «il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio». L’esemplificazione potrebbe continuare. Ma qui basta osservare che quasi tutte le Costituzioni - con una significativa eccezione di quella
tedesca - usano un linguaggio spiccatamente individualistico. Come direbbe
Mary Ann Glendon, il «rights talk» è per lo più incentrato sull’individuo e ha
un tono difensivo nei confronti dello Stato e degli interventi del legislatore.
La Costituzione italiana si contraddistingue perché il soggetto è la famiglia,
società naturale fondata sul matrimonio; fa perno sul modello personalista e gli
artt. 29 e ss. riflettono e sviluppano l’art. 2, in cui protagonista della struttura
sociale non è tanto l’individuo, quanto la persona: non il singolo, isolato e
avulso da ogni contesto, ma una persona fatta di relazioni: familiari, associative, scolastiche, lavorative, religiose, politiche. È un homme situé, un uomo
incarnato, che vive nella storia ed è perciò preso in considerazione nelle sue
relazioni personali e sociali.
Dunque nella Costituzione italiana un modello di famiglia c’è, ed è quello
della famiglia legittima. Questa è la famiglia alla quale la Costituzione destina il proprio favore, la protezione promozionale.
Alcuni obiettano che il modello di famiglia ivi scritto debba essere letto alla
luce dell’evoluzione della società e che quindi le norme costituzionali sulla
famiglia possano essere estese a diverse forme di convivenze.
Questa lettura opera un’evidente forzatura del testo e non è stata accolta neppure dalla Corte costituzionale, che, infatti, nei suoi numerosi interventi relativi alle convivenze ha sempre mantenuto una linea chiara, secondo la quale le
convivenze non possono essere equiparate alla famiglia, proprio perché la
Costituzione italiana negli artt. 29, 30 e 31 riserva un trattamento privilegiato
solo a quest’ultima. Alcuni diritti, quali ad esempio, il diritto all’abitazione,
possono essere estesi anche ai conviventi more uxorio, senza però misconoscere la posizione costituzionalmente privilegiata che spetta solo alla famiglia.
Veniamo allora all’ultima domanda: benché la Costituzione italiana tuteli e
promuova la famiglia legittima, è ammissibile garantire per via legislativa
diverse forme di convivenza?
Molti ritengono che sarebbe costituzionalmente irrilevante, cioè non protetto,
ma neppure vietato dalla Costituzione. I DiCo, in altre parole, sarebbero praeter costitutionem, non contram costitutionem.
Questa posizione fa leva sul fatto che la Costituzione non vieta esplicitamente le forme di convivenza diverse dalla famiglia legittima e che tali forme tro-
LA FAMIGLIA COME PROTAGONISTA DELLA SUSSIDIARIETÀ E LA COSTITUZIONE ITALIANA
63
verebbero copertura negli artt. 2 e 3 della Costituzione, che protegge, appunto, tutte le formazioni sociali, tra cui rientrerebbero anche le convivenze more
uxorio, sia eterosessuali, sia omosessuali.
A parere di chi scrive la corretta impostazione del problema deve muovere da
una chiara distinzione tra divieto, libertà e diritti di convivenza.
Non v’è dubbio che nell’ordinamento italiano non esista alcun divieto di convivere: non c’è nessun ostacolo giuridico - né costituzionale, né legislativo ad alcuna forma di convivenza more uxorio (qualche problema c’è piuttosto
per la poligamia). Dunque, già oggi, senza necessità di leggi apposite, esiste
una piena libertà di convivenza che nessuno minaccia e nessuna legge restringe. Inoltre come tutti gli spazi lasciati all’autonomia privata, anche quelli delle
convivenze sono pienamente disciplinabili nelle forme privatistiche, ad esempio con scritture private e contrattuali.
Il disegno di legge sui DiCo si muove invece su un terreno diverso, perché
esso, estendendo molti dei diritti e nessuno dei doveri dei coniugi anche ai
conviventi, introduce nell’ordinamento un modello di convivenza alternativo
alla famiglia.
Per di più i DiCo costituiscono un modello alternativo alla famiglia, assai allettante e conveniente: determinano una sostanziale equiparazione dei conviventi ai coniugi nel godimento di molti diritti, non prevedono l’estensione ai conviventi degli obblighi (uno per tutti, l’obbligo di assistenza familiare sanzionato dal codice penale all’art. 570, per i soli coniugi) e soprattutto allentano il
vincolo, permettendo che sia fatto e disfatto con una semplice lettera raccomandata, senza formalità, senza stabilità. In una parola, i DiCo sono un modello competitivo rispetto alla famiglia, perché alleggeriscono l’impegno dei soggetti, esonerandoli pressoché da ogni forma di responsabilità.
Chiarito in questi termini il problema, è di elementare evidenza che l’introduzione del nuovo istituto giuridico non sarebbe privo di ricadute sul piano costituzionale. Il favor costituzionale risulterebbe contraddetto da una legislazione
che non solo è rimasta inadempiente rispetto agli obblighi di intervento positivo e di sostegno verso la famiglia richiesti dalla Costituzione, ma interverrebbe offrendo un modello alternativo, labile e leggero che inevitabilmente
depotenzierebbe la famiglia legittima.
1 Art. 29 della Costituzione (corsivo aggiunto).
2 Art. 31 della Costituzione (corsivo aggiunto).
Genitori sposati “tartassati”
pagheranno i diritti dei conviventi
di Luca Antonini *
Quasi nessuno lo evidenzia, ma i DiCo costeranno molto. Non tanto per la
spesa diretta (la legge parla di pochi milioni di euro), quanto per quella indiretta che, sebbene sia stata efficacemente nascosta, sarà enormemente più rilevante di quella indicata a copertura della legge. I costi deriveranno: 1) dai
ricongiungimenti familiari: si potrà essere trasferiti alla residenza del convivente; molti insegnanti, ad esempio, torneranno al Sud: in Francia, da questo
punto di vista l’impatto economico dei Pacs è stato enorme; 2) dalla pensione
di reversibilità: la legge non la disciplina direttamente, ma prevede fermamente che dovrà essere introdotta; 3) dai permessi di soggiorno che gli stranieri conviventi potranno chiedere; 4) dall’abbassamento della tassa di successione; 5) dalle politiche di edilizia pubblica. Sommando tutte queste voci di
spesa indiretta, di cui ben pochi parlano, i costi dei DiCo diventeranno davvero rilevanti, soprattutto in termini di esternalità negative.
Questi costi verranno pagati con risorse pubbliche, anche se si tratta - tale è la
normativa sui DiCo - di semplici preferenze individuali (pertanto il contratto,
e non la legge, dovrebbe esserne la fonte di disciplina). Si dimentica così che
le risorse pubbliche non dovrebbero essere utilizzate per le preferenze individuali, ma solo per i bisogni: le preferenze individuali dovrebbero invece essere pagate di tasca propria, a meno che non garantiscano un valore sociale
aggiunto.
Questo valore sociale esiste nel caso della famiglia fondata sul matrimonio,
per effetto dell’assunzione di responsabilità pubblica che consegue a tale istituto. Eppure ai genitori sposati, a cui si vorrebbe chiedere di contribuire ai
costi dei DiCo, non si riconoscono le spese che effettivamente sostengono per
assolvere al dovere costituzionale (art. 20 della Costituzione) di educare e
mantenere i figli. È un paradosso clamoroso!
Dati recenti1 stimano intorno a 140-170.000 euro la spesa che una famiglia
sostiene per mantenere, istruire ed educare un figlio fino alla maggiore età. Si
tratta cioè di una spesa che oscilla tra 7.700 e i 9.400 euro all’anno. Il fisco italiano riconosce però una detrazione annua pari solo a 800 euro, che equivale a
un abbattimento dell’imponibile di poco più di 3.000 euro per figlio a carico.
* Ordinario di Diritto costituzionale, Università di Padova
Vicepresidente di Fondazione per la Sussidiarietà
66
FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
In altre parole, il fisco italiano riconosce molto meno della metà della spesa
effettivamente sostenuta e tassa (o meglio “tartassa”) i genitori sul resto, come
se questi soldi (dagli 80 ai 90.000 euro) fossero rimasti nelle casse domestiche
o fossero stati spesi per soddisfare esigenze voluttuarie, come acquistare un
cavallo o un motoscafo di lusso, e quindi fiscalmente irrilevanti.
Si tratta di una palese violazione del principio di capacità contributiva dell’art.
53 della Costituzione, la cui formulazione venne voluta dai costituenti proprio
per salvaguardare quella quota di reddito necessaria al mantenimento personale e familiare. La capacità contributiva, ovvero la capacità di concorrere alle
spese pubbliche, inizia infatti solo dopo aver assolto a queste primarie esigenze della vita.
Si tratta di un dato evidente che, ad esempio, da tempo ha dettato la linea della
Corte costituzionale tedesca, grazie alla quale oggi in Germania si possono
dedurre fino a 15.000 euro annui per ogni figlio a carico.
Se la spesa effettivamente sostenuta per i figli è ampiamente riconosciuta dal
fisco tedesco, quello italiano è invece ancora gravemente miope: non distingue
tra soldi spesi al casinò o per comperare un cavallo e soldi spesi per i figli.
È utile precisare che queste affermazioni non riguardano solo i contribuenti
ricchi, ma tutti: anche un operaio che pur fatica ad arrivare a fine mese è
costretto a pagare imposte sul reddito come se i soldi che ha speso per mantenere, vestire, educare i figli li avesse ancora in tasca.
Si tratta di un paradosso inaccettabile, cui si contrappongono le lucide affermazioni della Corte costituzionale tedesca: «al fisco è precluso attingere ai
mezzi economici indispensabili al mantenimento dei figli nello stesso modo
con cui attinge ai mezzi utilizzati per la soddisfazione di esigenze voluttuarie»;
«il legislatore fiscale deve rispettare la decisione dei genitori di avere figli e
non può obiettare loro l’evitabilità dei figli allo stesso modo con cui obietterebbe l’evitabilità di altri costi per la conduzione della vita».
Non si può prescindere da queste considerazioni per valutare la questione sulla
costituzionalità dei DiCo: siccome questi ultimi avranno un costo tutt’altro che
marginale non è permesso al legislatore utilizzare risorse per forme di convivenza alternative a quelle familiari, quando è altamente inadempiente rispetto
alla priorità che la Costituzione assegna alla famiglia fondata sul matrimonio.
A quanto già precisato, va peraltro aggiunto che la recente trasformazione
delle deduzioni per i figli a carico in detrazioni, ha determinato l’aumento
delle basi imponibili delle addizionali regionali. Quanto il Governo aveva dato
in più questo anno alle famiglie è stato rimangiato dalle addizionali regionali
sull’imposta sul reddito, che - in forza della legge statale - si calcolano su una
GENITORI SPOSATI “TARTASSATI” PAGHERANNO I DIRITTI DEI CONVIVENTI
67
base imponibile aumentata per effetto della trasformazione in detrazioni. Si è
arrivati all’assurdo per cui un single paga la stessa addizionale regionale di un
padre di famiglia con cinque figli a carico. È una palese violazione del principio di eguaglianza.
Il legislatore statale dovrebbe quindi intervenire prontamente per rimediare a
tutta questa serie di incostituzionalità relative al trattamento fiscale della famiglia fondata sul matrimonio, la sola che sarebbe destinataria di quel trattamento di favore di cui parla l’art. 29 della Costituzione. Sarebbe tenuto a farlo
ben prima di destinare nuove e cospicue risorse ad altre forme di convivenza.
Peraltro, in Italia la spesa sociale per la famiglia è meno della metà della media
europea: 3,3% del Pil rispetto al 7,7%. Si tratta di una situazione grave che
spinse Giovanni Paolo II, quando parlò al Parlamento italiano il 14/11/2002, a
insistere sulla necessità di una «iniziativa politica che, mantenendo fermo il
riconoscimento dei diritti della famiglia come società naturale fondata sul
matrimonio, secondo il dettato della stessa Costituzione della Repubblica italiana (art. 29), renda socialmente ed economicamente meno onerose la generazione e l’educazione dei figli».
Converrebbe a tutti. Il nostro Paese si colloca, per tasso di natalità, al penultimo posto in Europa e al secondo posto nella classifica internazionale dei Paesi
più esposti all’invecchiamento. La bassa natalità è un freno alla produttività e
allo sviluppo, un gravame sulle spalle delle future generazioni, una condizione generatrice di diseconomie esterne. Se il tasso di natalità del nostro Paese,
nell’arco dei prossimi dieci anni, ritornasse nella media europea, la struttura
della popolazione ridiventerebbe più larga, con effetti positivi crescenti sul
mercato del lavoro come sul sistema dell’assistenza e della previdenza.
1 Cfr. Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Libro bianco sul welfare. Proposte per
una società dinamica e solidale, Roma, Febbraio 2003.
La famiglia relazione sorgiva del sociale
di Giovanna Rossi *
La proposta di legge sui DiCo, approvata dal Consiglio dei Ministri l’8 febbraio 2007, e l’intero dibattito attorno alle unioni di fatto fanno capo a un’intenzione non dichiarata, e anzi quasi sempre negata, di omologare diverse
situazioni di convivenza alla famiglia.
La mancata esplicitazione di tale presupposto rischia di mettere in secondo
piano la necessità di ribadire sempre e con forza che la famiglia e le unioni di
fatto sono realtà sociali irriducibilmente e originariamente diverse.
La famiglia1
La famiglia si caratterizza per essere una relazione sorgiva del sociale2, che
connette in modo unico generi e generazioni rispecchiando quattro dimensioni essenziali (la donatività, la reciprocità, la generatività e la sessualità) che
devono essere compresenti se la famiglia è tale in senso pieno3.
La relazione familiare è qui intesa come elemento positivo e generativo dell’identità personale e di una società dell’umano. L’identità personale si struttura
attraverso un processo di identificazione con la figura materna e paterna che
sono, quindi, essenziali per raggiungere una vera maturità psicologica adulta. Al
contrario, la cultura contemporanea non riconosce tale legame come un elemento positivo e fondamentale, ma solo come vincolo che limita la presupposta libertà dell’individuo non considerato come persona, ovvero soggetto in relazione.
Viviamo in un mondo frammentato dove l’individuo è costretto ad interagire
con molti ambienti diversi, mantenendo la massima flessibilità e disponibilità.
Ciò lo rende fragile, indebolisce i suoi punti di riferimento, lo costringe a
migrare caoticamente senza regole e senso da un contesto all’altro, da un’esperienza all’altra. Tuttavia, c’è ancora un unico luogo dove può ricomporre la
propria identità frammentata, dove è riconosciuto come uomo e non come
“competenza”, come “frammento specializzato”: è la famiglia, naturalmente
quando essa abbia ancora le caratteristiche di una relazione stabile, dove viga
la cura responsabile dell’uno verso l’altro.
Ma, dove prevalga la cultura individualistica, dove venga smantellato ed eroso
il senso di ogni legame sociale, il legame familiare non può più essere consi* Professore ordinario di Sociologia della famiglia, Università Cattolica di Milano
70
FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
derato come risorsa decisiva per lo sviluppo della persona, bene verso il quale
val la pena impegnarsi responsabilmente e stabilmente, ma viene inteso come
realtà contingente con una pura valenza funzionale, oppure, nell’ipotetico riconoscimento delle unioni omosessuali, viene svuotato della sua essenza autentica e usato come “forma” entro cui inscrivere unioni che ne tradiscono il
significato originario.
A delineare questo scenario concorrono elementi di diversa natura:
- l’assegnazione di un ruolo prioritario alla valenza espressiva ed emotiva
delle relazioni e il misconoscimento della responsabilità interpersonale,
generazionale e sociale delle relazioni familiari;
- la riduzione della differenza sessuale biologica a un fatto puramente convenzionale;
- la netta separazione tra relazioni sessuali e relazioni procreative;
- la considerazione del matrimonio come tappa di un processo di graduale
“appesantimento” dei vincoli reciproci del tutto accidentale e reversibile;
- l’appiattimento del matrimonio a uno strumento di tutela patrimoniale e assicurativo e non a un’istituzione promozionale delle relazioni.
Le unioni di fatto4
Le unioni di fatto sono situazioni di convivenza prive di vincoli istituzionali
per libera scelta dei partner.
La scelta per l’assenza dell’istituzionalizzazione del legame coniugale fa venir
meno la possibilità di identificare criteri oggettivi che stanno alla base dell’organizzazione sociale: i vincoli reciproci diventano confusi e incerti. D’altra
parte, e paradossalmente, la spinta a dare maggiore consistenza al rapporto di
coppia è evidente nella stessa richiesta di formalizzazione delle unioni libere.
In tal modo sembra emerga un “omaggio postumo” all’istituzione che si rifiuta e che viene invocata in una sua forma parziale. Da un lato, si nega l’idea di
una stabilizzazione del legame e, dall’altro, la si persegue tenacemente, senza
tuttavia farne parola esplicita.
Così di «famiglia» si vorrebbe parlare al plurale, intendendo che sotto tale etichetta starebbe qualsiasi forma di convivenza in cui le parti in gioco - gli individui genericamente intesi - si sentano legati affettivamente e da un vincolo di
cura reciproca. Il modello cosiddetto “tradizionale” assume un valore storico,
mentre, perché s’imponga, deve essere considerato come un universale culturale, dal quale le presunte altre tipologie familiari si distinguono - come sug-
LA FAMIGLIA RELAZIONE SORGIVA DEL SOCIALE
71
gerisce Donati - per analogia (una relazione di somiglianza) o per metafora
(una relazione di similitudine), pur restando di diversa natura5.
D’altra parte, il processo di trasformazione delle forme sociali, tra cui c’è la
famiglia, è incessante, ma non potrà essere letto in termini evolutivi o di progressiva semplificazione, fino alla scomparsa degli elementi originari, bensì
come trasformazione il cui senso ed esito non è prevedibile, perché dipenderà
dal suo impatto con la realtà sociale nel suo complesso e dalla capacità delle
eventuali nuove forme di sopravvivere, rispondendo adeguatamente alle sfide
del contesto sociale e alle aspettative che la società ha nei confronti della relazione familiare (compiti socializzativi, di cura reciproca, ecc.).
I Pacs e i DiCo
Nonostante in Italia sembri prevalere, con i DiCo, un orientamento meno “istituzionalizzante” di quanto lo siano i Pacs (i Patti civili di solidarietà), ogni
forma di riconoscimento di diritti analoghi a quelli dei coniugi rischia di condurre a una surrettizia omologazione della coppia omosessuale a quella eterosessuale, fondata sulla richiesta di tutela del diritto del singolo individuo come
criterio universalistico di legittimazione.
Come è noto, la relazione di coppia tra omosessuali si fonda biologicamente
sull’annullamento della differenza di genere e sulla conseguente impossibilità
di procreazione per via naturale6: qui risiede in radice l’impossibilità di intendere tale relazione come identica e fungibile a quella familiare.
Una distinzione rilevante sotto il profilo giuridico e sociale
La proliferazione di forme apparentemente ritenute analoghe alla famiglia e la
richiesta di istituire modalità ibride di riconoscimento dei legami mettono il
diritto di fronte alla necessità di operare delle distinzioni.
Distinguere significa individuare alcuni criteri rispetto ai quali le diverse
forme presentano somiglianze o differenze. Purtroppo, è sempre più diffuso
l’orientamento a considerare la distinzione uno strumento di discriminazione e ciò porta il sistema giuridico a rifugiarsi dietro lo schermo di una neutralità etica, che rende tutto “indifferente” e “omologo”. L’equivoco, come
suggerisce Donati7, nasce dal fatto che l’individuazione di differenze viene
letta come «penalizzazione» anziché come promozione delle «potenzialità di
72
FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
umanizzazione» che solo alcune forme posseggono. Non si tiene conto, cioè,
del rischio che l’omologazione delle unioni di fatto a quelle legali potrebbe
portare a svalorizzare queste ultime, a indebolire il valore dell’orientamento
solidaristico di cui queste ultime sono il modello, a vantaggio di un incremento dell’individualismo, che mette a repentaglio la stessa tenuta dell’ordine sociale.
È lecito, dunque, assegnare al diritto una semplice funzione di ratifica di comportamenti e richieste che si attestano tra i cittadini? O piuttosto, può fungere
da strumento che promuove la coesione e la solidarietà sociale?
Se non è possibile pensare una società senza famiglia, è allora necessario riconoscere i criteri che ci consentano di dire con chiarezza cosa sia famiglia, perché rinunciando, si consente di affermare che niente è più famiglia. Ciò porterebbe a operare una pesante discriminazione, mortificando chi si assume la
responsabilità seria di una stabile vita comune, di impegno verso l’altro liberamente scelto, di cura ed educazione delle giovani generazioni.
In conclusione
Quanto fin qui illustrato mette chiaramente in luce come l’allargamento apparentemente minimale di ciò che viene definito come famiglia nasconda il
rischio non remoto di minare alla radice l’identità costituiva di ciò che propriamente è famiglia. L’assenza del vincolo coniugale farebbe venir meno uno
dei più forti criteri oggettivi che stanno alla base dell’organizzazione sociale:
i vincoli reciproci diventerebbero molto confusi e incerti. E forme istituzionali deboli, quali i Pacs o DiCo, non riuscirebbero a rispondere in modo pieno
alle esigenze di stabilità e prevedibilità che, invece, la famiglia fondata sul
matrimonio consente.
E, quindi, senza negare la legittimità di un’esigenza di tutela del membro
debole nelle unioni di fatto, va ribadito chiaramente che, ammettere la possibilità che il matrimonio e i diritti a cui dà accesso possano essere surrogati da
forme analoghe, significherebbe abbassare il profilo dell’istituzione familiare,
renderla meno funzionale agli obiettivi propri della società nel suo complesso.
1 In Italia, secondo i dati del Censimento Istat 2001 relativi al totale delle coppie italiane,
quelle coniugate rappresentano il 96,4% (Cfr. G. Blangiardo, S. Rimoldi, Morfogenesi
della famiglia italiana: la prospettiva socio-demografica, in E. Scabini, G. Rossi (a cura
di), Le parole della famiglia, Vita e Pensiero, Milano 2006, p. 89).
LA FAMIGLIA RELAZIONE SORGIVA DEL SOCIALE
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2 P. Donati, Relazione familiare: la prospettiva sociologica, in E. Scabini, G. Rossi (a cura
di), Le parole della famiglia, cit., pp. 47-76.
3 G. Rossi, Lezioni di Sociologia della famiglia, Carocci, Roma 2001.
4 In Italia, secondo i dati del Censimento Istat 2001, le unioni di fatto, costituite cioè da coppie non coniugate, rappresentano il 3,6% del totale delle coppie italiane. In valore assoluto
si tratta di poco più mezzo milione (Cfr. G. Blangiardo, S. Rimoldi, Morfogenesi della
famiglia italiana: la prospettiva socio-demografica, cit., p. 89).
5 P. Donati, Relazione familiare: la prospettiva sociologica, cit., p. 54.
6 La procreazione potrebbe essere perseguita solo con il ricorso alle tecniche di fecondazione
eterologa o a metodiche non lecite quali “l’utero in affitto”.
7 P. Donati, Relazione familiare: la prospettiva sociologica, cit., p. 65.
Bibliografia
G. Blangiardo, S. Rimoldi, Morfogenesi della famiglia italiana: la prospettiva socio-demografica, in E. Scabini, G. Rossi (a cura di), Le parole della famiglia, Vita e Pensiero, Milano
2006, pp. 77-99.
P. Donati, Relazione familiare: la prospettiva sociologica, in E. Scabini, G. Rossi (a cura di),
Le parole della famiglia, Vita e Pensiero, Milano 2006, pp. 47-76.
G. Rossi, Lezioni di Sociologia della famiglia, Carocci, Roma 2001.
E. Scabini, V. Cigoli, Relazione familiare: la prospettiva psicologica, in E. Scabini, G. Rossi
(a cura di), Le parole della famiglia, Vita e Pensiero, Milano 2006, pp. 13-46.
E. Scabini, G. Rossi (a cura di), Rigenerare i legami: la mediazione nelle relazioni familiari e
comunitarie, Vita e Pensiero, Milano 2003.
Famiglia: luogo di composizione
della differenza
di Eugenia Scabini *
L’io è strettamente in relazione con un tu. L’identità dell’essere umano si
costruisce a partire dai primi momenti di vita (persino in fase intrauterina)
entro uno scambio col tu corporeo della madre e poi con il noi delle corpose
relazioni familiari. E ciò vale per tutta la vita fino all’età anziana quando, come
tante ricerche psicologiche mostrano, il rapporto malessere-benessere si volge
a favore di quest’ultimo se la persona può godere di scambi personalizzati con
le persone significative, in primis i famigliari.
Il rapporto io-tu vive e si alimenta di somiglianze e differenze: la relazione, il
legame, si sviluppa secondo modalità “sane” se sa riconoscere l’altro in quanto simile, uomo come me, ma anche a me differente, altro da me.
Oggi il punto dolente è, malgrado possa sembrare l’opposto, il riconoscimento delle differenze.
La società odierna insiste molto sul rispetto e valorizzazione della “diversità”
e sui diritti di tutto ciò che è diverso, specie se minoritario, come si evince a
proposito del tema dei diritti delle minoranze, life-motiv di molte richieste e
riconoscimenti, non solo in Italia, ma nel mondo occidentale. Ma troppo spesso diversità e differenza sono confusi. Essi invece sono termini e condizioni
che vanno ben distinti e ciò è basilare soprattutto in riferimento al patto coniugale, patto che lega un uomo e una donna, e con ciò unisce e collega le differenze fondamentali dell’umano, il maschile e il femminile.
In un bel testo di Angelo Scola1, si osserva che diversità (di-vertere) vuol dire
volgere in altra direzione e allude al dischiudersi di un ventaglio di possibilità, mentre differenza (dif-ferre) suggerisce l’idea di portare altrove la stessa
cosa, cambiandovi collocazione. La diversità indica perciò un dato inter-personale mentre la differenza un dato intra-personale.
È facile oggi confondere le cose e trattare il rapporto identità-differenza come
se fosse uguaglianza-diversità.
L’uomo e la donna realizzano la loro identità entro la loro radicale differenza
(io sono uomo o donna non per un aspetto, ma per tutto il mio essere) e allo
stesso tempo sono identicamente umani, cioè accomunati dall’essere appartenenti al genere umano.
* Preside della Facoltà di Psicologia, Università Cattolica di Milano
76
FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
Questa radicale differenza che attraversa il genere umano è qualcosa che ultimamente sfugge alla nostra capacità di definizione e di concettualizzazione.
Che cosa vuol dire essere uomo o donna, in che cosa sta la differenza?
Qualsiasi concettualizzazione lascia fuori qualcosa: ogni cultura ha costruito
sulla differenza sessuale ruoli, funzioni e caratteristiche di senso (e ciò che
chiamiamo «gender» o «genere»), ma il nocciolo duro della differenza rimane, come dato originario, indeducibile. Saper «pensare la differenza» richiede
perciò sapersi avvicinare agli aspetti misteriosi ed eccedenti della natura
umana e ciò è chiaramente in controtendenza rispetto alla mentalità odierna
che, di fronte a questa sfida, facilmente ne riduce la portata e si “accontenta”
di addomesticare la differenza annacquandola, come si fa, ad esempio, quando si considera il genere maschile e femminile come una pura costruzione
sociale e che perciò si può scegliere a piacimento. Un altro modo per ridurre
la radicale alterità dell’altro è quello di considerare totalmente intercambiabile e omologabile il maschile/femminile, altra tentazione che percorre il nostro
vivere sociale.
Tentazione odierna è perciò quella di una reciprocità puramente simmetrica,
mentre tentazione del nostro recente passato è stata quella di addomesticare
la differenza con la retorica della complementarietà dei ruoli che anch’essa, è
un modo di chiudere gli aspetti di mistero, di eccedenza, in una falsa completezza.
Invece l’attrattiva tensione che spinge l’uomo e la donna a legarsi, a riconoscere i bisogni l’uno dell’altro, li porta anche a riconoscersi bisognosi l’uno
dell’altro, a riconoscere perciò la loro “insufficienza”, trascesa, almeno parzialmente, dal desiderio del figlio, elemento terzo del legame che consente di
perpetuarlo anche dopo la nostra scomparsa. Anche qui va peraltro notato l’indebolimento di questa “diversità generazionale” del figlio (la differenza di
generazioni, analogamente alla differenza di genere, è elemento costitutivo
delle famiglie) oggi spesso misconosciuto per il diffuso fenomeno di “rispecchiamento” dei genitori nel figlio (spesso figlio unico), che diventa facilmente e pericolosamente specchio delle loro attese perdendo la sua propria funzione di soggetto desiderante.
La sfida che la famiglia pone è perciò alta, perché pone l’avventura di un legame-patto che mette in relazione profonda la differenza uomo-donna senza subalternità (come è stato nel passato e come ancor oggi è realtà purtroppo diffusa) né omologazioni.
Oggi, venuta meno la norma sociale (anche protettiva) che poneva il vincolo
matrimoniale come indissolubile, questa tensione costitutiva che anima il patto
FAMIGLIA: LUOGO DI COMPOSIZIONE DELLA DIFFERENZA
77
coniugale viene più facilmente alla luce e ci spaventano le conseguenze, oramai su larga scala, di facile rottura del patto.
Per questo va certamente valorizzato l’impegno di chi accetta di sposarsi e fare
famiglia, mantenendo anche giuridicamente la differenza (ecco ritornare il
tema) che questa forma comporta rispetto alle cosiddette unioni di fatto. Come
osserva acutamente Donati, vi è al proposito confusione tra distinzione e discriminazione2.
Il diritto deve essere capace di distinguere tra le forme di convivenza, riconoscendo la specifica natura di ciò che è propriamente famiglia e con ciò differenziandola da ciò che lo è solo metaforicamente.
Non discriminare vuol dire essenzialmente evitare che forme uguali vengano
trattate in modo diseguale e non invece pretendere che forme differenti vengano trattate in modo eguale. Scopo della distinzione/differenziazione non è
penalizzare le convivenze di fatto, ma promuovere e riconoscere le diverse
qualità contenute nelle diverse forme di convivenza, tra le quali spicca quella
famigliare, in senso proprio, cioè basata su un fatto stabile e socialmente riconosciuto tra un uomo e una donna, sull’impegno di prendersi cura responsabilmente della generazione dei figli.
E ciò è pensiero profondamente laico.
Un’ultima osservazione riguarda invece il matrimonio cristiano.
Ritengo che le comunità cristiane debbano, più di quanto abitualmente si faccia, riflettere, scoprire e far leva su ciò che costituisce il suo “valore aggiunto”
e il significato racchiuso nel suo essere sacramento.
Abbiamo avuto il dono del magistero di Giovanni Paolo II che ci ha dato pagine incredibili sia nella lettera apostolica Mulieris dignitatem (1988) che nella
Lettera alle famiglie (1994) e nelle celebri e affascinati catechesi del mercoledì sulla teologia del corpo.
Entro la profondità di questi richiami potremo riscoprire il valore dell’unione
tra uomo e donna, che racchiude in unità l’amore sponsale (l’unità dei due),
natura e cultura, istinti-passioni e affetti, e il cui senso ci riporta fino alle soglie
del mistero trinitario che sa realizzare perfetta unità nella perfetta differenza.
È aiutandoci a vivere questa unità misteriosa che noi uomini e donne della
post-modernità potremmo attingere la forza per realizzare con coraggio l’avventura del fare famiglia.
1 A. Scola, Uomo-donna. Il “caso serio” dell’amore, Marietti 1820, Genova 2002.
2 P. Donati, Relazione familiare: la prospettiva sociologica, in E. Scabini, G. Rossi (a cura
di), Le parole della famiglia, Vita e Pensiero, Milano 2006, pp. 47-76.
Perché la famiglia non si snaturi
va difesa socialmente
di Paola Soave *
Cosa mina oggi la natura e il senso della famiglia? Dove inizia la mutazione
genetica? Ha detto il Papa a Valencia lo scorso 9 luglio: «Nella cultura attuale
si esalta molto spesso la libertà dell’individuo inteso come soggetto autonomo,
come se egli si facesse da solo e bastasse a se stesso, al di fuori della sua relazione con gli altri e della sua responsabilità nei confronti degli altri. Si cerca
di organizzare la vita sociale solo a partire da desideri soggettivi e mutevoli
senza riferimento alcuno ad una verità oggettiva previa, come la dignità di
ogni essere umano e i suoi doveri e diritti inalienabili al cui servizio deve mettersi ogni gruppo sociale».
Libertà e responsabilità sono due parole-chiave per cogliere dove sta il rischio
di una mutazione genetica della famiglia.
Oggi si può parlare di una sorta di malattia della libertà che affligge la persona e fa sentire il suo influsso sulla famiglia: una libertà che si identifica nell’assenza di legami, soprattutto di legami stabili e definitivi, una libertà che
vede l’altro come qualcuno che porta via spazio invece che come qualcuno che
compie. È la cultura del mutevole e del provvisorio, secondo la quale tutto è
puramente soggettivo, una cultura che rende sempre più difficile la capacità di
una scelta definitiva accompagnata da un impegno pubblico e istituzionalmente sancito.
L’altro fattore che mina oggi la realtà della famiglia è la concezione privatistica della stessa. Il matrimonio è ciò che fa pubblica la scelta sponsale, così è
la società intera che celebra la nascita di un nuovo soggetto sociale, che assume i diritti e doveri inerenti alla natura del legame che si contrae. Vi è dunque
una dimensione sociale della condizione di coniuge che appartiene all’essere
(e non soltanto all’agire) ed esprime la dignità di una nuova identità personale, oggetto di un pubblico riconoscimento. La natura e il significato della famiglia vanno oltre la dimensione privatistica: la famiglia non è un soggetto privato, è un soggetto sociale: il suo senso, i suoi scopi e le sue funzioni sono di
essenziale servizio al bene comune (basti pensare alla funzione generativa, a
quella educativa e a quella di cura). Nel riconoscere e promuovere l’identità
familiare della persona, la società si gioca la sua stessa sopravvivenza.
* Sindacato delle Famiglie
80
FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
Il magistero di Giovanni Paolo II ripetutamente sottolinea il legame inscindibile tra benessere della famiglia e benessere della società; nella Centesimus
annus la famiglia è definita «la prima e fondamentale struttura a favore dell’ecologia umana».
Una volta identificata la natura del legame familiare e la soggettività sociale
della famiglia, una differenza che fa la differenza, come dice Pier Paolo
Donati, si comprende perché il fatto di considerare non equiparabile alla
famiglia una forma di relazione di natura e significato diverso come i DiCo,
non si significa discriminare ma differenziare. La coppia di fatto è, per scelta, un legame-non-legame, una relazione privata non pubblicamente assunta.
Non è quindi il diritto che rifiuta di dare rilevanza alla famiglia di fatto, ma è
la coppia di fatto che rifiuta, per propria decisione, la rilevanza del diritto. Chi
non si sposa non assume vincoli di fronte alla società, di fronte alla legge, non
è coniuge, e i propositi e le promesse che privatisticamente si assumono non
lo obbligano, sono rimessi alla spontaneità, alla volontaria costanza che può
durare o meno. La scelta è che, giuridicamente, nessuno deve nulla a nessuno e in ogni istante può dire basta. È la differenza di fondamento che rende
impossibile l’equiparazione. Consentire a priori che si formino “famiglie anomale” aventi i medesimi diritti e garanzie di quelle “naturali” significa davvero stravolgere in profondo il sistema sociale, significa promuovere una
società di individui legati da legami mutevoli e provvisori, a responsabilità
limitata.
Ma il bene dell’io, come il bene comune, è un bene relazionale fatto di scelte
definitive e stabili, che mantengano la caratteristica della permanenza, di un
impegno di fedeltà e di costruttività, anche se questo può esigere dei sacrifici.
L’incapacità di permanere nella scelta significa l’incapacità di una effettiva
responsabilità. Illudendosi di essere libero solo perché può continuamente
cambiare le sue scelte, l’uomo finisce spesso per essere condizionato dalla
mentalità dominante, dal potere enorme dei mass-media. In realtà, spesso il
potere reale sceglie per lui, e l’uomo non è più protagonista. Solo la coscienza della propria identità rende protagonisti.
Promuovere e non vanificare la vera natura della relazione familiare è quello
che urge oggi, non l’equiparazione delle coppie di fatto, ma l’impegno per una
vera politica familiare. La famiglia va difesa socialmente, altrimenti si snatura. Per questo è nato il Sindacato delle famiglie e poi il Forum delle
Associazioni Familiari.
DiCo: un problema di metodo
di Carlo Bellieni *
Quando in assemblee pubbliche o in colloqui privati sento parlare dei pericoli che la famiglia corre tra DiCo e Pacs, mi stupisco sempre che qualcuno se
ne meravigli. Mi stupisco dello stupore, perché ormai tutti lo sappiamo: sono
30-50 anni che viviamo in un clima dominato dalla fobia, una fobia instillata
nel nostro popolo, una fobia dell’avvenimento, una fobia di quello che non si
può governare, quello che non si può maneggiare, in primo luogo del figlio,
dell’altro, del tu. Quello che Don Giussani chiamava l’effetto Chernobyl, cioè
il mondo degli uomini svuotati: fuori tutti uguali, ma dentro non c’è più niente. Tutti i giorni i nostri figli e noi stessi abbiamo a che fare con questo nemico interno che ci ha svuotato, quotidianamente… ma non ce ne rendiamo
nemmeno più conto: è la fobia della responsabilità, del dire «tu» alla moglie
o al marito, all’altro insomma. Oggi l’ideale comune è vivere per sé, isolati,
tenendo l’altro come ostacolo o come mezzo; e i rapporti affettivi finiscono
in questa macina, tanto che nessuno dice più «tu» pensando al Destino dell’altro, ma considera il «tu» come qualcosa che si può “usare”, o al massimo
“temere”.
Un esempio l’ho colto di recente, studiando il livello di diagnostica prenatale
svolta in Italia, che ci colloca al primo posto nel mondo per numero di ecografie e di amniocentesi; ciò testimonia non solo un’insicurezza esistenziale,
ma anche un deficit di accettazione di sé, dei propri cambiamenti e del proprio
figlio, a meno che non sia perfetto; per questo vale sommamente il richiamo
recente del Papa contro la «ricerca esasperata del figlio perfetto».
Quello che colpisce è che queste analisi vengono effettuate da cattolici e non
cattolici, senza la minima preoccupazione delle implicazioni etiche connesse:
si cerca un figlio che risponda non al suo Destino ma solo alle nostre attese.
È interessante notare, a margine di questo, come spesso si accetti di rischiare
la salute (basti pensare a quanti rischi si va incontro usando certe tecniche), pur
di non compromettersi con le conseguenze di un giudizio, pur di affermare un
proprio desiderio, talvolta un proprio capriccio. Ma questo è il tema di un altro
lavoro.
Di questa dimenticanza e indifferenza etica nelle scelte di tutti i giorni, i DiCo
sono forse la punta dell’iceberg o forse la novità. Non dobbiamo dimentica* Dirigente medico, Terapia Intensiva Neonatale, Azienda Ospedaliera Universitaria Senese
Membro Corrispondente Pontificia Accademia Pro Vita
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FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
re, comunque, che quando diciamo “novità” in realtà parliamo di una regressione di millenni: la divisione degli uomini in “persone” e “non-persone”, il
possesso dei genitori sui figli, lo svilimento della funzione della donna, sono
cose di secoli e secoli fa. Tuttavia oggi, instillando nelle donne l’idea di essere incapaci (ad accettare l’altro, ad accettare se stesse cambiate) o riducendole a una realizzazione basata su modelli maschili; con la tratta di esseri umani
rinnovata nelle forme, ma orrenda come sempre; con il diritto di vita e di
morte che i genitori hanno sui figli prima della nascita e ora anche dopo…
ecco davanti a tutto ciò non siamo in presenza di novità, ma di regressioni,
involuzioni.
Dicevo che i DiCo sono la punta dell’iceberg di un’involuzione che respiriamo appena accendiamo la tv o leggiamo un giornale: bisogna dunque affermare un giudizio su di essi, respingerli, ma anche stare attenti a non farci stregare dal fascino perverso della sfida laicista e correre dietro all’ultima novità, come può essere oggi, ad esempio, l’apertura verso l’eticità del cannibalismo o della pedofilia, cui abbiamo assistito in certi ambiti, la clonazione
umana o la creazione di chimere. Non possiamo scordarci infatti di quelle
“novità” che noi non potremo mai condividere, ma che sono diventate il pane
quotidiano.
Dunque, c’è un problema di metodo: ma per parlare di questo, la cosa migliore è partire dalla propria esperienza “in atto” e ho visto che nell’affrontare queste cose professionalmente, dovendosi buttare allo sbaraglio in un giudizio e
in certe battaglie, il problema è a due livelli.
Il primo è di acquisire personalmente un’autorevolezza e questo per me è stato
necessario, perché solo con un lavoro di ricerca scientifica di anni e di applicazione clinica nel campo della sensorialità, del dolore e della memoria del
feto e del neonato, è stato possibile far capire che ciò che dico, che diciamo,
non sono pie fantasie o romanticismi, ma un dato oggettivo, molto più serio di
quello di chi sostiene che l’individuo abbia inizio esistenziale quando vogliono i genitori o lo Stato.
Il secondo livello è chiarito dal termine «giudizio», che significa impegnarsi
nel paragone, che un po’ alla volta diventa naturale e esistenziale, tra la realtà
e le esigenze del cuore. Il giudizio, si noti bene, non si esercita su “un tema”,
ma sulla realtà e non si può parlare di «realtà» se ne prendiamo solo un aspetto: non si vive a compartimenti stagni.
Allora, il problema in sé non è quello dei DiCo, come non lo è l’aborto o la
fecondazione; non è solo il problema di una legge che deve cambiare. Il problema è quello di insegnare a giudicare a ognuno di noi in primo luogo, e poi
DICO: UN PROBLEMA DI METODO
83
a chi incontriamo, con i media cui possiamo arrivare: possiamo cambiare tutte
le leggi del mondo, ma se non riprendiamo a giudicare, cioè a confrontare con
la nostra esperienza originaria la realtà, non abbiamo cambiato niente, troveremo sempre nuovi agguati.
Purtroppo dobbiamo notare che la capacità di giudizio, se non esercitata e sollecitata in una compagnia, tende ad atrofizzarsi: non si spiega altrimenti come
fenomeni discutibili vengano comunemente accettati e diventino cultura e
“dato di fatto” su cui non si discute più: fra questi includiamo la scelta di costituire una famiglia in età avanzata, o fare pochi figli; la facilità delle separazioni, ma anche la preponderante programmazione televisiva di spettacoli
voyeuristici o incentrati sul gioco d’azzardo; e potremmo continuare la serie.
Se i DiCo sono il segno di una regressione antropologica, il metodo è “vivere” una nuova antropologia. Diceva don Julián Carrón: «quante cose sono
ormai diventate pane quotidiano, quante cose che condanniamo a parole le
abbiamo di fatto accettate, non ci scandalizzano più! Abbiamo davvero accettato questa dimenticanza di noi stessi, nell’atto in cui abbiamo a che fare con
le cose che ci dovrebbero stare più a cuore: il figlio, la moglie, i rapporti di tutti
i giorni?».
Penetrare nella realtà che abbiamo dinnanzi e giudicare a partire da un incontro che ci affascina: questo è il metodo. Allora i DiCo sono solo un esempio,
come nei mesi scorsi lo sono stati l’eutanasia, la fecondazione, ecc. Sono più
subdoli forse, perché entrano in un comportamento abitudinario di rapporti
nati morti, di incapacità a desiderare il bene dell’altro, che per noi sono la
norma (o rischiano di esserlo). Ma sono un esempio che rimanda a una responsabilità che è il presupposto del metodo: assorbire il metodo da chi lo vive.
«Giudicare tutto - diceva don Giussani - : questa è l’ascesi».
Biopolitica e difesa della creaturalità
di Eugenia Roccella *
Il cuore dell’uomo, “nato di donna”
Vorrei partire dal tema che mi è molto caro, il cuore, inteso come desiderio
umano di felicità interiore, impulso verso il bene immateriale, a cui affidare ogni
speranza di salvezza. Oggi però il cuore non è più qualcosa di immodificabile,
come siamo stati abituati a ritenerlo fino ad ora. La cesura tra modernità e postmodernità non è un riferimento astratto a categorie storiografiche e filosofiche,
ma un abisso che si è scavato nella realtà, fra un prima e un dopo: la postmodernità ci allontana dalle nostre radici come mai è successo prima, è una frattura che non abbiamo mai sperimentato nel corso della storia in modo così drastico e assoluto, qualcosa che cancella anche le tracce del tempo, ci allontana dal
passato, dalla tradizione, dall’esperienza, in un certo senso da noi stessi.
Non siamo in molti a nutrire una percezione così drammatica e ultimativa di
ciò che sta accadendo, ma tra questi c’è, per fortuna, il Papa.
Ricordo che, quando ancora era Prefetto della Congregazione per la Dottrina
della fede, Ratzinger aveva scritto una lettera ai Vescovi in cui affrontava il
tema della differenza sessuale. Quella lettera ebbe un grande e inaspettato successo presso le femministe, perché era evidente, leggendola, che il Cardinale
sapeva orientarsi e distinguere all’interno delle diverse correnti del pensiero
delle donne. Ciò produsse molto stupore, data la scarsissima conoscenza in
Italia delle teorie e analisi femministe, e infatti ero abituata a dire e scrivere,
da circa dieci anni, cose che avevano pochissima eco. Il fatto che si stesse scivolando verso la manipolabilità dell’umano, che l’ideologia del genere1 stesse
entrando da tutti i canali internazionali possibili e che dopo un po’ queste teorie avrebbero avuto ricadute di tipo legislativo, era considerato, nel dibattito
culturale italiano, un’ipotesi remota. Ben pochi sapevano cosa esattamente
implicasse l’introduzione della parola «genere» al posto di «sesso», almeno
fino alla riforma del matrimonio attuata da Zapatero con una semplice modifica terminologica (sostituendo i vocaboli sessuati «uomo» e «donna» con il
neutro «coniuge»).
Nei discorsi e negli scritti di Ratzinger, invece, ho sempre letto sia una profonda consapevolezza culturale che una profonda consapevolezza dell’urgen* Giornalista e scrittrice, portavoce nazionale del Family Day
86
FAMIGLIA E DICO: UNA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA?
za, dell’angoscia, del significato decisivo di questo momento storico. Uno dei
segni del suo pontificato è nel sentimento preciso del fatto che stiamo correndo verso l’abisso, che non c’è ritorno sulla strada che l’umanità sta imboccando. Non c’è ritorno perché quando si interviene sull’umano, attraverso le biotecnologie e la tecnoscienza, si produce una desertificazione dell’esperienza
che alla fine comporta una desertificazione del cuore.
I DiCo, ad esempio, per tornare al tema di cui trattiamo, potrebbero sembrare
una cosa quasi inoffensiva. In fondo, si dice, cosa toglie alla famiglia tradizionale il fatto che ci possono essere altre famiglie, di tipo diverso? Perché, in una
società pluralista, non si può lasciare a ciascuno la possibilità di costruirsi la
propria famiglia secondo criteri personali?
Il punto è che i DiCo sono la negazione del materno come fulcro della costruzione della famiglia. Il termine matrimonio ha una radice femminile, mater,
perché è la maternità il cuore della famiglia, il nucleo primario intorno a cui si
strutturano le relazioni di parentela e si forma la comunità. L’idea che la famiglia sia solo la coppia, cioè che qualunque rapporto affettivo fra due persone
crei la famiglia, è maturata perchè la generazione si sta separando dal corpo.
La nascita è ormai qualcosa di sganciato dalla maternità, cioè non soltanto dal
corpo, ma dai rapporti spontanei che da sempre l’hanno accompagnata. Avere
un figlio non è una questione solo biologica, ma relazionale, culturale, e di
esperienza: un’esperienza di amore e di affidamento. Ricordo un libro storico
del femminismo, il cui titolo è Nato di donna, di Adrienne Rich. Le femministe sostenevano che l’esperienza fondamentale degli esseri umani, ciò che unifica l’umanità, è l’essere nati tutti nel grembo di una donna.
«Nato di donna» è un’espressione biblica. La troviamo tre volte nel lamento di
Giobbe, ed è significativo che sia legata all’idea della caducità umana, della
mortalità, della sofferenza: «l’uomo, nato di donna, vive pochi giorni, sazio
d’affanni. Spunta come un fiore, poi è reciso; fugge come un’ombra, e non
dura». È l’immagine della fragilità umana, in sintesi della creaturalità. La manipolazione della procreazione e della nascita, dunque, include l’azzeramento
della capacità dell’uomo di guardare verso l’alto e di riconoscere il limite.
Tecnoscienza e società totalitaria
Modificando le esperienze primarie dell’uomo, se ne modifica anche il cuore,
come tensione spirituale, desiderio di una felicità interiore profonda. Tutto
questo non lo si deve più soltanto al processo di secolarizzazione in atto nel
BIOPOLITICA E DIFESA DELLA CREATURALITÀ
87
mondo occidentale, ma agli effetti sempre più invasivi della tecnoscienza
nella nostra vita quotidiana, e alla biopolitica. La politica ha acquisito un
nuovo potere sui corpi, non paragonabile a quello che deteneva un tempo,
cioè segregare, reprimere, togliere la libertà o addirittura la vita. L’esercizio
di questi poteri non toccava l’essenza dell’umano, quindi la costruzione della
coscienza. Oggi la politica ha il potere di stravolgere l’esperienza millenaria
degli uomini, a partire dalla possibilità di manipolare i corpi, di controllare
informazioni privatissime e di regolare attraverso le leggi le nuove tecnologie. L’umano si può costruire in laboratorio, e si può costruire “meglio”; rinasce così l’illusione di sconfiggere il male sulla terra, anche se non più attraverso la programmazione sociale come nel secolo scorso: l’utopia della perfettibilità è stata spostata dal terreno sociale al terreno della biologia e della
genetica, ma l’idea di fondo è sempre quella di raddrizzare il legno storto dell’umanità.
Sull’ultimo numero di Science, un editoriale sostiene che la clonazione riproduttiva umana è inevitabile, benché messa al bando praticamente da tutte le
convenzioni internazionali. Perché? Perché una volta che si elimina quel confine rigido che per secoli abbiamo dato per scontato, e che per intenderci possiamo definire “naturale”, tutto diventa flessibile, soggetto a contrattazione,
dipendente da convenzioni arbitrarie che si possono sempre modificare. Per
la logica fatale del piano inclinato, quello che oggi ci appare moralmente
inconcepibile, dice l’articolo di Science, tra dieci anni ci apparirà invece del
tutto accettabile. Se il confine è arbitrario, insomma, man mano che ci abituiamo alle nuove situazioni, lo sposteremo automaticamente in avanti.
Accettando l’idea della perfettibilità dell’uomo, non lo consideriamo più assolutamente unico nella sua imperfezione; l’unicità è legata in modo inscindibile all’imperfezione, e questa alla creaturalità, quindi il problema è proprio
difendere l’imperfezione in quanto tale. Il presidente della Commissione
nazionale di Bioetica francese, Didier Sicard, ha detto in un’intervista a Le
Monde che ormai in Francia si è aperta la strada all’eugenismo, grazie agli
esami e alle diagnosi prenatali. Anche in Italia la direzione è quella, come ha
dimostrato il caso avvenuto all’ospedale Careggi di Firenze, grazie al quale è
venuto a galla, almeno in parte, il problema degli aborti tardivi, eseguiti a
scopi eugenetici. Il caso del bimbo abortito a 23 settimane e sopravvissuto per
qualche giorno è finito sui giornali solo perché si erano verificati due incidenti di percorso: il piccolo era vivo e la diagnosi era sbagliata. Se la diagnosi
fosse stata giusta, o se il bimbo fosse morto come ci si aspettava, tutto sarebbe rimasto nell’ambito della normalità.
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Si sta perdendo la cultura dell’accoglienza, l’idea che la società deve rispettare la dignità di ogni persona, e questo mentre trionfa la censura linguistica
messa in atto dal politicamente corretto e l’ideologia delle pari opportunità. In
realtà, si tutelano solo le diversità corporativamente forti, ad esempio la diversità omosessuale, che ha sviluppato una sua capacità di contrattazione politica, e si ignorano le altre. Si costruisce una società in cui la diversità viene
apparentemente rispettata ma sostanzialmente rifiutata, perché non è più legata all’idea dell’unicità sacra della persona. Questo si vede anche nella terminologia che si adopera nei documenti e nelle definizioni ufficiali. Per esempio
si usa costantemente il termine «riproduzione» per definire la procreazione
umana. Ma riprodurre vuol dire produrre l’identico; per essere chiari, si riproduce un quadro, un’immagine fotografica, oppure si riproducono gli animali.
L’uomo non si riproduce, l’uomo procrea, genera.
Quello che mi interessa è spostare il discorso dal campo della bioetica alla biopolitica. Biopolitica è un termine foucaultiano, che oggi però viene inteso e
utilizzato diversamente. Il potere, l’abbiamo detto, interviene da sempre sui
corpi, ma finora è stato esercitato attraverso la coercizione, il sequestro delle
libertà, nei luoghi concentrazionari come carceri, manicomi, ecc. Oggi, invece, viene esercitato attraverso l’introduzione dei cosiddetti nuovi diritti, come
se si trattasse di un allargamento delle libertà individuali. È un incredibile
paradosso, perché si sta costruendo una società totalitaria, in nome dei diritti
individuali.
Parlo di quello che potremmo definire «totalitarismo genetico», che passa attraverso l’utopia scientista. Se qualcuno comincia a dividere l’umanità tra chi ha
diritto di nascere e chi no, tra chi è «fit» e chi è «unfit», come facevano i movimenti eugenisti d’anteguerra; se si può stabilire chi va “eutanasizzato”, se si
può intervenire sul patrimonio genetico di qualcuno prima che nasca; se si possono avere informazioni sulle probabilità di vita e sulle eventuali malattie di
una persona, è chiaro che ci si sta predisponendo a una società totalitaria. Mi
ha fatto impressione un recente articolo del Professor Giuseppe Remuzzi, in cui
diceva che la ricerca scientifica non può obbedire a criteri etici esterni, a un
potere di controllo esterno che ponga dei limiti o dia degli indirizzi, ma deve
casomai autocorreggersi, perché solo gli scienziati possono sapere cosa deve o
non deve fare la scienza. È un po’ quello che è accaduto con i magistrati che si
autogovernano e non rispondono a nessuno dei propri errori, anche se questi
errori possono costare alle persone la vita e la libertà. È l’idea di un potere non
controllabile sul piano democratico, che si amministra da solo, che non deve
assolutamente avere limiti e che non risponde a nessuno.
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In questo modo si sta legittimando un potere irresponsabile, che è il presupposto della dittatura, e lo si sta facendo grazie appunto a un allargamento delle
libertà individuali. Non credo che le libertà possano sempre articolarsi in diritti; non sono una giurista, però penso che inventarsi nuove libertà non sia tanto
facile, le libertà più o meno sono sempre quelle. Si possono moltiplicare i diritti specificandoli sempre di più e indebolendone l’universalità; oppure facendoli coincidere coi desideri, facendo corrispondere ad ogni possibile desiderio
un diritto; ma non credo che così si allarghi davvero l’area della libertà personale. Si arriva infatti al paradosso a cui accennavamo: costruire una società
totalitaria attribuendo nuovi diritti agli individui.
Biopolitica, non solo bioetica
È per far capire questo paradosso che dobbiamo intervenire sul piano della
biopolitica, e non soltanto su quello della bioetica: per essere chiari, non si
devono soltanto adattare i criteri del giudizio morale alle nuove situazioni, ai
conflitti e ai dilemmi creati dalla tecnoscienza, ma denunciare le concrete
modalità di esercizio del potere sui corpi e quindi sulle persone. Noi siamo
un’avanguardia, non siamo dei conservatori; siamo un’avanguardia che ha in
Italia uno speciale laboratorio, per una serie di motivi storici, tra cui la presenza della Chiesa. Siamo consapevoli che il rischio è quello di una società
antiumana, sostanzialmente illibertaria e anti-individualistica, perché si minano le basi su cui poggia l’autonomia reale dell’individuo.
Sono convinta che questa è una battaglia laica, da affrontare con argomenti e
strumenti culturali che possono essere comprensibili e recepibili dai laici.
Penso che però debba essere anche una battaglia politica. Non parlo dei partiti, naturalmente. È una guerra culturale, e io credo nel suo valore pedagogico;
cioè credo che condurre una battaglia culturale vincente produca un’accelerazione pedagogica e abbrevi moltissimo i tempi di presa di coscienza dell’opinione pubblica. Molti cattolici ritengono che si possa semplicemente fare testimonianza, senza impegnarsi nel dibattito pubblico, che comporta sempre un
certo grado di snaturamento; ma condurre una lotta sul piano culturale crea gli
spazi per la testimonianza personale, altrimenti oggi gli spazi si chiudono.
Questa guerra culturale è cominciata almeno 30 anni fa, anche se pochi allora
se ne rendevano conto. La ridefinizione e modificazione dei diritti umani è un
processo che nelle sedi internazionali (ONU e Unione Europea) è iniziato da
tempo. In primo luogo attraverso un indebolimento del loro valore universale,
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grazie alla moltiplicazione e specificazione dei diritti, poi attraverso un rovesciamento dell’ordine classico delle priorità: basta pensare ai diritti riproduttivi. Così si sono create situazioni come quelle di alcuni Paesi islamici, in cui le
donne possono avere accesso ai diritti riproduttivi, ma non a elementari diritti
come la libertà di spostarsi, di lavorare, o magari di votare. Nel campo semantico il conflitto culturale è continuo. Nell’Unione Europea per studiare le trasformazioni linguistiche è stato stanziato anni fa un notevole budget: il risultato è la scomparsa delle cosiddette parole sessuate da tutte le risoluzioni e i
testi prodotti dalla UE. Parole come madre, padre, donna, uomo, sono state
evitate, per essere sostituite con una terminologia gender neutral, cioè non
declinata al maschile e al femminile. Si dice coniuge, genitore, al posto di
famiglia si usa «progetto parentale», e così via. La riforma di Zapatero è frutto di questa cultura. È una riforma che ha fatto leva sul linguaggio: cancellando un vocabolo, anzi sostituendo un termine sessuato con uno neutrale ha
modificato la struttura del matrimonio, aprendola alle persone dello stesso
sesso.
Come potremmo definire questa strana guerra che ha per scopo la modificazione dell’umano e dell’esperienza? Io direi che in estrema sintesi la nostra è
una battaglia per la difesa della creaturalità. Questo mi sembra il punto fondamentale. Che cosa significa, dal punto di vista pratico? Vuol dire che ci tocca
lottare per il mantenimento della condizione umana, di cui è parte essenziale
la fragilità, l’imperfezione e l’unicità. Questa unicità preziosa è legata al riconoscimento, in ogni essere umano, dell’impronta divina. Si può credere o non
credere, ma solo attraverso la possibilità del trascendente si garantisce la sacralità della vita umana. Per chiarezza: oltre una certa soglia si scivola nel non
umano, ed è lì che stiamo andando. Basta vedere la pressione che c’è, in
Inghilterra ma anche altrove, per consentire la creazione in laboratorio delle
chimere, cioè l’ibridazione tra uomo e animale. Non c’è soltanto un processo
di disumanizzazione in senso morale o culturale, c’è proprio la disumanizzazione in senso tecnico, biologico. Pensiamo alle teorie del cyborg2: il corpo
cyborg può essere modificato chirurgicamente, con innesti animali, meccanici, elettronici, è un corpo ibridato che non ha più un’identità sessuale definita.
Il cyborg ha un’identità multipla, flessibile, scorrevole e indistinta, un’identità “fai da te”.
Da un momento all’altro in Inghilterra si permetterà la creazione di embrionichimera; forse non riusciranno a crearli sul piano tecnico, ma se ci riuscissero
temo che dopo chiederebbero di impiantare questi embrioni-chimera nel corpo
di una donna o di una mucca. Per ora gli scienziati interessati a produrli sosten-
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gono che mai e poi mai lasceranno crescere questi embrioni, che vengono
creati solo per essere distrutti entro il quattordicesimo giorno; ma, come dice
Science, quello che appare oggi impossibile, dopo dieci anni potrebbe diventare lecito. Quindi si sta andando non solo verso la disumanizzazione, ma
verso la progettazione scientifica del non umano.
Vorrei che si capisse che esiste una netta linea di demarcazione tra le battaglie
degli anni Settanta, come il divorzio e l’aborto, e quello che sta accadendo
oggi. La differenza è data dall’irruzione della tecnoscienza nella nostra vita, ad
esempio, dal fatto che si può intervenire sulla vita, creandola artificialmente in
laboratorio. Si può intervenire sui presupposti della nostra esperienza umana,
su elementi che ritenevamo da secoli immutabili e soprattutto indisponibili.
Anche la proposta dei DiCo ha indirettamente questo significato, perché smantella l’unicità della famiglia: la famiglia si forma attorno alla nascita, è fatta
cioè dalle relazioni spontanee che si creano intorno alla procreazione. Ma oggi
il rapporto d’amore carnale non serve più alla procreazione, perché il figlio è
sempre più un bene di consumo, che si può magari ordinare alla banca dell’embrione (già esiste negli USA). Il figlio insomma non presuppone più una
relazione fra uomo e donna, il concepimento e la nascita e quindi la creazione
delle reti naturali di parentela. Ormai qualunque coppia può generare un figlio
in laboratorio o attraverso le diverse offerte di mercato.
La guerra culturale sarà lunga, forse meno di quanto possiamo immaginare.
Sono abbastanza ottimista, perché ritengo che l’Italia sia un punto di resistenza fondamentale, un laboratorio di soluzioni controcorrente.
I nostri avversari si appoggiano al luogo comune, che è diffuso attraverso il
mainstream culturale e attraverso i mezzi di comunicazione di massa. Però in
Italia abbiamo dalla nostra parte un senso comune condiviso, basato sull’esperienza. Questo senso comune è forte e radicato, ma non ha capacità di autorappresentazione, ha difficoltà a entrare nel dibattito pubblico e a confrontarsi
con gli strumenti agguerriti del luogo comune. Per questo è di fondamentale
importanza inserirsi a pieno titolo nel dibattito culturale con strumenti e argomenti che pesino e che valgano per tutti. Sono convinta che oggi sia possibile,
proprio perché abbiamo dalla nostra parte la solidità dell’esperienza, spontaneamente refrattaria al luogo comune, e lo si è visto nel referendum sulla procreazione assistita.
Oggi i cattolici non sono soli, c’è un’ampia zona del mondo laico che non è
d’accordo con questa rivoluzione antropologica, che è affezionata al proprio
bagaglio culturale, al patrimonio di significati che racchiude. I cattolici devono ricordarsi di essere inclusivi, aperti, di rivolgersi a tutti, credenti e non. Non
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siamo qui a tenere in piedi la bandiera del conservatorismo finché è possibile,
prima di essere fatalmente sconfitti e travolti dalla storia. Il nostro sforzo è
quello di mantenere in vita il senso dell’umano, la creaturalità: qualcosa a cui,
tra alcuni anni, tutti vorranno probabilmente tornare, quando i segni della
devastazione saranno più evidenti.
1 Le teorie del “genere” (in inglese “gender”) attribuiscono alla differenza sessuale un valore convenzionale e sostanzialmente arbitrario. La dualità dei sessi non è biologica né ontologicamente fondata, dunque l’identità di genere non è stabile, ma fluida, relazionale,
mutevole.
2 Il termine «cyborg» indica un organismo cibernetico, cioè «il miscuglio di carne e tecnologia che caratterizza il corpo modificato da innesti di hardware, protesi e altri impianti».
Così lo definisce Donna Haraway, autrice del Manifesto cyborg, uscito negli USA nel
1991.
C'è in gioco la sopravvivenza dell'umano
di Assuntina Morresi *
Per chiarire la portata di quello che sta succedendo, partiamo dall’uso delle
parole.
Il Servizio Sanitario Nazionale Scozzese - un servizio pubblico quindi - in una
sorta di linee guida rivolte ai propri operatori, consiglia di non usare «padre» e
«madre» quando si parla ai bambini, per evitare di discriminare quelli che vivono con coppie omosessuali. Meglio «genitori», «curatori», oppure «tutori». Per
lo stesso motivo non si dovrebbe dire neanche «marito» e «moglie»: meglio
«partner». Poi sarebbe bene evitare «parente prossimo», con cui di solito si
indica un coniuge, o comunque un consanguineo. Per una persona importante
nelle relazioni affettive è meglio usare «amico intimo» o «parente intimo».
Qualcosa di simile avviene già nella Spagna di Zapatero, dove all’anagrafe ci
sono il «genitore A» e il «genitore B»; d’altra parte nei documenti di organismi internazionali «padre» e «madre» non si usano più da tempo. Nel migliore dei casi si parla di «genitori», oppure di «progetto parentale».
Eliminare «padre» e «madre» quando si parla ai bambini sembrerebbe adatto
alla trama di un romanzo di fantapolitica o agli scenari di dittature cupe e futuribili, più che alle linee guida del Servizio Sanitario di uno Stato europeo
moderno e democratico. Invece è uno degli esempi più significativi e più chiari di cosa sia la rivoluzione antropologica in cui siamo immersi.
Fino al referendum sulla legge 40 non eravamo consapevoli di quello che ci sta
cadendo addosso. La campagna per l’astensione l’abbiamo affrontata usando
sostanzialmente gli stessi criteri e le stesse categorie di trent’anni fa, contro la
legalizzazione dell’aborto; abbiamo combattuto una «battaglia per la vita» in
difesa di chi ancora non è nato (stavolta concepito in vitro), e non ci siamo resi
conto dell’assoluta novità a cui stavamo di fronte: la scommessa di ridisegnare
l’umano, a partire dalle relazioni che da sempre hanno fondato tutte le società
che hanno popolato il pianeta, fino alla definizione stessa di essere umano.
In Gran Bretagna, ad esempio, si sta discutendo sulla possibilità di creare
embrioni misti uomo-animale: fondendo un ovocita di mucca, a cui è stato
tolto il nucleo, con una cellula somatica adulta, umana, si vorrebbe realizzare
la cosiddetta clonazione terapeutica e creare embrioni da cui trarre cellule staminali. Si vogliono utilizzare ovociti animali perché le donne non ne mettono
* Docente di Chimica fisica, Università degli Studi di Perugia
Membro del Comitato Nazionale di Bioetica
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a disposizione in numero sufficiente, neanche se pagate: nonostante finora la
clonazione terapeutica non abbia mai funzionato, e nonostante non esista neppure una cellula staminale embrionale umana ricavata in questo modo, ci si
ostina a proseguire su questa strada, in nome di una ricerca che finora non ha
prodotto niente di clinicamente utilizzabile.
Embrioni ibridi, o embrioni chimera, si legge, umani al 99,9% e animali allo
0,1%: se il procedimento funzionasse una parte del codice genetico del nuovo
embrione deriverebbe dall’animale. Ma cos’è questo nuovo essere? Di che
stiamo parlando? Possiamo accettare di parlare di esseri misurati in percentuali
di umanità e di animalità? E se ci si riuscisse, e se qualcuno, nonostante il
divieto, impiantasse questi embrioni nell’utero di un animale, o di una donna,
cosa nascerebbe? Alcuni scienziati cinesi hanno dichiarato di avere creato
embrioni chimera con ovociti di coniglio: cosa sono stati quegli embrioni, nei
pochi giorni in cui sono vissuti?
Intanto in Europa, anche per via di direttive specifiche per l’industria cosmetica, entro pochi anni sarà vietata la commercializzazione di prodotti cosmetici testati su animali. Si è deciso cioè di non usare più test tossicologici su animali, e di cercare alternative, e una di queste è l’utilizzazione di cellule staminali embrionali umane.
Quindi in nome dell’etica e della politica si bloccano procedure che funzionano - i test di tossicità su animali - e contemporaneamente si dice che non si può
fermare una ricerca che non ha ancora dato nessuna applicazione clinica: quella sulle cellule staminali embrionali umane.
Il risultato è che, per evitare gli esperimenti sugli animali, forse si useranno
embrioni umani.
Sono solo alcuni esempi per capire a che punto siamo arrivati: a me pare che
non siamo ancora pienamente consapevoli dell’abisso verso cui stiamo scivolando, sempre più velocemente. Insomma, il referendum sulla fecondazione
assistita non è stato semplicemente speculare a quello di trent’anni fa sulla 194:
non a caso stavolta abbiamo trovato tanti laici come alleati (infatti a molti di
noi sembra ancora strano che chi ha fortemente voluto la 194, e non ha cambiato idea in proposito, abbia difeso fortemente la legge 40). Adesso si tratta
letteralmente della sopravvivenza dell’umano, della possibilità di poter ancora
dire «padre» e «madre», di non dover misurare esseri viventi in percentuali di
umanità.
Se non ce ne rendiamo conto rischiamo di aver vinto una battaglia, quella sulla
legge 40, per poi perdere la guerra.
Blue-cc
Family Day
12 Maggio
Roma, Piazza S.Giovanni
Ore 15.00
•Un grande SÌ alla famiglia fondata sul matrimonio
e aperta all’accoglienza dei figli.
•NO al riconoscimento pubblico delle unioni di fatto.
•SÌ a politiche audaci e durature di promozione della famiglia.
•SÌ ai bisogni delle persone conviventi.
®
Info: Tel. 06.6896930
www.forumfamiglie.org • e-mail: [email protected]
Ciò che è bene per la famiglia è bene per il Paese
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