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L`Asia orientale tra leggende e storia

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L`Asia orientale tra leggende e storia
CULTURA,
CIVILTÀ
E
RELIGIOSITÀ
IPERTESTO
L’Asia orientale
tra leggende e storia
Alessandro e il prete Gianni
IPERTESTO B
Nell’Europa cristiana medievale, fino alla metà del Duecento, nessuno possedeva informazioni corrette e veritiere sul mondo dell’Asia orientale; si sapeva solo che esistevano altre terre e altri popoli, situati a est o a sud-est rispetto alle regioni abitate dai musulmani e rispetto a Gerusalemme, spesso concepita come il centro del mondo. Nessun contemporaneo, però, aveva ancora visitato quelle terre e quei popoli, cosicché ci si doveva
basare su antichi testi, che descrivevano l’Asia come una terra abitata innanzi tutto da mostri e da altre creature fantastiche.
Secondo una tradizione universalmente accettata, l’Oriente era la regione in cui – sia pure
inaccessibile – si trovava il giardino dell’Eden, cioè il paradiso terrestre; inoltre, si credeva che l’Asia fosse la terra dei magi, venuti ad adorare il Cristo bambino, e che l’India
(o almeno una parte di essa) fosse stata evangelizzata da san Tommaso. Sul luogo in cui
questo apostolo era stato sepolto – si raccontava – era stata costruita una chiesa imponente
e grandiosa, mentre la locale comunità cristiana era guidata da un misterioso e potente
patriarca delle Indie.
Negli anni Quaranta del XII secolo, i cristiani latini tenevano ancora Gerusalemme, ma si
sentivano seriamente minacciati dal pericolo di una controffensiva islamica; in questi am-
F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010
1
L’Asia orientale tra leggende e storia
Il prete Gianni, al centro
dell’immagine,
raffigurato in una
miniatura tratta dal
Livre des Merveilles
du Monde, xv secolo
(Parigi, Biblioteca
Nazionale).
IPERTESTO
UNITÀ II
Le meraviglie dell’Asia
DOCUMENTI
Il testo che riportiamo è tradotto dal francese antico. Secondo alcuni studiosi, questa versione francese della Lettera del prete Gianni fu stesa nel XIII secolo; secondo altri, invece, è contemporanea al testo latino, che iniziò a circolare nel 1165.
Sappiate poi che abbiamo un’altra specie di bestie chiamate tigri, più piccole degli elefanti e che divorano una quantità di altri animali. E ancora che in una parte dell’India deserta
abbiamo uomini con le corna e genti con un occhio solo e altre che hanno occhi davanti e
di dietro. E si chiamano: Sanitturi, Senofali, Tigrolopi.
Nell’altra parte del deserto abbiamo popoli che vivono di carne cruda, tanto di uomo che
di animale. Sappiate che non temono la morte, e quando un parente o un amico muore lo
mangiano e dicono che quella è la carne migliore del mondo. E si chiamano: Gog e Magog
e Anich, Acerivi, Farfo, Tenepi, Gogamati, Agrimodi. Queste razze, e molte altre ancora, Alessandro, figlio del gran re di Macedonia, rinchiuse tra le due alte montagne di Gog e Magog,
verso settentrione, dove noi possediamo sessantadue castelli nei quali teniamo grandi guar- Immagina di essere
un lettore del
nigioni sotto la guida di un re che è nostro alleato contro questi popoli, in una città chiamata
Medioevo: quali
Orionde. Queste razze non discendono dai figli di Israele, ma da Gog e Magog, e quando
elementi di questa
vogliamo portarle in battaglia, lo facciamo. E quando vogliamo vendicarci dei nostri nemici,
descrizione ti
esse li divorano tutti finché non ne resta nessuno e, dopo che li hanno divorati, le riportiamo
avrebbero
nelle loro regioni, là dove le abbiamo prelevate. Se infatti le tenessimo tra di noi, divorerebmaggiormente
bero la nostra gente e le nostre bestie, tenetelo per certo.
colpito?
Queste razze malvagie non si libereranno prima della fine del mondo, al tempo dell’AnSecondo
te, nel
ticristo, e allora si spanderanno per ogni dove. Sappiate che nessuno potrebbe contarle, più
lettore
medievale,
di quanto si possa contare la sabbia del mare, e che i popoli di tutta quanta la terra non poquale reazione
trebbero contrastarle.
suscitava questa
G. ZAGANELLI, La lettera del prete Gianni, Pratiche, Parma 1990, pp. 173-175
descrizione?
L’AUTUNNO DEL MEDIOEVO
2
bienti, cominciò a circolare la diceria secondo cui il patriarca delle Indie stava preparando
una grande operazione militare, che avrebbe colto alle spalle i musulmani e li avrebbe schiacciati. Inoltre, si prese ad affermare che quel vescovo guerriero, vero e proprio sovrano di un
vastissimo e ricchissimo territorio, si chiamava Presbiter Iohannes, cioè “prete Gianni”. Il primo cronista a ricordare questa misteriosa figura è il tedesco Ottone di Frisinga, nel 1145.
Nella sua cronaca, Ottone menziona anche Alessandro Magno, di cui si sapeva che – dopo
la vittoria sui persiani – si era spinto ancora più a est, fino all’India. Nel Medioevo cristiano, però, l’accento era posto su una tradizione particolare, secondo cui Alessandro, in
Estremo Oriente, era riuscito a rinchiudere dietro un’invalicabile catena montuosa i terribili popoli di Gog e Magog. Secondo la stessa tradizione, poi, essi sarebbero stati liberati poco tempo prima della fine del mondo: insieme all’Anticristo, si sarebbero scatenati
su tutta la terra spargendo morte e violenza, prima di essere annientati dal Cristo glorioso,
insieme a Satana e a tutte le forze del male.
Intorno al 1165, cominciarono a circolare in Europa alcuni documenti che si presentavano come lettere del prete Gianni ai signori più potenti del mondo cristiano: l’imperatore
di Costantinopoli, il re di Francia, l’imperatore, il papa. Non sappiamo con precisione chi
abbia steso questi testi (che sono redatti in ebraico, in latino, in francese e in italiano) e con
quali finalità; certamente l’autore – ammesso che fosse uno solo – si proponeva di stupire
il suo pubblico, narrando le straordinarie meraviglie dell’Asia, presentata come una regione in cui vivono gli animali più strani (come gli unicorni, i grifoni e la fenice) e gli esseri
più singolari: amazzoni (donne guerriere che usano solo armi d’argento), giganti, uomini
con un occhio solo e uomini con le corna. Inoltre, il prete Gianni era presentato come un
sovrano ricchissimo, nel cui regno trionfavano la virtù, la giustizia e la rettitudine. L’eresia,
il furto, la cupidigia e la lussuria semplicemente non vi esistevano.
L’accostamento di questi vari elementi finì per creare un mondo esotico (totalmente alieno,
ma in fondo rassicurante, perché perfettamente cristiano), che diede al mito del prete Gianni una straordinaria notorietà: solo del testo latino si sono conservati ben 93 manoscritti.
F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010
F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010
IPERTESTO B
Gengis Khan
raffigurato in una
miniatura della fine
del xIv secolo (Londra,
British Library).
3
L’Asia orientale tra leggende e storia
Negli stessi decenni in cui l’Occidente sognava il prete Gianni e le meraviglie descritte
nelle lettere che gli venivano attribuite, nel cuore dell’Asia iniziò il processo di formazione
di uno degli imperi più vasti della storia. Protagonista di questa vicenda fu il popolo dei
mongoli, che nell’impresa di conquistare gran parte del continente asiatico (e di una parte dell’Europa) fu inizialmente guidato da un condottiero dai contorni leggendari, noto
con il titolo di Gengis Khan.
Il significato di questa espressione non è del tutto chiaro: la traduzione più verosimile potrebbe essere “Oceanico signore”; si tratta di un titolo imperiale, dunque, o per lo meno
di una formula che vuole tributare a qualcuno il massimo degli onori, proclamandolo signore assoluto e capo supremo, dapprima di tutte le tribù mongole, e poi, in ultima analisi, del mondo intero.
A fregiarsi di questo titolo eccezionale fu un uomo della cui esistenza ignoriamo tantissimi dettagli. Conosciamo il suo nome originario, Temujin, ma non l’esatta data di nascita; tradizioni differenti e contrastanti la collocano, infatti, nel 1155, nel 1162, oppure nel 1167. Sappiamo inoltre per certo che nacque presso le sorgenti del fiume Oron,
nel nord dell’attuale Mongolia, e che morì nell’agosto 1227, in una regione ai margini
settentrionali dell’Himalaya.
Le sue prime imprese riguardarono la Mongolia, ove nel 1206 Temujin riuscì a imporsi come
capo rispettato da tutte le tribù nomadi della steppa: popoli che abitavano in tende di feltro, praticavano come attività economica prevalente l’allevamento dei cavalli e combattevano (a cavallo) soprattutto con arco e frecce. Si trattava di gruppi umani in costante eccedenza
demografica rispetto alle scarse risorse offerte dalla steppa e dall’allevamento equino. La principale risorsa militare dei mongoli era il loro numero, insieme a una notevole capacità organizzativa; l’esercito, infatti, era organizzato su base decimale, cioè per gruppi di 10, 100, 1000
o 10 000 guerrieri. Ciascuna unità era guidata da un ufficiale responsabile, in una catena gerarchica che, ovviamente, culminava nel khan, il capo supremo. Anche le donne erano coinvolte attivamente nelle operazioni: spettava loro, ad esempio, il compito
di curare le tende e l’accampamento, quando gli uomini erano lontani per combattere. Nella società mongola, vigeva la poligamia, ma le donne erano comunque dotate di ampia autonomia e godevano di notevole rispetto.
Sotto il profilo religioso, Gengis Khan fu sempre rispettoso di tutti i culti; i suoi sudditi, pertanto, poterono essere indifferentemente buddisti, cristiani, musulmani o seguaci di riti tradizionali, mongoli o cinesi, che veneravano le forze della natura e le potenze celesti. Viceversa, il signore oceanico non tollerò mai resistenze di tipo politico e militare; se un sovrano si sottometteva
spontaneamente, poteva diventare vassallo, pagare un tributo o comunque non vedere il proprio territorio devastato e saccheggiato. In caso
contrario, la popolazione era spesso trucidata, mentre le città venivano rase al suolo.
Nei primi anni del XIII secolo, Gengis Khan fu
impegnato a sottomettere i territori circostanti
l’area abitata dalle tribù mongole di cui era signore;
in un primo tempo, verso sud, trovò un efficace
ostacolo nella Grande muraglia, l’imponente sistema
di fortificazioni che, da secoli, i cinesi avevano costruito,
proprio per tener lontani i barbari nomadi del Nord. Nel
1215-1216, però, la muraglia fu oltrepassata, e la regione
di Pechino (capitale della Cina del Nord) fu conquistata.
IPERTESTO
Gengis Khan
IPERTESTO
I “tartari” all’attacco dell’Europa
1
Riferimento
storiografico
UNITÀ II
pag. 12
L’AUTUNNO DEL MEDIOEVO
4
Guerrieri mongoli
impegnati in battaglia,
miniatura
del xIv secolo.
Dopo la morte di Gengis Khan (1227), il potere supremo fu assunto dai suoi figli (Tului, Joci e Ogodai), che proseguirono l’espansione dell’impero in tutte le direzioni e governarono l’impero suddividendolo in regioni amministrativo-territoriali rette da un khan
e pertanto dette khanati. A occidente, guidate da Batu (figlio di Joci e nipote del gran khan
Ogodai, che dal 1229 esercitava il potere supremo), le armate mongole penetrarono in
Russia, conquistarono Kiev e sottomisero l’intero paese (1237-1240).
Proseguendo nella loro offensiva, i cavalieri delle steppe conquistarono Cracovia (nell’attuale Polonia) e si scontrarono con una grande armata composta da polacchi, cechi e
tedeschi; la battaglia avvenne a Wahlstadt, vicino a Liegnitz, e i cristiani furono pesantemente battuti. Intanto, un’altra armata mongola penetrò in Ungheria, si spinse fino a Pest
e minacciò Vienna.
Molti cristiani latini, terrorizzati, si convinsero che la fine del mondo fosse arrivata; ai loro occhi, le inarrestabili armate mongole erano i terribili popoli di Gog e Magog, liberati dall’Anticristo. Le misteriose contrade asiatiche avevano lanciato i loro più terribili mostri contro la
cristianità, nell’imminenza dello scontro finale tra Dio e Satana. È vero che, secondo le Scritture, Dio avrebbe trionfato, tutti i testi, però, assicuravano pure che gli ultimi tempi sarebbero stati dolorosi come le doglie del parto.
Questa angoscia diffusa ha lasciato evidente traccia di sé in un
singolare cambiamento linguistico. Una delle tribù che componevano l’esercito mongolo era nota con il nome di
Tha-ta, da cui l’espressione tatari. In molte lingue europee, però, questo nome fu mutato in tartari,
denominazione che mette in collegamento i
mongoli con il tartaro, cioè con l’inferno, trasformandoli in demoni scatenati, vomitati dal
regno delle tenebre.
Secondo alcuni studiosi di storia dell’arte, questa iniziale connessione con il mondo demoniaco non si è mai più cancellata. Nel momento in cui, con il passar del tempo, frati, viaggiatori e mercanti entrarono in contatto sempre
più stretto con i mongoli e con la civiltà cinese,
il terrore iniziale spinse a conoscere nei dettagli il
mondo dei demoni orientali, alcuni dei quali erano da
tempo raffigurati con ali simili a quelle dei pipistrelli. Dalla metà del Duecento, questo attributo divenne una caratte-
F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010
GENGIS KHAN E I SUOI SUCCESSORI
Temujin
Figli
Nipoti
1155-1162-1167:
date presunte
della nascita
(Negli anni indicati,
esercitarono il governo
supremo con il titolo
di gran khan)
(Negli anni indicati,
esercitarono il governo
supremo con il titolo
di gran khan)
1206:
diventa Gengis Khan
Joci
Batu Russia (Orda d’Oro)
1215-1216: conquista
la Cina del Nord
Chagatai
Tului 1227-1229
Muore nel 1227
Ogodai 1229-1241
Mangu 1251-1259
Hulagu Persia e Iraq
Qubilai 1260-1294
Guyuk 1246-1248
Mar
di
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IPERTESTO B
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Costantinopoli
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PRINCIPATI
RUSSI
Kiev
IPERTESTO
L’IMPERO
MONGOLO
Regione d’origine di Gengis Khan
Dominio mongolo nel 1206
Golfo
del Bengala
Impero mongolo alla morte di Gengis Khan (1227)
Itinerario delle armate di Gengis Khan
Incursioni mongole
Città distrutte o saccheggiate
La lotta tra mongoli e musulmani
Nel 1241, i mongoli erano arrivati alla costa orientale del mar Adriatico; tuttavia, la morte del gran khan Ogodai suggerì a Batu di tornare indietro, per evitare di essere troppo
lontano dal centro del potere mongolo. Batu fissò allora la sua capitale sul basso Volga,
nella città di Saraj, e diede vita allo Stato che prese il nome di Orda d’Oro.
Qualche anno più tardi, i mongoli si lanciarono contro le terre dell’islam. Il principe Hulagu, nipote di Gengis Khan, dapprima si impadronì della Persia, poi scagliò l’attacco finale contro la Mesopotamia musulmana: nel 1258, Baghdad fu conquistata e messa a
ferro e fuoco. Già da molto tempo il califfo non era più l’autorità suprema del mondo
islamico; l’aggressione mongola ne segnò il definitivo collasso. Il titolo di califfo avrebbe acquistato nuova consistenza e nuovo splendore solo nel XVI secolo, quando fu assunto
dal sultano dell’impero turco, al vertice della sua potenza militare e del suo splendore.
L’Iraq non si riprese più dai danni dell’invasione: il complesso sistema di irrigazione, irrimediabilmente danneggiato dagli invasori, non fu più ripristinato, sicché il paese si trasformò in un immenso deserto.
F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010
In pochi decenni
i mongoli, guidati da
Gengis Khan e dai suoi
discendenti, divennero
padroni di quasi tutta
l’Asia. I principati russi
subirono incursioni
e dovettero accettare
il pagamento di tributi;
Polonia, Ungheria,
Medio Oriente, India
e Indocina subirono
incursioni e saccheggi.
L’Asia orientale tra leggende e storia
ristica fissa e costante anche dei demoni occidentali, così come li raffigurarono i pittori cristiani, primo fra tutti Giotto. Dante stesso, quando nell’Inferno descrisse Lucifero, disse che
le sue grandi ali «non avean penne, ma di vispistrello / era lor modo; e quelle svolazzava». In
tal modo, ricorrendo a un modello orientale, l’iconografia cristiana cancellò dal diavolo anche l’ultimo residuo della sua originaria natura angelica. Il drago subì la stessa metamorfosi: trafitta da san Michele o da san Giorgio, anche quest’altra incarnazione del male, tipica
dell’immaginario medievale, si arricchì, a partire dal tardo Duecento, di ali che assomigliano più a quelle dell’inquietante e notturno pipistrello, che a quelle piumate degli uccelli, che
si librano nel cielo di Dio.
5
Novgorod
POLONIA
Cracovia
PRINCIPATI
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KHANATO
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controllo dei tartari
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IPERTESTO
Spedizioni militari
L’IMPERO MONGOLO
NEL XIII SECOLO
Delhi
PACIFICO
Gange
IMPERO
KHMER
UNITÀ II
OCEANO
INDIANO
L’AUTUNNO DEL MEDIOEVO
6
I cristiani ancora residenti in Terra Santa guardarono con molto interesse all’invasione delle terre islamiche da parte dei mongoli. In molti progettarono un’alleanza con i nuovi dominatori, per infliggere all’islam – nemico comune – il colpo di grazia; altri si spinsero
fino a sognare una conversione del khan al cristianesimo e una diffusione universale della fede di Cristo, fino agli estremi confini della terra.
Gran parte di queste speranze svanirono in fretta. Nel 1260, l’esercito dei mamelucchi (guerrieri d’origine turca, al servizio dei sovrani d’Egitto) sconfisse i mongoli della battaglia di
‘Ayn Jalut (la sorgente di Golia), bloccando la loro espansione. Infine, poco più tardi, sia
i tatari dell’Orda d’Oro (dominatori della Russia) sia i conquistatori della Persia, invece
di adottare il cristianesimo, aderirono all’islam.
A più riprese, verso la fine del XIII secolo i khan di Persia tentarono di invadere e conquistare
la Siria. L’aggressività e la spietatezza dei mongoli, dunque, non erano affatto diminuite,
dopo la loro conversione all’islam. Eppure, all’interno del mondo musulmano, alcuni intellettuali e alcuni uomini di potere ipotizzarono di scendere a patti con loro.
L’ESPANSIONE DELL’IMPERO MONGOLO
Date
Area geografica sottomessa
1206
Temujin diventa Gengis Khan
Mongolia
1216
Conquista di Pechino
Cina settentrionale
Conquista di Kiev
Russia occidentale (Ucraina)
Conquista di Baghdad
Mesopotamia musulmana
1236-1240
1258
F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010
Eventi
F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010
2
pag. 14
Un sovrano mongolo
con figli e dignitari,
miniatura del xIv secolo
(Parigi, Biblioteca
Nazionale).
IPERTESTO
Riferimento
storiografico
IPERTESTO B
Contro queste ipotesi di compromesso, alzò la propria autorevole voce Taqi al-Din Ahmad Ibn Taymiyya (1263-1328), che non si stancò di predicare, contro i mongoli, la jihad
(guerra santa). Si tratta di una posizione politica per molti versi nuova, all’interno del panorama culturale musulmano; la jihad, infatti, non poteva essere diretta contro un sovrano o una popolazione che credesse alla rivelazione coranica; tradizionalmente, la guerra santa era lanciata contro avversari infedeli (pagani, idolatri o cristiani), per estendere l’islam.
Ibn Taymiyya, dal canto suo, proclamava invece che i mongoli erano musulmani solo in
apparenza, la loro conversione non aveva nulla di intimo, non era vera adesione allo spirito della religione predicata dal Profeta. Pertanto, contro di essi la jihad era non solo legittima, ma anzi doverosa, per difendere dalla distruzione sia il vero islam, sia gli Stati e
i paesi autenticamente musulmani.
Per moltissimo tempo, in Europa, la figura storica di Ibn Taymiyya è stata completamente
ignorata; tuttavia, nel corso del Novecento, molto spesso il suo pensiero è stato invocato dagli integralisti islamici più radicali e intransigenti, soprattutto in Egitto, per giustificare la loro lotta contro governanti che, in privato, erano musulmani, ma che ai loro occhi si erano allontanati dal vero islam, perché guardavano con interesse anche alla cultura occidentale e avevano introdotto nei loro paesi numerose riforme ispirate alla più avanzata legislazione europea.
In linea di massima, la tradizione islamica aveva sostenuto che i fedeli non dovevano ribellarsi al loro sovrano, se questi era un credente e permetteva ai suoi sudditi di praticare il culto musulmano. Stanti queste due
condizioni, persino in caso di tirannia – si
diceva – il malgoverno e l’ingiustizia erano
comunque preferibili alla fitna, cioè al
caos, all’anarchia e alla guerra civile, che
avrebbero fatto seguito a un tentativo insurrezionale.
Gli integralisti islamici di oggi guardano con
estremo interesse a Ibn Taymiyya proprio
perché questo insigne giurista e teologo
– nemico giurato dei mongoli, accusati di
essere dei musulmani fasulli – esigeva che
i sovrani mostrassero con atti concreti la loro
adesione alla fede del Profeta; anzi, a giudizio di Ibn Taymiyya, si doveva obbedienza
ai governanti solo nella misura in cui essi
applicavano davvero all’interno dei loro Stati le norme indicate dal Corano; in caso contrario, la ribellione era perfettamente legittima, né più né meno della guerra contro i mongoli o contro gli infedeli.
Non ci meraviglia allora che i sovrani d’Egitto non gradirono affatto il sostegno
ideologico che Ibn Taymiyya offrì alla loro
lotta militare contro i khan della Persia; al
contrario, Ibn Taymiyya passò gran parte
della sua vita (e morì) in prigione, proprio
a causa di questa sua costante pretesa di dare
consigli religiosi e ordini a chi esercitava il
potere politico.
7
L’Asia orientale tra leggende e storia
Ibn Taymiyya: la polemica contro i falsi
musulmani
IPERTESTO
UNITÀ II
L’AUTUNNO DEL MEDIOEVO
8
Ibn Taymiyya contro i mongoli
DOCUMENTI
Taqi al-Din Ahmad Ibn Taymiyya nacque in Mesopotamia, nel 1263. Nel 1269, i mongoli assalirono Harran, la sua città natale, deportando e uccidendo migliaia di persone. Il giovane Ibn Taymiyya riuscì a fuggire col padre, e a rifugiarsi a Damasco. Quella fuga fu per lui un’esperienza traumatica: per il resto della sua
vita, egli avrebbe continuamente esortato i sovrani d’Egitto a combattere senza tregua i mongoli, anche dopo
che questi, in Persia, si convertirono all’islam. Il testo che riportiamo è tratto da una lettera che Ibn Taymiyya
scrisse nel 1304 a un sovrano cristiano (forse il Gran maestro dei cavalieri di San Giovanni, noti anche come
ospitalieri), per dimostrare la superiorità dell’islam rispetto all’ebraismo e al cristianesimo.
Quando Ghazan, il capo dei Mongoli [Ghazan Mahmud, khan del regno mongolo di Per- Quale comunità è
definita mediante
sia, n.d.r.], e quelli che lo seguivano avanzavano su Damasco, ed egli aveva aderito all’Islam,
l’espressione «la
ma né Dio né il Suo messaggero né i credenti erano soddisfatti di ciò che quelli facevano, dato
nazione seguace
che non seguivano la religione di Dio, io ebbi un incontro con lui e con i suoi emiri, e rivolsi loro
del culto puro,
discorsi perentori, che sarebbe lungo riferire, ma dei quali il sovrano [il destinatario cristiano
consacrata al suo
della lettera, n.d.r.] sarà necessariamente venuto a conoscenza. […] Quando i Tatari si sono
Creatore»?
sottomessi alla nostra religione e si sono uniti alla nostra nazione, noi non li abbiamo ingannati e non siamo stati ipocriti con loro; al contrario, abbiamo loro spiegato quali fossero gli er- Individua nel testo
rori che li mettevano fuori dall’Islam e rendevano obbligatorio lottare contro di loro.
le espressioni usate
I soldati di Dio, che hanno il Suo appoggio, e le Sue armate vittoriose stabilitesi in Siria
dall’autore per
e in Egitto non hanno cessato di essere vittoriosi contro coloro che si oppongono a essi e
ribadire che i veri
di trionfare su coloro che sono loro ostili. In questo periodo, quando si diffuse fra la gente
musulmani godono
la notizia che i Tatari erano musulmani, la maggioranza dell’esercito rifiutò di combatterli e
del sostegno
solo un piccolo gruppo li combatté: nello scontro furono uccisi dagli undicimila ai diciandivino.
novemila Mongoli e nemmeno duecento musulmani.
Quando l’esercito si ritirò in Egitto e seppe in quale corruzione e negazione della religione
viveva quella maledetta banda, i soldati di Dio scesero in guerra: la terra risuonò dei loro passi;
essi riempirono le pianure e i monti; per moltitudine, potenza, preparazione, fede e sincerità
abbagliarono le intelligenze e gli spiriti, giacché erano circondati dagli angeli di Dio, attraverso
i quali Egli non cessa di soccorrere la nazione seguace del culto puro, consacrata al suo Creatore. Il nemico dunque fuggì davanti a loro e non si fermò per affrontarli. In seguito, il nemico
si presentò una seconda volta, ma gli fu inviato un tormento che fece perire uomini e cavalli,
ed esso si ritirò affaticato, stancato: «Dio fu veridico nella Sua promessa e aiutò a vincere il Un accampamento
Suo servo». E ora ecco che conosce una profonda sventura e un grave rovescio: l’infelicità di mongoli,
miniatura persiana
l’avvolge, mentre l’Islam vede aumentare la sua forza e crescere il suo successo.
TAQI AL-DIN AHMAD IBN TAYMIYYA, Lettera a un sovrano crociato. Sui fondamenti della “vera religione”,
Biblioteca di via Senato Edizioni, Milano 2004, pp. 46-48, trad. it. M. DI BRANCO
F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010
del xIII secolo
(Parigi, Biblioteca
Nazionale).
F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010
IPERTESTO B
Una carovana di
mercanti in viaggio
verso l’Oriente,
particolare dell’Atlante
catalano del 1375
(Parigi, Biblioteca
Nazionale).
9
Riferimento
storiografico
pag. 15
L’Asia orientale tra leggende e storia
In un primo tempo, sia l’Orda d’Oro sia il khanato di Persia furono governati da sovrani che si riconoscevano come subordinati del gran khan, che risiedeva in Cina. Tuttavia,
nel 1260, quando a Pechino si proclamò signore supremo Qubilai (fratello di Hulagu),
i dominatori della Persia e della Russia non lo riconobbero. In pratica, a partire dal 1260,
l’impero mongolo non era più unitario, ma si era frammentato in diversi Stati, dei quali il più vasto e prestigioso era, ovviamente, l’impero cinese.
Nel corso degli anni Settanta, Qubilai sconfisse il regno dei Song, che detenevano il potere nella Cina meridionale. Nel 1280, il gran khan mongolo assunse il titolo di signore
di tutta la Cina e dichiarò che, con lui, iniziava una nuova dinastia imperiale, denominata Yuan. La capitale venne definitivamente fissata nel Nord del paese, nella zona di Pechino,
e ricevette il nome mongolo di Khanbalik (o Cambaluc, nei testi medievali europei).
Sul piano militare, vari tentativi di espandere ulteriormente l’impero fallirono. Verso Sud,
in Vietnam e in Indocina, i mongoli incontrarono un clima tropicale, cui non erano abituati, mentre la presenza della giungla impediva alla cavalleria di schierarsi e di manovrare.
Nel 1274 e nel 1281, i mongoli provarono a invadere il
Giappone; furono costruite flotte imponenti (di 900 navi,
nel 1274; di 4400 navi, nel 1281) e mobilitati eserciti enormi: 40 000 uomini, nel primo caso, 140 000, sette anni
più tardi. Entrambe le spedizioni, tuttavia, furono vanificate da impetuosi cicloni, che dispersero le forze degli
invasori. I giapponesi trasformarono quegli eventi in una
vera epopea nazionale e proclamarono che, in quella occasione, i nemici erano stati sconfitti da un Vento degli dei
(Kamikaze, in lingua giapponese); com’è noto, durante la
seconda guerra mondiale, il termine Kamikaze sarebbe stato ripreso e rilanciato, per designare i piloti suicidi che si
scagliavano contro le navi statunitensi, quando la sconfitta
del Giappone era ormai inevitabile.
Dopo questi scacchi, i nuovi signori della Cina decisero
di abbandonare le loro bellicose tradizioni di guerrieri conquistatori e di amministrare saggiamente i loro possedimenti. Iniziò allora, verso la fine del XIII secolo, una fitta rete di relazioni e di traffici con l’Europa. Protette dalla cosiddetta pax mongolica, le carovane potevano tranquillamente percorrere le piste dell’Asia e trasportare verso Occidente grandi quantità di sete, di pietre preziose e
di altre pregiate merci orientali.
Passato il primo momento di terrore, i mercanti italiani si resero conto ben presto che si
era aperta una nuova ed eccezionale via commerciale: attraversando tutta l’Asia continentale, da Khanbalik era possibile arrivare fino al Mar Nero in nove mesi. I primi a cogliere la nuova opportunità furono i genovesi, che fondarono in Crimea la base di Caffa. I mercanti veneziani, però, recuperarono in fretta, tant’è vero che monete della Serenissima sono state trovate persino a Canton, nella Cina meridionale.
Per più di mezzo secolo, tra il 1260 e il 1320, le carovane percorsero senza sosta le piste
della steppa dell’Asia centrale, in direzione delle basi commerciali sulle coste del Mar Nero.
Intorno al 1340, Francesco Balducci Pegolotti, un agente commerciale dei Bardi – la più
potente compagnia finanziaria del tempo – arrivò a scrivere che l’itinerario dal Mar Nero
alla Cina era uno dei più vantaggiosi. Soprattutto, scriveva Pegolotti, quella via era «sicurissima, sia di giorno che di notte».
Insieme alle merci, tuttavia, si spostarono anche i batteri della peste, capaci di trasmettersi sia per mezzo delle pulci dei ratti che direttamente, da uomo a uomo. Così, nel 1346,
la peste si propagò all’interno della base commerciale genovese di Caffa, in Crimea, e da
lì si sarebbe poi diffusa nel resto d’Europa.
IPERTESTO
La dinastia Yuan in Cina
3
IPERTESTO
Marco Polo e Il Milione
UNITÀ II
Tra i veneziani che presero la via dell’Oriente mongolo, la figura più celebre è sicuramente
quella di Marco Polo, che giunse in Cina con il padre e uno zio nel 1275, e poi rimase
alla corte dell’imperatore Qubilai Khan fino al 1292.
Dopo il suo ritorno a Venezia, Marco venne catturato dai genovesi e, in prigione, dettò
le sue memorie a Rustichello da Pisa, che le stese in lingua d’oil, cioè in antico francese.
Nacque così, intorno al 1298, Il libro delle meraviglie del mondo, che narra il viaggio dei
Polo fino alla capitale del khan, in Cina (denominata Catai), e offre un quadro ampio e
dettagliato dell’impero di Qubilai. Alcuni storici moderni hanno osservato che Marco,
in realtà, descrive più il mondo e le usanze dei mongoli, che gli usi e i costumi dei cinesi (di cui Polo, in effetti, non imparò mai la lingua). Della Cina, comunque, Marco comprese la vitalità commerciale e le straordinarie opportunità che il regolare contatto con
quel mondo avrebbe offerto a chi ne avesse saputo approfittare.
Tradotto in volgare toscano, il libro di Marco e Rustichello si affermò e si diffuse con il titolo di Il Milione. Forse, in origine, questa espressione derivava dal fatto che i Polo, da tempo, erano noti a Venezia con il nomignolo di Emilione; tuttavia, è possibile che il nuovo titolo si sia imposto anche perché Marco, nella sua opera, descriveva un mondo vastissimo, in
cui tutto (gli abitanti delle città e delle campagne cinesi, i soldati del khan, le miglia di cammino percorso…) si contava appunto in milioni. E pertanto non sappiamo fino a che punto i contemporanei di Marco (morto nel 1324) abbiano preso davvero sul serio il suo racconto; probabilmente, a eccezione di un pugno di mercanti che, come lui, conoscevano direttamente l’Oriente, le sue storie sembravano favole affascinanti quanto incredibili.
Lo stesso Marco Polo, a volte, non esita a riprendere le leggende che da molto tempo
circolavano in Europa sull’India e sull’Asia; pertanto, anche Marco parlò del prete Gian-
M ar
Costantinopoli
AR
l
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MONGOLIA
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Balhas
Karakorum
Pechino
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(Catai)
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Mar Ros so
L’AUTUNNO DEL MEDIOEVO
IL VIAGGIO
DI MARCO POLO
Venezia
10
Huanzhou
Ya
o
Ind
Quanzhou
MANGI
G
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ARABIA
OCEANO
Formosa
ge
Canton
INDIA
PACIFICO
Pagan
Mumbay
Filippine
INDOCINA
Andamane
Percorso di Marco Polo
Impero mongolo
Stati vassalli
F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010
OCEANO
INDIANO
Sumatra
Borneo
La ricchezza del gran khan
IPERTESTO
ni. Tuttavia, poiché aveva sperimentato a Khanbalik, che la vera superpotenza dell’Oriente era il gran khan, e non il misterioso re cristiano, il giovane veneziano precisò
che il prete Gianni era stato sconfitto anch’egli dai mongoli, e quindi il suo regno era
diventato un loro possedimento.
Malgrado questo sano realismo di Marco Polo, il mito del prete Gianni non si esaurì.
La sede del suo regno, nel XV secolo, venne sempre più frequentemente spostata in
Africa e di fatto confusa con l’Etiopia. In effetti, fino al XIX secolo, fu il continente
nero la vera distesa bianca sulle carte geografiche europee: per molti altri secoli, fu ancora possibile collocare in quelle remote contrade un mondo alieno, selvaggio o meraviglioso, orrendo o paradisiaco, a seconda degli intenti di chi lo immaginava e lo
descriveva.
DOCUMENTI
F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010
11
L’Asia orientale tra leggende e storia
Questo libro vi narrerà ora i fatti straordinari e le cose meravigliose del Gran Kan oggi regnante col nome di Kublai Kan [Qubilai n.d.r.] che nella lingua nostra vuol dire «Kublai il Gran
Marco Polo, con
Signore dei Signori». E certo ha diritto di essere chiamato così perché è verità universale che
il padre e lo zio,
da Adamo nostro progenitore fino ad ora non è mai esistito un principe che per la quantità
parte da venezia
dei sudditi, per l’immenso territorio e l’immenso tesoro abbia avuto od abbia potenza simile
per l’Oriente,
alla sua. E quanto ciò sia vero vi mostrerò chiaramente in questo libro perché a nessuno reminiatura del
xv secolo.
sti il minimo dubbio che egli sia il maggiore signore che sia stato al mondo e oggi porti la
corona. Vi dimostrerò perché.
Kublai, dovete saperlo, discende in linea diretta dall’imperatore
Cinghiscan [Gengis Khan, n.d.r.]; perché ogni Signore di tutti i Tartari
deve discendere da lui per linea diretta. È il quinto Gran Kan e prese
il potere circa nell’anno 1256. Deve il trono al suo grande animo, al
suo valore e al suo senno superiore. A lui fratelli e parenti hanno cercato di contendere il regno, ma di tutti egli ha trionfato e per legge gli
spettava di diritto la signoria. […]
Egli fa fabbricare la seguente moneta: fa prendere scorza d’albero o per meglio dire corteccia di gelso, l’albero di cui mangiano
le foglie i bachi da seta; e fa togliere la pellicola sottile che è tra la
corteccia e il fusto; queste pellicole sono tutte nere: le frantumano,
le pestano e poi le impastano con la colla in modo che ne risulti una
specie di carta bambagina, sottile come quella dei papiri. Quando
la carta è pronta la fa tagliare in parti grandi o piccole, foglietti in forma quadrata o più lunghi che larghi. […] Ogni foglietto porta il sigillo del Gran Signore. E questa moneta è fatta
con tanta autorità e solennità come se fosse d’oro o d’argento: […] e se qualcuno osasse
falsificarla sarebbe punito con la morte; e questi foglietti il Gran Kan li fa fabbricare in tale Che effetto faceva,
numero che potrebbe pagare con essi tutta la moneta del mondo.
secondo te, nel
Fabbricata così la moneta, il Signore fa fare con essa ogni pagamento e la fa spendere
Duecento, il
per tutte le province dove egli tiene signoria: e nessuno osa rifiutare per paura di perdere la
racconto di Marco
vita. Ma è vero che tutte le genti e le razze di uomini, sudditi del Gran Kan, prendono voPolo?
lentieri queste carte in pagamento perché alla loro volta le danno in pagamento di mercanzia, come perle, pietre preziose, oro e argento. Si può così comprare tutto ciò che si vuole Fino a pochi anni fa,
sulla nostra
e pagare con la moneta di carta; e pensate che una carta del valore di dieci bisanti non arcartamoneta era
riva a pesare quanto un bisante [la prestigiosa moneta d’oro bizantina, n.d.r.]. […]
stampata la
Vale la pena di raccontarvi un’altra cosa. Quando per l’eccessivo passaggio di mano in
seguente scritta:
mano i foglietti si rompono o si sciupano, si portano alla zecca e si prendono in cambio bi«Pagabili a vista al
glietti nuovi e freschi lasciandone però tre per ogni cento. E c’è anche un altro fatto imporportatore». Spiega
tante da ricordare. Perché, se qualcuno vuole acquistare oro o argento per il suo vasellame,
il significato di tale
per le sue cinture o per altre cose, va alla zecca, porta con sé i foglietti e prende in cambio
espressione, alla
l’oro e l’argento che gli serve.
luce del racconto
di Marco Polo.
M. POLO, Il Milione scritto in italiano da Maria Bellonci, Mondadori, Milano 1983, pp. 98, 131-132
IPERTESTO B
Marco Polo dedica la prima parte del suo racconto al suo avventuroso viaggio, durato circa tre anni e
mezzo. In seguito, descrive la storia dei mongoli dal tempo di Gengis Khan, il gran khan Qubilai e le sue favolose ricchezze. Essendo un mercante, Marco rimase particolarmente colpito dal fatto che, all’intero dell’impero mongolo, si usava la cartamoneta, al posto dell’oro, per i traffici e gli scambi commerciali.
IPERTESTO
Riferimenti storiografici
1
I “tartari” e le ali del diavolo
Gli storici dell’arte hanno notato che, a partire dalla fine del Duecento, l’immagine del diavolo cambia: al posto delle ali da angelo, subentrano ali da pipistrello, molto simili a quelle tipiche dei demoni
cinesi. Forse, l’attenzione ai mostri orientali è da mettere in collegamento con il fatto che, in un primo
tempo, i mongoli che invasero l’Europa apparvero proprio come diavoli vomitati dal tartaro, cioè dalle
profondità dell’inferno.
UNITÀ II
Per molto e molto tempo, l’immagine del diavolo è stata segnata da una contraddizione:
maschera animalesca sogghignante, tronco disseccato di abitante del regno della Morte,
zampe villose armate d’artigli, e ali d’uccello, simili cioè a quelle degli angeli. L’arte romanica ha più volte raffigurato questi demoni. Sui capitelli di Saulieu, di Vézelay, a Moissac, a
Souillac [edifici romanici in Francia, n.d.r.], le loro spalle cadaveriche portano ali d’angelo.
Spesso s’è tentato di rendere al genio del Male tutto il suo orrore sopprimendo quest’ultimo
segno di Dio, ma egli perdeva la dignità di principe dell’aria che, secondo san Paolo, gli spettava. Sui timpani di Autun e di Conques, in numerose figurazioni romaniche scolpite e dipinte, i diavoli sono creature striscianti, inette al volo, e non fanno più parte dell’ordine degli spiriti. Solo quando riceve ali di pipistrello la loro immagine si conforma alle convenzioni
dell’apparenza fisica e, al tempo stesso, alle esigenze della religione: ali d’uccello notturno
con la membrana tesa sull’ossatura, che non evocano il Paradiso, ma diffondono l’ombra
di sinistre regioni.
Alcune miniature del periodo 1210-1225 ne mostrano i primi abbozzi, ma le membrane
sono ancora mal formate e sui medesimi corpi si notano ancora, quasi fossero state di-
L’AUTUNNO DEL MEDIOEVO
12
Duccio da Buoninsegna,
La tentazione di Cristo
sul monte, 1308-1311
(Siena, Museo
dell’Opera del Duomo).
Il diavolo, come si può
vedere, è raffigurato con
le ali da pipistrello.
F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010
F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010
IPERTESTO
IPERTESTO B
13
L’Asia orientale tra leggende e storia
menticate, ali di uccello. A quanto pare, sono esempi isolati. Né le prime Apocalissi anglo-normanne né gli Inferni inglesi del primo quarto del Duecento utilizzano ancora questa tipologia, che si cristallizza soltanto nella seconda metà del secolo. In questa epoca
la si trova dappertutto, in Inghilterra, in Francia, in Spagna. L’intero Occidente gotico adotta
la moda delle ali notturne; ormai i diavoli sono concepiti come esseri che abitano dirupi
scoscesi e si librano nelle caverne. La stessa trasformazione ha luogo in Italia. In Giotto,
nella chiesa superiore di Assisi, i demoni scacciati dalla città di Arezzo per opera di san
Francesco, salgono, come tenebre, al di sopra della città. Il Cristo di Duccio (predella della
Maestà), è tentato da un diavolo con le ali di pipistrello. Nel Camposanto di Pisa la nuvola
oscura dei demoni esplode nel battito di queste vele maledette. […] Alla fine del Medioevo
il mondo è invaso da questi diavoli. […] Da dove vengono questi nuovi attributi del diavolo? […]
La diffusione delle forme cinesi si intensifica dalla metà del Duecento sia in Asia sia in
Europa. Verso il 1256, Hülëgü conduce in Persia molti artisti e ingegneri. D’altra parte è ormai noto quanto la miniatura persiana debba all’influsso della dominazione dei khan. […] In
Europa, lo stesso elemento generatore mongolo trasmette, in primo luogo, le ali di pipistrello
e tutta una stirpe di diavoli. L’impronta lasciata da queste forme nei diversi centri artistici non
è sempre la stessa; anzi, il loro contributo varia secondo il luogo e il momento, il carattere
particolare della loro azione è stato determinato da un singolare concorso di circostanze.
Un mito nuovo nacque in Occidente verso la metà del Duecento, frutto di una consonanza di nomi e del terrore che l’universo provò di fronte all’invasione dei Mongoli: gli invasori furono scambiati per demoni o in ogni caso per loro accoliti [servitori, agenti al servizio
di qualcuno, n.d.r.], annuncianti la fine del mondo. Riaffiorarono così gli incubi millenaristi.
La leggenda fu diffusa dalle comunità cristiane orientali che, per prime, subirono il flagello
giallo. Tutta la Cronaca di Kiracos, storico armeno del Duecento, lo stesso che affermava
che i Mongoli rispettavano la Croce, è percorsa da quest’idea: l’ora dell’Anticristo si avvicina; una nazione si leva già contro un’altra nazione, un regno contro un altro regno (Matteo, XXIV, 7). La predizione divina, secondo la quale «all’epoca della consumazione [la fine
del mondo, n.d.r.], sorgeranno falsi Cristi e falsi profeti che compiranno segni e prodigi diabolici», si verificava alla lettera. Ecco un impostore chiamato David, agitato dallo spirito del
demonio e da altri sinistri fenomeni: la grandine è caduta nel paese di Khatchen e sul suolo,
in mezzo ai chicchi, vi erano molti pesci. Sulla riva del mare di Gegham s’è trovato un gigante morto, interrato per metà, con un buco all’altezza del cuore, e di là usciva ancora sangue. Del resto, Nerses, uomo di Dio (morto nel 383) non ha forse detto che l’Armenia sarebbe stata distrutta da un popolo di arcieri? «Ora è questa la causa della venuta dei
Thathari». La descrizione del cataclisma rievoca, a ogni istante, l’Apocalisse: «I Thathari dilagavano sulla faccia delle pianure, delle montagne e delle valli come legioni di cavallette,
come gocce di una pioggia torrenziale che inonda la terra… Nessun luogo offriva rifugio…
Si vedeva la spada mietere senza pietà gli uomini e le donne, gli adolescenti e i bambini…
L’universo avvolto in una calotta di tenebra e la coppa della collera divina si spandeva sul
mondo…».
L’Europa è ancora lontana, certo, ma ha raccolto l’eco di questi racconti; d’altro canto,
una confusione di parole ha ridato nuova forza alla leggenda: il nome Tatar è divenuto Tartar, il Tartatos. All’inizio fu una battuta di spirito. Il gioco di parole, attribuito a san Luigi da
Matthieu Paris, cronachista e capo dello scriptorium [il luogo in cui, all’interno di un monastero, erano ricopiati i testi manoscritti; il termine può indicare sia il locale, sia i monaci amanuensi, n.d.r.] di Saint-Albans, non ha ancora altro significato: «E se essi verranno da noi,
noi invieremo questi Tartari nel Tartaro stesso, da cui sono usciti». Ma, nell’appello lanciato
da Federico II il 3 luglio luglio 1241, le parole sono gravi e solenni: «Speriamo che i Tartari,
venuti dal Tartaro, siano rigettati nel Tartaro (cioè nell’Inferno). Essi sono stati spinti da Sa- Per quale motivo
le ali di pipistrello
tana stesso. E quando tutti i popoli dell’Occidente vorranno inviare di buon accordo i loro
erano più adatte a
soldati, questi non dovranno combattere contro uomini, ma contro demoni». […]
esprimere la natura
Il mito sopravvive alla propria epoca, e continua a diffondersi dopo la fine degli scondel diavolo, rispetto
volgimenti ai quali si ricollega. L’avvenimento è aggiornato, ma i suoi elementi sussistono:
alle ali di uccello?
essi restano chiusi nella sonorità dei nomi che continuano a ossessionare il Medioevo. Le
Di
quale evento
parole tartare, mongol evocano il Tartaro e le ultime convulsioni del mondo. Si spiega così
sembrava che i
il carattere del prestito che l’Occidente ha mutuato dall’arte dell’Asia Orientale: scoprendone
mongoli fossero gli
i vasti repertori, l’Occidente ha innanzitutto cercato di conoscere le potenze di cui i suoi proannunciatori? Quale
pagatori portavano il nome. L’immagine del diavolo viene quindi rettificata e arricchita con
terribile evento
la mediazione del popolo di Satana.
sarebbe iniziato
J. BALTRUSAITIS, Il Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, Adelphi,
– si credeva – dopo
la loro invasione?
Milano 1993, pp. 176-177, 206-210, trad. it. F. ZULIANI, F. BOVOLI
Quando i mongoli
tentarono di invadere
la Siria, nel 1299, che
novità fondamentale
era subentrata,
rispetto al 1260?
Perché i mongoli,
secondo Ibn Taymiyya,
dovevano essere
combattuti con
un’intensità ancora
maggiore, rispetto agli
altri infedeli? Sotto
quale profilo la
posizione di Ibn
Taymiyya è davvero
senza precedenti?
UNITÀ II
IPERTESTO
2
L’AUTUNNO DEL MEDIOEVO
14
L’esercito mongolo alla
conquista di Baghdad,
miniatura del xv secolo.
Il giurista islamico Ibn Taymiyya
La figura di Ibn Taymiyya è diventata famosa anche in Occidente a partire dal 1981, allorché un gruppo di terroristi islamici proclamò di seguire il suo pensiero, nel momento in cui uccise in un attentato
il presidente dell’Egitto Anwar Sadat. Ibn Taymiyya, infatti, sosteneva che era un dovere dei credenti combattere contro tutti i nemici dell’islam: anche quelli che – in apparenza, come facevano i mongoli – si
dichiaravano musulmani.
Ibn Taymiyya (m. 1328), teologo e polemista musulmano decisamente anticonformista,
occupa una posizione a parte nella giurisprudenza musulmana. Era un profugo proveniente
dalle terre orientali del mondo musulmano, dalle quali era fuggito assieme alla famiglia per
sottrarsi ai mongoli invasori, stabilendosi in Egitto. Terra del regno mamelucco, l’Egitto era
l’ultimo potente bastione dell’islam sannita. Secondo la visione di Ibn Taymiyya, disastri e
sconfitte della comunità musulmana dovevano essere affrontati sia sul piano militare, dove i
mamelucchi erano risultati vittoriosi, sia su quello della religione. I suoi scritti offrono, pertanto,
una visione più cruda, e decisamente in bianco e nero, dell’islam e delle sue relazioni con il
mondo non musulmano di quella fornita da altri scritti sul tema jihad, e riflettono l’impegno
diretto e fortemente partecipato di Ibn Taymiyya nel jihad. Gli scritti degli stessi musulmani
di Spagna, che pur stavano gradatamente perdendo la loro terra in seguito alla riscossa cristiana, non veicolano un senso altrettanto assoluto di urgenza. Le questioni che pone Ibn Taymiyya non sono di carattere accademico, ma si rapportano immediatamente alla realtà. […]
Ibn Taymiyya si spinse molto più avanti dei commentatori precedenti nella considerazione
delle ripercussioni sul piano giuridico dell’invasione della Siria, nel 1299, da parte di Ghazan
Khan, il primo sovrano ilkhanide [mongolo-persiano, n.d.r.] a convertirsi all’islam, sicché la differenza tra armate mongole e mamelucche diventò assai meno netta rispetto a una quarantina
d’anni prima sul campo di battaglia di ‘Ayn Jalut (1260). Ibn Taymiyya stabilì, tuttavia, una distinzione tra le due parti in campo precisando che la parte musulmana è quella che si attiene
alle leggi dell’islam e combatte per la sua vittoria. Poiché i mongoli erano alla guida di una
coalizione militare composta di armeni (cristiani), georgiani, mongoli rimasti pagani, sciiti, oltre che di sanniti, non si poteva dire che combattessero per l’islam.
In ogni caso, Ibn Taymiyya si spinse ancora più in là affermando che i mongoli, oltre che
infedeli e falsi musulmani, erano più pericolosi degli infedeli dichiarati, quali ad esempio i cristiani, sicché dovevano essere combattuti con veemenza addirittura maggiore. Una posizione davvero
senza precedenti, poiché, tradizionalmente, i musulmani non entravano nel merito dell’adesione all’islam degli altri musulmani. Bastava che una persona
dichiarasse di essere musulmana perché fosse ritenuta tale; salvo, s’intende, il comportamento non la
escludesse in maniera plateale e incontrovertibile
dalla comunità. Come risulta dalla tradizione […], al
profeta Muhammad era stato comandato di combattere finché l’infedele non dichiarasse che esiste un
unico Dio. La valutazione delle motivazioni e dell’effettività della sua conversione spettava a Dio. Ibn Taymiyya volle, invece, identificare l’effettiva adesione all’islam di una persona con la sua volontà di
combattere per l’islam. Poiché i musulmani mongoli
erano in primo luogo fedeli al grande regno mongolo,
e non allo stato musulmano, secondo la formulazione di Ibn Taymiyya non erano da ritenersi musulmani. […]
L’influenza di Ibn Taymiyya è indubitabile, soprattutto allo stato attuale. Il suo prestigio morale, la
sua volontà di passare al vaglio e giudicare l’establishment [il gruppo dirigente, n.d.r.] musulmano, le sue
analisi uniche e di grande interesse, le sue denunce
dirette e senza mezzi termini di infedeli e devianti
dalla retta via dell’islam, hanno reso i suoi scritti popolarissimi presso i musulmani radicali odierni.
D. COOK, Storia del jihad. Da Maometto ai nostri giorni,
Einaudi, Torino 2007, pp. 91-94, trad. it. P. ARLORIO
F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010
3
IPERTESTO
Missionari e mercanti europei nell’impero
mongolo
E. POWER, Vita nel Medioevo, Einaudi, Torino 1966, pp. 50-51, 59-61, 73, trad. it. L. TERZI
F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010
Il papà e lo zio di
Marco Polo ricevono
da un dignitario di
corte il lasciapassare
che consentirà loro
di attraversare l’Asia
per ritornare in patria,
mentre il gran khan
osserva la scena.
Con quali speranze
i sovrani europei
e il papa inviarono
dei frati alla corte
del gran khan?
Come veniva
considerato
investire capitali
nel commercio con
l’Estremo Oriente
dai mercanti del
XIV secolo?
15
L’Asia orientale tra leggende e storia
Quando il grande Mangu Khan morì nel 1259, un unico impero si stendeva attraverso l’Asia e l’Europa, dal Fiume Giallo
al Danubio. Non c’era stato nel mondo nulla di simile prima, né
ci fu mai nulla di simile dopo, fino all’impero russo dei tempi
moderni. Verso il 1268 i Tartari avevano cominciato a dividersi
nei quattro regni della Cina, dell’Asia centrale, della Russia e
della Persia, ma erano ancora un popolo solo. L’atteggiamento dell’Occidente verso i Tartari, a quel tempo, è molto interessante. Sulle prime ne ebbe paura come di un nuovo flagello di Dio, come di Attila e degli Unni. I Tartari avevano
invaso la Polonia e saccheggiato l’Ungheria, e sembravano sul
punto di abbattersi sull’Occidente come un’immensa ondata
che lo avrebbe completamente travolto. Poi la marea si ritirò.
L’Occidente si rimise a poco a poco dallo sbalordimento e dal
terrore iniziali, e cominciò a guardare ai Tartari con un senso di
speranza, come a possibili alleati contro il suo antico avversario: l’Islam. L’Occidente cristiano sapeva che i Tartari avevano
molto indebolito il potere mussulmano in tutta l’Asia, e sapeva
inoltre che essi non avevano una fede religiosa chiaramente
definita, ed erano curiosi di tutte le religioni che scoprivano sul
loro cammino. A poco a poco, l’Occidente si convinse che i
Tartari avrebbero potuto convertirsi al cristianesimo, e combattere al suo fianco sotto il segno della Croce, contro l’odiata Mezzaluna. […]
Tra i khan tartari e i sovrani occidentali incominciò uno scambio di ambascerie, e incominciarono a partire verso la Tartaria innumerevoli missioni di frati francescani, uomini con
interessi etnologici [interessati alla conoscenza dei diversi popoli, n.d.r.] e geografici non
meno forti di quelli religiosi, che hanno lasciato preziose relazioni sulle terre da loro visitate.
Nell’anno di grazia 1268 si conosceva già molto sull’Asia centrale, poiché fin dal 1245 il papa
aveva mandato laggiù il frate italiano Giovanni dal Piano dei Carpini; ed un altro frate, Guglielmo di Rubruck, fiammingo, era stato inviato da Luigi il Santo, re di Francia, nel 1251.
Avevano entrambi raggiunto il Karakorum, avamposto tartaro ai confini della Cina settentrionale, ma in Cina non erano entrati. […]
[Al contrario,] Marco Polo attraversò le province di Shansi, Shensi e Szechuen, viaggiò
lungo i confini del Tibet fino a Yunnan, e penetrò nella Birmania settentrionale: terre che rimasero ancora sconosciute all’Occidente fino al 1860. […] Egli descrive la grande capitale
Cambaluc (Pechino) nel Nord, e la bella Kinsai (Hangchow) nel Sud. Descrive il Palazzo
d’Estate del khan a Shandu, con i boschi e i giardini, l’edificio principale di marmo e il padiglione di bambù fissato al terreno, come una tenda, da duecento corde d’argento; la scuderia delle cavalle bianche, e i prodigi compiuti dai negromanti. […] Marco Polo, però, non
descrive soltanto i palazzi: parla anche del grande canale e del commercio fluviale all’interno
della Cina, delle importazioni e delle esportazioni che avvenivano nei suoi porti, della carta
moneta, del sistema di stazioni di posta e di carovane che la tenevano unita. Lascia un’insuperabile descrizione di quell’impero, prospero e pacifico, in cui abbondavano la ricchezza, il commercio, gli uomini istruiti e le cose belle […].
Queste nuove conoscenze che Marco Polo aveva portato in Europa e i rapporti fra Oriente
e Occidente, che attraverso la sua esperienza si erano dimostrati così auspicabili, continuarono a svilupparsi dopo di lui. Mercanti e missionari viaggiarono per terra e per mare verso
oriente, diretti al Catai. […] Più importante di tutti, c’è Francesco Balducci Pegolotti, intrepido
agente commerciale della grande Casa dei Bardi, di Firenze, che scrisse un prezioso manuale
ad uso dei mercanti, verso il 1340. In esso dà particolareggiate istruzioni per guidare un mercante che vuol recarsi da Tana sul Mar Nero, attraversando l’Asia per via di terra, fino al Catai, e tornare indietro con una carovana che porti un valore di 12 000 sterline di seta, e osserva incidentalmente, mentre scrive: «La strada che devi percorrere da Tana al Catai e
sicurissima, sia di giorno che di notte, a quanto dicono i mercanti che l’hanno fatta».
IPERTESTO B
Marco Polo non fu l’unico europeo a recarsi presso i mongoli, ma fu uno di quelli che soggiornarono maggiormente in Cina. La sua attenzione si rivolse sia allo splendore dei palazzi del Gran Khan sia
alla ricchezza del suo impero.
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