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Tra nuove povertà ed esclusione sociale

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Tra nuove povertà ed esclusione sociale
Tra nuove povertà ed
esclusione sociale:
analisi dei fenomeni e
suggerimenti di policy
2
Prefazione
Il presente documento riassume alcune delle attività di ricerca che hanno
accompagnato lo svolgersi operativo del progetto Sovvenzione Globale Lazio B1,
realizzato negli anni 2005-2008 a cura dell’organismo intermediario appositamente
costituito da Arti e Mestieri, Banca Cosis, Consorzio Scuole Lavoro, Fondazione Alma
Mater, M.B.S. e Metropolis.
Nell’ambito della programmazione UE 2000-2006 lo strumento della sovvenzione
globale è stato per molte regioni italiane una modalità innovativa di realizzazione delle
politiche; un’innovazione negli aspetti più squisitamente formali e amministrativi, ma
soprattutto nelle modalità di progettazione e gestione degli interventi in ambiti di
particolare complessità.
L’asse B, misura B1 della programmazione comunitaria e nazionale, ha avuto come
obiettivi principali quelli di:
- rafforzare le capacità realizzative degli operatori regionali attraverso l’erogazione alle
organizzazioni non lucrative ad enti o cooperative sociali di piccoli sussidi, finalizzati
all’acquisizione di beni o servizi reali per le politiche formative e del lavoro a favore
di categorie svantaggiate;
- favorire l’inclusione sociale dei gruppi svantaggiati attraverso il loro inserimento
lavorativo, in particolare portatori di handicap fisici e mentali; detenuti ed ex
detenuti;
cittadini
extracomunitari;
nomadi;
tossicodipendenti
ed
ex
tossicodipendenti; sieropositivi; alcolisti ed ex alcolisti; persone inquadrabili nei
fenomeni di nuova povertà; persone che intendono uscire dal percorso della
prostituzione.
Nel quadro di questo sistema sociale, complesso per il numero di attori, per le
dinamiche dei fenomeni, per la diversità dei problemi in campo e la molteplicità delle
politiche di azione, la partnership titolare del progetto in Lazio ha messo in campo
competenze specialistiche ed integrate per la miglior gestione dell’iniziativa sul
territorio regionale.
3
Gli oltre 100 progetti finanziati e realizzati da associazioni ed attori del tessuto sociale
locale, in tutte le province, sono stati oggetto di un attento lavoro di monitoraggio
quantitativo e qualitativo, grazie al quale sono state individuate, studiate e censite
buone prassi operative sul territorio. Il presente lavoro ne permette la valorizzazione,
mettendole a confronto con esperienze e modelli di inclusione sociale individuati in
altre regioni italiane.
Quadro normativo e fiscale, programmazione comunitaria e nazionale forniscono gli
elementi di fondo in cui inquadrare le esperienze in atto; la definizione delle nuove
povertà descrive il vasto campo di azione e le dinamiche evolutive.
Le riflessioni riportate non si limitano ad una descrizione del passato e del presente.
In un momento importante, quale quello dell’inizio effettivo della programmazione della
nuova agenda europea 2007-2013, la ricerca pone all’attenzione indicatori di policy per
lo sviluppo di una agenzia sociale e fornisce suggerimenti di metodo per la costituzione
di un osservatorio permanente per l’inclusione sociale.
Sono spunti operativi che ci auguriamo consentano una efficace continuità di azione
per il contrasto alla povertà in Lazio.
Gianni Bonfatti
4
Prefazione ...................................................................................................... 2
PARTE PRIMA Quadro normativo ed elementi di sistema ............................ 11
1.
Le politiche comunitarie e nazionali per la lotta all’esclusione sociale e
alla povertà .................................................................................................. 18
1.1
L’evoluzione delle politiche comunitarie in tema di inclusione sociale ..........18
1.2
Orientamenti nazionali verso nuove forme di welfare ................................21
2.
Il QSN 2007 - 2013: azioni e interventi per l’inclusione sociale ............ 25
3.
Il P.O. FSE 2007-2013 della Regione Lazio per il contrasto delle povertà
31
4.
3.1
Le scelte di fondo del P.O. Lazio..............................................................31
3.2
La necessità di un’integrazione delle politiche ...........................................34
La legislazione sul non profit in Italia ................................................... 36
4.1
La necessità di un ripensamento .............................................................36
4.2
Il quadro normativo attuale ....................................................................38
4.3
Proposte di modifica all’attuale quadro normativo .....................................43
4.3.1
Il Codice Civile................................................................................44
4.3.2
La disciplina fiscale – generale .........................................................44
4.3.3
La disciplina degli enti che svolgono attività di pubblica utilità: Le ONLUS
45
4.3.4
La disciplina degli enti che svolgono attività di pubblica utilità: l’impresa
sociale
48
4.4
La disciplina fiscale come incentivo alla donazione e al sostegno del non
profit 49
5.
4.5
Altre disposizioni suggerite dall’osservazione empirica ...............................51
4.6
Conclusioni............................................................................................53
Verso una definizione normativa del fenomeno dello svantaggio ......... 54
5
6.
7.
8.
Analisi quantitativa delle diverse tipologie di soggetti deboli nel Lazio 61
6.1
I disabili................................................................................................61
6.2
Detenuti ed ex detenuti..........................................................................63
6.3
I cittadini immigrati................................................................................64
6.4
I Tossicodipendenti e gli ex tossicodipendenti ..........................................67
6.5
Altre categorie di soggetti a rischio di esclusione sociale............................69
Gli operatori del terzo settore ............................................................... 71
7.1
Il ruolo delle organizzazioni non profit .....................................................71
7.2
Il sistema della cooperazione ..................................................................76
7.3
Le associazioni di volontariato .................................................................79
7.4
Le fondazioni.........................................................................................82
Le opinioni degli stakeholder ................................................................ 85
Bibliografia................................................................................................... 92
PARTE SECONDA Verso una definizione di nuova povertà ........................... 95
9.
Nuove povertà o nuove cause di povertà?............................................. 96
9.1
Metodologia di ricerca ............................................................................99
9.1.1
Gli intervistati ............................................................................... 101
9.2
Approcci internazionali ......................................................................... 103
9.3
Il rischio di esclusione sociale................................................................ 105
9.4
Lavoro e situazione familiare................................................................. 108
9.5
La povertà relativa e la percezione soggettiva di povertà......................... 114
9.6
Migrati ed ex-detenuti: due categorie a rischio di povertà? ...................... 121
9.7
Tendenze future e politiche di contrasto della povertà............................. 123
9.8
L’assetto istituzionale in materia di contrasto alla povertà........................ 127
9.8.1
Individuazione degli organi competenti e delle fonti di riferimento
principali 128
6
9.8.2
Campi di intervento....................................................................... 136
9.8.3
Provvedimenti legislativi recenti e linee di tendenza ......................... 142
9.8.4
Quadro di insieme e prospettive future ........................................... 146
9.9
10.
Un quadro di sintesi ............................................................................. 149
Vulnerabilità e risorse individuali .................................................... 156
10.1
L’evoluzione del contesto sociale ........................................................... 157
10.2
Fattori oggettivi di vulnerabilità ............................................................. 162
10.3
La percezione del soggetto ................................................................... 168
11.
Valutazioni e spunti per ulteriori approfondimenti .......................... 172
11.1
La società dei servizi ............................................................................ 172
11.2
L’esclusione sociale e l’inserimento lavorativo ......................................... 173
11.3
La vulnerabilità .................................................................................... 176
11.4
La povertà........................................................................................... 178
11.5
La “nuova povertà” .............................................................................. 181
11.6
Il ruolo delle politiche sociali e gli strumenti di supporto .......................... 184
Bibliografia................................................................................................. 187
PARTE TERZA Le buone prassi: esperienze e modelli per l’inclusione sociale
................................................................................................................... 201
12.
I Minori a rischio di esclusione sociale – La Piazza dei Mestieri....... 204
12.1
Le Politiche Comunitarie nella lotta all’esclusione sociale dei giovani ......... 205
12.2
La dispersione scolastica un fenomeno multidimensionale ....................... 207
12.3
Un modello di risposta integrata: La Piazza dei Mestieri........................... 210
12.4
Suggerimenti di policy .......................................................................... 219
13.
I minori stranieri – Il Progetto Prisma............................................. 222
13.1
I principali risultati della ricerca e le possibili applicazioni......................... 222
13.2
La rete dei soggetti agenti .................................................................... 230
7
13.3
I bisogni dei giovani stranieri e delle loro famiglie................................... 231
13.3.1
I Giovani ...................................................................................... 231
13.3.2
Le famiglie ................................................................................... 234
13.3.3
I bisogni degli altri soggetti ........................................................... 235
13.4
Le buone pratiche d’intervento.............................................................. 236
13.5
Suggerimenti di policy .......................................................................... 244
14.
Gli immigrati adulti .......................................................................... 248
14.1
Le Politiche Comunitarie per l’integrazione dei migranti ........................... 250
14.2
L’immigrazione: multidimensionalità del fenomeno e aspetti legislativi ...... 252
14.3
Alcuni modelli di risposta al bisogno e di intervento ................................ 255
14.4
Suggerimenti di policy .......................................................................... 258
15.
I detenuti ......................................................................................... 260
15.1
Una leva per il cambiamento e la redenzione: il lavoro dei detenuti .......... 261
15.2
L’esperienza del Consorzio Rebus ......................................................... 262
15.3
Un’indagine sulla situazione femminile nelle carceri lombarde. ................. 266
15.4
Un modello di alternanza in carcere....................................................... 269
15.5
Suggerimenti di policy .......................................................................... 271
16.
I tossicodipendenti .......................................................................... 275
16.1
Le innovazioni metodologiche e organizzative del modello San Patrignano 277
16.2
Un modello di risposta integrata............................................................ 281
16.3
Suggerimenti di policy .......................................................................... 285
17.
17.1
I disabili ........................................................................................... 288
Le Politiche Comunitarie, Nazionali e Regionali per l’inserimento lavorativo
delle persone con disabilità.............................................................................. 290
17.2
Disabilità e lavoro: un incontro possibile e necessario ............................. 292
17.3
Una risposta personalizzata e completa: il modello della Cooperativa
Nazareno Work .............................................................................................. 294
8
17.4
18.
Suggerimenti di policy .......................................................................... 302
Il fenomeno della tratta................................................................... 305
18.1
Un’ esempio di “rete” in risposta alla tratta – il progetto LIFE .................. 306
18.2
Gli ambiti di operatività del progetto ...................................................... 307
19.
Le Prassi Nazionali ........................................................................... 315
Bibliografia................................................................................................. 325
PARTE QUARTA Proposta per un sistema integrato dei servizi in Regione
Lazio........................................................................................................... 329
Indicazioni di policy: proposta di una Agenzia Sociale .................... 330
20.
20.1
Il modello di governance regionale ........................................................ 332
20.2
Approcci europei.................................................................................. 338
20.2.1
Il caso Danimarca ......................................................................... 340
20.2.2
Il caso Regno Unito ...................................................................... 341
20.3
Modelli di sussidiarietà.......................................................................... 341
20.4
Tendenze evolutive dei sistemi di welfare .............................................. 344
20.5
Approcci di finanziamento della domanda............................................... 345
20.6
Reti per l’inclusione sociale: punti di attenzione per il non profit............... 348
20.7
Premesse per un modello di Sistema Integrato dei Servizi ....................... 351
20.8
Da un sistema di autorizzazione e accreditamento ad un sistema di rating 356
20.9
Il punto chiave del processo: approcci di case management .................... 359
20.10
Cambiare per gradi attraverso la creazione di poli di eccellenza ............ 362
20.11
Un portale per l’Agenzia Sociale......................................................... 363
21.
Proposta di osservatorio permanente per l’inclusione sociale ......... 367
21.1
Obiettivi .............................................................................................. 368
21.1.1
Obiettivi strategici dell’Osservatorio Permanente sull’inclusione sociale
368
9
21.1.2
Obiettivi operativi dell’Osservatorio Permanente sull’inclusione sociale
371
21.1.3
Produzione di documentazione statistica ......................................... 372
21.1.4
Produrre informazione qualitativa................................................... 373
21.1.5
Supportare le politiche .................................................................. 374
21.1.6
Supportare la valutazione .............................................................. 376
21.1.7
Qualità: coinvolgimento e miglioramento continuo........................... 377
21.2
Progettare l’osservatorio....................................................................... 378
21.2.1
21.3
22.
Come alimentare l’osservatorio ...................................................... 379
Un metodo basato sulla collaborazione .................................................. 380
Strumenti di analisi e funzionamento del sistema per l’osservatorio
383
22.1
Analisi dimensionale............................................................................. 383
22.2
Indicatori ............................................................................................385
22.3
Glossario.............................................................................................387
23.
Modello di analisi proposto .............................................................. 392
23.1
Monitoraggio e indicatori ...................................................................... 392
23.1.1
23.2
Individuare indicatori coerenti........................................................ 393
Fonti................................................................................................... 396
23.2.1
Indirizzi nazionali e Programma statistico nazionale ......................... 398
23.2.2
Classificazione delle fonti............................................................... 399
23.2.3
Attori pubblici............................................................................... 399
23.2.4
Attori privati ................................................................................. 401
23.2.5
Attori istituzionali .......................................................................... 405
23.3
Ambiti................................................................................................. 408
23.4
Viste di analisi e interventi .................................................................... 410
23.5
Dimensioni .......................................................................................... 411
10
23.6
Dettaglio indicatori............................................................................... 413
23.6.1
Descrizione dell'offerta .................................................................. 414
23.6.2
Identificazione del bisogno e delle politiche..................................... 416
23.6.3
Erogazione del servizio.................................................................. 419
23.6.4
Efficienza economica e delle risorse................................................ 422
23.6.5
Efficacia e permanenza del risultato ............................................... 424
23.6.6
Indicatori di sistema...................................................................... 425
23.6.7
Tabelle riepilogative degli indicatori................................................ 425
23.7
Esempi di viste di analisi....................................................................... 427
Bibliografia................................................................................................. 432
PARTE QUINTA Conclusioni........................................................................ 435
24.
Povertà in Lazio: conclusioni sulla natura del fenomeno e sulle
politiche di intervento a livello territoriale................................................. 436
24.1
Tendenze forti di scenario .................................................................... 436
24.2
La definizione del fenomeno ................................................................. 439
24.3
Osservare la povertà ............................................................................ 440
24.4
Intervenire sulla povertà....................................................................... 442
24.4.1
L’integrazione delle politiche .......................................................... 443
24.4.2
L’inserimento lavorativo................................................................. 444
24.4.3
L’approccio preventivo .................................................................. 446
24.4.4
Il valore delle reti ......................................................................... 447
11
PARTE PRIMA
Quadro normativo ed elementi di sistema
A cura di:
Simone Cerlini
Contributi di:
Gianni Bonfatti
Aldo Curreli
Luca Milanetto
Monica Poletto
Francesco Serra
12
Questa prima parte del volume ha lo scopo di delineare il contesto di riferimento
all’interno del quale si collocano le politiche di contrasto alla povertà e, più in generale,
quelle indirizzate a favorire l’inclusione sociale. Per inclusione sociale si intendono tutti
quei processi e quelle azioni finalizzati a favorire una piena partecipazione ai diritti di
cittadinanza per tutte le persone, con particolare attenzione all'istruzione, alla
formazione, all'occupazione, all'alloggio, ai servizi collettivi, all'assistenza sanitaria.
Un'attenzione specifica è rivolta alle categorie particolarmente svantaggiate come
immigrati, detenuti, tossicodipendenti, portatori di handicap.
Nel trattare il tema della povertà non si fa però riferimento esclusivamente a un target
specifico di popolazione, quanto piuttosto a un fenomeno che presenta caratteristiche
di “trasversalità” in quanto, generalmente, interessa gruppi diversi quali, per citarne
alcuni, anziani isolati socialmente, immigrati, ex detenuti, dipendenti da sostanze,
disabili, giovani e adulti soli, genitori soli con figli a carico, famiglie numerose, ecc.
Inoltre il concetto stesso di povertà ha assunto una complessità che non presentava in
passato: le “nuove povertà” non sono definite, come accadeva per le “vecchie”,
principalmente dalla carenza di mezzi economici ma, piuttosto, dalla limitazione a
partecipare alla vita sociale. Sempre più, oggi, trovarsi in condizione di povertà
significa, innanzitutto, “emarginazione” che tende a trasformarsi in “esclusione” e non
più solo in difficoltà di sussistenza.
Il concetto di povertà si è “allargato” e considera quindi, oltre al reddito e al lavoro,
anche altre variabili quali le condizioni abitative, lo stato di salute, il livello di istruzione,
le caratteristiche ambientali fino, appunto, alla partecipazione sociale.1 Anche gli
elementi soggettivi, rispetto alle cause oggettive di povertà
2
stanno acquisendo un
peso sempre più rilevante in quanto la povertà diviene l’esito di una vulnerabilità
estremamente legata alla persona e alla storia individuale.
Proprio in forza del fatto che le nuove povertà presentano spesso un intreccio di
problematiche e concause, già per delineare un quadro completo di tale fenomeno non
1
Sulle argomentazioni che sorreggono questa nuova visione del concetto di povertà si veda la PARTE
SECONDA del presente volume.
2
Si veda a questo proposito le definizioni contenute nella seconda parte del volume.
13
si può quindi prescindere dall’adottare approcci articolati che ben si allontanano dalla
semplice descrizione degli aspetti quantitativi e qualitativi del fenomeno povertà in
Lazio.
Volendo prevedere, coerentemente con le indicazioni comunitarie interventi coordinati
nell’ottica di una maggior integrazione tra politiche, servizi, competenze professionali e
risorse finanziarie, il contesto di riferimento la cui conoscenza risulta indispensabile, si
allarga ad abbracciare campi diversissimi, quali la normativa definitoria nel campo dei
soggetti deboli o quella relativa alla regolamentazione del terzo settore.
Il superamento della rigida compartimentazione delle politiche e delle modalità
“settorializzate” con cui il sistema dei servizi procede alla lettura e presa in carico dei
bisogni, si rivela infatti essere fondamentale per il buon esito degli interventi di
contrasto ai fenomeni di povertà.
Nella lotta contro la povertà la via di sviluppo per gli anni a venire è tracciata dalle
indicazioni comunitarie in materia di inclusione sociale, recepite a livello nazionale e
regionale, che vengono presentate nei primi tre capitoli. Esse rappresentano il contesto
normativo, ma soprattutto la struttura che informa il finanziamento pubblico, in cui si
troveranno ad operare gli attori privati e collettivi nella loro espressine creativa in
risposta ai bisogni espressi dalla società. L’aspetto più innovativo nell’evoluzione
recente delle normative è proprio il fatto che esse promuovono la realizzazione di
sinergie tra le diverse politiche e relativi strumenti finanziari, al fine di favorire un
approccio adeguato a comprendere e a ricomporre l’unitarietà e la complessità
multidimensionale delle nuove povertà per meglio anticiparne i fenomeni e
contrastarne gli effetti.
L’importanza dei primi capitoli dedicati al quadro di policy all’interno del quale si
collocano le diverse azioni di lotta alla povertà e all’esclusione sociale non è però solo
metodologica o culturale; essa, infatti, comporta anche rilevanti impatti dal punto di
vista operativo, basti pensare al fatto che le risorse finanziarie messe a disposizione del
composito sistema di offerta di servizi indirizzati a combattere l’esclusione sociale trova
proprio nei fondi comunitari una delle più rilevanti fonti di alimentazione. Dopo un
quadro più generale sulle politiche comunitarie e nazionali contenuto nel capitolo 1, ci
si concentrerà sulle dinamiche relative agli anni a venire, presentando gli orientamenti
contenuti nel QSN (capitolo 2) e nel POR della Regione Lazio per il periodo di
14
programmazione in corso (capitolo 3).
Il quarto e quinto capitolo sono dedicati a due argomenti di respiro più generale che
sono però strumentali alla definizione delle politiche di contrasto alla povertà, in quanto
condizionano pesantemente l’agire concreto di operatori privati e istituzione. Il quarto è
dedicato a un’analisi della normativa del settore non profit in Italia. La disciplina civile e
quella fiscale hanno un impatto considerevole sulla possibilità di articolare risposte
adeguate ai bisogni emergenti delle diverse forme di povertà. Basti pensare a come
parte del sistema dell’offerta è fortemente incentrato su attività di volontariato o
comunque su soggetti che pur configurandosi come imprese hanno come mission una
risposta efficace al bisogno e non il profitto. In tale contesto le normative relative alle
donazioni
(che
per
molti
soggetti
quali
ad
esempio
quelli
del
mondo
dell’associazionismo rappresenta una quota rilevante se non prevalente delle risorse a
disposizione) o alla possibilità di agire nel campo del fund raising rappresentano un
elemento
vitale.
L’attuale
quadro
normativo
specifico,
ancora
incompleto
e
caratterizzato da notevoli incongruenze costituisce un freno allo sviluppo delle realtà
più vitali e innovative del terzo settore.
Il quinto capitolo opera un approfondimento sulla definizione normativa del fenomeno
dello svantaggio, il cui obiettivo principale è mostrare come occorra passare da un
approccio di tipo classificatorio ad uno più aperto e dinamico. Non sempre la
condizione di povertà è associabile a una patologia (ad esempio la disabiltà) o a una
condizione oggettiva (un anziano solo può essere oppure no in condizioni di povertà),
così come il passaggio da una condizione all’altra non sempre risolve il problema dello
svantaggio (si pensi al passaggio dal carcere alla libertà). Il capitolo 9 di questo lavoro
è dedicato al tema delle nuove povertà da cui, senza anticipare problematiche che
saranno discusse con il giusto approfondimento, emerge che esse hanno cause molto
soggettive e trasversali, difficilmente ascrivibili a uno stato oggettivo, se non quando lo
slittamento lungo la china della povertà è grave e difficile da recuperare e ha palesato
sintomi comuni alle forme tradizionali di povertà. Poiché spesso il rientrare o meno in
una definizione, l’appartenere o meno a una lista implica l’essere ammissibili o meno
per aiuti, programmi di recupero o sgravi, si vede chiaramente come la questione della
definizione di chi siano i soggetti deboli all’interno del tessuto sociale è tutt’altro che
una questione accademica. In tale contesto è opportuno che le definizioni
classificatorie siano riservate ai casi di maggiore urgenza e rilevanza, caratteristiche
15
queste da valutarsi in modo concertato fra operatori, esperti e istituzioni, ma che vi
siano degli spazi di azione, e di finanziamento, aperti per agire sui sintomi trasversali a
rischio e sulle emergenze che vengono segnalati con chi ogni giorno opera a contatto
con la frontiera del disagio economico e umano.
Il sesto capitolo opera un affondo su alcune tipologie di soggetti a rischio di povertà
presenti nella regione Lazio. Fermo restando quanto detto in precedenza sulla
necessità di non focalizzarsi esclusivamente sulle dimensioni del fenomeno povertà, è
apparso comunque utile avere, laddove possibile, una stima quantitativa di alcuni
fenomeni (disabilità, immigrazione, detenuti, etc.). I dati più attendibili sono in larga
misura esito di repertori dei soggetti che accedono ai servizi. Tale rilevazione mette in
luce dunque una dinamica per cui esistono dati significativi soprattutto per quelle
categorie di persone per cui esiste maggiore offerta. Le persone che accedono a tali
servizi vengono “catturate” dal sistema e da quel momento creano un circolo virtuoso
in cui cresce la conoscenza del fenomeno e si moltiplicano le offerte di servizi. Al
contrario vi sono ambiti dello svantaggio in cui è assai più difficile intercettare il
potenziale utente degli interventi e conseguentemente resta scarsa sia l’offerta di
servizi in tali ambiti sia la conoscenza qualitativa e quantitativa del fenomeno. Di
conseguenza il quadro descrittivo che emerge copre il fenomeno povertà a macchia di
leopardo, con vaste zone caratterizzate da assenza di informazioni o da informazioni
estremamente datate. In generale i dati sono eterogenei per caratteristiche e qualità e
rendono dunque quasi impossibile qualsiasi comparazione trasversale, geografica o
dinamica. Dunque le informazioni raccolte, aggregando con fatica un gran numero di
fonti diverse, presentano limiti oggettivi e ineliminabili, sono atte a valutare
adeguatamente alcune situazioni specifiche ma lasciano scoperte altre e, soprattutto,
non permettono di arrivare a conclusioni solide di carattere generale. Almeno una
conclusione forte però emerge da questo capitolo descrittivo: la necessità di creare un
osservatorio in grado di coordinare le informazioni esistenti, certificandole e
integrandole dove ritenuto indispensabile, a supporto del decisore pubblico e
dell’operatore privato. Ma su questo tema si tornerà ancora alla fine di questa
introduzione, oltre che ovviamente nella parte dedicata al progetto di osservatorio.
Il settimo capitolo è dedicato alla descrizione degli operatori del terzo settore; sono
questi i soggetti da cui si origina l’articolata rete di risposte ai bisogni emergenti dei
soggetti più esposti all’esclusione sociale. Il capitolo è una fotografia dei principali attori
16
in gioco, osservati in relazione alla dimensione economica e occupazionale, alla
capacità di recepire i bisogni del territorio e di progettare e realizzare risposte. Un
accenno è infine rivolto all’analisi del ruolo delle fondazioni bancarie che sempre più
assumono importanza nel finanziamento delle azioni e nei diversi livelli di governance.
L’ottavo e ultimo capitolo è dedicato alle opinioni degli stakeholder pubblici e privati,
considerati snodi fondamentali della rete territoriale di risposta ai bisogno. La loro
visione, derivante da un’azione probabilmente specifica, ma realistica e fattuale è
fondamentale nell’ottica di disegnale linee di indirizzo il più possibile partecipate, nella
convinzione che solo in questo modo si possono intercettare le caratteristiche dei
bisogni emergenti e le dimensioni di quelli tradizionali. Dal punto di vista metodologico
l’indagine sul campo è stata condotta attraverso interviste semiaperte ad attori del
territorio su quattro ambiti di indagine: lo svantaggio, il terzo settore, le politiche
regionali in atto in questo ambito, le linee di indirizzo strategiche.
Infine un’osservazione di carattere generale è legata alle difficoltà dei sistemi regionali,
e quindi anche del sistema Lazio, di fornire rilevazioni ufficiali e dati aggregati. Questo
limite rende difficile l’analisi e le interpretazioni di quanto rilevato e rende sempre più
evidente la necessità di un’istituzione che abbia l’obiettivo di raccogliere e fornire dati
“osservando” fenomeni complessi. Da ciò deriva anche che all’interno delle singole
parti del volume, si potranno notare alcune incongruenze, frutto proprio della
mancanza di una raccolta complessiva di dati relativi a uno specifico campo di azione,
quello del terzo settore e delle politiche sociali e dei loro utenti. Per ciò che concerne
l’analisi e la quantificazione di tali categorizzazioni si rende necessaria una premessa
metodologica. La situazione del rilevamento dei dati è differente a seconda della
categoria che si intende analizzare. Si va, infatti, da situazioni che appaiono scoperte,
come i malati di AIDS o le donne vittime della tratta ad altre ampiamente
documentate, come per i carcerati e, in parte, per gli immigrati. Da questa situazione
discendono differenti tipologie di problematiche ad oggi difficilmente eliminabili nel
costruire un quadro di contesto dalle fonti disponibili:
1.
La carenza di dati o di fonti attendibili di documentazione. Si è detto che il
materiale informativo prodotto, in genere per uso interno degli operatori o per
iniziativa individuale dei singoli enti, ha una copertura a macchia di leopardo, con
vaste aree scoperte ed altre caratterizzate da informazioni incomplete, sporadiche
o di bassa qualità. La presente ricerca rifletterà dunque le limitazioni riscontrabili
17
nelle possibili fonti di informazione sui soggetti deboli, ma evidenzierà soprattutto
la mancanza di un coordinamento nella raccolta delle informazioni stesse. La
presenza di ricerche e banche dati difficilmente consultabili ne fa perdere
immediatamente il loro valore conoscitivo.
2.
La verifica dei dati. Non sempre i dati risultano essere certificati da un ente
centrale, quale può essere la Regione. Spesso le pubblicazioni e le ricerche che si
sono analizzate sono state raccolte da associazioni o altri enti che si occupano
quotidianamente delle problematiche dei soggetti deboli senza talvolta darne una
ufficialità o curarne la veridicità. In molti casi si possono quindi avere risultati
discordanti tra una ricerca e l’altra, oppure diverse articolazioni temporali, che, in
mancanza di pubblicazioni ufficiali, rendono difficile la loro comprensione e
utilizzazione.
3.
Gli interlocutori contattati e intervistati non esauriscono la mappa dei soggetti
interessati dalla politica in questione. L’attenzione degli stessi interlocutori
privilegiati contattati ha scontato, in alcuni casi, una certa diffidenza per la novità
portata dalle procedure di Sovvenzione Globale e, come conseguenza, certe realtà
comunque importanti del mondo del non profit e dei servizi sociali non hanno
ritenuto opportuno partecipare alla rilevazione.
Pur in presenza di tali limiti il lavoro fornisce un quadro complessivo (da valutare, per il
momento, più nella sua caratterizzazione generale che non nei singoli aspetti specifici),
significativo dei soggetti deboli nella Regione Lazio e delle istituzioni coinvolte
nell’implementazione delle misure di politiche sociali.
18
1. Le
politiche
comunitarie
e
nazionali
per
la
lotta
all’esclusione sociale e alla povertà
1.1 L’evoluzione
delle
politiche
comunitarie
in
tema
di
inclusione sociale
Le politiche di inclusione sociale vengono affrontate con organicità a livello europeo a
partire dagli Anni Novanta; infatti, con il Trattato di Amsterdam del 1997, si sancisce
che “la promozione all’occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro,
una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo di risorse umane atto a
consentire un livello di occupazione elevato e la lotta contro l’emarginazione...” sono di
competenza della Comunità Europea e degli Stati membri (art. 137).
Il Consiglio Europeo di Lisbona del 2000 ha individuato quale obiettivo strategico lo
sradicamento della povertà (innanzitutto nella sua componente economica) entro il
2010 e chiede agli Stati membri che si impegnino per il raggiungimento di tale scopo.
Segue al Consiglio di Lisbona, l’individuazione dei criteri comuni per definire il carattere
multidimensionale della povertà attraverso politiche mirate a sostegno del lavoro e
della protezione sociale (Nizza), impostando il Metodo di coordinamento aperto e
successivamente i Piani di azione nazionale di lotta contro la povertà e l’esclusione
sociale3. Promuovere la partecipazione all’occupazione e l’accesso di tutti alle risorse, ai
diritti, ai beni ed ai servizi; prevenire i rischi di esclusione; intervenire a favore dei più
vulnerabili; mobilitare l’insieme degli attori sono gli obiettivi comuni individuati.
Quanto stabilito dal Consiglio di Lisbona, è stato ulteriormente ribadito con una nota
nel 2002 e quindi rilanciato nel 20054: “L'inclusione sociale e le strategie nazionali di
3
Le misure di povertà alla luce dei dispositivi emanati dall’UE di Giovanna Giuliano - Isfol, Area Politiche
Sociali e Pari Opportunità.
4
Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale
19
lotta contro la povertà e l'esclusione sociale hanno una posizione preminente … Un
livello elevato di protezione sociale offre alla società i mezzi per affrontare le avversità
ed eliminare e prevenire le forme più gravi e disumane di povertà. Le politiche di
inclusione sociale ad esempio non servono solo a prevenire e combattere la povertà,
ma possono anche contribuire ad aumentare l'offerta di forza lavoro promuovendo la
capacità lavorativa delle persone e le misure per rendere il lavoro proficuo”.
È importante sottolineare che, tra le raccomandazioni fatte agli Stati membri per
favorire il raggiungimento degli obiettivi entro il 2010, si suggerisce di: “ Potenziare la
capacità d'attuazione con il rafforzamento della capacità amministrativa e istituzionale
(sistemi di protezione sociale, regimi di reddito minimo garantito, servizi sociali e
strumenti per valutare il recepimento della prospettiva di genere), con un miglior
coordinamento tra i diversi settori e livelli del governo, con il miglioramento dei
meccanismi di coinvolgimento delle parti in causa”.
In tale raccomandazione si coglie in maniera chiara la volontà del Consiglio di
sottolineare la necessità di maggiore integrazione e coordinamento delle politiche ai
diversi livelli di governo e la necessità di migliorare i meccanismi per favorire una
partecipazione attiva e propositiva di tutti gli attori coinvolti.
E’ importante sottolineare come, sin dal Consiglio di Nizza (dicembre 2000) è stata
ribadita la necessità di dar vita a una strategia globale contro la povertà e l'esclusione
sociale, evidenziando, da un lato, il ruolo di primo piano delle politiche per
l'occupazione, dall’altro la necessità di porre in essere azioni integrate. A tal proposito
la Commissione Europea ha adottato anche per le politiche sociali il metodo di
coordinamento aperto, che prevede:
- obiettivi comuni;
- indicatori comuni per comparare le buone pratiche e misurare i progressi realizzati;
- piani d'azione nazionali (NAP) biennali per l'inclusione sociale, da predisporre sulla
base degli orientamenti comunitari;
- rapporti di valutazione di quanto realizzato mediante i NAP (analizzati durante il
europeo e al Comitato delle regioni, Bruxelles, 27.01.2005 COM(2005)14 def., {SEC(2005)69}.
20
Consiglio Europeo di Primavera, che si tiene con questo specifico scopo).
Sempre con l’intento di favorire il coordinamento delle azioni è stato attivato un
Comitato di protezione sociale come strumento di scambio cooperativo fra la
Commissione Europea e gli Stati membri. Nel dicembre 2005, la Commissione Europea
ha definito un nuovo quadro di riferimento per il metodo di coordinamento aperto in
materia di inclusione sociale (COM 706/2005) e ha posto all'attenzione degli Stati
membri la necessità di rivedere e perfezionare i sistemi di finanziamento delle politiche
sociali (SEC 1774/2005). Il 13 febbraio 2006 il Consiglio e la Commissione hanno
adottato "La relazione congiunta sulla protezione e l'inclusione sociale 2006", che
presenta i progressi raggiunti e le sfide future nel settore (COM 62/2006).
La Comunicazione della Commissione Europea al Consiglio Europeo (dicembre 2007)
propone una relazione strategica sulla strategia di Lisbona rinnovata per la crescita e
l'occupazione per il nuovo ciclo (2008-2010): “Stare al passo con i cambiamenti”,
COM(2007) 803 def. Di particolare importanza appare, all’interno di questo documento,
la sottolineatura dell’obiettivo di “ridurre i casi di abbandono scolastico precoce e
garantire che, nell'era della globalizzazione, nessuno sia lasciato indietro”. Tale
obiettivo nasce dalla presa d’atto dei risultati illustrati nel “Rapporto sulle politiche
contro la povertà e l’esclusione sociale 2005”, della “Commissione di indagine
sull’esclusione sociale”. In essa si afferma che il basso tasso di scolarizzazione
superiore
della
popolazione
giovanile,
per
i
fenomeni
della
dispersione
e
dell’abbandono scolastico, è una delle principali minacce di potenziale svantaggio per il
futuro.
Dopo un lungo percorso, iniziato come detto con il trattato di Amsterdam del 1997, la
Commissione concentra la sua attenzione nelle misure di lotta alla povertà e
all’esclusione sociale su due aspetti sintetizzati dall’obiettivo di “investire nelle persone
e modernizzare il mercato del lavoro”.
Tale obiettivo si articola in quattro grandi aree di intervento: la “flessicurezza”
(flexecurity), la lotta alla povertà tramite politiche di inclusione attive, gli investimenti
nella filiera istruzione e formazione, lo sviluppo delle competenze dei lavoratori. Per
ciascuna di queste aree di intervento sono state elaborate indicazioni operative per gli
stati membri quali ad esempio l’adozione entro la fine del 2008 di principi comuni
concordati in materia di "flessicurezza", definendo i rispettivi iter nazionali nel quadro
21
dei programmi nazionali di riforma, o l’elaborazione di piani d'azione per ridurre
sostanzialmente l'abbandono scolastico precoce e migliorare le capacità di lettura di
base.
1.2 Orientamenti nazionali verso nuove forme di welfare
In linea con quanto definito a livello europeo, nel 2003 il Governo ha predisposto un
Libro Bianco sul welfare. Tra le priorità fissate nel documento, vi erano servizi e
giustizia fiscale per le famiglie, sostegno alle povertà estreme, interventi a favore dei
non autosufficienti, maggior tutela e valutazione del mondo dell'handicap e avvio di
politiche che consentano di superare il problema demografico.
Sotto il profilo più specifico delle politiche occupazionali si possono distinguere tre
campi operativi legati all'inclusione sociale: strumenti di lotta all'esclusione sociale;
azioni orientate alla protezione sociale dei lavoratori; politiche dirette ad elevare il tasso
di occupazione regolare. Un ulteriore ambito di intervento è quello relativo alla
responsabilità sociale delle imprese, cioè l'integrazione su base volontaria, da parte
delle aziende, delle preoccupazioni sociali e ambientali nelle loro operazioni
commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate.
Più recentemente il Libro Verde del 2008 “La vita buona nella società attiva” sul futuro
del modello sociale riprende queste linee programmatiche e le esplicita in modo chiaro,
introducendo elementi nuovi e facendo prevedere un intervento del legislatore in
direzioni ben precise. I punti fondamentali sembrano essere: la centralità delle politiche
e delle azioni di workfare per superare una logica di semplice sostegno in direzione di
una logica di responsabilizzazione e pieno inserimento; un approccio multidimensionale
in cui si affrontano congiuntamente e in modo coerente problemi afferenti alla salute,
al lavoro, alla cura per l’infanzia e gli anziani, al benessere sociale; un approccio
orientato alla sussidiarietà orizzontale che favorisca e promuova le azioni del privato
sociale.
Un altro passaggio rilevante per l’impatto che genera sulle politiche sociali è la riforma
dell’articolo V della Costituzione. Esso assegna allo Stato la sola determinazione dei
Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) a garanzia della tutela dei diritti civili e sociali,
mentre alle Regioni sono assegnate le funzioni di regolazione, indirizzo e
22
programmazione del sistema di offerta di servizi erogati ai livelli locali (attraverso
progettazione partecipata nei Piani Locali di Zona, che tendenzialmente coincidono con
i distretti sanitari).
Alla stesura di documenti di natura strategico - prospettica quali possono essere
considerati i citati libro bianco e libro verde, si accompagnano documenti di
programmazione quali i piani sociali elaborati dal governo. Tra questi vale la pena
ricordare Il Piano Sociale Nazionale 2001-2003 e Il Piano Nazionale contro le Povertà e
l’Esclusione sociale 2003-2005.
Il Piano Sociale Nazionale 2001-2003 individuava cinque obiettivi prioritari:
-
valorizzare e sostenere le responsabilità familiari
-
rafforzare i diritti dei minori
-
potenziare gli interventi a contrasto delle povertà
-
sostenere con servizi domiciliari le persone non autosufficienti
-
perseguire l’inserimento degli immigrati, la prevenzione delle droghe, l’attenzione
agli adolescenti
Tale piano, nell’articolazione operativa delle politiche, assegna un ruolo importante alla
costruzione di reti (“mobilitare l’insieme degli attori”) e alle politiche attive del lavoro,
unitamente alle politiche di sviluppo locale e alle politiche formative, sottolineando un
approccio orientato alla sussidiarietà orizzontale e alla centralità del lavoro come
percorso di inclusione sociale.
Il Piano Nazionale contro le Povertà e l’Esclusione sociale 2003-2005, che fa seguito
alle importanti riforme in materia di lavoro (legge 30/2003) e del sistema di istruzione
e formazione (legge 53/2003), ne coglie gli importanti elementi di innovazione e
impatto sulle politiche sociali, in particolare per l’affermarsi di una strategia di “welfare
to work”. Il documento si concentra sulla centralità della famiglia, dà indicazioni
importanti sulle azioni per minori e immigrati, sottolinea il ruolo potenzialmente
fondamentale della diffusione di approcci di responsabilità sociale di impresa. Le
riforme citate inoltre, accolgono le indicazioni e le raccomandazioni comunitaria in
materia di flessicurezza, in particolare per le autorizzazioni ad operatori pubblici e
privati per attività di intermediazione al lavoro e ricollocazione, che hanno moltiplicato
sul territorio le offerte di orientamento, consulenza, assistenza all’inserimento
23
lavorativo.
Le indicazioni di policy contenute nei documenti citati sembrano concentrarsi su tre
macro aree di intervento:
-
sostegno economico e centralità della famiglia come istituto fondamentale per
prevenire fenomeni di esclusione e come cellula fondamentale per la crescita e lo
sviluppo;
-
potenziamento delle iniziative che favoriscono l’inserimento lavorativo, in tutte le
sue forme, a partire dalla filiera istruzione e formazione, in quanto il lavoro è
considerato come elemento fondamentale e centrale per la piena cittadinanza;
-
potenziamento delle iniziative che favoriscono la conciliazione tra tempi di lavoro e
tempi familiari, in particolare per tutelare la cura dei minori e degli anziani e dare
sostegno alle persone che se ne fanno carico;
-
creazione di un sistema integrato tra pubblico e privato per la programmazione e
l’attuazione delle politiche sociali.
Infine, merita fare un accenno la discussione in atto sul tema del federalismo. Se è
vero che al momento in cui questo volume va in stampa non si conoscono ancora con
esattezza le proposte che il Governo farà al Parlamento in tema di federalismo, é
altrettanto certo che laddove si proceda versa la strada del federalismo l’intero sistemo
di welfare muterà profondamente. Innanzitutto molte materie sulle quali oggi la
competenze è dello Stato in termini esclusivi o concorrenti passerà alle Regioni; ciò
implica che, fermi restando i livelli essenziali delle prestazioni, le modalità di risposta ai
bisogni saranno prevalentemente a titolarità e a carico dei soggetti territoriali.
Certamente, come è stato da più parti sottolineato si dovrà andare nella direzione di un
federalismo solidale capace di non penalizzare le aree del paese più in difficoltà e dove
spesso risiedono un numero considerevole di persone che vivono forme di povertà e di
esclusione sociale. Ma, ferma restando questa attenzione, un sistema federale potrà
portare a ridisegnare i sistemi di governance in modo da renderli più efficaci e puntuali
nelle risposte; il quadro dell’offerta di servizi, così come le caratteristiche del disagio,
sono ad esempio molto diversi nei singoli contesti territoriali e la possibilità di tener
conto delle peculiarità può essere decisiva. Inoltre qualsiasi forma assuma la riforma
federale essa avrà impatti rilevanti in termini fiscali, da cui conseguirà maggiore
24
discrezionalità circa la destinazione della spesa pubblica. Inoltre il federalismo potrebbe
riuscire a operare un cambiamento strutturale nelle modalità di assegnazione della
spesa pubblica, in modo che esso possa avvenire con gradualità diverse a seconda dei
contesti regionali. Un passaggio che potrebbe risultare decisivo è ad esempio quello
della valutazione dei servizi erogati secondo il criterio dello standard, in sostituzione di
quello spesso utilizzato del cosiddetto costo storico, cioè di quello che si è stratificato
nel tempo. Questo cambiamento potrà essere adottato e sperimentato in alcune realtà,
permettendo ad altre di adeguarvisi in un momento successivo.
25
2. Il QSN 2007 - 2013: azioni e interventi per l’inclusione
sociale
Gli orientamenti strategici della CE trovano la loro prima concretizzazione negli
strumenti di programmazione della politiche regionale comunitaria e, in particolare, in
quelli che attengono al Fondo Sociale Europeo.
L’analisi dell’esperienza del periodo di Programmazione 2000-2006, cui il QSN dedica i
capitoli introduttivi, ha individuato quale principale criticità, nell’ambito delle politiche
per l’inclusione sociale, la mancanza di una specifica strategia attuativa unitaria che ha
prevalentemente determinato come conseguenza, la scelta di privilegiare azioni di
intervento più tradizionali rispetto a quelle innovative inizialmente previste. Ciò è in
parte attribuito ai problemi relativi all’attuazione della politica nazionale secondo le
linee
della
legge
328/2000
che
ha
evidenziato
una
scarsa
capacità
delle
Amministrazioni Regionali (cui spetta l’esclusiva competenza legislativa) di attuare gli
interventi programmati.
La considerazione di carattere generale che viene formulata è che “... le politiche per
l’inclusione sociale richiedano una strategia più esplicita, legata all’attuazione della
politica nazionale, cui spetta non solo di garantire risorse adeguate per l’erogazione e
la copertura dei servizi, ma anche contribuire a chiarire i ruoli dei diversi livelli di
governance e degli attori coinvolti”5.
Le lezioni del passato periodo di programmazione che possono essere prese in
considerazione, sono state individuate nel QSN come segue:
- le opportunità di apprendimento e trasferimento di buone prassi e delle innovazioni
realizzate nella programmazione 2000-2006 sia dai programmi comunitari (come
quelli finanziati dai QCS in Obiettivo 1 e 3, ma anche da Equal), sia dalle prime
5
Quadro Strategico Nazionale 2007 – 2013.
26
esperienze dei Piani di Zona Sociale;
- la necessità di estendere queste esperienze per contrastare diverse forme di
marginalità e disagio, come l’immigrazione e, più in generale, le forme di
discriminazione legate alla nazionalità o all’origine etnica;
- la necessità di considerare esplicitamente il legame tra inclusione e disponibilità,
accessibilità e qualità di servizi (alla persona, di base per le popolazioni urbane e
rurali, per l’economia sociale).
In conclusione si afferma che, affinché l’integrazione tra politiche di inclusione sociale e
le politiche per lo sviluppo economico sia efficace anche sul piano operativo, è
necessario che l’inquadramento normativo e istituzionale sia sufficientemente
sviluppato e coerente. A questo fine, è essenziale, inoltre, come l’esperienza del QCS
2000-2006 segnala, che gli obiettivi e le priorità operative delle politiche di inclusione
sociale siano formulati in modo tale da integrare le finalità di inclusione sociale con
quelle più direttamente rivolte alla crescita.
I quattro macro obiettivi che la strategia del Quadro assume per il periodo 2007 -2013
sono quindi i seguenti:
a) sviluppare i circuiti della conoscenza;
b) accrescere la qualità della vita, la sicurezza e l’inclusione sociale nei territori;
c) potenziare le filiere produttive, i servizi e la concorrenza;
d) internazionalizzare e modernizzare l’economia, le società e le Amministrazioni – che
dovranno costituire il riferimento costante per: l’attuazione della politica regionale,
la scelta delle linee di intervento più adeguate ed efficaci, orientare e qualificare
l’azione della Pubblica Amministrazione, valutare, durante il percorso, la qualità e la
coerenza dell’azione pubblica.
Per il macro obiettivo b), in particolare, viene definita prioritaria la previsione di
interventi specifici di miglioramento dell’organizzazione e disponibilità e qualità dei
servizi sociali, nonché azioni di prevenzione e contrasto di fenomeni criminali (Priorità 4
“Inclusione sociale e servizi per la qualità e l’attrattività territoriale”).
Il QSN afferma inoltre che “... l’intervento riguarderà ovunque l’introduzione di pratiche
innovative di integrazione tra strumenti per l’inclusione sociale e i diritti di cittadinanza
e mirerà ad ottenere risultati più incisivi nelle aree più deboli in relazione alla maggiore
27
necessità di contrasto dell’esclusione sociale correlata alla pervasività di condizioni di
disagio economico”6.
Il Quadro Strategico Nazionale 2007 – 2013 precisa che le politiche relative
all’inclusione sociale e alla sicurezza contribuiscono in modo significativo all’obiettivo di
migliorare le condizioni di vita e l’accessibilità ai servizi e alle opportunità per tutti nei
territori, accrescendone l’attrattività e la competitività; per questo motivo è significativa
la
centralità
che
assume,
in
questo
modo,
la
figura
del
cittadino
come
beneficiario/utente dei servizi pubblici erogati e come sia decisivo il ruolo della Pubblica
Amministrazione dal momento che la promozione di una società inclusiva implica il
tema della correttezza, trasparenza, comprensibilità dell’azione amministrativa.
Parimenti, il QSN ribadisce, coerentemente con le indicazioni comunitarie, quanto sia
determinante il ruolo del partenariato economico e sociale, per il quale si chiede un più
ampio
coinvolgimento
per
l’intero
ciclo
della
programmazione/attuazione,
accompagnato da una sua maggiore responsabilizzazione.
Nel QSN si specifica che l’obiettivo viene perseguito attraverso due livelli di intervento:
a) le politiche rivolte alle persone e alle imprese, la cui centralità nei programmi e nei
progetti deve essere assicurata con il loro pieno coinvolgimento nella ricostruzione
condivisa dei reali fabbisogni e nella definizione di obiettivi e di progetti;
b) le azioni di sistema, ovvero le politiche strumentali rivolte al consolidamento del
sistema dei servizi (infrastrutture materiali e immateriali e reti di attori presenti sul
territorio, definizione e sperimentazione di standard di servizio, di professioni
sociali, di profilo di cittadinanza sociale, di azioni informative e di orientamento,
sensibilizzazione, rafforzamento della legalità, supporto ai processi di sviluppo di
reti).
È importante dare rilievo al fatto che nel QSN si afferma: “… è nell’orientamento al
miglioramento dei servizi pubblici per la collettività e per il singolo che si specifica
anche operativamente il legame funzionale tra welfare e sicurezza, particolarmente
evidente in taluni ambiti come l’immigrazione, la dispersione scolastica, le politiche per
6
Quadro Strategico Nazionale 2007 – 2013.
28
i giovani, la tutela dell’ambiente, l’assetto del territorio, ecc.” e che: “… la
combinazione tra le politiche ad esplicita finalità inclusiva e quelle relative in particolare
alla disponibilità e accessibilità dei servizi, è necessaria per massimizzare l’impatto in
termini di inclusione sociale”.
L’obiettivo “generale” della Priorità 4 del QSN “Promuovere una società inclusiva e
garantire condizioni di sicurezza al fine di migliorare in modo permanente, le condizioni
di contesto che più direttamente favoriscono lo sviluppo”, individua quali destinatari
primari delle azioni i segmenti più fragili della società: donne, i bambini e i giovani,
persone diversamente abili, le persone non autosufficienti, le persone in condizioni di
povertà.
Gli ambiti territoriali di riferimento, si precisa, sono rappresentati da aree urbane
degradate e aree marginali e saranno individuati “... in funzione della concentrazione
dei problemi di marginalità, esclusione e sicurezza”.
Tale obiettivo generale si articola in due obiettivi “specifici”:
4.1
valorizzare il capitale sociale sottoutilizzato nelle aree urbane e rurali, attraverso
il miglioramento della qualità e accessibilità dei servizi di protezione sociale, di
cura e di conciliazione e dei sistemi di formazione e di apprendimento, con
particolare attenzione alle pari opportunità e alle azioni di anti-discriminazione;
4.2
garantire migliori condizioni di sicurezza a cittadini e imprese contribuendo alla
riqualificazione dei contesti caratterizzati da maggiore pervasività e rilevanza dei
fenomeni criminali.
Soprattutto in relazione all’obiettivo specifico 4.1., il QSN fornisce indicazioni di grande
interesse per indirizzare la programmazione del periodo 2007 – 2013 con riferimento
alle azioni di contrasto all’esclusione sociale e alle cause generalmente responsabili di
situazioni di povertà.
Dall’analisi del periodo di programmazione 2000-2006, scaturiscono significative
considerazioni relative alle criticità emerse; in particolare quelle, già accennate,
connesse alla scarsa integrazione della programmazione comunitaria e nazionale e la
scarsa capacità di promuovere interventi innovativi (l’attuazione delle politiche di
inclusione sociale nel periodo 2000-2006 si è tradotta prevalentemente in attività di
tipo formativo).
29
Considerato quanto sopra sinteticamente riportato, il QSN traccia gli indirizzi di
programmazione operativa per l’inclusione sociale secondo le “linee” che seguono:
a) l’inclusione sociale non può essere affidata a singoli interventi settoriali, ma deve
essere il frutto di una strategia, attuata con progetti integrati che abbiano al centro
il cittadino beneficiario di pacchetti di servizi (sociali, sociosanitari, socioeducativi,
socioassistenziali, di inserimento lavorativo e di contrasto ai fenomeni di violenza,
ecc.), favorendone la responsabilizzazione, nell’esercizio dei propri diritti, e
promuovendone la capacità di pressione, allo scopo di configurare un sistema,
territorialmente omogeneo, di cittadinanza sociale. Particolare attenzione sarà
rivolta alla definizione di percorsi integrati a sostegno dell’inserimento lavorativo di
soggetti
svantaggiati.
Va
pertanto
esteso
l’utilizzo
degli
strumenti
di
programmazione integrata, raccordando i vari livelli di governo coinvolti, le diverse
fonti finanziarie e i diversi strumenti. È quanto segnala anche l’esperienza,
attraverso le azioni sperimentate a livello locale con gli Accordi di Programma
Quadro. Vanno individuati sistemi di incentivi e modelli di relazioni istituzionali
diretti a integrare e rafforzare le risposte dei servizi sociali, socioeducativi, sanitari e
delle politiche del lavoro, tenendo conto delle diverse tipologie di servizio (ad es.
servizi sociali e servizi per l’impiego). La programmazione, inoltre, deve assumere
una forte connotazione territoriale e coinvolgere il più possibile i soggetti locali e i
destinatari degli interventi, per adattarsi al meglio alle esigenze concrete e
ottimizzare gli effetti delle risorse aggiuntive sulla base delle specifiche peculiarità e
criticità dei territori. Nelle aree rurali e montane, l’individuazione di servizi minimi o
il miglioramento di quelli esistenti e l’individuazione di modalità specifiche di offerta
degli stessi, può essere determinante per la valorizzazione delle opportunità di
sviluppo;
b) per rafforzare il ruolo del partenariato, soprattutto a livello locale, vanno adottati
anche in fase di attuazione degli interventi, le forme di scambio di informazioni, gli
spazi di confronto e riflessione già sperimentati in fase di programmazione,
allargandoli a tutti i soggetti portatori di interessi, garantendo parità di condizioni a
tutti i soggetti, pubblici e privati, e piena trasparenza. In particolare, va sostenuto il
ruolo del terzo settore e delle imprese sociali, a partire dall’implementazione degli
istituti e dei dispositivi previsti dal Decreto legislativo n.155/2006. A tal fine,
andranno istituzionalizzate, soprattutto a livello locale, le soluzioni sperimentate con
30
successo nella programmazione 2000-2006;
c) la capacità delle amministrazioni di assicurare certezza nei tempi, trasparenza nei
criteri di decisione, accessibilità e chiarezza di procedure e di informazioni deve
essere migliorata notevolmente, mediante il rafforzamento delle competenze nel
governo di sistemi complessi e nella organizzazione di azioni di supporto ai Comuni,
anche per la gestione associata dei servizi, e alle Province nella programmazione e
attuazione di azioni a sostegno della pianificazione sociale di zona;
d) per migliorare l’inserimento e il reinserimento lavorativo dei gruppi svantaggiati
occorre sviluppare percorsi di integrazione e definire piani di azione, anche
personalizzati, assicurando nel contempo la cooperazione tra servizi per l’impiego,
servizi socioassistenziali e sistema delle imprese, ivi comprese le imprese sociali. E’
necessario non solo rendere i mercati del lavoro realmente inclusivi, ma anche
contrastare ogni forma di discriminazione sul lavoro.
Un’altra importante raccomandazione contenuta nel QSN, riguarda la formazione e
l’apprendimento permanente che “... devono porsi dal punto di vista dei destinatari e
quindi cogliere gli specifici fabbisogni dei soggetti svantaggiati, costruendo percorsi di
accompagnamento all’inserimento lavorativo, anche in collegamento con i dispositivi di
sostegno al reddito e di contrasto alla povertà”. In particolare, l’apprendimento
permanente deve coinvolgere innanzitutto la popolazione scarsamente scolarizzata.
È anche necessario “tenere conto sia dei percorsi di educazione informale, sia della
previsione di percorsi riservati per adulti e migranti, nonché garantire che non vi siano
barriere all’accesso di sistemi formativi e di apprendimento”.
Con riferimento specifico alla popolazione immigrata, il QSN stabilisce che la politica
regionale unitaria contribuisca “…. all’azione della politica ordinaria rafforzando i servizi
socio-sanitari, le azioni di sensibilizzazione per favorire la partecipazione degli immigrati
al sistema dell’istruzione, della formazione e del lavoro, sulla base del monitoraggio dei
fabbisogni; incentivando percorsi integrati di accompagnamento che includano la
dimensione formativa, linguistica e professionale, familiare, sociale e culturale con il
coinvolgimento di una pluralità di attori; promuovendo l’impiego di sistemi informativi
per un migliore incontro tra domanda e offerta di lavoro”.
31
3. Il P.O. FSE 2007-2013 della Regione Lazio per il contrasto
delle povertà
3.1 Le scelte di fondo del P.O. Lazio
Il Programma Operativo della Regione Lazio, coerentemente con la priorità 4 del QSN
“Inclusione sociale e servizi per la qualità della vita e l’attrattività territoriale”,
acquisisce il punto di vista della promozione di una società inclusiva come elemento
qualificante l’intera azione di policy.
In altri termini si impegna a promuovere l’effettiva capacità di partecipazione attiva di
tutta la popolazione laziale, al fine di incrementare altresì il potenziale di sviluppo delle
politiche di inclusione sociale, il che coincide con l’Obiettivo del QSN 4.1 “Promuovere
una società inclusiva e garantire condizioni di sicurezza al fine di migliorare, in modo
permanente, le condizioni di contesto che più direttamente favoriscono lo sviluppo”.
Come specificato nel P.O., la strategia di sviluppo regionale delineata nel programma
opera tenendo conto di quanto definito nell’ambito del Documento Strategico
Regionale preliminare (DSR) su politiche di riequilibrio volte a promuovere non solo
“più occupazione” ma anche “buona occupazione”, contrastando così condizioni di
insufficiente sicurezza e precarietà che negli ultimi anni si sono manifestate in maniera
sempre più marcata nei rapporti di lavoro, soprattutto dei giovani, delle donne e della
popolazione immigrata. Un’attenzione che comporta una forte integrazione con le
politiche dello sviluppo locale, dell’istruzione, della formazione e del welfare per
tutelare adeguatamente le componenti più deboli del mercato del lavoro, in particolare
di quelle che incontrano maggiori difficoltà nel trovare e conservare una buona
occupazione.
L’integrazione delle politiche per il lavoro rappresenta per il P.O. del Lazio “il principale
terreno d’impegno”. Le aree di priorità individuate mettono in evidenza tale impegno
soprattutto con riferimento agli interventi per l’inclusione sociale.
Sono rafforzate le misure dirette a favorire l’avviamento al lavoro e l’inclusione delle
32
componenti più deboli del mercato del lavoro (tra i quali disoccupati di lungo periodo,
donne immigrati, disabili), attraverso il sostegno di interventi che favoriscono:
a) l’integrazione tra sistema formativo, sistema dell’istruzione e quello del lavoro in
modo da rendere più rapido l’acceso al mondo del lavoro;
b) la realizzazione di azioni innovative -quali ad esempio la promozione di partnership
e reti per la sperimentazione di più efficaci modelli di intervento per l’attivazione
lavorativa dei soggetti svantaggiati (quali i disabili);
c) l’accesso al mercato del lavoro delle componenti più deboli quali le donne, i giovani,
i disoccupati di lunga durata, i lavoratori inoccupati più che cinquantenni, gli
immigrati e, in generale, tutti quelli che presentano un livello medio basso di
istruzione e competenze professionali;
d) il sostegno nella ricerca di occupazione a segmenti della forza lavoro, che pur in
possesso di titoli di istruzione medio alti ma a carattere generale, incontrano molte
difficoltà a trovare un inserimento lavorativo di qualità coerente con il titolo di
studio posseduto. Una condizione che appare colpire soprattutto le giovani donne
laureate.
Sono
attuati
interventi
volti
a
favorire
l’adattabilità
e
la
flessibilizzazione
dell’occupazione accompagnandoli con la contestuale promozione della qualità dei posti
di lavoro, anche attraverso politiche attive del lavoro e di welfare finalizzate a tutelare i
lavoratori atipici, combattere il lavoro precario, introdurre forme di sostegno al reddito
e contrastare il lavoro irregolare.
Per quanto riguarda l’area di priorità finalizzata a rafforzare l’inclusione sociale
attraverso il lavoro, il P.O. prevede misure a sostegno dell’inclusione sociale fortemente
integrate con le politiche in materia di formazione e del lavoro e con l’impegno del
Terzo Settore.
Tra le priorità di intervento, da implementare anche in maniera trasversale al
programma, si annoverano: il rafforzamento, attraverso la formazione e il supporto
all’innovazione organizzativa e tecnologica, delle strutture del privato sociale impegnate
nella gestione di servizi sociali per le persone e per le famiglie in condizioni di disagio; il
miglioramento, sempre operando con la formazione e gli altri strumenti attivabili
attraverso il FSE, della qualità dei servizi socio assistenziali; lo sviluppo di azioni
33
integrate tra formazione, scuola e lavoro per favorire, attraverso l’occupazione,
l’inserimento sociale della popolazione in condizione di svantaggio, con un riferimento
specifico ai disabili e agli immigrati. Gli obiettivi del FSE sono perseguiti nel quadro
dello sviluppo sostenibile, della promozione della tutela e del miglioramento
dell’ambiente, conformemente all’art. 6 del Trattato. In coerenza con tale approccio, il
Programma Operativo intende quindi agire sulla dimensione sociale dello sviluppo
sostenibile, prevedendo misure di intervento a favore di particolari categorie di persone
più esposte al rischio di esclusione sociale ed economica. Le politiche per l’occupazione
effettivamente non possono prescindere da un’integrazione con le politiche per lo
sviluppo e la competitività, anche promuovendo nuove aree di intervento che
privilegino interventi a basso impatto ambientale e valorizzino forme di economia
solidale.
A completamento di quanto sopra esposto, si riportano gli obiettivi operativi previsti dal
P.O. all’Asse III – Inclusione sociale:
-
Sostenere l’integrazione socio-lavorativa della popolazione in condizione di
svantaggio anche attraverso l’offerta di forme di microcredito;
-
Contribuire a sviluppare e/o consolidare iniziative di comunità locali per l’inclusione;
-
Operare per contrastare e prevenire nuove forme di marginalità sociale;
-
Sostenere i soggetti più deboli, attraverso azioni formative, anche tramite incentivi
e/o personalizzazioni didattiche, per consentire loro il miglioramento delle
competenze e il raggiungimento di titoli che ne possano favorire l‘inserimento
lavorativo.
Attraverso gli interventi programmati nell’Asse III, la Regione Lazio, come specificato
nel Programma, intende rimarcare l’impegno del FSE per le pari opportunità per tutti e
per il rafforzamento della coesione sociale ma anche contrastare il fenomeno
dell’ampliamento della fascia di soggetti al di sotto o prossimi alla soglia di povertà.
Costituiscono quindi campi di intervento rilevanti: l’immigrazione, la disabilità, la
tossicodipendenza e l’alcolismo, il recupero dei detenuti e di chi è uscito da un periodo
di detenzione, i giovani di aree urbane e/o di famiglie particolarmente disagiate a
rischio di marginalità e devianza, cioè tutti ambiti di svantaggio che, se non governati,
possono accentuare differenze etniche e culturali ed alimentare differenze di
cittadinanza e senso di appartenenza. Si tratta di problematiche complesse rispetto alle
34
quali appare necessario connotare, le diverse iniziative da attivare, di un denominatore
comune nelle modalità di intervento: quello dell’integrazione tra politiche sociali e della
salute con quelle del lavoro, della formazione, della casa e scolastiche. Per tale
ragione,
oltre
ad
interventi
specifici
miranti
all’inserimento
e
reinserimento
occupazionale dei soggetti appartenenti ai target di riferimento suddetti, attraverso gli
interventi di questo Asse ci si attende lo sviluppo e il rafforzamento dei servizi alla
persona, sia in quanto strumenti a supporto dei soggetti a maggior rischio di esclusione
sia in quanto bacino occupazionale nel quale potrebbero essere inseriti gli stessi
soggetti in condizione di svantaggio.
3.2 La necessità di un’integrazione delle politiche
Quanto
illustrato
nei
paragrafi
precedenti
documenta
come
il
processo
di
programmazione strategica che si declina e si concretizza dal livello comunitario a
quello nazionale e regionale sia informato ad alcuni fattori ricorrenti:
a) il problema delle nuove povertà è ascrivibile ad una pluralità di cause (non più solo
limitatezza economica, ma anche carenze culturali, ambientali, educative, …)
b) si esplicita in aspetti fenomenici diversificati, ma che sono sintetizzabili,
innanzitutto, in forme di esclusione/emarginazione sociale
c) investe tipologie di persone diverse, che cioè portano, in base alle diverse
caratterizzazioni, fabbisogni specifici diversi per natura ed intensità (migranti,
giovani espulsi dal sistema scolastico, adulti dequalificati, …).
La complessità che deriva dall’intreccio di queste variabili può peraltro trovare risposta
solo attraverso la promozione di politiche e di azioni che siano tra loro fortemente
integrate. Anche su questo vi è la massima coerenza tra il livello strategico comunitario
e quello regionale.
Il primo ambito di integrazione è quello dei soggetti, tanto in una dimensione verticale
di sussidiarietà, in cui gli attori istituzionali, le parti sociali ed il privato interagiscono
condividendo, nelle specificità, una corresponsabilità sistemica, quanto in una
dimensione orizzontale, in cui i diversi servizi e le diverse filiere (servizi sociali, sanità,
istruzione e formazione, politiche del lavoro, …) armonizzano e coordinano la loro
azione in funzione di un approccio olistico al bisogno della singola persona.
35
La centralità della persona si esprime anche a livello di integrazione degli strumenti: in
questo senso va letto l’orientamento, che sempre più si sta diffondendo ai diversi livelli
e nei diversi ambiti, verso una modalità di erogazione dei servizi basata su modelli a
“voucher” o ticket.
La possibilità di consolidare e concretizzare questa aspirazione all’integrazione delle
politiche, dei soggetti e degli strumenti presuppone la disponibilità di una conoscenza
completa, condivisa e diffusa a disposizione dei diversi soggetti (istituzioni, operatori,
utenti). La precisa conoscenza dei fenomeni, tanto nelle loro dinamiche generali quanto
nelle loro caratterizzazioni specifiche è condizione indispensabile per la messa in campo
di azioni efficaci di risposta.
Proprio in funzione di una risposta puntuale a questa esigenza nella quarta parte del
volume
vengono approfondite le analisi e le considerazioni relative al percorso di
costruzione di un Osservatorio dedicato alla lettura del fenomeno delle nuove povertà.
Quanto sinora illustrato evidenzia ancora un ulteriore elemento di riflessione: la
possibilità di rispondere in maniera organica ed adeguata al fenomeno delle nuove
povertà nelle sue diverse espressioni non è limitata alla semplice messa in atto di
interventi rivolti alle persone; quello che è indispensabile, innanzitutto, è un
significativo intervento di sistema, finalizzato a far evolvere il modelli organizzativi di
programmazione ed attuazione delle politiche, a sviluppare gli strumenti di governo e
di azione, ad accrescere una cultura ed una conoscenza diffusa in materia.
Da questo punto di vista lo strumento finanziario del FSE, il cui nuovo settennio di
programmazione è appena iniziato, rappresenta una importante occasione per
integrare le dotazioni ordinarie del bilancio nazionale e regionale con risorse che, come
abbiamo visto, sono state vocazionalmente dedicate proprio alla costruzione di un
nuovo sistema integrato di politiche di inclusione sociale e di lotta alle diverse cause di
emarginazione, cioè di nuova povertà.
36
4. La legislazione sul non profit in Italia
4.1 La necessità di un ripensamento
L’analisi del fenomeno della povertà, sia esso inteso nella sua forma tradizionale e più
nota, sia studiato nelle diverse e nuove accezioni che tende ad assumere, è
strettamente interconnesso all’offerta di servizi erogati dai soggetti che hanno come
loro “mission” la risposta ai bisogni di questa tipologia di persone. Tra questi soggetti vi
è una forte prevalenza di coloro che rientrano nel variegato mondo del c.d. non profit.
E’ questo il motivo che ci spinge in questa ricerca a fare un affondo sulla legislazione
che afferisce al non profit, in quanto sia l’analisi teorica, sia le numerose evidenze
empiriche, mostrano che i limiti di tale legislazione spesso inficiano la possibilità di una
risposta adeguata ai bisogni emergenti. La revisione degli aspetti connessi alle forme
societarie e alla fiscalità di questi soggetti è inoltre resa ancora più urgente dalla
necessità di un ripensamento generale del sistema di welfare.
Necessità che anche recentemente è stata presa in considerazione dal “libro verde”,
pubblicato nel mese di Luglio 2008 dal Ministro del Lavoro Sacconi7; esso sembra
prefigurare un sistema di welfare che scommette su una virtuosa alleanza tra mercato
e solidarietà, nel quale operatori “indifferentemente pubblici o privati” si troveranno a
realizzare servizi “in ragione di precisi standard di qualità ed efficienza coerenti in tutto
il territorio nazionale”.
Il libro verde afferma altresì che “mentre il vecchio welfare si è concentrato con
maggiore o minore successo, e con una certa dose di paternalismo, su singoli bisogni e
su specifiche situazioni di disagio o debolezza, un moderno welfare deve essere capace
di fornire una risposta globale ai diversi bisogni della persona”.
Si prospetta, pertanto una età adulta del welfare italiano; età che vede soggetti –
7
(Libro Verde sul futuro del modello sociale – 25 Luglio 2008 – pagina 16).
37
indifferentemente pubblici e privati – concorrere alla realizzazione di servizi di pubblica
utilità, fornendo “una risposta globale ai diversi bisogni della persona”.
Da sempre il privato sociale in Italia fornisce i suddetti servizi di pubblica utilità. Da
sempre gli enti del privato sociale hanno operato e operano esprimendo una libera
risposta ai bisogni delle comunità, mossi da finalità diverse dalla remunerazione dei
capitali investiti, finalità che generano da sempre culture organizzative, modalità
operative e assetti di governance dinamici ed originali.
Il privato sociale nel nostro Paese ha sempre operato attraverso strutture senza scopo
di lucro, diverse per forma, settore di attività, dimensione e storia, ma accomunate da
alcune caratteristiche:
a) la libertà: sempre sono nate sulla scia di un impeto ideale, hanno modificato il loro
assetto in risposta ai bisogni incontrati, hanno mal tollerato imposizioni e sospetti,
preferendo spesso la libertà e l’autonomia alle agevolazioni che presupponevano
controlli e limitazioni dall’esterno;
b) la capillarità: dalla lettura dei dati Istat relativi alla diffusione delle organizzazioni
non profit in Italia emergono la onnipresenza territoriale e l’ampiezza settoriale del
fenomeno, che fa pensare ad una rete le cui maglie abbracciano tutto il paese e
ogni area di bisogno della comunità, promuovendone nello stesso tempo la crescita
e lo sviluppo;
c) la funzione sociale: la storia del paese racconta di organizzazioni che nei secoli
sono nate, cresciute, modificate, morte, anzitutto grazie alla propria capacità di
interpretare il bisogno della comunità, di generare equità, redistribuzione,
solidarietà. L’utilità sociale da esse continuamente reinterpretata nel tempo e nei
luoghi ha permesso ad alcune di sopravvivere anche a legislazioni palesemente
avverse, ad abrogazioni, a discriminazioni. Oggi esse costituiscono un sostegno
imprescindibile di tenuta sociale, di riequilibrio sociale, di azione di promozione
delle culture e dei diritti.
Alcune organizzazioni non profit hanno raggiunto dimensioni rilevanti assumendo forme
e compiti che anche la recente normativa ha inteso ricondurre ai canoni civilistici
dell’attività di impresa e in quelli tributari dell’attività commerciale. E’ indubbio che in
queste organizzazioni è presente la continuità, la complessità e la professionalità
tipiche dell’agire imprenditoriale, tuttavia se di impresa si tratta, è però necessario
38
assumere categorie di giudizio che ne misurino attentamente la capacità di assunzione
di rischio sociale, la peculiarità finalistica e l’insieme di altre caratteristiche (capitale
umano, azione volontaria, reinvestimento degli utili, l’utilità sociale), che ne fanno
qualcosa di profondamente diverso dall’impresa tradizionale, una diversità che va
innanzitutto attentamente osservata, e quindi compresa, e riconosciuta e, per quanto,
possibile promossa e diffusa.
Da sempre, però, gli enti non profit agiscono in assenza di un quadro normativo chiaro
ed adeguato all’importante mission che essi perseguono ed attuano. È pertanto giunto
il momento che si metta mano alle disposizioni in materia di enti non profit,
semplificandole, riordinandole e rendendole funzionali allo sviluppo di questi indiscussi
protagonisti del nostro sistema di welfare.
Di seguito, quindi, analizzeremo l’attuale quadro normativo, soffermandoci sui punti
critici ed identificando proposte di modifica dello stesso.
4.2 Il quadro normativo attuale
La disciplina del non profit italiana è molto complessa e risente di “aggiustamenti
progressivi” – introdotti soprattutto dalle norme “speciali” che disciplinano particolari
categorie di enti – che tuttavia non risultano aver sufficientemente adeguato la
normativa alla reale entità e natura del fenomeno.
Il codice civile, che a parte poche modifiche è - relativamente a tali enti - immutato dal
1942, ancora prevede una rigida distinzione netta tra “tra enti del libro I […omissis…]
senza fini di lucro e destinati al perseguimento di finalità etiche e/o ideali ed enti del
libro V […omissis…] finalizzati invece alla produzione in funzione meramente lucrativa o
di mutualità interna di beni e servizi8”
Dal punto di vista fiscale, occorre ricordare che la categoria tributaria di ente non
commerciale non corrisponde alla categoria civilistica degli enti senza scopo di lucro.
Pur essendo l’appartenenza alla categoria soggettiva degli enti senza scopo di lucro –
8
Relazione al disegno di legge sull’Impresa Sociale.
39
associazioni, fondazioni e comitati, oltre ai consorzi privi di attività esterna – condizione
necessaria affinché l’ente possa qualificarsi ente non commerciale dal punto di vista
tributario, essa non è però è condizione sufficiente: mentre ciò che rileva nell’ambito
civilistico è la finalità dell’ente preso in considerazione, in quello tributario un peso
significativo è dato all’attività effettivamente svolta.
Infatti, l’articolo 73 del TUIR definisce gli enti non commerciali “gli enti pubblici e
privati diversi dalle società, nonché i trust residenti nel territorio dello Stato, che non
hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali”, dove tale
oggetto “è determinato in base alla legge, all’atto costitutivo o allo statuto se esistente
in forma di atto pubblico, scrittura privata autenticata o registrata. Per oggetto
principale s’intende l’attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari
indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto”.
Tale attività essenziale al raggiungimento dello scopo non deve essere commerciale,
pertanto oltre a non dover rientrare tra quelle previste dall’articolo 1295 del codice
civile, ai sensi dell’articolo 55 del TUIR non deve neppure consistere nell’esercizio di
attività “in forma di impresa”.
L’interpretazione rigida della norma ha in molti casi portato all’esclusione dalla
categoria degli enti non commerciali di enti senza scopo di lucro dotati di struttura
organizzata9.
Si tenga altresì in considerazione che l’articolo 149 del TUIR, nel disciplinare la
possibilità che l’ente perda la qualifica di ente non commerciale, elenca una serie di
parametri quantitativi, che di fatto rendono ininfluente – al fine della perdita della
qualifica – la finalità dell’ente.
Naturalmente i problemi fiscali degli enti senza scopo di lucro non si esauriscono nella
incoerenza della definizione di ente non commerciale.
Si pensi, ad esempio, alla disciplina della deducibilità delle erogazioni liberali che vede,
tra gli altri, problemi di mancato raccordo tra la disciplina IVA e quella IRES per le
donazioni in natura (cfr DL 35/05 articolo 14), discipline diverse che si sovrappongono,
9
Si veda Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n.70 del 4 marzo 2002.
40
soggetti meritori che non godono della deducibilità di erogazioni liberali solo perché
non iscritti a nessun albo o elenco.
Nel panorama legislativo hanno assunto una importanza crescente le cosiddette
“categorie speciali di non profit”, tra le quali primeggia la disciplina delle ONLUS.
Il D.Lgs 460/97 ha introdotto nel nostro ordinamento la categoria “tributaria ma non
solo” delle ONLUS. A fronte dell’ottenimento della qualifica, gli enti accedono alla
decommercializzazione dell’attività istituzionale e non imponibilità dei redditi derivanti
da quelle connesse; in molte regioni a riduzioni / esenzioni da IRAP; alla possibilità di
ricevere il cinque per mille dell’IRPEF; a un regime di deducibilità delle erogazioni
liberali facilitante il reperimento di fondi da privati; ad agevolazioni importanti in
materia di imposte di bollo e di registro e a molte altre.
I problemi – importanti – legati a questa disciplina riguardano sia la definizione delle
attività (in molti casi lasciata in balia di interpretazioni arbitrarie dell’Agenzia delle
Entrate10) sia al “doppio binario” delle stesse: alcune categorie, infatti, per qualificare
l’ente in ONLUS richiedono che i beneficiari dell’attività siano soggetti svantaggiati;
altre categorie di attività, invece, qualificano l’ente in ONLUS qualsiasi sia il
destinatario.
Della prima categoria fanno parte scuole e ospedali, che di fatto non possono
beneficiare della categoria di ONLUS. Infatti, è difficile pensare una scuola – che non
sia un ghetto – che si rivolga in forte prevalenza a studenti svantaggiati. Per quanto
riguarda gli ospedali, la CM 168/98 richiede che il soggetto svantaggiato sia affetto da
“menomazioni non temporanee”, pertanto la gran parte degli ospedali – la cui mission
è rendere il più possibile temporanee le menomazioni – sono esclusi dalla categoria
delle ONLUS.
Esistono poi molte “categorie speciali” di non profit: le organizzazioni di volontariato
(L.266/91), le associazioni di promozione sociale (L.383/00), le associazioni sportive
dilettantistiche, le organizzazioni non governative (L.49/87) e – finalmente – l’impresa
sociale, seppur quest’ultima categoria sia fortemente penalizzata anche dalla totale
10
Ad esempio RM 189/E dell’11.12.00.
41
mancanza di qualsivoglia agevolazione in suo favore.
Volendo elencare sommariamente i principali aspetti critici dell’attuale quadro
normativo, ne abbiamo identificati alcuni:
a)
È una disciplina disorganica. La disciplina del non profit è eccessivamente
complessa e manca di organicità. Le diverse categorie spesso non sono ben
definite (esempio: la legge sulle organizzazioni di volontariato e quella
sull’associazionismo di promozione sociale sono in ottima parte sovrapponibili); ci
sono incongruenze di cui non sono chiare le ragioni (una associazione di
promozione sociale iscritta al solo registro regionale può essere destinataria del
cinque per mille ma non di erogazioni liberali deducibili ai sensi della “più dai
meno versi”, per accedere alla quale occorre essere associazione iscritta al
registro nazionale. Una organizzazione di volontariato iscritta al registro regionale
è, invece, destinataria di entrambe le agevolazioni).
b)
Le diverse categorie sono rigide, non dialogano tra di loro e spesso permettono
agli enti lo svolgimento di attività limitate. Un esempio lampante è costituito dalla
possibilità di destinazione dei patrimoni in caso di scioglimento: le ONLUS possono
destinare il patrimonio solo “ad altra ONLUS”; le organizzazioni di volontariato –
pur essendo ONLUS di diritto – a categorie ancora più limitate, cioè ad altre
organizzazioni di volontariato “operanti in identico o analogo settore”. Ciò sta a
significare che una organizzazione di volontariato deve rimanere tale per sempre,
non essendo prevista la possibilità di “trasformazione” in ONLUS, o in altro
soggetto senza scopo di lucro. Questo approccio normativo crea categorie rigide
ed impedisce agli imprenditori sociali di interrogarsi liberamente su quale sia la
forma più adeguata a rispondere alle sempre nuove istanze che la società pone.
c)
È una disciplina eccessivamente complessa. Gli esempi in tal senso sono
innumerevoli. Ne riportiamo solo due, ma molto significativi. Si pensi che un ente
– anche di dimensioni minime – che riceve erogazioni liberali deducibili ai sensi
della legge “più dai meno versi” deve tenere la contabilità ordinaria e relazionare
in sede di bilancio di esercizio. Se lo scopo è quello di verificare l’effettiva
ricezione dell’erogazione liberale basterebbe – in caso di controllo – esibire un
documento contabile della banca; inoltre, al fine di poter accedere allo status di
impresa sociale, un ente – a fronte di NESSUNA agevolazione – deve redigere un
42
bilancio sociale dettagliatissimo, nel quale – tra le altre innumerevoli informazioni
– viene richiesto che si effettui la valutazione dei risultati conseguiti, coinvolgendo
in tale valutazione i beneficiari – diretti e indiretti – delle attività.
d)
Valorizza gli enti che dipendono economicamente dall’ente pubblico. Un esempio
di ciò è rinvenibile nella determinazione del reddito imponibile di un ente non
commerciale: non concorrono alla formazione del reddito di un ente non
commerciale i contributi corrisposti dall’ente pubblico in regime di accreditamento
di cui all’articolo 8, comma 7, del D.Lgs 502/92, anche se tali contributi hanno
natura di corrispettivi. Se invece le medesime prestazioni sono pagate da un
privato, il corrispettivo costituisce reddito11. Un altro esempio è relativo alla
possibilità di un ente gestore di una casa di riposo di assumere la qualifica di
ONLUS: nel caso in cui le sue entrate siano costituite principalmente da contributi
pubblici può costituirsi ONLUS. Se le entrate derivano da corrispettivi pagati
prevalentemente da privati, no12. Per non parlare del generale utilizzo delle
organizzazioni di volontariato come subfornitori a basso prezzo di servizi pubblici,
alle quali vengono richieste prestazioni professionali che mal si coniugano con lo
status di volontari (che dunque agiscono in modo “libero, spontaneo e gratuito”)
dei soggetti che effettuano il servizio.
e)
La disciplina della deducibilità delle erogazioni liberali non incentiva la donazione.
Infatti, una congrua deducibilità delle erogazioni liberali è limitata ad alcune
categorie di enti (le solite ONLUS e APS), mentre sono estremamente limitate o
nulle per la maggior parte degli enti non profit. Basti pensare al fatto che la
disciplina dell’impresa sociale non prevede alcuna forma di agevolazione. Il
provvedimento che disciplina l’impresa sociale nasce dalla preoccupazione del
legislatore di riconoscere quei soggetti che non sono riconducibili al Libro V del
codice civile (non hanno quale scopo la distribuzione di utili), né tantomeno al
libro I come attualmente formulato (svolgono attività di impresa). Infatti, la
Relazione al Disegno di Legge sottolineava come “ancora oggi tutta la disciplina
11
12
Articolo 143, comma 2, lettera b), TUIR.
CM 48/2004.
43
degli enti privati rimane circoscritta entro la rigida distinzione tracciata dal codice
civile del 1942 tra enti del libro I […omissis…] senza fini di lucro e destinati al
perseguimento di finalità etiche e/o ideali ed enti del libro V […omissis…]
finalizzati invece alla produzione in funzione meramente lucrativa o di mutualità
interna di beni e servizi”. Sempre dalla lettura della Relazione si evince che le
disposizioni “mirano a fornire in primo luogo una definizione unitaria di impresa
sociale trasversalmente applicabile ad enti del libro I e del libro V del codice
civile”. Secondo il legislatore, la necessità di una disciplina “trasversale” sorge
dall’evoluzione del nostro contesto economico e sociale, che vede organizzazioni
non profit accrescere progressivamente “la propria soggettualità in seno al nostro
sistema del welfare che, proprio a queste, ha spesso delegato, sotto diverse forme
gestionali, la produzione e l’erogazione di servizi alla persona o di rilievo pubblico
o sociale”13. Attualmente la disciplina è quasi completa. Essa contiene però una
grave omissione: manca qualsivoglia forma agevolativa, sia essa fiscale,
previdenziale, di incentivo all’erogazione o di accesso al credito. L’impresa sociale
sarà tassata come una società commerciale e questo non è adeguato alla sua
natura e alle sue finalità. L’impresa sociale deve godere di agevolazioni, proprio
perché agisce senza scopo di lucro, non distribuendo utili ma reinvestendoli per la
realizzazione di beni e servizi di pubblica utilità. Ciò realizza un risparmio per i
conti pubblici, che deve essere riconosciuto.
4.3 Proposte di modifica all’attuale quadro normativo
Che il non profit sia parte integrante della storia e dello sviluppo del nostro Paese –
prima e spesso nonostante lo Stato – è una evidenza, che come tale non necessita di
ulteriori argomentazioni.
È altresì evidente come l’attuale sistema di welfare, per affrontare le povertà vecchie e
nuove, abbia assoluta necessità di imprese sociali ed organizzazioni di volontariato che
identifichino problemi ed anticipino soluzioni, in via autonoma e sussidiaria, garantendo
13
cfr Rapporto Biennale sul Volontariato in Italia – 2005 – Ministero del Welfare.
44
ciò che nessuna pubblica amministrazione potrebbe conseguire, cioè la capillarità e il
tempismo della risposta al bisogno.
Innanzitutto è necessario partire dall’attuale quadro normativo, per modificarlo dove
esso necessiti di modifiche e superarlo dove si dimostra inadeguato a descrivere la
realtà attuale.
4.3.1 Il Codice Civile
La riforma del libro I del Codice Civile è stata tentata dalla legislatura testé finita. Essa
è necessaria ed invocata da molte componenti sociali.
Essa è necessaria al fine di:
-
introdurre la disciplina dell’attività di impresa;
-
superare il sistema concessorio di attribuzione della personalità giuridica,
sostituendolo
con
un
sistema
normativo,
affidando
la
permanenza
del
riconoscimento all’esistenza di grandezze economiche e patrimoniali certe;
-
disciplinare l’istituto della fondazione tenendo conto della sua evoluzione storica;
-
parametrare gli adempimenti richiesti alle dimensioni dell’ente.
4.3.2 La disciplina fiscale – generale
a) Definizione di ente non commerciale
Una volta modificato il Codice Civile con l’introduzione della disciplina dell’attività di
impresa, occorrerà mettere mano alla definizione di ente non commerciale, che
abbiamo visto essere attualmente contraddittoria. Una ipotesi potrebbe essere quella di
attribuire la qualifica di ente non commerciale a tutti gli enti del libro I e di legare a
tale qualifica solo agevolazioni fiscali minime. Ciò avrebbe l’evidente vantaggio di non
legare l’appartenenza al novero degli enti non commerciali allo svolgimento di
determinate attività, ma esclusivamente al perseguimento di determinate finalità
Mentre lo status di ente non commerciale potrebbe essere indipendente dall’attività
effettivamente svolta, ulteriori agevolazioni verranno invece attribuite in relazione
all’attività effettivamente svolta, in considerazione della utilità sociale della stessa.
b) Esclusione da studi di settore
Gli enti non commerciali determinano il reddito sulla base degli studi di settore, come
45
le società. Ma l’applicazione degli studi di settore a tali enti non è adeguata a
determinare il loro reddito, essendo il presupposto degli studi la realizzazione di una
determinata economicità di gestione volta al lucro soggettivo, non determinante –
invece – il comportamento degli enti.
In linea di massima, infatti, un ente è “gestito bene” quando eroga il servizio al minor
costo possibile. Pertanto, il pareggio di bilancio – e non l’utile - è spesso considerato un
risultato indicatore di una buona gestione.
Inoltre, la struttura stessa degli studi rende difficoltosa la compilazione da parte degli
enti sovracitati.
Gli esempi sono molteplici:
-
costo del lavoro inesistente e sostituito dalla deduzione prevista dall’articolo 6 della
legge 222/85 (enti religiosi). Tali enti sono condannati alla non coerenza;
-
beni iscritti nell’attivo patrimoniale oggetto di donazioni;
-
servizi prestati a fonte di contributi/convenzioni che richiedono la rendicontazione
dei costi, che in ogni caso non devono essere inferiori al contributo/importo della
convenzione accordati.
4.3.3 La disciplina degli enti che svolgono attività di pubblica utilità:
Le ONLUS
a) Modifiche alla nozione di svantaggio
Attualmente la nozione di “persona svantaggiata” recepita nel nostro ordinamento è
molto limitata e non comprende tutte le reali situazioni di svantaggio, pur esistendo
interessanti prese di posizioni regionali, quali la LR 23/06 della regione Veneto.
La disciplina delle cooperative sociali (legge 381/91) – ONLUS di diritto, all’articolo 4
definisce persone svantaggiate “gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, gli ex degenti di
istituti psichiatrici, i soggetti in trattamento psichiatrico, i tossicodipendenti, gli alcolisti,
i minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare, i condannati ammessi alle
misure alternative alla detenzione previste dagli articoli 47, 47-bis, 47-ter e 48 della
legge 26 luglio 1975, n. 354, come modificati dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663.”
La presenza di persone svantaggiate nel limite imposto dalla norma permette la
qualificazione della cooperativa quale “cooperativa sociale” di lavoro.
46
I limiti di tale definizione sono:
-
i ragazzi in situazione di difficoltà familiare introdotti al lavoro dalle cooperative
sono molti. Il periodo che intercorre dall’inserimento lavorativo al compimento della
maggiore età è spesso breve, e con il compimento della maggiore età essi vengono
esclusi dal novero dei soggetti svantaggiati. Pertanto, le cooperative che
inseriscono al lavoro soggetti spesso considerati “a rischio” in ottima parte dei casi
non riescono ad acquisire la qualifica di cooperative sociali;
-
esistono cooperative che si occupano di avviare al lavoro ex detenuti. Il periodo
successivo a quello carcerario è di fondamentale importanza per l’inserimento
sociale delle persone, che a tutti gli effetti vertono in una situazione di svantaggio.
Eppure, non appena fuoriusciti dal carcere, la condizione di svantaggio, come
prevista dall’attuale normativa, cessa di essere applicabile al soggetto.
Per superare tali limiti è necessario:
-
armonizzare la definizione di svantaggio presente nel nostro ordinamento con
quanto previsto in ambito europeo dal regolamento CE del 12 dicembre 2002 n.
2204/2002;
-
prevedere aggiustamenti temporali alla norma (ad esempio: prevedere che per i
minori in situazione di difficoltà familiare la condizione di svantaggio debba essere
posseduta solo al momento dell’ingresso nella cooperativa; prevedere che la
condizione di svantaggio per un carcerato si protrae per un congruo periodo
successivo alla fuoruscita dal carcere).
La citata norma emanata dalla Regione Veneto, già fornisce un esempio di estensione
della nozione di svantaggio.
Infatti, essa recepisce la più ampia nozione di svantaggio in vigore nella UE, in
particolare ampliandola anche ai soggetti di cui all’articolo 2, comma 1, lettera f), del
regolamento CE n. 2204/2002 del 5 dicembre 2002 “Regolamento della Commissione
relativo all’applicazione degli articoli 87 e 88 del trattato CE agli aiuti di Stato a favore
dell’occupazione” e ai “soggetti che versano nelle situazioni di fragilità sociale
evidenziate nell’articolo 22 della legge 8 novembre 2000, n. 328 “Legge quadro per la
realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”.
L’articolo 2, comma 1, lettera f) del Regolamento UE citato, definisce lavoratore
47
svantaggiato: “qualsiasi persona appartenente ad una categoria che abbia difficoltà ad
entrare, senza assistenza, nel mercato del lavoro, vale a dire qualsiasi persona che
soddisfi almeno uno dei criteri seguenti: i) qualsiasi giovane che abbia meno di 25 anni
o che abbia completato la formazione a tempo pieno da non più di due anni e che non
abbia ancora ottenuto il primo impiego retribuito regolarmente; ii) qualsiasi lavoratore
migrante che si sposti o si sia spostato all'interno della Comunità o divenga residente
nella Comunità per assumervi un lavoro; iii) qualsiasi persona appartenente ad una
minoranza etnica di uno Stato membro che debba migliorare le sue conoscenze
linguistiche, la sua formazione professionale o la sua esperienza lavorativa per
incrementare le possibilità di ottenere un'occupazione stabile; iv) qualsiasi persona che
desideri intraprendere o riprendere un'attività lavorativa e che non abbia lavorato, né
seguito corsi di formazione, per almeno due anni, in particolare qualsiasi persona che
abbia lasciato il lavoro per la difficoltà di conciliare vita lavorativa e vita familiare; v)
qualsiasi persona adulta che viva sola con uno o più figli a carico; vi) qualsiasi persona
priva di un titolo di studio di livello secondario superiore o equivalente, priva di un
posto di lavoro o in procinto di perderlo; vii) qualsiasi persona di più di 50 anni priva di
un posto di lavoro o in procinto di perderlo; viii) qualsiasi disoccupato di lungo periodo,
ossia una persona senza lavoro per 12 dei 16 mesi precedenti, o per 6 degli 8 mesi
precedenti nel caso di persone di meno di 25 anni; ix) qualsiasi persona riconosciuta
come affetta, al momento o in passato, da una dipendenza ai sensi della legislazione
nazionale; x) qualsiasi persona che non abbia ottenuto il primo impiego retribuito
regolarmente da quando è stata sottoposta a una pena detentiva o a un'altra sanzione
penale; xi) qualsiasi donna di un'area geografica al livello NUTS II nella quale il tasso
medio di disoccupazione superi il 100 % della media comunitaria da almeno due anni
civili e nella quale la disoccupazione femminile abbia superato il 150 % del tasso di
disoccupazione maschile dell'area considerata per almeno due dei tre anni civili
precedenti”.
La norma regionale, inoltre, estende la nozione di svantaggio anche ai soggetti
destinatari dei Livelli Essenziali di Assistenza di cui all’articolo 22 della legge 328/00. a
titolo di esempio: persone senza fissa dimora, persone non autosufficienti, minori in
situazione di disagio, famiglie in difficoltà, disabili, anziani, persone affette da
dipendenze.
48
b) Modifiche alla disciplina relativa alle attività connesse
Le ONLUS possono svolgere esclusivamente le attività previste dalla legge istitutiva,
fatta eccezione per le attività connesse. La definizione di attività connesse è molto
restrittiva e di fatto le limita a: a) prestazioni svolte in parte nei confronti di non
svantaggiati; b) attività assolutamente marginali e irrisorie, quali “la vendita di depliant
nei botteghini dei musei o di magliette pubblicitarie e altri oggetti di modico valore in
occasione di campagne di sensibilizzazione” (CM 168/98).
Tale definizione è molto limitante e nei fatti impedisce a molte realtà di qualificarsi
ONLUS.
Stante la necessità che gli enti senza scopo di lucro possano rispondere in modo
sempre meno frammentato alle nuove povertà emergenti, è indispensabile che essi
possano intraprendere liberamente più tipi di attività. Pertanto, sarebbe auspicabile che
una ONLUS potesse svolgere anche attività diverse da quelle sancite dalla propria legge
istitutiva, anche prevedendo regimi di tassazione meno agevolati qualora tali attività
avessero natura commerciale.
4.3.4 La disciplina degli enti che svolgono attività di pubblica utilità:
l’impresa sociale
Come abbiamo detto, la normativa sull’impresa sociale attualmente non prevede alcuna
agevolazione fiscale né previdenziale.
Di seguito proviamo ad esemplificare alcune delle agevolazioni fiscali che a nostro
avviso dovrebbero essere previste per tali fattispecie:
- estensione della riduzione dell’aliquota IRES al 50% (articolo 6, DPR 601/73)
all’impresa sociale;
- possibilità che comuni e regioni deliberino nei confronti dell’impresa sociale la
riduzione o l’esenzione dal pagamento dei tributi di loro pertinenza e dai connessi
adempimenti;
- previsione che l’impresa sociale, in relazione ad alcune tipologie di attività, possa
godere di aliquota IVA agevolata;
- inclusione dell’impresa sociale tra i soggetti destinatari di erogazioni liberali
deducibili;
49
- pur applicandosi all’impresa sociale il capo II del TUIR (determinazione della base
imponibile delle società e degli enti commerciali residenti), previsione di esclusione
dal reddito di impresa delle entrate prive di rapporto sinallagmatico (quote
associative, contributi a fondo perduto, liberalità ecc..).
4.4 La disciplina fiscale come incentivo alla donazione e al
sostegno del non profit
a) Incentivo alla donazione
I soggetti che donano ad enti non profit non hanno quale unico scopo la deducibilità
della propria erogazione. È pur vero che la leva del risparmio fiscale è da sempre
fattore incentivante la donazione. Inoltre, la deducibilità fiscale costituisce un elemento
di riconoscimento dell’utilità sociale dell’ente beneficiario: il fatto che esso esista
costituisce un minor costo per la collettività, dunque a chi lo sostiene va almeno in
parte restituito il risparmio che – con la propria erogazione – esso permette.
Di seguito suggeriamo alcune modifiche all’attuale normativa in materia di erogazioni
liberali, quale tentativo di concretizzazione dell’enunciazione di cui sopra.
Le erogazioni liberali, in relazione alla loro deducibilità/detraibilità, attualmente hanno
discipline alquanto diversificate e spesso sovrapposte (DPR 917/86 articoli 15 e 100;
“più dai meno versi”; articolo 13 D.Lgs 460/97).
Proponiamo una generale semplificazione all’insegna dell’incentivo alla donazione –
anche in natura - e all’ampliamento dei soggetti.
A tal fine è necessario:
- estendere la possibilità di dedurre erogazioni liberali entro i limiti introdotti dal DL
35/05 a un più ampio novero di soggetti rispetto a quelli attualmente previsti dalla
norma, primi fra tutti le imprese sociali e le associazioni riconosciute e le fondazioni
che operano in soggetti considerati di pubblica utilità;
- per quanto riguarda le erogazioni in natura e il loro trattamento ai fini IVA,
estendere a tutti i soggetti non profit destinatari di erogazioni liberali deducibili il
disposto dell’articolo 10, n.12, del DPR 633/72; c) per quanto riguarda le erogazioni
in natura, estendere a tutti i beni donati a ONLUS il disposto di cui all’articolo 13 del
50
D.Lgs 460/97, senza alcuna limitazione di importo; d) semplificare gli adempimenti
in capo agli enti riceventi le donazioni.
b) Incentivo alle imprese che danno lavoro a enti non profit che operano nei confronti
di soggetti svantaggiati e a rischio forte di marginalità sociale.
Il nostro sistema di welfare esige una responsabilizzazione di tutti i soggetti coinvolti al
fine di arginare fenomeni di marginalità sociale. In tal senso proponiamo che siano
incentivate quelle imprese che affidano commesse o subappaltano parte del loro lavoro
a enti senza scopo di lucro e imprese sociali che hanno quale scopo il reinserimento
lavorativo e sociale di persone svantaggiate.
A tal fine proponiamo:
- che siano concesse incentivazioni mediante sgravi fiscali e previdenziali, anche sotto
forma di crediti di imposta;
- che siano considerati assolti almeno in parte gli obblighi previsti dalla legge 68/1999
per i soggetti pubblici o privati che affidano lavorazioni con l’impiego di alcune
categorie di soggetti svantaggiati.
c) Incentivi alle imprese che offrono lavoro a enti senza scopo di lucro e cooperative
sociali che operano nei confronti di soggetti svantaggiati e a rischio forte di
marginalità sociale: l’esempio dei detenuti
Senza il recupero dei soggetti reclusi la percentuale di recidiva nel nostro Paese sarà
sempre nei limiti allarmanti cui stiamo assistendo.
Allo stesso tempo, è possibile osservare come essa diminuisca fortemente in presenza
di possibilità di lavoro dentro le carceri.
Vanno perciò favoriti in tutti i modi i percorsi di recupero e reinserimento sociale dei
detenuti, in particolare attraverso l’incentivazione del lavoro che rimane la misura più
efficace, fondamentale “elemento del trattamento” (art. 15 legge 354/1975 –
Ordinamento Penitenziario).
Di seguito elenchiamo alcuni provvedimenti a nostro avviso utili ad incentivare il lavoro
carcerario:
- un detenuto oggi viene considerato “svantaggiato” (art. 4 l. 381/1991) per i sei mesi
successivi alla scarcerazione per fine pena; è opportuno prolungare lo stato di
svantaggio da sei mesi a dodici mesi per chi ha usufruito di misure alternative alla
51
detenzione e a 24 mesi per chi non ne ha usufruito;
- occorre parificare l’assunzione di un detenuto a quella di un disabile ex l. 68/99;
- occorre concedere il credito d’imposta anche agli enti che assumono detenuti
ammessi alle misure alternative alla detenzione (semilibertà, affidamento in prova ai
servizi sociali, detenzione domiciliare); ad oggi il credito è concesso solo per i
detenuti internati, per quelli ammessi al lavoro all’esterno ex art. 21 O.P., per le
attività formative e per gli ex detenuti nei sei mesi dopo la scarcerazione;
- la concessione di benefici fiscali e/o contributivi anche ai committenti pubblici e
privati che affidano lavori nei quali inserire detenuti (es. riduzione dell’IVA al 4%,
deducibilità del valore delle commesse affidate a condizione del suo riutilizzo come
contributo per innovazione tecnologica, formazione e sviluppo) potrebbe incentivare
le imprese ad affidare commesse ad enti che inseriscono al lavoro i detenuti;
- è necessario concedere contributi e finanziamenti per la ristrutturazione degli istituti
e l’acquisto di attrezzature finalizzati a offrire opportunità lavorative; da questo
punto di vista è quanto mai urgente ridefinire una volta per tutte i criteri di
erogazione del fondo della Cassa delle Ammende, che è a disposizione dei progetti
di recupero dei detenuti ma viene utilizzato poco e male; il fondo, infatti (118 milioni
293 mila euro al 31/7/2006!), oggi è imbrigliato in mille ostacoli burocratici e politici
e viene utilizzato solo per finanziare progetti di tipo “istituzionale”, senza alcuna
attenzione per le iniziative dei privati e delle cooperative sociali.
4.5 Altre disposizioni suggerite dall’osservazione empirica
a)
il lavoro volontario:
attualmente sono solo quattro le norme che prevedono la possibilità di avvalersi di
prestazioni volontarie per il perseguimento delle proprie finalità: la legge 266/91 sulle
organizzazioni di volontariato; la legge 381/91 sulle cooperative sociali, la legge 383/00
sulle associazioni di promozione sociale e la legge 118/05 sull’impresa sociale. Però il
lavoro gratuito fa parte della nostra tradizione ed è presente in quasi tutte le forme di
privato sociale. Pertanto, la possibilità di avere al proprio interno “volontari” sarà
estesa a tutti i soggetti del libro I del codice civile, stante la rispondenza di tale
richiesta alla realtà dei fatti. Verranno estesi a tutti gli enti che si occupano di lavoro
52
volontario gli obblighi assicurativi previsti dalla legge 266/91.
b)
il lavoro dei soggetti svantaggiati:
prevedere forme contrattuali adeguate alla qualità e quantità del lavoro prestato (ex
articolo 36 della Costituzione) in enti senza scopo di lucro e ONLUS in genere, da
soggetti portatori di handicap psichici e fisici.
c)
un ente, più attività:
gli enti non profit affrontano bisogni multiformi e le attività intraprese spesso sono
determinate dagli stessi bisogni incontrati. Il nostro attuale impianto normativo
immagina invece enti non profit “immutabili” che rispondono ad alcuni specifici
problemi e non che si prendono carico della persona - in cui tali problemi si incarnano tutta intera.
Si pensi al mondo delle cooperative: alcune regioni ancora non hanno previsto la
possibilità di cooperative sociali che svolgano sia attività “di tipo a” che “di tipo b”.
Cioè, se una cooperativa fa lavorare gli svantaggiati non può anche svolgere attività di
assistenza nei confronti degli stessi. Ma spessissimo le persone che vanno a lavorare in
cooperativa hanno poi bisogno di avere “comunità alloggio” in cui essere ospitate e,
quando la loro patologia peggiora e non sono più abili al lavoro, di essere assistite. Per
queste persone l’ambito della cooperativa diventa il contesto sociale di riferimento ed è
impensabile che le risposte ai loro bisogni arrivino da enti diversi.
Un altro esempio arriva dal mondo delle ONLUS: un ente che decide di gestire un
centro di accoglienza per ragazzi in difficoltà può costituirsi ONLUS. Se poi questi
ragazzi, grazie anche all’opera dell’ente, acquisiscono un assetto stabile che permette
loro di essere avviati al lavoro, la ONLUS questo non lo può fare: dunque va costituita
una cooperativa. Poi, se per caso le persone che si occupano della struttura pensano
che lo sport abbia un valore educativo importante e vogliono fare una scuola calcio,
bisogna fare una associazione sportiva dilettantistica. Questo esempio non è
improbabile: moltissime realtà con un progetto unitario e unità di conduzione devono
frammentarsi in forme giuridiche diverse solo perché nessuna interamente abbraccia il
loro scopo.
A tal fine proponiamo che la qualificazione legata ad una “legge speciale” possa essere
attribuita ad un ramo di azienda e non all’ente tutto intero. A proposito si veda quanto
è già previsto per gli enti ecclesiastici e le associazioni sportive dilettantistiche che
53
possono assumere la qualifica di ONLUS limitatamente ad alcune attività.
4.6 Conclusioni
La disciplina del non profit
semplificazione
deve
essere
necessita di
attuata
una generale
all’insegna
del
semplificazione.
riconoscimento
e
La
della
valorizzazione di tutto quello che esiste ed opera per il bene comune.
Pertanto, i passi che occorrerà seguire saranno:
- semplificare le categorie di non profit attualmente presenti nel nostro ordinamento,
innanzitutto con il riconoscimento di una “macro-categoria” composta dai soggetti
privati senza scopo di lucro la cui finalità è lo svolgimento di attività di utilità sociale.
Tale categoria di non profit comprenderà al suo interno tutte le esistenti categorie
che perseguono tali finalità. Dovranno essere disciplinate le caratteristiche di tali
enti, individuando le fattispecie ed assorbendo le fattispecie già esistenti previste
dalle vigenti normative speciali. Infine, saranno stabiliti adempimenti e agevolazioni.
- dare spazio alla vera sussidiarietà modificando il sistema di accesso ai servizi di
pubblica utilità gestiti da enti senza scopo di lucro e permettendo al cittadino la
possibilità di scelta, anche attraverso meccanismi di sgravi fiscali – crediti di imposta.
54
5. Verso una definizione normativa del fenomeno dello
svantaggio
Per una definizione normativa del fenomeno dello svantaggio è opportuno richiamarsi
in primo luogo alle Conclusioni del Consiglio Europeo di Laeken (2001), in quanto esse
stabiliscono indicatori obiettivi di verifica per misurare i progressi dei Paesi dell’Unione
in merito all’inclusione sociale. Tali indicatori sono significativi per comprendere dunque
a quali target le politiche di inclusione si rivolgono. Gli indicatori si dividono in due
gruppi; il primo fa riferimento principalmente alla distribuzione del reddito, creando un
ponte strettissimo tra i concetti di “esclusione” e i concetti afferenti alle “povertà”; il
secondo gruppo, “di approfondimento”, specifica le variabili prese in considerazione.
Gli indicatori di primo livello sono: rischio di povertà; persistenza del rischio di povertà;
intensità del rischio di povertà; disuguaglianza dei redditi (rapporto tra quintili estremi);
tasso di disoccupazione di lunga durata; famiglie senza lavoro; giovani con basso livello
di istruzione; speranza di vita; stato di salute auto dichiarato; coesione regionale –
dispersione regionale dell’occupazione (Povertà ed esclusione sociale in Italia, Allegato
al NAP/incl 2003).
Tali indicatori, seppure fondamentali per comprendere e inquadrare il fenomeno, non
tengono in considerazione elementi essenziali quali lo stato di salute oggettivo, le
condizioni di vita, la disponibilità e l’accesso ai servizi, l’abitazione.
I diversi paesi, inoltre, possono includere nei Piani Nazionali Inclusione un terzo livello
di indicatori utilizzando definizioni diverse e fonti alternative (Cagiano de Azavedo;
Capacci; Cassiani; Giudici; 2006).
Il Piano Nazionale Inclusione del 2003 si sofferma in particolare su tali indicatori per
definire un quadro di contesto significativo della realtà italiana. Le variabili prese in
considerazione sono infatti esito di un’analisi che tiene in considerazione dieci
tematiche:
I - La povertà economica
II - Le condizioni di vita
55
III - La disuguaglianza economica
IV – Partecipazione all’occupazione ed esclusione sociale
V – Istruzione e formazione
VI - Povertà ed esclusione sociale tra i minori
VII – Condizioni di salute ed esclusione sociale
VIII – La partecipazione sociale
IX – La coesione regionale
X – Le politiche
È importante sottolineare come in tali categorie vengano prese in considerazione
variabili quali le condizioni di vita, la zona di residenza (dotata di maggiori o minori
servizi), l’abitazione, le spese per i consumi delle famiglie.
Tale approccio mostra come un approccio olistico al problema esclusione superi di fatto
un atteggiamento classificatorio che, partendo dalla definizione aprioristica di
svantaggio (gli “svantaggiati per decreto”) finiva per creare dinamiche discriminatorie
che escludevano dai possibili beneficiari delle politiche soggetti realmente svantaggiati.
Si può rinvenire un esempio tipico di questo approccio nella Legge 381/1991 “Disciplina
delle cooperative sociali” precedentemente ricordata.
Ugualmente la legge 68/1999 “Diritto al lavoro dei disabili”, che tra l’altro istituisce gli
Osservatori regionali per l’inclusione sociale, recita all’articolo primo: “La presente
legge ha come finalità la promozione dell'inserimento e della integrazione lavorativa
delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di
collocamento mirato.
Essa si applica:
a) alle persone in età lavorativa affette da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali e
ai portatori di handicap intellettivo, che comportino una riduzione della capacità
lavorativa superiore al 45 per cento, accertata dalle competenti commissioni per il
riconoscimento dell'invalidità civile in conformità alla tabella indicativa delle
percentuali di invalidità per minorazioni e malattie invalidanti approvata, ai sensi
dell'articolo 2 del decreto legislativo 23 novembre 1988, n. 509, dal Ministero della
sanità sulla base della classificazione internazionale delle menomazioni elaborata
dalla Organizzazione mondiale della sanità;
b) alle persone invalide del lavoro con un grado di invalidità superiore al 33 per cento,
56
accertata dall'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e
le malattie professionali (INAIL) in base alle disposizioni vigenti;
c) alle persone non vedenti o sordomute, di cui alle leggi 27 maggio 1970, n. 382, e
successive modificazioni, e 26 maggio 1970, n. 381, e successive modificazioni;
d) alle persone invalide di guerra, invalide civili di guerra e invalide per servizio con
minorazioni ascritte dalla prima all'ottava categoria di cui alle tabelle annesse al
testo unico delle norme in materia di pensioni di guerra, approvato con decreto del
Presidente della Repubblica 23 dicembre 1978, n. 915, e successive modificazioni.
Il POR Lazio 2000-2006 adottava un approccio intermedio, in quanto utilizzava la
denominazione generica “soggetti a rischio di esclusione sociale”, o anche “soggetti
svantaggiati”, specificando poi le priorità attraverso un elenco di categorie specifiche
quali gli stranieri extracomunitari, i detenuti ed ex detenuti e i disabili. Nella definizione
delle tipologie di destinatari il documento
cita: “Disabili fisici e psichici, immigrati
extracomunitari, detenuti ed ex detenuti, sieropositivi, tossicodipendenti ed ex
tossicodipendenti, minoranze etniche, nuove fasce di povertà”. Quest’ultima categoria,
soggetta in questo lavoro ad un’analisi specifica, costringe d’altra parte a ripensare
completamente l’approccio alle politiche sociali, promuovendo una definizione di
svantaggio fondata su bisogni reali molto più che sull’appartenenza ad una categoria
definita. Si pensi a titolo esemplificativo ai problemi connessi ad un approccio
definitorio in senso stretto laddove si approcci il problema dell’esclusione nel suo darsi
dinamico. Un minore in età lavorativa in situazione di disagio familiare può essere
inserito in una cooperativa sociale di tipo B fino al raggiungimento della maggiore età,
ma normalmente la condizione di svantaggio non si esaurisce al compimento del
diciottesimo anno14.
La stessa definizione di disabilità, che pure sembra più chiara e ponderata, presenta
problemi di difficile soluzione, rendendo necessari strumenti e processi certificatori. La
definizione di disabilità infatti cambia a seconda della rilevazione statistica e di chi la
effettua. Esistono problemi ad esempio di glossario che possono generare confusione,
primo fra tutti la non completa sovrapposizione dei due concetti di disabilità e
14
Si veda sopra il paragrafo 4.3.3.
57
invalidità;
il
primo
fa
riferimento
alla
capacità
della
persona
di
espletare
autonomamente (anche se con ausili) le attività fondamentali della vita quotidiana (cfr.
legge 104 del 1992), il secondo rimanda al diritto di percepire un beneficio economico
in conseguenza di un danno biologico indipendentemente dalla valutazione complessiva
di autosufficienza (cfr. legge 118 del 1971). . La legge quadro n°104/1992, che
comunque rappresenta un punto di riferimento, presenta una definizione di persona
handicappata: “colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale,
stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione, o di
integrazione lavorativa tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di
emarginazione”.
Il rilascio delle certificazioni è di competenza di specifiche commissioni istituite presso
le ASL. Tali commissioni, che hanno composizione differente nella stessa ASL a
seconda del tipo di certificazione15, rilasciano delle certificazioni che non sono
standardizzate nel territorio, ma che cambiano da regione a regione, da ASL a ASL, e
talvolta addirittura da distretto a distretto. In sostanza, ogni commissione adotta la
modulistica e la procedura certificatoria che ritiene più opportuna.
L’Istat adotta la definizione di disabilità proposta dall’Organizzazione Mondiale della
Sanità nella Classificazione Internazionale delle Menomazioni, Disabilità e Handicap
(1980), mutuandone il glossario. La menomazione è il danno biologico che una persona
riporta a seguito di una malattia (congenita o meno) o di un incidente; la disabilità è
l’incapacità di svolgere le normali attività della vita quotidiana a seguito della
menomazione, l’handicap è lo svantaggio sociale che deriva dall’avere una disabilità (si
veda www.ladisabilitaincifre.it). Ciò significa che quanto distingue disabile e
handicappato è la presenza di strumenti di accessibilità, e dunque tale distinzione è
fortemente legata ad esempio a fattori territoriali. Un obiettivo importante delle
politiche per l’inclusione è dunque superare, attraverso mezzi specifici, situazioni di
svantaggio sociale e disabilità (intese dunque come condizioni transitorie). E’ utile
tenere in considerazione, inoltre, che nelle indagini relative alla disabilità vengono
15
Le certificazioni di invalidità civile, invalidità per cecità e sordità, le certificazioni di handicap, le
certificazioni per l'inserimento scolastico e per l'inserimento lavorativo mirato, le certificazioni per il rilascio
o la conferma delle patenti speciali, per i contributi alla spesa per le modifiche degli strumenti di guida.
58
prese in considerazione diverse tipologie, in relazione al diverso grado di non
autosufficienza delle persone:
- confinamento
- difficoltà nel movimento
- difficoltà nelle funzioni di vita quotidiana
- difficoltà nella comunicazione
Per una definizione univoca di dipendenza e tossicodipendenza è necessario fare
riferimento all’Organizzazione Mondiale della Sanità e alle definizioni contenute nel
DSM IV (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali dell'American Psychiatric
Association, 1995).
La dipendenza da sostanze si caratterizza per:
a) desiderio (craving) e necessità compulsiva di continuare ad assumere la sostanza e
ad ottenerla con qualunque mezzo;
b) tendenza ad aumentare la dose (tolleranza-assuefazione);
c) dipendenza psichica e fisica dagli effetti della sostanza (crisi di astinenza);
d) azione deteriore sull'individuo e sulla società.
Il DSM IV qualifica dunque il disturbo da dipendenza da sostanze come una "malattia
cronica recidivante" e lo definisce come "modalità patologica d'uso della sostanza che
conduce a menomazione o a disagio clinicamente significativi", assegnando di fatto il
problema all’alveo sanitario.
Per quanto riguarda l’accesso a programmi di aiuto e recupero si fa dunque riferimento
al certificato rilasciato dal Sert o dalle Comunità di recupero accreditate, per certificare,
appunto, la partecipazione ad un programma di recupero. Per coloro che sono ancora
tossicodipendenti, basta un certificato medico, o anche far riferimento ad un
provvedimento emesso dalla prefettura. Le norme vigenti, infatti, prevedono che al
momento dell’arresto per possesso di sostanze stupefacenti, o si incorre nel
procedimento penale del caso oppure, se la quantità giustifica l’uso personale, si
dichiara alla Prefettura lo stato di tossicodipendenza e il Prefetto, in virtù di questo,
pone in essere le azioni opportune (ad esempio, la sospensione della patente e
soprattutto avvia la presa in carico da parte dei servizi sociali).
59
Per quanto riguarda gli alcolisti ed ex alcolisti, ma in fondo anche per le persone
sieropositive, il meccanismo potrebbe basarsi sempre sul certificato medico emesso
anche dalle strutture mediche private che, in virtù del loro “accreditamento”, agiscono
in convenzione con il sistema sanitario.
In generale dunque il fenomeno delle tossico dipendenze è definito in termini bottom-
up, attraverso certificazioni di organismi competenti.
Il discorso è più complesso con riferimento alla categoria “persone appartenenti a
minoranze etniche”. In assenza di precisazione sullo status di extracomunitario, o di
riferimenti alla cittadinanza europea, il principale elemento definitorio fa riferimento
alla nostra Costituzione, la quale tutela all’art. 6 le minoranze linguistiche. Il tema delle
minoranze etniche nel Lazio riguarda gruppi tra loro eterogenei, come i Sinti, i Rom, i
Caminanti, ma non sembra dal punto di vista normativo possibile utilizzare la
definizione “minoranze etniche” come strumento classificatorio a pena di ricadere in
approcci discriminatori. La legge 15 dicembre 1999, n. 482 “Norme in materia di tutela
delle minoranze linguistiche storiche” riconosce e tutela dodici minoranze etnico
linguistiche storiche tenendo conto dei criteri: etnico, linguistico e storico nonché la
localizzazione in un territorio definito. La legge intendeva tutelare le minoranze etnicolinguistiche storiche presenti nel nostro Paese, (escludendo dunque le nuove) al fine di
attuare, in maniera compiuta, il dettato dell’art. 6 e degli artt. 2 e 3 della Costituzione.
Nel testo del disegno di legge era compresa, tra le minoranze storiche, anche quella
zingara,
per
la
quale
si
prevedevano
medesime
disposizioni
di
tutela.
L’approfondimento parlamentare fece emergere, però, la difficoltà di applicazione alla
popolazione zingara di molte delle norme dell’articolato, per il mancato ancoraggio
della stessa ad un territorio definito. Si decise, così, di prevedere per essa
l’approfondimento in altro, specifico, provvedimento. Pertanto, allo stato attuale, non
esiste nel nostro ordinamento alcuna norma che preveda e disciplini “l’inclusione” e il
“riconoscimento” delle popolazioni Rom nel concetto di “minoranza etnico-linguistica”16.
Nella normativa si parla infine di persone che intendono uscire dal percorso della
prostituzione. La formula non specifica se si tratta di prostituzione coatta o volontaria,
16
Cfr. Ministro dell’Interno, Le Minoranze senza territorio, in www.interno.it.
60
comunque sia, esistono numerosi programmi di protezione o di aiuto e sostegno
all’abbandono della prostituzione. Chi partecipa ad iniziative di questo tipo e quindi può
dimostrarlo con dichiarazioni dell’ente gestore, automaticamente “proverà” il suo
status. Se esistono invece reati connessi alla prostituzione (tratta di donne,
clandestinità) il discorso è più complicato, e l’ente direttamente coinvolto è la Questura
territorialmente competente. Caso per caso bisognerà valutare l’adesione, se presente,
a specifici programmi di protezione
La definizione dei soggetti deboli, o delle categorie svantaggiate, mostra dunque ad
oggi un quadro caotico e non sistematico. La considerazione complessiva delle variabili
inserite nel NAP/inclusione citato costringe d’altra parte a rilievi e ricerche sul campo
onerose e complesse, che non possono essere immediatamente spese per la
definizione delle politiche, anche in ragione dei tempi necessari per realizzarle. Sembra
dunque preferibile un approccio il più possibile bottom-up, che valorizzi, come previsto
tra l’altro dalla legge 328/2000, l’apporto degli operatori, pubblici e privati, del
territorio. Sono gli operatori delle cooperative sociali, delle organizzazioni di
volontariato, degli enti caritatevoli di emanazione ecclesiastica che conoscono i propri
utenti e possono indirizzare al meglio le politiche, in quanto hanno immediato riscontro
della popolazione che ha reale bisogno. Un sistema definitorio deve dunque fondarsi
anche sulle reti sociali e sui corpi intermedi, anche a rischio di fenomeni di
adulterazione.
61
6. Analisi quantitativa delle diverse tipologie di soggetti
deboli nel Lazio
Lasciando da parte il fenomeno delle nuove povertà, oggetto di analisi specifica, in
ragione della difficoltà definitoria e della diversità dei possibili approcci, sembra qui
utile proporre un rilevo delle categorie proposte dal POR Lazio 2000-2006, in modo da
disporre in modo preliminare di un dato quantitativo in proposito. Le categorie
indagabili presentano elevate differenze nell’attendibilità dei dati e nella loro
reperibilità. Saranno quindi da evitare fortemente analisi e conclusioni che si basino su
un confronto fra le diverse tipologie. Si ritiene comunque importante presentare alcuni
dati quantitativi, non solo perché questo permette di vedere con immediatezza lo stato
attuale del quadro informativo, ma soprattutto perché certe informazioni, viste nella
loro dinamica evolutiva, possono essere utili per il proseguimento dell’indagine e danno
una prima, seppur approssimativa, visione delle problematiche da affrontare.
6.1 I disabili
La regione Lazio mostra un’elevata presenza di persone con almeno un’invalidità (circa
41 su 1.000 residenti), anche se il dato appare inferiore alla media nazionale, che è di
48,5 su 1.000 abitanti: Scarsa invece l'incidenza di soggetti in sedia a rotelle (1,9 per
mille, contro le 3,4 della media nazionale) oppure quelli affetti da invalidità motoria (15
persone per 1.000, contro le 19,8 della media nazionale). Riguardo alle invalidità
sensoriali, si osserva una maggiore incidenza di cecità (7,5 contro le 6,2 dell'intero
territorio italiano) e una forte incidenza di sordità (15 su mille residenti, contro i 13,8
dell'Italia); di minor rilievo i casi di sordomutismo (0,8 del Lazio e 0,9 dell'Italia). Il
valore di invalidità psichica appare quasi identico a quello nazionale (5,8 del Lazio e 5,9
dell’Italia).
62
Tabella 1 - Persone con disabilità di 6 anni e più che vivono in famiglia per regione. Valori
assoluti, tassi grezzi e standardizzati per 100 persone. Anno 2004-2005
Regione
Valori assoluti
(dati in migliaia)
Tassi grezzi
Tassi
standardizzati *
Piemonte
190
4,7
4,3
Valle d'Aosta
5
4,1
4,0
Lombardia
337
3,8
4,0
Bolzano
11
2,5
2,9
Trento
13
2,9
3,0
Veneto
182
4,2
4,3
Friuli-Venezia Giulia
52
4,6
4,0
Liguria
86
5,7
4,3
Emilia-Romagna
171
4,4
3,8
Toscana
179
5,3
4,5
Umbria
48
6,0
5,0
Marche
75
5,2
4,5
Lazio
217
4,4
4,6
Abruzzo
66
5,4
4,9
Molise
18
5,8
5,2
Campania
252
4,7
5,6
Puglia
212
5,6
6,2
Basilicata
33
5,8
5,8
Calabria
105
5,5
6,0
Sicilia
285
6,1
6,6
Sardegna
72
4,6
5,2
ITALIA
2.609
4,8
4,8
Fonte: ISTAT, Indagine sulle condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari 2004-200 Disabili in
cifre sito www.disabilitaincifre.it
Per quanto riguarda gli avviamenti al lavoro delle persone disabili operato dai Centri
per l’Impiego del Lazio, i dati disponibili indicano 1.810 disabili avviati nel 2000 e
63
2.27617 nel 2001. Si deve registrare un aumento significativo nelle province di
Frosinone (da 113 a 201 avviati) e di Latina (dati parziali: da 134 a 460), mentre Rieti
presenta un valore inferiore rispetto all’anno precedente (16 persone avviate al lavoro
rispetto ai 41 del 2000). Invariato il valore di Roma, che conferma ovviamente il più
alto numero degli avviamenti (1.524 nel 2001). Confrontando gli avviamenti realizzati
nel corso dell’ultimo anno con il totale degli iscritti al collocamento obbligatorio, si può
ricavare un dato particolarmente confortante dal Centro per l’Impiego di Latina che con
94 inserimenti lavorativi ogni mille iscritti presenta un indice decisamente superiore alla
media regionale (39,2 inserimenti lavorativi ogni mille iscritti); tale performance è
seguita da quella di Roma (con 35,6 avviamenti per 1.000 disabili iscritti), Frosinone
(28,3) e, in ultimo, Viterbo, con 23,4 avviamenti ogni mille utenti disabili. Non
disponibile il dato di Rieti. Gli avviamenti anche negli anni più recenti restano in questo
ordine di grandezza, anzi con una certa tendenza alla diminuzione (1682 nel 2005).
6.2 Detenuti ed ex detenuti
Considerando la categoria di soggetti deboli dei detenuti, risulta che nel Lazio si
concentra circa il 10% della popolazione carceraria d’Italia (ossia 5149 nel 1997 e 4714
nel 2007). Come a livello nazionale, la maggioranza è costituita da uomini (4.330
detenuti, pari al 92% del totale), ma il segmento femminile, che resta minoritario, è
percentualmente il più elevato d’Italia (8% della popolazione carceraria del Lazio,
contro il 5,7% di quella dell'intero territorio centro – settentrionale ed il 4,7%
nazionale)18. Il Lazio ha poi una particolarità rispetto ad altre regioni, in quanto la quasi
totalità dei detenuti sono alle dirette dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria,
vale a dire 1.418 detenuti, pari all’89% sui 1.593 lavoranti complessivi; l’unica provincia
in
cui
assume
significatività
anche
il
finanziamento
di
strutture
esterne
all’Amministrazione Penitenziaria è quella di Roma (166 lavoranti presso strutture
esterne su 1.249 complessivi), ossia il 13,3% dei detenuti non è considerato alle
17
18
Elaborazioni tratte dalla valutazione intermedia del POR 2000-2006 Regione Lazio.
Dati tratti dal DOCUP 2000-2006 Regione Lazio e Ministero della Giustizia.
64
dipendenze dell’A.P. Tale valore scende al 3,4% nel caso di Frosinone (6 su 179
lavoranti) e al 2,7% nel caso di Viterbo (3 su 112), mentre è del tutto assente negli
Istituti Penitenziari di Latina e di Rieti.
6.3 I cittadini immigrati
Il numero degli stranieri soggiornanti in Lazio nel 2007, secondo una stima effettuata
dalla Caritas19 si aggira intorno alle 500.000 unità. Tale dato è stato evidenziato a
partire dai 247.847 cittadini regolarmente residenti a cui si aggiungono coloro che
ancora non hanno ottenuto un regolare permesso di soggiorno e quelli che vivono
ancora in un regime di clandestinità o semiclandestinità.
Rispetto agli anni precedenti si è assistito ad una crescita costante del fenomeno, tanto
che si pensi che nel 1991 i soggiornanti erano in regione poco più di 150.000 e nel
2001 non superavano i 250.000, con una crescita nei dieci anni del 54%, con un
aumento ulteriore nel 2007 del 107%, per una crescita complessiva negli ultimi
vent’anni circa del 221% (contro una crescita italiana dello stesso dato di oltre il
300%).
Se si passano in rassegna le provincie, la presenza più alta è fatta registrare da quella
di Roma che conta oltre 430.000 stranieri, vale a dire oltre l’85% del totale, seguita poi
da 24.237 a Latina, 18.460 a Viterbo, 18.366 a Frosinone e per finire 7.527 a Rieti.
L’indice sulla popolazione si attesta quindi a 10,8 per 100 abitanti nell’area della
Capitale, registrando un’incidenza significativamente superiore a quella media
nazionale (pari a 6,2). Inferiore al valore italiano risulta invece quello delle altre
province del Lazio: 6,1 per 100 abitanti nella provincia di Viterbo, 4,9 a Rieti, 4,6 Latina
e 3,7 a Frosinone.
19
Caritas, Dossier 2007.
65
Tabella 2: numero di immigrati per provincia (anno 2007)
Regione
Valore assoluto
%
Valore per 100
abitanti
Frosinone
18.366
0.5
3.7
Latina
24.237
0.7
4.6
Rieti
7.527
0.2
4.9
Roma
431.418
11.7
10.8
Viterbo
18.460
0.5
6.1
Lazio
500.007
13.6
9.1
3.690.052
100
6.2
Italia
Dati Eures
Il dato di Roma evidenzia, pur mantenendo in valore assoluto il più alto numero di
immigrati per una città, una costante tendenza alla diminuzione, a favore di comuni
medio piccoli che muovono la popolazione non italiana attraverso la costituzioni di reti
e rapporti sociali sempre più complessi e ramificati, capaci di consentire un più veloce
assorbimento dei nuovi arrivati e un naturale mutuo soccorso.
La composizione demografica degli immigrati presenti in Lazio, vede una quota di
minori pari a 67.00020, con un incremento lieve ma costante negli anni, dovuto in
particolare ai ricongiungimenti richiesti da coloro che hanno ottenuto un regolare
permesso di soggiorno. Tale dato appare comunque inferiore alla media nazionale, che
registra circa 19 minori su 100 immigrati, contro i 12 del Lazio.
In controtendenza rispetto a tale rilevazione invece appaiono i dati relativi alle donne,
che risultano essere il 56% dei residenti stranieri contro un dato medio del 49,5% a
livello nazionale.
20
Eures Ricerche economiche e sociali, Rapporto 2008 sulle provincie Italiane.
66
Tabella 3: distribuzioni di immigrati in Lazio per Provincia ed età (anno 2005)
Regione
0-18
19-40
41-60
oltre 60
% donne
Frosinone
19.2
54.4
22
4.3
53.7
Latina
16
57.7
23.9
2.4
49.6
Rieti
18
54.5
24.6
2.8
55.5
Roma
11.4
55.8
28.1
4.6
56.5
Viterbo
18.2
54.8
24.1
2.9
54.3
Lazio
12.2
55.8
27.5
4.4
56
Italia
19.3
54.5
23.1
3
49.9
Dati: Caritas
Analizzando gli stranieri per paese di provenienza negli ultimi anni la nazionalità
rumena si è affermata tra quelle più presenti nel Lazio: se nel 2000 infatti i residenti di
origine rumena rappresentavano il 7,3% della popolazione immigrata, dal 2003 hanno
superato il 20%, con oltre 75.000 presenze in valore assoluto fatto registrare nel 2007.
Rispetto all’anno precedente è da rilevare comunque un leggero decremento
dell’incidenza di nuovi cittadini rumeni (dal 23,8% del 2006 al 23% del 2007), così
come una certa stabilità della quota di stranieri provenienti dalla Polonia (5,8%) e
dall’Ucraina (3,5%) a favore di un ampliamento degli immigrati di nazionalità filippina
(passati dal 6,7% al 7,8%) e albanese (dal 5% al 5,6%). Tra il 2006 e il 2007, inoltre,
risultano in crescita gli stranieri provenienti dall’Asia (con +0,5 punti percentuali per il
Bangladesh, +0,4 per lo Sri-Lanka e la Cina).
Per quanto concerne la forza lavoro straniera registrata dall’Inail in Lazio, nel 2005 si
contano 204.408 lavoratori; quelli extracomunitari uniti a quelli neocomunitari
raggiungono quasi il 10% del totale regionale (rispettivamente 173.132 e 11.753).
Nel dettaglio si contano 59.536 nuove assunzioni (46.494 nel 2004; il dato si riferisce
alle persone fisiche assunte nel corso dell’anno) di lavoratori nati in paesi
extracomunitari (ben 48.710 segnalati solo a Roma), mentre altre 3.460 sono riferite ai
neocomunitari. Tra questi ultimi le donne dimostrano un’incidenza molto incoraggiante
con il 62,8%, ma il dato si riduce al 38,2% per la componente extracomunitaria (la
67
media per le due componenti è del 46,6%).
Se si considera i lavoratori extracomunitari assunti nel 2005, circa un quarto è
composto da persone che in precedenza non avevano un rapporto di lavoro in Italia, e
quindi arrivati o per via di un ricongiungimento familiare, oppure perché giunti
dall’estero in Italia per la prima volta in quanto ammessi al lavoro nelle quote previste
dal governo.
Considerando, infine, le nazionalità più diffuse tra i lavoratori, la Romania anche in
questo caso si inserisce al primo posto della graduatoria in tutte le province del Lazio,
seguita dalla Polonia e dalle Filippine, che presenta un numero di occupati (pari nel
Lazio a 10.035) molto superiore al dato sugli avviamenti (6.180), dimostrando una
maggiore stabilità lavorativa.
Un’ultima informazione rilevante, che chiude la raffigurazione del fenomeno
dell’immigrazione in Lazio è dato dalla capacità di generare impresa; in questo senso i
dati evidenziano circa 14.000 aziende con titolarità straniera, vale a dire poco più di 4
su 100 imprese; tale dato è di poco inferiore alla media nazionale, e posiziona il Lazio
all’11 posto come propensione straniera all’imprenditorialità.
6.4 I Tossicodipendenti e gli ex tossicodipendenti
Nel Lazio il numero di persone che sono affidate ai servizi socio-sanitari per dipendenza
da sostanze psicotrope sono poco oltre 13.000 (a dati 2006), pari a circa il 8%21 del
dato nazionale. In rapporto alla popolazione il numero di tossicodipendenti è tra i più
bassi d’Italia, pari a 2,4 su 1.000, contro un dato nazionale di 2,9 e contro regioni che
hanno valori anche tre volte superiori.
A fronte di questa contrazione i servizi a disposizione forniti dal Servizio per le
tossicodipendenze (Sert) evidenziano in Lazio una situazione di arretramento: ad oggi
si è arrivati infatti ad avere un operatore ogni 23 utenti contro uno standard nazionale
previsto di uno ogni 13. Rispetto al 1997, periodo in cui il rapporto era 1 a 19, si è
21
Eures Ricerche economiche e sociali, Rapporto 2008 sulle provincie Italiane.
68
assistiti ad una crescita degli utenti del 20% seguita ad un lieve incremento anche del
personale (+2%), non sufficiente per portarsi al di sotto dei limiti previsti dallo
standard.
Tale dato è indicativo della diminuzione di risorse che anche i servizi sociali hanno
dovuto subire nel corso degli ultimi esercizi finanziari: il taglio del personale è solo uno
degli aspetti della riduzione strutturale di risorse che hanno dovuto subire i servizi socio
sanitari di prevenzione ed assistenza.
Tabella 4: Numero operatori per utenti in Lazio (anno 2006, 1997)
Lazio
Operatori
Utenti
Utenti/operatori
Italia
Operatori
Utenti
1997
2005
2006
06/97
555
475
566
+2%
11.013
13.791
13.133
+19.2%
19.8
29
23.2
-
1997
2005
2006
06/97
6.676
6.732
7.214
+8.1%
138.218
162.005
171.353
+24%
Utenti/operatori
20.7
24.1
23.8
Fonte: Eures Ricerche economiche e sociali, Rapporto 2008 sulle provincie Italiane
-
Un altro di questa contrazione appare anche nel numero di strutture che ha visto una
crescita significativa, di quasi il 50% negli ultimi otto anni, con una decrescita proprio
negli ultimi quattro anni (-4%), quando si sono chiuse tre strutture. In valore assoluto
il Lazio si è così allineato alla media nazionale passando da 39 a 56 strutture, con un
peso sul totale Italia del 4,6%, in linea con il valore dei dieci anni precedenti.
Tabella 5: Numero di strutture socio-riabilitative in Lazio
1998
2006
06/98
Frosinone
4
5
+25%
Latina
5
3
-40%
Rieti
5
5
-
Roma
14
32
+129%
Viterbo
11
11
-
Lazio
39
56
+44%
Italia
846
1.211
+43%
Fonte: Eures Ricerche economiche e sociali, Rapporto 2008 sulle provincie Italiane
69
Un ultimo indicatore che si può riportare per dimensionare il fenomeno della
tossicodipendenza è il numero di decessi per droga.
Questo dato fa del Lazio la Regione con il maggior numero di decessi in valore
assoluto, vale a dire con 1.374 decessi tra il 1997 e il 2006 e la rende seconda in
rapporto agli abitanti, preceduta solo dall’Umbria, con 25,8 decessi ogni 100.000.
Pesa molto in questa valutazione la provincia di Roma, che nel 2007 è stata la nona
provincia d’Italia per numero di decessi in rapporto agli abitanti (2,1 per 100.000), con
un totale di 83 morti.
Questo indicatore appare più positivo se valutato in un confrontato temporale: nel
1997 infatti i decessi sono stati 131, con una diminuzione del 40% circa. La stessa
diminuzione si registra anche per le altre provincie minori, dove l’indicatore di decessi
per abitanti si abbassa a 1,3, poco al di sopra della media nazionale, ridimensionando il
dato negativo riferito alla sola Capitale.
6.5 Altre categorie di soggetti a rischio di esclusione sociale
Tra i soggetti di cui è più difficile stimare l’entità del fenomeno vi sono:
a)
le persone sieropositive: I dati in merito appaiono di difficile reperibilità e
disaggregati, rendendone difficile una corretta interpretazione: il numero di
sieropositivi all’interno della Regione Lazio, aggiornato al 2001, si attestava sulle
6.360 unità contro un totale di 49.333 per l’Italia.
b)
le persone che intendono uscire dal percorso della prostituzione. In questo caso
si sono semplicemente ricavati i dati di stima del numero delle straniere
suddivise per Province. Le prostitute straniere risultano essere nel 2001 circa
5.000 in tutto il Lazio22 con una prevalenza molto forte a Roma (fino a 4.000),
minore a Latina e Frosinone (circa 1.000 complessivamente) e con valori irrisori
per le rimanenti province. Tali dati sono però delle stime che non hanno
22
Cfr. “La prostituzione straniera in Italia” Carchedi F., 2000.
70
carattere di ufficialità. Nel 2006 un altra fonte23 indica tra le 6.000 e le 7.000
unità il fenomeno della prostituzione presente nel Lazio pari al 15-20% del totale
nazionale. In ogni caso occorrerebbe poter disporre di dati disaggregati perché
un conto è la scelta più o meno consapevole e libera di prostituirsi, un altro è il
c.d. fenomeno della tratta (i cui dati paiono in crescita, almeno secondo gli
operatori del sociale che operano in tale campo).
c)
le persone dipendenti dall’alcool. Anche in questo caso il fenomeno è di difficile
quantificazione, nonostante siano numerose le indagini effettuate in tal senso.
Inoltre la misurazione dell’abuso varia a seconda dei contesti (ciò che è abuso se
si guida una vettura non configura certo uno stato di dipendenza, anche in virtù
della diversa reazione personale all’alcool). Le diverse ricerche evidenziano però
alcuni tratti comuni; il primo è relativo all’età dei consumatori di alcool che
prefigura una crescita importante nei giovani e nei minori, il secondo sulle
categorie a maggior rischio di dipendenza che sono proprio i giovani, seguiti da
casalinghe e pensionati.
23
Cfr. comune di Roma –Parsec.
71
7. Gli operatori del terzo settore
7.1 Il ruolo delle organizzazioni non profit
Come sottolineato, il rilievo del fenomeno dell’esclusione sociale non può ridursi alla
quantificazione dei soggetti per i quali esistono definizione e confini certi, in quanto
investe dimensioni tra loro interconnesse che devono essere affrontate in modo
organico. La strada fondamentale per tale operazione è l’incrocio tra diverse tipologie
di dati, come proposto dall’allegato al NAP/inclusione 2003. La difficoltà di questo
approccio consiste nella reperibilità dei dati e nella difficoltà di creare strumenti di
interoperabilità tra basi dati, processo per il quale sarebbe necessaria una forte volontà
istituzionale. In tale direzione va la proposta di Osservatorio esplicitata nella quarta
parte del presente lavoro.
Qui è opportuno invece segnalare il ruolo di vigilanza e osservazione, di capacità di
risposta al bisogno e di intervento che è proprio del terzo settore. Conoscere dunque
gli attori in gioco è un passo fondamentale per concepire forme di collaborazione e
sinergia utili anche per valorizzare il patrimonio di dati che tali attori possiedono. Ad
esempio il Sistema Informativo della Caritas mette in rete tutti i centri Caritas, in modo
da rendere possibile non solo raccogliere tutte le informazioni sugli utenti che passano
per il circuito (informazioni anagrafiche, sociali, informazioni sui bisogni e sulle risposte
attivate, sul presente e sulla storia passata), ma anche produrre rapporti sintetici in cui
descrivere ed analizzare con accuratezza i profili di coloro che si rivolgono ai diversi
centri. Tale strumento, unito alle basi dati di altri attori del territorio, potrebbe
diventare un punto fondamentale per analizzare l’utente dei servizi. L’approccio
bottom-up è una strada, fondata sui bisogni reali, per dare informazioni utili ad una
definizione accurata del fenomeno. La centralità del privato sociale (come osservatorio,
promotore di progettualità e gestore di interventi) nella definizione degli indirizzi politici
è auspicabile sia per il ruolo da essi svolto e da tutti riconosciuto, sia per i problemi di
contrazione delle risorse; entrambi questi fattori dovranno portare a una progressiva e
crescente consapevolezza dell’insufficienza del pubblico nel rispondere ai bisogni del
territorio.
72
D’altra parte si tratta anche della presa d’atto di un fenomeno che ha visto una crescita
complessiva tumultuosa negli ultimi vent’anni, e che dunque si è ritagliato sul campo
una centralità di fatto nella capacità di lettura della realtà e di risposta al bisogno. Tale
centralità ha già informato l’azione del legislatore, in particolare con la creazione di un
sistema integrato di servizi socio sanitari sul territorio, attraverso la legge quadro
328/2000, che riconosce e legittima l’azione del privato sociale, soprattutto per
valorizzarne il ruolo di osservatorio sulla realtà e di contributo alla programmazione
delle politiche. La legge prevede la progettazione partecipata (e dunque la gestione
delle risorse economiche dedicate) degli interventi socio-sanitari da parte di Comuni,
ASL, mondo del non profit, organizzati in Piani Sociali di Zona. In proposito è
opportuno citare un comunicato in data 20/12/2007 del Forum del Terzo Settore Lazio,
il quale denuncia una forte preoccupazione per il fatto che a tutt’oggi la Regione non
ha ancora approvato un proprio Piano Sociale (dopo quello del periodo 1999-2001),
disattendendo le esplicite indicazioni in tal senso della legge regionale 38/96. In realtà
nel Lazio l’applicazione della legge 328/2000 al gennaio 2006 vedeva importanti
progressi, seppur in assenza di una legge di riordino (Pesenti, 2006).
Gli ultimi dati disponibili relativamente alle organizzazioni non profit, considerate nel
loro insieme, sono quelli rilevati nel Censimento Istat “Istituzioni non profit in Italia”
(Istat 2001), con riferimento all'anno 1999. Successivamente l'ISTAT ha presentato
dati più aggiornati relativamente alle organizzazioni di volontariato (per gli anni 2003 e
2001), alle cooperative sociali (per gli anni 2005 e 2003) e alle fondazioni (2007,
relative all'anno 2005). Per valutare il fenomeno è eloquente il dato occupazionale: in
totale le persone impiegate nel terzo settore in Italia assommavano a poco più di
3.900.000 (ISTAT, 2001), 3.220.000 volontari (81,0%), 532.000 dipendenti (13,4%),
80.000 collaboratori (2,0%), 96.000 religiosi (2,3%), 28.000 obiettori di coscienza
(0,7%), 18.000 lavoratori distaccati da altre entità (0,6%). Riaggregando i dati relativi
alle persone che hanno un contratto lavorativo (dipendenti, collaboratori, distaccati), il
totale dei lavoratori retribuiti nel terzo settore assomma a circa 629.000 unità (16% sul
totale delle persone impiegate). Le organizzazioni del privato sociale crescono come
numero, come fatturato, come numero di persone impiegate e come numero di
persone retribuite. La Terza rilevazione sulle organizzazioni di volontariato (FIVOL
2001) rileva inoltre una progressiva strutturazione delle realtà, che diventano più
grandi e dotate di organizzazione interna. A loro volta crescono le associazioni di
73
secondo livello e i consorzi, creando strutture reticolari e di servizio. Tali affermazioni
trovano opportuna conferma anche nei dati statistici, come dimostra la seguente
tabella, rappresentativa dell’evoluzione del terzo settore sotto il profilo quantitativo.
Dalla lettura dei dati emerge chiaramente l’intenso processo di proliferazione di
organizzazioni senza scopo di lucro: negli anni ’70 e dal 1990 ad oggi si assiste ad un
aumento del numero di nuovi enti costituiti contrassegnato da tassi di crescita che
arrivano a sfiorare il 400% rispetto ai periodi precedenti.
Tabella 6. L’evoluzione del terzo settore in Italia. Numero di costituzioni e tassi di crescita
Fino al
1950
Dal 1951
al 1960
Dal 1961
al 1970
Dal 1971
al 1980
Dal 1981
al 1990
Dopo il
1990
N°
%
N°
%
N°
%
N°
%
N°
%
N°
%
Centro
2.211
-
1.045
-52,7
1.684
61,1
5.225
210,3
11.06
9
111,8
25.73
1
132,5
Isole
588
-
286
-51,4
493
72,4
2.376
381,9
6.237
162,5
14.41
4
131,1
Sud
1.193
-
411
-65,5
683
66,2
3.237
373,9
8.146
151,7
23.20
4
184,9
Nord-ovest 3.369
-
1.428
-57,6
2.497
74,9
7.504
200,5
13.52
4
80,2
30.17
6
123,1
Nord-est 2.893
-
1.675
-42,1
2.522
50,6
6.271
148,7
12.62
8
101,4
28.68
9
127,2
4.845 -52,8 7.879 62,6 24.613 212,4 51.604 109,7 122.214 136,8
Totale 10.254
Fonte: elaborazione dati Istat, maggio 2003, Roberta Pace “Il terzo settore nel Lazio” .
Volendo osservare il terzo settore nella regione Lazio si possono utilizzare i dati del
censimento per l’industria del 2001. Come si osserva nella sottostante tabella 7,
l’associazionismo e il mondo cooperativo si distinguono soprattutto nei servizi: scarsa è
la presenza di cooperative o altre istituzioni non profit all’interno del settore
commerciale o dell’industria (comparto questo relativamente poco rappresentato in
generale nell’economia regionale). Sono i servizi e, in particolare, i servizi alla persona
il segmento fondante del terzo settore laziale. Su 17.864 istituzioni il 99% ricade in
questa categoria. Se si analizza poi la distribuzione tra le varie categorie di enti si
evidenzia una netta prevalenza delle associazioni (riconosciute e non). Sono in
dettaglio oltre 12.000 quelle non riconosciute e quasi 4.000 quelle riconosciute. La
tendenza storica comunque tende ad assottigliare questa distanza, in quanto con il
passare del tempo sono sempre di più le associazioni che scelgono di aderire al registro
regionale. Per quanto concerne nello specifico la cooperazione sociale il censimento
74
Istat evidenzia la presenza di circa 400 soggetti operanti sul territorio. Risulta
interessante anche la presenza delle fondazioni che, con oltre 300 soggetti, si delinea
come la categoria per così dire nuova del terzo settore (anche in virtù della riforma
delle IPAB). Solo cinque di queste sono fondazioni di origine bancaria, la cui
importanza nel sostegno delle iniziative del territorio si è dimostrata essere
fondamentale. Rispetto ad altre regioni italiane, ad oggi, il peso di questi finanziamenti
è ancora limitato soprattutto in considerazione di una minor capacità di spesa di tali
fondazioni. Appare comunque innegabile il passaggio da una condizione di residualità e
marginalità che caratterizzava il comparto fino a non molti anni fa, ad una condizione
di protagonismo nella struttura sociale ed economica della Regione. Il totale delle
organizzazioni non profit presenti nel Lazio ammonta ad oltre 17.300 unità, gran parte
delle quali ubicate nel territorio della Provincia di Roma (oltre il 65%) e per l’88%
costituite da Associazioni.
75
Tabella 7 - Terzo settore in Lazio
INDUSTRIA
Associazione
riconosciuta
Fondazione
Associazione
non
riconosciuta
Cooperativa
sociale
Altra
istituzione
non profit
Totale
Viterbo
0
0
0
1
0
1
Rieti
0
0
0
2
0
2
Roma
1
2
0
15
4
22
Latina
0
0
0
2
0
2
Frosinone
0
0
1
4
0
5
Totale
1
2
1
24
4
32
COMMERCIO
Associazione
riconosciuta
Fondazione
Associazione
non
riconosciuta
Cooperativa
sociale
Altra
istituzione
non profit
Total
e
Roma
0
0
1
0
1
2
Totale
0
0
1
0
1
2
ALTRI
SERVIZI
Associazione
riconosciuta
Fondazione
Associazione
non
riconosciuta
Cooperativa
sociale
Altra
istituzione
non profit
Totale
Viterbo
489
8
862
18
48
1.425
Rieti
264
8
518
23
29
842
Roma
2.410
271
8.990
233
610
12.514
Latina
306
5
1.226
49
25
1.611
Frosinone
375
12
980
49
24
1.440
Totale
3.844
304
12.576
372
736
17.832
Fonte: censimento industria Istat 2001
Complessivamente, il terzo settore della regione Lazio copre circa il 30% delle
istituzioni di tutto il centro Italia e solamente il 7% di quello della penisola. Ben altro
peso hanno regioni come la Lombardia, l’Emilia-Romagna, il Veneto e il Piemonte che
sono ben al di sopra di tale livello.
76
Per ciò che concerne i dipendenti si calcola che il non profit occupi circa 117.00024
persone solo nel Lazio a cui si devono sommare oltre 300.000 volontari.
Complessivamente il peso è pari al 15% della forza lavoro regionale. Il dato risulta
essere notevole, anche se confrontato con quello nazionale, in quanto gli occupati del
settore risultano essere il 22% del totale italiano e ben il 74% delle regioni del Centro.
7.2 Il sistema della cooperazione
Con la legge n. 87/1987 “previsione di contributi a favore delle cooperative integrate”
la Regione Lazio anticipava la regolamentazione nazionale delle cooperative sociali
avvenuta con la L. 381/1991. Il recepimento degli indirizzi nazionali da parte della
Regione Lazio avvenne però solamente cinque anni dopo, con la legge regionale n.
24/1996. Nel testo normativo vengono indicate come cooperative sociali le
organizzazioni che perseguono gli scopi previsti dalla L. 381/1991 attraverso la
gestione dei servizi socio-sanitari ed educativi, lo svolgimento di attività diverse,
agricole, artigianali, industriali, commerciali, di formazione professionale o di servizi,
finalizzate all'inserimento lavorativo di persone svantaggiate. Al 2001, risultavano
iscritte nel registro regionale delle cooperative sociali 47125 cooperative, di cui 303
nella sola provincia di Roma. La distribuzione territoriale dimostrava, infatti, una forte
incidenza della provincia di Roma che assorbe il 63% delle organizzazioni della Regione
(40% dei quali espressi dalla sola città di Roma); seguivano Latina e Frosinone, che si
attestavano al 14% del valore complessivo. Più indietro invece Viterbo e Rieti che si
fermavano al 6 e 5% rispettivamente. I dipendenti delle cooperative, come si può
osservare nella tabella, dimostrano la crescita del settore generalizzata in tutto il
contesto italiano, anche se il fenomeno risulta particolarmente pronunciato in Lazio,
dove il numero dei lavoratori è incrementato nel giro di sei anni di quasi due volte.
24
25
Elaborazione di COSIS su dati ISTAT.
I dati sul totale delle cooperative laziali appare discordante tra la fonte regionale e quella Istat.
Complessivamente l’Istat ha rilevato meno di 400 cooperative, mentre la Regione nel suo registro ne
segnalava 470. Di questo dato si tiene conto nella distribuzione territoriale.
77
Nello stesso periodo il dato italiano di crescita è stato sensibilmente inferiore
attestandosi al 118%.
La dimensione media delle cooperative laziali è inferiore rispetto alla media nazionale.
Si calcola che il valore medio sia di 27 soci per cooperativa, contro un dato medio
nazionale che è di 32 unità. La differenza è ancora più marcata se si prendono in
considerazione i
valori di
alcune regioni
estremamente attive nel
versante
cooperativistico, come la Toscana (43), le Marche (48), il Piemonte (39). In sintesi si
può affermare che, seppur in crescita, il mondo delle cooperative nel Lazio si presenta
come ancora parzialmente debole e frammentato. Le imprese sono molto giovani e non
hanno una strutturazione e un sistema di relazioni come quello che si registra nelle
altre regioni del centro. In particolare risulta essere sottodimensionato il mondo delle
cooperative sociali di tipo B, le realtà locali infatti sono affette da problemi di bassa
capitalizzazione e carenza di organico, fattori che impediscono in molti casi l’accesso ai
bandi più significativi e che rendono difficoltoso il raggiungimento di adeguate soglie di
fatturato e la gestione dei flussi finanziari. La sottocapitalizzazione, unita alla
dipendenza da una clientela per lo più pubblica (in particolare il Comune e le ASL),
rende molto fragile la ricerca di un equilibrio finanziario del settore; sempre dal punto
di vista finanziario la situazione è aggravata da una rilevante esposizione dei soggetti
cooperativi nei confronti del sistema sanitario regionale; quest’ultimo infatti,
negli
ultimi anni, si è dimostrato essere un cattivo pagatore accumulando ritardi rilevanti
circa i flussi finanziari.
Nonostante questo quadro, complesso e non privo di difficoltà, il sistema cooperativo si
è comunque contraddistinto da sempre per le sue capacità di inserire all’interno del
mondo del lavoro i soggetti deboli e in difficoltà. Nel 2000 in Lazio erano 1.182 i
soggetti inseriti nel terzo settore, con una crescita del 28% rispetto all’anno
precedente. L’efficacia del sistema cooperativo è resa ancora più evidente se lo si
relaziona alla capacità di inserimento lavorativo di categorie svantaggiate quale è ad
esempio quella del personale disabile in piccole e medie imprese. Una ricerca
commissionata dalla Regione26 ha rilevato che nel Lazio le PMI spesso non
26
Indagine sull’inserimento lavorativo disabili nelle PMI del Lazio, Istituto Montecelio, 2002.
78
ottemperano neppure agli obblighi di legge, tant’è che il 16,7% delle imprese non ha
assunto nessun disabile contravvenendo all’obbligo previsto nella legge 68/99 e solo il
3% ha fatto uso degli incentivi previsti dalla legge regionale 19 del 2003.
Recentemente l’ISTAT ha pubblicato il Rapporto “Le cooperative sociali in Italia Anno
2005”, con dati aggiornati. La ripartizione territoriale è riportata nella tabella 8.
Tabella 8: Ripartizione territoriale delle cooperative sociali in Lazio.
Viterbo
39
Rieti
33
Roma
452
Latina
81
Frosinone
114
Lazio
719
Fonte: ISTAT, 2008
La crescita rispetto al 2001 è sostanziale, trattandosi di un +52% in quattro anni. Per
le nostre analisi diventa inoltre interessante analizzare il dato delle cooperative sociali
di
tipo
B distribuite per
tipologia di
persone
svantaggiate
che
impiegano
prevalentemente.
Tabella 9: Soggetti deboli inseriti in cooperative sociali di tipo B, distribuzione territoriale e per
Disabili fisici,
psichici e
sensoriali
Disoccupati
Minori
Pazienti
psichiatrici
Persone con
altro disagio
Totale
9
12
142
1
0
14
8
21
207
RI
0
4
64
0
0
14
0
5
87
RM
53
361
2.101
30
18
313
286
19
3.181
LA
5
6
230
16
4
5
32
2
300
FR
1
4
242
11
8
37
10
6
319
Lazio
68
387
2.779
58
30
383
336
52
4.094
Dipendenti
Detenuti ed
ex detenuti
VT
Tossico
Alcolisti
tipologia
Fonte, ISTAT, 2008
La tabella mette in luce che a fronte di una notevole crescita nella capacità di
79
inserimento di persone “svantaggiate” in cinque anni (+246%), sono nettamente
prevalenti le iniziative per i disabili fisici, psichici e sensoriali rispetto alle altre possibili
categorie. Tale dato riporta però all’osservazione fatta in precedenza sulla necessità di
mettere mano alla legge 381/1991, al fine di superare quelle limitazioni che derivano
da un approccio definitorio delle categorie di svantaggio che tende ad escludere un
numero rilevante di soggetti.
7.3 Le associazioni di volontariato
La legge quadro n. 266 del 1991 è stata recepita dalla Regione con la legge regionale
n. 29/93, che creava l’apposito registro regionale del volontariato. Dall’analisi di tale
registro risulta che nel periodo tra il 1993 ed il 2000 l’incremento del numero di
organismi iscritti ha raggiunto il 43%, crescita concentrata soprattutto tra il 1995 e il
200027. Nell’analisi delle organizzazioni di volontariato operanti nel Lazio, occorre
partire da una fondamentale distinzione tra gli enti iscritti nel registro regionale e quelli
che non sono iscritti. Anche i dati relativi al fenomeno risentono di tale situazione,
rendendo sicuramente ardua l’opera di rilevazione delle organizzazioni nel loro
complesso. Nonostante lo sviluppo di cui sono state protagoniste nel corso degli ultimi
anni, i dati dicono che la presenza delle organizzazioni di volontariato (OdV) nel Lazio
sconta ritardi nei confronti di altre Regioni. La densità delle OdV – inteso come numero
di organizzazioni ogni 10.000 abitanti – nel Lazio e nel resto d’Italia, è indicatore
preciso di tale differenza. Nella classifica proposta il Lazio occupa le ultime posizioni
con una densità pari a 2,8, contro una media nazionale di 4,6 e valori che superano
quota 7 in territori quali la Sardegna, l’Emilia Romagna e la Valle d’Aosta. Nel 2001, in
Lazio le organizzazioni di volontariato registrate erano circa 1.40028. Tra queste, quelle
iscritte al registro regionale scendevano a 523. Oggi al registro sono iscritte 722 OdV.
La banca dati del volontariato (consultabile sul sito www.volontariato–lazio.it) conta
27
Lunaria, 2001, Credito ordinario e terzo settore a Roma, ricerca svolta su incarico del Comune di Roma
– Dipartimento per le politiche sociali, Roma, settembre.
28
Fivol, rilevazione e censimento delle OdV del 2001.
80
1371 organizzazioni di volontariato e 190 associazioni attive in Regione Lazio. La loro
provenienza, come nel caso delle cooperative, è concentrata in particolar modo su
Roma (60%), seguita da Rieti e Latina (entrambe collocate sull’11%), mentre
Frosinone e Viterbo si attestano sull’8%. A differenza delle cooperative però, le
organizzazioni di volontariato appaiono più equamente distribuite sulle restanti
province.
Tabella 10: Le associazioni di volontariato nella Regione Lazio, percentuale di associazioni che
esercitano una tipologia di attività
Tipologie di attività
% di associazioni che
esercitano una tipologia di
attività, anche in modo non
esclusivo
% di associazioni che
esercitano una tipologia
come attività prevalente
Lazio
Centro
Italia
Lazio
Socio-assistenziali
59
54
54
37
Sanitarie
29
43
41
15
Protezione civile
18
17
15
10,5
Educative e formative
50
39
40,5
10
Ambiente e natura
23
16
14
8
Tutela diritti
33
22,5
22
8
Beni culturali
20
16
15
5
Solidarietà internazionale
12
10
9
4
Attività ricreative
24
26
25
2
Attività sportive
13
11
10
1
Raccolta fondi
10
10
9
0
Coordinamento di gruppi
7
5
4
0
1
1
1
0
Altre
Fonte: Fivol, dati 2001
Si nota che le attività prevalenti delle associazioni di volontariato nel Lazio è quella di
tipo socio-assistenziale, che occupa il 37% delle realtà regionali. Seguono le attività
sanitarie con il 15% e quelle più propriamente legate all’ambiente e alla sua tutela che
hanno rispettivamente l’8% e il 10%. Un 10% è raggiunto anche dalle attività
formative e l’’8% dalla tutela dei diritti, mentre le altre categorie pesano meno del 5%
ciascuna. Se si considerano complessivamente tutte le attività svolte dalle OdV ci si
rende conto come una su due si occupi di attività socio-assistenziali o educative, una
81
su tre svolge attività di tipo più prettamente sanitario e di tutela dei diritti e una su
cinque si occupa anche di tutela dei beni culturali, attività ricreative e di protezione
civile.
Per quanto concerne i soggetti destinatari dell’intervento si osserva come i soggetti su
cui maggiormente si concentrano gli aiuti siano gli anziani a cui si dedicano il 35%
delle OdV presenti sul territorio Laziale. Seguono i malati e i poveri con il 30% e di
seguito sette categorie a cui si dedicano tra il 20 e il 30% delle associazioni: famiglie,
handicappati fisici, handicappati mentali, Minori tra zero e dodici anni, adolescenti tra
13 e 17, giovani tra 18 e 29 e immigrati. Le altre categorie comprese nella definizione
ex legis di soggetti svantaggiati sono affrontate da un numero minore di soggetti ed
esplicitamente: alcolisti 8%, nomadi 11%, ragazze madri 11%, detenuti 7%,
tossicodipendenti 11,5%, sieropositivi 6%, prostituzione 2%.
Più forte risulta rispetto alle cooperative per l’ambito delle OdV l’accentramento su
Roma e il riferimento a soggetti appartenenti al mondo cattolico; quest’ultima
caratteristica dipende ovviamente dal fatto che Roma è il luogo scelto come sede
nazionale e come centro mondiale di buona parte del volontariato di matrice cattolica.
Ciononostante si rileva una tendenza a una sensibile e progressiva diminuzione del
peso delle organizzazioni di dichiarata matrice ideologica e soprattutto di quelle legate
da rapporti più o meno diretti alla Chiesa. Circa il 25% delle associazioni di volontariato
presenti nel Lazio si dichiara infatti “aconfessionale”. (Eurispes, 2001).
La presenza di molte sedi nazionali e di “rappresentanza” è comunque un fattore da
tenere in considerazione e spiega perché le associazioni non presentano i tradizionali
indici di specializzazione del comparto, dichiarando di occuparsi di una pluralità di temi,
come è dimostrato dalle risposte multiple riportate nella tabella precedente.
Le organizzazioni di volontariato e il mondo delle associazioni in genere scontano,
molto più che il mondo della cooperazione sociale, fenomeni di scarsa strutturazione e
un dimensionamento che non permette di liberare risorse per lo sviluppo e il
miglioramento dei servizi, affidandosi, in molti casi, all’energia e al tempo di persone
che prestano volontariamente il loro lavoro. Vero è che si assiste ad una progressiva
professionalizzazione anche all’interno delle OdV, rendendole sempre più attore attivo e
capace di partecipare in maniera proattiva alla progettazione e programmazione degli
interventi.
82
Per le OdV i problemi relativi alle fonti di finanziamento sono connessi al fatto che le
entrate sono costituite in misura significativa da fonti di provenienza di privati, erogati
sotto forma di donazioni, contributi da parte dei soci, autofinanziamento. La difficoltà
nel pianificare tali entrate incide pesantemente sulla progettualità e sulla capacità di
risposta al bisogno. Le entrate di provenienza pubblica sono per lo più provenienti da
contributi erogati dagli enti locali e dalla stipula di convenzioni. In entrambi i casi, però,
si registrano valori inferiori rispetto alla media nazionale e del territorio del centro
Italia. Tale circostanza può essere in parte dovuta alla non completamente riuscita
applicazione della legge quadro sul volontariato, anche relativamente ad un’incapacità
istituzionale di informare il tessuto delle associazioni al fine di sensibilizzarle circa
l’opportunità offerta dall’iscrizione al registro regionale.
Per quanto riguarda la concentrazione territoriale si può citare un’indagine condotta da
EURISPES “L’associazionismo e non solo”, del 2001, che testimoniava la priorità
accordata nei finanziamenti alla Provincia di Roma; ma la disaggregazione dei dati
evidenziava che tale centralità della provincia di Roma nella spesa Regionale non
significava affatto una maggiore disponibilità di risorse a favore delle OdV romane
prese singolarmente: alle province di Latina, Frosinone, Rieti e Viterbo sono stati
attribuiti in media fondi pari a circa 2.400 euro per ciascuna associazione; agli enti
situati nei comuni della provincia di Roma i contributi ammontano a circa 2.300 euro; a
favore delle organizzazioni ubicate nel comune di Roma l’importo scende a circa 2.000
euro. Essa riflette dunque ancora una volta la maggior presenza di iniziative scaturite
dalla società civile.
In ogni caso, l’articolazione del sistema delle Odv non permette di trarre conclusioni di
tipo generale a partire dalle scarne statistiche citate, l’universo dei soggetti è infatti
troppo diverso per dimensioni, per livello di operatività, per settore e metodo
d’intervento e richiederebbe un’analisi le cui dimensioni debordano gli obiettivi della
presente sintesi.
7.4 Le fondazioni
La presenza di fondazioni (grant making e operative) appare nel Lazio particolarmente
significativa, in particolare se commisurata all’incidenza sul totale delle fondazioni del
83
Centro Italia.
Tabella 11: Le fondazioni in Italia
Lazio
371
Centro
813
Sud e Isole
693
Nord
1.955
Italia
3.461
Lazio/Centro
45,6%
Lazio/Italia
Fonte: Istat, dati aggiornati al 2003.
10,7%
Disaggregando il dato è evidente come le presenza di fondazioni sia un fenomeno che
riguarda quasi esclusivamente la Provincia di Roma, con più del 92% del totale
regionale.
Tabella 12: Le fondazioni nel Lazio
Frosinone
15
4,0%
Latina
2
0,5%
Rieti
7
1,9%
Roma
343
92,5%
4
1,1%
371
100%
Viterbo
Totale
Fonte: Istat, dato aggiornati al 2003.
Per quanto riguarda le Fondazioni di Origine Bancaria, nel Lazio sono presenti cinque
fondazioni, tre nella Provincia di Roma, una a Rieti e l’altra a Viterbo. Si tratta, nello
specifico, delle seguenti istituzioni: Fondazione Cassa di Risparmio di Roma (Roma);
Fondazione Cassa di Risparmio di Rieti (Rieti); Fondazione Carivit (Viterbo); Fondazione
Cassa di Risparmio di Civitavecchia (Roma); Fondazione Banca Nazionale delle
Comunicazioni (Roma).
La presenza delle Fondazioni di Origine Bancaria è un fattore chiave nello sviluppo di
servizi sociali nel territorio, ponendosi esse come la fonte privata principale di
finanziamento del sistema di servizi (pubblici e privati). Esse utilizzano il patrimonio per
finanziare enti terzi attuatori degli interventi, con particolare attenzione al mondo del
non profit. Ogni anno le fondazioni bancarie erogano risorse ingenti (circa un miliardo e
84
mezzo di euro nel 2006) che sono in costante crescita e che afferiscono a settori
identificati dal D.lgs. 17/5/1999 n. 153, art. 2. Le iniziative finanziate sono state, in
Italia, 28.850 con un valore medio di circa 55.000 euro.
L’insistenza sul ruolo delle Fondazioni grant making nel sostenere il sistema del non
profit (e quindi la risposta ai diversi bisogni emergenti dalle varie forme di povertà) è
giustificata dal fatto che i beneficiari delle erogazioni sono in gran parte le
organizzazioni non profit a cui va il 61,4% degli importi erogati che rappresentano il
66,1% del numero degli interventi. Ad essi occorre aggiungere un ulteriore significativa
quota che va ad appannaggio delle istituzioni religiose. La tipica modalità erogativa di
tali enti che consiste prevalentemente nella chiamata per progetti si apre alla creatività
delle ONP riconoscendo loro la capacità di intercettare i bisogni dei territori.
Le Fondazioni grant making assumeranno quindi un ruolo crescente nella governance
della comunità territoriale per garantire un adeguato sostegno ai tentativi di risposta ai
fenomeni di povertà e di esclusione sociale. Un ruolo che riguarderà soprattutto la
governance
locale perché, come emerge dai dati, vi è una forte caratterizzazione
localistica dell'attività di erogazione delle fondazioni: le erogazioni destinate alla
regione di appartenenza sono infatti sempre in larga maggioranza (82,4% degli importi
e 94,2% del numero di iniziative).
85
8. Le opinioni degli stakeholder
Questa prima parte del lavoro si conclude con un approfondimento che deriva da una
serie di interviste (23) effettuate su un campione di soggetti che si ritiene abbia un
ruolo rilevante nell’identificare i problemi oggetto dell’analisi del volume, sia per la loro
implicazione operativa nella formulazione delle risposte, sia per il ruolo che giocano
nella governance complessiva del sistema regionale. La scelta di effettuare le interviste
risiede dunque ancora una volta nella convinzione che gli operatori, chi lavora sul
campo, è in grado di offrire un contributo essenziale e realistico circa i problemi da
affrontare e le azioni da mettere in campo.
L’analisi non ha pretesa di significatività e quindi gli interlocutori contattati e intervistati
non esauriscono la mappa dei soggetti interessati dalla politica in questione. Inoltre
l’attenzione degli stessi interlocutori privilegiati contattati ha scontato, in alcuni casi,
una certa diffidenza per la novità portata dalle procedure messe in campo dalla
Sovvenzione Globale. La conseguenza operativa è stata una certa riluttanza da parte di
realtà comunque importanti del mondo del non profit e dei servizi sociali a partecipare
alla rilevazione, riluttanza che in alcuni casi si è esplicitata in un espresso diniego ad
essere coinvolti.
I testimoni privilegiati interpellati sono stati scelti tra i rappresentanti di:
- Cooperazione sociale
- Organizzazioni di volontariato
- Enti ecclesiastici
- Enti Locali (Comuni e Province)
- Amministrazione Regionale
- Sistema della finanza etica
- Formazione professionale
Da tale indagine è possibile trarre alcune conclusioni fondamentali, che fanno
riferimento ai beneficiari finali, alla struttura degli interventi di risposta al problema
86
dell’esclusione sociale, e ad una nuova prospettiva di medio periodo.
Il fenomeno dell’esclusione è percepito come un problema essenzialmente di esclusione
dalla vita attiva e dal lavoro, ma si sottolinea che esso coinvolge altre dimensioni che
devono essere comunque prese in considerazione: la salute innanzitutto, la fragilità e
la vulnerabilità nel tempo, le reti sociali. Senza un’azione integrata anche il problema
del lavoro diventa di più difficile soluzione.
Tale osservazione appare chiara anche dalle indicazioni strategiche presentate dai
decisori politici, e dalla struttura stessa del terzo settore nel Lazio (ma è possibile
dimostrare una coerenza in tutto il paese) nella quale il carattere multidimensionale del
problema esclusione trova simmetria nel carattere multidimensionale delle soluzioni
proposte. Il problema esclusione, che certamente ha un carattere comune nella
condizione di povertà, si radica d’altra parte in una condizione che oggi è preferibile
definire “fragilità” o “vulnerabilità” (Rapporto 2006 su Povertà ed Esclusione sociale in
Italia). Tale condizione ha impatto certamente sull’inserimento lavorativo, dunque sulla
capacità di produrre reddito, e in questo si lega al problema “povertà”, ma anche su
molte altre dimensioni dell’esistenza, sulla salute e sull’integrazione sociale in primo
luogo, che creano uno stato di debolezza sistemica, dove ogni elemento incide su tutti
gli altri. Se l’intervento per la lotta all’esclusione vuole affrontare il problema “fragilità”
deve dunque sposare un approccio multidimensionale, dove insieme ci si fa carico del
problema di inserimento lavorativo, ma anche del sostegno al disagio, della cura
sanitaria, della mediazione culturale, della promozione della socialità, ecc. In caso
contrario gli interventi rischiano di produrre risultati nel brevissimo periodo e di
risultare completamente inefficaci nell’impatto di medio e lungo termine.
Si evidenzia l’importanza di non fornire solamente supporti (accoglienza o processo
formativo) nella fase acuta del bisogno; occorre cercare di consolidare in qualche modo
l’assunzione delle persone svantaggiate. La stabilizzazione dell’inserimento lavorativo
questo costituisce il reale problema quando i soggetti escono dalla rigida definizione e
dalle agevolazioni che la legge 381/91 prevede, senza essersi però ancora liberati della
propria vulnerabilità individuale.
Un ulteriore elemento che conviene sottolineare è la maggiore sensibilità nei confronti
di un approccio preventivo ai fenomeni di esclusione, che ha certamente indubbi riflessi
positivi sul lato dell’efficienza della spesa nel lungo periodo, e che, soprattutto,
87
costringe ad affrontare le cause prime e fondamentali del problema. In questo senso si
leggono le sempre maggiori attenzioni del decisore politico e del legislatore, sollecitati
da un’urgenza sociale, in merito al problema educativo e dunque anche alla centralità
della famiglia. Politiche di sostegno alla famiglia in tutte le sue dimensioni e con tutti gli
strumenti possibili, a partire dalla leva fiscale, sono necessarie non solo per affrontare
il problema demografico e previdenziale, ma anche per liberare risorse economiche,
emotive e culturali in direzione della cura dei minori e degli anziani. Le politiche nei
confronti dei giovani, per una migliore istruzione e formazione professionale, per
combattere il fenomeno della dispersione e degli abbandoni, per incentivare una
coscienza sociale e civile, per educare al rispetto e alla dignità personale non possono
essere promosse dall’improvvisazione e dall’urgenza, ma promuovono i fondamenti del
vivere civile e condizione essenziale nella lotta alle diseguaglianze nella fruizione dei
diritti, al disagio e all’esclusione sociale.
Tra gli intervistati non vi è una visione univoca circa la dimensione quantitativa e la
rilevanza delle varie sfaccettature del fenomeno esclusione sociale; normalmente
l’intervistato tende a far prevalere la sua visione particolare che gli deriva
dall’implicazione con un problema specifico. Conseguentemente, a seconda dei casi,
emergono come fasce di maggior criticità e come zone scoperte da precedenti
interventi di sostegno: la prostituzione, i tossicodipendenti, le donne sole, i carcerati, le
disabilità fisiche e psichiche, gli immigrati. Questa tendenza non è ascrivibile
principalmente ad una miopia sistemica, quanto piuttosto al fatto che tutte le energie
sono assorbite dalla necessità di trovare forme operative e risorse finanziarie capaci di
sostenere il loro sforzo. A ciò si aggiunga il fatto che esistono evidenti lacune nella
reperibilità di dati rappresentativi degli universi di riferimento e nella loro fruibilità da
parte del sistema degli operatori.
Già l’analisi delle associazioni di volontariato ha mostrato come la maggior parte delle
attività
risulti
concentrata
sull’assistenza
all’handicap,
fisico
e
psichico,
e
all’immigrazione. Questo dato è coerente con una forte tradizione di assistenza
all’handicap e con la presenza importante dell’immigrazione nel Lazio.
In tale quadro è però emerso il peggioramento della situazione dei portatori di
handicap psichiatrico, in parte dovuto alla deospedalizzazione in seguito alle riforme
degli Anni Novanta. Ciò non toglie che il problema sembri essere molto più di ordine
assistenziale, piuttosto che di incentivo all’inserimento lavorativo.
88
L’immigrazione è percepita come problema per i risvolti che ha in merito
all’integrazione (quindi non solo dal punto di vista lavorativo), soprattutto dei
clandestini e per le conseguentemente che ne derivano in termini di microcriminalità. E’
vero d’altra parte che la condizione dell’immigrazione in quanto tale non è
necessariamente sinonimo di svantaggio, per cui risulta più utile, come si evince dalle
interviste, concentrarsi su fenomeni all’immigrazione connessi, ma trasversali. In
questo campo, in particolare nell’individuazione dei soggetti appartenenti a queste
categorie dovrebbe essere è stato sollecitato un ruolo degli enti locali, in quanto si
denuncia una mancanza di conoscenze e di iniziative per affrontare problemi che si
rivelano spesso come radicalmente nuovi.
Le interviste, in particolare con il mondo associativo, fanno emergere che nell’ambito
degli stranieri la caratteristica di immigrato vada incrociata con altre forme
(maggiormente definite e normate) di svantaggio: ad esempio i casi degli adolescenti
extracomunitari soli, o delle donne sole con figli a carico. L’eventuale individuazione di
aree particolarmente svantaggiate all’interno della popolazione immigrata non dovrà
però essere adottata poi in modo discriminante: e le categorie indicate potranno essere
considerate prioritarie, ma assolutamente non esclusive.
Dall’analisi sul campo è purtroppo emerso che sono numerosi i campi di intervento
ancora scoperti, o perché non c’è una tradizione consolidata di attività di assistenza e
inserimento lavorativo, oppure perché mancano ricerche e dati organizzati, o ancora
perché esistono meno iniziative. I principali, emersi dal dialogo con gli osservatori sono
i seguenti, fermo restando il fatto che, come verrà discusso più avanti in questo
rapporto, il concetto di “nuova povertà” è per definizione impossibile da identificare in
modo definitivo e rappresenterà dunque sempre la frontiera sia dal versante
conoscitivo sia su quello operativo:
- dipendenze
- sieropositivi
- detenuti ed ex detenuti
- persone che intendono uscire dal percorso della prostituzione
- nuove povertà
Qui di seguito si riportano alcune osservazioni più specifiche relative ai principali
89
sottogruppi del campione intervistato.
a) Cooperative
Il mondo cooperativo si è dimostrato essere la categoria più attenta alle opportunità di
finanziamento pubblico, anche in virtù della propria capacità di progettazione e
promozione di interventi. La situazione finanziaria in cui gravano (limitatezza di fondi
regionali e gravi problemi di liquidità) fa sì che vedano nel fund raising verso operatori
pubblici, nelle call for proposal in particolare, la possibilità di sostentamento e di
crescita.
Se dal punto di vista strutturale il settore cooperativo laziale dimostra alcuni punti di
debolezza (bassa capitalizzazione, lacune nel management, dipendenza pressoché
totale dai soggetti pubblici per le commesse), dovuti anche alla relativa giovinezza del
settore, dall’altro la loro capacità progettuale e di risposta ai bandi regionali è sempre
stata di ottimo livello e costituisce dunque un ottimo retroterra per una futura
creazione di un sistema d’azione integrato. Dal punto di vista dei soggetti deboli
attualmente il sistema cooperativo sembra molto orientato alle categorie tradizionali
dello svantaggio (tossicodipendenza, detenuti, extracomunitari in misura maggiore)
anche in virtù dei vincoli normativi alla loro azione.
b) Associazioni
Anche il mondo dell’associazionismo si è dimostrato molto interessato per le chiamate a
progetto da parte del donatore pubblico, questo tendenzialmente per le stesse ragioni
che sono state definite per il settore cooperativo; se l’associazionismo rileva problemi
di frazionamento e di bassa specializzazione come tutto il terzo settore laziale, d’altra
parte si dimostra pronto a cogliere le misure di finanziamento proposte dagli enti locali
e risulta essere sempre pronto a cogliere e cercare di portare risoluzione ai fenomeni di
nuova emarginazione espressi dal territorio. Da questo settore sono giunte infatti
alcune indicazioni (per ora più esemplificative che altro), circa le nuove frontiere delle
nuove povertà nella Regione Lazio che possono essere riassunte in tre categorie: le
donne sole con figli a carico, gli adulti disoccupati con elevata scolarizzazione, gli
adolescenti extracomunitari senza famiglia.
Dalle interviste risulta anche una maggior flessibilità dell’associazionismo rispetto al
settore cooperativo rispetto alla possibilità di lavorare in rete collaborando con altri
soggetti al fine di elaborare progetti comuni o di partecipare a bandi di gara.
90
c) Enti di formazione
Le indicazioni di tale categoria di attori sono molto concentrate sulle difficoltà inerenti
la chiamata a progetti che rappresenta la loro fonte principale di fatturato. Essi
lamentano numerose problematiche legate alla difficoltà di compilazione dei bandi
regionali e circa la difficoltà di comprensione dei bandi stessi. Alcune critiche sono state
espresse anche nei confronti della procedura di accreditamento degli enti formativi. È
stata segnalata la necessità di rivedere alcuni meccanismi di funzionamento regionali
che attualmente presentano delle distorsioni; ad esempio, l’attuale procedura di
accreditamento degli enti che possono offrire servizi ai soggetti svantaggiati è stata
definita eccessivamente flessibile; il riferimento è ai contenuti del DGR Lazio n. 1509
del 2002, questa procedura ha infatti permesso, secondo l’opinione degli intervistati,
che entrassero nel sistema alcuni enti formativi non sufficientemente specializzati nel
campo del disagio sociale. Un’ulteriore critica si concentra sull’impossibilità di realizzare
efficaci azioni di inserimento lavorativo per i soggetti deboli e svantaggiati che
necessitano di diverse azioni di supporto: approfondita azione di orientamento
preventiva, formazione mirata e articolata ai soggetti deboli, e supporto e
accompagnamento all’ingresso del mercato del lavoro. I corsi proposti non sono
“improvvisati” nella loro progettazione, ma spesso vengono formulati attraverso uno
stretto raccordo con il mondo del terzo settore e delle cooperative sociali. Accade
anche che siano le stesse imprese a chiedere alle strutture formative di realizzare
specifiche azioni formative. Questi progetti molto articolati, complessi e quindi lunghi,
sono stati realizzati fino al 2000 (circa). Successivamente, a causa di fondi regionali
ridimensionati, e di diverse scelte di politica regionale sociale, è stato possibile
realizzare solo azioni di formazione in senso stretto.
Una maggiore attenzione andrebbe posta, secondo gli istituti di formazione, verso le
categorie di svantaggio quali gli immigrati, i portatori di handicap, i disabili psichiatrici
(disagio accentuato dalla deospedalizzazione seguita alla riforma degli Anni Novanta
del settore), i detenuti. È indispensabile, ad avviso degli intervistati, rivedere in molti
aspetti la direttiva di gestione 1509, già citata, che prevede criteri di partecipazione e
frequenza troppo generici e talvolta inapplicabili (vengono citati come esempio il bando
per tossicodipendenti, piuttosto che le difficoltà legate alla selezione o frequenza dei
detenuti). Maggiore attenzione viene anche richiesta circa la progettazione degli
interventi per non creare dei progetti di formazione staccati dall’inserimento lavorativo
91
che deve, a parere degli intervistati, essere sempre considerato come il risultato finale
atteso di ogni azione di supporto.
d) Pubbliche Amministrazioni
In generale le istituzioni interpellate appartenenti alla Pubblica Amministrazione hanno
mostrato una certa diffidenza e talvolta poca disponibilità nell’essere coinvolte nel
progetto. La natura di questi enti, incentrata sui problemi inerenti la gestione e la
valutazione dei bandi sposta in effetti il loro interesse sulle dinamiche relative al
funzionamento e alle procedure innescate dalla gestione di forme innovative di
chiamata a progetti più che sul tema del reinserimento lavorativo dei soggetti deboli.
Le considerazioni espresse da questa tipologia di intervistati insistevano principalmente
sulle competenze specifiche del singolo ente, non arrivando quasi mai a considerazioni
sulle nuove povertà e su possibili interventi in questo ambito. Nel caso dell’ente
provinciale ad esempio, l’attenzione era molto concentrata sull’attività svolta in
collaborazione con i centri per l’impiego e con altri soggetti, anche privati,
relativamente a progetti di formazione e inserimento lavorativo di alcune categorie di
soggetti deboli. Ciononostante la loro visione di insieme del contesto territoriale ha
permesso di raccogliere molteplici segnalazioni riguardanti i soggetti operanti sul
territorio, che hanno fornito un valido punto di partenza per intercettare i soggetti
maggiormente coinvolti nelle problematiche oggetto della presente indagine.
92
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95
PARTE SECONDA
Verso una definizione di nuova povertà
A cura di:
Elena Ragazzi
Contributi di: Gian Franco Corio
Maria Marenna
Paola Pellegrino
Valeria Rossi
Paolo Saracco
Carmen Strano
96
9. Nuove povertà o nuove cause di povertà?
L’attività di ricerca sulla definizione di nuove povertà rientra negli obiettivi di ricerca
intrapresa nell’ambito del progetto finanziato dalla Regione Lazio, attraverso la
sovvenzione globale “piccoli Sussidi” Misura B.1 - “Inserimento lavorativo e
reinserimento di gruppi svantaggiati”, in cui sono emersi, già in fase di pianificazione
operativa e nelle indicazioni della ricerca preliminare, alcuni punti di difficile analisi.
Prima di tutto si osserva una mancanza di rilevazioni ufficiali e di dati aggregati per la
definizione e la delimitazione del fenomeno dell’esclusione sociale in linea generale, a
tale riguardo la prima fase operativa della ricerca esaminava la scelta e la creazione di
strumenti operativi utilizzabili dall’osservatorio regionale sull’esclusione sociale.
Accanto a questo primo obiettivo strategico, si è affiancata la possibilità di definire o di
delimitare le categorie definibili svantaggiate, le quali rientrano nelle utenze delle
politiche contro l’esclusione sociale.
Questo secondo obiettivo deriva principalmente dall’aver osservato l’aleatorietà del
fenomeno dell’esclusione sociale e dal limite poco chiaro tra le varie categorie definite
soggetti deboli, in particolare per quanto riguarda l’analisi sul fenomeno delle nuove
povertà, categoria di difficile definizione anche solo nella conoscenza delle
caratteristiche predominanti dei soggetti definibili “nuovi poveri”. Inoltre, anche se
considerati soggetti emergenti nel nostro contesto nazionale e regionale di riferimento,
mancano ricerche approfondite ed esaurienti. Infine la normativa stessa mostra delle
lacune e delle contraddizioni, infatti affronteremo l’esame delle leggi vigenti in materia
di contrasto alla povertà, alla fine di questo report (PAR 8), per dare una visone più
completa e unitaria al fenomeno oggetto di studio.
In risposta a tale problema si è successivamente impostato un lavoro di definizione di
nuove povertà, proprio per fornire strumenti e metodologie di ricerca che possono
essere adottate dall’Osservatorio regionale o direttamente dagli operatori del terzo
settore per la raccolta di informazioni sulle caratteristiche dell’utenza e dei servizi ad
essa rivolti.
97
Pertanto si è partiti da una ricerca bibliografica, quindi da un’analisi della letteratura
esistente sul tema della povertà, attraverso l’esame di pubblicazioni internazionali e
italiane.
L’analisi documentale ha prodotto un database che consente una facile consultazione e
ricerca del materiale in esso contenuto. Vengono visualizzate le seguenti informazioni
per ogni documento:
Titolo - Autore/i - Data di pubblicazione - Casa editrice/Rivista (vol., n) - Breve sintesi
dei contenuti. È inoltre possibile effettuare una ricerca su parole chiave, per autore,
titolo e tipologia di documenti. È possibile infine visualizzare per intero la scheda e
stamparla, oltre che scaricare il file in pdf della stessa.
Il database riflette quindi i principali campi presenti all’interno della scheda standard di
rilevazione del materiale.
Tale analisi ha permesso di costruire una base teorica su cui successivamente creare
un’ipotesi di ricerca per la definizione di nuove povertà.
Il passo successivo è stato quello della verifica delle ipotesi di ricerca attraverso
interviste a testimoni privilegiati.
Lo scopo principale dell’intervista è stato quello di delineare, definire, sviluppare
insieme agli intervistati una definizione condivisa di “nuove povertà”, per questo le aree
semantiche all’interno della traccia dell’intervista hanno toccato vari argomenti correlati
non solo al concetto di povertà, ma anche al concetto di esclusione sociale e a tutte
quella categorie di soggetti a cui spesso le politiche sociali, del lavoro e le politiche
formative si rivolgono, affinché si fortifichi l’inclusione sociale di alcuni soggetti definibili
deboli.
Soggetti deboli che molto spesso si intrecciano tra di loro passando da una categoria
all’altra senza avere una delimitazione sufficientemente chiara: infatti, molto spesso si
è poveri ma si è anche disoccupati, oppure si è occupati ma comunque al limite di
esclusione sociale perché non autosufficienti (esempio anziani soli).
Soggetti deboli non solo a livello economico, non si è solo più semplicemente poveri,
ma deboli perché psicologicamente instabili, deboli perché precari nel mondo del
lavoro, deboli perché appartenenti a famiglie “fragili”, o perché originari di altre
culture, quindi esclusi non perché poveri ma esclusi perché “diversi”.
98
Inoltre il fenomeno dell’esclusione sociale è strettamente legato al territorio ma anche
al contesto temporale di riferimento, ciò significa che i poveri o gli “esclusi” di oggi
sono “vittime” o “cause” della situazione socio-economica della zona territoriale di
appartenenza, e non sono solo più deboli perché hanno caratteristiche fisiche o
endemiche precise e costanti nel tempo.
In Italia c’è una grossa differenza tra nord e sud, viene considerata povera una
famiglia di due persone che vive con un livello mensile di consumi inferiore alla media
procapite (definita su base annua dall’Istat): le famiglie povere generalmente sono
caratterizzate dalla presenza di uno o più anziani, di uno o più disoccupati, di donne
capofamiglia. La povertà estrema invece riguarda situazioni di marginalità e
principalmente i senza fissa dimora, gli immigrati clandestini, i nomadi e i malati di
mente.
Relativamente alle definizioni classiche di povertà presenti in letteratura, che
distinguono tra povertà assoluta e povertà relativa, tra povertà oggettiva e povertà
soggettiva o che distinguono tra gli approcci multidimensionali e unidiemnsionali,
qualitativi o quantitativi, abbiamo scelto di non addentrarci e non schierarci verso uno
o l’altro modo di osservare tale fenomeno: tale scelta deriva dalla constatazione che le
varie dicotomie si intersecano tra di loro, si combinano e si sovrappongono dando
luogo a una gamma potenziale di definizioni di povertà e di concetti affini, come
vulnerabilità, marginalizzazione o esclusione sociale.
Pur riconoscendo nel pluralismo di idee, di strumenti, di metodi, un ingrediente
fondamentale per la libertà di ricerca, non può non sorgere il timore che la letteratura
sulla povertà rischi di apparire confusa e contraddittoria.
Disordine difficile da strutturare all’interno di una intervista a testimoni privilegiati, per
questo l’intervistato è stato lasciato libero di esprimere la propria opinione, senza
proporgli definizioni standard o delimitare l’approccio di analisi del problema in una
matrice prestabilita. Ma anche perché probabilmente tutte le definizioni proposte in
letteratura, giuste o sbagliate che siano, sono fin troppo approfondite ed esaustive per
descrivere l’argomento in questione.
Nello stesso tempo la ricerca ha un obiettivo preciso, quale appunto la definizione di
nuovo povero rispetto al vecchio povero e verificare se esiste una tale differenza, che
non sempre è stata contemplata dalla letteratura in materia. Infatti, quando si parla di
99
nuove povertà si ipotizza l’esistenza di vecchie povertà, il dubbio è capire chi
appartiene ad una rispetto all’altra categoria e se esiste un limite così limpido e preciso
tra vecchio e nuovo.
Naturalmente il presupposto di partenza è che i nuovi poveri abbiano in comune con i
cosiddetti vecchi poveri la mancanza di un sostentamento economico in grado di tenerli
al di sopra della soglia di povertà, ma con caratteristiche o situazioni familiari
psicologiche e sociologiche differenti ed emergenti.
Un ulteriore spunto di analisi è stato la rilevanza della situazione lavorativa di un
determinato soggetto rispetto al rischio di entrare o di uscire dalla stato di povertà: la
domanda a cui dare una risposta sembra essere quanto e fino a che punto il lavoro e
soprattutto i nuovi lavori atipici possano influenzare non solo lo stato economico di una
famiglia ma la sua stessa composizione (fenomeno della famiglia allargata).
La disoccupazione è anche la principale preoccupazione che viene espressa nei
documenti sulle politiche sociali della Commissione d’indagine sull’esclusione sociale e
del Consiglio Europeo. Emerge, infatti, da una parte, l’enfasi sul carattere
multidimensionale della povertà e dell’esclusione sociale, che implica un intervento non
solo sul fronte occupazionale o della protezione sociale, ma anche su quelli delle
politiche legate ad esempio all’edilizia abitativa, all’istruzione, alla sanità, alla sicurezza
sul posto di lavoro e altre aree legate al benessere del cittadino. Dall’altra parte, però,
si ribadisce che “l’occupazione è la migliore tutela contro l’esclusione sociale” e che “i
sistemi di protezione sociale svolgono un ruolo strategico”.
Infine, si scelto di dare uno spazio a ciò che potrebbe accadere in futuro, verificando
l’effettiva esistenza della categoria delle nuove povertà, analizzando quale sarà la
tendenza futura e quale direzione le politiche di oggi dovrebbero seguire non solo per
combattere la povertà ma anche per prevenirla.
9.1 Metodologia di ricerca
Le ipotesi di ricerca sopra descritte sono state verificate attraverso interviste semi
strutturate a testimoni privilegiati, condotte nel mese di maggio 2007 ad esponenti
scientifici di particolare rilevanza accademica. Quindi, sono state condotte cinque
interviste a rappresentanti scientifici e con indubbie competenze teoriche rispetto
100
all’oggetto della ricerca, la “definizione delle nuove povertà”.
La scelta di utilizzare, inizialmente, strumenti conoscitivi di tipo qualitativo è stata
guidata dall’esigenza di conoscere, ricostruire ed approfondire il tema oggetto
d’indagine, per superare, anche, in parte, la rigidità e le carenze dei dati secondari a
disposizione. Nell’intervista semistrutturata, infatti, attraverso una gestione attenta e
partecipata del momento dell’incontro tra intervistatore ed intervistato, è possibile
analizzare in modo esauriente una tematica ampia e rilevante per il soggetto
contattato. Ogni colloquio permette di “entrare” nella storia dell’individuo intervistato,
tentando un recupero della totalità dell’esperienza soggettiva senza sacrificare la sfera
dei mondi vitali dello stesso (Montesperelli, 1998)29.
I colloqui si sono incentrati su tematiche attinenti e conseguenti alle nuove categorie di
soggetti deboli definibili “nuovi poveri”, con particolare riguardo al mondo lavorativo e
alle tendenze future sul tema dell’esclusione sociale, legate ai nuovi cambiamenti non
solo sulle politiche del lavoro, ma anche rispetto alle politiche formative e alle politiche
sociali.
Seguendo uno schema classico per le interviste “non direttive”, la traccia utilizzata non
ha compreso domande (vedi allegato n. 1), bensì temi di discussione che sono stati
affrontati con gli intervistati, lasciandoli liberi di rispondere a loro piacimento.
L’intervistatore aveva la possibilità di fare domande (sempre all’interno dei temi
previsti), sia per aiutare l’intervistato ad orientarsi rispetto al tema, sia per avere dei
chiarimenti sul suo pensiero, sia per stimolarlo a continuare (effetto probing). I temi
sono stati organizzati in modo da essere utilizzati trasversalmente e da consentire di
“leggere” in continuità il materiale narrativo delle interviste.
L’intervista semistrutturata proposta ai soggetti prescelti, quindi, è stata articolata
secondo le seguenti aree tematiche, associando a queste ultime delle parole chiave per
delimitare il campo di ogni area semantica, ma anche per orientare l’intervistatore
durante il colloquio.
29
P. Montesperelli, “L’intervista ermeneutica”, 1998.
101
Tabella 13: Aree tematiche e parole chiave
Area tematica
Parola chiave
Rischio di esclusione sociale
Vulnerabilità
povertà fluttuante
working poors
Lavoro e situazione famigliare
contratti atipici/nuovi tipologie
contrattuali
famiglie fragili
famiglia allargata
Percezione soggettiva di povertà
povertà soggettiva
povertà relativa e assoluta
Tendenze e strategie future
strumenti di monitoraggio
politiche sociali di contrasto alla povertà
La realizzazione delle interviste ha previsto la registrazione dei colloqui su supporto
audio, cui ha fatto seguito la sbobinatura “pura” dei nastri e l’analisi del contenuto
narrativo delle stesse.
Trattandosi di un approccio qualitativo, nel corso dell’esame dei dati raccolti non
vengono riferite frequenze, cioè entità numeriche relative alla comparsa di opinioni,
fenomeni o atteggiamenti, quanto, piuttosto, “addensamenti” di indicazioni fornite dagli
intervistati a conferma della rilevanza di un certo tema rispetto ad altri.
Il nucleo del report è stato impostato sugli argomenti topici trattati nella traccia
d’intervista e si è deciso di inserire nel discorso interpretativo teorico brani di
narrazione, perché è apparso rilevante, ai fini del lavoro, non solo il concetto inerente
l’interpretazione che veniva trattata, ma anche il contesto e il modo in cui ciò è stato
espresso.
9.1.1 Gli intervistati
Le interviste semistrutturate sono state rivolte a testimoni significativi, ossia a persone
considerate una fonte di informazione di grande rilievo per il ruolo che essi ricoprono
nel contesto sociale di riferimento. Il testimone significativo può essere portatore di
conoscenze particolari, idee originali o rispecchiare opinioni e caratteristiche del gruppo
cui appartiene, può rivestire una carica ufficiale, essere un leader d’opinione o di
comunità, oppure non ricoprire nessun ruolo formale, ma l’importante è che abbia una
102
profonda conoscenza dell’oggetto della ricerca, abbinata ad una buona capacità di
comunicazione e ad una certa disponibilità a collaborare.
La selezione dei testimoni qualificati può avvenire secondo due vie: la prima consiste
nel far scegliere ad esperti i nominativi dei testimoni qualificati; la seconda
nell’applicare il campionamento cosiddetto a “valanga”, che consiste nel partire con un
primo gruppo di testimoni, che a loro volta, forniscono altri nomi di soggetti da
contattare, i quali poi dovranno fare altrettanto. In questo caso sono state usate le due
vie in modo complementare, attraverso una breve intervista telefonica alla dott.ssa
Anna Maria D’Ottavi, docente di Organizzazione del Servizio Sociale all’Università di
Roma 3, sono stati consigliati altri docenti da intervistare e questi ultimi, impossibilitati
a svolgere l’intervista, hanno suggerito di contattare alcuni loro collaboratori. Altri
testimoni privilegiati sono stati invece contattati grazie alla rete di relazione personale
dei ricercatori coinvolti nel progetto.
Cinque è il totale delle interviste realizzate:
a) il prof. Rovati del Dipartimento di Sociologia dell’Università Cattolica di Milano,
presidente della Commissione di indagine sull’esclusione sociale (CIES) per i trienni
2002-2005 e 2005-2008;
b) il prof. Mingione (insieme al dott. Benassi) Preside del Dipartimento di Sociologia
della Bicocca;
c) il prof. Blangiardo professore ordinario di demografia (Università Bicocca);
d) il prof Nicola Negri del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli Studi di
Torino;
e) la prof. Norma De Piccoli del Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di
Torino.
Rispetto all’ultima intervista si è scelto di approfondire alcuni aspetti prettamente
psicologici legati al concetto di vulnerabilità, alla quale fa riferimento il capitolo 9 dove,
oltre a descrivere la letteratura di ambito psicologico, sono stati riportati alcuni
passaggi delle interviste svolte.
L’aleatorietà del fenomeno considerato si palesa sia dal punto di vista quantitativo che
qualitativo e si riproduce nella difficile definizione di chi sono oggi i soggetti deboli e, in
particolare, quali sono le nuove povertà, alle quali spesso si associa una difficoltà nel
103
costruire un quadro evolutivo che porti a “strade” certe e costanti nel tempo.
Per far fronte a tale problema, si è deciso di dare un’impostazione metodologica
qualitativa in base alle conoscenze a alle esperienze di chi per tanti anni si è occupato
di questi temi, captando quelli che per loro sono i veri significati nascosti all’interno di
definizioni, troppo statiche e poco estendibili a una popolazione più ampia e più
rappresentativa di un determinato periodo storico culturale, come quello in cui oggi noi
viviamo.
A tale riguardo, i capitoli che seguiranno descrivono per ogni area semantica, presente
all’interno della traccia dell’intervista, i significati che i testimoni privilegiati hanno dato
rispetto a un determinato fenomeno legato alle nuove povertà.
L’effetto di tale strategia ha permesso di non inficiare le risposte dei testimoni alla
nostra ipotesi iniziale, cercando di svincolare l’intervistato da pregiudizi concettuali e
alimentando un meccanismo di libera associazione tra una rappresentazione mentale e
l’altra.
9.2 Approcci internazionali
Per tentare una definizione di povertà è opportuno ricordare alcune teorie presenti
nella letteratura internazionale. Un approccio fondamentale è quello proposto da
Amartya Sen, secondo il quale il livello di povertà in un Paese e la qualità della vita
possono essere misurati in modo più appropriato rispetto alle valutazioni costruite sugli
approcci tradizionali basati sul livello del PIL pro capite o sulla misurazione delle
risorse, misurando quindi non già la ricchezza e la sua distribuzione, ma cercando di
capire ciò che le persone sono in grado di fare ed essere in una particolare società,
quanto le persone siano libere di scegliere la propria vita nella concretezza delle loro
condizioni particolari. Da tale approccio, sintetizzabile attraverso il concetto di
“entitlement”, che si basa sui parametri di funzione e capacità (intesa come libertà
positiva), discende che la povertà è la mancanza della titolarità di beni funzionali ai
propri bisogni, e sembra il più appropriato per riferirsi a società avanzate e complesse.
Il rapporto tra il cambiamento della domanda e il cambiamento delle condizioni di vita
e di riproduzione della forza lavoro riescono infatti a spiegare in modo significativo il
riprodursi della povertà anche in contesti economicamente sviluppati, specialmente in
104
relazione alla trasformazione post-fordista delle società avanzate e allo sviluppo del
settore dei servizi.
A tale approccio si accosta la base filosofica proposta da Martha Nussbaum, fondata sul
concetto aristotelico di essere umano e su quello che definisce liberalismo neoaristotelico, ovvero l’importanza della dimensione del bisogno nell’essere umano
accanto a quella del possesso della ragione. Perciò, ogni concezione dei diritti, delle
libertà e della dignità umana deve fare i conti con la condizione di bisogno degli esseri
umani, con i vincoli, le dipendenze e le interdipendenze create da questi bisogni. Nei
Paesi in via di sviluppo spesso le capacità delle persone e, soprattutto, delle donne
sono limitate, a partire dalla possibilità di immaginazione e le capacità di gioco per i
bambini, considerati spesso esclusivamente come forza lavoro. In un’ottica incentrata
sul bisogno, è fondamentale l’elenco proposto dalla Nussbaum e messo a punto con il
contributo di diversi ricercatori e operatori internazionali, che aiuta la valutazione della
qualità della vita e della progettazione politica e che mira a selezionare le capacità
fondamentali per ogni vita umana, a prescindere dalla cultura di riferimento. Gli
elementi di tale elenco sono: vita; salute fisica; sensi, immaginazione e pensiero;
sentimenti; ragion pratica; appartenenza; gioco; controllo del proprio ambiente.
Altro elemento fondamentale nell’analisi della povertà è la concezione dinamica: la
povertà, più che come una condizione, va pensata come un processo cumulativo che
impedisce di arrivare a una condizione di benessere o ne allontana e che trae origine
da una iniqua distribuzione delle opportunità offerte alle persone di prendere decisioni
utili a migliorare il proprio benessere. Le persone povere sono tali perché sprovviste
delle condizioni personali (di salute o istruzione) e ambientali favorevoli; tale
definizione, in contrasto con la concezione liberale diffusa storicamente nel mondo
anglosassone, secondo cui la povertà dipende dall’individuo, che per pigrizia non ha la
volontà di cercare un’occupazione e affrancarsi dalla miseria, pone enfasi su tutti i
fattori, oltre al reddito, che compongono la nozione di sviluppo, ovvero la salute,
l’accesso alle risorse, l’autostima, le relazioni sociali.
Nelle società avanzate di oggi, in genere, il profilo della nuova povertà è caratterizzato
da quattro aree principali, riconducibili ad altrettante dimensioni della vita umana: la
sopravvivenza (povertà estrema); la carenza di reddito (principalmente legata alla
disoccupazione o all’occupazione mal retribuita); le conoscenze (in particolare la
difficoltà di accesso alle tecnologie informatiche della comunicazione); l’impoverimento
105
della qualità della vita e delle relazioni sociali (tipico delle società post-industriali e
misurabile attraverso il numero di suicidi, le spese per psico-farmaci, il traffico, …).
9.3 Il rischio di esclusione sociale
Il fenomeno dell’esclusione sociale fa diretto riferimento al concetto di inclusione
sociale, ossia all’ambito di tutte le politiche sociali che coinvolgono la promozione di
pari opportunità per l’accesso all’istruzione, ai servizi collettivi, all’assistenza sanitaria
da parte della collettività intera. Esistono alcune categorie di persone che l’ordinamento
decide di tutelare a causa della loro particolare condizione di fragilità di fronte alla
complessità delle dinamiche della società odierna. L’appartenenza delle persone alle
cosiddette “fasce deboli” della popolazione, quelle appunto bisognose di tutela, può
dipendere da molteplici fattori: dalle malattie fisiche o mentali, portatrici di diverse
disabilità, ai contesti familiari problematici, agli eventi traumatici (detenzione
carceraria, dipendenza da fenomeni esterni quali alcool, droga e gioco d’azzardo), alle
conseguenze patologiche dell’immigrazione.
Accanto a queste categorie di persone, sono emerse nel corso degli anni altre tipologie
di soggetti che non è possibile tipizzare nelle fasce deboli sopra indicate, dal momento
che fanno parte di nuove aree sociali di debolezza che non rientrano nelle fattispecie
tradizionali. Sono persone che subiscono fattori di vulnerabilità dettati dai cambiamenti
e dal dinamismo del mondo attuale. Alla base di queste situazioni di rischio c’è un
insieme di eventi che possono essere diversi, ma i soggetti interessati condividono tra
loro una condizione di difficoltà economica.
Il rischio di essere collocati ai margini della società e, dunque, di ricadere nella fascia di
povertà tradizionale, per questi soggetti è pertanto dovuto al sommarsi di deficit
personali, relazionali e culturali a uno stato di difficoltà finanziaria.
L’esclusione sociale è prodotta da un insieme di fattori spesso concomitanti: fattori
economici, culturali, politici ed istituzionali. Sicuramente esiste un nesso tra esclusione
sociale e disoccupazione: infatti, se ogni forma di disoccupazione è di per sé una
potenziale fonte di indebolimento, sia della piena partecipazione alla vita economica e
sociale dei singoli, sia della base di finanziamento delle politiche di inclusione, il rischio
dell’esclusione dai legami sociali ed economici connessi al lavoro risulta particolarmente
106
elevato quando la disoccupazione diventa di lunga durata, è estesa a tutta la famiglia
(adulti e minori di 18 anni che vivono in famiglie senza lavoro), è distribuita in maniera
diseguale sul territorio, ovvero è concentrata in misura elevata in alcuni ambiti
territoriali (coefficiente di variazione dei tassi di occupazione regionale). E’ dunque a
questi tre indicatori che si deve guardare con particolare preoccupazione.
La disoccupazione di lunga durata è comunque un fenomeno tipicamente del
Mezzogiorno: la quota di disoccupati da più di un anno sul totale dei disoccupati è qui
addirittura doppia rispetto al Nord-Est (55% contro 28%) e comunque notevolmente
più alta che nel Nord-Ovest (38%) e nel Centro (41%). Particolarmente difficile sembra
essere il reinserimento nel mercato del lavoro dei lavoratori maturi (50-64 anni) che
hanno perso l’occupazione: ad un tasso di disoccupazione che complessivamente
rimane basso si associa una incidenza della lunga durata prossima al 60%. All’altro
estremo, nella fascia d’età d’ingresso nel mercato del lavoro (15-24 anni) si contano
molti più disoccupati, ma la quota delle lunghe durate è decisamente più bassa
(intorno al 40%)30.
Analizzando nel dettaglio quali possono essere i fattori di esclusione sociale, si può
cominciare a definire il concetto di vulnerabilità come uno stato a partire dal quale
possono essere compromesse molteplici dimensioni: economica, familiare, sociale,
lavorativa. Un soggetto a rischio, colpito da un evento quale ad esempio una malattia,
può ricadere in una condizione di povertà da cui è difficile uscire, soprattutto a causa
della sua incapacità psicologica e personale ad affrontare la situazione di difficoltà. Il
percorso che porta un individuo in condizioni di indigenza economica può, quindi, avere
origine in un evento che non ha connotazioni economiche, come l’esempio della
malattia o come la mancanza di rapporti relazionali costruttivi, o la condizione di
solitudine di molti anziani. Qualsiasi situazione di disagio comporta diversi livelli di
esclusione sociale, proprio perché la povertà non può essere ridotta esclusivamente ad
un fattore economico.
L’esclusione sociale è anche un problema di deprivazione di risorse culturali e cognitive.
Essa si esprime sia nelle disuguaglianze o barriere di accesso rispetto a queste risorse,
30
G. Rovati, “Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale”, 2007.
107
e rispetto ai sistemi educativi e ai circuiti di comunicazione e d’informazione, sia nella
discriminazione o emarginazione di gruppi e popolazioni che portano valori e culture
diversi, accompagnate da forme più o meno esplicite di razzismo.
Al giorno d’oggi si assiste ad una vera e propria crisi di equilibri sociali: alcuni individui
diventano più poveri anche nelle occasioni e nelle possibilità di esprimere la propria
soggettività, il che provoca una rottura nelle dinamiche di coesione sociale. Si pensi
all’accesso alle opportunità formative in ambito professionale, esso è sicuramente più
limitato per i lavoratori a bassa qualifica con la conseguenza che, in caso di perdita del
lavoro, faticherebbero notevolmente a trovarne un altro. Oppure, restando nel campo
del lavoro, la discontinuità dei percorsi professionali e la limitata programmabilità del
proprio futuro possono alimentare la dimensione e la qualità dei fenomeni di
marginalità, coinvolgendo un numero sempre maggiore di individui.
I rischi di questo tipo sono stati descritti efficacemente dal Prof. Nicola Negri:
“L’esclusione avviene comunque anche sul terreno delle condizioni di partecipazione
alla vita civile. Essa si esprime nel mancato accesso formale o di fatto al sistema dei
diritti civili e politici, nonché alle garanzie e ai diritti sociali che dovrebbero essere
prerogativa di ogni cittadino”31.
Per le fasce di individui a rischio di povertà, si è parlato anche di “quasi poveri”32, a
causa della loro vulnerabilità economica e personale nell’affrontare situazioni di
difficoltà, con il rischio di alternare periodi di disagio a periodi di relativo benessere. E’
utile, inoltre, sottolineare come la maggior parte di questi soggetti (per lo più anziani
con una bassa scolarità) si consideri anche soggettivamente povera, avendo dunque
una percezione negativa della propria condizione al di là dei fattori oggettivi e
materiali.
L’esclusione sociale è pertanto un fenomeno complesso, composto da marginalità
economica, discriminazione culturale ed esclusione civile, e comunque relativo a gruppi
31
Prof. Nicola Negri, Relazione presentata nel corso della giornata di studio “Occasioni per l'inclusione
sociale: disagio mentale e disagio giovanile. Analisi e parametri a partire dall'edilizia pubblica. Una
riflessione per l'Europa” svoltasi a Torino il 23/03/2000.
32
Prof. Francesca Zajczyk, “Vecchie e nuove povertà: Milano e hinterland a confronto”, 2005.
108
sociali svantaggiati. Occorre in proposito prendere in considerazione anche ulteriori
aggravanti: le disabilità fisiche e psichiche, l’appartenenza a un genere (le donne) o a
un’età della vita (gli anziani, i bambini), oppure ad un’etnia o cultura discriminati (le
minoranze, gli immigrati), in più la condizione di vivere in comunità locali tagliate fuori
dalle dinamiche economiche attuali. Sono questi i tipi di popolazione che troviamo
dappertutto al centro di situazioni di esclusione sociale, ossia situazioni in cui
l’integrazione viene impedita dall’impossibilità di fruire o, addirittura, di accedere ai
diritti sociali. Si è parlato per la prima ipotesi di “cause sociali dell’esclusione, per
quanto riguarda soggetti che hanno dei diritti ma non riescono ad esercitarli, e di cause
politiche dell’esclusione, relativamente ai problemi di accessibilità ai diritti”33. La lotta
contro l’esclusione sociale diventa lotta contro queste dinamiche. L’impossibilità di
esercitare tali diritti può produrre situazioni di marginalità o di povertà, anche se non
tutti i fenomeni di esclusione sono fenomeni di marginalità, poiché talvolta il
sentimento di disaffiliazione può derivare da altri fattori soggettivi.
9.4 Lavoro e situazione familiare
Il decentramento amministrativo e le trasformazioni del mercato del lavoro si sono
accompagnate a interventi di riforma volti a realizzare un welfare di tipo promozionale,
in grado di aumentare la popolazione attiva ed il numero di occupati, accompagnando
le tradizionali misure di intervento contro la povertà ed il disagio con strumenti volti
all’occupabilità e alla creazione di opportunità; infatti, significativi risultati in termini di
occupazione aggiuntiva si realizzano solo in presenza di politiche pubbliche per il lavoro
e l’occupabilità, sostenute da un sistema integrato di servizi sociali, servizi per
l’impiego, interventi formativi e servizi alle imprese.
Il Consiglio Europeo di Lisbona del Marzo 2000 andava in questa direzione, rilanciando
la Strategia Europea per l’occupazione e attribuendo valori quantitativi all’obiettivo
occupazionale: incremento del tasso di occupazione europeo dal 61% al 70% entro il
2010, con la creazione di 20 milioni di nuovi posti di lavoro e una crescita del tasso di
33
Prof. Nicola Negri, cit.
109
attività femminile dal 51% al 60%.
In data 31 luglio 2003 veniva approvato dal Consiglio dei Ministri il D. Lgs. n. 276 del
10 settembre 2003. Con questo decreto, il Governo italiano dava attuazione alla delega
parlamentare contenuta nella legge n. 30 del 14 Febbraio 2003 (c.d. Legge Biagi) di
riforma del mercato del lavoro. Tale riforma risulta essere ispirata alle indicazioni
delineate a livello comunitario nell’ambito della cosiddetta “Strategia Europea per
l’occupazione”34 del Piano Nazionale per l’occupazione del 2003, del processo di
Lisbona del 2000, dove si è evidenziata la preoccupante situazione occupazionale
europea: in tal sede, è stato sottolineato come una delle principali cause della
disoccupazione in Europa fosse rappresentata dal basso tasso di creazione di nuovi
posti di lavoro e dalla necessità di una permanente riforma del mercato del lavoro in
termini di organizzazione dell’orario di lavoro, di retribuzione, di mobilità e di
adeguamento dell’offerta di lavoro alle esigenze della domanda.
Con l’entrata in vigore della Legge Biagi, automaticamente entrano in vigore alcune
forme contrattuali chiamate lavori atipici, termine che definisce, per differenziazione, le
modalità di lavoro che non presentano i caratteri del lavoro subordinato standard. La
diffusione delle forme di lavoro "atipico" è un fenomeno che si colloca in un ampio
processo di trasformazioni, relative non solo al mercato del lavoro ma anche ai modelli
produttivi e regolativi, tutte all'insegna della "flessibilità".
A fronte della nascita di nuove forme contrattuali, accanto ai fenomeni di esclusione
totale (chômage totale) dal mercato del lavoro che intervengono a comporre i nuovi
panorami del disagio, si è infatti aggiunta una nuova emergenza e cioè quella della
partecipazione al mercato del lavoro in forma precaria, intermittente, incerta, instabile,
in una parola molto di moda ma dotata certamente di polisemia, flessibile. Questo
aspetto, da non sottovalutare, concorre a delineare in modo dirompente quella che
34
Nella Relazione annuale al Parlamento del 2003 si legge: “la strategia europea per l’occupazione declina
gli impegni di Lisbona in tre obiettivi: la piena occupazione, la qualità e produttività del lavoro, la coesione
e l’integrazione sociale. Il raggiungimento di questi obiettivi richiede riforme strutturali concentrate su dieci
priorità fondamentali, interconnesse tra loro, delineate nelle Linee Guida per l’Occupazione (Decisione del
Consiglio 2003/578/Ce del 22 luglio 2003) perchè costituiscono gli orientamenti specifici per le politiche
degli stati membri a favore dell’occupazione”.
110
Bauman chiama la società dell’incertezza (Bauman, 1999)35 e che, se vogliamo,
potremmo specularmente anche chiamare l’incertezza della società (Chicchi, 2001)36.
Come recentemente descritto37, i giovani per anni non erano considerati a rischio
povertà, in quanto economicamente attivi e in possesso di titolo di studio; attualmente
invece a causa dei vari mutamenti nel mercato del lavoro, anche questa fascia di
popolazione, oltre ad essere a rischio di emarginazione sociale, è anche a rischio di
povertà. Infatti il titolo di studio mediamente più elevato non costituisce più un fattore
di protezione, dal momento che tra i giovani che hanno conseguito un diploma
l’incidenza della povertà è pari al 9,7%, valore superiore al corrispondente dato
generale (7,7%).
Contemporaneamente il basso titolo di studio si associa ad un’incidenza di povertà pari
al 17,9%, valore di quasi quattro volte superiore all’incidenza osservata tra le famiglie
in cui ci sia una persona che ha conseguito almeno il titolo di licenza media superiore.
A conferma dei dati sopra esposti prevale l’opinione che, tra i due poli
esclusione/disoccupazione ed inclusione/occupazione vengono formandosi tutta una
serie di posizioni grigie ed instabili (fluide per dirla ancora una volta alla Bauman) che
compongono un vasto ed inedito (emergente) universo di svantaggio sociale. Con
questo quindi vogliamo sottolineare che la condizione di occupazione non è più
garanzia automatica di inclusione e che occorre verificare anche la qualità complessiva
di quest’ultima.
Per favorire l’inclusione sociale e lavorativa di soggetti in condizioni di svantaggio,
elemento cardine per le politiche del welfare è la costruzione di sistemi integrati di
intervento: con questo enunciato vogliamo sottolineare che l’esclusione sociale è
descrivibile come una condizione di marginalità economica e sociale, riferibile non
soltanto a una situazione di estromissione dal mondo del lavoro ma anche a fragilità di
tipo familiare, relazionale e sociale, a carenze culturali e formative, allo stato di salute
35
36
37
Bauman Z., (1999), La società dell'incertezza, II Mulino, Bologna.
Chicchi F., (2001), Derive sociali, Angeli, Milano.
G. Rovati, (2007), Povertà e Lavoro, Carocci.
111
fisica e psichica, alla precarietà della condizione abitativa, alla difficoltà di accesso alle
opportunità e ai servizi. Ciò implica lo sviluppo delle diverse politiche sociali, sanitarie,
del lavoro, della formazione e lo sviluppo di interventi di rete. Il tutto in una logica di
integrazione e di potenziamento del sistema territoriale.
Per quanto riguarda le famiglie fragili, il Prof. Mingione parla di “infragilimento o rottura
dei rapporti famigliari” indicando questi ultimi fattori come cause di vulnerabilità
inedite: le separazioni, ad esempio, oltre ad essere uno stato psicologico difficile per
l’individuo, costituiscono anche uno peso economico gravoso da sopportare, proprio
perché l’individuo deve affrontare maggiori spese economiche, come per esempio
l’assegno famigliare, un secondo mutuo o un affitto. Tutto ciò porta il soggetto in una
situazione di impoverimento, infatti molto spesso la rottura dei legami familiari è uno
dei passaggi del percorso dei senza fissa dimora, i quali subiscono una nuova forma di
abbandono della famiglia di origine.
Sicuramente la situazione di precarietà o discontinuità nel mondo del lavoro influenza
anche le scelte di vita dei giovani che vogliono formarsi una propria famiglia, creando il
fenomeno della famiglia lunga. Infatti, quando si parla di povertà è importante
considerare i singoli o i nuclei famigliari, perché le condizioni di ogni individuo sono
influenzate dal fatto che debba provvedere solo a se stesso o anche ad altri
componenti della famiglia. Precarietà, discontinuità e lavoro saltuario impediscono
scelte di vita stabili sul versante familiare. Se a questo si aggiunge il lavoro atipico e il
reddito insicuro ad esso associato, la situazione cambia se questo è l’unico reddito
famigliare o se va ad integrare altri redditi del capofamiglia.
Inoltre va sottolineato che, tra le famiglie che hanno la donna come persona di
riferimento, la diffusione di povertà è sostanzialmente analoga a quelle con famiglie
con a capo un uomo, mentre è più discriminante il livello di istruzione raggiunto dalle
persone di riferimento: “risulta povero soltanto il 4,6% delle famiglie con a capo una
persona in possesso almeno della licenza media superiore, l’incidenza sale al 19,3%
delle famiglie con a capo una persona senza titolo di studio o con solo la licenza
elementare: questi dati confermano come bassi livelli di istruzione, esclusione dal
mercato del lavoro o bassi profili professionali si associano strettamente alla condizione
di povertà. La mancanza di lavoro incide in misura decisamente elevata sulle condizioni
di povertà. Oltre un quinto (23,5%) delle famiglie con almeno una persona in cerca di
occupazione è in povertà relativa; questo valore sale di oltre un terzo (37,4%) nel caso
112
in cui i componenti in cerca di lavoro siano due o più; quando nessuna persona è in
cerca di occupazione l’incidenza (10,4%) cade sotto la media”38.
Tentando di dare una spiegazione al fenomeno della cosiddetta “adolescenza
prolungata”, che spinge il giovane a restare con i genitori e a non creare un nucleo
familiare proprio, la prof. De Piccoli parla di “coesistenza di aspetti soggettivi e
oggettivi”: da un lato può esserci la difficoltà psicologica ad abbandonare un contesto
comodo e protetto, oltre alla componente culturale per cui in Italia la famiglia d’origine
è ancora considerata il punto di riferimento oltre i 30 anni d’età; dall’altro lato, tuttavia,
le condizioni di precarietà esistenti fuori dalla famiglia d’origine non invogliano
l’individuo a mettersi alla prova autonomamente. Esiste una concomitanza di lacune:
quelle individuali legate alla difficoltà psicologica di osare, e quelle oggettive dovute
all’assenza delle istituzioni che non predispongono forme di aiuto concrete per
incoraggiare il distacco. Oltretutto, sempre secondo la prof. De Piccoli, per l’attuale
generazione di adolescenti sarà più difficile riuscire a migliorare il livello sociale dei loro
genitori rispetto alla generazione precedente, sia in termini economici, sia in termini di
prestigio del titolo di studio o del lavoro svolto. La causa principale di tale difficoltà è la
precarietà del mondo del lavoro, ma essa finisce per intaccare anche l’identità sociale
dell’individuo, generando una povertà di occasioni, una povertà di possibilità di
crescita.
Per il Prof. Mingione e il Dott. Benassi le politiche del lavoro devono essere sviluppate e
pensate in funzione della situazione dell’individuo singolo e non per i nuclei famigliari,
per quest’ultimi al limite si devono sviluppare eventuali politiche di re-distribuzione.
L’incrocio tra povertà, lavoro e famiglia è un tema importante. Secondo il Prof. Negri, la
causa dell’entrata e uscita dalla povertà non è esclusivamente legata al fattore
economico e ai meccanismi del mercato, ma al modo con cui ad esempio il mercato si
incrocia con le modalità di organizzazione della riproduzione sociale, cioè le modalità di
organizzazione della famiglia e della vita quotidiana.
Il mercato del lavoro attuale genera situazioni di instabilità e questo tipo di struttura
38
G. Rovati, “Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale”, 2007.
113
economica è in contrasto con un’organizzazione sociale che invece, sia dal punto di
vista della famiglia, sia dal punto di vista della strutturazione del welfare, è costruita
con l’idea che la stabilità lavorativa (quindi il contratto a tempo indeterminato)
dev’essere la forma dominante, prevalente attraverso cui i lavoratori organizzano la
propria vita: dal contrasto tra queste impostazioni hanno origine le situazioni di fragilità
sociale.
In definitiva, l’instabilità del mercato è una causa di natura economica della ricaduta in
povertà, ma questa causa economica genera rischi di povertà perché incrocia
un’organizzazione sociale interamente fondata sull’idea di un mercato del lavoro più
stabile.
Il Dott. Benassi, inoltre, afferma che la povertà dei giovani molto spesso è nascosta
all’interno della famiglia di origine ma è una povertà “potenziale”, perché si è troppo
poveri o precari per rischiare di uscire dal nucleo famigliare: infatti, secondo Benassi, la
povertà in Italia è tra le più basse d’Europa proprio perché non evidente ma protetta
dalla famiglia di origine, dove dietro ad un’apparente situazione famigliare sicura si
nasconde una situazione di povertà latente.
Infatti, i giovani tra i 18 e i 34 anni che appartengono a famiglie composte da due
persone rappresentano una quota abbastanza contenuta degli appartenenti a famiglie
povere (6,5%).
Interessante anche quanto emerge rispetto al titolo di studio: secondo il rapporto sulle
politiche contro la povertà e l’esclusione sociale svolto dalla commissione di indagine
sull’esclusione sociale, il titolo di studio modale, tra gli appartenenti a famiglie povere,
resta la licenza di scuola media, ma per i giovani una quota rilevante (35,5%) è
rappresentata comunque da persone che hanno un diploma che consente l’accesso
all’università. Di poco ma comunque più ampio è il peso tra gli appartenenti a famiglie
povere di coloro che hanno una laurea (2,4%).
Per i giovani, nel nostro paese, come testimoniano gli intervistati, ciò che
effettivamente sembra poter fare la differenza è l’uscita dalla casa dei genitori. Le
persone che sono uscite dalla famiglia di origine più spesso si trovano ad appartenere a
famiglie povere.
Un ultimo dato fornito dai nostri testimoni privilegiati, riguarda la situazione delle madri
sole: dalle interviste effettuate è emerso che la percentuale di donne alle soglie della
114
povertà, sole con a carico uno o più figli è tendenzialmente bassa rispetto all’Europa,
mentre cresce la quota di madri sole (separate o vedove) provenienti da ceti sociali
medio bassi, categoria di persone che in passato appartenevano a un ceto medio alto,
quindi con delle risorse economiche sufficienti a sostenere un figlio senza sposarsi.
Questo fenomeno secondo il Prof. Mingione è un punto su cui bisogna interrogarsi,
soprattutto perché attualmente mancano politiche di sostegno per tali categorie di
soggetti deboli.
9.5 La povertà relativa e la percezione soggettiva di povertà
A fronte dei temi descritti sopra, è utile tentare di individuare con maggior precisione
l’area della povertà: generalmente, può definirsi povertà “il progressivo deterioramento
della persona che le impedisce di sopravvivere, persistere e riprodursi per quella che
era prima”39. La povertà tradizionalmente intesa è quella oggettiva, misurabile in base
a criteri economici oggettivi, e si divide in relativa ed assoluta. Secondo i dati ISTAT del
2003, la soglia di povertà relativa per un individuo è di 522 euro mensili, ed è definita
tramite il confronto tra le risorse (redditi e consumi) di ogni individuo e quelle medie di
ogni popolazione. La povertà assoluta, invece, si riferisce al concetto di sussistenza ed
ammonta a 383 euro (i dati del 2004 diffusi dall’ISAE – Istituto di Studi e Analisi
Economica indicano una soglia di 519 euro). A fronte di tali indicatori, in Italia nel 2006
risultavano povere l’11,1% delle famiglie, percentuale sostanzialmente riferita alla
povertà relativa. I dati diffusi dall’ISTAT nel 2007 e relativi al 2006, indicano come il
14,7% della popolazione dichiari di avere problemi a far quadrare i conti alla fine del
mese, mentre il 28,9% degli intervistati affermi di non riuscire a sostenere spese
straordinarie, anche se di importo inferiore a 600 euro. Un’indagine dell’ISTAT del 2002
sulla povertà ha segnalato che oltre il 47% delle famiglie italiane consuma tutto il
proprio reddito mensile, non riesce a risparmiare e, talvolta, è costretta ad indebitarsi.
Più che di diminuzione del livello di povertà rispetto agli anni precedenti, sembra
dunque corretto parlare di un abbassamento del tenore di vita medio, che coinvolge
39
Prof Nicola Negri, cit.
115
famiglie che affrontano le spese ordinarie con sempre meno risorse a disposizione.
Relativamente all’evoluzione della povertà negli ultimi anni, va segnalato come essa si
mantenga sostanzialmente stabile, come descritto in Figura 1, così come restano
praticamente invariate le caratteristiche delle famiglie in difficoltà.
116
Figura 1 - Povertà relativa per ripartizione geografica. Anni 2003-2006 (valori percentuali)
30
25
25
24
22,6
21,6
20
2003
2004
15
11,7
10,8
10
5,5 5,8
5
11,1
7,3
4,7
4,5
6
11,1
5,2
6,9
2005
2006
0
Nord
Centro
Mezzogiorno
Italia
Fonte: dati ISTAT, 2007
Nel Mezzogiorno la quota delle famiglie povere è quasi cinque volte superiore a quella
osservata nel resto del Paese: il fenomeno appare più evidente tra le famiglie con un
elevato numero di componenti (cinque o più), specialmente tra quelle con tre o più
figli, soprattutto se minorenni.
Come evidenziato nella seguente tabella 14, l’incidenza della povertà si manifesta in
particolar modo nelle famiglie con più componenti: su scala nazionale, oltre un quarto
delle famiglie di cinque o più componenti risultano in condizione di povertà relativa,
percentuale che sale a un terzo nel mezzogiorno.
Come dimostrato la presenza di minori aumenta il rischio di povertà, dunque tale
circostanza risulta particolarmente pericolosa in quanto è favorita dalla carenza di
politiche di sostegno alle famiglie e alle donne che devono conciliare i compiti famigliari
con gli adempimenti lavorativi.
Infatti, “in molti casi l’uscita dal mondo del lavoro alla nascita dei figli è una soluzione
obbligatoria data l’impossibilità di mantenere i due ruoli, con la conseguenza di esporre
l’intero nucleo familiare a maggiori rischi di povertà”40.
Anche le famiglie con componenti anziani, pur avendo nel tempo migliorato la propria
40
A. Brandolini, C.Saraceno “Povertà e Benessere” (2007) Il Mulino.
117
condizione, mostrano valori di incidenza superiori alla media e situazioni di disagio
soprattutto se gli anziani in famiglia sono due o più o convivono con altre generazioni
(famiglie con membri aggregati).
Tabella 14: Incidenza di povertà relativa per ampiezza della famiglia, numero di figli minori e
anziani, presenti in famiglia, per ripartizione geografica. Anni 2005 2006 (valori percentuali)
Nord
Centro
Mezzogiorno
Italia
Ampiezza della
Famiglia
2005
2006
2005
2006
2005
2006
2005
2006
1 componente
3,7
4,8
4,8
4,3
17,7
17,1
7,9
8,1
3 componenti
4,1
4,4
5,1
7,1
21,9
20,9
9,8
10
5 o più componenti
10,7
8,1
15,5
15,4
39,2
37,5
26,2
24,3
Famiglie con figli
minori
2005
2006
2005
2006
2005
2006
2005
2006
con 1 figlio minore
4,8
3,9
5,4
5,4
19,6
22
10,1
10,3
con 2 figli minori
7,2
8,4
8,7
10,6
29,9
28,7
17,2
17,2
con 3 o più figli minori
*
8,2
*
*
42,7
48,9
27,8
30,2
Famiglie con
anziani
2005
2006
2005
2006
2005
2006
2005
2006
con 1 anziano
6
7,9
7,3
8
26
23,8
12,9
13
con 2 o più anziani
7
7,8
9,2
11,9
33,2
29,3
15,2
15,3
Fonte: dati ISTAT, 2007
Negli ultimi anni si è parlato anche di una diversa forma di povertà, quella soggettiva,
che consiste in una situazione di insoddisfazione rispetto alla propria posizione
reddituale in un determinato contesto. In questa concezione, quindi, entrano in gioco
aspetti relativi alle valutazioni individuali riguardo alla conduzione di una vita dignitosa,
senza lussi ma senza privarsi del necessario, e alle difficoltà a sostenere spese
necessarie (cibo, bollette, cure mediche). La percentuale di famiglie “soggettivamente
povere” viene calcolata in modo indiretto, essendo pari alla quota di coloro che
dichiarano di percepire un reddito inferiore a quello ritenuto necessario per i bisogni
sopra indicati. Tale quota è cresciuta considerevolmente nel corso degli ultimi anni,
arrivando nel 2005 ad un aumento del 20% rispetto all’anno precedente41. La soglia di
41
“La povertà soggettiva in Italia”, a cura di ISAE - Istituto di studi e analisi economica, nota mensile,
118
povertà soggettiva è crescente all’aumentare dei componenti della famiglia ed è
decisamente più ampia al Nord che al Sud: questo accade perchè le famiglie
settentrionali hanno aspettative più elevate e devono affrontare un costo della vita più
alto rispetto alle famiglie del Sud. Quindi, anche chi si trova oggettivamente al di sopra
della linea di povertà nazionale, può far fatica a mantenere gli standard medi dell’area
in cui vive e considerarsi soggettivamente povero. Le persone possono cominciare a
sentirsi povere indipendentemente dal fatto che ci sia una situazione di disagio
conclamato, dunque è la stessa esposizione al rischio a farle sentire povere, secondo il
Prof. Negri. Le conseguenze della vulnerabilità, dunque, sarebbero costituite dagli
effetti negativi derivanti da una situazione di esposizione al rischio, non dall’effettiva
caduta in stato di povertà.
Con riferimento all’indagine europea ECHP (European Community Household Panel
1994-2001)42, è possibile incrociare l’approccio oggettivo con quello soggettivo,
giungendo così alla definizione della cosiddetta povertà complementare. Essa è
rappresentata con un indicatore sintetico e ha carattere oggettivo e multidimensionale:
questo significa che, oltre al reddito, sono presi in considerazione altri indicatori come il
possesso di beni di consumo, le condizioni abitative, ecc.43.
I risultati dell’indagine ECHP mostrano che il 69% della popolazione ha dichiarato di
non essere povera nè in termini oggettivi nè soggettivi, mentre il 9% risulta essere
povero sia soggettivamente che oggettivamente (vedi tabella 15).
Una parte delle popolazione, quindi, pur avendo un reddito inferiore a quello che
definisce la soglia di povertà, non avverte il disagio e dichiara di non avere difficoltà ad
arrivare alla fine del mese. Questo fenomeno può essere spiegato dalla circostanza che
individui con un reddito da tempo classificabile come insufficiente abbiano strutturato
luglio 2005.
42
Si tratta di un’indagine effettuata su un campione rappresentativo di famiglie italiane, intervistate per la
prima volta nel 1994 e poi a cadenza annuale fino al 2001. Ciò permette di studiare le dinamiche
individuali di povertà lungo un orizzonte temporale di 8 anni. Un altro vantaggio di questa banca dati è la
possibilità di svolgere analisi comparate per i paesi della UE.
43
G. Rovati, “Povertà e lavoro” (2007), Carocci.
119
strategie di comportamento che consentono loro di vivere senza avvertire il disagio che
effettivamente li colpisce.
Tabella 15: Distribuzione percentuale dell’incrocio tra povertà soggettiva e povertà oggettiva
Individui
Valori percentuali in media negli anni
poveri soggettivi ed oggettivi
9,16
poveri soggettivi ma non poveri oggettivi
13,43
non poveri soggettivi ma poveri oggettivi
8,53
non poveri soggettivi nè poveri oggettivi
68,88
totale
Fonte: indagine ECHP 1994-2001
100
Per identificare e circoscrivere l’area della povertà ed individuare, di conseguenza, la
categoria dei nuovi poveri, è senza dubbio utile avvalersi dell’indicatore economico
sopra esposto: esso è sicuramente parziale e non esaustivo ma è l’unico in grado di
dare un’indicazione chiara su chi è povero e chi no, altrimenti si corre il rischio di
parlare di un’area talmente estesa ed indeterminata da non riuscire a identificarla o,
peggio,
si
rischia di esporre l’argomento
“povertà” a strumentalizzazioni
e
rivendicazioni opportunistiche.
Le altre forme di disagio non misurabili oggettivamente possono avere una relazione
diretta con questo fenomeno, ma possono anche non averla. Un esempio può essere
costituito dal problema della solitudine degli anziani, da sempre considerati una delle
fasce della popolazione più a rischio di povertà, quantitativamente stimabile attorno
alla quota del 15% del totale.
Innanzi tutto, il problema legato agli anziani non ha necessariamente a che fare con il
reddito, l’individuo può avere disponibilità economiche sufficienti ma essere privo delle
relazioni sociali ed affettive comunque fondamentali, e dunque ricadere in una di quelle
forme di disagio sociale che lo collocano nella categoria a rischio di esclusione sociale.
In questo senso, è opportuno segmentare la vulnerabilità per fasce d’età e distinguere i
problemi legati alla salute e all’autosufficienza degli anziani, aventi chiara connotazione
economica e necessitanti di rimedi pensionistici ed assistenziali, da quelli legati
all’isolamento degli individui e alla perdita dei legami sociali, che richiedono politiche di
contrasto diverse.
Esiste un’altra variabile da considerare, quella territoriale. Al Sud, la presenza di un
120
anziano all’interno di un nucleo famigliare allargato può costituire un fattore positivo
secondo il Prof. Mingione, perché, grazie al contributo di un reddito pensionistico, egli
rappresenta una risorsa aggiuntiva al bilancio della famiglia. Al Nord tale dinamica è
diversa perché è maggiormente influenzata dal problema abitativo, l’anziano che non
ha una casa di sua proprietà rappresenta un elemento da tenere sotto controllo ed è
fonte di maggiori uscite che entrate. Il numero complessivo di famiglie numerose in
Italia sta diminuendo, ma aumenta la quota della povertà da esse originata.
In definitiva, la dimensione soggettiva, la percezione di ognuno della propria
condizione di vita è molto importante e si intreccia con il dato oggettivo, contestuale.
Secondo la Prof. De Piccoli, è difficile stabilire perché, di fronte ad una certa difficoltà
(precarietà del lavoro, separazione familiare…) un individuo reagisca in modo positivo e
un altro in modo negativo, ricadendo in uno stato di difficoltà difficilmente superabile.
Senza dubbio, influiscono i dati oggettivi, ossia la circostanza scatenante e il contesto
sociale di riferimento, ma entrano in gioco anche le dimensioni psicologiche del
soggetto. Ci sono variabili contestuali e ambientali che si uniscono a variabili di
personalità, come la capacità di reagire ad una situazione di stress o la quantità di
autostima individuale. Inoltre, è importante verificare quali sono le possibilità concrete
che il contesto territoriale offre per sviluppare reti di relazione e sostegno, e poi
appurare quale possibilità ha il soggetto di percepire l’esistenza e l’efficacia di tali reti di
relazione. E’ necessario individuare, secondo la Prof. De Piccoli, quali sono le reti
formali e informali che supportano il soggetto nella soluzione di un problema pratico,
ma anche predisporre una rete di supporto che in qualche modo rinforzi la sua
autostima e lo tuteli di fronte ad eventuali forme depressive che potrebbero generare i
circoli viziosi sopra descritti. Tale rete di supporto costituisce quasi un cuscinetto tra il
soggetto e il problema, nel senso che offre strumenti e materiali (affettivi o cognitivi)
per cercare di superare la situazione di difficoltà, o comunque per far sì che la
situazione di difficoltà non vada a ledere l’autostima personale. L’operazione da
compiere è duplice, quindi, perché si tratta di stimolare la persona affinché utilizzi le
strategie per superare una situazione di difficoltà ma, nello stesso tempo, di non
ignorare il fatto che c’è un contesto sociale ed istituzionale su cui intervenire, quindi c’è
una responsabilità istituzionale politica che dovrebbe pensare appunto alle politiche
sociali, assistenziali, previdenziali e alle politiche d’integrazione
121
9.6 Migrati ed ex-detenuti: due categorie a rischio di povertà?
Una categoria di soggetti spesso citati quando si parla di povertà, sono gli immigrati.
La nostra analisi non ha la pretesa di analizzare in modo esaustivo il problema
dell’immigrazione, anche in considerazione della particolare complessità della materia e
delle normative che la disciplinano. Ci limiteremo a tentare di verificare la rispondenza
alla realtà dell’ipotesi secondo cui, sovente, l’immigrato viene associato al povero, o se
le due situazioni non siano completamente assimilabili.
In base ad un’indagine svolta nel 2005 in Lombardia dall’Osservatorio Regionale sulle
Povertà per conto della CIES – Commissione di indagine sull’esclusione sociale, su un
campione di circa 9000 immigrati il 40% risultano essere sotto la soglia di povertà
relativa. Seguendo in modo rigoroso un’impostazione di questo tipo, si giunge tuttavia
a dare un’interpretazione non completamente veritiera del fenomeno, come
sottolineato dal Prof. Blangiardo. Infatti, parlando di povertà relativa, noi consideriamo
un livello standard convenzionalmente stabilito, assumendo che tutti si rapportino ad
esso e abbiano un tenore di vita minimo corrispondente, ma gli immigrati hanno una
capacità di adattamento a condizioni di vita per noi inaccettabili. Anche in una
situazione di evidente difficoltà economica, loro riescono a risparmiare parte del denaro
guadagnato e a mandarlo ai familiari rimasti in patria (fenomeno delle rimesse).
D’altra parte, abbandonando qualsiasi ottica di integrazione e considerando gli
immigrati come se fossero un mondo a se stante, sarebbe possibile ridefinire i
parametri per fissare la soglia della povertà in base ai loro specifici standard di vita. Dal
momento che gli immigrati hanno livelli di consumi più bassi, la soglia si abbassa e, di
conseguenza, si abbassa anche la quota di individui che stanno sotto tale soglia.
Seguendo questa linea di pensiero, l’incidenza della povertà per gli immigrati scende al
di sotto del 10% ma, come accennato sopra, questa visione annulla ogni prospettiva di
integrazione.
Sembra dunque più opportuno adottare un punto di vista intermedio e concludere che,
tra gli immigrati, l’incidenza della povertà ha valori più alti e i fattori di rischio sono più
numerosi, ma anche che i loro modelli di consumo sono diversi dai nostri, per cui il
fenomeno, letto secondo i nostri standard, assume un significato differente e non
descrivibile esaustivamente (ed esclusivamente) in base alla percentuale ottenuta.
L’immigrato è più esposto al rischio di esclusione sociale e di povertà rispetto
122
all’autoctono, dal momento che inizialmente gli mancano tutte le reti familiari e
relazionali di appoggio sulle quali può invece contare l’individuo italiano.
Una distinzione importante da fare è quella tra immigrati di prima e seconda
generazione.
I
primi
hanno
sicuramente
più
spirito
di
adattamento,
sono
psicologicamente preparati ad affrontare una condizione di partenza anche molto
disagiata e ricca di difficoltà, ma pur sempre migliore di quella del rispettivo Paese
d’origine. Oltretutto, mentre la situazione di vita degli immigrati di prima generazione
non migliora automaticamente con il passare del tempo, le seconde generazioni hanno
invece più probabilità di integrarsi, perché sono inserite fin da principio nel contesto
socio-territoriale in cui vivranno. I ricongiungimenti familiari, cioè i familiari che
raggiungono l’immigrato in Italia, sono da un lato segno di stabilizzazione e di
inclusione, perché la condizione (essenzialmente) lavorativa consente all’immigrato una
pianificazione più stabile della sua presenza sul territorio; dall’altro tuttavia
costituiscono un elevato fattore di pericolo di ricadere in forme di povertà, perché si
riproducono le dinamiche familiari proprie degli autoctoni a rischio (famiglia allargata e
rischio povertà). Anzi, la famiglia tradizionale degli immigrati è ancora più penalizzata
della famiglia italiana, perché se l’immigrato solo riesce comunque ad “arrangiarsi”, ciò
risulta indubbiamente più difficile nel caso in cui abbia un nucleo familiare da
mantenere e, riproducendosi le condizioni di vita degli autoctoni, anche la struttura
della povertà diventa simile a quella degli autoctoni poveri.
Ampliando lo spettro dell’analisi su altre categorie di individui, va segnalato come gli ex
detenuti siano una fascia di soggetti a forte rischio di povertà, dato che emerge
chiaramente anche in base ai rapporti della Caritas sul disagio a Roma (2003 e 2004) e
dall’intervista realizzata con Marco Toti, vicepresidente Caritas del Lazio e responsabile
Caritas Frosinone. La mancanza per l’ex carcerato di un legame sociale o di una rete
familiare cui appoggiarsi, lo espone al pericolo immediato di commettere un nuovo
reato che lo riporterà in carcere e, nel medio periodo, lo colloca sicuramente nella
schiera delle persone a rischio povertà. In questo caso, come sottolinea il Prof. Rovati,
è necessario superare il potenziale pregiudizio dei soggetti che dovranno aiutare il
singolo a reinserirsi nel contesto sociale, quindi il pregiudizio del potenziale datore di
lavoro o del padrone di casa che dovrà dargli un appartamento in affitto. E’ una forma
di handicap sociale, indubbiamente la politica di sostegno e reinserimento dell’ex
detenuto comincia in carcere, sotto forma di percorsi di formazione o di forme di lavoro
123
organizzate mentre il soggetto è ancora all’interno del penitenziario. Un esempio di
attivazione di questo tipo di risorsa è costituito dal call center presente nel carcere di
San Vittore a Milano gestito da Telecom Italia spa, all’interno del quale lavorano circa
30 detenuti assunti da una cooperativa sociale.
9.7 Tendenze future e politiche di contrasto della povertà
Per quanto riguarda le tendenze future del fenomeno povertà, la fascia di popolazione
più a rischio secondo il Prof. Rovati è quella dei giovani tra i 18 e i 35 anni. Rispetto al
recente passato, i tempi di inserimento nel mercato del lavoro e di stabilizzazione si
sono decisamente allungati, quindi è aumentato il divario con le generazioni passate e
sono proporzionalmente aumentate le aspettative. Inoltre, all’interno del modello di
sviluppo attuale le nuove generazioni sono penalizzate perché, essendo aumentata la
spesa pubblica, il loro contributo si manifesta o nell’aumento del esborso fiscale o nella
minor partecipazione ai benefici del welfare.
Se è vero che il calo demografico attuale porterà un progressivo abbassamento del
numero delle nuove generazioni e, per loro, il rischio di disoccupazione sarà più basso,
è vero anche che, nel frattempo, all’interno del mercato del lavoro sono entrati gli
immigrati: essi rappresentano competitors in grado di contribuire alla riduzione dei
compensi nell’immediato (e dunque in grado di aumentare il rischio povertà per molte
fasce di popolazione), nell’attesa di un riequilibrio che porti in un secondo tempo ad un
innalzamento generale del livello dei redditi.
Oltretutto, gli immigrati esercitano una concorrenza diretta con gli autoctoni
soprattutto relativamente alle basse qualifiche, per le quali non è facilmente
ipotizzabile un aumento delle retribuzioni, considerata l’assenza di forme di
contrattazione collettiva “territoriale” in grado di stabilire minimi salariali sotto i quali
non scendere, specialmente per le zone del Paese dove tali minimi sono già al di sotto
degli standard effettivi delle condizioni di vita.
Secondo il Prof. Blangiardo, una variabile determinante per le future politiche
sull’immigrazione sarà la chiarezza nel governare i flussi di ingresso, che appaiono in
costante aumento. Rispetto a tale fenomeno, è necessario adottare una politica
trasparente anche verso l’esterno, in grado di regolamentare e disciplinare gli ingressi
124
regolari. In mancanza di scelte legislative precise, la tentazione da parte degli
immigrati di entrare in Italia e provare poi a “cavarsela” resta forte, con il pericolo che,
una volta scaduto il permesso di soggiorno regolare, rimangano qui in qualità di
irregolari e rientrino nelle categorie a rischio di povertà.
Il fenomeno della povertà analizzato complessivamente è difficile da prevenire, i fattori
scatenanti sono troppo numerosi e diversi tra loro per essere previsti e disciplinati in
anticipo attraverso politiche unitarie. Secondo il Prof. Mingione e il Dott. Benassi,
probabilmente la povertà tradizionale in futuro resterà la stessa, avrà un andamento
legato ai vari cicli economici e le politiche sociali per contrastarla potranno arginare le
derive nella misura in cui saranno incisive ed elastiche. Nell’ottica del Prof. Rovati, tali
politiche dovrebbero essere studiate ad hoc a seconda dei target di riferimento e
dovrebbero essere innovative ma contemporaneamente efficienti. Nello specifico, le
misure per aiutare i poveri in età da lavoro ad uscire dalla condizione di difficoltà
devono essere incentrate su processi di formazione, istruzione, avviamento al lavoro
attraverso formule contrattuali idonee ad un inserimento lavorativo stabile. Al
contrario, la povertà tra gli anziani va combattuta tramite strumenti pensionistici ed
assistenziali efficaci, tenendo conto del progressivo invecchiamento medio della
popolazione e delle spese della sanità pubblica che saranno sempre più alte. La
povertà diffusa tra i minori, altro fenomeno in crescita, va contrastata aiutando gli
adulti loro genitori, ma anche investendo risorse finanziarie aggiuntive in modo
selettivo tra i minori più in difficoltà. A tal proposito, sarebbe utile curare
maggiormente gli investimenti formativi e l’istruzione per i soggetti svantaggiati
(tenendo conto che i fallimenti scolastici sono uno dei fattori più pericolosi nella
produzione di individui a rischio esclusione sociale), il tutto attraverso un’offerta più
ampia di opportunità in termini di reddito e di servizi.
Le politiche del lavoro vanno rivolte ai singoli individui e devono tendere all’aumento
delle occasioni di trovare lavoro e delle possibilità di reinserimento per i soggetti che lo
perdono, a maggior ragione se hanno tra i 55 e i 65 anni, in modo da assicurare una
maggiore stabilità generale.
Secondo il Prof. Rovati, una forma di aiuto generalizzata per i soggetti al di sotto della
soglia di povertà potrebbe essere costituita dal trasferimento annuale di un punto di
PIL a loro favore: questo tipo di intervento andrebbe monitorato tramite destinazioni
finanziarie vincolate e controllo dei mezzi utilizzati, per evitare sprechi di risorse e
125
mancanza di risultati. L’esperimento relativo all’introduzione in Italia del Reddito
minimo di inserimento44 effettuato tra il 1998 e il 2001, una volta terminato, ha dato
origine a comitati organizzati di ex beneficiari e non ha risolto la situazione. Il rischio di
adottare provvedimenti assistenziali inefficaci può dunque portare a cronicizzare le
situazioni di difficoltà o ad attivare movimenti collettivi di protesta.
Inoltre, sarebbe necessario mettere in relazione un sistema di politiche di contesto:
urbane, del territorio, dell’ambiente, del lavoro, politiche di sostegno del reddito e di
strutture assistenziali e assicurative. Un’integrazione delle politiche sarebbe auspicabile
anche per proteggere le formazioni sociali minacciate dai cambiamenti della società,
quindi in primo luogo difendere il contesto della famiglia, considerabile ancora la rete
protettiva più forte.
In linea generale, il fenomeno della povertà, indipendentemente dalle cause che lo
generano, resta ampio e diffuso nella nostra società e ciò costituisce un paradosso,
essendo la nostra una società sviluppata. All’interno delle società endemicamente
segnate dalla povertà, il primo modo per sconfiggerla è indubbiamente la promozione
dello sviluppo delle capacità umane, partendo dalla formazione delle risorse umane e
arrivando al tema del lavoro, al fine di attivare le attività economiche necessarie a
fornire un reddito a chi non lo ha. I rimedi contro la diffusione della povertà in una
società come la nostra devono invece essere più mirati ai target di debolezza, devono
prevedere misure di trasferimenti economici concreti e indirizzati ai soggetti deboli.
Gli interventi di lotta alla povertà dovrebbero porsi l’obiettivo di riportare l’individuo o la
famiglia ad un livello sufficiente di capacità di inserimento, intervenendo sulle cause
che hanno generato la situazione di difficoltà. Esistono indubbiamente alcune carenze
nel sistema di welfare che rendono meno agevole la presa in carico delle situazioni di
esclusione sociale e povertà.
44
Si parla di “Reddito minimo di inserimento” o di “Reddito di cittadinanza” facendo riferimento ad
“un’entrata finanziaria modesta ma sufficiente a coprire i bisogni vitali basilari, da corrispondere ad ogni
membro della società come un diritto, soggetto all’unica condizione della cittadinanza o della residenza”
(Bertrand Russel, 1918). Si tratta dunque di un reddito che ha caratteristiche di universalità (essendo
rivolto all’intera collettività), incondizionatezza (l’unico requisito è la cittadinanza o la residenza) e
compatibilità con lo svolgimento di qualsiasi lavoro remunerato.
126
Il fatto di essere povero o di appartenere ad una famiglia povera, non conferisce
automaticamente il diritto di accedere ad un sistema di tutele essenziali uguale per tutti
e diffuso sul territorio in modo generale. E’ necessaria la presenza aggiuntiva di
ulteriori circostanze aggravanti (esempio, disabilità, invalidità..) o la collocazione nel
mercato del lavoro (esempio disoccupazione, licenziamento…) al fine di attivare il
sistema di tutele esistenti, le quali restano fortemente differenziate su base territoriale
e in relazione alla categoria in cui si rientra (tipo di povertà, tipo di disagio, tipo di
invalidità…). A tal proposito, si è suggestivamente data l’indicazione “non solo per gli
ultimi, ma anche per i penultimi”45, proprio per estendere le forme di tutela anche
verso coloro i quali non sono inseriti in categorie di indigenza estrema già tipizzate, ma
non per questo vanno dimenticati nel momento della scelta delle politiche sociali da
adottare.
Lo scenario è ulteriormente complicato dal cosiddetto fenomeno dell’invisibilità della
povertà contemporanea46. Mentre in passato la povertà poteva considerarsi una realtà
sostanzialmente omogenea, provocata da cause precisamente individuabili e sviluppata
su percorsi abbastanza uniformi, oggi le situazioni di povertà sono connotate dalla
presenza di elementi molto eterogenei tra loro. Tutto ciò implica che, se prima era
agevole individuare i luoghi tradizionali di miseria e degrado, oggi questa operazione è
molto più difficile, perché il fenomeno povertà assume caratteristiche a volte invisibili, è
diffuso in modo disordinato sul territorio a causa di situazioni personali sempre meno
lineari. Anche laddove l’indigenza si presenti come fenomeno pienamente visibile,
esiste il rischio di invisibilità sociale: se il soggetto non appartiene a determinati gruppi
socialmente individuabili (senza fisa dimora, immigrati…), può essere riconosciuto solo
nel momento in cui manifesta la sua richiesta di aiuto ma, una volta terminata la
richiesta pubblica, rientra nel suo mondo vitale originario e, in un certo senso, si
mimetizza all’interno del sistema relazionale urbano. La conseguenza principale di
questo tipo di fenomeno consiste nell’oggettiva difficoltà ad identificare il soggetto
45
E. Gorrieri, “Parti uguali fra disuguali. Povertà, disuguaglianza e politiche redistributive nell’Italia di
oggi”, Il Mulino, 2002.
46
Sac. Vittorio Nozza, direttore Caritas italiana, “I poveri e gli esclusi del terzo millennio”, febbraio 2003.
127
bisognoso di aiuto e nella difficoltà a predisporre forme di intervento sociale efficaci.
Tali forme di intervento, secondo quanto emerso dall’intervista con Martino Rebonato
(docente di Programmazione Sociale a Roma), si basano infatti sul numero delle
richieste ricevute dai servizi sociali territoriali. Il rischio è proprio quello di venire a
conoscenza solo della domanda espressa spontaneamente da una certa categoria di
persone che, col passare del tempo, diventano habituè del servizio, rafforzando settori
già tutelati e ignorando altre aree di povertà più nascoste. Al fine di attuare politiche
preventive,
programmatiche,
sarebbe
necessario
predisporre
una
rete
di
coordinamento (attualmente mancante) tra i diversi soggetti che si occupano di
politiche sociali, ipotizzando magari la nascita di un centro di studi sulle nuove povertà
o sul disagio sociale pensato in ottica trasversale.
Un osservatorio di questo tipo, secondo Anna Maria D’Ottavi (docente di
Organizzazione del Servizio Sociale a Roma), non dovrebbe avere connotazione statica
e documentale ma dovrebbe agire sul campo, assumendo un approccio partecipativo
nei confronti dei soggetti poveri e delle loro necessità concrete, coinvolgendo gli
individui in iniziative e incontri. Questo al fine di adeguare lo strumento di aiuto ai
cambiamenti della società che provocano continuamente nuove forme di povertà e per
evitare che siano i servizi assistenziali a cristallizzare il fenomeno della povertà.
9.8 L’assetto istituzionale in materia di contrasto alla povertà
Il tentativo di operare un inquadramento sistematico di tutte le norme che cercano di
contrastare il fenomeno della povertà si presenta come un’operazione complessa, vista
l’assenza di provvedimenti legislativi, nazionali e regionali, emanati esplicitamente con
tale scopo.
Infatti, all’interno dell’attuale scenario normativo non sembra possibile parlare di una
politica legislativa uniforme di contrasto alla povertà. Gli strumenti di intervento
predisposti e finalizzati al miglioramento della situazione economica degli individui a
basso reddito non hanno necessariamente una finalità principale di contrasto della
povertà: spesso, tali dispositivi appartengono all’area più generale degli strumenti di
sostegno del reddito di categorie particolari della popolazione (anziani, invalidi). Alcuni
di questi strumenti racchiudono una notevole dimensione di tipo assistenziale (pensioni
128
integrate al minimo, prestazioni di invalidità Inps, assegni al nucleo familiare), pur non
essendo direttamente finalizzati a combattere la povertà o, comunque, includendo tra i
beneficiari anche soggetti che non si trovano necessariamente in condizioni di
indigenza. La difficoltà di individuare le politiche contro la povertà consiste quindi, da
un lato, nel capire se una certa politica appartiene a questo campo e, dall’altro, nella
possibilità che nel provvedimento vengano coinvolti soggetti che non sono poveri, dal
momento che non tutti i fruitori di un dato strumento sono necessariamente in
condizioni di indigenza o a rischio di diventarlo.
Nel presente capitolo, dopo aver definito quali sono gli enti competenti riguardo
all’emanazione delle discipline e all’erogazione dei servizi socio-assistenziali, tenteremo
dunque di individuare le normative che, pur operando in diversi campi, tutelano a vario
titolo le categorie di soggetti coinvolti nel problema dell’indigenza. Verrà in seguito
effettuata una breve analisi delle aree in cui l’intervento legislativo appare più
significativo dal punto di vista della lotta alla povertà e si tenterà di delineare una
possibile linea evolutiva delle misure di contrasto di tale fenomeno. Si tenga presente
che il contesto d’analisi è parziale, poiché comprende le politiche nazionali e non quelle
regionali,
dunque
non
sarà
espresso
un
giudizio
sull’efficacia
effettiva
dei
provvedimenti di contrasto della povertà emanati dagli enti locali.
9.8.1 Individuazione degli organi competenti e delle fonti di riferimento
principali
Sembra opportuno avviare l’analisi partendo dalla Costituzione, dove vengono enunciati
una serie di principi (poi richiamati dalle politiche di contrasto alla povertà) all’interno
di una pluralità di articoli: artt. 3, 4, 31, 35, 36, 37, 38. Essi coinvolgono alcuni temi
fondamentali quali il principio di uguaglianza, il diritto al lavoro e la sua tutela, la
protezione della famiglia, e a tali principi si è tentato di dare attuazione tramite leggi
ordinarie e regionali. Va infatti sottolineato come la riforma del Titolo V della
Costituzione abbia attribuito nuove competenze agli enti locali, anche rispetto al settore
socio-assistenziale. La riforma ha determinato il capovolgimento dell’originario impianto
costituzionale di ripartizione delle competenze legislative tra Stato e Regioni: al primo è
stata riservata la potestà esclusiva e quella concorrente con le regioni in un elenco
espresso di materie, mentre “spetta alle regioni la potestà legislativa in riferimento ad
ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato” (art. 117, c. 2
129
Cost.). Il settore dell’assistenza sociale non compare né nelle materie di competenza
legislativa esclusiva dello Stato, né nelle materie di competenza concorrente, per cui
viene riconosciuta alle regioni un’autonomia legislativa primaria nella scelta delle
modalità con cui disciplinare il sistema dei servizi sociali nel proprio territorio. Lo Stato,
da parte sua, resta competente riguardo alla “determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il
territorio nazionale” (art. 117, c. 2, lett. m)). Quest’ultima è una previsione che ha lo
scopo di garantire l’effettiva tutela dei diritti sociali e del principio di uguaglianza
sostanziale tra gli individui, al fine di impedire che l’autonomia riconosciuta alle regioni
si traduca in forti disuguaglianze territoriali nell’erogazione delle prestazioni sociali.
Il trasferimento di competenze agli enti locali è stato effettuato tramite il Decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 112, "Conferimento di funzioni e compiti amministrativi
dello Stato alle regioni ed agli enti locali”47, e la Legge n. 328 dell’8 novembre 2000,
“Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”48:
in base a tali provvedimenti legislativi, la programmazione e l’organizzazione del
sistema di interventi e servizi sociali competono agli enti locali, alle regioni ed allo
Stato.
La finalità della legge quadro n. 328 del 2000 è la promozione di interventi sociali,
assistenziali e sociosanitari che garantiscano un aiuto concreto alle persone e alle
famiglie in difficoltà. Scopo principale della legge è, oltre, la semplice assistenza del
singolo, anche il sostegno della persona all’interno del proprio nucleo familiare. La
legge 328 tende dunque al miglioramento della qualità della vita, alla prevenzione e
alla riduzione delle disabilità e del disagio personale e familiare, all’affermazione del
diritto alle prestazioni. Per la prima volta viene istituito un Fondo nazionale per le
politiche e gli interventi sociali (denominato FNPS), aggregando e ampliando i
finanziamenti settoriali esistenti e destinandoli alla programmazione regionale e degli
enti. In base a tale legge, lo Stato ha il compito di fissare un Piano sociale nazionale
che indichi i livelli di base delle prestazioni, stabilire i requisiti che devono avere le
47
48
Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 92 del 21 aprile 1998 - Supplemento Ordinario n. 77.
Pubblicata nella Gazz. Uff. del 13 novembre 2000, S.O. n. 265.
130
comunità-famiglie e i servizi residenziali nonché i profili professionali nel campo sociale,
ripartire le risorse del Fondo sociale nazionale.
Spetta alle Regioni programmare e coordinare gli interventi sociali, favorire il
coordinamento degli interventi sanitari, sociali, formativi e di inserimento lavorativo,
stabilire i criteri di accreditamento e vigilare sulle strutture e i servizi sia pubblici che
privati, costituire un albo dei soggetti autorizzati a svolgere le funzioni indicate dalla
normativa, stabilire la qualità delle prestazioni, determinare i livelli di partecipazione
alla spesa da parte degli utenti, finanziare e programmare la formazione degli
operatori.
Ai Comuni è attribuito il compito di gestire e coordinare le iniziative per realizzare il
"sistema locale della rete di servizi sociali". In questo, i Comuni devono cooperare con
le strutture sanitarie, con gli altri enti locali e con le associazioni dei cittadini.
Dai Comuni dipendono, inoltre: la determinazione dei parametri per la valutazione delle
condizioni di povertà, di limitato reddito e di incapacità totale o parziale per inabilità
fisica e psichica; le relative condizioni per usufruire delle prestazioni; l’autorizzazione,
l’accreditamento e la vigilanza sui servizi sociali e sulle strutture residenziale e
semiresidenziali pubbliche e private. I Comuni devono anche realizzare ed adottare la
Carta dei servizi sociali, che illustra le opportunità sociali disponibili e le modalità per
accedervi.
L’opera dei Comuni nella realizzazione e gestione dei servizi sociali è ispirata anche ai
principi di fondo contenuti nella “Carta europea delle autonomie locali ”, sottoscritta a
Strasburgo il 15 ottobre 1985 e tradotta nella Legge n. 439 del 198949, “Ratifica ed
esecuzione della convenzione europea relativa alla Carta europea dell'autonomia locale,
firmata a Strasburgo il 15 ottobre 1985”. Essa rappresenta la base fondamentale per lo
sviluppo delle politiche sociali, introducendo principi basilari quali la sussidiarietà, cioè
la necessità di rispondere ai bisogni delle collettività locali; la cooperazione, intesa
come la capacità degli enti locali di associarsi fra loro per la tutela e la promozione dei
comuni interessi e per la gestione associata dei servizi; l'auto-organizzazione, nel senso
di capacità propria nella scelta della struttura amministrativa più idonea allo
49
Pubblicata nella Gazz. Uff. del 22 gennaio 1990, S.O. n. 17.
131
svolgimento delle funzioni. È utile riassumere per punti le caratteristiche fondamentali
della legge quadro del sistema dei servizi socio-assistenziali, la già citata legge
328/2000, prima e dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, al fine di individuare i
cambiamenti più importanti.
prima della riforma del Titolo V
dopo la riforma del Titolo V
Al Fondo Nazionale per le Politiche Sociali
affluiscono risorse finalizzate, le modalità
e le procedure di spesa sono stabilite dal
Governo centrale.
Il Fondo per le politiche sociali è costituito
da risorse finanziarie indistinte ed è
gestito interamente dalla Regioni, che
allocano le risorse in base alle priorità del
territorio50. La spesa sociale complessiva
è monitorata dal Governo.
Il Governo adotta un Piano nazionale
d’interventi che fornisce le linee di
indirizzo a livello nazionale.
Lo Stato ha il compito di definire i diritti
civili e sociali e quindi i livelli essenziali
delle prestazioni socio-assistenziali.
A livello centrale si elaborano anche
alcuni Piani nazionali settoriali, dedicati ad
alcune categorie specifiche.
Nell’ambito dei livelli essenziali lo Stato
emana anche Piani Settoriali.
I Piani regionali sono costruiti sulla base
delle linee d’indirizzo fornite dal Piano
Nazionale, d’intesa con i Comuni.
Le funzioni di programmazione,
coordinamento ed indirizzo passano alla
Regioni, con il concorso degli Enti Locali.
Le funzioni di indirizzo e di
programmazione sono esercitate dalle
Regioni tramite i Piani Regionali.
I Piani di zona sono elaborati dai Comuni
associati sulla base delle indicazioni e
delle linee d’indirizzo regionali.
I Comuni, tramite i Piani di Zona,
definiscono le priorità sociali dei loro
territori e amministrano la spesa sociale.
Esiste un solo Sistema informativo
centralizzato.
Si istituiscono Sistemi Informativi a livello
provinciale e regionale che si raccordano
con il sistema di monitoraggio nazionale.
La legge 328 intende inoltre rispondere alle sollecitazioni contenute nella legge n. 285
del 28 agosto 199751 (recante disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità
per l'infanzia e l'adolescenza), nella parte in cui auspica il coinvolgimento degli enti
locali, delle istituzioni pubbliche e private per la promozione dei diritti, la qualità della
50
51
Nel 2003, il 10% delle risorse su scala nazionale è stato destinato a favore dei nuclei familiari.
Pubblicata nella Gazz. Uff. n. 207 del 5 settembre 1997.
132
vita, lo sviluppo, la realizzazione individuale e la socializzazione dell'infanzia e
dell'adolescenza, privilegiando l'ambiente a loro più adatto. Quest’ultima legge era
stata emanata in attuazione dei principi della “Convenzione sui diritti del fanciullo”, che
è un trattato internazionale adottato dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20
novembre 1989, a New York, reso esecutivo in Italia con la legge 27 maggio 1991, n.
17652.
La legge 285/1997 prevede l’istituzione, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri,
del Fondo nazionale per l'infanzia e l'adolescenza, finalizzato alla realizzazione di
interventi a livello nazionale, regionale e locale. Con questa legge gli enti locali possono
ottenere un finanziamento dietro presentazione di un progetto.
Sono ammessi al finanziamento del Fondo i progetti presentati che perseguono
obiettivi di contrasto ai fenomeni di esclusione sociale e povertà, quali:
a) realizzazione di servizi di preparazione e di sostegno alla relazione genitore-figli, di
contrasto della povertà e della violenza, nonché di misure alternative al ricovero dei
minori in istituti educativo-assistenziali, tenuto conto altresì della condizione dei
minori stranieri;
b) erogazione di un minimo vitale a favore di minori in stato di bisogno inseriti in
famiglie o affidati ad uno solo dei genitori, anche se separati;
c) attività di informazione e di sostegno alle scelte di maternità e paternità, facilitando
l'accesso ai servizi di assistenza alla famiglia ed alla maternità di cui alla legge n.
405 del 29 luglio 1975 e successive modificazioni;
d) realizzazione di case di accoglienza per donne in difficoltà con figli minori, o in stato
di gravidanza, nonché la promozione da parte di famiglie di accoglienze per genitori
unici esercenti la potestà con figli minori al seguito;
e) azioni per il sostegno economico ovvero di servizi alle famiglie naturali o affidatarie
che abbiano al loro interno uno o più minori con handicap al fine di migliorare la
qualità del gruppo-famiglia ed evitare qualunque forma di emarginazione e di
istituzionalizzazione.
52
Pubblicata nella Gazz. Uff. dell'11 giugno 1991, S. O. n. 135.
133
Il capo III della legge n. 328/2000 elenca le disposizioni relative alla realizzazione di
particolari interventi sociali e, più esattamente, quelli a favore di persone disabili,
anziani non autosufficienti, famiglie. Sono previsti infatti:
Progetti individuali per le persone disabili: i comuni, d’intesa con le aziende unità
sanitarie locali, predispongono, su richiesta dell’interessato, un progetto individuale.
Esso comprende la valutazione diagnostico-funzionale, le prestazioni di cura e di
riabilitazione a carico del Servizio sanitario nazionale, i servizi alla persona a cui
provvede il comune in forma diretta o accreditata, con particolare riferimento al
recupero e all’integrazione sociale, e le misure economiche necessarie per il
superamento di condizioni di povertà, emarginazione ed esclusione sociale. Nel
progetto individuale sono definiti gli eventuali sostegni per il nucleo familiare.
A questo proposito, è opportuno evidenziare sinteticamente anche quanto contenuto
nella legge n. 104 del 199253 (“Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale ed i
diritti delle persone handicappate”). Tra le finalità della legge si evidenzia la
predisposizione di interventi volti a superare stati di emarginazione e di esclusione
sociale della persona handicappata. Inserimento ed integrazione sociale si realizzano
mediante interventi di carattere socio-psico-pedagogico, di assistenza sociale e
sanitaria a domicilio, di aiuto domestico e di tipo economico ai sensi della normativa
vigente, a sostegno della persona handicappata e del nucleo familiare in cui è inserita,
e servizi di aiuto personale alla persona handicappata in temporanea o permanente
grave limitazione dell'autonomia personale.
Non va inoltre dimenticato il contenuto della legge n. 68 del 199954 (“Norme per il
diritto al lavoro dei disabili”). Essa si rivolge a tutti i datori di lavoro, pubblici (gli enti
pubblici economici) e privati, e obbliga ad assumere lavoratori appartenenti alle
categorie speciali in varie misure a seconda della dimensione dell’azienda.
Sostegno domiciliare per le persone anziane non autosufficienti: il Ministro per la
solidarietà sociale, con proprio decreto, emanato di concerto con i Ministri della sanità
53
54
Pubblicata nella Gazz. Uff. n. 39 del 17 febbraio 1992.
Pubblicata nella Gazz. Uff. n. 68 del 23 marzo 1999, S. O. n. 57.
134
e per le pari opportunità, determina annualmente la quota da riservare ai servizi a
favore delle persone anziane non autosufficienti, per favorirne l’autonomia e sostenere
il nucleo familiare nell’assistenza domiciliare alle persone anziane che ne fanno
richiesta.
Valorizzazione e sostegno delle responsabilità familiari: il sistema integrato di interventi
e servizi sociali riconosce e sostiene il ruolo delle famiglie e valorizza i molteplici
compiti da queste svolti sia nei momenti critici e di disagio, sia nello sviluppo della vita
quotidiana. Nell’ambito del sistema integrato di interventi e servizi sociali sono inoltre
previsti:
a) l’erogazione di assegni di cura e altri interventi a sostegno della maternità e della
paternità, da realizzare in collaborazione con i servizi sanitari e con i servizi socioeducativi della prima infanzia;
b) politiche di conciliazione tra il tempo di lavoro e il tempo di cura, promosse anche
dagli enti locali ai sensi della legislazione vigente;
c) prestazioni di aiuto e sostegno domiciliare, anche con benefici di carattere
economico, in particolare per le famiglie che assumono compiti di accoglienza, di
cura di disabili fisici, psichici e sensoriali e di altre persone in difficoltà, di minori in
affidamento, di anziani;
d) servizi di sollievo, per affiancare nella responsabilità del lavoro di cura la famiglia,
ed in particolare i componenti più impegnati nell’assistenza quotidiana delle
persone bisognose di cure particolari ovvero per sostituirli nelle stesse
responsabilità di cura durante l’orario di lavoro;
e) servizi per l’affido familiare, per sostenere, con qualificati interventi e percorsi
formativi, i compiti educativi delle famiglie interessate.
Per sostenere le responsabilità individuali e familiari e agevolare l’autonomia finanziaria
di nuclei monoparentali, di coppie giovani con figli, di gestanti in difficoltà, di famiglie
che hanno a carico soggetti non autosufficienti con problemi di grave e temporanea
difficoltà economica, di famiglie di recente immigrazione che presentino gravi difficoltà
di inserimento sociale, i comuni, in alternativa a contributi assistenziali in denaro,
possono concedere prestiti sull’onore, consistenti in finanziamenti a tasso zero secondo
piani di restituzione concordati con il destinatario del prestito.
135
I comuni possono prevedere, altresì, agevolazioni fiscali e tariffarie rivolte alle famiglie
con specifiche responsabilità di cura e deliberare ulteriori riduzioni dell’aliquota
dell’imposta comunale sugli immobili (ICI) per la prima casa, nonché tariffe ridotte per
l’accesso a più servizi educativi e sociali.
Stato, Regioni e Comuni, nella gestione della materia in esame devono coinvolgere
anche il settore non profit, sia nella programmazione e organizzazione del sistema
integrato (art. 1 comma 4, legge 328/2000) che nell’erogazione dei servizi (art. 1
comma 5). Infatti, la legge quadro prevede e promuove attività socio-assistenziali da
parte di associazioni di cittadini, quali le Onlus, le cooperative sociali, le organizzazioni
di volontariato, gli enti di promozione sociale e le fondazioni. Questi organismi possono
offrire e gestire alcuni servizi, alternativi a quelli degli enti pubblici, rivolti ai cittadini
che ne hanno bisogno. Inoltre, rappresentanti di tutte le associazioni concorrono alla
programmazione, all'organizzazione e alla gestione del sistema integrato dei servizi
sociali insieme con le istituzioni pubbliche. Le Regioni devono definire i requisiti
necessari dei servizi offerti e devono controllare la qualità del loro operato, anche
tramite l'istituzione di registri regionali delle organizzazioni autorizzate all'esercizio dei
servizi socio-assistenziali.
Il coinvolgimento del Terzo settore è anche regolato dalla legge n. 381 dell’8 novembre
1991,"Disciplina delle cooperative sociali"55. Le cooperative sociali hanno lo scopo di
perseguire l'interesse generale della comunità alla promozione umana e all'integrazione
sociale dei cittadini attraverso:
a) la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi;
b) lo svolgimento di attività diverse - agricole, industriali, commerciali o di servizi finalizzate all'inserimento lavorativo di persone svantaggiate (si considerano
persone svantaggiate gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, gli ex degenti di
istituti psichiatrici, i soggetti in trattamento psichiatrico, i tossicodipendenti, gli
alcolisti, i minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare, i condannati
ammessi alle misure alternative alla detenzione).
55
Pubblicata nella Gazz. Uff. 3 dicembre 1991, n. 283.
136
Questa legge, dunque, può indirettamente essere considerata un intervento volto a
combattere stati di disagio e di povertà.
9.8.2 Campi di intervento
In varie aree della vita sociale vengono distribuite risorse (non solo monetarie), alle
quali alcuni soggetti possono avere un accesso a volte insufficiente. Le varie politiche
di protezione sociale intervengono - o dovrebbero intervenire - in quelle aree,
riequilibrandone i criteri di accesso o indennizzando i soggetti che subiscono forme di
deprivazione.
La tabella seguente indica quali sono stati i principali interventi di sostegno al reddito e
i soggetti beneficiari nell’anno 2000 e, pur riferendosi a normative precedenti, individua
le aree di disagio nelle quali l’intervento statale risulta necessario ancora oggi.
137
Tabella 16: descrizione dei principali interventi statali di sostegno al reddito e caratteristiche dei
destinatari.
Strumento
Caratteristica dei destinatari
Assegno sociale
Anziani a basso reddito e senza sufficienti
diritti previdenziali
Pensione sociale
Anziani a basso reddito e senza sufficienti
diritti previdenziali
Trattamento minimo delle pensioni
Pensionati quando la pensione derivante dai
contributi versati è inferiore ad un importo
minimo
Pensione di inabilità e assegno per l’assistenza
personale e continuativa
Soggetti con determinati requisiti contributivi
e con infermità tale da provocare una
impossibilità permanente e assoluta a
svolgere qualsiasi lavoro
Assegno ordinario di invalidità
Soggetti con determinati requisiti contributivi
e con infermità tale da provocare una
riduzione permanente della capacità di lavoro
a meno di un terzo
Assegno per il nucleo familiare
Lavoratori dipendenti e pensionati ex
lavoratori dipendenti con carico familiare che
rispettano determinati requisiti di reddito
Assegno per il nucleo familiare per gli iscritti
alla gestione separata dei lavoratori autonomi
Lavoratori iscritti alla gestione separata dei
lavoratori autonomi con carico familiare che
rispettano determinati requisiti di reddito
Assegni familiari
Coltivatori diretti, mezzadri e coloni e
pensionati delle gestioni speciali per i
lavoratori autonomi con carico familiare che
rispettano determinati requisiti di reddito
Fondo nazionale di sostegno per l’accesso alle
abilitazioni in locazione
Titolari di contratto di locazione con reddito
non superiore a determinate soglie
Detrazione Irpef per titolari di contratti di
locazione
Titolari di contratto di locazione con reddito
non superiore a determinate soglie
Prestazioni di invalidità civile
Invalidi totali e invalidi superiori al 74% con
redditi inferiori a determinate soglie
Assegno di maternità
Madri che non beneficiano dell’indennità di
maternità e reddito inferiore a determinate
soglie
Assegno dei nuclei familiari con almeno tre
figli minori
Nuclei familiari con almeno tre figli minori e
reddito inferiore a determinate soglie
Reddito minimo di inserimento (sperimentale)
Tutti i cittadini con reddito inferiore a
determinate soglie
Esenzione costo prestazioni sanitarie
Tutti i cittadini con reddito inferiore a
determinate soglie
Fonte: elaborazione dati ISTAT a cura della Commissione d’Indagine sull’Esclusione Sociale,
2000
138
Una possibile suddivisione delle aree di intervento più significative è la seguente:
a) Politiche di sostegno diretto del reddito
Comprendono gli strumenti che hanno come obiettivo quello di garantire un reddito
sufficiente agli individui o alle famiglie con determinate caratteristiche. Lo scopo è
quello dell'innalzamento del reddito; sono destinati essenzialmente agli anziani e agli
invalidi. I rischi tutelati sono quelli relativi all'incapacità (involontaria) di procurarsi un
reddito a causa dell'età anziana o della condizione di invalidità, quando non si
posseggono sufficienti diritti previdenziali. Tra di essi troviamo il principale strumento
di innalzamento del reddito, l'assegno sociale per gli anziani ultrasessantacinquenni.
L'assegno sociale ha sostituito dal 1996 la pensione sociale, che rimane in vigore per
gli anziani che avevano presentato domanda prima del 31 dicembre 1995.
Le politiche di contrasto della povertà economica degli anziani, fuoriusciti dal mercato
del lavoro, comprendono quindi politiche previdenziali (per coloro che hanno
accumulato regolari contributi pensionistici) ed assistenziali, a sostegno del reddito
previdenziale quando questo è di basso livello: questo ha permesso un relativo
miglioramento rispetto al passato, anche se questa tendenza non è automatica, poiché
il reddito da pensione è sottoposto a processi di erosione del potere di acquisto rapidi
ed intensi, se non intervengono misure di sostegno adeguate. Una questione di
particolare urgenza che colpisce in larga misura gli anziani riguarda l’introduzione di
politiche a sostegno della non autosufficienza che richiedono una integrazione tra
erogazioni monetarie e servizi domiciliari.
L'altra misura di carattere assistenziale è costituita dai trattamenti di invalidità civile,
destinati agli invalidi che non possiedono i requisiti per accedere ai trattamenti di
invalidità di tipo previdenziale. I trattamenti di invalidità civile comprendono l'assegno
mensile di assistenza, la pensione di inabilità e l'indennità di accompagnamento; i primi
due si trasformano in assegno sociale al compimento del 65° anno d'età.
Sono invece di tipo assicurativo, prevedendo il possesso di determinati requisiti
contributivi, il trattamento minimo delle pensioni, la pensione di inabilità e l'assegno
ordinario di invalidità erogati dall'Inps.
b) Politiche per la famiglia e per i giovani
Comprendono gli interventi rivolti al nucleo familiare, e sono finalizzati al miglioramento
delle condizioni di vita dell'unità familiare. Degli assegni familiari e di quelli per il nucleo
139
familiare beneficiano maggiormente le famiglie disagiate (numerose, con membri
disabili, monogenitoriali).
Da ricordare inoltre l'assegno ai nuclei familiari con almeno tre figli minori, erogato
sulla base della composizione familiare e del possesso di determinati requisiti di
reddito. Gli stessi parametri sono utilizzati anche nel caso dell'assegno di maternità.
Nell’ambito delle politiche per la famiglia è significativo il piano di interventi previsto
nella legge n. 285 del 1997 (già citata in precedenza), “Disposizioni per la promozione
di diritti e di opportunità per l'infanzia e l'adolescenza”, tramite l’istituzione del Fondo
nazionale per l'infanzia e l'adolescenza. I fondi sono attribuiti alle regioni e ai maggiori
comuni italiani per la realizzazione di interventi ai favore dei minori, tra i quali anche
interventi per contrastare la povertà delle famiglie.
Per quanto riguarda la popolazione giovanile, va considerato che le giovani generazioni
(che sul piano demografico si sono contratte ulteriormente nel corso degli ultimi 15
anni) sono una risorsa su cui l’intera collettività deve investire anche per assicurare il
benessere dei più anziani, quindi le politiche di sostegno alle famiglie con figli appaiono
decisamente opportune. Un versante specifico delle politiche di inclusione dei giovani
passa inoltre attraverso il contrasto della “povertà d’istruzione”, che provoca effetti
penalizzanti sull’acquisizione di competenze professionali e di lavoro qualificato.
Le elevate difficoltà dei giovani poveri a raggiungere una propria autonomia dalla
famiglia d’origine evidenziano l’opportunità di misure di sostegno al reddito per il
tempo necessario a ottenere un adeguato inserimento lavorativo. L’aumento
dell’incidenza della povertà tra i giovani che hanno compiuto una scelta familiare e
procreativa ripropone l’urgenza di interventi di sostegno alle responsabilità genitoriali
utilizzando politiche fiscali adeguate, servizi per l’infanzia e per la conciliazione dei
tempi lavorativi e familiari.
c) Politiche per la casa
Sono quelle volte a facilitare l'accesso all'abitazione, fra di esse si segnalano la
detrazione Irpef per titolari di contratti di locazione e il Fondo nazionale di sostegno per
l'accesso alle abitazioni in locazione che prevede facilitazioni per le famiglie disagiate.
L’obiettivo è quello di porre rimedio allo squilibrio tra la domanda e l’offerta di alloggi,
che tocca selettivamente particolari categorie di popolazione: giovani, lavoratori
precari, famiglie immigrate e, in misura crescente, fasce intermedie di reddito.
140
d) Politiche dell’immigrazione
Nel caso degli immigrati gli interventi di contrasto della povertà si basano sulle politiche
del lavoro e su quelle salariali, dato che principalmente tra gli immigrati sono diffusi i
lavoratori a basso reddito, sia per il tipo di attività professionali da essi svolte, sia per le
condizioni contrattuali che rendono più incerte e ridotte le loro retribuzioni.
Per quanto riguarda l’immigrazione i riferimenti nomativi nazionali sono i seguenti:
- L. 30 luglio 2002, n. 18956 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di
asilo);
- L. 6 marzo 1998, n. 4057 (Disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello
straniero);
- Decreto lgs. 25 luglio 1998, n. 28658 (Testo unico delle disposizioni concernenti la
disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero);
- L. 5 febbraio 1992, n. 9159 (Nuove norme sulla cittadinanza);
- Decreto legge n. 241 del 14 settembre 200460 (Disposizioni urgenti in materia di
immigrazione);
- Ddl. 13 marzo 2007 – Disegno di legge delega al Governo per la modifica della
disciplina dell’immigrazione e delle norme sulla condizione dello straniero.
È in corso di svolgimento un processo di riforma della legge sull’immigrazione: il
Consiglio dei Ministri, infatti, ha approvato il 24 aprile 2007 nell'esame preliminare il
Disegno di legge delega al Governo per la modifica della disciplina dell’immigrazione. Il
Governo sarà delegato ad adottare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore
della legge delega, un decreto legislativo per la modifica del testo unico delle
56
57
58
59
60
Pubblicata nella Gazz. Uff. n. 199 del 26 agosto 2002.
Pubblicata nella Gazz. Uff. del 13 marzo 1998 - S.O. n. 59.
Pubblicato nella Gazz. Uff. n. 191 del 18 agosto 1998 – S. O. n. 139.
Pubblicata nella Gazz. Uff. del 15 febbraio 1992 n. 38.
Pubblicato sulla Gazz. Uff. n. 216 del 14 settembre 2004.
141
disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello
straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni
secondo i principi e criteri direttivi definiti nel testo della legge delega approvata.
e) Reddito minimo di inserimento
Una trattazione a parte merita l’istituto del Reddito minimo di inserimento (RMI),
proposto per la prima volta in Italia nel 1995 a seguito di uno studio della Commissione
di Indagine sulla Povertà e l'Emarginazione. Successivamente la proposta è stata
ripresa nel 1997 nell'ambito del progetto complessivo di riforma del welfare state
italiano. Il minimo vitale doveva permettere ai beneficiari di trovare sostegno
economico e offerta di opportunità e servizi, i destinatari erano tutti maggiorenni con
risorse inferiori a una certa soglia di reddito, valutata su base familiare. Lo scopo era
offrire l’opportunità di un reinserimento nel mondo del lavoro. La gestione spettava
all'ente locale e quindi doveva avvenire in una logica di integrazione con le politiche
assistenziali locali. Gli studi della Commissione povertà mettevano in risalto il fatto che
in Italia mancava una misura, presente invece in molti Stati europei, in grado di
garantire un reddito di ultima istanza, che quindi impedisse al singolo e alla famiglia di
cadere al di sotto della soglia di povertà. Così nel 1998, il Governo decideva di
introdurre, in via sperimentale, l'istituto del RMI in 39 comuni italiani (poi estesi a 267):
nella legge finanziaria (legge 449/97) si prevedeva uno stanziamento per realizzare la
sperimentazione definita dal successivo decreto legislativo n. 237 del 18 giugno 199861,
iniziata nell'ottobre del 1998 e conclusasi nel dicembre 2000.
Il RMI rappresentava una innovazione nel campo delle politiche sociali. In base a
quanto previsto dal decreto legislativo n. 237/98, il Parlamento, sulla base di un
rapporto di valutazione elaborato da un gruppo di istituti di ricerca, avrebbe dovuto
discutere sui risultati raggiunti dalla sperimentazione e avviarne la generalizzazione a
tutto il territorio nazionale. Il governo affermò invece che la sperimentazione aveva
messo in evidenza l’impossibilità di stabilire criteri omogenei su tutto il territorio
61
D. lgs. 18 giugno 1998, n. 237, "Disciplina dell'introduzione in via sperimentale, in talune aree,
dell'istituto del reddito minimo di inserimento, a norma dell'articolo 59, commi 47 e 48, della legge 27
dicembre 1997, n. 449", pubblicato nella Gazz. Uff. n. 167 del 20 luglio 1998.
142
nazionale per l’accesso al RMI e prevalse l’orientamento teso a realizzare il cofinanziamento, con una quota delle risorse del Fondo per le politiche sociali, di
programmi regionali. L’esperimento del RMI in Italia si è dunque concluso nel 2001,
nonostante alcuni dibattiti successivi legati alla possibilità di reintrodurlo62, ed è rimasta
la possibilità per le regioni di predisporre un programma con finalità redistributive, in
parte co-finanziato dal succitato fondo.
9.8.3 Provvedimenti legislativi recenti e linee di tendenza
Tra le misure adottate dal Governo a favore delle famiglie a basso reddito nel corso
degli ultimi anni figurano le modifiche della disciplina fiscale avviate nel 2002 con
l’aumento delle detrazioni fiscali per i figli a carico (Finanziaria 2002) e poi proseguite
nel 2003 sia con l'applicazione del primo modulo di riforma dell’Irpef - comprendente
l’introduzione della no-tax area (Finanziaria 2003) - sia con la legge di riforma del
sistema fiscale (L.80/2003), per culminare con la legge 30 dicembre 2004, n. 311
(Finanziaria 2005) che ha provveduto alla ulteriore revisione delle aliquote fiscali e
delle classi di reddito. Sull'efficacia di tali misure fiscali per migliorare la condizione
delle famiglie a basso reddito si è molto discusso. Analizzate dal versante del contrasto
della povertà, le politiche fiscali operano principalmente per evitare il peggioramento
del tenore di vita di chi è più vulnerabile. Le politiche fiscali ed economiche non sono
però sufficienti per soddisfare il bisogno di protezione delle famiglie e dei loro singoli
componenti, specialmente per chi appartiene alle fasce di reddito più basse o per chi è
soggetto a condizioni di particolare vulnerabilità (per disabilità, malattia, isolamento,
disoccupazione, ecc.); dovrebbero perciò essere integrate con politiche dell’istruzione,
del lavoro, della salute, della previdenza e dell’assistenza dei servizi.
Significativa è l’attività svolta dalla Commissione di indagine sull’esclusione sociale
(CIES), istituita presso la Presidenza del Consiglio dei ministri. Nata nel 200063 con il
62
Va tuttavia segnalato l’istituto del Reddito di ultima istanza (RUI), di cui parleremo nel paragrafo
successivo.
63
La Commissione di Indagine sull'Esclusione Sociale (CIES) è stata istituita dall'articolo 27 della più volte
citata legge n. 328/2000, ma la sua storia inizia nel 1984, quando venne fondata la prima Commissione di
Indagine sui temi della povertà presieduta inizialmente da Ermanno Gorrieri.
143
compito di effettuare, anche in collegamento con analoghe iniziative nell’ambito
dell’Unione europea, le ricerche e le rilevazioni occorrenti per indagini sulla povertà e
sull’emarginazione in Italia, tende a promuoverne la conoscenza nelle istituzioni e
nell’opinione pubblica, a formulare proposte per rimuoverne le cause e le conseguenze,
ad esprimere valutazioni sull’effetto dei fenomeni di esclusione sociale.
La Commissione si compone di studiosi ed esperti con qualificata esperienza nel campo
dell’analisi e della pratica sociale, nominati, per un periodo di tre anni, con decreto del
Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per la solidarietà sociale.
Ogni anno essa presenta al Governo ed al Parlamento un “Rapporto sulle politiche per
l’inclusione sociale”. In tali rapporti è descritta la situazione dell’Italia contemporanea,
con particolare riferimento ai marcati squilibri e alle differenze territoriali nel costo della
vita e dei salari, e all’evidenziazione di nuove problematiche, come la presenza di un
numero crescente di immigrati che ricevono un basso reddito dal loro lavoro.
Le tendenze attuali degli interventi contro la povertà in Italia sono delineate inoltre nel
Piano di azione nazionale contro la povertà e l’esclusione sociale 2003-2005 (Ministero
del Lavoro e delle politiche sociali), il quale indica le priorità di azione per il triennio
2003-2005.
Tra queste, le politiche a favore della famiglia e della natalità, le misure per il sostegno
alle persone con disabilità, le politiche di lotta alle povertà estreme, gli interventi per
contrastare la non autosufficienza, le politiche attive del lavoro, le misure contro il
disagio minorile e a favore delle fasce deboli, le politiche per favorire l’eguaglianza tra
uomo e donna, e quelle di prevenzione e recupero delle tossicodipendenze.
Analizzando alcune delle politiche più significative, emerge come la famiglia sia
considerata soggetto attivo nell’organizzazione di un sistema di welfare moderno, in
particolare per il sostegno alle fasce più deboli: anziani, persone con disabilità, minori.
In relazione a ciò si intende perseguire l’obiettivo di rafforzare la capacità di
partecipazione attiva delle famiglie, grazie a una visione unitaria e integrata che passa
attraverso misure di sostegno per la natalità, per la costituzione di una vita familiare,
per la conciliazione tra vita professionale e responsabilità familiari. L’intenzione del
Governo è quella di valorizzare e alleviare il lavoro di cura svolto dalla famiglia
nell’assistenza ai propri membri, mediante adeguate misure a sostegno di queste
attività.
144
Per quanto riguarda le politiche di contrasto alle povertà estreme, i principali obiettivi
dichiarati nel Piano sono la diminuzione del numero delle persone in situazioni di
povertà estreme e l’aumento dei servizi a livello locale per persone in condizione di
povertà estrema.
Il Patto per l’Italia, firmato il 5 luglio 2002 tra il governo allora in carica e le parti
sociali, ha sancito la fine del periodo di sperimentazione del reddito minimo di
inserimento (RMI), ne ha identificato alcune criticità e ha previsto di istituire un nuovo
strumento, il Reddito di ultima istanza (RUI), rivolto a soggetti e categorie socialmente
fragili, genericamente con scarse opportunità lavorative e reddituali. Si tratta di un
sostegno economico (introdotto con la legge finanziaria 2004), che lo Stato prevede
per le famiglie i cui componenti sono disoccupati ed il cui reddito è inferiore a quello
stabilito ufficialmente dall’Istat come minimo vitale. Tale sussidio è incompatibile con
altre forme di sostegno economico.
Al fine di contrastare la non autosufficienza, si intendono rafforzare gli interventi di
politica sociale in favore delle persone, in particolare anziane, non autosufficienti,
attraverso un nuovo sistema di organizzazione dei servizi e di integrazione delle
prestazioni. In coerenza con quanto affermato nel Libro Bianco sul Welfare 200364,
l’obiettivo nel corso del triennio è quello di sviluppare l’integrazione tra interventi sociali
e interventi sanitari; promuovere interventi di aiuto personale di supporto all’assistenza
domiciliare quotidiana; sviluppare la rete delle strutture di residenzialità e semiresidenzialità; favorire l’accessibilità e la diffusione delle nuove tecnologie a sostegno
delle situazioni più difficili.
Nell’ambito delle politiche attive del lavoro, il Governo intende promuovere e sostenere
tutti gli strumenti utili a incoraggiare e assistere l’individuo nel suo inserimento o
reinserimento nel mercato del lavoro. In questo ambito le priorità di azione che l’Italia
si propone sono l’aumento del tasso di occupazione, con particolare attenzione alla
popolazione femminile e agli over 55, l’emersione del lavoro in nero, l’incoraggiamento
ai processi di adattabilità e mobilità.
Per quanto riguarda gli interventi contro il disagio minorile e a favore delle fasce deboli,
64
Consultabile sul sito internet del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, www.welfare.gov.it.
145
le linee di orientamento, ai fini della progettazione degli interventi di risposta ai bisogni
emersi nei diversi contesti territoriali, si pongono una serie di obiettivi: la diminuzione
del fenomeno della devianza e dell’esclusione minorile nelle scuole, la riduzione dei casi
di abbandono dei minori, il sostegno alla struttura familiare per il supporto a minori ed
adolescenti in situazioni di devianza, l’aumento del numero dei servizi semiresidenziali,
lo sviluppo di reti di mutuo soccorso familiare.
Il Governo intende promuovere interventi finalizzati al sostegno delle fasce deboli, con
particolare attenzione ai detenuti e ai soggetti in esecuzione penale fuori dal carcere, ai
tossicodipendenti, agli immigrati legalmente residenti.
Riguardo al succitato Piano, molte critiche sono state espresse dal CILAP
(Collegamento Italiano di Lotta alla Povertà - Sezione italiana dell’E.A.P.N. - European
Anti Poverty Network). Il CILAP, costituitosi in associazione senza scopo di lucro nel
1992, promuove, diffonde e approfondisce le tematiche relative alle politiche europee
di lotta alla povertà e contro l’esclusione sociale. Dedica un’attenzione particolare ai
programmi e ai fondi che l’Unione Europea attiva a tali scopi, alle procedure per
accedervi, al ruolo degli attori locali, pubblici e privati e all’attivazione di questi
programmi nei territori di appartenenza.
Le critiche mosse dal CILAP evidenziano la mancanza, nel Piano, di una visione
strategica di lotta alla povertà e all’esclusione sociale e l’assenza di obiettivi a lungo
termine volti a “diminuire sostanzialmente la povertà entro il 2010”65. Viene
rimproverato il mancato accenno all’importanza delle risorse umane nel campo del
sociale, quale fattore determinante per garantire la qualità degli interventi di lotta alla
povertà e all’esclusione sociale, e al rafforzamento di una tendenza di tipo
assistenziale. Viene inoltre stigmatizzata la delega alla famiglia di compiti che
dovrebbero essere di responsabilità di tutta la collettività. Si sottolinea il rischio di
cancellazione del ruolo del settore pubblico (indirizzo, programmazione, promozione e
controllo) nella politica dei servizi e delle prestazioni sociali. Si critica anche la mancata
illustrazione di percorsi concreti per definire le figure professionali necessarie, i loro
65
Da “Il Piano di azione nazionale contro la povertà e l’esclusione sociale 2003-2005: Commento del
CILAP EAPN Italia”, consultabile sul sito internet del CILAP,www.romacivica.net/cilap/inclusione.htm.
146
profili, i requisiti di formazione a livello di base e di formazione continua e i criteri di
accreditamento delle sedi formative. Ma si riconoscono comunque le potenzialità del
Piano e della strategia europea per l’inclusione, nel momento in cui i singoli Paesi sono
sollecitati a definire “procedure negoziali con tutti gli attori sociali rilevanti e in modo
chiaro, obiettivi, strumenti, criteri di valutazione”66.
9.8.4 Quadro di insieme e prospettive future
In definitiva, non sembra possibile parlare di una politica legislativa uniforme di
contrasto alla povertà. Come per un individuo sono difficili da prevedere gli eventi che
possono generare situazioni di rischio povertà (perdita del lavoro, separazione,
malattia), allo stesso modo non è facile predisporre politiche universali volte a
contrastare il fenomeno in esame.
Le politiche sociali dovrebbero essere contemporaneamente elastiche ed incisive, in
modo da risultare efficaci. Un obiettivo di questa portata può essere raggiunto sotto
una duplice prospettiva: specificamente nei singoli campi di intervento delle leggi e
complessivamente grazie ad una integrazione delle varie politiche.
Sotto il primo profilo, è importante che il legislatore analizzi a fondo le criticità di ogni
settore in cui interviene. Nel campo delle politiche del lavoro, le nuove normative
(legge Biagi) hanno introdotto una flessibilità cosiddetta in entrata e una flessibilità
funzionale: la prima è riferita all’abolizione del monopolio pubblico del collocamento,
alla maggiore diffusione del contratto a termine ed alla introduzione della
somministrazione di manodopera; la seconda è relativa più specificamente al rapporto
di lavoro, in particolare all’articolazione dell’orario di lavoro. Una disciplina che
permetta al datore di lavoro l’utilizzo dei contratti atipici semplicemente per aggirare
determinati obblighi ed ottenere benefici, non è in linea con l’effettivo mutamento delle
condizioni del mercato che richiedono più flessibilità, ma sembra più che altro
improntata a favorire certe posizioni invece di altre. Inoltre, bisogna considerare in che
modo viene percepita la flessibilità lavorativa: per i giovani che entrano nel mercato del
lavoro può essere considerata positivamente in quanto associata alla possibilità di
66
Chiara Saraceno, “Fumo contro la povertà”, 9/9/2003, pubblicato in www.lavoce.info.
147
cambiamento e di acquisizione di nuove competenze, mentre per soggetti più adulti
può essere più difficile da accettare a livello psicologico e può generare un
allontanamento rispetto all’investimento professionale. In definitiva, la scarsa tutela del
lavoratore sul posto di lavoro andrebbe compensata “da generosi sussidi di
disoccupazione e da un ampio utilizzo degli strumenti di attivazione (azioni di
formazione, orientamento, counselling, sostegno alla ricerca del lavoro)”67
Il fatto di mettere la famiglia al centro delle politiche di sostegno deriva
dall’impostazione culturale del nostro Paese e la tutela predisposta (soprattutto dalla
legge 328/2000) in favore di questa formazione sociale, costituisce un articolato
strumento di contrasto alle situazioni di marginalità. Le politiche sociali per la famiglia
devono rivolgersi a tutte le famiglie per prevenire la loro caduta in povertà, quindi si
tratta di politiche generalizzate di prevenzione. Nel momento in cui ci si trovi di fronte a
famiglie già al di sotto della soglia di indigenza, si parlerà invece di vere e proprie
politiche di contrasto alla povertà. In questo quadro, inoltre, non vanno dimenticati i
cosiddetti legami deboli, ossia quelli esterni rispetto al nucleo familiare, i quali spesso
sono i soli a generare nuove opportunità per gli individui. I legami familiari sono
considerati forti ma rischiano di essere anche chiusi, autocentranti, mentre la società
attuale ha l’esigenza di sviluppare occasioni per coloro i quali hanno meno possibilità: i
contatti sporadici sembrano funzionali allo scopo perché permettono di raggiungere
canali ed informazioni che altrimenti non verrebbero attivati.
Altrettanto
importanti
appaiono
gli
interventi
legislativi
relativi
al
fenomeno
dell’immigrazione: un problema da non sottovalutare è quello della seconda
generazione degli immigrati. In base alla normativa vigente sulla cittadinanza (art. 4 c.
1 lett. c) della legge n. 91 del 5 febbraio 1992), il figlio di una coppia di immigrati nato
in Italia, al compimento del diciottesimo anno di età ha un anno di tempo per
richiedere la cittadinanza italiana. Quindi, nonostante sia totalmente inserito fin dalla
nascita nel contesto socio-territoriale italiano, età quando diventa maggiorenne dovrà
effettuare un’operazione burocratica che, ai suoi occhi, non è molto comprensibile,
soprattutto mettendo a confronto la sua situazione con quella di un coetaneo nato da
67
Fonte: Eurispes, “ Rapporto Italia 2006”.
148
una famiglia italiana. Le politiche sull’immigrazione devono dunque adattarsi ad un
fenomeno in crescita e in evoluzione, portatore di cambiamenti verificabili solo col
passare del tempo, senza tuttavia dimenticarsi le implicazioni legate all’effettiva
integrazione degli individui.
Politiche assistenziali e previdenziali devono strutturarsi adeguatamente in previsione
del progressivo invecchiamento della società attuale. La spesa sanitaria salirà in modo
consistente e le stime relative alle risorse finanziarie che lo Stato avrà a disposizione
non sono positive, quindi per gli anziani rischia di accentuarsi il pericolo di cadere in
povertà. Questo è l’ambito di intervento dove è più difficile predisporre una politica
preventiva, dal momento che invecchiamento della popolazione e risorse disponibili si
inseriscono nel contesto di cambiamento del mercato dell’occupazione, il quale esprime
esigenze che rendono sempre meno conciliabili i tempi del lavoro e quelli della cura.
Dunque, le politiche previdenziali dovranno rispondere al duplice criterio della
sostenibilità (sul lato del sistema macroeconomico) e della adeguatezza (sul lato del
bilancio familiare quotidiano), operando un difficile bilanciamento tra i due elementi.
Passando all’aspetto della visione complessiva delle politiche sociali, una delle critiche
mosse dal CILAP al Piano di azione nazionale contro la povertà è proprio quella della
mancanza di una strategia generale di contrasto alla povertà e, sicuramente,
l’eterogeneità degli interventi legislativi non agevola una visione d’insieme del
problema. L’integrazione delle politiche non è facile da realizzare non solo dal punto di
vista dello studio e della realizzazione del modello, ma anche (e soprattutto) nell’ottica
dei meccanismi politici da predisporre, poiché appaiono difficili da integrare proprio le
modalità di funzionamento della politica. Servirebbe dunque uno sforzo comune da
parte dei decisori per superare difficoltà operative e metodologiche, e per vincere lo
scoglio psicologico della mancanza di visibilità conseguente alla proposta di una politica
integrata: difficilmente, infatti, la proposta di un’azione integrata porterebbe al politico
promotore la stessa visibilità presso l’opinione pubblica rispetto alla proposta di una
misura settoriale. Tuttavia, va considerato come, a fronte di una perdita in termini di
notorietà
individuale,
il
vantaggio
ottenuto
ampiamente una presa di posizione di questo tipo.
dalla
collettività
giustificherebbe
149
9.9 Un quadro di sintesi
Come più volte ribadito in questo capitolo, a fronte della povertà tradizionalmente
intesa, si parla sempre più spesso di nuove povertà. L’ampiezza della letteratura
esistente sul tema e la generalizzazione che sovente si fa riguardo a questo
argomento, possono condurre a stravolgere la realtà dei fatti o, peggio, a dimenticare
invece che approfondire la materia oggetto d’esame. Il rischio, cioè, è quello di
trascurare il fatto che la povertà economica permane nella nostra società e si cumula
con altre forme di difficoltà che in parte ne sono conseguenza e in parte causa.
Riflettendo sul percorso che può condurre un individuo in condizioni di povertà
economica, spesso si scopre che all’origine ci sono cause non economiche, ad esempio
la dipendenza da alcool o droga, il gioco d’azzardo, la mancanza o la perdita di legami
sociali e affettivi. Tutte queste fattispecie sono tuttavia riconducibili a forme di povertà
antica, tradizionalmente individuata: ad essere nuovi sono i soggetti coinvolti più che le
forme di povertà, le quali restano grossomodo sempre le stesse. Nuova è la diffusione
di determinati fenomeni che prima erano sporadici, per esempio i casi delle madri sole
con figli a carico e basso reddito e scolarità, oppure la povertà dei minori (individuati
come i minori che vivono in famiglie considerate povere), oppure ancora l’aumento
dell’immigrazione. Dunque, sembrerebbe più opportuno parlare di “nuovi rischi di
povertà”, citando le parole del Prof. Negri, ossia delle nuove condizioni di vita che
possono determinare la caduta in queste forme di indigenza: questi rischi sono
definibili nuovi proprio perché sono meno collegati con le situazioni di esclusione
sociale o marginalità più tradizionali.
Anche l’attuale precarietà del lavoro non crea automaticamente una diffusione di
“nuovi” poveri maggiore rispetto al numero di poveri del passato: la garanzia di un
certo livello del lavoro e lo Statuto dei lavoratori sono conquiste recenti, in precedenza
c’era comunque il rischio di incidenti che pregiudicassero la carriera lavorativa
dell’individuo. Indubbiamente, l’esigenza di natura economica che obbliga il mercato
del lavoro a togliere la garanzia del posto di lavoro e introduce le forme di precarietà
contrattuali, rappresenta un cambiamento in grado di produrre situazioni di rischio che
prima non esistevano. Tuttavia, tale dinamica fa parte della complessità e del
dinamismo della società attuale, in continuo cambiamento e produttrice di una gamma
più ampia di possibili cause di povertà. Nascono dunque situazioni di nuovi rischi di
150
povertà più connesse alle nuove forme di instabilità che oggi caratterizzano anche il
mercato del lavoro.
Un altro fattore che sembra importante è rappresentato dal passaggio da una cultura
contadina e rurale ad una cittadina, avvenuto in Italia nel corso degli ultimi 50 o 60
anni. Nella situazione precedente era più facile avere momenti di condivisione e di
scambio, durante i quali era anche possibile sviluppare strategie per superare le
situazioni difficili, oggi queste occasioni di aggregazione sono meno numerose.
Attraverso i legami sociali si costruiscono significati, si attribuiscono valori al senso del
vivere collettivo, ma la vita quotidiana sembra perdere sempre più la dimensione della
socialità, connotandosi al contrario sempre più come vita solitaria. Secondo la prof. De
Piccoli, il discorso dell’esclusione e delle nuove povertà è collegabile al fatto che il
mondo si sta urbanizzando sempre più, quindi le politiche volte a rafforzare i legami
sociali all’interno del contesto urbano costituiscono un ulteriore strumento di contrasto
al rischio povertà e un supporto alle vulnerabilità individuali.
Il problema della ricaduta in stato di indigenza è strettamente collegato alla durata di
tale condizione. Si parla di povertà fluttuante proprio facendo riferimento alla durata
del fenomeno, alla persistenza dei soggetti nella condizione di difficoltà e alle
dinamiche del loro ingresso-uscita in tale condizione. Le persone che restano
intrappolate per lungo tempo ricadono nelle forme di povertà estrema tradizionale (le
categorie abitualmente individuate comprendono i senza dimora, gli immigrati
clandestini, i nomadi, i malati di mente), che diventano spirali dalle quali è molto
difficile uscire. Prima la povertà non era fluttuante perché era connessa a incidenti
collegati a forme di marginalità sociale grave o a patologie come il disagio psichico, o
comunque a forti problemi di integrazione. Oggi invece nascono forme di difficoltà che
coinvolgono persone che non sono condizionate da forme di disagio o difficoltà di
integrazione grave, anzi sono persone che devono la loro fragilità al fatto di aver
organizzato la loro vita secondo modalità di esistenza che una volta erano considerate
le più robuste, quali la stabilità lavorativa, la centralità della famiglia.
Due delle cause di ingresso ed uscita dalla povertà sono state individuate dagli esperti
intervistati nella breve durata degli interventi assistenziali pubblici e nella precarietà del
lavoro. Gli interventi assistenziali dei comuni o degli enti di previdenza (esempio
indennità di disoccupazione) hanno una durata molto limitata e, quando terminano, il
soggetto è a forte rischio di rientrare in condizione di povertà.
151
Tradizionalmente,
la
povertà
è
stata
sempre
associata
al
fenomeno
della
disoccupazione, oggi questo legame secondo il Prof. Rovati resiste solo in relazione ai
poveri e ai disoccupati di lunga durata: sono sostanzialmente soggetti con
caratteristiche simili, un disoccupato di lunga durata resta intrappolato in questa
situazione proprio perché ha caratteristiche soggettive difficilmente modificabili, o
perché immodificabili risultano le condizioni ambientali in cui è inserito.
I periodi di disoccupazione tra un lavoro e l’altro mettono a rischio gli individui, anche
se è necessario distinguere il lavoro precario tradizionale (come la manodopera agricola
stagionale)
dalle
nuove
forme
contrattuali
atipiche,
le
quali
non
generano
necessariamente condizioni di rischio. E’ necessario evitare la generalizzazione che
accomuna precarietà, lavori atipici e povertà, dal momento che esistono forme di
lavoro definito atipico per forma contrattuale ma non necessariamente di bassa qualità
e remunerazione. L’alternanza tra periodi di occupazione e disoccupazione ha
determinato la creazione della cosiddetta categoria dei bridgers68, individui che
passano da una condizione all’altra, esponendo la propria famiglia al rischio di povertà
nella prima situazione (laddove si tratti di una struttura familiare di tipo monoreddito) e
normalizzando il loro stato solo quando rientrano nel mercato del lavoro.
La discontinuità lavorativa è stata individuata come una delle cause di persistenza nello
stato di povertà, proprio perché influisce sulla certezza e sull’ammontare del reddito
complessivo (ad esempio, si può percepire una buona retribuzione ma per un periodo
di tempo troppo limitato) e, di conseguenza, sulla programmabilità delle scelte future.
A tal proposito, risultano coinvolti anche molti soggetti che hanno un’occupazione e
che, dunque, sono inseriti nel mercato del lavoro: per loro, si è parlato della categoria
dei working poors69, i lavoratori che hanno un reddito ma rientrano ugualmente nelle
fasce a rischio di esclusione sociale o nella categoria dei nuovi poveri. Anche questo
68
Il prof. Negri ha citato la categoria dei “bridgers”, letteralmente costruttori di ponti, coniata nei Paesi
anglosassoni per indicare i soggetti che alternano brevi periodi di disoccupazione e, dunque, povertà ad
altri di occupazione, dando vita ad un fenomeno oscillante tra le due situazioni.
69
In base ai dati ISTAT, si definiscono “working poors”, ossia lavoratori poveri, quelli che percepiscono un
reddito per mese lavorato inferiore al 60% della media calcolata sui lavoratori a tempo pieno. I working
poors hanno un reddito stimato di 586 euro al mese.
152
fenomeno è causato dalla discontinuità del lavoro e dalla bassa retribuzione unitaria.
Volendo trarre alcune conclusioni rispetto ai temi affrontati, ci sembra di poter dire che
la materia presa in esame non consente un approccio da un solo punto di vista, ma è
necessario adottare un’ottica multidimensionale, che permetta di considerare tutte le
variabili che intervengono.
Tentando di arrivare ad una definizione di povertà, la Caritas afferma che essa “è una
condizione umana e sociale in cui una grave insufficienza del reddito economico si
abbina ad altri elementi tra loro correlati, quali la mancanza di salute, di famiglia, di
lavoro, di casa, di conoscenza, la mancanza di esercizio della cittadinanza attiva,
mancanza di libertà, che collocano la persona ai margini della società rendendone
problematica l’integrazione. Viene a cadere così la concezione fatalistica della povertà,
ad
essa
si
sostituisce
una
rappresentazione
più
realistica,
che
coinvolge
nell’attribuzione di responsabilità società civile e istituzioni”70. Questa definizione
multidimensionale è in grado di comprendere le molteplici sfaccettature del fenomeno
“povertà”.
Come già detto, nella maggior parte dei casi reddito e consumo restano gli indicatori
principali per individuare lo stato di povertà, anche se tale approccio presenta alcune
difficoltà statistiche (disponibilità e qualità dei dati, comparazione e attendibilità dei
risultati) e rischia di escludere dal campo di analisi una serie di povertà non misurabili
quantitativamente. Passando all’analisi dei soggetti, individuare i poveri risulta più
agevole per le categorie di persone che rientrano nelle cosiddette povertà tradizionali,
quelle estreme per esempio (i senza dimora, gli anziani non autosufficienti…), mentre
una schematizzazione appare riduttiva per definire i “nuovi poveri”: la maggior parte di
loro sono soggetti nuovi che rientrano in forme di povertà vecchie cresciute nel corso
degli anni (la povertà dei minori, gli immigrati, i disoccupati di lungo periodo, le
famiglie con figli a carico, gli ex detenuti, i tossicodipendenti, i disabili). In definitiva, si
può affermare che la società attuale ha provocato un aumento delle cause che
generano povertà e che, di conseguenza, è aumentata la fascia di persone a rischio di
ricadere in uno stato di difficoltà. L’ipotesi espressa all’inizio del presente lavoro sembra
70
Fonte: “Disagio e Povertà a Roma – Rapporto 2003 a cura della Caritas”, 2003.
153
dunque trovare conferma nelle parole degli esperti intervistati, i quali non danno una
definizione univoca di “nuovi poveri”, anzi sottolineano la pericolosità di racchiudere il
fenomeno delle nuove povertà all’interno di una formula definitoria, perché
un’operazione di questo tipo può condurre a semplificare, ridimensionare gli aspetti
concreti che connotano il fenomeno.
Un’altra tesi da verificare era quella relativa alla eventuale differenza tra i concetti di
“esclusione sociale” e “povertà”, che talvolta vengono utilizzati in maniera
intercambiabile mentre altre volte vengono distinti nettamente. Ci sembrava dunque
utile approfondire l’analisi relativamente a questo aspetto, per capire se effettivamente
le due nozioni sono assimilabili o se tra loro esiste una differenza sostanziale.
Dalle interviste effettuate, emerge che entrambi i concetti appartengono all’area del
disagio sociale dei soggetti deboli e coinvolgono molteplici aspetti della vita
dell’individuo, dunque non solo quelli finanziari, sebbene l’indicatore economico sia
fondamentale per individuare la povertà oggettiva. L’impoverimento di una persona
può quindi riguardare aspetti culturali o relazionali, oltre che economici, così come
l’esclusione può manifestarsi nell’impossibilità ad accedere o ad esercitare determinati
diritti, o nel dover subire discriminazioni a causa di fattori specifici (ad esempio, sesso,
religione, etnia).
La caratteristica distintiva tra le due definizioni sembra in definitiva essere quella
temporale, nel senso che la cronicizzazione di una forma di povertà può portare a una
condizione duratura di esclusione sociale. E’ vero che la situazione di “nuova” povertà è
spesso uno stato passeggero, temporaneo, ma è altrettanto vero che l’altalenarsi e il
susseguirsi di periodi di difficoltà determinano, nel lungo periodo, un generale stato di
emarginazione, spostando dunque il confine tra povertà ed esclusione a una variabile
temporale più che sostanziale. “Il vero problema allora – sostiene il Prof. Rovati – non
è l’esistenza della povertà o della disoccupazione ma la durata del fenomeno, la
persistenza dei soggetti nella condizione di svantaggio. Se è possibile attivare un
cambiamento, allora sarà anche possibile attivare la fuoriuscita”.
Attualmente, la componente temporale del fenomeno povertà appare ancora irrisolta,
nel senso che finora non è stata individuata una politica (o più politiche, se si vogliono
diversificare gli interventi in base alla diversità delle situazioni su cui intervenire) in
grado di garantire una rapida fuoriuscita dalla condizione di difficoltà. Sarebbe
154
indubbiamente
interessante
concentrare
l’analisi
sull’ottica
futura,
spostando
l’attenzione sui rimedi concretamente attuabili e sulle situazioni che potranno
verificarsi. Nel corso dell’attuale lavoro, ci siamo soffermati solo parzialmente su questo
aspetto, da un lato perché gli intervistati si sono dimostrati molto cauti nella
formulazione di previsioni o di interventi correttivi, dall’altro perché l’obiettivo della
ricerca era fondamentalmente un altro e tendeva ad individuare e definire un
fenomeno attuale, più che concentrarsi sull’evoluzione che esso potrà subire.
Indubbiamente, la ricerca da noi svolta non può avere carattere esaustivo, anche in
considerazione del fatto che il tema preso in esame è in continua trasformazione e non
si presta ad una schematizzazione rigida e definitiva: anzi, date le sue caratteristiche
strutturali, andrebbe monitorato e “accompagnato” nel corso della sua evoluzione,
proprio al fine di predisporre strumenti di contrasto efficaci e adeguati ai cambiamenti
della società attuale, e al fine di adottare politiche in grado di assicurare un grado di
tutela uniforme per tutti gli individui che sono coinvolti.
155
156
10.
Vulnerabilità e risorse individuali
Come in ogni fenomeno umano, i fattori che intervengono nelle condizioni di povertà
sono molteplici e fra loro interconnessi a vari livelli. Non è possibile individuare “la
causa principale della povertà”, o “i fattori determinanti”. Potrebbe essere utile
identificare un insieme di vulnerabilità che predispongono gli individui a situazioni di
disagio e successivamente a povertà, emarginazione, esclusione. Ma mai in modo
deterministico. È stata ormai abbandonata la concezione dell'uomo dei teorici
comportamentisti, che interpretavano la condizione umana e i comportamenti come
determinati esclusivamente da stimoli esterni. Gli studi degli ultimi decenni (Bara,
1996) hanno messo in evidenza che, nell’incontro con la realtà esterna, l'uomo non
acquisisce le informazioni in modo passivo, non risponde in maniera meccanica alle
sollecitazioni che riceve. Il contesto fornisce informazioni, stimoli e risorse che non
vengono acquisite passivamente, ma rielaborati. Il comportamento e la condizione di
vita di ciascuno, sono determinati dalla compresenza di molti fattori, fra i quali:
l’esperienza passata, che influisce sulle modalità di attribuzione soggettiva di significato
e interpretazione simbolica degli eventi; l'ambiente esterno, concepito come un insieme
di opportunità e limiti; e un insieme di atteggiamenti e predisposizioni di natura
psicologica, le vulnerabilità e/o potenzialità individuali. Se non fosse così, sarebbe tutto
più semplice: all'interno di una famiglia che vive in un contesto di disagio sarebbe
facile, date certe condizioni di partenza, poter prevedere l'esito e il destino di ogni
componente. Ma non è così.
Da un’analisi delle interviste sono emersi molti spunti utili per analizzare e descrivere il
fenomeno delle nuove povertà e delle condizioni di emarginazione. I principali fanno
riferimento a tre categorie:
a) contesto di riferimento: con le sue richieste e risorse;
b) difficoltà oggettive: disoccupazione, abusi e dipendenze, malattie;
c) risorse individuali.
Queste tematiche possono essere considerate come tre distinti punti di vista da cui è
possibile osservare il fenomeno delle nuove povertà. È possibile scegliere, di volta in
157
volta, quale fenomeno considerare in primo piano e quali tralasciare sullo sfondo della
scena. E' necessario sottolineare che, quella che facciamo, è una scelta soggettiva
funzionale ad ottenere una maggiore chiarezza espositiva, poiché nella realtà risulta
difficile ed artificioso definire in maniera netta i confini dell'uno e dell'altro.
10.1 L’evoluzione del contesto sociale
“Il discorso della povertà, delle nuove povertà, non può prescindere dal considerare
quello che è il contesto sociale in mutamento e quelle che sono le possibilità che le
persone hanno di fronteggiare queste situazioni di problematicità.[… ] non si può dire
ad una persona: « è solo responsabilità tua se le cose ti vanno male». C’è sempre il
dato soggettivo e quello contestuale che sono da considerarsi strettamente intrecciati:
l’uno senza l’altro sarebbero parziali”71.
I cambiamenti sociali e nel mercato del lavoro, avvenuti negli ultimi decenni, richiedono
ai soggetti nuovi comportamenti e nuove competenze e possono essere ricondotti alle
seguenti categorie:
a) Trasformazione da una società industriale a una post-industriale: dalla produzione,
al lavoro terziario, caratterizzato da una progressiva diminuzione della richiesta di
manodopera e una crescente necessità di lavoratori adibiti alla rilevazione e
all’elaborazione di informazioni.
b) Da un mercato di primo acquisto, ad uno di sostituzione. A seguito della
saturazione del mercato di primo acquisto, che in passato aveva permesso un
incremento enorme della produttività, le aziende orientano i loro sforzi nella ricerca
della qualità. Le imprese seguono oggi il concetto di qualità globale, intendendo
con questo concetto, non più la conformità del prodotto al progetto iniziale, quanto
piuttosto la soddisfazione del cliente: questo determina un crescente impiego di
addetti alla ricerca e alla progettazione, al marketing, alla pubblicità, alla
distribuzione commerciale, alle attività di servizio fondate, appunto, su competenze
conoscitive in continua evoluzione.
71
Intervista Prof.ssa De Piccoli.
158
c) L’organizzazione del lavoro non è più basata su mansioni rigide e predeterminate.
La produzione di servizi e l’orientamento al cliente delle imprese implicano che la
produzione non possa più essere progettata a priori e quindi realizzata attraverso
una serie di passaggi predefiniti, ma deve essere modellata sul cliente. La
soddisfazione del cliente costituisce l’obiettivo principale delle aziende e la posizione
gerarchica prevalente appartiene a chi ha le competenze per raggiungerlo al
meglio. Le competenze diventano fondamentali, quindi, anche per l’ordinamento
gerarchico.
Il cambiamento qualitativo e quantitativo delle modalità produttive ha modificato
profondamente il contenuto della prestazione lavorativa e quindi, dei requisiti necessari
per trovare lavoro, ma anche la posizione del lavoratore nella gerarchia. Dal punto di
vista del lavoratore queste trasformazioni richiedono un elevato livello di competenze e
una maggiore partecipazione al processo decisionale, con prestazioni sempre più
qualificate. Potrà aumentare, o comunque rimanere elevato, il numero di coloro che,
non potendo partecipare ai progressi dei processi produttivi, per motivi culturali (quali il
basso livello d’istruzione, o la formazione non adeguata alle esigenze del marcato) o
socioeconomici (ad esempio, vivere in zone con un sistema economico arretrato, dove
le opportunità lavorative sono scarse e dequalificanti), dovranno subirne gli aspetti
deleteri. E’ stato previsto un aumento della disoccupazione e di coloro che in
alternativa, saranno costretti ad accettare lavori di bassissimo profilo, in una situazione
di crescente precarietà. Rossana Stanga ha individuato due forme diverse di flessibilità:
la prima riguarda lavori altamente qualificati e che interessa quell’insieme di attività
lavorative per cui sono indispensabili grandi capacità di adattamento. Si pensi alle
nuove professioni emergenti, a una parte del lavoro autonomo, alla nuova
imprenditorialità, agli addetti ai servizi innovativi per le imprese. La flessibilità così
intesa, rappresenta soprattutto per i giovani, un’opportunità per esprimere appieno le
proprie capacità e competenze e un’occasione per sperimentarsi. Questa forma di
flessibilità coinvolge solo una minoranza, favorita da una posizione socioeconomica e
culturale di partenza elevata. “Nella maggior parte dei casi, purtroppo, flessibilità
significa invece svolgere un lavoro precario, senza accrescere affatto le proprie
competenze, la propria professionalità, ma anzi assumendo ruoli lavorativi di basso
profilo, con il rischio di rimanere progressivamente esclusi da mercato del lavoro. Se si
pensa all’importanza che la formazione assume nel lavoro postindustriale, si capisce
159
come il fatto di non poter accedere a percorsi formativi adeguati implichi il rischio di
rimanere emarginati da una realtà lavorativa in continua evoluzione” (Stanga, 1999).
Per alcuni il lavoro precario è una scelta, un’opportunità per costruirsi un'identità
professionale. Ma quando il lavoro precario, o i lavori occasionali diventano l'unica
opportunità disponibile, allora questa non costituisce solo una precarietà economica,
ma anche una povertà di occasioni, una difficoltà a trovare possibilità di crescita.72
Il contesto è anche la sede in cui il soggetto può trovare le risorse di cui ha bisogno
per il conseguimento dei suoi obiettivi e un sostegno nelle situazioni di difficoltà. Si
definisce capitale sociale l'insieme delle risorse che gli individui acquisiscono attraverso
i legami in cui sono coinvolti (Meo, 2000). Il concetto di capitale sociale è strettamente
collegato a quello di rete di relazioni. Per rete si intende un complesso di relazioni tra
individui che permettono l'acquisizione e il trasferimento di risorse, sotto forma di
sostegno morale, materiale, di fiducia, di reciprocità. All'interno della rete sociale si
formano dei sistemi di sostegno costituiti dalle specifiche persone che lo forniscono e
dai legami che esse hanno con chi lo cerca E’ possibile, distinguere due tipi di sistemi
supportivi: informale e formale. Il sistema informale comprende “i legami con i parenti,
amici intimi, persone con cui si ha una conoscenza diretta e confidenza o con cui si
condividono affetti, interessi, conoscenze culturali ed obiettivi. Il sistema formale,
invece è dato da strutture istituzionali e da professionisti che operano in contesti di
cura, riabilitazione e prevenzione psico-sociale. È dall’azione di questi due tipi di
sistemi, che si origina il sostegno sociale, in grado di promuovere il sano sviluppo
individuale e di supportare nelle situazioni di difficoltà e disagio (Sgarro, 1988).
Il Prof. Rovati ha individuato nella mancanza di relazioni sociali un fattore importante
nelle dinamiche che interessano le nuove povertà.73
Da un’analisi della letteratura emergono diverse funzioni del supporto sociale:
a) Molti studi hanno individuato una forte correlazione diretta tra supporto sociale e
salute. Altri studi hanno rilevato un effetto indiretto, ottenuto attraverso
72
73
Intervista Prof.ssa De Piccoli N.
Intervista Prof. Rovati G.
160
l’interazione con altre variabili, ad esempio con gli eventi di vita, in quello che è
stato definito effetto buffer (cuscinetto): di protezione dall’impatto che gli eventi
particolarmente minacciosi hanno sul corso di vita delle persone.
b) Non è possibile considerare il sostegno sociale senza considerare la dimensione
individuale: la possibilità di ricevere un supporto non è indipendente dalle
caratteristiche dei soggetti che lo forniscono e da quelli che lo ricevo. Per utilizzare
il sostegno, l’individuo deve essere stato in grado di stabilire delle relazioni
soddisfacenti, e di utilizzarle positivamente. E’ riduttivo pensare solo nei termini
della presenza-assenza di una rete di sostegno, è anche molto importante la qualità
della relazione, poiché non tutte le relazioni sono sempre in grado di offrire un
supporto positivo. Hansonn (1997) definisce il supporto sociale, dal punto di vista
dell'individuo, come insieme delle caratteristiche possedute da un soggetto che lo
facilitano nell’acquisizione, nello sviluppo e nel mantenimento di relazioni
mutuamente soddisfacenti. Secondo tale prospettiva non è tanto la reciprocità a
caratterizzare la percezione del sostegno, quanto la predisposizione delle persone
verso la rete, ovvero la capacità di un individuo di aprirsi ad un altro e capitalizzare
sulla relazione, piuttosto che un atteggiamento di chiusura.
c) Altri autori leggono il supporto sociale come uno scambio di risorse tra almeno due
individui che si percepiscono come fornitori o riceventi all’interno del rapporto
interpersonale, enfatizzando l’esistenza di almeno due punti di vista in ogni
relazione. Tale contraccambio include informazioni, assistenza materiale, conforto,
empatia, aiuto nel risolvere i problemi e rassicurazione.
d) Un altro aspetto del sostegno sociale è rappresentato dalla possibilità per l'individuo
di mettere in gioco le sue capacità per ottenere la gratificazione dei bisogni di base
(necessità materiali, affetto, attenzione, accettazione); in questo modo gli si
attribuisce il ruolo di training di competenze sociale.
e) Kasl & Cobb, definiscono tale concetto come l’insieme delle informazioni che
circolano nelle relazioni interpersonali e permettono all’individuo di sentirsi amato,
stimato e appartenente ad una rete di comunicazioni e di legami reciproci. Queste
informazioni accrescono l’autostima e facilitano l’integrazione sociale74.
74
“Esperienza di inserimento lavorativo delle donne”. Consultabile nel sito: www.provincia.genova.it.
161
162
10.2 Fattori oggettivi di vulnerabilità
Nella prospettiva del corso di vita (life events) (Meo, 2000), la biografia individuale è
considerata come un processo dinamico, costituito da molteplici traiettorie, non sempre
lineari. Gli eventi costituiscono un’interruzione nella continuità del corso di vita,
ponendo il soggetto nella condizione di dover ristrutturare un nuovo equilibrio
attraverso l’integrazione degli elementi nuovi. Spesso gli eventi di vita sono talmente
destrutturanti da necessitare di una profonda riorganizzazione cognitiva della
rappresentazione del sé. Per esempio, a seguito di una malattia inabilitante, o della
presa di coscienza di essere diventato dipendente da droghe, o del fallimento del
proprio matrimonio, un soggetto è costretto a rivedere la propria concezione di sé, il
proprio ruolo nella società, e a progettare un futuro alternativo. Un evento può creare
disagio nel momento in cui, partendo da una situazione di equilibrio, crea uno
squilibrio, ossia se provoca uno spiazzamento. Gli psicologi definiscono stressante un
tale evento in quanto necessita di un impiego di risorse straordinarie, superiori alle
capacità dell’individuo. Al centro di questa definizione viene posta la variabilità
soggettiva di risposta alle situazioni ambientali e sociali. I sociologi preferiscono parlare
di evento critico, o problematico, di fronte al quale le abituali modalità di reazione
dell’individuo risultano inadeguate. Se non si è in grado di attivare nuovi processi e
nuovi piani d’azione, un evento critico può provocare sofferenza.
Fra gli eventi di vita un’attenzione particolare va riservata alla disoccupazione e alla
precarietà lavorativa e agli effetti psico-sociali che possono comportare.
Da un’indagine ISTAT del 2004 sulla povertà relativa emerge che la percentuale di
famiglie povere con membri esclusi dal mercato del lavoro è pari al 28,9% nelle
famiglie con una persona in cerca di occupazione e al 37,4% in quelle con due o più
componenti in cerca di lavoro.75
Le reazioni alla perdita dell’occupazione sono state analizzate dalla Jahoda, attraverso
75
http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20051006_00/poverta04.pdf.
163
l’individuazione delle funzioni primarie e secondarie svolte dal lavoro per gli individui. Il
modello della Johoda (modello delle funzioni latenti del lavoro, 1982) identifica una
funzione manifesta del lavoro, quella economica, e cinque funzioni latenti:
- il lavoro struttura e organizza il tempo;
- permette e facilita i contatti sociali;
- contribuisce alla creazione del ruolo sociale e dell'identità;
- fornisce uno scopo alla vita;
- mantiene in attività, rinforzando capacità fisiche e mentali.
Secondo questo modello, il disoccupato soffrirà della perdita di tali opportunità
personali e sociali, a meno che non riesca a raggiungere gli stessi scopi con strategie
alternative. Ciò è difficile poiché poche altre istituzioni ed esperienze sociali riescono a
combinare insieme le diverse funzioni manifeste e latenti normalmente svolte dal
lavoro.
La perdita del lavoro rappresenta un momento di trasformazione nell'esperienza
individuale di vita e, come tutte le situazioni di transizione, costituisce un momento
estremamente delicato, poiché si possono sperimentare sensazioni di disorientamento
e di crisi, come conseguenza di un equilibrio personale che è stato alterato.
Inoltre, il lavoro è anche uno strumento di socializzazione, quindi la perdita del lavoro
intacca diversi aspetti affettivi e sociali delle persone76.
Depolo e Sarchielli, hanno individuato i seguenti effetti della disoccupazione nella vita
dell’individuo:
a) La disoccupazione sottrae o riduce considerevolmente una fonte di guadagno
economico. Quando viene meno il reddito che deriva dal lavoro possono presentarsi
situazioni difficili sia dal punto di vista materiale, che da quello psicologico: possono
facilmente essere messi in discussione gli standard di vita e progetti per il futuro,
ma anche il proprio status all’interno della famiglia e in altri gruppi sociali
significativi.
76
Intervista Prof.ssa De Piccoli N.
164
b) La perdita del lavoro sottrae al soggetto la possibilità di accedere a tutta una rete
di interazioni sociali: dai rapporti con i colleghi a quelli più generalmente collegati
alla condizione di occupato.
c) Un altro effetto della situazione di disoccupato è la modificazione delle abitudini
quotidiane e dell’uso del tempo. La perdita del lavoro costituisce anche un vuoto,
una mancanza, che altera le abituali attività del soggetto. Restare senza lavoro può
una perdita dei punti di riferimento che organizzavano la quotidianità (Depolo,
Sarchielli, 1987).
d) Inoltre, la perdita di lavoro sembra incidere profondamente sul sé e sull’identità,
con una compromissione del senso di auto-efficacia personale (Bandura, 2000), e
diminuzione della autostima, della sicurezza di sé e del proprio valore.
Gli eventi non sono realtà puntuali ma passaggi di stato. Non sempre fra il prima e il
dopo è possibile individuare un confine netto. Gli eventi non sempre hanno effetti
immediati, né automatici: innescano processi e hanno esiti che si sviluppano e
assumono connotazioni diverse nel corso del tempo. Il loro impatto e significato sono,
inoltre, l’esito dell’interazione fra circostanze sociali e risposte intenzionali degli attori.
Da un lato, gli eventi modellano i corsi di vita, strutturando sistemi di vincoli e di
opportunità. Dall’altro tuttavia, è in base alle modalità individuali di reazione, in termini
di rielaborazione delle esperienze, attribuzione di senso, che gli eventi acquisiscono una
certa connotazione e sviluppano determinate conseguenze.
Alcuni eventi di vita hanno degli effetti anche sull’adattamento sociale e possono
facilitare il passaggio dall’integrazione all’emarginazione sociale, con gravi ripercussioni
sulla qualità della vita degli individui. Tra questi, hanno conseguenze rilevanti gli abusi
e le dipendenze da sostanze psicoattive.
Si definiscono psicotrope (o psicoattive) quelle sostanze che inducono una
modificazione dello stato psichico, che è tipica e diversa per ogni sostanza.
I criteri diagnostici del disturbo da dipendenza contenuti nel DSM-IV (Manuale
Diagnostico e Statistico Dei disturbi mentali, IV versione, 1994, redatto per iniziativa
dell’America Psychiatric Association), pongono in evidenza l’estrema complessità del
disturbo e la sua multifattorialità. Sono coinvolte funzioni cognitive, emotive,
interpersonali,
comportamentali
compromissione. Si può osservare:
e
motivazionali,
che
rivelano
una
grave
165
- Un’interruzione o riduzione di importanti attività sociali, lavorative o ricreative.
- L’uso continuativo della sostanza nonostante la consapevolezza di avere un
problema, di natura fisica o psicologica, verosimilmente causato o esacerbato
dall’uso della sostanza (per esempio l’uso di cocaina, nonostante il riconoscimento di
una depressione indotta da cocaina, oppure, il bere nonostante il riconoscimento del
peggioramento della salute a causa dell’assunzione d’alcol).
- Tolleranza, definita da un bisogno di dosi più elevate per raggiungere
l’intossicazione o gli effetti desiderati, inoltre, la stessa quantità di sostanza produce
un effetto notevolmente diminuito.
- Astinenza, che si manifesta con la caratteristica sindrome per la specifica sostanza;
il soggetto, inoltre, ricorre all’assunzione della sostanza per attenuare o evitare i
sintomi di astinenza.
- Persistente desiderio, o tentativi infruttuosi di sospendere e controllare l’uso di
sostanza.
- Assunzione della sostanza in quantità maggiori o in periodi più prolungati rispetto a
quanto previsto dal soggetto.
- Grande quantità di tempo spesa in attività necessarie a procurarsi la sostanza (per
esempio ricorrendo a diversi medici o percorrendo lunghe distanze), ad assumerla
(per esempio fumare ininterrottamente) o a riprendersi dai suoi effetti.
L’abuso di alcol è un’altra forma di dipendenza da sostanze psicoattive. E’ possibile
distinguere due forme di intossicazione da alcol: quella acuta e quella cronica.
Si definisce intossicazione alcolica acuta, quando il livello dell’alcol nell’organismo
supera certi limiti, ma a seguito di un intervallo di astinenza, dopo qualche ora, la
sostanza viene metabolizzata e gli effetti tossici della sostanza scompaiono.
Nell’intossicazione alcolica cronica, invece, a seguito di eccessi ripetuti negli anni,
vengono lese alcune strutture organiche, e ciò si traduce in alterazioni fisiche e
psichiche che permangono nonostante si sospenda l’assunzione di bevande alcoliche.
L’alcolismo cronico può essere considerato una vera e propria tossicomania, poiché
induce nei soggetti una forte dipendenza sia fisica che psichica. Caratteristico degli
alcolisti è la perdita di ogni ambizione, diminuzione delle loro prestazioni intellettuali e
una tendenza all’asocialità. Oltre che a costituire un grave problema medico, gli abusi
166
sia acuti che cronici di alcol determinano sfavorevoli conseguenze sociali: gli effetti si
riflettono sui comportamenti, che con frequenza possono sfociare oltre che nella
commissione di singoli atti disturbanti o delittuosi, anche nell’assunzione di stili abituali
di vita improduttivi o antisociali, con conseguenze negative sia per l’individuo che per il
suo ambiente familiare. L’alcolismo è stato anche considerato come una modalità di
devianza
tipicamente
passiva,
caratterizzata
da
disimpegno,
evasione
dalle
responsabilità e dalle difficoltà, o come compensazione delle frustrazioni: si tratta
perciò di una tipica condotta di rinuncia, caratterizzata dalla fuga nella gratificazione
individuale.
Un’altra forma di vulnerabilità è costituita dai disturbi mentali. Intendiamo per disturbo
mentale ogni sindrome di significativo rilievo clinico, meritevole di interesse
psichiatrico, connessa a una disfunzione psichica o biologica o comportamentale, che
possa produrre disagio, sofferenza o disabilità nel funzionamento sociale, e che si
accompagna a un’importante limitazione della libertà.
Questa definizione interessa una molteplicità di patologie molto eterogenee: dai ritardi
mentali, demenze, psicosi, schizofrenia, disturbi deliranti, disturbi dell’umore, disturbi
d’ansia, disturbi di personalità, e molti altri. Ne descriveremo due (depressione e
psicosi), a titolo esemplificativo, tentando di mettere in evidenza come gli aspetti
patologici individuali possono avere degli effetti negativi sul piano sociale.
La depressione è uno stato psicopatologico contrassegnato da abbassamento del tono
dell’umore, abbattimento, prostrazione fisica e psichica. Esistono diverse forme di
depressione, distinguibili per eziologia e gravità. Gli effetti sociali di questa patologia
riguardano principalmente la riduzione delle spinte motivazionali all’azione e una
riduzione delle capacità relazionali. Accanto alla tristezza, alla disistima, al disinteresse,
nel depresso sono spesso presenti sentimenti di insicurezza e una scarsa capacità di
iniziativa. Queste emozioni e atteggiamenti si scontrano con la necessità di essere
competitivi dell’odierno mercato del lavoro, rendendo questi soggetti meno competitivi
e più vulnerabili ai cambiamenti.
Per psicosi ci si riferisce a quelle più gravi patologie mentali, nelle quali la rilevante
alterazione di molteplici funzioni psichiche impedisce l’integrazione con la realtà
oggettiva;
ne
consegue
un
ostacolo
o
talora
addirittura
un’impossibilità
di
adeguamento sociale. La psicosi comporta un’alterazione della capacità di esaminare,
167
capire, e comporta una compromissione delle capacità di comprensione ed
adattamento alla realtà esterna. Le manifestazioni fondamentali del fenomeno psicotico
sono le seguenti:
- Delirio: lo psicotico ha convincimenti e idee che risultano in contraddizione con la
realtà e che non vengono abbandonati anche se confutati dall’evidenza.
- Allucinazioni: il paziente può riferire di aver avuto delle percezioni non reali.
- Disturbi di pensiero: il pensiero può avere caratteristiche dissociative, può esserci,
cioè, una perdita dei nessi logici nel susseguirsi delle idee.
- Alterazione della coscienza dell’Io: una situazione morbosa che compromette il
sentimento della propria identità e dell’integrità psichica della propria persona. Il
malato può giungere a non riconoscere più se stesso, e sentire il proprio Io come
mutato, fino a credersi un altro individuo.
Tra le forme di dipendenza ci sono anche quelle non legate a sostanze. Fra queste
citiamo la dipendenza dal gioco d’azzardo. Il termine comunemente usato, in
letteratura, per descrivere l’aspetto più grave relativo a questo fenomeno è quello di
“gioco patologico”. Per la maggioranza di noi il gioco non rimane altro che una delle
tante piacevoli attività; ma per alcuni il gioco d'azzardo diviene una vera e propria
patologia che porta a conseguenze drammatiche quali: la distruzione dei rapporti
familiari e lavorativi, l'indebitamento e la percezione di un forte senso di vuoto al di
fuori del gioco. Questo tipo di malattia si manifesta progressivamente senza che
l'interessato abbia modo di accorgersene, colpisce senza distinzione di età, classe
sociale d'appartenenza. I criteri diagnostici di riferimento, contenuti nel DSM IV sono
molto simili a quelli della dipendenza da sostanze, infatti, è possibile osservare negli
individui soggetti a questa dipendenza alcuni di questi comportamenti/atteggiamenti:
- È eccessivamente assorbito dal gioco d’azzardo (per esempio, il soggetto è
continuamente intento a rivivere esperienze trascorse di gioco, a valutare o
pianificare la prossima impresa di gioco, a escogitare i modi di procurarsi denaro
con cui giocare).
- Ha bisogno di giocare somme di denaro sempre maggiori per raggiungere lo stato di
eccitazione desiderato.
- Ha ripetutamente tentato di ridurre, controllare o interrompere il gioco d’azzardo,
168
ma senza successo.
- È irrequieto o irritabile quando tenta di ridurre o interrompere il gioco d’azzardo.
- Gioca d’azzardo per sfuggire problemi o per alleviare un umore disforico (per
esempio, sentimenti di impotenza, colpa, ansia, depressione).
- Dopo aver perso al gioco, spesso torna un altro giorno per giocare ancora
(rincorrendo le proprie perdite).
- Mente ai membri della propria famiglia, al terapeuta, o ad altri per occultare l’entità
del proprio coinvolgimento nel gioco d’azzardo.
- Ha commesso azioni illegali come falsificazione, frode, furto o appropriazione
indebita per finanziare il gioco d’azzardo.
- Fa affidamento sugli altri per reperire il denaro per alleviare una situazione
economica disperata causata dal gioco (una “operazione di salvataggio”).
Come abbiamo già sottolineato, non è individuabile un rapporto di causalità lineare tra
un evento e i suoi effetti. Il loro impatto e significato sono l'esito dell'interazione fra
circostanze sociali e risposte intenzionali dei soggetti. Assumono grande rilevanza
anche le strategie di coping di soggetti.
10.3 La percezione del soggetto
“… for there is nothing either good or bad but thinking makes it so”77
Sono stati individuati costrutti di personalità che permettono ai soggetti di differenziarsi
per quanto riguarda le modalità di reazione agli eventi e di interpretazione delle
situazioni. Ogni persona interpreta la realtà esterna e reagisce agli eventi in maniera
caratteristica; questo dipende dalla diversa storia personale e dalle peculiari aspettative
verso il futuro e dai differenti stili di coping. Il concetto di coping è stato tradotto in
italiano con il termine “fronteggiamento” o “adattamento attivo”, e si riferisce a
77
“Perché non c’è niente, né buono né cattivo, che non sia il pensiero a renderlo tale”. Shakespeare,
Amleto, atto II, scena II.
169
quell’insieme di strategie comportamentali e cognitive che il soggetto mette in atto per
fronteggiare situazioni di difficoltà. Costituiscono caratteristiche individuali che hanno
degli effetti sulle modalità soggettive di interpretazione della realtà e sulla motivazione
ad agire. I più importanti sono:
a) Il concetto di locus of control è utilizzato per spiegare due modalità di interpretare i
rinforzi ricevuti (premi e punizioni): locus of control interno o esterno. Nel primo
caso i premi e le punizioni ricevute sono attribuiti dal soggetto ad una propria
azione, o atteggiamento manifestato. Per esempio, una promozione potrà essere
interpretata come dovuta ai buoni risultati ottenuti, o un insulto ricevuto come
conseguenza di una propria mancanza. In questo caso si ha un senso di
padronanza delle proprie azioni e la convinzione di poter incidere sugli eventi
attraverso il proprio intervento. Questa modalità di coping influenza le opportunità
di cambiamento: essere in grado di individuare i propri comportamenti sbagliati,
consente anche di poter rimediare e migliorarsi. Nel caso di locus of control
esterno, gli eventi sono attribuiti all’intervento di qualcosa che è al di fuori del
proprio controllo, come la fortuna, l’intervento di altri. Questa modalità di coping
influenza le aspettative circa la propria capacità di influenzare gli eventi e nelle
situazioni di difficoltà favorisce atteggiamenti di rinuncia e sfiducia: “Se è solo
questione di fortuna, che senso ha darmi da fare?”
b) Il costrutto di auto-efficacia personale è strettamente collegato al precedente e
descrive la percezione soggettiva di fiducia nelle proprie capacità nel fronteggiare le
situazioni di difficoltà che si incontrano.
c) E’ stata introdotta recentemente una dimensione di personalità definita hardiness,
tradotto in italiano con “capacità di resistenza” o “ardimento”, in grado di influire
nella risposta dell’individuo agli eventi. Questo costrutto è costituito da tre coppie di
dimensioni bipolari:
- Impegno-Alienazione: la capacità dell’individuo di impegnarsi pienamente nelle
varie dimensioni della vita, individuando degli obiettivi e delle priorità.
- Controllo-Impotenza: riflette la sensazione di avere il controllo degli eventi nella
propria vita. Le persone con un alto controllo percepiscono gli eventi come
conseguenze delle proprie decisioni ed azioni, e sono fiduciosi di possedere le
risorse per fronteggiarli al meglio.
170
- Sfida-Minaccia: è quella predisposizione soggettiva a ricercare attivamente
esperienze nuove e stimolanti e ad interpretare i cambiamenti come opportunità
e non percepirli come una minaccia al proprio benessere. Queste dimensioni
vanno lette in chiave dinamica, poiché sono suscettibili di oscillazioni e variabilità
da un polo all’altro di ogni dicotomia.
Gli individui con un alto valore di hardiness, sono descritti come attivamente e
piacevolmente impegnati in vari campi della vita. Sentono di poter contribuire agli
avvenimenti in maniera rilevante e percepiscono i cambiamenti come stimolanti,
anche se faticosi. Questa modalità di affrontare gli eventi viene definita coping
trasformativo.
Gli individui con un basso valore di hardiness, sono riluttanti ad impegnarsi, sia sul
piano affettivo, sia sul lavoro. Credono di avere uno scarso controllo sugli eventi
della propria vita e questo li conduce in un circolo vizioso, a non impegnarsi nella
ricerca di soluzioni. Questi individui hanno un atteggiamento definito coping
regressivo.
d) La resilienza o forza d'animo è un tratto della personalità complesso in cui
convergono diversi fattori o attitudini: di temperamento, familiari, sociali, culturali,
educativi, spirituali. La resilienza è la capacità di superare e uscire rinforzati dalle
difficoltà ordinarie della vita. È legato all'istinto di sopravvivenza, ma si sviluppa nel
corso della vita assumendo modalità diverse secondo le circostanze, dei singoli
individui, dei modelli di riferimento e degli apprendimenti. Nella resilienza è
possibile individuare tre dimensioni:
- Dimensione biologica, che sottolinea il ruolo del patrimonio genetico: alcuni
hanno energie e risorse maggiori di altri;
- Dimensione psicologica, che evidenzia l'importanza delle relazioni che si formano
nell'infanzia e che consentono ad ognuno di strutturarsi come persona capace di
reagire per far fronte alle avversità (attaccamento, comunicazione, competenze,
modelli di riferimento);
- Dimensione sociologica, che mette in evidenza l'influenza del gruppo, della
cultura, degli apprendimenti, delle tradizioni familiari, della spiritualità, dell'etica
sulla capacità dell'essere umano di attraversare le crisi dell'esistenza vivendo una
vita piena, nonostante le difficoltà e le sofferenze.
171
Il concetto di vulnerabilità mette in evidenza che, oltre alla povertà connessa
all’esclusione sociale, ne esiste una che colpisce anche altre categorie di individui che
non sono condizionate da forme di disagio o difficoltà di integrazione grave. Riguarda
persone che devono la loro fragilità al fatto di aver organizzato la loro vita secondo
modalità che una volta erano considerate le più robuste. Il mercato del lavoro
dominato dalla grande impresa aveva permesso alti livelli di occupazione a tempo
indeterminato. Questo aveva favorito lo sviluppo di un modello di famiglia definito male
bread-winner, basato sulla divisione dei ruoli secondo il genere: l'uomo provvedeva con
il suo reddito al fabbisogno di tutti i componenti della famiglia, mentre alla donna
spettavano le attività di cura. I cambiamenti nel mercato del lavoro e l’introduzione di
nuove tipologie contrattuali precarie, connesse alle nuove forme di organizzazione della
famiglia e della vita quotidiana, hanno creato nuove forme di vulnerabilità, basate non
più esclusivamente sulle situazioni di esclusione sociale. La famiglia monoreddito, per
esempio, è esposta a maggiori vulnerabilità rispetto al passato. “La causa dell’entrata e
uscita dalla povertà non è esclusivamente legata al fattore economico e ai meccanismi
del mercato ma al modo con cui ad esempio il mercato si incrocia con le modalità di
organizzazione della riproduzione sociale, cioè le modalità di organizzazione della
famiglia e di organizzazione della vita quotidiana”78.
Molti analisti hanno individuato nel cambiamento della natura dei rischi sociali il nucleo
del processo che genera la vulnerabilità. Nella società industriale fordista i rischi
potevano essere considerati degli eventi eccezionali, che irrompendo nella vita
potevano produrre situazioni di forte disagio tali, da sconvolgere una vita altrimenti
stabile. Oggi i rischi tradizionali, sono stati sostituiti da uno stato di insicurezza che
diventa un elemento costitutivo della vita odierna. “Questa credo, che sia l’immagine di
fondo che si vuole trasmettere con l’idea di vulnerabilità: la cronicizzazione, la
quotidianizzazione, la familiarizzazione dell’incertezza” (Negri, 2006).
78
Intervista al Prof. Negri N.
172
11.
Valutazioni e spunti per ulteriori approfondimenti
In questa parte del volume si è cercato, partendo dall’analisi sul campo (le interviste) e
ponendola a confronto con la letteratura esistente, di identificare un perimetro
all’interno del quale muoversi per giungere a una definizione del fenomeno della
povertà e in specifico delle nuove povertà. Successivamente si è indagato l’aspetto
multidimensionale del fenomeno ponendo l’accento su alcuni temi che vengono qui
sinteticamente ripresi al fine di aprire a ulteriori approfondimenti di ricerca e di
suggerire possibili indicazioni di policy.
11.1 La società dei servizi
Attualmente molte speranze vengono dalla c.d. società dei servizi che rappresenta un
importante volano di occupazione e che può anche facilitare il decollo dell’economia
delle famiglie.
Ma molti di questi servizi, soprattutto quelli maggiormente richiesti, sono servizi di tipo
relazionale; essi richiedono la compresenza del fornitore e del consumatore, hanno
scarse possibilità di standardizzazione, scarsa capacità di “stoccaggio”, e quindi sono
sostanzialmente servizi a bassa produttività e perciò a bassa retribuzione. Da queste
caratteristiche discende che essi sono poco appetibili per operatori privati che agiscono
in una mera logica di mercato.
La generazione di offerta di servizi di questo tipo
implica quindi un modello di regolazione del mercato capace di incentivarne
l’erogazione da parte dei diversi soggetti. Senza un siffatto intervento
il mercato,
lasciato a se stesso, rischia di sviluppare una società dei servizi fortemente polarizzata
relativamente al reddito.
Si tratta non tanto di una società caratterizzata da una stratificazione sociale
“panciuta”, cioè con gli strati intermedi grandi e gli estremi piccoli, ma di una società “a
clessidra” nella quale nel triangolo alto si collocheranno i ceti sociali ricchi, con famiglie
a doppia carriera, in cui si intrecciano l’elevato reddito e l’auto-realizzazione nelle
173
carriere professionali.
Queste famiglie “compreranno” i servizi dagli strati che stanno nel triangolo basso della
clessidra, “i perdenti che si arrabattano”, mettendo insieme due o più bassi salari
instabili e che non potranno mai fruire dei servizi che producono.
Da un lato i servizi saranno usati come volano di un pezzettino di società, e dall’altro
verranno prodotti attraverso lavori poco remunerativi.
Il rischio connesso all’affermazione di questo modello è quello di una forte
polarizzazione sociale; in esso il vertice basso della clessidra può diventare non già
luogo di trasmissione e di recupero di diffuse situazioni di benessere e di robustezza
economica, ma di riproduzione della precarietà e della vulnerabilità.
11.2 L’esclusione sociale e l’inserimento lavorativo
La società moderna ha subito processi di omologazione culturale, di costume e di
condizioni di vita che hanno determinato conseguenze quali la rottura delle reti familiari
e relazionali, la caduta delle aspettative, la perdita di valori simbolici ed esistenziali,
l’estraniazione dal contesto sociale, il logoramento, la frattura dei legami affettivi e
altre patologie esistenziali.
Questi risultati, a loro volta, producono una condizione di “esclusione sociale” che si
evidenzia nell’impossibilità di partecipare pienamente ai diritti sociali e che evidenzia, in
modo approfondito e completo, i processi e le condizioni che caratterizzano la
disuguaglianza, l’emarginazione e la povertà.
Dal momento che lo strumento primario per combattere la disuguaglianza consiste
nella garanzia che tutti possano godere di uguali opportunità, non si può ignorare che
le prospettive culturali e professionali e le future condizioni di vita sono in gran parte
“predeterminate” da questa condizione.
Valutare il problema delle disuguaglianze significa allora considerare i beni ed i servizi
che concorrono a formare le condizioni di vita delle persone, per cui la stratificazione
sociale viene definita attraverso la disuguaglianza delle condizioni di vita e non
attraverso una individuazione di classi.
In particolare, l’intreccio di tre risorse fondamentali, l’istruzione, il lavoro e la
174
condizione economica, concorre a determinare le condizioni di vita delle persone e la
loro collocazione nella scala sociale.
In molti casi la condizione di esclusione non è determinata da un unico fattore
scatenante ma da un “sistema accumulato” di impossibilità e incapacità che colpiscono
il singolo individuo.
Per definire le categorie dei soggetti esclusi è necessario rilevare le situazioni che
portano alla “deprivazione di risorse”, condizione non riferibile immediatamente a
gruppi di soggetti ma trasversale ad insiemi di persone; questa circostanza si richiama
all’insufficienza delle risorse educative e formative, della salute, culturali, del capitale
sociale, fattori che si traducono frequentemente nella difficoltà di ottenere una
posizione lavorativa stabile e continuativa.
Cionondimeno
le
dimensioni
dell’esclusione
sociale
continuano
ad
avere
un
collegamento forte con l’appartenenza del soggetto a precise categorie quali ad
esempio:
- i soggetti in prossimità o al di sotto della soglia di povertà;
- i disabili fisici, psichici, mentali e sensoriali;
- gli immigrati;
- gli individui ex detenuti;
- i soggetti colpiti da sindromi di dipendenza (droghe, alcool, gioco d’azzardo, ecc.);
- le persone sieropositive;
- le persone che intendono uscire dalla prostituzione;
- le comunità zingare e altre minoranze etniche.
L’incapacità da parte del mercato di garantire la quasi piena occupazione, e quindi di
difendere gli individui dal rischio di disoccupazione, deve essere affrontata analizzando
la natura della disoccupazione; in particolare occorre distinguere gli aspetti fisiologici
legati a normali cambiamenti della posizione lavorativa e a brevi periodi di instabilità,
da quelli patologici che si manifestano come fenomeni di “lunga durata”, in cui la
disoccupazione supera i dodici mesi o in cui tende a “cronicizzarsi” come nel caso di
coloro che hanno un età superiore ai cinquant’anni.
175
Inoltre, il cambiamento della natura della prestazione lavorativa ha messo in crisi il
mercato del lavoro; infatti la crescita del lavoro a bassa produttività, quello cioè che
nella norma non è remunerato con un salario di entità paragonabile ad un reddito
familiare, e le esigenze di flessibilità, hanno incrementato contratti di lavoro e posizioni
lavorative più instabili. Tale instabilità diventa fattore critico per le persone più povere
e per le famiglie monoreddito che hanno un elevato bisogno di continuità di reddito,
non essendo in grado di ammortizzare i periodi di disoccupazione.
D’altra parte i contratti atipici, in situazioni in cui l’offerta di lavoro non è abbondante,
in cui vi sono difficoltà di incontro tra domanda e offerta, o dove il mercato di lavoro è
segmentato, richiedono invece lavoratori che siano in grado, una volta che sia concluso
il contratto, di “attendere l’occasione buona” e di non avere necessità di riprendere
subito il lavoro. La necessità e la pressione contingente, costringono invece gli individui
più esposti ad accettare un qualsiasi lavoro con il rischio di “corrompere una carriera”
che si trasforma in una “carriera disordinata” nella quale la successione dei segmenti
dei lavori che si accettano segue soltanto la logica del restare il più possibile aderenti
ad una qualche forma di occupazione retribuita, indipendentemente da ogni logica di
sviluppo professionale e di coerenza con le competenze accumulate.
Possiamo osservare come, nel momento attuale, le situazioni di incertezza e di
insicurezza della quotidianità si estendano dal basso verso l’alto ed investano settori del
ceto medio. L’incertezza riguarda anche coloro cha hanno un lavoro dipendente,
soprattutto se caratterizzato da scarsa qualificazione. Inoltre, anche in un modello di
famiglia nella quale lavorino entrambi i membri della coppia, possono determinarsi
rigidità che sono connesse in parte a fattori culturali che ostacolano la modificazione
dei comportamenti, in parte alla trasformazione della struttura socio-demografica della
popolazione ed in parte ad assetti di welfare caratterizzati da scarso sostegno al care
familiare. In proposito bisogna tenere presente che, inserite in modelli demografici
caratterizzati da elevato invecchiamento e bassa fecondità, ed in presenza di scarsi
servizi, le famiglie oggi sono gravate da un forte carico di compiti connessi non
soltanto alla cura dei figli, ma anche a quella degli anziani. Inoltre, a causa della
presenza di pochi figli, le famiglie tendono a diventare “lunghe e ristrette”; i “compiti”
familiari tendono a gravitare sempre più in modo lineare su un solo figlio, e, ancor più
spesso, su una sola figlia-madre, con scarse possibilità di redistribuzione.
In una situazione come questa i costi di sostituzione del lavoro domestico con un
176
lavoro collocato nel “mercato” sono alti: quindi esiste la possibilità per molte famiglie di
restare intrappolate in una situazione nella quale sarebbe importante aggiungere un
nuovo reddito da lavoro a quello più o meno stabile del capo-famiglia, per fronteggiare
situazioni di incertezza del mercato del lavoro, rischi di disoccupazione, ecc., ma in cui i
costi di questa sostituzione appaiono insostenibili.
11.3 La vulnerabilità
Come si è cercato di argomentare, anche in altri capitoli di questa parte del volume,
prima di parlare di povertà è fondamentale analizzare il concetto di vulnerabilità e le
interconnessioni di quest’ultimo con i temi dell’esclusione sociale e dell’inserimento
lavorativo; questo non solo per il fitto intreccio di causalità, ma anche perché le
situazioni che evidenziano una vulnerabilità sociale ed economica sono proprio quelle
più utili da monitorare al fine di individuare le “nuove povertà” che, per definizione,
non sono ancora monitorate dal sistema dei servizi e, di conseguenza, neanche
analizzate.
In effetti spesso la vulnerabilità diventa visibile proprio quando ormai si sta
trasformando in povertà o disagio sociale conclamato. La vulnerabilità si configura
come una “condizione di rischio riconducibile a una carenza di risorse in una o più
dimensioni fondamentali dell’esistenza sociale di un individuo o di una famiglia”.
Il termine vulnerabilità è usato frequentemente in relazione alla povertà, per segnalare
situazioni di pre–povertà o a rischio di povertà. Vi è un numero crescente di persone e
di famiglie che non sono ancora in povertà solo perché sostenute da particolari aiuti
forniti dai servizi sociali pubblici o privati, ma che vivono in situazione di fragilità e di
provvisorietà, in parte per ragioni economiche, in parte a causa di fattori di debolezza
personale che le rende incapaci di affrontare emergenze legate all’organizzazione
sociale.
L’aspetto più evidente di “vulnerabilità sociale”, soprattutto per quanto attiene
all’instabilità del mercato del lavoro, tocca due categorie di soggetti.
La prima sono i giovani che incontrano serie difficoltà a programmare la propria vita, a
progettare una propria famiglia, per cui sono costretti a prolungare oltre limiti
ragionevoli la permanenza nella casa paterna. Non si deve dimenticare peraltro
177
l’attuale indebolimento del tessuto familiare e la riduzione delle reti familiari e
parentali. Di fatto, la famiglia oggi riesce sempre meno a svolgere la funzione di cura,
di protezione e di ricupero delle persone nei momenti di crisi.
La seconda categoria di soggetti
fa riferimento ai quarantenni
e ai cinquantenni
espulsi dal ciclo lavorativo – per i quali la situazione si fa spesso addirittura
drammatica, per la quasi impossibilità a trovare un'occupazione alternativa. Al di là del
comprensibile disagio psicologico, che può essere considerato vera patologia, molte
persone e molte famiglie sono costrette a modificare abitudini e stili di vita
abbandonando lo status sociale che le aveva fino a quel momento identificate.
Molte analisi affermano che la vulnerabilità sociale sia radicata in maniera strutturale e
profonda in ambiti specifici
quali la cronicizzazione, la quotidianizzazione la
familiarizzazione e l’incertezza.
Alcune situazioni di vulnerabilità sociale sono invece legate ad altri fenomeni,
tendenzialmente costanti, come la presenza un unico genitore, l’impoverimento delle
relazioni, la bassa scolarizzazione, le esperienze lavorative frammentarie e precarie, la
diversa appartenenza etnica.
I principali processi scatenanti i fenomeni di vulnerabilità possono essere attribuiti:
a) a un’insufficiente costruzione e percezione del sé in molti giovani che li rende
insufficientemente provvisti di abilità sociali,
b) alla progressiva fragilità dei riferimenti familiari, sui quali pesano i fenomeni di
instabilità coniugale e di riduzione delle reti parentali,
c) alla instabilità delle condizioni di lavoro che spesso si prolunga nel tempo,
d) al ritrarsi dei sistemi pubblici di protezione sociale, determinato dalla crisi fiscale
dello stato e anche dall’emergere di nuovi rischi per i quali i tradizionali sistemi di
copertura si rivelano inadeguati.
Il fenomeno della vulnerabilità sociale degli adulti è inoltre legato agli effetti di quei
cambiamenti sociali ed economici che hanno eroso gli assetti tradizionali dello stato
sociale a base industriale in Italia.
L’idea che deriva da questa prospettiva è che nelle società che emergono dalle crisi
delle economie industriali, cresca un’area di popolazione che risulta essere in situazioni
di vulnerabilità contraddistinta da incertezza e dalla sensazione di perdita di controllo,
178
anche se non è presente un disagio conclamato. Nello specifico i rischi sociali possono
essere configurati come eventi che colpiscono incidentalmente la vita delle persone
“normali”, trascinandole in situazioni “anormali” dalle quali “o si guarisce in fretta o si
perisce”. I rischi sociali sono quindi intesi come pericoli che irrompono dall’esterno
improvvisamente e generano situazioni di forte disagio che devono essere corrette per
non dare luogo ad esiti catastrofici.
Il pericolo non è più quello di essere estromessi dalla vita familiare e normale da eventi
esterni; l’effetto non è solo più lo “spiazzamento” ma è piuttosto la “mutazione della
vita quotidiana” che è diventata “normalmente insicura”. L’insicurezza diventa un
elemento familiare per cui affrontare la vita “normale” significa esporsi a dei rischi. La
quotidianità del rischio si sposta dagli estremi della stratificazione sociale per diventare
progressivamente un fenomeno che riguarda anche gli strati intermedi.
Da questo punto di vista la vulnerabilità si differenzia profondamente dall’esclusione
sociale per cui le due problematiche vanno affrontate in modo complementare.
Chi affronta il problema dell’esclusione sociale mira a far entrare le persone in una
condizione di vita sociale sicura, mentre chi combatte la vulnerabilità deve evitare che,
nel tentativo di garantirsi la sussistenza, le persone non entrino in un circolo vizioso
che le faccia uscire dal sistema sociale, sistema in cui è estremamente difficile
rientrare.
Quindi se il problema dell’esclusione riguarda la protezione dal bisogno, la vulnerabilità
riguarda anche la questione della protezione dell’eguaglianza, quindi del potenziamento
della libertà personale che dipende dall’avere a disposizione un effettiva possibilità di
scelta.
La causa della diffusione dei rischi e quindi della vulnerabilità può essere
sinteticamente ricondotta alla crisi simultanea di tre grandi istituzioni e cioè il mercato
del lavoro, la famiglia basata sulla divisione tradizionale dei ruoli secondo il genere ed il
welfare fondato sulle grandi assicurazioni sociali.
11.4 La povertà
Lo studio della povertà impone un’operazione prioritaria di chiarimento e definizione
delle diverse concettualizzazioni afferenti a questa categoria, per poi pervenire,
179
attraverso le diverse definizioni, al concetto di “nuova povertà”, indicandone le
componenti.
Secondo una definizione assoluta la povertà è “uno stato di privazione che impedisce di
acquistare un paniere di beni e servizi essenziali, appena sufficienti a conseguire uno
standard socialmente accettabile”.
Secondo una definizione relativa, si ha invece povertà quando le risorse a disposizione
di una famiglia “sono così severamente al di sotto di quelle di cui dispone l’individuo o
la famiglia media, che essi sono effettivamente esclusi dai modi di vita usuali”.
La “povertà soggettiva” è invece una situazione di vita definita dalle percezioni
individuali relativamente ad uno stato di disagio; in particolare, la “soglia di povertà
soggettiva” esprime il grado di insoddisfazione nei confronti del reddito ed è indicata
dal livello di reddito familiare “ritenuto necessario” per vivere dignitosamente.
Le principali variabili che definiscono la povertà soggettiva sono: le abitudini di spesa, il
bisogno di uniformarsi allo standard e all’opinione corrente dell’ambiente sociale in cui
si è inseriti, i desideri e le effettive necessità.
Attraverso l’approccio soggettivo è possibile indicare come “povero” colui il cui “reddito
familiare dichiarato risulta inferiore al reddito familiare desiderato”; in particolare la
povertà soggettiva aumenta al diminuire del reddito familiare ed all’aumentare del
numero di componenti la famiglia. L’incremento della povertà soggettiva è definito dal
bilancio tra la crescita del reddito considerato necessario e sufficiente a condurre una
vita dignitosa, senza lussi ma senza privarsi del necessario, e la riduzione del reddito
disponibile dichiarato. Un indicatore di povertà soggettiva esprime il grado di
soddisfazione di ogni individuo riguardo alla propria posizione reddituale; tale livello, o
linea di povertà fissa, definisce le famiglie con scarse risorse mentre la soglia di
povertà assoluta identifica i nuclei in condizioni di vera indigenza. I soggetti che, nella
situazione attuale, lamentano una maggiore povertà soggettiva sono: operai,
disoccupati, casalinghe, lavoratori part-time, individui con un basso grado di istruzione,
nuclei rappresentati da un unico componente.
La “povertà” è ora definibile come una criticità nella quale convergono differenti
condizioni
di
disagio
quali:
la
situazione
economico-professionale
delle
persone/famiglie, quella esistenziale degli individui dal punto di vista bio-psichico e
quella causata dalle reti primarie di socialità. Questi elementi possono essere
180
reciprocamene in relazione per cui gli individui e le famiglie “più povere” per reddito
sono sovente anche gli individui/famiglie più “soli”, “meno in salute” e, “maggiormente
deprivati dei mondi di vita e delle dotazioni spirituali”.
Nello specifico le principali componenti della condizione di disagio economico e
professionale delle persone/famiglie sono: la collocazione reddituale, lo stato
occupazionale, la precarietà lavorativa,, i fattori di “chiusura” socio-professionale, i
consumi.
La situazione esistenziale degli individui dal punto di vista biologico e psichico è invece
definita: dallo stato di salute, dal livello di stress, dalla sfiducia psicologica, dalla
criticità dei carichi familiari.
Infine la situazione esistenziale degli individui, indotta dalle reti di socialità, riguarda:le
reti parentali ed amicali, le risorse informali di aiuto, l’esclusione sociale.
Le classificazioni indicano che i poveri sono coloro che mostrano un disagio
complessivo (misurato attraverso indicatori che in vari modi ponderano le singole
misure dei fenomeni elencati sopra), inferiore a quella che viene definita come la “linea
standard minima di benessere”.
Gli studiosi concordano inoltre sul fatto che sia necessario per essere definiti poveri che
la persona si collochi in zona critica su più di una scala di disagio.
Al di sopra della categoria dei poveri si colloca una vasta area di individui che sono in
“situazioni di disagio prossime alla soglia di povertà”, con almeno un’area di criticità,
relativa alla salute, al reddito o alla relazionalità, e che, in presenza di un aggravarsi
della situazione economico-sociale, potrebbero trasformarsi in poveri a tutti gli effetti.
Queste persone sono “a rischio di povertà”, si collocano in “un’area di scivolamento” e
procedono a fatica per tenere posizioni accettabili “intermedie” nella lotta per la vita.
Alcune caratteristiche della famiglia e delle persone influiscono sulla percezione della
povertà; in particolare presentano una maggiore percezione di povertà i nuclei
rappresentati da un unico componente, soprattutto anziani soli, mentre sono induttori
di povertà soggettiva la dimensione e la tipologia della famiglia, la fruizione di benefici
non monetari, il livello di istruzione, lo stato lavorativo.
Altre variabili che definiscono il fenomeno in esame sono l’esclusione dall’attività
lavorativa e la precarietà del lavoro (lavori saltuari, occasionali o senza contratto),
181
mentre il livello di variabilità é dipendente dall’età e dalla presenza di figli minori.
Infine la povertà soggettiva si differenzia dalla povertà relativa e assoluta in quanto è
definita da aspetti quali l’inflazione percepita da ogni individuo e le valutazioni circa una
vita dignitosa.
11.5 La “nuova povertà”
Si è detto precedentemente che la vulnerabilità è una condizione di rischio riconducibile
alla carenza di risorse riguardanti una o più dimensioni fondamentali dell’esistenza
sociale di soggetti o famiglie. Questi in tale situazione mantengono un tenore di vita
basso o non hanno risorse ulteriori cui attingere nel caso di eventi di vita sfavorevoli.
La situazione di vulnerabilità diviene visibile ed è conclamata quando ormai è prossima
a trasformarsi in un vero e proprio stato di povertà o di disagio sociale conclamato. In
queste aree sociali marginali, situate ai confini fra povertà e disagio, nascono le
situazioni di nuove povertà.
E’ bene infatti precisare che queste tipologie di poveri non sono nuovi tanto per le
forme che il loro disagio assume quanto per le cause che portano alla situazione e che
sono strettamente collegate all’attuale momento di evoluzione del sistema. L’analisi
delle nuove povertà avrà dunque il compito di identificare i gruppi sociali e le categorie
di persone che sono diventate a forte rischio di povertà.
Le ricerche effettuate in tempi diversi ed in diverse situazioni italiane offrono una
“varia” casistica di povertà non riferite a categorie tradizionali e quindi definibili come
“nuove”. In particolare, la nuova povertà affligge in larga misura persone anziane, over
64, e più frequentemente donne che, a causa della più alta longevità, sono assai più
numerose nella popolazione anziana e specie in quella meno abbiente. Inoltre le donne
“nuove povere” si trovano più precocemente da sole e senza reti di supporto, non di
rado con dei figli a carico. Infine, in conseguenza della consuetudine della
partecipazione al lavoro con ruoli inferiori rispetto a quelli occupati dagli uomini, anche
nel caso di donne sole che percepiscano una pensione, le donne sono assai più
numerose fra gli stessi pensionati di bassa estrazione sociale e con pensioni ridotte. I
cosiddetti “anziani poveri e soli” sono perciò più frequentemente rappresentati da
donne, in quanto superstiti di famiglie e quindi con diritto a percepire solo una quota
182
della pensione complessiva spesso già ridotta in origine.
Per quanto prevalente, la figura degli anziani, soli o in coppia, aggravata dalla
frequente salute precaria, non è tuttavia esclusiva della “nuova povertà”; infatti una
buona percentuale di “nuovi poveri” è costituita da persone in età giovane o
prevalentemente matura, fra i 35 ed i 45 anni.
Ai nuovi poveri appartengono persino “persone in condizione attiva”, in specie operai
ed impiegati, non necessariamente con bassi titoli di studio. Una figura emergente del
disagio sociale contemporaneo è quella del “lavoratore povero”, categoria alla quale
possono appartenere gli individui con occupazione precaria e a basso reddito, le
famiglie monoreddito e/o con figli a carico, le famiglie con un solo genitore, più spesso
con capofamiglia donna, le famiglie oberate in modo insostenibile da mutui, affitti,
prezzi e tariffe.
Al lavoratore “nuovo povero” corrisponde un’area ancor più numerosa di lavoratori
“quasi
poveri”,
nell’area di
“scivolamento
sociale”;
anche a
questo
ambito
appartengono persone in età giovane e matura, in condizione attiva, quasi sempre
impiegati ed operai. I lavoratori “nuovi poveri” possono perciò essere visti come
l’oggettivazione di un più vasto processo di sgretolamento della classe media.
Nella convinzione che attualmente i “nuovi profili di rischio” sono più frammentati
rispetto al passato, si può tentare di identificare dei raggruppamenti basandosi sulle tre
dimensioni del disagio viste sopra, ferma restando la forte convergenza delle analisi
empiriche che indicano una compresenza di fattori nella maggior parte dei casi studiati.
L’elenco riportato vuole essere più esemplificativo che non esaustivo o classificatorio.
a) Disagio legato a motivi economico/professionali:
- coloro che faticano ad “arrivare alla fine del mese”, che vedono diminuire la propria
capacità di risparmio, che sono indebitati e non riescono a far fronte a quelle spese
impreviste che spesso incidono profondamente sui bilanci familiari;
- coloro che vedono messa a repentaglio una situazione di equilibrio, di vita
“normale”, a causa di eventi imprevisti e improvvisi, come la perdita del lavoro, una
malattia improvvisa, la separazione dal coniuge, la nascita di un figlio, ecc.,
condizioni che possono anche intrecciarsi e combinarsi tra loro e apparire difficili da
fronteggiare da un punto di vista economico;
183
- coloro che hanno acquisito capacità-abilità, o un “capitale culturale”, intesi non solo
come livello di istruzione ma anche come insieme di “beni simbolici” trasmessi dalle
agenzie educative, in primis la famiglia, ma non sono più capaci di disporre ed
utilizzare le risorse acquisite, compreso l’accesso alle informazioni, la partecipazione
associativa, politica, ecc.;
- i working poor, che per le condizioni di precarietà dell’impiego e per la scarsa
remunerazione attribuita a certe competenze dal mercato, non riescono a coprire i
costi legati alla sopravvivenza nelle metropoli;
- i disoccupati di lunga durata;
- le famiglie numerose, specie se monoreddito.
b) Disagio legato alla situazione psichica e fisica dell’individuo:
- l’anziano solo e malato;
- le famiglie con a carico anziani non autosufficienti;
- le donne sole, vedove, separate;
- i soggetti che abbiano subito violenze fisiche e psichiche;
- i giovani con insufficiente sviluppo delle abilità sociali;
- la “povertà educativa e culturale” causata dall’insufficienza di risorse e/o di
opportunità relative alla formazione e all’informazione;
- la “povertà della “doppia diagnosi”, cioè poveri con altre tipologie di problemi,
(tossicodipendenti, malati di aids, malati mentali, giocatori d’azzardo).
c) Disagio legato alle criticità delle reti di socialità
- coloro che non sono più in grado di fare affidamento sulle reti sociali nelle quali
sono inseriti, sia parentali che amicali;
- le famiglie non più “tradizionali” che si trovano sempre più sovraccaricate di funzioni
economiche e sociali, “sotto stress”, con un aumento dei compiti di cura per minori,
anziani non autosufficienti, disabili, che ricadono ancora soprattutto sulle donne e
che risultano spesso difficili da gestire in presenza di deboli reti sociali;
- le nuove forme di vita familiare, come le famiglie unipersonali e monogenitore;
- le famiglie in cui il capofamiglia è donna e che, non disponendo di un partner,
184
hanno minore probabilità di poter contare su redditi aggiuntivi e di sfruttare
economie di scala nella gestione delle spese fisse quali l’affitto, il pagamento delle
utenze;
- la “povertà da isolamento”, legata alla solitudine ed alla marginalità sociale, come
nel caso dei disabili psichici o motori, o delle persone disoccupate non più giovani;
- gli immigrati, per i quali ai deficit di dotazione personale (istruzione, conoscenza
della lingua, qualifica inadeguata) si aggiungono i problemi istituzionali (difficoltà
burocratica per ottenere i documenti, l’assistenza sanitaria, il ricongiungimento
familiare) e sociali di inclusione sociale.
11.6 Il ruolo delle politiche sociali e gli strumenti di supporto
Le politiche sociali oggi devono affrontare una continua tensione fra bisogni, attese
sociali e risposte.
In particolare i bisogni e le attese sociali sono in continua espansione per il prolungarsi
della vita media, per la crisi della famiglia e per la riduzione della sua capacità di
autogestione, per le vecchie e le nuove povertà, per il diffuso disagio giovanile e per le
nuove esigenze connesse all’immigrazione. L’espansione non è solo quantitativa, ma
anche qualitativa per il crescere della sensibilità sociale e lo sviluppo delle competenze
tecniche e professionali. La capacità di risposta è per converso ancora legata in modo
rilevante alla disponibilità di risorse pubbliche che appaiono sempre più limitate.
Un'altra fonte di difficoltà nella risposta è la segmentazione delle politiche socioassistenziali. Infatti, mentre il rischio di esclusione sociale fa riferimento ad una
pluralità di bisogni, le politiche pubbliche sono tradizionalmente frammentate, poiché
fanno capo ad una pluralità di soggetti e sono strutturate in settori di intervento
separati, politiche sociali, sanitarie, educative e formative, dell’istruzione, del lavoro,
territoriali, industriali. Inoltre queste politiche sono spesso condizionate da logiche di
emergenza e pertanto assumono natura assistenziale senza riuscire ad attivare
soluzioni preventive e permanenti ai problemi.
Occorre quindi ideare un percorso che si sviluppi lungo un continuum di azioni con
l’obiettivo di porre in essere interventi connotati da coerenza strategica, trasparenza
dei processi di realizzazione, e soprattutto efficacia realizzativa. In uno scenario di
185
questo tipo, e tenuto conto delle diverse tipologie di esclusione e vulnerabilità sociale,
di povertà e di nuova povertà, un campo di intervento prioritario pare essere quello
legato al mondo del lavoro con iniziative finalizzate alla costruzione del “lavoro che
serve” e non di semplici aree di parcheggio generazionale; in tal senso è opportuno
riqualificare i servizi per poter svolgere, accanto alle prestazioni sociali, sanitarie,
educative, riabilitative e di recupero anche attività di orientamento, formazione e
integrazione delle fasce deboli nel mondo del lavoro; creare spazi di lavoro e
professionalità nuove, sia dentro ai servizi esistenti, sia per servizi ulteriori,
intraprendere iniziative qualificabili come “imprese sociali”, finalizzate alla costruzione
di posti di lavoro per soggetti appartenenti alle fasce indebolite della popolazione.79
Per mettere in atto politiche siffatte è necessario poter contare su informazioni
sistematiche riferite agli universi di riferimento o a insiemi-campioni di individui e
famiglie. La raccolta di tali informazioni è assai complessa, non solo per la difficoltà a
stabilire confini netti, soprattutto per quanto attiene al tema delle nuove povertà, ma
anche perché a queste condizioni si associa una forte impronta sociale che induce le
persone a occultare il proprio reale stato producendo il fenomeno delle “povertà
nascoste perché rispettabili”.
Da questo punto di vista ogni ulteriore ricerca dovrà essere improntata a rendere
organiche le informazioni raccolte a vario titolo dai servizi pubblici e dalle associazioni
che si occupano di soggetti deboli; queste Istituzioni offrono il vantaggio di rimanere
presenti nel corso del tempo, di operare verifiche successive delle situazioni e di essere
gli utilizzatori privilegiati dei risultati della ricerca.
Questo ultimo aspetto è molto importante in quanto lo studio di questi fenomeni non
deve limitarsi a una serie di indagini una tantum, ma fornire l’impianto per il possibile
avvio di una attività di osservazione sistematica in materia di povertà, emarginazione e
vulnerabilità sociale80.
79
Oggetto di analisi di questo tematica sarà l’intera parte terza del volume che cercherà, attraverso una
survey ragionata di buone prassi, di mostrare come un approccio botton up possa essere efficace ed
efficiente nel rispondere ai bisogni dei nuovi poveri e in generale a prevenire l’esclusione sociale.
80
Su questo tema si vedano le proposte di Agenzia Sociale e di Osservatorio contenute nella parte quarta
186
di questa volume.
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povertà e l'esclusione sociale 2003-2005”, scaricabile dal sito internet
http://www.solidarietasociale.gov.it/
b)
Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, “Libro Bianco sul Welfare 2003”
consultabile sul sito internet http://www.lavoro.gov.it/ e scaricabile dal sito
internet http://www.edscuola.it/
c)
Commissione di indagine sull'esclusione sociale “Le politiche nazionali contro la
povertà
in
Italia”,
2000,
scaricabile
dal
sito
internet
http://www.commissionepoverta-cies.it/
d)
Commissione di indagine sull'esclusione sociale, “Rapporto sulle politiche contro
la povertà e l’esclusione sociale”, Anni 2003 e 2004, scaricabili dal sito internet
http://www.commissionepoverta-cies.it/
e)
Eurispes,
“Rapporto
Italia
2006”,
scaricabile
dal
sito
internet
http://www.eurispes.it/
f)
Documenti CILAP (Collegamento Italiano Lotta alla Povertà), consultabili sul sito
internet http://www.romacivica.net/cilap/
Ricerche sulla normativa di riferimento e su dati relativi alla stima della povertà
effettuate
sui
siti
internet
http://www.gazzettaufficiale.it/;
http://www.governo.it/;
200
http://www.istat.it/; http://www.nonprofitonline.it/
Sitografia:
http://www.istat.it
http://www.provincia.genova.it/servlets/resources?contentId=24270&resourceName=Allegatopdf
201
PARTE TERZA
Le buone prassi: esperienze e modelli
per l’inclusione sociale
A cura di:
Dario Odifreddi
Contributi di: Nicola Boscoletto
Simone Cerlini
Davide De Santis
Rossana Fodri
Valeria Rossi
Antonella Vigliarolo
202
Le politiche sociali mostrano una rapida evoluzione in relazione a diverse dimensioni
(soggetti beneficiari, attori ed operatori del territorio, normativa di riferimento,
approcci in risposta alle sollecitazioni del territorio). Per riuscire a formulare
suggerimenti operativi utili a sostenere lo sforzo istituzionale in questo ambito appare
opportuno partire dall’osservazione di ciò che è già stato realizzato. In particolare si
vuole qui fare emergere il valore di alcuni modelli efficaci di intervento che hanno
caratterizzato le iniziative di inclusione sociale nel contesto di governance e di
opportunità attuale.
In questo capitolo vengono descritte alcune buone prassi a livello nazionale che
rispondono in vario modo ai bisogni emergenti dalle diverse forme di povertà. Come
ben descritto in altra parte del volume, soprattutto per quanto concerne le nuove
forma di povertà, appare assai difficile farne una classificazione che permetta di
identificare con chiarezza chi sono i nuovi poveri; esistono infatti una molteplicità di
fattori per cui a condizioni soggettive simili (esempio stesso reddito e tipologia di
lavoro) corrispondono rischi di esclusione sociale assai differenti a seconda del contesto
sociale, familiare e territoriale in cui le persone sono inserite. Pare dunque più efficace
identificare quali sono le aree di rischio su cui intervenire soprattutto con interventi
aventi carattere di prevenzione, capaci cioè di sostenere il percorso di coloro che si
trovano in un’area grigia, affinché si eviti lo scivolamento verso forme croniche di
esclusione sociale.
Un secondo principio che ispira queste pagine è quello della sussidiarietà orizzontale;
pare del tutto evidente dall’osservazione empirica delle diverse forme di risposta ai
bisogni di coloro che sono a rischio di emarginazione, che i soggetti più attrezzati per
rispondervi sono quelli che possono essere definiti come gli operatori del sociale nelle
diverse forma da essi assunte (volontariato, cooperazione sociale, impresa sociale,
etc). Se si condivide questo punto ne discende che anche l’azione fondamentale
dell’operatore pubblico si deve ispirare a questo principio sostenendo l’azione di chi già
opera con efficacia.
È questo il motivo per cui le buone prassi qui descritte possono divenire utile
suggerimento di policy per i decisori pubblici.
Inoltre le diverse esperienze qui riportate evidenziano che esistono almeno due modelli
di risposta che possono essere messi in campo.
203
Il primo è quello di operatori che prendono in carico un soggetto assumendosi la
responsabilità circa tutte le sue esigenze, che possono andare dal superamento di una
patologia, al sostegno alimentare e abitativo, all’accompagnamento all’inserimento
lavorativo; questi soggetti non necessariamente svolgono tutte le attività al proprio
interno, ma quando anche attivano altre reti essi restano il riferimento ultimo del
soggetto preso in carico. A questa tipologia di esperienze appartengono le descritte
buone prassi di San Patrignano sul tema delle tossicodipendenze, di Giotto sul carcere,
e della Piazza dei Mestieri per quanto attiene ai minori a rischio di esclusione sociale.
Il secondo modello è quello invece in cui vi sono una serie di operatori che rispondendo
ad esigenze diverse si mettono in relazione tra loro (le reti di reti) per facilitare al
singolo la fruizione di un offerta complessiva e il più possibile completa. In questo caso
il soggetto debole si relaziona con ciascun operatore della rete e non ha un punto
unico di riferimento. A questa tipologia si rifanno esperienze come quelle descritte di
alcuni progetti (Le radici e le Ali, Prisma, LI.FE ……).
Gli esempi toccano molti dei campi in cui si manifestano le risposte alle nuove povertà
soffermandosi anche su alcune tipologie associate a specifiche patologie (disabilità,
detenzione,etc) o stati del soggetto (immigrati di prima e seconda generazione,. etc);
infatti pur avendo sottolineato in altra parte del volume come la povertà o il rischi ad
essa connessi non necessariamente coincidono con una condizione o una patologia
specifica, non vi è dubbio che esse sono spesso causa e effetto del fenomeno.
Infine la trattazione di ogni buona prassi non si sofferma tanto sul narrare le singole
azioni messe in campo, ma cerca di indagare l’origine del fenomeno, le caratteristiche
peculiari delle azioni messe in campo e le possibile forme di intervento dei decisori
pubblici.
204
12.
I Minori a rischio di esclusione sociale – La Piazza dei
Mestieri
Tra le diverse forme di povertà particolare rilevanza assume quella connessa alla
povertà dei giovani; infatti spesso la condizione di povertà per essi tende a divenire un
macigno da cui è problematico liberarsi. Per queste persone è spesso difficile accedere
a livelli di istruzione e formazione adeguati in quanto le condizioni famigliari e personali
li portano da un lato a cercare di procurarsi un reddito (sia legalmente, sia
illegalmente) dall’altro il contesto in cui vivono associa sovente alla povertà economica
un elevato livello di povertà culturale che rappresenta una barriera all’entrata non
banale ai sistemi educativi.
Conseguentemente agli scarsi livelli di istruzione e formazione le possibilità lavorative si
riducono sia quantitativamente, sia qualitativamente, nel senso che anche quando
questi giovani riescono ad accedere al mercato del lavoro lo fanno spesso in posizioni
caratterizzate
da
elevata
precarietà
e
con
prospettive
di
percorsi
poco
professionalizzanti. Da questa situazione discende un elevato livello di marginalità di
queste persone che tende ad accentuarsi nel tempo.
L’Italia presenta una quota pari al 20% di giovani tra i 15 e i 24 anni senza un diploma,
rispetto ad una media dei paesi OCSE del 14,2%. Ciò significa che una quota
considerevole di giovani si pone a rischio di forte disoccupazione. Inoltre, con il
progredire dell’innovazione e della conseguente necessità di conoscenze adeguate,
senza un’efficace attività formativa, i giovani che abbandonano il sistema formativo si
andranno a collocare con elevata probabilità nei segmenti del mercato del lavoro più
bassi, con tassi di precariato più elevati e potenzialmente in competizione con forza
lavoro immigrata.
L’influenza del contesto socio-economico sulle opportunità scolastiche dei giovani è
confermata anche dalla quinta indagine IARD sulla condizione giovanile in Italia, la
quale evidenzia anche una differenziazione geografica. Dall’indagine effettuata nel
2000, risulta che la quota di giovani con basso livello di scolarizzazione, ossia che non
205
sono andati oltre il conseguimento della licenza di scuola media inferiore, aumenta
mano a mano che ci si sposta verso Sud: 14,2% nel Nord Ovest; 18,0% nel Nord Est;
18,7% nel Centro; 23,1% nel Sud, ed infine 24,6% nelle Isole.
Si può dunque affermare che il problema dell’abbandono scolastico aggrava i problemi
occupazionali: esiste infatti una forte correlazione inversa tra livello di istruzione e
probabilità di essere disoccupati. Inoltre, la disoccupazione di molti giovani non è
collegata alla scarsa esperienza, ma a una bassa scolarizzazione di base, che rende
difficile la formazione ulteriore, e può dunque trasformarsi in una condizione di
emarginazione sociale.
Un adeguato percorso educativo che porti al successi formativo e a una possibilità di
inserimento lavorativo è dunque una delle grandi sfide per questo target di persone.
Una diffusa corrente di pensiero (si veda al proposito lo studio Ocse condotto da
Quintini e Martin 2006) ed anche la strategia europea pongono un forte accento sul
ruolo del lavoro per favorire l’inclusione. Il posto di lavoro infatti, pur non garantendo
automaticamente dal rischio esclusione, è uno dei luoghi dove maggiormente si
esprime la personalità dei cittadini ed è un indicatore efficace del superamento della
barriera della povertà.
12.1 Le Politiche Comunitarie nella lotta all’esclusione sociale dei
giovani
L’accostamento delle politiche comunitarie per l’occupazione a obiettivi di carattere
sociale derivano dalla volontà di coniugare l’obiettivo della piena occupazione con
azioni capaci di incidere sui divari regionali e sulla sperequazione sociale. Tale
sottolineatura si ha già nel Libro Bianco di Délors (1993), Dal vertice di Lisbona questo
nesso diventa più esplicito ed è sintetizzato nell’obiettivo strategico di realizzare
un’economia basata su migliori posti di lavoro e su una maggiore coesione sociale.
Attraverso le priorità di modernizzare il sistema della protezione sociale e di
promuovere l’integrazione. Il vero e proprio avvio del processo di inclusione sociale ha
avuto luogo nel dicembre 2000, con il Consiglio Europeo di Nizza, che ha approvato gli
obiettivi per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale e, specificatamente, la
promozione della partecipazione all’occupazione e l’accesso di tutti alle risorse, ai diritti,
206
ai beni e ai servizi, la prevenzione dei rischi d’esclusione, l’intervento a favore delle
persone più vulnerabili e la mobilitazione di tutte le parti interessate. L’accento alla
lotta contro l’esclusione sociale continua a essere marcato dall’Unione europea nei
successivi vertici e costituisce un pilastro chiave della nuova Agenda sociale europea,
lanciata nel 2005, in seguito alla revisione di medio termine della strategia di Lisbona,
al fine di modernizzare il modello sociale europeo. Nella nuova Agenda Sociale
l’occupazione diviene addirittura una delle due priorità chiave accanto alla lotta alla
povertà e alla promozione delle pari opportunità per tutti, nell’intento di perseguire
l’obiettivo dell’economia più competitiva del mondo entro il 2010. Ultimo tra i
provvedimenti delle istituzioni comunitarie in questa direzione è la designazione del
2007 come “Anno europeo delle pari opportunità per tutti”.
Nel quadro del rinnovato metodo di coordinamento aperto, già dal 2006 la
Commissione europea, presentando l’Annual Progress Report on Growth and Jobs
2006, ha sottolineato che l’inclusione sociale è un aspetto prioritario della strategia per
la crescita e la creazione di migliori e più numerosi posti di lavoro, soprattutto
nell’ottica di affrontare le sfide imposte dal cambiamento demografico. La sostenibilità
del modello sociale europeo si fonda sulla necessità di fare accedere più persone al
mercato del lavoro. Il target posto dalla Commissione europea per il miglioramento
dell’inserimento lavorativo dei giovani è, per la fine del 2007, di “offrire entro sei mesi,
a tutti i giovani che hanno lasciato la scuola e sono disoccupati, un lavoro, un
apprendistato, una formazione supplementare o qualsiasi altra misura atta a favorire il
loro inserimento professionale. Questo periodo dovrebbe essere portato a un massimo
di cento giorni entro il 2010”.
Il Patto europeo per la gioventù, approvato in seno al Consiglio Europeo di primavera
del
2005
e
annesso
alle
Conclusioni
della
Presidenza
belga,
evidenzia
le
raccomandazioni in materia di politiche giovanili, da adottare nel quadro della Strategia
europea per l’occupazione e della strategia per l’inclusione sociale. In particolare, il
Patto per la gioventù mira a migliorare l'istruzione, la formazione, la mobilità,
l'inserimento professionale e l'inclusione sociale dei giovani europei, facilitando nel
contempo la conciliazione tra attività professionale e vita familiare. Rilevante è
l’accento posto a dare la priorità, nel quadro delle politiche nazionali in materia
d'inclusione sociale, “al miglioramento della situazione dei giovani più vulnerabili, in
particolare di quelli colpiti dalla povertà, nonché alle iniziative volte a contrastare gli
207
abbandoni scolastici”.
L’obiettivo dell’Unione Europea in materia è di raggiungere entro il 2010 un tasso di
abbandono scolastico e formativo, calcolato come percentuale della popolazione 1824enne in possesso al massimo della licenza media/titolo Isced 2 (gli early school
leavers) che non partecipa ad alcuna attività di istruzione e formazione, pari al 10%.
Dai confronti internazionali si rileva che il tasso di conseguimento di un titolo di studio
secondario superiore in Italia è tra i più bassi rispetto alla maggior parte dei Paesi
europei (nel 1999 in Italia era del 73%, in Austria del 96%, nei Paesi Bassi del 93%, in
Germania del 92%; solo in Grecia – 67%, e in Portogallo – 56%, era più basso che in
Italia).
Per questi motivi uno dei fenomeni che principalmente vanno indagati nella ricerca di
efficaci azioni di policy per combattere la povertà vi è quello della dispersione
scolastica.
12.2 La dispersione scolastica un fenomeno multidimensionale
La dispersione è un fenomeno complesso, oltre che per la pluralità di cause che la
determinano per il modo in cui si manifesta. Con il termine “dispersione” ci si riferisce
all’insieme dei fattori che prolungano o interrompono il normale percorso scolastico:
mancati ingressi, evasione, abbandoni, ripetenze, bocciature, frequenze irregolari,
qualità scadente degli esiti, etc. Non sempre quindi “dispersione” è sinonimo di
“abbandono”, ma identifica l’insieme dei fattori che concorrono all’insuccesso
scolastico. Tuttavia, gli insuccessi scolastici, specie se reiterati, sono spesso una delle
cause dell’allontanamento dei ragazzi dalla scuola.
Indubbiamente tra i fattori che determinano la dispersione vi è la situazione
economica, culturale e sociale della famiglia di provenienza. Da un’indagine multiscopo
sulle strutture e i comportamenti familiari, condotta dall’ISTAT nel 1996-1998, risulta
che a 18 anni sono ancora studenti il 97,3% dei figli di padri laureati e l’86% dei figli di
diplomati. Ben diversa la situazione se il padre ha una scolarità modesta: permangono
ancora nel circuito scolastico/formativo il 72,5% dei ragazzi il cui padre ha la licenza
media, il 52,8% di coloro il cui padre ha conseguito solo la licenza elementare, ed
appena il 22,7% dei diciottenni il cui padre non ha conseguito nessun titolo di studio.
208
Anche la numerosità delle famiglie (soprattutto dopo il 3 figlio) è un fattore correlato
alla possibilità di conseguire un successo formativo, infatti le ricerche empiriche
mostrano correlazioni forti tra la probabilità di dispersione scolastica in Italia e il fatto
di vivere in una famiglia numerosa, che mediamente può presentare difficoltà
economiche e minore disponibilità di tempo che i genitori possono dedicare ai figli.
La multidimensionalità del fenomeno è testimoniata dalla rilevante mole di studi, che
toccano discipline differenti; si pensi in campo sociologico a Rumberger (2001) e ai
suoi approfondimenti sui fattori individuali e su quelli istituzionali e di contesto; oppure
alla teoria del capitale umano che afferisce agli studi economici che si fonda sull’idea
che con l’investimento in istruzione aumentano i rendimenti pecuniari del lavoro
derivanti dall’aumento degli skill che, una volta completato il processo di
apprendimento, aumentano la produttività dei lavoratori ed i loro salari.
Altre teorie economiche di stampo istituzionalista come la teoria della regolazione
(Boyer, 1986) e la teoria della segmentazione (Wilkinson, 1986), sostengono che i
livelli più alti di istruzione e le carriere lavorative ad essi connesse sono aperti solo a
determinate categorie sociali. Quindi, in questo caso, la probabilità di uscire
dall’istruzione e di non poter accedere a percorsi di carriera più soddisfacenti e
remunerativi è più elevata per le classi sociali per le quali queste opportunità sono
meno raggiungibili.
Tutti questi approcci portano alla conclusione che le cause della dispersione sono
molteplici e addebitabili sia a fattori squisitamente economici riconducibili alla
situazione di partenza del singolo così come al malfunzionamento del sistema
dell’istruzione nelle sue diverse componenti, sia a fattori sociologici, sia
ad altri di
carattere individuale e collettivo.
Proprio la natura
multidimensionale del fenomeno porta a ritenere che solo una
risposta integrata e collaborativa tra i vari attori della filiera istruzione-formazionelavoro sia appropriata a far fronte al problema. Ciascun soggetto che opera su questa
filiera mette in atto le risposte su cui è maggiormente competente, per il ruolo
istituzionale che è chiamato a svolgere o per l’esperienza maturata; data la
multidimensionalità del fenomeno della dispersione, non è possibile identificare cause e
rimedi alla stessa, che siano indipendenti gli uni dagli altri, mentre le aree di
sovrapposizione sono molteplici e gli interventi di confine sono altrettanto importanti. È
209
per queste ragioni che la costruzione di una rete effettiva tra tutti gli attori coinvolti su
uno stesso territorio può rappresentare una modalità interessante per superare
risposte parziali a problemi così complessi. “Le esperienze maturate in questi anni
hanno evidenziato l’importanza strategica di creare un raccordo tra i diversi soggetti
che hanno titolarità e competenze in questo settore e di favorire la messa in rete di
tutte le risorse disponibili, prefigurando una strategia di sviluppo finalizzata alla
creazione di un sistema territoriale integrato”.
A supporto di una risposta efficace e integrata devono essere previsti strumenti efficaci
per combattere il fenomeno. A titolo esemplificativo se ne citano qui di seguito tre che
hanno caratteristiche di tipo generale e sistemico:
a) Operare per il potenziamento dei sistemi informativi
Le informazioni statistiche a disposizione non consentono di dare valutazioni definitive
sull’abbandono scolastico dal momento che tutte le banche dati presentano problemi
strutturali. I dati del Ministero dell’Istruzione non possono offrire un quadro preciso dei
dati scolastici, dal momento che non tengono conto di coloro che si ritirano senza
comunicazione “ufficiale” (abbandoni informali). Questi, pur risultando ancora iscritti,
non vengono considerati nelle statistiche se non dopo almeno un anno dal ritiro. Sono
poi da considerare i cosiddetti “dispersi a scuola”, cioè il vario insieme dei pluriripetenti, di coloro che hanno cambiato percorso, anche più volte e non riescono a
intraprendere un cammino di crescita lineare. Si tratta, tuttavia di studenti che spesso
presentano problematiche che, quantomeno per taluni aspetti, risultano simili a quelle
di coloro che abbandonano. I dati di fonte regionale relativi ai percorsi formativi sono
elaborati dall’ISFOL e sembrano ancor più difficili da raccogliere, date le comunicazioni
assenti, tardive o parziali di numerose istituzioni formative.
Occorre quindi accentrare tutte le informazioni statistiche in un unico soggetto che
coordini la raccolta tempestiva delle informazioni in un preciso periodo dell’anno,
evitando che tutto dipenda dalla buona volontà degli addetti amministrativi delle
singole scuole e degli enti formativi. Senza questo tipo di intervento è impossibile
rendere efficienti e fluidi canali di circolazione dei dati e delle informazioni al fine di
consentire interventi tempestivi e mirati. Il problema di fondo è dato dal fatto che le
informazioni statistiche in grado di descrivere il problema sono state considerate come
un aspetto marginale e confinato a elementi conoscitivi esclusivamente di carattere
scientifico e non operativo. L’ISFOL, invece, ricorda che questi elementi rappresentano
210
“lo strumento principale in grado di rendere “sistema” i dispositivi attivi a supporto del
successo formativo” (ISFOL, 2006, p. 12).
b) Valorizzare e promuovere l’azione di supporto e tutoring
Vista la complessità delle cause dell’abbandono e la rilevanza dell’intreccio di aspetti
individuali/familiari/sociali, sembra utile un intervento personalizzato rivolto a ciascun
giovane avente l’obiettivo principale di mantenerlo all’interno dei canali di istruzione e
formazione. Questi interventi possono essere fatti da soggetti pubblici (CPI e scuole) a
patto di potenziarne, soprattutto dal punto di vista qualitativo (addetti più formati) il
personale, ma anche da quella pluralità di soggetti privati e in particolar modo del
privato sociale con cui essi entrano in contatto. In tal senso è essenziale ricordare che
è essenziale lavorare con la famiglia, poiché è da essa che giungono i segnali più forti
percepiti dai ragazzi. La collaborazione più stretta con la famiglia, sia da parte del
sistema dell’istruzione, che dei Centri per l’impiego e degli altri enti impegnati a
combattere la dispersione è un aspetto fondamentale soprattutto perché solo con
un’interazione forte con i genitori si possono, oltre che fornire i supporti necessari,
suggerire anche opzioni condivise e segnali di fiducia ai ragazzi a rischio abbandono.
c) Rivalutare ed intensificare l’attività di orientamento
L’attività di inclusione, sopra indicata, si ritiene possa essere efficace solo se associata
ad una diffusa e costante attività di orientamento, in grado di informare efficacemente,
sostenere ed accompagnare i giovani nelle scelte formative. Curare al massimo la
consapevolezza e la responsabilità nella scelta dei giovani del percorso formativo
sembra un aspetto forse troppo trascurato perché possa condurre ai risultati attesi. E,
anche ragionando in termini di costi/benefici, risulta certamente più efficiente, sia per
l’individuo che per la collettività, implementare un valido sistema di orientamento
preventivo rispetto all’intervento successivo al manifestarsi del disagio.
12.3 Un modello di risposta integrata: La Piazza dei Mestieri
In questo paragrafo si fa riferimento a una buona prassi sviluppata nell’ambito della
lotta alla dispersione che è quella messa in campo dalla Piazza dei Mestieri nata a
Torino nel 2004. In quest’ambito non si vuole tanto descrivere l’attività che vi si svolge,
ma indicarne il valore emblematico in quanto azione capace di coinvolgere una pluralità
211
di attori diversi per rispondere in modo adeguato alle diverse problematiche che
presenta il fenomeno della dispersione nella sua multidimensionalità precedentemente
descritta.
Il punto di partenza di questa best practise consiste nell’identificare come scopo del
processo educativo lo sviluppo della persona nella sua complessità, cognitiva e
affettiva, e si svolge in una pluralità di momenti e con una pluralità di soggetti, da
quelli lavorativi a quelli sociali e ludici, da quelli familiari a quelli scolastico/formativi.
Per questo motivo la Piazza dei Mestieri ha cercato di costruire un luogo non settoriale,
un luogo che i ragazzi che la frequentano in questi anni hanno identificato come una
casa, un posto amico in cui non c’è frammentazione tra l’apprendimento, la cultura, il
tempo libero e il lavoro, un insieme integrato e coerente di spazi per accoglienza, la
formazione e l’accompagnamento. Un luogo che è anche diventato punto di incontro
per l’arte, la musica e il gusto.
Le azioni sono indirizzate sia ai ragazzi che appartengono alla fascia di età che va dai
14 ai 18 anni per permettere il conseguimento di una qualifica professionale (sono oltre
450 ogni anno), sia a coloro che pur avendo superato i 18 anni si trovano in gravi
difficoltà perchè non hanno raggiunto ne una qualifica ne accumulato competenze
sufficienti per introdursi con successo e con prospettive di stabilità e di crescita nel
mercato del lavoro; ad essi sono dedicati, se disoccupati progetti speciali incentrati
prevalentemente sul metodo dell’alternanza, se occupati azioni di formazione
permanente e di rafforzamento delle competenze sia professionali sia generali.
In questi 4 anni la PDM ha lavorato molto sull’idea del successo formativo, cercando di
creare opportunità sia per coloro che avevano abbandonato il sistema scolastico, sia
per quelli che magari in qualche modo continuavano gli studi (non andando così ad
incidere sulle già pesanti percentuali di “dispersi” che l’Italia vanta), ma che non
trovavano in tale percorso una soluzione soddisfacente alle loro aspettative. La Piazza
dei Mestieri è nata quindi per cercare di offrire a tutti e a ciascuno la possibilità di un
percorso che, a tutti gli effetti, consenta di compiere la persona.
L’obiettivo è quello del successo formativo che è raggiungibile solo se si offre a
ciascuno eguali opportunità, non intese come eguaglianza di quanto viene consegnato
al ragazzo come contenuti o metodi, oppure ancora come parità nei risultati raggiunti e
nei saperi da possedere solidamente, ma come il diritto di ciascuno di avere, appunto,
212
l’opportunità di sviluppare al meglio le proprie capacità, e quindi un’attenzione
prioritaria alle caratteristiche individuali, che sono, in partenza, sempre diverse. Questo
assunto ha sempre ispirato l’attività di formazione che è stata sviluppata presso la
Piazza dei Mestieri; tale attività è tesa alla realizzazione delle potenzialità del singolo
ragazzo, che viene aiutato a elaborare un proprio progetto personale di inserimento
sociale e lavorativo. Coerentemente con questa impostazione la Piazza dei Mestieri
cerca di realizzare una pedagogia del “successo” che non porta alla selezione dei
migliori, ma al raggiungimento degli obiettivi prefissati per ciascun ragazzo, al fine di
ridurre drasticamente il numero dei c.d. dispersi, cioè di coloro che non ce la fanno.
Questa pedagogia si basa sulla presa in carico del ragazzo, nella sua totalità, con le sue
caratteristiche, le sue attitudini, la sua storia personale.
Nello strutturare i percorsi all’interno della Piazza dei Mestieri si è lavorato su un
modello che individua un nocciolo duro di competenze; intorno ad esso se ne collocano
a raggiera altre che possono essere tutte raggiunte al termine di un percorso scolastico
o formativo, ma possono anche, in qualche misura, essere conseguite in percorsi
successivi secondo la logica del lifelong learning; esse possono quindi essere raggiunte
anche nell’alveo di un percorso lavorativo, di stage , di alternanza,di tirocinio: Le
competenze infatti non sono un bagaglio di astrazioni, ma piuttosto un complesso che
si acquisisce agendo nel reale e quindi anche sul lavoro.
A partire da queste considerazioni possiamo definire la mission della Piazza dei
Mestieri: creare le condizioni per offrire ai giovani adolescenti una proposta educativa
capace di valorizzare la loro passione per la realtà, attraverso un processo che
permetta loro di acquisire conoscenze e competenze utili per inserirsi con successo nel
mondo del lavoro o per continuare il loro percorso di studi. Un processo che si realizza
attraverso una proposta che coinvolge la pluralità degli interessi dell’adolescente e che
parte dalla valorizzazione del saper fare.
I Punti cardine su cui si incentra l’esperienza della PDM sono:
a)
L’accoglienza
e
l’orientamento.
Un
ragazzo,
proveniente
da
situazioni
economiche e sociali complesse, con magari alle spalle insuccessi scolastici
decide di iniziare un percorso, di intraprendere una strada non nota, di siglare
un patto formativo che lo vedrà impegnato per sette ore al giorno solo se al
momento del primo impatto percepisce una possibilità reale di successo e se
213
trova credibili le persone che incontra. Il primo approccio con la Piazza dei
Mestieri passa dunque attraverso l’accoglienza dei ragazzi e delle loro famiglie;
un’accoglienza professionale ma coinvolta, da parte di persone che desiderano
accompagnare i giovani nella scoperta di sé e del mondo. Si inizia con un
colloquio e con la visita della struttura, talvolta accompagnati anche da un
ragazzo che già la frequenta e che si pone come peer tutor. Questo primo
approccio diventa tante volte un vero e proprio incontro che apre a uno
sviluppo, alla possibilità di diventare una storia solida, attraverso l’individuazione
di una strada da percorrere che porti al già citato obiettivo finale del successo
formativo. Alla Piazza si è creata un’équipe di orientatori che negli anni ha
sviluppato metodologie e prassi consolidate non fermandosi di fronte alle
difficoltà; in tal senso ad esempio si è passati dal bilancio delle competenze al
bilancio delle risorse poiché ci si è accorti che anche là dove le competenze
sembravano del tutto assenti esisteva in ogni singolo ragazzo un tesoro, da
ricercare talvolta con il lumicino, una risorsa appunto che chiedeva solo di
essere riconosciuta, valorizzata e sostenuta nel suo sviluppo. L’orientamento alla
Piazza dei Mestieri assume poi la caratteristica di una modalità educativa
permanente di aiuto alla persona che “dura” nel tempo, estendendosi dalle fasi
della scelta iniziale a quelle connesse al delicato passaggio al mondo del lavoro
o al ritorno nel mondo scolastico; fasi che sono quindi successive alla fine dei
percorsi formativi quando ormai gli allievi sono formalmente e sostanzialmente
fuoriusciti dalla Piazza dei Mestieri.
b)
I percorsi formativi. La formazione è il cuore del percorso educativo che la Piazza
dei Mestieri offre ai circa 450 ragazzi che la frequentano. Essi hanno varie
articolazioni proprio per rispondere alla pluralità di esigenze che emergono nei
giovani. Vi sono i percorsi triennali (all’interno dei quali è possibile assolvere
l’obbligo di istruzione e conseguire una qualifica professionale) riservati ai
ragazzi in uscita dalla terza media, i percorsi biennali che portano agli stessi
risultati per ragazzi che hanno già “perso” anni nei percorsi di istruzione, ma che
hanno acquisito crediti e competenze. Ed infine sono presenti percorsi più
destrutturati e di minor durata per creare le condizioni affinché il ragazzo possa
inserirsi in un percorso formativo o scolastico, oppure possa essere
accompagnato in un inserimento lavorativo o in percorsi di apprendistato. A
214
questi percorsi, negli anni si è cercato di affiancare progetti totalmente
destrutturati, quasi percorsi orientativi, finanziati da fondazioni o altri enti del
territorio, così da offrire un’opportunità anche a soggetti con storie o
caratteristiche estremamente particolari. Tutti questi percorsi formativi sono
supportati da un’intensa attività di programmazione e micro-progettazione
costruita, partendo anche dalle indicazioni delle aziende, con i responsabili di
corso, i docenti e i professionisti di laboratorio. Pur essendo molto dettagliata, la
progettazione lascia sempre lo spazio alla possibilità della personalizzazione dei
percorsi. Questa duttilità, oltre a garantire a ciascun ragazzo un percorso
formativo coerente con le proprie caratteristiche, ha consentito a chi ha
intrapreso un percorso (scuola, formazione, lavoro) di passare ad un altro senza
per questo dover “ricominciare da capo”, usufruendo dei passaggi tra i sistemi.
Per ottenere questi risultati, molto spesso, è stato necessario finanziare con
risorse aggiuntive (non provenienti da risorse comunitarie o degli enti locali), in
parte o in toto, attività che si caratterizzano come interventi di recupero e
approfondimento, accoglienza e accompagnamento (iniziale, in itinere, finale),
orientamento e sostegno. Anche la metodologia di programmazione didattica
alla Piazza dei Mestieri segue l’ottica della personalizzazione; essa si incnetra
sulla c.d. metodologia del compito, ovvero la possibilità che la realtà stessa
dettasse un compito che orientasse lo svolgimento della lezione e a cui gli
studenti dovessero rispondere, chiedendo supporto e aiuto ai docenti. Questa
impostazione si è dimostrata utile anche per quanto concerne l’insegnamento
delle materie più teoriche, quali matematica, scienze, informatica, italiano,
storia, diritto, geografia, che concorrono a formare una persona in grado di
interloquire con il proprio tempo. Anche in questo caso si è reso necessario
ripensare completamente alle modalità di apprendimento e agli strumenti di
supporto. In particolare ci si è concentrati sulla riscrittura dei testi scolastici la
cui impostazione, coerentemente con il metodo generale adottato dalla Piazza
dei Mestieri, è quella di partire dal particolare, dall’esempio, dalla pratica per
risalire all’universale.
c)
Le proposte per il tempo libero. Accogliendo ogni giorno centinaia di ragazzi, gli
educatori della PDM si sono resi conto che non è possibile ricondurre le loro
esigenze solo al bisogno di imparare in vista di un’opportunità lavorativa. Questi
215
giovani chiedono di poter condividere la totalità dei loro interessi. Da questo
desiderio nascono le loro richieste di trascorre insieme il tempo libero, dal
guardare insieme una partita a giocare a calcio o a imparare a ballare e cantare.
Il momento aggregativo è quello in cui più facilmente emerge la personalità del
giovane e quindi si tratta di un elemento centrale per la sua educazione. Così
anche nelle proposte per il tempo libero la Piazza ridiventa la piazza di storica
memoria: un luogo in cui non solo si imparano nuovi mestieri, ma in cui si
trascorre il tempo dello svago, che diventa carico di incontri e di rapporti. Al
mattino ci si incontra nel pub che sostituisce il bar delle piazze di una volta, un
posto in cui è possibile incontrarsi con gli amici, con i docenti, discutere,
paragonarsi, decidere insieme di affrontare una nuova giornata. Ma anche nella
pausa pranzo il pub diventa un luogo espressivo dei ragazzi in cui si alternano
alla consolle per sperimentarsi come deejay oppure improvvisano gare di
karaoke o sfide di ballo. La dimensione del “fare insieme guardando alla
bellezza” si dipana nella Piazza anche attraverso le attività pomeridiane, in cui è
possibile frequentare laboratori teatrali, di ballo, di canto, di deejay, o
partecipare a stage di pittura e poesia. I ragazzi così si trasformano in attori,
costumisti, scenografi, ballerini, giocolieri e danno vita a spettacoli che
divengono momenti importanti di visibilità e di coinvolgimento della città nelle
attività della Piazza dei Mestieri. Ma anche la sera è piena di proposte e così,
sin dal primo anno di apertura si è dato vita a un cartellone di attività culturali,
particolarmente attento alle realtà artistiche emergenti che vedono come
protagonisti i giovani. Sono presenti sezioni di eventi musicali e teatrali che
coinvolgono artisti, più o meno famosi, che offrono ai ragazzi e alla cittadinanza
il contatto con un’ampia varietà di linguaggi ricchi di fascino e potenzialità
comunicative. Del cartellone eventi fanno parte anche le mostre (il cui scopo è
quello di aiutare i giovani a osservare la tradizione, l’arte e la storia con uno
sguardo che non sia solo vedere) e il concorso annuale di poesia. Infine il bello
emerge anche negli incontri con persone affascinate dalla vita; questa è la
ragione per cui l’anno è scandito da incontri con professionisti e artisti che si
raccontano ai ragazzi, narrano la passione con cui fanno il loro lavoro,
l’entusiasmo che hanno messo nella costruzione dei loro progetti e della loro
vita. Vedendo una persona appassionata alla realtà e alla propria vita è più
facile guardare con simpatia alla nostra stessa esistenza e al nostro lavoro. La
216
piazza, quella di ieri così come quella dei Mestieri, vive di incontri, come
espressione di una vita che in essa si dipana.
d)
L’accompagnamento al lavoro e l’alternanza. La scommessa più impegnativa e
innovativa del modello di impresa sociale messa a punto dalla Piazza dei
Mestieri risiede nell’aver fatto convivere attività educative e attività produttive.
Al termine del percorso formativo e del raggiungimento della qualifica i ragazzi
possono scegliere di continuare gli studi in un istituto professionale oppure di
entrare nel mondo del lavoro. È un desiderio che nasce spesso anche da
esigenze economiche, ma più generalmente esso è legato alla volontà di dare
una svolta alla propria vita, di cominciare a vivere in modo più indipendente.
L’impatto con il lavoro è però spesso drammatico per questi ragazzi, essi hanno
una scarsa cultura del lavoro, fanno fatica ad accettare la dipendenza e le
regole più elementari (dalla puntualità, alle modalità di relazione). Da qui nasce
la consapevolezza che ai giovani non è sufficiente insegnare delle tecniche e
una professionalità, occorre insegnare loro a lavorare. Si sono così attivati, già
durante l’anno, dei percorsi, volti a creare un matching tra domanda e offerta di
lavoro e ad accompagnare fisicamente i giovani durante lo stage , il tirocinio e
successivamente l’inserimento lavorativo vero e proprio. Questi percorsi sono
affidati a una figura particolare denominata promotore dell’inserimento
lavorativo (PIL); il PIL lavora costantemente tutto l’anno per consolidare il
rapporto con le imprese, dialogando con esse relativamente ai contenuti dei
percorsi didattici e alle loro necessità di inserimento lavorativo. All’interno della
struttura della Piazza dei Mestieri il PIL si interfaccia poi con i tutor dei ragazzi
per cercare di stabilire le migliori combinazioni tra aziende e giovani in stage o
in inserimento lavorativo Gli indicatori riferiti ai primi tre anni di attività della
Piazza, mostrano che entro sei mesi dalla fine dei corsi oltre il 70% dei ragazzi
si è inserito positivamente nel mondo del lavoro con un’occupazione coerente e
un ulteriore 10% ha deciso di continuare a studiare. Per raggiungere tali risultati
si è deciso di creare all’interno della Piazza delle vere e proprie attività
produttive in cui i ragazzi potessero fare un’esperienza reale e non simulata del
lavoro; il ristorante, il birrificio, la tipografia, il salone di acconciatura, il
laboratorio del cioccolato, sono nati da questa esigenza. La duplice valenza di
questi luoghi come ambito educativo e come soggetti economici (la cui attività è
217
rivolta alla vendita di beni e servizi sul mercato) ha reso necessario cercare
professionisti di valore che potessero da un lato essere veri maestri per i ragazzi
e dall’altro fossero garanti della qualità dei servizi e dei prodotti. Reperire tali
professionisti è stata una sfida assai complessa, tanto da condizionare persino la
tempistica dello sviluppo iniziale dei laboratori. Se è già difficile trovare
competenze di alto livello ancor più arduo è trovare persone disponibili a un
coinvolgimento con l’obiettivo educativo, un coinvolgimento non tanto astratto e
di principio, quanto operativo al punto da arrivare alla conseguente misurazione
dei risultati. Così al ristorante il maitre e lo chef coordinano i ragazzi durante le
esercitazioni e gli stage , che avvengono in concomitanza con l’apertura al
pubblico; un lavoro impegnativo, ma che non ha impedito il fatto che, dopo soli
tre
anni
di
apertura,
il
ristorante
stesso
risulti
citato
nelle
guide
enogastronomiche. Lo stesso accade nel laboratorio di cioccolateria o nel
birrificio, dove i ragazzi, sotto gli occhi vigili di professionisti, contribuiscono alla
produzione e al confezionamento dei prodotti che poi vengono venduti negli
esercizi commerciali o utilizzati da istituzioni e aziende per la regalistica. Infine
vale la pena sottolineare che in questa apertura alla realtà, oltre a percepire il
fascino di un mestiere, si ha anche modo di constatare la mancanza di
competenze, acquisendo il desiderio di colmare il gap. Cosa c’è di meglio che
una cena con ospiti stranieri per capire che la conoscenza delle lingue è
fondamentale per un cameriere! La realtà è sempre più convincente di mille
esortazioni che spesso per i giovani suonano false o perlomeno esagerate e
noiose.
e)
Il sostegno alla Famiglia. Come si è detto spesso la famiglia rappresenta un
punto critico nella storia del giovane adolescente e talvolta ne condiziona in
modo negativo le aspettative e le possibilità di sviluppo. Occorre dunque trovare
modalità di rapporto stabile con i genitori. Una necessità connessa al ruolo che
essi giocano nell’educazione del ragazzo, ma anche a una richiesta a volte
esplicita, ma più spesso implicita dei genitori stessi sintetizzabile nella domanda
più volte emersa:“perché non fate una piazza anche per noi?”. È un modo
semplice per chiedere un coinvolgimento in una responsabilità spesso sentita
come superiore alle proprie forze. Così, oltre ai normali rapporti interpersonali
con i diversi responsabili dell’attiva educativa, è stato avviato un progetto
218
sperimentale specifico intitolato “Fare con” che è stato reso possibile da un
contributo ottenuto nel 2007 dalla Fondazione Umanamente e che ha tra i suoi
obiettivi proprio lavorare sulla genitorialità. Lo stesso progetto prevede poi
un’azione con le scuole del territorio al fine di dotare i docenti delle scuole e
della formazione professionale di un linguaggio e di una dotazione di strumenti
comuni.
f)
L’apertura al territorio. Da subito è parso evidente che un’iniziativa di questa
portata non poteva concepirsi come realtà autonoma e autosufficiente ma aveva
la necessità di coinvolgere la rete dei soggetti del territorio. La Piazza dei
Mestieri infatti, pur facendosi portatrice di una proposta educativa a tutto
campo, non può estendere la sua azione a tutti gli aspetti che incidono sulla la
vita degli allievi. Per questo motivo sin dall’origine sono stati coinvolti:
- i responsabili degli enti locali e delle fondazioni bancarie: la necessità di tale
coinvolgimento non è meramente connessa agli aspetti finanziari (che pur
sono determinanti), ma anche alla condivisione vera e propria dell’idea e
della sua capacità di rispondere a un bisogno emergente dei giovani del
territorio. Se la mission viene condivisa e assunta come propria, tali soggetti
possono aiutare l’azione sui ragazzi in quanto portatori di una visione
d’insieme delle problematiche e, soprattutto, possono aprire a nuove reti di
interlocutori la cui azione sia complementare e dunque integrabile a quella
della Piazza;
- il sistema scolastico e formativo: per funzionare, la proposta della Piazza dei
Mestieri deve essere sentita dal sistema educativo nel suo complesso non
come alternativa, ma come completamento dell’offerta complessiva. Il
successo dell’intervento educativo dipende anche dalla capacità di saper
interagire con i presidi e i docenti delle scuole secondarie di primo e secondo
grado, con i rappresentanti del provveditorato, con i responsabili delle altre
agenzie formative sia nella fase di intercettazione del bisogno, sia in quella di
intervento;
- il mondo dell’assistenza: molti dei ragazzi che scelgono il percorso della
Piazza dei Mestieri presentano situazioni evidenti di disagio economico e
sociale, spesso sono anzi già seguiti dai servizi sociali; un rapporto stretto
219
con tale istituzione permette di collaborare al percorso di crescita del giovane
evitando contrapposizioni nel metodo e nel contenuto della proposta stessa.
Inoltre alcuni enti benefici possono supportare i ragazzi e le loro famiglie in
questo percorso, soprattutto per quei casi, che si sono rivelati essere molto
numerosi, in cui il reddito familiare è sotto o alle soglie dei limiti di povertà.
12.4 Suggerimenti di policy
La multidimensionalità del fenomeno della dispersione scolastica, le sue implicazioni
con gli aspetti connessi alle situazioni di povertà, rendono evidente la necessità di
cercare risposte articolate capaci di affrontare il problema nelle sue varie sfaccettare. E’
del tutto evidente che tali forme di risposta non possono essere fornita da singoli
soggetti e anche nel caso (come nel citato esempio di best practise) in cui un soggetto
sia in grado di elaborare una risposta articolata, la sua efficacia dipende in larga misura
dalla sua capacità di interconnettersi con altri attori del territorio. I modelli efficaci
devono essere aperti al mondo delle famiglie, delle imprese, delle istituzioni
scolastiche, dell’assistenza, di tutti gli altri stakeholder. Il fare è un fare con i diversi
attori del territorio che a vario titolo interagiscono con la proposta educativa.
Questa attenzione alle reti e al territorio, in un mondo sempre più globale, nasce dalla
convinzione che per competere sia necessario approfondire e valorizzare identità e
specificità a partire da ciò che ci è più vicino. Ciò vale per i giovani che devono
introdursi sul mercato del lavoro, ma vale anche per l’esperienza delle imprese (basti
pensare alle dinamiche di distretto o di aree sistema). Cooperare per competere può
essere uno slogan adottato dai sistemi produttivi locali, ma lo è anche per un sistema
educativo che voglia raggiungere l’esito del successo formativo dei giovani; essi non
sono pacchi postali da affidare di volta in volta agli specialisti (psicologi, insegnanti,
datori di lavoro), ma soggetti desiderosi di una proposta che si rivolga all’unità della
persona, in cui tutti gli aspetti specifici necessitano di un punto sintetico di giudizio e di
proposta. Solo così si liberano le energie di ogni adolescente, favorendone la capacità
di assumersi responsabilità e di correre rischi.
Il coinvolgimento degli stakeholder del territorio può avvenire secondo modalità diverse
i cui estremi sono riconducibili a due distinti modelli.
220
Il primo è quello in cui vi è un soggetto forte che determina la mission e che assume le
decisioni necessarie per il raggiungimento degli obiettivi in modo autonomo. I diversi
stakeholder vengono progressivamente coinvolti in una rete ma, pur influenzando i
processi decisionali, non giungono a condividerne la responsabilità operativa. D’altro
canto l’intervento degli stakeholder, soprattutto quelli aventi natura pubblica può
essere facilitato dal fatto che il soggetto assuma forme societarie tali per cui il
patrimonio resti vincolato allo scopo sociale quale ad esempio è la Fondazione il cui
patrimonio non appartiene ai soci, ma è vincolato al progetto. Proprio tale natura rende
possibile l’intervento di sostegno da parte di alcuni stakeholder, a prescindere dalla loro
presenza negli organismi societari. Tali soggetti possono partecipare agli investimenti
di start-up proprio perché le risorse impiegate avevano una destinazione sociale, la cui
efficacia produce valore per l’intera collettività e, inoltre, in nessun caso tali risorse
possono essere distratte dall’obiettivo dichiarato. Ovviamente tale modello non serve
solo per la fase iniziale, ma può essere utilizzato anche in quelle successive legate alla
gestione. Gli attori del territorio, infatti, possono decidere di sostenere alcuni progetti
speciali che non trovano copertura nelle risorse pubbliche, ma che si ritengono
essenziali per il raggiungimento del risultato finale che resta quello del successo
formativo dei giovani.
Il secondo modello di rete è quello in cui i diversi soggetti partecipano direttamente
alle decisioni di impostazione strategica e divengono corresponsabili dei risultati stessi.
In tal caso i partner entrano, a diverso titolo, a far parte della compagine sociale
partecipando alla definizione degli obiettivi e all’elaborazione delle scelte operative.
Attualmente il nostro sistema normativo inerente i sistemi educativi non prevede, se
non eccezionalmente e debolmente, che vi siano soggetti in cui attori diversi (scuole,
enti di formazione, fondazioni, imprese, associazioni di genitori) partecipino
direttamente al soggetto educativo ed ai suoi organismi.
In alcuni Paesi si assiste invece ad alcune innovative esperienze che si muovono in tale
direzione; esse, pur essendo recenti, sembrano già in grado di documentare elevati
gradi di successo e possono quindi divenire suggerimenti di policy da prendere in
considerazione. A titolo esemplificativo si possono citare due modelli quali sono le
Charter School americane e le Trust School inglesi.
Le Charter School sono scuole pubbliche indipendenti aperte a tutti e finanziate per
l’80% a carico della fiscalità generale; esse possono essere avviate da una pluralità di
221
soggetti (insegnanti, genitori, associazioni, università). I loro regolamenti si
caratterizzano per essere meno burocratici di quelli delle scuole distrettuali e
prevedono ampia autonomia nella scelta degli insegnanti così come nelle decisioni circa
la loro remunerazione. Il controllo pubblico si estrinseca in una valutazione circa i
risultati che la scuola raggiunge che viene effettuato dopo cinque anni dalla sua
costituzione e che in caso di esito negativo porta alla sua soppressione. Queste scuole
sorte per rispondere al tema del disagio giovanile e a vari problemi di natura etnica
stanno ottenendo, nella maggior parte dei casi, risultati eccellenti.
Le Trust School inglesi, prevedono che possano diventare partner del trust una
pluralità di soggetti, tra cui, fondazioni e organizzazioni non profit in genere, così come
gruppi di genitori, autorità locali, imprese e università. Tutti questi soggetti diventando
partner del trust concorrono al raggiungimento dell’obiettivo educativo che è affidato al
trustee; quest’ultimo è vincolato nell’utilizzo delle risorse a una gestione finalizzata a
realizzare gli interessi dei beneficiari che in questo caso sono gli studenti. Anche questo
modello è caratterizzato da elevati livelli di autonomia nelle scelte didattiche così come
nella gestione economica e patrimoniale.
Dare spazio anche nel nostro Paese a esperienze aventi simili caratteristiche
contribuirebbe ad allargare le risorse disponibili per la sfida educativa, rispondendo
anche all’esigenza più volte posta della compatibilità generale relativa ai bilanci pubblici
e quindi al tema della sostenibilità degli interventi.
Va infine sottolineato che alcuni interventi di policy sono appannaggio del governo
centrale (quali ad esempio la riforma della normativa degli enti non profit di cui si
tratta in altra parte del volume), ma molti altri possono essere messi in campo dalle
Regioni in quanto l’istruzione è materia concorrente e la formazione professionale
esclusiva delle Regioni stesse; competenze che tra le altre cose saranno ampliate nella
visione di un nuovo federalismo fiscale qualunque ne sia la formulazione.
222
13.
I minori stranieri – Il Progetto Prisma
Il progetto PRISMA – Progetti integrati a sostegno di minori adolescenti - affronta
secondo un’ottica multiprospettica il tema del miglioramento delle azioni finalizzate
all’integrazione sociale dei giovani stranieri presenti in Lombardia. Gli obiettivi del
progetto si focalizzano sulla necessità di studiare i criteri per un modello di intervento,
orientato a favorire il successo formativo. Alfabetizzazione, formazione e prospettiva
lavorativa, pertanto, diventano priorità assolute per favorire il positivo passaggio dalla
condizione di sradicamento all’inserimento sociale nelle sue varie fasi. Gli interrogativi
che hanno guidato la ricerca si sono focalizzati sul concetto di successo formativo con
cui si è inteso l’esito positivo di una prassi educativa, che non necessariamente deve
coincidere con il concetto di riuscita scolastica, ossia con l’insieme di apprendimenti
raggiunti e certificati in un determinato grado di istruzione. Quest’ultimo appare un
parametro talvolta di difficile applicabilità nel caso dei giovani migranti (soprattutto se
di prima generazione come nei casi presi in considerazione); ciò è dovuto al fatto che
l’estrema variabilità dei percorsi di scolarizzazione esperiti dagli immigrati, sia in Italia
sia nei paesi di origine, non sempre permette di effettuare un bilancio corretto e
soddisfacente degli effettivi saperi acquisiti e delle competenze spendibili. Pertanto
preferiamo considerare il concetto più ampio di successo formativo, inteso come il
risultato di un percorso di accompagnamento vissuto dal giovane straniero in
riferimento al contesto di provenienza, all’esperienza migratoria, alle sue aspirazioni
nella società di accoglienza.
13.1 I principali risultati della ricerca e le possibili applicazioni
Gli elementi cardine della ricerca e dei suoi sviluppi possono essere così sintetizzati:
- i soggetti interagenti per il successo formativo: il giovane, le famiglie di provenienza
e/o di accoglienza, gli operatori/insegnanti, i datori di lavoro rappresentano i poli di
un sistema che, per restare in equilibrio, deve essere gestito sinergicamente;
223
- l’insieme di aspettative e di bisogni espressi dai diversi soggetti, a cui occorre far
fronte con risposte operative adeguate;
- le strategie e le azioni che possono essere messe in atto, sia rispetto al piano
relazionale, sia rispetto all’attività didattica;
- le condizioni di fattibilità e i vincoli.
Spesso, quando si affronta il tema del successo formativo, si centra l’attenzione solo
sul minore e ci si riferisce all’ente formativo/scuola come erogatore di servizio. Se
invece pensiamo a un cambio di paradigma, dobbiamo concepire l’attività non come
azione erogata, ma come interazione. Tra due o più soggetti che stabiliscono relazioni
di reciprocità. Gli attori in gioco sono molteplici e ciascuno si configura come portatore
di bisogni e aspettative; i bisogni sono sia quelli del ragazzo che quelli dei genitori, dei
docenti, degli educatori, del mondo del lavoro, non sono statici ma in continua
evoluzione.
Costruire una “strategia sistemica” che tenga conto dei diversi bisogni e delle diverse
aspettative dei soggetti in gioco, presuppone, però che si inizi da una mappatura delle
risorse territoriali esistenti (a volte poco note), da una specifica formazione degli
operatori e dalla diffusione di strumenti e buone prassi già esistenti ma poco utilizzate;
si ritiene importante e necessaria l’implementazione di una rete di servizi in grado di
prendere in carico, da diversi punti di vista, la famiglia straniera in cui siano presenti
minori in età scolare, a partire dalla consapevolezza che solo l’accoglienza del nucleo
familiare nella sua globalità consente di effettuare interventi efficaci e costruttivi di
sostegno. Parlare di sistema, significa altresì creare strumenti di raccordo necessario
tra le diverse figure professionali che a vario titolo lavorano per il successo formativo
dei giovani stranieri: docenti-consiglio di classe, docenti-alfabetizzatori, collaborazioni
nel sistema di istruzione/formazione professionale, co-progettualità e co-presenza degli
operatori (mediatori culturali, educatori, docenti, ecc.).
Decisive risultano le risposte ad alcune aspettative emergenti dagli attori coinvolti nei
progetti: la prima e più importante è rappresentata dal sistema psico-affettivo e delle
relazioni che il giovane instaura con gli adulti di riferimento (insegnanti, mediatori,
operatori, datori di lavoro…). In tutti i 25 casi esaminati, la presenza di una rete di
protezione, di una famiglia motivante, di significative relazioni con gli educatori,
costituiscono una delle principali – se non la predominante – spiegazione al successo
224
formativo del giovane immigrato. Nei casi studiati, la relazione instaurata, a volte si
gioca nell’ambito di un rapporto individuale; frequentemente, però, passa attraverso
attività di gruppo, specie a carattere espressivo. Con i pari, infatti, spesso la relazione
viene sollecitata attraverso l’animazione di gruppo, tecnica utilizzata quale risposta a
una condizione a volte di isolamento e/o di difficoltà di interazione, fatica amplificata
dalla scarsa conoscenza linguistica. Ecco che l’apprendimento L2, diventa un fortissimo
strumento di integrazione, prima ancora che di accesso alla conoscenza teorica e
didattica. La costruzione di questo sistema di relazioni mette in gioco i soggetti
interagenti, ciascuno dei quali necessita di “sostegno”: il giovane, nel suo percorso di
scoperta di sé, l’insegnante/operatore, nella conferma circa l’efficacia del suo operato e
in una formazione adeguata per affrontare la didattica rivolta a gruppi di ragazzi italiani
e stranieri.
Un altro bisogno emerso a cui occorre far fronte, è rappresentato dalla necessità che il
giovane venga costantemente accompagnato. Accompagnamento che, a seconda delle
condizioni in cui il giovane si trova (minore accompagnato, solo o con adulti di
riferimento), può configurarsi come presa in carico globale, orientamento/inserimento
scolastico-formativo o lavorativo, come tutoring continuo, piuttosto che come azione
finalizzata a fornire concrete informazioni relative al territorio. In tutti i casi, comunque,
risulta necessaria la figura di un operatore esperto che sia in grado di informare e/o di
traghettare il giovane e la sua famiglia nel processo di integrazione. Una figura che
emerge con evidenza dai casi studiati e che deve trovare una collocazione all’interno
del modello è quella del mediatore culturale, spesso definito quale “ponte” tra la
famiglia immigrata e le istituzioni del territorio.
Dal punto di vista scolastico/formativo, strumenti in grado di generare rinforzo
motivazionale, fiducia e risposte concrete ai reali bisogni dei giovani (riuscire a ultimare
il percorso di studi, inserirsi rapidamente nel mondo del lavoro, ottenere l’autonomia),
sono rappresentati dall’approccio personalizzato, dal riconoscimento dei crediti, dalla
certificazione delle competenze linguistiche e dalla valutazione di ingresso: il primo, in
grado di costruire percorsi che partano da una reale lettura dei bisogni, che siano in
funzione del momento di ingresso in Italia, che consentano una maggiore e facilitata
comprensione dell’ambito completamente nuovo nel quale i giovani si stanno
inserendo, ecc. il secondo capace di riconoscere competenze maturate anche in ambito
extrascolastico, il terzo in grado di fornire documenti spendibili sia in ambito
225
scolastico/formativo, sia in ambito lavorativo, l’ultimo attento alla valorizzazione delle
competenze acquisite nel paese d’origine.
Le strategie e le azioni che possono essere messe in atto, prendono le mosse da alcuni
presupposti:
- l’instaurarsi di una relazione fiduciaria tra il ragazzo e le figure di riferimento che,
pur in ambiti informali, deve essere caratterizzata da una chiarezza e trasparenza
dei ruoli;
- la necessità di costruire un lavoro di squadra finalizzato al sostegno reciproco delle
parti in gioco;
- lo sviluppo di percorsi di accompagnamento per gradi, aderenti al modificarsi
progressivo dei bisogni nel tempo.
Le azioni che, rispetto all’attività didattica, sono state messe in campo con successo,
sono caratterizzate dall’alternarsi di approcci tradizionali/frontali, che fungono da
momenti nei quali è possibile sistematizzare le conoscenze acquisite (anche attraverso
strumenti quali gli esami CILS, l’adozione del portfolio delle competenze), con altri
alternativi/innovativi/laboratoriali, caratterizzati da un approccio personalizzato, tra cui
quelli di conoscenza del territorio e quelli ludico espressivi (teatro); questi ultimi, oltre
a favorire l’apprendimento L2 e a far emergere bisogni, paure, desideri, storie di vita,
aiutano i giovani nell’individuazione delle risorse personali di cui sono portatori.
Ma, come anticipato, elemento imprescindibile al successo formativo è l’interattività e
la socializzazione del soggetto. Mettere in campo azioni miranti a generare processi di
avvicinamento, significa anche attivare la conoscenza della cultura a cui il soggetto
appartiene: la partecipazione a un gruppo di pari e il ruolo dell’adolescente
tutor/testimonial che già ha superato con successo le difficoltà del medesimo percorso,
rappresentano momenti nei quali i giovani possono condividere il loro vissuto
migratorio, accrescere la capacità di interrelazione, sviluppare un più forte senso di
appartenenza, con riflessi verificati sul rinforzo e l’autostima personali.
Queste azioni a sostegno dei giovani stranieri, data la loro caratterizzazione,
necessitano, quindi, di un approfondito livello di progettualità finalizzato alla
costruzione di
percorsi
che devono
essere
pensati
come personalizzati.
In
quest’ambito, possiamo citare, come esperienze di successo: i laboratori di uscita sul
226
territorio, i laboratori teatrali, i tirocini formativi, i larsa, esperienze di borsa-lavoro (per
minori non accompagnati), le vacanze protette. Elemento di criticità, rispetto a tutte
queste possibili alternative, potrebbe essere rappresentato dal riconoscimento di crediti
formativi.
Condizioni di fattibilità ed elementi critici sono rappresentati da diverse variabili in
campo:
- il sistema di istruzione-formazione è chiamato ad assumere nella sua fisionomia
definitiva la flessibilità necessaria per consentire agli attori in campo di modulare
appropriatamente l’azione sui soggetti fruitori;
- un quadro normativo stabile potrebbe aiutare a individuare metodologie e approcci
continuativi nel tempo;
- l’asse spazio-temporale: la possibilità di sviluppare attività dentro e fuori la scuola
(che non sempre rappresenta il luogo più idoneo), in una prospettiva di modularità e
un’erogazione continuativa di risorse che permetta agli operatori coinvolti di gestire
un
processo
–
quale
quello
dell’integrazione
–
che
si
presenta
come
necessariamente lungo;
- il lavoro di rete dei vari soggetti interagenti per il successo: educatori/formatori,
insegnanti, mediatori, famiglie. Non solo individuati come soggetti singoli, ma come
realtà che, collettivamente (es. collegio docenti, equipe, ecc.) collaborano tra loro.
In sintesi, i fattori all’origine del successo formativo dei giovani stranieri di prima
generazione – almeno sulla base dei casi indagati - sono di 6 tipi:
a) Buon funzionamento della rete, sia quella scolastica sia quella tra scuolaextrascuola:
educatori/assistenti
alfabetizzatori/di
classe;
sociali;
ctp/centro
corsi
Eda/scuola
di
formazione
media;
docenti
professionale;
cooperativa/scuola; centro formazione/azienda; scuola/ente locale
b) Entusiasmo e professionalità degli insegnanti, dove si sottolinea da un lato la forza
della relazione motivante con il docente, dall’altro l’importanza di usare strumenti
adeguati per incentivare e premiare lo studio (valutazioni eque, bocciature o
promozioni ‘simboliche’, premi per il raggiungimento di traguardi, didattica attiva,
attenzione agli interessi e inclinazioni, valorizzazione della L1)
c) Utilizzo del gruppo (relazioni fra pari) come strategia pedagogica per sbloccare
227
situazioni difficili di inserimento e isolamento. A questo si associa l’uso di attività
espressive per far emergere i contenuti personali e favorire la comunicazione tra
pari e con l’adulto
d) Relazione positiva con l’educatore/orientatore. In alcuni casi l’elemento risolutivo è
da attribuirsi alla presenza dell’educatore, nonché all’approccio corretto scelto per
interagire
e) Coinvolgimento della famiglia: quando è presente costituisce un fattore di grande
influenza positiva, sia che supporti l’intervento con investimento esplicito sui
successi formativi del figlio, sia che i genitori siano accompagnati durante il
percorso a riconoscere l’importanza del cammino intrapreso
f)
Accesso al mondo del lavoro. L’apertura diretta al mondo del lavoro ha costituito
l’elemento di maggiore trascinamento verso lo sviluppo positivo di situazioni a
rischio. Il lavoro è infatti portatore non solo di significati di dignità e
riconoscimento di status, ma anche di relazioni formali, di aspirazioni sociali, di
nuove conoscenze e interessi.
228
Tabella 17: Riepilogo dei casi di successo formativo81
prov
Come definisco il successo
RISULTATI FINALI /SVILUPPI FUTURI
Bs Da rifiuto scolastico e aggressività coi Rete di protezione educatori-assistenti sociali
pari (rischio devianza e abbandono) >> Rete Territoriale:scuola, extrascuola, enti locali, mediatori
a licenza media e scelta di un cfp (corso cultural, servizi sociali
movimento terra)
Collaborazione e progetti integrati fra scuola secondaria di
Lo Da timido, poco alfabetizzato,
primo grado e EDA
impacciato con la lingua, incerto sul
futuro (rischio abbandono) >> a licenza Percorsi di alfabetizzazione
media e scelta di cfp (corso elettrauto e Percorsi educativi personalizzati modulari e flessibili
aspirazione verso l’informatica)
Percorsi di orientamento
Mi Avanzamento di classe (da prima a terza Progettazione PEP (Piani educativi personalizzati) da tutto il
liceo) con buoni risultati scolastici
consiglio di classe con lo stretto coinvolgimento di studente e
complessivi >> aspettative universitarie famiglia ( patto con la famiglia)
Flessibilità percorsi
Lavoro in equipe fra docenti alfabetizzatori e docenti di
classe di tutte le discipline ( cultura del lavoro di rete)
Mi Passaggio dalla formazione
Laboratori/attività nei periodi estivi: laboratori
professionale (qualifica triennale)
ludico/espressivi, laboratori di prima alfabetizzazione,
all’istruzione ITC; da adolescente chiusa sostegno linguistico, orientamento
e isolata >> relazioni coi pari
Mediazione linguistico culturale
Tutoring per minore e famiglia
Continuità di progetti scuola-extrascuola
Cr Da brava studentessa isolata e chiusa Raccordo docenti alfabetizzatori-docenti di classe
>> adolescente inserita in un gruppo
Valorizzazione dei risultati scolastici (premi)
Animazione di gruppo/laboratori di animazione
Laboratori di conoscenza del territorio, della città
Mi Abbandono comportamenti devianti >> Presa in carico della famiglia e del minore
diventa lavoratore e ha progetto di vita Percorsi formativi integrati (CTP e CFP)
Progetti di accoglienza, sostegno, accompagnamento,
mediazione linguistico-culturale
Valorizzazione dei risultati scolastici (incentivi, premi)
Lavoro di rete fra minore, scuola, famiglia, datore di lavoro
Stage lavorativi
Accesso al mercato del lavoro/Borsa lavoro
Mn Da studentessa isolata e chiusa >>
Percorsi di alfabetizzazione Italiano L2 mirata
adolescente matura, inserita in un
Lavoro di equipe docenti alfabetizzatori- docenti di classe
gruppo, soddisfatta, buoni risultati
Progetti di mediazione culturale
Progetti di sostegno e orientamento per famiglia e minore
Mi Da studente difficile >> a licenza media Team di mediazione dei conflitti
e buoni rapporti coi pari (capacità di
Raccordo cooperativa e scuola
inserimento e integrazione sociale)
Corsi di L2
Percorsi di orientamento e di accompagnamento con il
mediatore
Percorso formativo-didattico personalizzato
Programma specifico
Percorso di tutoring assieme al mediatore
Mi Da studente difficile e poco motivato
Raccordo cooperativa e scuola
(rischio abbandono) >> prosecuzione Sostegno scolastico
degli studi
Programma personalizzato
Laboratorio esperenziale
Laboratorio teatrale
81
I nomi dei soggetti intervistati non sono riportati in ottemperanza alle normative sulla Privacy.
229
Sostegno alla famiglia e orientamento
Mi Da studente bloccato e aggressivo
Corso di lingua Italiana
(rischio devianza e abbandono) >>
Sostegno didattico
prosecuzione degli studi
Orientamento
Mi Da studente invadente >> superamento Co-presenza tra insegnanti
balbuzie e motivazione allo studio
Attività esperenziali attraverso laboratori
Percorso di orientamento guidato
Didattica attiva, vicina alle inclinazioni
Mi Da ragazzo disadattato >> a lavoratore Percorsi educativi personalizzati modulari e flessibili
Relazione motivante educatore
Accesso al mercato del lavoro
Stage lavorativi
Conoscenza del territorio tramite uscite organizzate
Mi Da studentessa isolata e chiusa >>
Percorsi educativi personalizzati modulari e flessibili
adolescente matura, inserita in un
Attività di sostegno scolastico e/o lavorativo
gruppo, buoni risultati
Recupero gap linguistico in estate con corsi intensivi
Animazione di gruppo, relazioni nuove coi pari
Bg Da studente impacciato nei rapporti con Percorsi educativi personalizzati modulari e flessibili
adulti (rischio abbandono) >>
Sostegno psicologico
superamento blocco col padre, maturo e Sportello di sostegno allo studio
deciso a terminare ITC
Esperienza di lavoro in estate / stage lavorativi
Animazione di gruppo/laboratori teatrali/produzione di video
Esperienza di tutor tra pari
Mi Da studentessa disadattata >> a
Intervento psicologico
inserimento nella scuola e progetto di Supervisione degli operatori
vita
Relazione motivante con educatore
Va Da studentessa disadattata e isolata,
Animazione di gruppo, laboratori di animazione
incerta sul futuro >> a piano di vita,
Raccordo cooperativa e scuola
prosecuzione studi IPSIA, altre
Lavoro di rete fra minore, scuola, famiglia,
esperienze formative
Va Da studente poco brillante, timido,
Animazione di gruppo, laboratori di animazione
passivo >> maturazione,
Percorsi educativi personalizzati modulari e flessibili
ridimensionamento aspettative e scelta Attività espressive vicine a inclinazioni personali
del percorso idoneo (da ITC a CFP)
Mi Neo arrivato, spaesamento e isolamento Approccio formativo valido per adulti
>> riorientamento, no scuola ma uso Relazioni formali e attività strutturate
dell’italiano per inserimento lavorativo Percorsi educativi personalizzati modulari e flessibili
Mi Da studente disorientato (rischio
Accesso diretto al mondo del lavoro
abbandono) >> prosecuzione studi e Stage lavorativi
inserimento lavorativo
Rete di protezione cfp-azienda
Mi Da studentessa motivata ma chiusa e Animazione di gruppo, laboratori di animazione
isolata >> integrazione scolastica e
Raccordo docente alfabetizzazione –docente di classe
sviluppo espressività
Valorizzazione risultati scolastici (pubblicazione testi)
Cr Da studentessa motivata ma chiusa e Famiglia supportava
insicura >> più sicura nello studio,
Raccordo docente alfabetizzazione –docente di classe
consapevole della L2 come sistema, si Valorizzazione della L1
confronta con altri compagni
Mi Da giovane a rischio di evasione >>
Rete di protezione volontari-operatori-scuola
studentessa regolare e risultati scolastici Lavoro di rete fra minore, scuola, famiglia,
ottimi
Mi Da giovane a rischio devianza >>
Accesso diretto al mondo del lavoro
lavoratrice regolare e maturazione
Stage lavorativi
personale
Rete di protezione educatori-assistenti sociali
Ponte tra soggetto e datore di lavoro
Mi Da studente impacciato con la lingua, Animazione di gruppo
Relazione motivante educatore
triste e chiuso >> licenza media e
prosecuzione studi (prima IP poi CFP
Patto con la famiglia
con passerella)
Mi Da studentessa emarginata e già
Presa in carico della famiglia e del minore
abbandonante >> rientro a scuola
Rete di protezione volontari-operatori-scuola
230
13.2 La rete dei soggetti agenti
Una delle caratteristiche che il progetto Prisma da subito ha individuato come
fondamentale per portare al successo formativo, è quella della presenza di una rete di
scambi e relazioni tra soggetti diversi impegnati nell’intervento di accompagnamento
dei giovani stranieri. I tipi di reti coinvolti nei progetti, sono:
a) le reti create dal progetto, che hanno dato vita ad attività e a sperimentazioni
innovative
b) le reti attivate dal progetto
c) le reti in cui il progetto si inserisce.
In alcuni casi è stato utile agire sulle reti costituite dalle istituzioni presenti in un
territorio: reti tra scuole, tra scuole e CFP, tra scuole ed enti locali, in altri casi invece le
buone relazioni personali tra gli operatori hanno permesso di ottenere informazioni
altrimenti difficili da reperire. Ma le relazioni informali riguardano anche le famiglie, le
reti amicali o di vicinato, che in alcuni casi si sono rivelate importanti per collaborare al
buon successo del giovane.
Nelle reti attivate i soggetti che risultano sempre presenti, sono: una equipe di
progetto e un ente formativo (scuola, centri di formazione professionale); la scuola è
rappresentata, nella configurazione minimale, dall’insegnante referente per gli stranieri.
Altri soggetti presenti sono la famiglia del giovane e/o una comunità di accoglienza.
L’utente, l’operatore, la famiglia - e quando l’intervento è nella scuola- gli insegnanti,
risultano essere il vincolo per il successo. Un elemento emerso con evidenza è la
necessità di rafforzare, da una parte, le attività di comunicazione tra la scuola e
l’esterno, dall’altra di destinare ore al coordinamento interno alla scuola.
Per quanto attiene alle relazioni di rete si sono individuate almeno due tipologie
differenti di interazione positiva tra i soggetti della rete dei servizi:
a) Relazione di scambio: in questo caso i soggetti della rete condividono una cultura,
un approccio alle problematiche e quindi innescano processi di solidarietà d’azione.
Si tratta in genere di casi in cui dominano le reti già esistenti e le relazioni
informali.
b) Un lavoro di squadra: la rete è finalizzata all’efficienza e all’ottimizzazione delle
231
risorse, le finalità del lavoro in comune quindi sono meno ideali e più strumentali
rispetto al caso precedente.
Gli esiti principali del lavoro di rete sono stati:
- sostegno reciproco: significa poter godere dell’appoggio di esperienze altrui;
- condivisione di un approccio culturale;
- collaborazione all’interno di una rete di relazioni più ampie con possibilità di crescita
professionali degli operatori;
- sensazione di non sentirsi isolati, ma di operare all’interno di un contesto più ampio,
di essere parte di un processo e non di un’esperienza sporadica, porta un senso di
soddisfazione molto rilevante per chi lavora con i giovani stranieri.
13.3 I bisogni dei giovani stranieri e delle loro famiglie
Le risposte ai bisogni emergenti dei soggetti in gioco (ragazzi, famiglie, insegnanti,
ecc.), rappresentano un momento fondamentale sul quale interrogarsi. Si delineano qui
di seguito alcuni risultati emersi:
13.3.1 I Giovani
Per quanto attiene ai giovani la conoscenza della lingua è in assoluto il bisogno più
forte, primo strumento per l’accesso alla nostra società, sia in termini di istruzione o
formazione, sia per un’integrazione più complessiva nel mondo dei pari età e in quello
degli adulti. Infatti la lingua è intesa sia come uno strumento per comunicare con gli
altri, sia come uno strumento specificamente destinato allo studio e quindi al
conseguimento di risultati scolastici e formativi. In alcuni casi è stato importante
l’apprendimento delle competenze in L1 (lingua madre) per una crescita personale
puntuale. L’apprendimento delle competenze tecniche o delle nozioni fondamentali
delle discipline curricolari in lingua madre, nell’arco di tempo in cui parallelamente
avviene l’apprendimento dell’L2 (lingua italiana), ha consentito allo studente di sentirsi
232
più sicuro82.
Un problema specifico degli stranieri che giungono in Italia nella fascia d’età dai 14 ai
18 anni è quello di ottenere la certificazione di titoli di studio o professionali acquisiti
nel paese d’origine. Per effetto della mancanza di accordi tra i Paesi, quasi sempre i
percorsi seguiti in Patria risultano indifferenti e difficile è valutare l’acquisizione di
competenze, anche scolastiche, come prerequisiti all’ottenimento di certificati di studio
in Italia.
Inoltre specialmente se arrivati da poco, i giovani e le loro famiglie non conoscono
l’offerta presente sul territorio. Per questo risulta importante l’azione di orientamento
da parte di operatori che conoscono il territorio di appartenenza dei giovani e sanno
valutare le loro competenze e predisposizioni. In alcuni casi emerge la necessità di
informarli e di accompagnarli ai servizi del territorio: sportelli di orientamento, corsi di
lingua italiana per stranieri, supporto legale ecc. In alcuni casi, l’esigenza lavorativa
risulta preminente e diviene quindi necessario individuare percorsi scolastici o formativi
che permettano in tempi brevi l’acquisizione di competenze da spendere subito nel
mercato del lavoro.
Un’esigenza che talvolta segue l’orientamento è quella dell’iscrizione a scuola. In
questo caso i problemi sono di natura burocratica. In alcuni casi il problema è quello
che i giovani stranieri giungono nel nostro paese in qualsiasi momento dell’anno,
spesso quando l’anno scolastico è già iniziato. In questo caso emerge la necessità o di
inserire i giovani almeno come uditori, in modo che possano conoscere la scuola in cui
si iscriveranno molti mesi dopo, o quella di iscrivere direttamente i ragazzi, come la
legislazione vigente prevede. Subito dopo l’iscrizione emerge la necessità di poter avere
un adeguato sostegno scolastico: molti giovani presentano problemi di rendimento,
spesso a causa di una non adeguata conoscenza della lingua italiana, talvolta per
problemi specifici legati all’apprendimento di singole materie. Talvolta il sostegno è
82
Tuttavia questa strada nei fatti è ancora poco perseguita In altri stati invece ad esempio, la valutazione
delle competenze culturali degli adolescenti neo arrivati viene fatta nella lingua natale del ragazzo/a. Solo
in alcuni casi tale intuizione ha già trovato spazio e soluzioni operative, che vedono, a fianco dei corsi di
lingua italiana, momenti volti al mantenimento e allo sviluppo parallelo del lessico d’origine avvalendosi
dell’aiuto di mediatori.
233
rivolto a individuare le aree disciplinari di maggiore difficoltà e non a fornire una
preparazione generica.
Uno dei sentimenti più insidiosi per giovani giunti da poco in un nuovo contesto o poco
integrati è quello della solitudine. Da questo punto di vista, risulta importante, se si
desidera ottenere un successo a livello scolastico o formativo, tenere conto della
necessità che molti giovani manifestano di un vero e proprio sostegno affettivo. Per
questi giovani prendere parte a progetti con attività di tipo espressivo significa
soprattutto iniziare a conoscere dei coetanei, uscire dal proprio isolamento e questo
contribuisce in maniera determinante a rafforzare la motivazione allo studio. Inoltre, fin
dai momenti di prima accoglienza, passando dalla partecipazione ad uno o più percorsi
educativi per continuare anche dopo esser entrati nel mondo del lavoro, è importante
che i ragazzi possano contare su punti di riferimento adulti che li introducano e li
accompagnino nel percorso dell’integrazione.
Sempre nel novero dei bisogni di carattere affettivo/espressivo possiamo infine
considerare il bisogno di autostima. Esperienze scolastiche negative, difficoltà
linguistiche o di apprendimento possono portare vissuti di frustrazione e la sensazione
di non essere in grado di svolgere i propri compiti. Per questo tale bisogno emerge in
molti dei casi analizzati. Uno dei risultati più rilevanti infatti è stato quando il giovane si
è reso conto di avere le capacità per raggiungere i suoi obiettivi (capire di “potercela
fare”).
Molti giovani chiedono di conoscere la nuova cultura in cui si trovano, un bisogno di
conoscenza che spazia dagli aspetti culturali, alle tradizioni e, soprattutto, alle “regole
del gioco”. Mostrano cioè un interesse specifico per capire come funzionano le relazioni
tra insegnanti e studenti, vogliono capire fin dove possono arrivare e dove invece si
devono fermare. Si tratta dunque di un interesse di natura culturale e “civico” insieme.
I ragazzi intervistati riscontrano, soprattutto nei loro primi periodi di presenza, delle
difficoltà nella socializzazione tra pari, che non sono propriamente coetanei e che non
hanno esattamente né i loro vissuti né le loro prospettive di futuro. L’esigenza di
confrontarsi con la stessa classe d’età non viene soddisfatta dalla maggior parte degli
istituti ed enti preposti, tranne qualche eccezione, che nell’inserimento ancora
234
associano ragazzi stranieri molto grandi (17, 18 anni) con studenti italiani più piccoli
(13, 14 anni), non rispettando le linee guida del ministero83.
La ricerca di un gruppo con cui poter condividere l’esperienza migratoria sembra essere
una costante. I gruppi interclasse di attività pomeridiane consentono di liberare quelle
capacità espressive, solitamente vincolate. La percezione di essere in un gruppo di pari
con difficoltà simili consente un allentamento della tensione e favorisce la
socializzazione.
In alcuni casi isolati ma significativi, invece emerge la necessità di rispondere a conflitti
espliciti con i coetanei. In qualche caso si tratta di semplici difficoltà relazionali, in altri
la tensione nasce da problemi caratteriali; spesso il problema è legato alla differenza di
età.
13.3.2 Le famiglie
Una figura di sicuro riferimento per la famiglia è quella del mediatore culturale, un
aggancio al sistema di istruzione/formazione professionale. Il mediatore, oltre a curare
la relazione con l’istituzione, è chiamato anche fare da tramite per la comprensione del
sistema e agevolare le famiglie nell’uscire dall’isolamento che le induce a rinchiudersi
entro il cerchio della comunità di appartenenza.
Nel caso di ricongiungimento familiare, il lavoro sulla famiglia dovrebbe iniziare dal
momento in cui si decide di fare entrare il minore in Italia e proseguire nel nuovo
contesto.
Si sono individuate come necessarie alcune attività, nate dalla lettura dei bisogni
impliciti e/o espliciti:
- attività di orientamento volta a dare forma concreta e attuabile al desiderio del
genitore di portare in Italia il minore. E’ necessario sollecitare i genitori a
immaginare cosa significhi rivedere la propria vita presente, alla luce del progetto di
ricongiungimento.
- attività di mediazione culturale che prepari l’adulto straniero all’arrivo in Italia del
83
Cfr riferimento Linee Guida per l’Accoglienza e l’Integrazione degli alunni stranieri 2006.
235
minore. E’ necessario sollecitare l’adulto a riflettere sui cambiamenti che il tempo e
l’esperienza trascorsa in Italia hanno operato in lui, e a prendere in considerazione
la possibilità che altrettanti cambiamenti si siano operati nel figlio.
- attività di informazione e orientamento della famiglia alle risorse educative/ricreative
sul territorio in grado di sostenere e accompagnare l’inserimento del minore nella
scuola. E’ necessario creare reti solide con esperienze come i “dopo scuola/fuori
scuola” intesi come ambiti educativi guidati, al di fuori del tempo della classe
tradizionale, finalizzati a rafforzare le competenze linguistiche del minore, agevolare
la fase di ambientamento / inserimento e ridurre il rischio di marginalizzazione.
- attività di orientamento della famiglia volta a preparare il minore ancora nel paese di
origine all’arrivo in Italia. E’ utile fare in modo che l’adolescente porti con sé i titoli di
studio conseguiti nel paese di origine, in modo tale che sia più facile ipotizzare al
suo arrivo progetti di formazione superiore o professionale che rispettano e
valorizzano il cammino già percorso.
- attività di orientamento del minore e della famiglia a scelte consapevoli rispetto al
futuro. Tale attività dovrà partire dall’ascolto e da una lettura approfondita e
complessiva della situazione e del “bisogno” sia del giovane che della famiglia a cui
appartiene
(esigenze
di
lavoro/formazione,
problemi
economici,
problemi
documentali, ecc.), al fine di valorizzare quanto più possibile le risorse esistenti
dentro e fuori il nucleo familiare (rapporti parentali, relazioni con realtà presenti sul
territorio, già attivate o da promuovere).
- attività di consulenza su problemi documentali. Tale attività appare particolarmente
necessaria nel momento di passaggio del minore alla maggiore età, per evitare che
il giovane e la sua famiglia maturino decisioni che influiscano negativamente sui
progetti futuri dei figli (la scelta di un permesso per motivi di lavoro a 18 anni non
permette di dedicarsi solo allo studio perché il rinnovo del titolo di soggiorno da quel
momento è legato all’effettivo svolgimento di una attività lavorativa; la scelta di un
permesso per studio lascia al giovane la possibilità di continuare a studiare e
cominciare a svolgere una attività lavorativa).
13.3.3 I bisogni degli altri soggetti
Per garantire un più lineare inserimento lavorativo, il datore di lavoro deve poter
236
ottenere delle
garanzie non solo sul ragazzo, ma soprattutto sul fatto che – ad
accompagnarlo - ci sia un soggetto competente e qualificato che abbia funzione di
supporto educativo e che si faccia carico di alcune incombenze burocratiche che
esulano dal lavoro. E’ importante che il datore di lavoro si senta sostenuto nel rapporto
col ragazzo affinché superi ogni tipo di riserva.
Risulta utile creare alleanze con gli imprenditori per ottimizzare gli interventi di
accompagnamento al lavoro, concretizzando dei modelli di relazione tra le partilavoratore, azienda, soggetto non profit (laddove c’è) – che rendono più efficace e
duratura l’azione e contribuiscono a fare crescere le persone come anche gli ambiti in
cui si opera.
I bisogni che per primi emergono dalle pratiche analizzate sono quelli della scuola nel
suo insieme e degli insegnanti impegnati nei progetti in particolare. Gli insegnanti
rivendicano un bisogno di riconoscimento del proprio compito di alfabetizzatori, specie
se avviene in aggiunta rispetto a quello didattico ordinario. Infatti spesso occuparsi di
alunni stranieri significa sostenere il peso di un lavoro di programmazione ulteriore,
rispetto alla normale attività scolastica e magari rimanere chiusi nel “ghetto” degli
specialisti dei casi difficili.
Sia gli insegnanti che le equipe dei progetti manifestano soprattutto il bisogno di
lavorare con continuità nelle situazioni in cui si trovano ad operare: non sapere se i
progetti in cui sono impegnati e che, magari, stanno ottenendo brillanti risultati,
saranno oppure no riproponibili l’anno successivo, costituisce una difficoltà sia in
termini di motivazione che di programmazione educativa. A questo limite si lega anche
quello delle risorse economiche ed umane: è importante sapere per tempo se sarà
possibile contare sul contributo degli stessi professionisti.
Un’ultima esigenza segnalata è quella della formazione professionale, che deve essere
continua per poter garantire servizi sempre all’altezza delle richieste. Lavorare a
contatto con soggetti di altra lingua e cultura richiede, come è noto, una solida
preparazione in ambito interculturale e di mediazione.
13.4 Le buone pratiche d’intervento
Un percorso formativo attento alle necessità dei singoli soggetti, deve avere come
237
caratteristiche prevalenti la processualità84 e la modularità85, accompagnate da una
forte chiarezza degli obiettivi formativi e dei confini del mandato istituzionale. I
momenti cardine di processualità e modularità sono rappresentati da accoglienza,
orientamento e percorsi ad hoc.
Ogni percorso parte da un incontro di accoglienza, sia per compiere un’analisi dei
bisogni delle aspirazioni e delle aspettative, sia per istituire un “ponte comunicativo”.
Questo momento si rivela particolarmente significativo nel caso di famiglie straniere
spesso disorientate di fronte al “nuovo modo/mondo-scuola/formazione”. Uno
strumento di particolare interesse, è il protocollo di accoglienza, da intendersi quale
modalità certificata dal sistema di istruzione/formazione, grazie alla quale la presa in
carico del ragazzo e della famiglia, viene codificata e condivisa86.
Il secondo momento è rappresentato da un’attività di orientamento. Si tratta dell’avvio
a una relazione facilitata e sostenuta per permettere di rafforzare le potenzialità non
solo del ragazzo e della famiglia, ma anche della scuola ottimizzando il lavoro di rete e
di confronto.
Come già anticipato, nel caso di minori stranieri occorre pensare ad un modello
formativo processuale e personalizzato, e ad una modularità delle pratiche formative,
84
Con processualità si intende un’attenzione strutturale del percorso ai cambiamenti dei bisogni e delle
competenze dei soggetti lungo l’asse temporale, in modo da potersi riconfigurare in itinere per non
perdere in efficacia ed incisività nell’interazione con i soggetti.
85
Con modularità si intende la predisposizione di molteplici attività, complementari tra loro ed in grado di
soddisfare il più ampio spettro possibile dei bisogni di ogni singolo soggetto, in modo che costui,
spostandosi da un modulo all’altro lungo il percorso, possa integrare ed ampliare le proprie competenze.
86
La normativa italiana indica principi e linee guida che riguardano l’inserimento e alla frequenza
scolastica degli alunni stranieri, ma lascia una grande autonomia alle istituzioni scolastiche, e al Collegio
dei Docenti in particolare, nell’organizzare l’attuazione di queste indicazioni. Il protocollo di accoglienza
individua gli obiettivi del percorso di accoglienza, indica le diverse fasi e i tempi del percorso, definisce i
compiti dei diversi operatori scolastici, individua le attività di facilitazione per l’apprendimento della lingua
italiana, indica i possibili rapporti e collaborazioni con enti, organismi e istituzioni
che operano sul
territorio. Esso ha lo scopo di: incoraggiare un inserimento positivo degli studenti stranieri di recente
immigrazione, favorire il loro successo formativo, promuovere iniziative interculturali che sviluppino la
conoscenza e il dialogo tra culture.
238
tra cui possiamo citare, come pratiche di successo: il sostegno linguistico culturale, le
attività di sostegno alla persona. per minori in difficoltà sul piano cognitivo o affettivo, i
laboratori artistici ed espressivi.
Nei casi analizzati, gli interventi di mediazione mostrano tutta la potenzialità e
polivalenza che i mediatori linguistico culturali, nuove figure professionali che operano
all’interno delle scuole e dei contesti educativi multiculturali, esplicano nello
svolgimento della loro funzione. In particolare, sono stati utili nel far emergere i bisogni
reali e le risorse dei giovani e delle loro famiglie. La conoscenza della stessa lingua
madre (L1), l’appartenenza alla medesima cultura facilitano comunicazioni più mirate,
permettono relazioni più sciolte fra mediatori e giovani stranieri, favoriscono confronti
in profondità e possibilità di orientare i giovani verso scelte professionali più idonee alle
reali possibilità e in sintonia con aspettative e aspirazioni. Ma all’interno della scuola
multiculturale la nuova figura professionale del mediatore, pur ritenuta indispensabile
da insegnanti e operatori, genera a volte incomprensioni profonde e determina scontri
sulle differenti modalità di concepire la relazione educativa. Diversità che rimandano ai
modelli culturali dei paesi di appartenenza.
Molti intervistati evidenziano il peer tutoring come buona pratica d’intervento, sia
quando esplicitamente prevista, sia nei casi in cui essa non è formalizzata. Diverse
sono le modalità di realizzazione e ad ampio spettro è la valenza formativa delle attività
di tutoring fra pari: interventi di tutoring person to person, interventi che vedono un
singolo tutor all’interno di un piccolo gruppo di pari. In particolare gruppi di
apprendimento cooperativo di cui facciano parte studenti italiani avrebbero la funzione
di potenziare in modo ”naturale” l’apprendimento di un adeguato lessico finalizzato allo
studio e alla comunicazione. Il tutoring tra ragazzi stranieri già scolarizzati in Italia e
ragazzi di recente arrivo costituirebbe una forma di mediazione all’inserimento, in
quanto consentirebbe un’identificazione positiva con chi ha già sperimentato come
percorribile un’esperienza di integrazione. I tutor e i peer educator vanno ovviamente
selezionati e formati e necessitano a loro volta di un riferimento a cui rivolgersi per una
consulenza in caso di difficoltà e di un coordinamento.
Un fattore comune a tutti i casi esaminati è la necessità di apprendere la L2; pertanto
le attività di alfabetizzazione rivestono un’importanza cruciale nel processo di
integrazione. Infatti la possibilità di comunicare è la condizione essenziale per potersi
inserire nel nuovo contesto sociale e scolastico rappresentato dal Paese di accoglienza.
239
Per questo motivo si rendono necessarie delle azioni di alfabetizzazione mirata a
sostenere e ad accompagnare i minori stranieri nel raggiungimento dei loro obiettivi.
Gli approcci possono essere diversi, dai progetti personalizzati, all’uso di tecniche
flessibili, ricorrendo a tutte le strategie comunicative.
I punti di forza della pratica formativa sono rintracciabili nell’utilizzo del metodo
cooperativo
legato
all’apprendimento
e
all’alfabetizzazione
della
lingua,
che
rappresenta un elemento di sostegno per incentivare i rapporti di socializzazione tra i
ragazzi: “il punto di forza di “progetto giovani” è che da una parte vediamo che i
ragazzi sono contenti di stare insieme, di ridere, di scherzare, di essere ragazzi”.
Questo concetto appare centrale ai fini dell’integrazione e dell’accettazione dei ragazzi
stranieri. Il metodo di lavoro cooperativo si attua attraverso la costituzione di gruppi di
attività e permette ai partecipanti di superare le difficoltà iniziali evitando il rischio di
emarginazione sociale, consentendo loro di vivere positivamente il nuovo contesto
scolastico attraverso le relazioni positive instaurate con le figure educative adulte ed i
pari.
L’approccio utilizzato nell’ambito del progetto “Con Parole Cangianti” di Crema consiste
nell’adattamento del corso alle esigenze di volta in volta evidenziate dai ragazzi,
mantenendo il collegamento con le attività svolte nelle altre discipline e agevolando il
superamento delle difficoltà emerse nell’affrontarle. L’idea di fondo è quella di offrire ai
ragazzi un supporto sistematico all’apprendimento della lingua sfruttando allo stesso
tempo le capacità e le competenze acquisite nella lingua madre da valorizzare come
una vera e propria risorsa. L’attività ha stimolato il più possibile il confronto tra le
lingue, spesso attraverso la ricerca di modalità creative e fantasiose, contraddistinte da
una flessibilità e da una modularità in grado di adattare gli interventi al progressivo
mutare delle conoscenze e capacità dei ragazzi.
Per rendere ancor più efficace l’alfabetizzazione occorrerebbe promuovere, a livello di
rete, l’insegnamento della lingua italiana livello A1, investendo poi maggiormente
all’interno di ciascun Istituto nei livelli successivi, finalizzati al passaggio dalla “lingua
per comunicare” alla “lingua per studiare” con un forte collegamento ai vari indirizzi
scolastici. Tali percorsi di alfabetizzazione mirata possono avere come esito la
240
certificazione delle competenze linguistiche
(CILS)
che costituisce un significativo
elemento curricolare87. Poiché il processo di apprendimento della L2 viene
normalmente sviluppato in più anni, emerge la necessità imprescindibile di offrire
continuità alle azioni intraprese. Infine è emersa come rilevante la formazione rivolta
agli insegnanti per dotarli di strumenti adeguati ad affrontare la didattica tenendo
conto delle esigenze dei loro alunni stranieri.
Un ulteriore elemento di innovazione metodologica consiste nell’adozione del Portfolio
delle competenze come strumento di raccolta e valutazione significativa del percorso
formativo dell’allievo/a attraverso una serie di notizie e di indicatori raccolti in ingresso,
in itinere ed in uscita rispetto alla formazione intrapresa88.
87
PDL00220-07 p.II, cap. III, 1 “I processi ed i dispositivi di certificazione e riconoscimento sono riferiti
alla centralità delle acquisizioni reali della persona, in termini di competenza, attraverso la loro messa in
trasparenza, al di là del percorso svolto e dell’ambito di acquisizione […] A tali certificazioni corrispondono
documenti con diverso valore, anche in termini di credito formativo e di “spendibilità”, sia nell’ambito
formale dell’istruzione e della formazione, sia nell’ambito del mercato del lavoro”.
88
Schematicamente la funzione e la struttura del Portfolio possono essere riassunte come segue:
- utilizzo: per gestire lo sviluppo professionale, per preparare un ingresso in formazione, per gestire la
carriera, per sostenere l'autocandidatura, per favorire il riconoscimento dei crediti e le "passerelle";
- obiettivo: inventariare la memoria storica delle competenze, sviluppare la consapevolezza e accrescere
l'autostima, elaborare il progetto professionale, aiutare a sostenere una negoziazione;
- contenuti parte ricostruttiva: bilancio cronologico delle esperienze professionali, formative ed
extraprofessionali, analisi delle esperienze professionali, formative ed extraprofessionali, multi assessment,
mappa delle competenze;
- interessi, valori e motivazioni professionali: priorità professionali, settori di interesse;
- risorse psicosociali e cognitive per fronteggiare il cambiamento: competenze sociali, autostima e
autoefficacia, fronteggia mento, esame di realtà, atteggiamento verso il futuro e orientamento al
cambiamento;
- progetto e piano d'azione: il profilo della professione, competenze spendibili e competenze da
ottimizzare, pianificazione del progetto. PDL00220-07 p.II, cap. I, 3.2 “La sezione del portfolio dedicata
all’orientamento mira a documentare i risultati raggiunti dallo studente ed a mettere a fuoco il suo
progetto personale. […] Quest’ultima sezione deve essere sistematizzata secondo precisi criteri di scelta
241
Nell’ambito della ricerca effettuata è emersa, da numerosi casi, come buona pratica
educativa la personalizzazione, cioè la ricerca di un percorso educativo rispondente alle
esigenze
e
alle
caratteristiche
della
persona
nella
sua
totalità.
Parlare
di
personalizzazione nel contesto migratorio vuol dire affinare maggiormente tutti gli
strumenti di ascolto e di indagine dei bisogni del soggetto migrante e degli altri attori
del processo educativo. I percorsi personalizzati si sono manifestati nella ricerca con
diverse configurazioni e molteplici sfaccettature, rispetto alle situazioni personali dei
minori, ai contesti socio-familiari di partenza, ai progetti realizzati a partire dai concreti
e immediati bisogni individuali di ogni soggetto.
Trasversale a tutti i suddetti percorsi è la presa in carico totale del minore e, a volte,
anche della famiglia, il lavoro di squadra fra tutti gli operatori e l’importanza della
figura adulta di riferimento, la formulazione di un piano di vita realistico, la
maturazione personale, percorsi sfociati in inserimento scolastico, sociale o lavorativo.
Testimonianze a più voci sottolineano il valore pedagogico e didattico di attività ludicoespressive, attività teatrali, tecniche di animazione, simulazioni di situazioni relazionali.
Metodologie alternative che facilitano processi di apprendimento e di crescita
personale, attraverso le quali è possibile perseguire obiettivi molteplici: dalla
conoscenza indiretta dei vissuti, delle paure, dei desideri all’apprendimento della lingua
italiana, alla conoscenza dei bisogni, alla scoperta delle proprie risorse. Metodologie più
frequentemente adottate nei progetti extra-scuola dagli operatori che sollecitano la
scuola a rivedere metodi e attività didattiche tradizionali, a sperimentare approcci
alternativi. La sperimentazione a scuola di tecniche di animazione e attività ludicoespressive può essere utile anche a capire meglio quanto e come l’apprendimento, che
passa attraverso la messa in gioco delle emozioni, possa diventare strumento di
facilitazione dell’integrazione dei soggetti a rischio di dispersione scolastica.
Molti progetti hanno realizzato inoltre uscite guidate con l’obiettivo di far conoscere
strutture, istituzioni, figure di riferimento vicine al luogo di abitazione dei ragazzi e, al
tempo stesso, di ottenere una
prima alfabetizzazione linguistica proprio a partire
dall’esperienza diretta. Scoperta di luoghi, di cose, di persone e contemporaneamente
individuati dalle istituzioni formative”.
242
delle parole nella nuova lingua italiana.
La conoscenza del territorio, delle opportunità ricreative, delle risorse formative può
produrre, anche un cambiamento generale di sguardo e di atteggiamento.
Sempre più emerge il valore del tempo libero e la sua valenza educativa: nel progetto
“Minori ex Minori” di Milano viene sperimentata con successo la vacanza protetta in
gruppo con ragazzi italiani e stranieri. La particolarità di questa esperienza è quella di
essere pensata da giovani per i giovani: la vacanza, infatti, è organizzata da un gruppo
di responsabili di età compresa tra i 20 e i 24 anni in stretta collaborazione con un
gruppo di animatori aventi la stessa età dei partecipanti. La vacanza viene realizzata
all’interno di strutture autogestite per favorire la responsabilizzazione inerente la cura
della struttura e l’organizzazione delle giornate.
Un ruolo di grande rilievo assumono le esperienze di alternanza (tirocinio formativo o
scuola bottega) La possibilità di accedere al mondo del lavoro durante il percorso di
formazione consente ai ragazzi di sperimentarsi direttamente con la pratica, sorvolando
sulle difficoltà linguistiche e valorizzandone le capacità. In questo modo si favorisce
l’evoluzione positiva dei partecipanti non solo dal punto di vista delle abilità e
competenze tecniche ma anche rispetto alle capacità relazionali ed all’accrescimento
dell’autostima. Nel caso del “Laboratorio Teatrale” di Varese il lavoro di potenziamento
delle capacità comunicative ha trovato esito nell’esperienza di tirocinio, dove appariva
centrale possedere e manifestare una buona capacità relazionale. Dal punto di vista
dell’efficacia, l’esperienza formativa insita nell’opportunità di stage consente al datore
di lavoro di osservare e di valutare i ragazzi in azione, facilitando il loro inserimento
nel mondo del lavoro.89 La modalità della scuola bottega consente di rinforzare
conoscenze teoriche di base parallelamente alle competenze pratiche adeguate alle
attitudini dei ragazzi e facilmente spendibili sul mercato del lavoro.90 Questa particolare
89
PDL00220-07 p.II, cap. II, 1.1. “Pur nella diversità delle soluzioni individuate, va comunque precisato
che l’alternanza si qualifica come una opzione pedagogica forte e come un nuovo stile di insegnamento e
di apprendimento. La didattica dell’alternanza non deve pertanto costituire un’esperienza occasionale,
caratterizzata per il suo svolgimento in orario aggiuntivo, ma connotarsi come una metodologia di
apprendimento sul campo che richiede a pieno titolo un congruo utilizzo del tempo scuola. “
90
PDL00220-07 p.II, cap. II, 1.2. “Per il settore artigiano l’ambito più idoneo per la tipologia formativa
243
attività svolta in rete tra i centri territoriali permanenti per l’istruzione e la formazione e
i
centri
di
formazione
professionale
può
condurre
contemporaneamente
al
conseguimento della licenza media e allo svolgimento del primo anno di formazione
professionale. Con il vantaggio di far recuperare almeno in parte gli anni scolastici
perduti a causa della migrazione, della non conoscenza della L2, delle vicissitudini
familiari, ecc.
Nei casi in cui si rende necessario l’inserimento lavorativo diretto del minore si può
attivare lo strumento della Borsa Lavoro, che rappresenta la possibilità di
accompagnare e inserire i ragazzi nel mondo del lavoro attraverso tirocini formativi,
favorendo l’acquisizione delle competenze e degli strumenti professionali, ma
soprattutto garantendo la tutela affinché i giovani non si sentano sfruttati in quanto
minorenni stranieri. L’attività propedeutica all’attivazione della Borsa Lavoro prevede un
percorso di orientamento.
Rendere possibile il passaggio di un giovane da un percorso formativo ad un altro,
sostenendolo nell’acquisizione di quelle conoscenze, abilità e competenze non previste
nel percorso formativo di provenienza, ma necessarie in un diverso indirizzo formativo
è un obiettivo che può essere raggiunto attivando laboratori di recupero e di sviluppo
degli apprendimenti; Le istituzioni formative coinvolte possono attuare un confronto
per certificare e riconoscere i crediti in uscita ed in ingresso, tramite il bilancio delle
risorse personali, l’analisi dei certificati, l’accertamento di conoscenze, di abilità e di
competenze. Inoltre il possibile confronto può aiutare a definire e a co-progettare le
acquisizioni necessarie che sono oggetto del LARSA.91
Infine si deve sottolinerare come il contesto in cui si inquadra la filiera
istruzione/formazione-lavoro e i cambiamenti radicali che si sono verificati negli ultimi
dell’alternanza è specificamente la bottega scuola, luogo d'incontro e di formazione per i giovani che
vedono nell'artigianato di qualità una concreta prospettiva professionale”.
91
PDL00220-07 p.I, cap. I, 2. “I percorsi ordinamentali di IFP in DDIF e di formazione superiore, […]
comprendono adeguati interventi di orientamento, azioni formative di contrasto al fenomeno della
dispersione, laboratori di approfondimento, recupero e sviluppo degli apprendimenti (LARSA), anche ai fini
del passaggio tra i percorsi dei due sistemi di Istruzione e di IFP”.
244
anni, hanno richiesto anche agli operatori (educatori, formatori, insegnanti) di dotarsi
di approcci e strumenti nuovi, capaci di leggere i “segnali” dei giovani per meglio
interagire e fornire loro risposte significative.
Tra i molteplici e rilevanti effetti che i cambiamenti di ordine strutturale hanno avuto,
figurano le modificazioni riguardanti la conoscenza e le competenze che formazione e
lavoro assumono come propri riferimenti. Alcuni tratti paiono, a questo proposito,
particolarmente rilevanti:
le competenze (professionali, sociali), in rapida evoluzione, richiedono forme di
apprendimento flessibili
La conoscenza non viene più limitata al campi dei saperi formali ed espliciti; accanto ad
essi risultano importanti, ai fini del successo professionale e della partecipazione alla
vita sociale, anche i saperi taciti e informali
I criteri di apprezzamento delle competenze propri del mondo del lavoro e della vita
sociale sono assai diversi da quelli adottati dai sistemi di istruzione
I saperi e le competenze richiesti devono essere coerenti col contesto di riferimento
anziché generali e decontestualizzati.
13.5 Suggerimenti di policy
Nel cercare di delineare quali azioni possano essere messe in campo per sostenere il
percorso dei minori stranieri e la loro corretta integrazione occorre partire dalla
constatazione che esso è estremamente complesso e variegato basti pensare alla
multiformità tipologica. Diverse sono le tipologie di migrazione dei minori: vanno dal
minore nato all’estero da genitori stranieri e coinvolto in un progetto migratorio, a
quello arrivato per ricongiungimento familiare, a quello nato in Italia da genitori
stranieri regolari, al minore figlio di cittadini stranieri irregolari, a quello adottato, al
minore presente in Italia senza riferimenti famigliari precisi, ai figli di rifugiati, ai
ragazzi nomadi. Diverso è il mondo valoriale dei minori immigrati di prima e di seconda
generazione (di questi ultimi il progetto Prisma non si è occupato). I giovani di seconda
generazione conoscono la lingua del Paese di destinazione e vivono “nella terra di
mezzo” in termini valoriali (in parte ancorati ai valori del Paese di origine, in parte
attratti da quelli del paese di destinazione). Inoltre la loro percezione soggettiva della
245
soglia di povertà è assai differente da quelli di prima generazione, essi infatti partono
da una condizione ben diversa, non hanno l’esperienza del loro paese d’origine e si
confrontano con i loro coetanei italiani.
Un’altra difformità è quella connessa alla distribuzione del fenomeno sia a livello
nazionale, sia a livello locale (ci sono quartieri cittadini nei quali la presenza di studenti
stranieri è elevatissima).
Dal punto di vista normativo, al di là delle misure specifiche, si fa riferimento alle linee
guida ministeriali, il punto di partenza dichiarato è che “i minori stranieri […] sono
innanzi tutto persone e, in quanto tali, titolari di diritti e doveri che prescindono dalla
loro origine”. Sempre nell’ambito di queste linee-guida viene fatto riferimento alla
necessità di sostenere gli studenti attraverso piani di studio per la costruzione di
percorsi educativi personalizzati, aiutare gli insegnanti a favorire l’accoglienza e
l’integrazione dei minori stranieri, a coinvolgere nei processi le famiglie.
L’affronto del problema (sia a livello di coscienza popolare, sia nell’alveo del dibattito
culturale e scientifico) si dibatte tra due posizioni estreme; da un lato quella di chi
ritiene che solo eliminando le comunità si possa giungere alla vera integrazione,
dall’altro quella di coloro pensano che proprio rafforzando le appartenenze, sia
possibile arrivare ad una forma di integrazione basata su un nucleo monoculturale
forte, arricchito da diversi gruppi in vista di una società dalle appartenenze multiple. Un
modello intermedio e più realista potrebbe essere rintracciato nel concetto di identità
arricchita. L’identità arricchita presuppone una chiara conoscenza di sé, una personalità
forte, ma non fanatica capace di apertura perché non teme il confronto; proprio
partendo dal punto in cui ci si trova, dalla propria cultura, dalla propria storia,
attraverso la conoscenza dell’altro e anche attraverso l’identificazione delle reciproche
differenze, si può creare un modello di integrazione. L’idea di fondo da cui partire è che
alla base di intercultura e di integrazione vi sia l’idea di identità e che – per poter
individuare, accogliere, discutere la diversità – occorre entrare nel merito delle
differenze identitarie e, dunque, conoscere a fondo chi siamo, la nostra storia, le nostre
radici, ma anche chi sono e da dove vengono i nostri interlocutori;
Per quanto attiene al luogo in cui deve avvenire l’integrazione è necessario sottolineare
che esso non coincide con un solo ambito (ad esempio la scuola); esso deve potersi
svolgere dentro e fuori la scuola, in una prospettiva di modularità e di erogazione
246
continuativa di risorse che permetta agli operatori coinvolti di gestire un processo –
quale quello dell’integrazione, che si presenta come necessariamente lungo.
Date le premesse, è evidente che – anche in termini di risposta – occorra un approccio
sistemico, a rete, in grado di fornire competenze specifiche in funzione dei bisogni e
delle aspettative emergenti. Una rete in grado non solo di aiutare i giovani
nell’acquisizione e nel riconoscimento di nuove conoscenze e competenze, pur di
fondamentale importanza per avviare il processo di integrazione (conoscenze
linguistiche, supporto e motivazione allo studio, ecc.), ma capace di mettere in atto un
sistema psico-affettivo e delle relazioni, di creare un sistema di protezione, di
accompagnare. Sinteticamente questo approccio può essere sintetizzato nel concetto
della “presa in carico” del soggetto; una presa in carico completa. Alla base della
costituzione di questa rete, tuttavia, deve esserci la condivisione di un’idea comune che
non può essere quella che si muove in una prospettiva acculturante, ma piuttosto che
parte dal riconoscimento dell’importanza della questione educativa; infatti lo stesso
successo formativo è l’esito di una prassi educativa, che non necessariamente coincide
con la riuscita scolastica, ossia con gli apprendimenti raggiunti e certificati da un dato
grado di istruzione, quanto piuttosto il risultato di un percorso di accompagnamento
vissuto dal giovane straniero in riferimento al contesto di provenienza, all’esperienza
migratoria, alle sue aspirazioni nella società di accoglienza e al suo inserimento nel
contesto di destinazione.
Data la multidimensionalità del fenomeno, la presa in carico presuppone il
coinvolgimento di tutti gli stakeholder che possono avere un’incidenza sul ragazzo:
insegnanti, mediatori, tutor e formatori, datori di lavoro, genitori. Esperienze di questo
tipo esistono e in questo volume se ne citano alcune, ma spesso esse subiscono una
sorta di allentamento a seguito dell’esaurirsi dei progetti che le hanno generate.
Il compito primario dei sistemi di governance deve essere quello di superare la logica
della sperimentazione del bando a fine di strutturare reti stabili, plurime e coprogettanti, che sono quelle che meglio possono rispondere al problema nelle sue
molteplici sfaccettature.
A titolo esemplificativo si può definire performante una rete, come quella attivata dal
progetto PRISMA, in cui siano presenti: il giovane, un’equipe tecnica costituita da
mediatore, insegnante, formatore (operatore), a volte da uno psicologo, un
247
pedagogista, la famiglia del giovane o la comunità di accoglienza, gli enti locali
(amministratori, operatori dei servizi socio-sanitari…), il gruppo dei pari età del giovane
straniero, i volontari, il datore di lavoro.
Nel progetto Prisma, quasi tutti i soggetti hanno avuto un ruolo attivo già nella
definizione strategica delle linee di intervento e nella creazione degli strumenti ad esso
necessari. Si tratta di capire come questo tipo di modello può divenire una forma
strutturata di risposta alle esigenze dei minori stranieri.
248
14.
Gli immigrati adulti
Le dinamiche migratorie, nelle dimensioni e nelle direzioni che hanno acquisito a
partire dagli anni novanta, rappresentano uno dei fenomeni economici e sociali più
rilevanti, anche in virtù dei processi geopolitici in atto, tra i quali il calo demografico
dei paesi OCSE e in particolare dell’Italia, l’approfondirsi delle differenze tra paesi ricchi
e paesi poveri del mondo, l’allargamento europeo, la nascita di nuove potenze socio
economici nel mondo, l’esplodere di conflitti per il controllo delle risorse strategiche.
Tali fattori condizionano anche la percezione dell’altro e del diverso nella polarità tra
l’indebolirsi degli elementi identitari nazionali e il radicalizzarsi di elementi etnicoreligiosi. Affrontare il problema delle migrazioni significa dunque affrontare una
molteplicità di elementi: demografico, economico, sociale, etico, politico.
Il Rapporto annuale Caritas/Migrantes del 2007, che rappresenta un punto di
riferimento per gli osservatori, rileva che l’Italia è uno tra i primi paesi in Europa per
numero di stranieri. La stima, su dati, è opportuno ricordare, che provengono da fonti
statistiche disaggregate e in parte incomplete, fa riferimento ai residenti (iscritti alle
anagrafi dei comuni) e ai soggiornanti (non iscritti perché con progetti migratori a
breve termine o perché precari nell’alloggio), per un totale di 3.690.000 cittadini
stranieri come ipotesi massima (6,2% della popolazione). Ancora più significativo è il
dato dell’incremento annuale, che risulta il più alto d’Europa, insieme alla Spagna,
ancora maggiore del tasso degli Stati Uniti misurato in proporzione alla popolazione. In
Italia questa esplosione numerica ha diverse cause, tra le quali è opportuno citare la
posizione di frontiera, sia rispetto alla riva sud del Mediterraneo, sia rispetto all’est
Europa. E’ d’altra parte vero che l’Italia non è più solo terra di transito per raggiungere
altre mete europee, in particolare la Germania, ma diventa essa stessa polo di
attrazione, soprattutto per le esigenze occupazionali che si registrano in Italia, a fronte
del decremento demografico e dalla struttura prettamente industriale dei nostri
comparti produttivi, che non attirano manodopera italiana (come nel caso del NordEst). Il caso del Lazio è singolare, in quanto l’alta incidenza della comunità filippina e
della comunità polacca è motivata dalla richiesta di lavoratori nei servizi domestici e nel
249
lavoro di cura, in particolare per le persone anziane, senza dimenticare l’attrazione
esercitata dalla città di Roma per nazionalità di forte tradizione cattolica. La sempre
maggiore presenza degli stranieri in Italia è un fenomeno che deve essere approcciato
in una dimensione sincronica, in quanto condiziona la fruizione dei diritti e l’accesso ai
servizi a tutti i livelli, ma anche in una dimensione diacronica, in quanto ha impatto
sull’Italia futura, in cui gli stranieri di seconda e terza generazione saranno sempre più
una variabile sociale con proprie istanze e propri bisogni. Per il 2006 l’Istat ha
quantificato il fenomeno della seconda generazione, ovvero il complesso degli stranieri
nati in Italia , al netto di quanti hanno già acquisito la cittadinanza italiana. Esso risulta
di 398.295 persone, oltre la metà dei minori presenti. Il fenomeno è rilevante nel Lazio,
in particolare nella Provincia di Roma, in quanto regione a più lunga tradizione di
immigrazione. Dal punto di vista della fruizione dei diritti e dell’accesso ai servizi gli
stranieri in Italia trovano difficoltà dovute innanzitutto alle diversità linguistiche e
culturali, ma anche a fenomeni di discriminazione e sfruttamento. L’Ufficio Nazionale
Antidiscriminazioni ha ricevuto nel 2006 oltre 10.000 segnalazioni e ha riscontrato 218
casi di discriminazione, in merito all’alloggio, al lavoro, ma anche alla fruizione di servizi
da parte di strutture pubbliche, o all’accesso a servizi di credito (Cfr. Caritas/Migrantes,
2007). D’altra parte non si può nascondere che i flussi irregolari hanno impatto diretto
sulla criminalità nelle sue diverse forme. Oggi i cittadini stranieri sono coinvolti in un
quarto delle denunce penali e rappresentano un quarto della popolazione carceraria. La
percezione comune della presenza di immigrati è dunque strettamente legata ai flussi
irregolari, anche per la visibilità mediatica dei fenomeni di criminalità e delle tragedie
dovute ai tentativi di penetrare nel nostro paese. E’ importante ricordare come la
ragione fondamentale che spinge uomini e donne ad affrontare pericoli anche mortali,
o comunque difficoltà linguistiche e sociali, è la speranza di un miglioramento di vita,
che passa soprattutto attraverso la ricerca di un lavoro. Nonostante il fatto che
mediamente le retribuzioni degli immigrati siano il 20% inferiori rispetto alle
retribuzioni degli italiani, la possibilità di accedere al lavoro retribuito rappresenta la
ragione fondamentale dei progetti di migrazione, e ha impatto anche sul miglioramento
delle condizioni di vita delle famiglie che rimangono nel paese di origine. I lavoratori
stranieri investono poco in Italia, se non per le spese famigliari e l’istruzione dei figli, e
dedicano gran parte di quanto guadagnano alle rimesse, che nel 2006 ammontavano a
4,3 milioni di euro con una crescita annua dell’11,6%. L’asimmetria rispetto agli italiani
si misura inoltre rispetto alle reti sociali e di sostegno su cui può contare la persona.
250
Uno straniero non può contare su beni famigliari, come la casa, né sul tessuto
parentale: le sue risorse sociali risultano ovviamente il più delle volte deboli, quando
non mancanti del tutto, per cui lo straniero può fare affidamento solo su se stesso.
Favorire l’integrazione degli stranieri, che per l’Italia è un obiettivo necessario in
particolare per ragioni economiche e demografiche, passa dunque attraverso la
creazione di reti sociali di sostegno.
14.1 Le Politiche Comunitarie per l’integrazione dei migranti
La crescente centralità del fenomeno dell’immigrazione nella società motivano il
crescente interesse e la crescente attività di indirizzo delle politiche da parte
dell’Unione Europea. E’ possibile osservare in primo luogo un cambiamento di
approccio che caratterizza i documenti comunitari negli ultimi dieci anni. La politica
europea nei confronti dell’immigrazione nasce fondamentalmente nell’alveo dell’art.13
del Trattato di Amsterdam, nasce cioè con l’obiettivo di combattere le discriminazioni,
tra le quali quelle motivate dalla razza, dall’origine etnica o dalla religione. Oggi
l’approccio è radicalmente diverso: la politica per l’immigrazione riguarda la solidarietà,
ma anche lo sviluppo e la sicurezza (COM(2007) 780 def.)
I cambiamenti sono evidenti anche dal punto di vista della governance: se al Consiglio
Europeo di Salonicco del 2003 gli Stati Membri assegnavano l’integrazione tra le
competenze degli Stati Membri, la rilevanza europea del problema è diventata sempre
più chiara. Nel 2003 sono stati istituiti i Punti di Contatto Nazionali sull’integrazione al
fine di migliorare la cooperazione in materia. Nel 2008 la Comunicazione “Una politica
d’immigrazione comune per l’Europa: principi, azioni e strumenti” (COM(2008) 359
def.) afferma che “L’immigrazione è una realtà che deve essere gestita in modo
efficace. In un’Europa aperta priva di frontiere interne, nessuno Stato membro può
gestirla da solo”.
Per comprendere l’approccio europeo al problema è opportuno risalire alla definizione
di integrazione contenuta nella Comunicazione “Immigrazione, Integrazione e
Occupazione” (COM (2003) 336 def.): “un processo bi-direzionale che prevede piena
partecipazione dell’immigrato, basato su diritti reciproci e su corrispondenti obblighi dei
cittadini di paesi terzi legalmente residenti e della società ospite”. L’integrazione ha a
251
che fare con diversi elementi:
-
Rispetto per i valori fondamentali valori universali di dignità umana, libertà,
uguaglianza e solidarietà a cui si ispira l’UE, nel pieno rispetto della Carta dei diritti
fondamentali e della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
-
Diritto di mantenere la propria identità culturale
-
Diritti e doveri omologhi a quelli dei cittadini dell’Unione
-
Partecipazione attiva
L’integrazione, secondo la comunicazione, è un processo incrementale, cioè un
processo che matura nel tempo lo sviluppo dei diritti e dei doveri, in relazione alla
permanenza nell’Unione. Ciò significa d’altra parte che una serie di servizi fondamentali
devono essere disponibili già dal primo ingresso.
Le indicazioni programmatiche che la Commissione trasmette al Parlamento, al
Consigli,
e
ai
Comitati
consultivi
stabiliscono
i
punti
chiave
della
politica
sull’immigrazione dell’Unione. Qui si vogliono sottolineare alcune indicazioni specifiche
sulle dieci contenute nella Comunicazione:
-
“La politica d'immigrazione comune deve promuovere l’immigrazione legale e
subordinarla a regole chiare, trasparenti e giuste”. Tale indicazione promuove la
chiarezza e la trasparenza dei Pesi Membri per l’ingresso e il soggiorno degli
stranieri affidando ai Pesi stessi anche il compito di informare sui diritti e sui doveri.
-
“Incontro tra qualifiche e fabbisogno”. Tale punto chiave è incentrato sulle politiche
dell’inserimento lavorativo per gli stranieri, e promuove processi per favorire il
matching tra la domanda di profili e competenze del paese ospitante e processi di
orientamento, formazione e matching dei lavoratori, anche nei paesi di origine.
-
“L’integrazione è la chiave per il successo dell’immigrazione”. Il documento
evidenzia che l’approccio comunitario considera i diversi fattori dell’integrazione:
dalla fruizione dei diritti fondamentali alla casa e alla salute, fono alla promozione di
sistemi di gestione della diversità sui luoghi di lavoro.
-
“Intensificare la lotta contro l'immigrazione illegale e tolleranza zero per la tratta di
persone”. La lotta ai flussi illegali è funzione della lotta contro il lavoro irregolare e
non dichiarato, che sono visti come fenomeni borderline, che possono diventare
bacini di reclutamento per la criminalità. La comunicazione chiede di inasprire la
252
lotta contro la tratta, e sviluppare strumenti di sostegno e integrazione delle
vittime.
Al fianco delle indicazioni programmatiche è opportuno ricordare anche l’impegno
dell’Unione nel definire un programma specifico: “Solidarietà e gestione dei flussi
migratori 2007-20013”, significativamente afferente alla Direzione Generale Libertà
Sicurezza e Giustizia. Il Programma prevede:
-
controlli e sorveglianza delle frontiere esterne (“gestione integrata delle frontiere”)
e politica in materia di visti, in complementarità con l’Agenzia europea per la
gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri
dell'Unione europea;
-
rimpatrio di cittadini di paesi terzi in soggiorno irregolare nell’UE;
-
integrazione di cittadini di paesi terzi in soggiorno regolare;
-
azioni per i richiedenti asilo
L’approccio dell’Unione al fenomeno immigrazione fa appello dunque non solo alle
politiche sociali, ma ha impatto anche sulle politiche demografiche, sullo sviluppo
economico e sulla sicurezza.
14.2 L’immigrazione: multidimensionalità del fenomeno e aspetti
legislativi
Dal punto di vista normativo l’immigrazione in Italia viene affrontata per la prima nel
1986. La legge 943/1986 infatti definisce il lavoratore extracomunitario legalmente
residente sul territorio come soggetto di diritti, cui deve essere assicurato l’accesso ai
servizi fondamentali come sanità, servizi sociali, scuola e casa, e cui viene tutelata la
cultura e la lingua di origine. Con le leggi successive i materia si sono allargati i diritti e
precisate le dinamiche per la gestione dei flussi, per i requisiti di accesso al permesso
di soggiorno e per le procedure di rinnovo. La legge 39/1990 in particolare superava il
principio di reciprocità concedendo agli stranieri il diritto di costituire società e
intraprendere attività imprenditoriale, riconoscendo così di fatto la potenzialità nel
contribuire allo sviluppo economico del nostro paese. Le politiche per l’immigrazione si
sono dunque concentrate su tre questioni fondamentali (Ministero dell’Interno, 2007):
253
-
programmazione dei flussi
-
condizioni di accesso al permesso di soggiorno
-
contrasto all’immigrazione irregolare e clandestina.
Le tappe fondamentali per specificare questi ambiti sono state le leggi Turco
Napolitano 40/1998 e la Bossi Fini 189/2001. Per quanto riguarda le condizioni di
accesso la prima prevedeva tre canali di ingresso:
-
lavoro subordinato anche stagionale su chiamata nominativa del datore di lavoro o
numerica sulla base di liste istituite con accordi bilaterali
-
lavoro autonomo a condizione che il richiedente dimostrasse di possedere le risorse
necessarie (tra cui sistemazione abitativa) e i requisiti richiesti dalla normativa
italiana
-
ricerca di lavoro attraverso il meccanismo degli sponsor.
La 189/2001 come noto sopprime tale possibilità, vincolando la possibilità di
ammissione per motivi di lavoro all’esistenza di un’offerta precedente all’ingresso. La
legge prevedeva inoltre canali preferenziali per quegli stranieri che avessero
frequentato percorsi di formazione approvati dal Ministero del Lavoro su proposta di
Regioni e Province autonome. In definitiva la norma postulava sistemi di collaborazione
organizzati e strutturati con i paesi di origine che erano invece completamente da
organizzare, costringendo di fatto gran parte dei migranti all’ingresso irregolare per
poter procurarsi un lavoro. Ovviamente accanto all’ingresso per motivi di lavoro sono
previste altre modalità, la più importante delle quali è il ricongiungimento familiare.
Anche se la Bossi Fini ha nelle intenzioni cercato di favorire una semplificazione delle
procedure per il rilascio dei permessi di soggiorno ancora oggi i vincoli burocratici
rappresentano seri ostacoli all’integrazione degli stranieri. Di fatto è accaduto che la
legge ha reso più complicato le procedure di rinnovo, rendendo lo status dei lavoratori
stranieri meno certo e spesso in balìa di tempi lunghi e decisioni arbitrarie del sistema
burocratico.
Per quanto riguarda l’accesso ai servizi e la fruizione dei diritti Il Testo Unico
sull’immigrazione (D.lgs 286/1998, modificato dalla legge Turco-Napolitano), stabiliva
la centralità degli enti locali nel rimuovere gli ostacoli possibili alla al pieno
riconoscimento dei diritti e degli interessi degli stranieri. Il Testo Unico tratta
254
esplicitamente il tema della salute, dell’alloggio, dell’istruzione, della partecipazione alla
vita pubblica e dell’integrazione sociale. La legge delineava appositi strumenti e
interventi specifici, destinando risorse ad un fondo ad hoc, il “Fondo nazionale per le
politiche migratorie”. L’approccio alla base delle misure della legge è riconducibile ad
un modello di “integrazione ragionevole” come stabilito dalla Commissione delle
Politiche di Integrazione degli Immigrati, fondato sul riconoscimento della diversità,
nella garanzia di pari opportunità.
Di fatto la Turco Napolitano propone un processo di integrazione che si differenzia dal
modello
assimilazionista
alla
francese,
o
di
convivenza
di
diverse
culture
(multiculturalismo) di stampo anglosassone, per proporre un modello di integrazione
“dal basso”, fondato sulla creazione di comunità locali in qualche modo coese, grazie
alla partecipazione della società civile, del mondo delle associazioni, e alla condivisione
con le comunità locali al governo del territorio, attraverso una decentralizzazione delle
responsabilità dei processi di integrazione.
Ogni amministrazione locale mostra dunque approcci peculiari al problema migratorio,
che può comunque essere inteso in tre fasi: una fase emergenziale, che affronta in
particolare l’emergenza
abitativa, una fase di strutturazione di servizi specialistici, con
l’attivazione di mediatori culturali e di sportelli per stranieri che favoriscono l’accesso a
numerosi servizi, ad una fase di condivisione della vita sociale attraverso l’affermarsi di
associazioni e approcci di partecipazione politica.
Oggi gran parte dei Comuni italiani realizza attività a vario livelli finalizzate
all’integrazione degli stranieri. D’altra parte non è possibile identificare le iniziative per
gli immigrati con gli interventi dell’amministrazione comunale. Il comune non è ,ai
attore isolato, ma il polo di una rete che vede coinvolti attori diversi per tipologia e per
servizi offerti (Caponio, 2006). Bisogna d’altra parte considerare attentamente la
struttura evenemenziale dei servizi erogati dal terzo settore: infatti se le iniziative per
costruire un “territorio inclusivo” sono esito della risposta all’emergenza, o del
volontarismo di promotori, si perde il necessario coordinamento, la pianificazione e
l’approccio preventivo e di garanzia, che sono condizioni per la stabilità e l’universalità
dei servizi che caratterizzano un approccio di inclusione. Altro elemento importante di
attenzione è il fatto che ragionare per singoli progetti e iniziative rischia di segmentare
le attività in micro settori in risposta a bisogni specifici, o a indirizzarle a target ristretti
di popolazione, che limita l’impatto e apre il fianco a critiche di particolarismo e
255
inefficacia. In taluni casi l’impossibilità di misurare l’impatto degli interventi fa sì che gli
attori del privato sociale diventino di fatto cartelli autoreferenziali per la gestione del
denaro pubblico indipendentemente dal fine di assistenza agli immigrati (Ambrosini,
2005).
14.3 Alcuni modelli di risposta al bisogno e di intervento
In ambito di politiche di integrazione dei migranti esistono numerose esperienze ai più
diversi livelli. Possiamo organizzare le diverse esperienze in tre dimensioni, in relazione
alle strutture di governo, all’obiettivo strategico e all’obiettivo operativo:
-
Dimensione dell’approccio: le iniziative possono avere un obiettivo etico, politico, o
pragmatico. Nel primo caso le iniziative vogliono promuovere approcci solidaristici e
di tutela delle diversità e lotta alla discriminazione, attraverso campagne di
sensibilizzazione, eventi culturali. Nel secondo la promozione dell’interculturalità e
del dialogo passa attraverso la costituzione di gruppi organizzati e comitati con la
funzione di diventare interlocutori delle politiche pubbliche per tutelare gli interessi
degli stranieri dove non hanno rappresentanza politica. Nel terzo le istituzioni
pubbliche e private realizzano azioni per rimuovere gli ostacoli alla fruizione dei
diritti da parte degli stranieri.
-
Dimensione della governance: le iniziative possono essere promosse a livello
nazionale, come nelle negoziazioni bilaterali con i paesi di origine, regionale, come
nella programmazione dei flussi o nella definizione delle politiche formative, locale,
come nei servizi erogati a livello comunale. Oppure possono essere iniziative che
partono dalla lettura del bisogno da parte di attori del privato sociale.
-
Dimensione dei servizi: le iniziative possono rispondere a diverse emergenze o
esigenze poste in essere da parte di singoli o di comunità di immigrati. Tipicamente
esistono esperienze per rispondere al problema abitativo, all’accesso ai servizi
sanitari, all’inclusione al lavoro, al rapporto con la giustizia, alle attività di
animazione sociale e di incontro culturale.
Già da questa proposta di catalogazione delle iniziative per l’integrazione appare chiaro
come ci si trovi davanti ad un panorama spesso frammentario ma ricchissimo di
esperienze, dove molti attori sono in gioco: i paesi terzi, il governo nazionale,
256
regionale, e locale, il sistema degli enti locali, l’associazionismo e il terzo settore, le
rappresentanze dei lavoratori, le imprese e le loro associazioni, le diverse confessioni
religiose.
E’ dunque molto difficile individuare le buone prassi in questo contesto, in quanto gli
stessi indicatori risulterebbero tra loro disomogenei e le diverse prassi non
confrontabili. Per questa ragione si è scelto di presentare un’esperienza, che, sebbene
abbia diversi punti di contatto con altre iniziative in merito all’integrazione, ha il pregio
di presentare alcuni elementi di novità.
Il progetto "Le radici e le ali" nasce con l'intento di dare seguito all'esperienza di
collaborazione avviata in questi ultimi anni dalle tre più grandi associazioni italiane
(ARCI, ACLI, FIS-CdO) nel quadro degli interventi di promozione sociale dei soggetti in
condizioni di svantaggio. Lo scopo dell'intervento è dar vita, attraverso la
sperimentazione di Laboratori Sociali Locali, ad un Modello di Sostegno Integrato per lo
sviluppo di nuovi mezzi di lotta contro le discriminazioni e le disuguaglianze nel
mercato del lavoro a danno dei cittadini migranti e rom, puntando all'implementazione
di pratiche e dispositivi caratterizzati da elevato livello di innovatività e trasferibilità.
L'occupabilità di migranti e rom verrà così rafforzata mediante diverse strategie:
a) un maggiore accesso ai servizi, alle informazioni e alle risorse territoriali
b) un incremento del livello di integrazione socio-culturale
c) una potenziata prevenzione dei fenomeni di esclusione e discriminazione sociale e
lavorativa
d) un incremento della partecipazione alla creazione di impresa e di impresa sociale
e) un incremento della partecipazione allo sviluppo socio-economico dei territori
f) una più efficace erogazione di risposte integrate e di sistema.
Il punto di partenza da cui muove il progetto è che l’inclusione non è un processo
unilaterale, ma ha bisogno di un ruolo attivo da parte degli individui migranti. Un
secondo importante fattore è la centralità del terzo settore come portatore di quella
ricchezza di servizi necessaria a dare risposta ad un fenomeno complesso e dinamico.
Un terzo elemento è la natura intrinsecamente non localistica della sperimentazione,
che si esplicita in due forme differenti: le attività si realizzano in quattro città italiane,
di cui due metropolitane, Roma e Milano, e due di medie dimensioni, Pescara e
257
Catania, che coprono le tre grandi macroaree del paese (nord, centro e sud). Inoltre le
attività sono promosse e coordinate da tre grandi reti di reti: ACLI, ARCI e FIS-CdO,
che assommano una fetta importante del mondo del non profit italiano e soprattutto
hanno origini valoriali e storiche differenti.
I Punti cardine su cui si incentra l’operatività del progetto sono:
a) L’Agente di Sviluppo dei Migranti
L’introduzione di tale figura nel processo di integrazione dei migranti fa in modo che
una persona migrante possa essere responsabilizzata a dare risposte e a soluzioni ai
problemi, facendosi carico della comunità o del gruppo di riferimento. In questo senso
l’ASM è un vero e proprio promotore di sviluppo, capace di essere nodo di una rete e
dunque di attivare la molteplicità di servizi necessari per dare risposte alle richieste e ai
bisogni del gruppo di ci è responsabile. L’ASM è un soggetto portatore di interessi,
dunque non neutro, ed ha un’azione propulsiva sullo sviluppo. E’ dunque promotore
proattivo di iniziative e non solo reattivo di fronte alle richieste. Tale caratteristica fa sì
che tale figura debba necessariamente superare il ruolo di mediatore culturale, ed
essere insieme anche leader di comunità e agente di sviluppo locale.
b) La progettazione partecipata
L’esigenza da cui parte il progetto è di favorire il protagonismo dei destinatari
coinvolgendoli nella progettazione e nella realizzazione delle iniziative specifiche. Per
questa ragione nei diversi territori è stata realizzata un’azione di coinvolgimento della
rete di attori che ha significato attivazione, interlocuzione e confronto con gli attori del
privato sociale esterni alla compagine di progetto e con i migranti stessi, non sempre
organizzati in associazioni e comitati. Si è trattato in primo luogo di attivare
collaborazioni attivate da tempo e di spendere un capitale di fiducia, affidabilità e
credibilità maturato dalle organizzazioni proponenti nel loro operare quotidiano. Tale
elemento mostra che l’allargamento della rete non può essere improvvisato, né risulta
automatico, ma che necessità di lavoro e di capitale sociale già tesaurizzato. Lo spettro
di collaborazioni attivate è molto ampio: istituzioni, enti locali, sindacati, associazioni,
mondo della cooperazione.
c) L’approccio multidisciplinare
Nel discutere dei bisogni emergenti degli stranieri in Italia non bisogna correre il rischio
di considerare il problema in modo indistinto, senza tenere in considerazione la grande
258
differenziazione interna al fenomeno, i diversi progetti migratori, la composizione della
famiglia, le esperienze di lavoro pregresse, l’età. Per molti migranti è superata la fase
di primo insediamento, che portava con sé ad esempio il problema dell’alloggio e
dell’inclusione lavorativa, per avviarsi ad una fase di stabilizzazione e integrazione
sociale. Ciò comporta che per gli stranieri anche i bisogni siano differenziati e
complessi: dal soddisfacimento dei bisogni primari, ad esigenze più specifiche. I bisogni
dei migranti, seppure abbiano comunque una specificità legata alla differenza culturale,
linguistica e a fenomeni di discriminazione, hanno però caratteristiche sempre più
differenziate. Non sempre le strutture del territorio specializzate in tale categoria sono
in grado di far fronte alle nuove richieste, che evolvono rapidamente: ciò vale per le
strutture pubbliche e per il terzo settore. D’altra parte se gli immigrati da più tempo
vanno incontro a fenomeni di stabilizzazione permane una fascia, ad esempio i nuovi
ingressi, che esprime bisogni di prima necessità. Ciò significa che espressamente per i
migranti non è possibile pensare ad un polo fisico che si faccia carico di servizi così
differenziati, ma è necessario concepire sistemi di coordinamenti di reti capaci di
soddisfare la domanda. Il progetto in questo senso attiva sportelli capaci di indirizzare
l’utente verso il servizio più opportuno. In questo modo il servizio era in grado di dare
assistenza all’espletamento di pratiche burocratiche, ai servizi di conciliazione tra vita
privata e lavoro, come gli asili nido, fino alla formazione professionale e alla consulenza
allo start up di impresa, e al microcredito. Così come l’attuazione di laboratori locali era
strumento di promozione di azioni a più diversi livelli: dalla mappatura dei servizi, ai
corsi di lingua italiana, alle attività sociali, come il cineforum e i laboratori di
animazione e teatrali.
14.4 Suggerimenti di policy
La complessità del fenomeno è tale per cui risulta difficile individuare strumenti
operativi migliori di altri nell’affrontare i singoli bisogni. L’approccio alla integrazione
degli stranieri, che parte dall’azione degli enti locali e dall’intervento dei diversi attori
del territorio ha il vantaggio di adattare le politiche ai singoli contesti territoriali, dove
spesso il problema ha connotati uniformi. L’immigrazione, e in questo le linee
strategiche dell’Unione Europea sono eloquenti, è prima di tutto una risorsa, che ha in
sé importanti potenzialità di sviluppo. L’azione solidale per l’integrazione è dunque
259
innanzitutto azione per facilitare lo sviluppo e dare promuovere la crescita, la
prosperità e il benessere. Le indicazioni di questo lavoro non hanno l’intenzione di
affrontare invece il problema posto dall’immigrazione illegale, ma certamente da parte
del governo nazionale si sente la necessità di un atteggiamento il più possibile
obiettivo, per evitare provvedimenti populisti che rischiano di non cogliere opportunità
ed anzi di aggravare i problemi. Nelle realtà che hanno a che fare quotidianamente con
gli stranieri si percepisce molto spesso la fatica per normative sui permessi di
soggiorno spesse volte eccessivamente macchinose. Il primo passo per facilitare
l’integrazione è dunque semplificare le procedure burocratiche per non aggiungere
difficoltà dove già esistono problemi dovuti a lingua e cultura.
Un secondo elemento importante, in particolare per gli immigrati di primo
insediamento, è prevedere strumenti di sostegno al reddito per facilitare percorsi di
inserimento lavorativo. Data la normativa attuale ovviamente tale beneficio sembra
possibile solo per i migranti che sono nel nostro paese per ragioni che non fanno
riferimento al lavoro: ad esempio le donne in Italia per ricongiungimento familiare. In
quel caso però è facile dimostrare che tale target di utenza molto difficilmente potrà
sostenere percorsi di inserimento lavorativo, in quanto tali percorsi le toglierebbero
dalle incombenze di cura della casa e dei figli. In quei casi potrebbe essere importante
utilizzare forme di sostegno al reddito o facilitare l’accesso a strumenti di conciliazione
tra vita lavorativa e famigliare. Anche la struttura della permanenza in Italia mostra
regolarità interessanti. Ad esempio molte famiglie rimangono assenti per lunghi periodi
che trascorrono nel paese di origine. In quel caso l’inserimento lavorativo risulta essere
doppiamente difficoltoso, e superabile solo attraverso la valorizzazione di forme
contrattuali flessibili come i part time verticali.
Un terzo elemento, che risulta in questo caso decisivo, data la complessità del
fenomeno, fa riferimento alla promozione di reti di servizi per stranieri, che possono
funzionare se esiste un nodo capace di orientare gli utenti alla fruizione in relazione ai
diversi bisogni. In questo senso la figura dell’Agente di Sviluppo dei Migranti sembra
essere una soluzione efficace, in quanto capace di orientare ed accompagnare nella
fruizione dei servizi intere comunità di stranieri, ma capace anche di fungere da volano
di sviluppo per una piena integrazione nel tessuto sociale ed economico ed essere
dunque valore aggiunto per la ricchezza anche culturale del territorio.
260
15.
I detenuti
La situazione delle carceri italiane è particolarmente problematica. I dati più recenti
arrotondano a 53.000 unità i detenuti, in gran parte uomini (96%), ma con una
porzione sempre crescente della componente straniera: se vent’anni fa i detenuti
stranieri valevano pochissimi punti percentuali, oggi si attestano al 40%, con picchi fino
al 70% in alcune regioni (Lombardia su tutte). Questo primo dato è già molto
significativo in merito al cambiamento che ha dovuto affrontare il Dipartimento di
Amministrazione Penitenziaria in questi ultimi anni, organizzando nuove procedure,
nuovi uffici, nuove modalità di addestramento per gli Agenti di Polizia Penitenziaria.
Nonostante le lungaggini processuali nel carcere di San Vittore a Milano entrano
mediamente 40 persone nuove giunte ogni giorno, in tutta Italia sono circa 1000 i
nuovi ingressi quotidiani nelle carceri: nei primi 4 mesi del 2008 si è avuto un aumento
di 4000 detenuti pari all’ 8.8% in più. Si tratta per lo più di detenuti in attesa di
giudizio, in quanto chi è recluso con una condanna definitiva è soltanto circa il 40%
della popolazione. In altre parole la carcerazione preventiva rischia di diventare nella
prassi una sorta di anticipo della pena.
Il sovraffollamento continua ad essere il problema più urgente e che maggiormente
incide sulla qualità della vita della popolazione carceraria (detenuti, familiari, agenti,
educatori, ecc.): l’indulto del 2006 che tante polemiche ha suscitato ha già terminato il
suo effetto e il limite massimo di capacità degli Istituti di Reclusione è ad oggi superato
del 20%, ma il trend segnato dalle statistiche conferisce a questo dato la previsione di
un costante e progressivo aumento. Inoltre per i detrattori dell’indulto è estremamente
importante sottolineare che il 30% dei beneficiati è ritornato tra le mura delle celle nel
giro di pochi mesi, ed anche questo dato è in ascesa.
Un ulteriore area problematica è quella legata agli eventi critici che si verificano
costantemente in tutte le carceri italiane, anche se non sempre salgono alla ribalta
mediatica: nel 2007 ci sono 3687 eventi critici, 2093 atti di aggressione con 2 morti per
omicidio e 2091 feriti. Le manifestazioni di protesta sono state 202 alle quali hanno
preso parte 13728 detenuti. I morti per suicidi sono 45, i tentativi di suicidio 610, le
261
morti naturali 76, le evasioni 107, i danneggiamenti di beni dell’amministrazione 1004.
(Fonte Sindacato Agenti Polizia Penitenziaria).
Anche la situazione degli Agenti di Polizia non è più rosea: i dati evidenziano una
carenza di organico di circa 4.000 unità, il che mette gli agenti in servizio in costante
emergenza, anche per quanto riguarda l’incolumità personale. Gli agenti vivono di fatto
uno stato di reclusione analogo ai detenuti, in quanto devono soggiacere alle
medesime regole e sopratutto nella maggioranza dei casi si tratta di persone lontane
da casa, con pochissime o nulle attività e relazioni extra-lavorative, con scarsa
motivazione e preparazione al ruolo.
Sugli esiti dell’indulto si è di recente espresso anche il Ministro Alfano affermandone il
fallimento in quanto “oggi le carceri sono piene come lo erano un giorno prima
dell'indulto. C'è stata la recidiva perché non c'è stato il percorso per portare l'uomo al
bivio, scegliere tra la redenzione o delinquere''.
15.1 Una leva per il cambiamento e la redenzione: il lavoro dei
detenuti
Cosi come per tutte le altre forme di esclusione e di povertà anche per i detenuti il
lavoro rappresenta la più rilevante risposta alla necessità di ridare significato e valore
alla persona.
La situazione attuale rispetto all’impiego dei detenuti è la seguente:
a) Detenuti impegnati nel cosidetto lavoro intramurario: nei cosiddetti lavori domestici
alle dipendenze dell’Amm. Penitenziaria sono poco più di 11.700. Se si considera
che sono a part-time, e che lavorano ad intermittenza (un mese sì e due no), in
termini di posti equivalenti essi sono poco più di 3.000. Questo tipo di lavoro
costituisce una specie di sussidio che tocca a turno un po’ a tutti, con il risultato di
essere diseducativo al massimo. Sono invece solo 700 su 55.000 i detenuti che
lavorano in pianta stabile e regolarmente assunti, in prevalenza da cooperative
sociali (278 solo in Lombardia e prevalentemente a cottimo fiduciario, 170 in
Veneto, 44 in Piemonte, 28 in Lazio, 38 in Calabria, 35 in Toscana 15 in Emilia
Romagna, ecc.).
262
b) Detenuti impegnati nel lavoro all’esterno: per lo più con un regolare contratto di
lavoro sono occupati 651 semiliberi e 311 cd. articoli 21.
La validità delle esperienze lavorative nelle carceri è testimoniata dai dati inerenti la
c.d. recidiva: La Recidiva o, diciamo meglio, la percentuale di coloro che - pur dopo
aver scontato la pena - danno prova di non essersi redenti e tornano dunque a
delinquere, si attesta sul 90%.
Un’indagine ufficiale del Ministero della Giustizia, svolta in collaborazione con
l’Università, ha rilevato una recidiva del 68% (cioè quelli che sono stati riarrestati entro
5 anni), mentre lo stesso studio registra una recidiva del 19% tra chi ha usufruito di
misure alternative (articolo 21, semilibertà, ecc.).
15.2 L’esperienza del Consorzio Rebus
La storia del Consorzio Rebus parte dalla costituzione, nel 1986,
della cooperativa
sociale Giotto per iniziativa di un gruppo di giovani laureati in scienze agrarie e
forestali. Essa opera principalmente
nei settori di intervento dalla progettazione e
manutenzione del verde, unendo la professionalità a obiettivi etici e sociali.
Nel corso del suo percorso incontra il carcere e nel 1991, in coincidenza di una gara
per la manutenzione del verde, propone alla direzione del carcere di Padova di
coinvolgere i detenuti nell’espletamento di tale servizio. La cooperativa mette a
disposizione tutto il know-how, l’amministrazione penitenziaria acquista le attrezzature
necessarie. Con l’occasione ha inizio anche la collaborazione con il Comune di Padova
tramite il Progetto Carcere dell’Assessorato ai Servizi Sociali.
Da questa piccola esperienza sono cresciute l’attenzione e la sensibilità nei confronti
del carcere: sono state inserite nella cooperativa persone in articolo 21, in semilibertà
ed in affidamento, principalmente con lo scopo di fungere da rompighiaccio, perché la
cosa più difficile, per un detenuto che si accinge ad uscire, è proprio iniziare a svolgere
un primo lavoro.
Alla fine del 2004 è sorto il Consorzio di cooperative sociali Rebus per rispondere in
maniera più efficace alle esigenze presenti nell’attività lavorativa presso la Casa di
reclusione di Padova coinvolgendo altre cooperative operanti all’interno del carcere.
263
Rebus progetta e attua strategie imprenditoriali e commerciali volte a consolidare e
incrementare le attività delle consorziate in carcere, nei confronti delle aziende esterne
e del mercato del lavoro.
Soggetto esperto del mondo della detenzione, Rebus funge da ponte tra il dentro e il
fuori, attraverso una sensibilità umana e sociale in grado di declinare il piglio
imprenditoriale e le qualità professionali in un ambito dove sono fondamentali da un
lato il recupero e la valorizzazione della risorsa umana, dall’altro una sapiente efficacia
organizzativa capace di superare le inefficienze del sistema carcere.
Il consorzio si propone alle aziende come canale preferenziale per portare commesse
dentro il carcere, dall’assemblaggio alla produzione artigianale, dai servizi di call center
al servizio di ristorazione, compresa l’attività di pasticceria, all’insegna della
convenienza economica e della qualità dei prodotti e dei servizi.
Rebus si rivolge ad aziende, enti e istituzioni, associazioni e realtà comunitarie per
azioni di marketing e comarketing sociale attraverso la promozione e la vendita di
gadgetistica in cartotecnica e prodotti di pasticceria.
a) il corso di giardinaggio
Dal 1991 il Corso di Giardinaggio è stato proposto ogni anno fino ad oggi, coinvolgendo
circa 20 allievi per ogni edizione per un totale di circa 350 detenuti. Il corso di
giardinaggio ha permesso la realizzazione di un Parco Didattico nelle aree esterne della
Casa di Reclusione e la Riqualificazione della nuova area colloqui. L’articolazione
didattica, date le caratteristiche degli allievi (aumento degli allievi stranieri, basso livello
di scolarizzazione, tempi lunghi di carcerazione) riserva uno spazio preponderante alle
lezioni di carattere “pratico” che si concretizzeranno nella manutenzione e nella
realizzazione di interventi di miglioramento delle aree verdi. In modo particolare, il
corso rappresenta una significativa opportunità di formazione e di incontro con questa
fascia della popolazione e, attraverso una attenta azione di orientamento, diventa il
primo anello di un percorso di reinserimento socio-lavorativo, cui fanno seguito il
lavoro interno e all’esterno attraverso le misure alternative alla detenzione.
b) gli inserimenti lavorativi
Come prassi gli inserimenti lavorativi vengono progettati e concordati insieme agli
operatori dell’Amministrazione penitenziaria, del CSSA, della AULSS e dei Comuni e
seguiti dall’ufficio sociale della cooperativa attraverso un affiancamento tecnico e
264
psicosociale. Ad oggi sono circa 400 i detenuti che attraverso il lavoro hanno trovato
una concreta opportunità di reinserimento sociale. In questa fase l’inserimento presso
la cooperativa permette di trovare il lavoro, di certificarlo, di avere dei soldi, delle
referenze, insomma di formarsi una base solida così che dopo due-tre anni la persona
abbia una adeguata strumentazione ed una minima stabilità per potersi avvicinare alla
libertà con sufficiente sicurezza e per muoversi con autonomia in ambienti di lavoro
non protetti, nei quali giocare la propria immagine, rilanciarsi rispetto alla società,
all’impresa, alle attività.
c) progetto “Lavorare in carcere”
Nel luglio 2001: in collaborazione con il Comune di Padova – Progetto Carcere e la
Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo viene allestito all’interno del Due
Palazzi il primo capannone industriale per la produzione artigianale di manichini in
cartapesta, realizzati secondo una antica tecnica toscana, che recupera le abilità dei
maestri artigiani coniugandole con la tecnologia più innovativa. Ad oggi sono una
cinquantina i detenuti che hanno lavorato nella produzione dei manichini. Dal punto di
vista della gestione del personale, la programmazione degli interventi viene concordata
con la direzione e gli operatori dell’Istituto di Reclusione, secondo la logica del dialogo
e del confronto. I criteri adottati fanno riferimento ai percorsi lavorativi individualizzati,
all’affiancamento costante, alla valorizzazione delle singole capacità e al monitoraggio
periodico dei risultati.
d) progetto “Cucina” a Rebibbia
Nel novembre del 2003 nel quadro del progetto P.E.A. 14 parte presso la Casa
Circondariale di Rebibbia il servizio di ristorazione affidato a un’ATI formata da
cooperative sociali e realtà del non profit. È uno tra i primi esperimenti di
esternalizzazione della gestione dei pasti che comunque conserva e intende valorizzare
l’opera dei detenuti. Il servizio prevede la produzione e il confezionamento dei pasti per
oltre 1600 carcerati e la Giotto partecipa al progetto in qualità di partner esperto di
servizi sociali nei confronti dei detenuti e in rapporto con l’amministrazione
penitenziaria, un ruolo decisivo per l’avvio e il funzionamento di una qualsiasi attività
lavorativa intramuraria.
e) progetto “Ristorazione due palazzi”
Nel maggio 2004, sulla scia dei risultati positivi del progetto di Rebibbia, la Giotto
propone e ottiene dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di replicare
265
l’iniziativa anche a Padova presso la Casa di Reclusione. La prima fase del progetto
prevede il consolidamento e il miglioramento del servizio rispetto alla situazione
precedente, con l’erogazione dei pasti alla popolazione reclusa nell’ordine di circa 700
unità, utilizzando la struttura interna di ristorazione con lo stato di fatto di allora e
coinvolgendo una ventina di detenuti. La prassi operativa consolidata e supportata da
strumenti di qualità, efficienza e attenzione nei confronti del personale svantaggiato, si
avvale della competenza tecnica della cooperativa Work Crossing, società leader nel
settore della ristorazione collettiva e l’organizzazione del lavoro, la gestione
dell’impianto, la qualità nell’erogazione del servizio di confezionamento pasti sono stati
da subito i principali obiettivi perseguiti. Essa si realizza dal primo contatto con la
popolazione detenuta, alla gestione del personale della cucina, al periodico confronto
con la Casa di Reclusione (Direzione, Direttore Area Pedagogica, Educatori, Agenti di
Polizia Penitenziaria), secondo una logica di lavoro integrato che tenga conto delle
caratteristiche della struttura, della divisione dei ruoli e della diversa assunzione di
responsabilità rispetto alla presa in carico del detenuto lavorante.
f)
progetto “Call centre ”
All’inizio del 2005 sempre alla Casa di Reclusione di Padova è partito il progetto “Call
Centre”. Sin dall’avvento della “Smuraglia” la cooperativa Giotto ha guardato con
interesse all’avvio di un call center all’interno del carcere come una delle attività più
idonee ed efficaci per i detenuti. L’allestimento logistico-tecnico e l’organizzazione del
personale che un call center richiede in generale ci è sempre apparso un target di
attività che ben si inquadra all’interno delle problematiche e dei limiti che l’operatività
intramuraria inevitabilmente comporta. Il rapporto con l’ASL 16 e Azienda Ospedaliera
di Padova ha permesso di mettere a fuoco l’ipotesi che una delle attività principali del
call center del Due Palazzi fosse rappresentata da una cellula di supporto del Cup, il
centro di prenotazione delle due Aziende sanitarie. Perciò essa rappresenta un’attività
di pubblica utilità ad alto contenuto sociale per il vasto impatto che essa può avere a
favore della salute di tutti gli strati sociali della popolazione. In ogni caso il call center
da subito è stato pensato e allestito secondo un sistema aperto e nello stesso tempo
molto performante, in grado di soddisfare a pieno sia le esigenze dell’attività in-bound
che out-bound. In questo modo il sistema mette a disposizione una piattaforma
integrata e flessibile che in ogni momento e in breve tempo è in grado di attivare vari
servizi, sia in entrata che in uscita, assecondando le esigenze operative e i vincoli
266
tecnici (hardware, software, networking, ecc.) dei vari partner pubblici e privati che di
volta in volta scelgono di appoggiarsi alla piattaforma. Il call center è costituito da due
aree di lavoro distinte all’interno della struttura carceraria, aventi caratteristiche
logistiche tali da permettere un orario prolungato di attività suddiviso in più turni.
Inoltre la particolare strutturazione delle due aree distinte consente di mettere in
esercizio contemporaneamente più attività e servizi diversi. A regime la struttura
permette di impiegare oltre 50 detenuti, divisi su più turni part time.
Una delle caratteristiche fondamentali del modello di intervento della cooperativa
Giotto e del Consorzio Rebus è quella di essere incentrata su un modello di rete che
prevede l’integrazione ed il confronto con enti pubblici e privati e che permette di
programmare gli inserimenti lavorativi a partire da una analisi dei bisogni della
popolazione carceraria e delle risorse disponibili e attivabili sul territorio.
E’ oramai consolidato il rapporto con il Carcere Due Palazzi di Padova, con la Casa
Circondariale di Padova, con il CSSA di Padova, con il DAP, con il Comune di Padova,
con la AULSS, con la Regione Veneto e la provincia di Venezia, con l’Università, con la
rete delle cooperative sociali e del privato sociale.
Il principio del coordinamento assume un particolare significato nell’ambito degli
interventi a favore della popolazione carceraria, al fine di una migliore gestione delle
risorse, dell’individuazione di linee guida che orientino le diverse azioni, di uno scambio
tra le diverse e peculiari specificità. In questa ottica si inserisce la stipula di Protocolli di
intesa con partner istituzionali, la partecipazione a iniziative che vedono spesso la
cooperativa come collettore e punto di consulenza per cooperative sociali e
associazioni.
Tutta questa attività fa si che ad oggi lavorano nel carcere di Padova 700 persone,
molte altre sono passate alle misure alternative fino ad arrivare al fine pena. I valori di
recidiva oscillano a seconda dei progetti dall’1% al 5%.
15.3 Un’indagine
sulla
situazione
femminile
nelle
carceri
lombarde.
Alcuni enti impegnati a vario titolo all’interno delle carceri hanno sviluppato, attraverso
progetti di ricerca finanziati dal FSE, analisi puntuali del contesto carcerario e modelli di
267
intervento che si sono rivelati estremamente efficaci. Ad esempio l’ente di formazione e
ricerca Galdus di Milano e il Consorzio Nova Spes (che raccoglie cooperative sociali che
offrono lavoro ai detenuti sia all’interno che all’esterno degli istituti) hanno svolto
un’interessante indagine sulla situazione femminile nelle carceri lombarde, i cui risultati
sono però per la maggior parte esportabili anche al contesto maschile. Dall’indagine
emerge un interessante concetto di lavoro secondo la percezione che ne hanno i
detenuti stessi: “il lavoro dà la possibilità di avere un’identità sociale, un ruolo di
lavoratrice, ottenendo un riconoscimento sociale. Acquisire un ruolo riconosciuto ed
accettato socialmente permette alla detenuta lavoratrice di avere una così detta vita
normale infatti per la società contemporanea fondamentale è avere un lavoro, solo con
il lavoro si acquistano i privilegi e diritti negati a coloro che non si adeguano ai concetti
di produttività e redditività. Nelle parole delle detenute frequentemente si ripetono i
termini “vita normale” connotati positivamente, legati ad un sentimento di stabilità
interiore e una sensazione di serenità.
Un passaggio fondamentale nel processo di redenzione utilizzando lo strumento
“lavoro” sembra essere la valutazione positiva di sé, essere orgogliosa del proprio
operato, della persona in quanto tale. Una volta acquisita la fiducia in sé, le detenute
lavoratrici pensano di conquistare il rispetto degli altri, molto importante è “riabilitarsi”
attraverso qualcosa di positivo e buono agli occhi degli altri. Le detenute lavoratrici
cercano piccoli gesti di considerazione e riconoscimento delle persone fuori, come la
richiesta di un lavoro fatto da un detenuto o il poter lavorare nel call center istituito nel
carcere di San Vittore, che permette uno scambio con l’esterno senza sapere della
situazione detentiva dell’interlocutore.
Da una parte c’è un’idea di lavoro che molti hanno definito strumentale, utile alla
donna detenuta per evadere dalla “immobilità” della condizione detentiva, come
occupazione del tempo e funzionale alla soddisfazione di alcune esigenze di
sostentamento primarie.
In genere questo coincide con i lavori di routine, spesso identificati con alcune
mansioni interne, svolte a rotazione (es. scopina, spesina ecc.), che sono giudicate
poco professionalizzati e che difficilmente vengono percepite come esperienze che
inducono il cambiamento o che portano all’acquisizione di competenze tecniche
spendibili all’esterno.
268
Il “lavoro vero” è qualche cosa di diverso invece: si basa su una professionalità forte,
decisamente tecnica e che si accompagna ad una proiezione, una tensione, verso
l’esterno e quindi ad una progettualità a lungo termine. Il lavoro vero è dunque quello
professionalizzato e professionalizzante, che da garanzie di spendibilità sul mercato.
Certo permane comunque una diffusa concezione strumentale del lavoro che è usato
dal sistema per premiare i “migliori” e dai carcerati per uscire di cella e avere denaro;
in altri termini è ancora debole la dimensione generativa del lavoro, quella che vede il
lavoro di per sé come fattore di cambiamento.
Il problema reale su questo punto, oggetto di indagine svolta dalla stessa partnership
attraverso una seconda edizione del progetto, sempre finanziata dal FSE, è la
possibilità di coinvolgere il tessuto imprenditoriale del territorio nel dare lavoro ai
detenuti fuori e dentro le mura; la tesi da dimostrare era la possibilità che le aziende
potessero avere interesse ad utilizzare mano d’opera a costi ridotti per esternalizzare
parti di produzione, oppure per acquisire nuove risorse: Nonostante la legge Smuraglia,
la percezione è che sono ancora molti i pregiudizi che le imprese riservano ai lavoratori
detenuti: i timori delle imprese esterne risultano principalmente legati in primo luogo
ad una sfiducia nelle capacità professionali dei detenuti e alla perplessità in merito alla
rigidità del sistema carcerario, che difficilmente si adatta alle esigenze di flessibilità
legate alla produzione dell’impresa; in secondo luogo anche a questioni di carattere
decisamente pregiudiziale, come il timore di una scarsa affidabilità e la paura che il
clima interno o l’immagine esterna dell’impresa ne venga minacciata.
La parte di maggior interesse della ricerca si concentra invece sul senso del lavoro e
sulla sua natura educativa: il lavoro infatti “consente di far capire ai detenuti che
alcune regole basilari devono essere interiorizzate per il significato, per il ruolo che
rivestono, non tanto per la paura della sanzione…”; inoltre sono i detenuti stessi che in
più occasioni rilevano il fondamento educativo del lavorare, espresso dal fatto che il
lavoro permette:
a) di imparare,
b) di sperimentare relazioni significative,
c) di costruire un’identità sociale normale,
d) di sentirsi utili e di fare qualcosa di tangibile.
269
Cosa è dunque il carcere dal punto di vista di chi vi è rinchiuso?
- Il carcere è, innanzitutto, un luogo in cui la normalità è sospesa. Intendendo per
normalità l’insieme delle relazioni che coinvolgono persone adulte nel proprio
ambiente di appartenenza.
Non c’è abitudine a parlare di sé, forse neanche a pensare a sé (se non per gli
aspetti legati alla mera sopravvivenza).
- In carcere le regole normali di comportamento non valgono o valgono talvolta (in
questo senso cessa evidentemente la prospettiva della regolarità, su cui si fonda
gran parte della normatività psicologica). Il normale nesso di causalità sembra
sospeso, sostituito da accadimenti che – a seconda dell’ambiente carcerario in cui si
è inseriti e della popolazione carceraria a cui si appartiene – possono essere assai
diradati o, al contrario, assai frequenti.
- Il carcere è un luogo che in qualche modo nega l’adultità, intesa come capacità di
cogliere i nessi di causalità e, quindi, di assumere responsabilità. Tutto sembra teso
a favorire una regressione delle persone detenute verso una dimensione infantile
con il risultato di favorire lo sviluppo di una contraddizione intrinseca tra l’esigenza
di mantenere un controllo sociale elevato, per cui la regressione si giustifica, ed una
di favorire l’assunzione di responsabilità, per cui si dovrebbe promuovere l’adultità.
15.4 Un modello di alternanza in carcere
Alla luce delle indagini svolte le agenzie promotrici della ricerca hanno elaborato un
modello di intervento che alterna lavoro e formazione e che si pone i seguenti obiettivi:
- conoscere e sostenere la motivazione al lavoro delle persone, favorendo una
ristrutturazione delle convinzioni inadeguate o disfunzionali a riguardo
- conoscere le risorse interne delle persone candidate al lavoro, promovendo al
contempo una capacità di autovalutazione che favorisca l’esame di realtà
- sviluppare la capacità di pensabilità positiva delle persone al lavoro, in particolare
rafforzando la costruzione di sé possibili e alternativi alla condizione attuale
- sviluppare le risorse interne alla persona, indirizzandole in particolare alle
competenze trasversali che maggiormente possono influenzare una futura
270
occupabilità
- sviluppare le risorse esterne alla persona che possono aumentarne l’occupabilità
futura.
Gli interventi formativi prevedono, oltre ad una formazione tecnica iniziale per chi si
affaccia ad una nuova posizione lavorativa, una formazione in itinere secondo il
modello denominato “4 + 1” facendo riferimento alle giornate della settimana
lavorativa, di cui quattro sono dedicate ad attività produttive e una alla formazione.
I contenuti della formazione sono variabili a seconda dei contesti e dei gruppi classe,
ma si basano su alcuni elementi di base comuni a tutte le sperimentazioni realizzate:
- agire sul senso della giornata lavorativa e sulle rappresentazioni del sé nei diversi
contesti;
- agire sul desiderio e sulla motivazione ad attribuire un senso alle giornate di lavoro;
- realizzare percorsi di orientamento individuale e/o di gruppo al fine di far emergere
le potenzialità di ciascuna persona;
- rielaborare i vissuti della quotidianità, sia per quanto riguarda i problemi legati al
lavoro in sé, sia per quanto riguarda i problemi relazionali che l’attività lavorativa
comporta.
Il modello è sinteticamente riassunto nello schema seguente.
271
Figura 2: Iter del Processo di Integrazione Formazione - Lavoro
Popolazione
carceraria in
ingresso
Selezione
Definizione del
contratto
reciproco
Caratteristiche
personali possedute
/ punti di forza
Bilancio di
competenze
Cosa desidero dal
lavoro
Analisi di
bisogni e
desideri
Progettualità
personale sul lavoro
Costruzione
di pensabilità
Contratto di
lavoro
Contratto
formativo

Competenze
trasversali
Acquisizione di
competenze di base
Addestramento
tecnico
lavoro
Ripresa
dell’esperienza
Sviluppo delle risorse
personali
Incremento della
progettualità

formazione
I risultati di tali sperimentazioni sono stati molto positivi in quanto i partecipanti alle
attività formative hanno manifestato una sostanziale soddisfazione e soprattutto è
stato possibile osservare un cambiamento nell’atteggiamento nei confronti del lavoro,
passando da esclusivamente strumentale ad una consapevole costruzione della propria
identità e dignità umana.
15.5 Suggerimenti di policy
Innanzitutto è fondamentale partire dalla dimensione economica del costo dei
carcerati; Un detenuto costa mediamente alla collettività - per soli costi diretti - oltre
272
100.000 €/anno (circa 300 €/giorno). Quindi gli oltre 50.000 carcerati hanno oggi un
costo per la collettività che supera i 5 miliardi di euro all’anno.
Se dunque oggi la possibilità del lavoro è offerta solo al 3.5% (727 semiliberi, 307
articoli 21, 700 lavoranti all’interno), è evidente che occorre implementare questa
possibilità; il risparmio che se ne ottiene in termini economici è enorme se si considera
come già detto che le recidive per chi lavora passano da percentuali che vanno dal 70
al 90% a percentuali inferiori al 20% con alcune esperienze eccellenti che toccano
punte dell’1%.
Occorre quindi muoversi lungo la linea della legalità prevista dall’art. 27 della
Costituzione ("…Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di
umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato…") e le normative che ne
derivano.
I consorzi e le cooperative sociali in Italia hanno fatto in maniera sussidiaria solo
questo: hanno provato ad operare rispettando le leggi ottenendo risultati straordinari
(1-5% di recidiva contro il 90%).
Purtroppo occorre constatare che da almeno un ventennio si fa molto poco per il
carcere, non solo per i 55.000 detenuti, ma anche e in modo particolare agi oltre
50.000 dipendenti dell’Amm. Penitenziaria (poco meno di 43.000 sono gli agenti di
polizia penitenziaria), anche loro vittime di questo abbandono e di questa più generale
perdita del senso e del valore del lavoro.
Si deve dunque lavorare senza fare confusione sulla filiera sicurezza sociale, certezza
della pena e funzione del carcere. E’ ovvio per tutti che chi sbaglia deve pagare. Lo
diceva tanti anni fa un certo S. Agostino: “…lasciare impunito il colpevole è una
crudeltà, perché toglie a chi ha sbagliato la possibilità di correggersi; analogamente
favorire un reo perché è povero non è un vero atto di misericordia, in quanto l’impunità
lascia il povero prigioniero della sua iniquità…”; e - ancora - “…la pena non deve avere
il carattere di una vendetta, né di un’incontrollata scarica emotiva, ma di un atto di
ragione commisurato al duplice fine: della conservazione della società e della
correzione del colpevole. Nella proporzionalità sta la giustizia della pena…” e - da
ultimo - “… si devono perseguire i peccati e non i peccatori, la condanna deve estirpare
il peccato e non annientare il peccatore…”.
Da queste osservazioni discendono precise indicazioni di policy:
273
a) applicare le normative vigenti in materia di lavoro (ord. penitenziario, L. Smuraglia,
L. 381/91) e, dove serve, modificarle secondo il più recente principio costituzionale
di sussidiarietà.
b) investire perchè, se investendo 1 milione di euro se ne risparmiano 1 Miliardo,
quale società, quale cittadino non lo farebbe? (e non solo per i soldi, ma perché
avviene un effettivo recupero del condannato).
c) la struttura carcere deve essere più flessibile altrimenti non si fa lavoro, ma
assistenza. Per recuperare la legalità, e perciò il senso per cui si fanno le cose,
occorre motivare e rimotivare chi lavora (teniamo presente che i primi educatori, i
primi maestri, di una società sono i lavoratori), in primis gli agenti di polizia
penitenziaria. A detta degli stessi agenti, il vero problema non è costituito dalla loro
quantità, ma dalla qualità del loro lavoro, che va meglio motivato, e premiato sotto
il profilo economico per i più meritevoli: nessuno ha mai pensato ad esempio a
prevedere incentivi per quegli agenti che abbiano contribuito ad abbattere la
recidiva grazie alla qualità del loro intervento trattamentale sul detenuto? Ma per
fare questo occorre:
- valorizzare il vero merito;
- lavorare dove serve, cioè favorire la mobilità: non si capisce perché vi sia un
affollamento del personale impiegato al Dap di Roma (poco meno di 2000
persone), così come la non equa distribuzione degli educatori (10 educatori per
300 detenuti in alcune realtà, contro 2 per 700 in altre realtà)
d) servono più magistrati di sorveglianza: cosa possono fare 150 magistrati per 55.000
detenuti oggi, con previsioni di 60.000 a fine anno e 80.000 fra due anni?
Non si può affidare il giudizio su di una persona solo a delle carte, il più delle volte
risalenti ancora al periodo in cui è stato commesso il reato.
Questo vale anche per gli educatori e per gli psicologi.
Come può una cooperativa o un’impresa inserire al lavoro un detenuto senza
interlocutori? Come può una società accogliere un detenuto od ex-detenuto, se
questo quando esce dal carcere è peggiore di quando ne è entrato?
e) bisogna perciò spingere di più, prima del fine pena, sul lavoro all’interno e sulle
misure alternative.
274
f) ultimo ma non ultimo: va posta una vera attenzione a chi vive il dramma di aver
subito un reato, se non addirittura di aver perso un caro, magari un figlio.
Occorre maggior rispetto nei confronti di queste persone, e ciò deve arrivare in
primis dalla stampa, sempre pronta a fagocitare per poi vomitare addosso qualsiasi
cosa, purché faccia audience; occorre una vera attenzione nei confronti delle vittime
e dei parenti delle vittime, e questo deve provenire dallo Stato e dalla società nel
suo insieme. Occorre perciò riconoscere gli esempi già presenti sul territorio
nazionale da qualsiasi parte arrivino, sostenerli e incrementarli.
275
16.
I tossicodipendenti
Il consumo di droghe è un fenomeno purtroppo tuttora in espansione in tutto il mondo.
Nel nostro Paese, il numero dei tossicodipendenti in contatto con i servizi pubblici e
privati sfiora le 190 mila unità, ma molti di più sono coloro che non hanno mai fatto
ricorso a trattamenti terapeutici e riabilitativi.
Negli ultimi 10 anni si è verificato, in linea con gli altri Paesi europei, un aumento
esponenziale dei consumatori di cannabis, di sostanze sintetiche e di cocaina. E’
preoccupante il continuo abbassamento dell’età media di primo approccio alle sostanze
stupefacenti.
L’Italia è al terzo posto in Europa per i consumi di cocaina (2,1%), dopo Regno Unito e
Spagna e al primo per i consumi di cannabis, con un trend in crescita dal 2001 al 2005
(dal 6,2 all’11,2%) – Dati INCB 2007. Dalla “Relazione del 2006 al Parlamento sullo
stato delle tossicodipendenze in Italia”, è emerso che l’uso di sostanze illegali riguarda
il 30% dei giovani adulti (15-34 anni): la droga più diffusa è la cannabis seguita da
cocaina, solventi, ecstasy, allucinogeni, anfetamine, oppiacei.
La normalizzazione delle tossicodipendenze e la tendenza a convivere con il problema
hanno portato i giovani consumatori a definirsi e riconoscersi solo come consumatori
occasionali, capaci di gestire le sostanze, e non quindi tossicodipendenti.
Si registra tra i giovani, anche in età scolastica, un’età sempre più precoce di
iniziazione alla tossicodipendenza, unita al fenomeno costante della diminuzione di
percezione del rischio associato all’utilizzo delle sostanze stupefacenti che rende i
consumatori sempre meno coscienti dello stato di tossicodipendenza in cui versano.
Dalla Relazione del 2006 al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze emerge che
il livello di percezione del rischio per la propria salute dell’utilizzo di sostanze psicoattive
è, in molte Regioni, inversamente proporzionale alla prevalenza d’uso stimata dalla
stessa indagine; in alcune Regioni, come Emilia-Romagna, Basilicata, Molise, Calabria,
ad una forte percezione dei rischi si associa una minore prevalenza di consumi e in
altre Regioni, come ad esempio le Marche, la Toscana, la Lombardia, la Puglia e
276
l’Umbria dove la percezione dei rischi è più bassa si associano più alti consumi delle
sostanze.
La Lombardia è la regione che fa registrare la più alta prevalenza di consumatori (una
o più volte negli ultimi 12 mesi) di cocaina (4,7%), mentre per le altre principali
sostanze psicoattive le regioni a più alte prevalenze sono il Lazio per i cannabinoidi
(10,6%) e la Liguria per l’eroina (0,7%). Ancora, la Regione maggiormente interessata
dall’utilizzo di allucinogeni e di stimolanti di sintesi risulta la Lombardia (rispettivamente
circa lo 0,85% e l’1,1% dei rispondenti fra i 15 ed i 54 anni); seguono per gli
allucinogeni la Campania con lo 0,6%, l’Emilia Romagna, il Lazio, l’Umbria e il Veneto
con prevalenze intorno allo 0,5% e per gli stimolanti di sintesi segue la Liguria con lo
0,8%.
In Emilia Romagna che è la Regione in cui opera prevalentmente l’esperienza di San
Patrignano qui indagata emerge che:
- “Nel territorio regionale rispetto alle dipendenze, sono in costante aumento le
persone con problemi di dipendenza da droghe e alcool: i soggetti a carico dei
servizi di supporto Sert e dei centri alcologici sono in totale quasi 16.000 con un
incremento del 58% rispetto al 1991.” (Cfr. POR 2007-2013)
- “A presentare elevati tassi di disoccupazione e di instabilità occupazionale sono le
categorie in situazione di particolare svantaggio: donne sole con figli, famiglie
numerose, persone penalizzate da particolari condizioni di disabilità fisica e psichica,
ex detenuti, soggetti con forme di dipendenza e lavoratori precari e a basso reddito”
(Cfr. POR 2007-2013).
Relativamente all’uso problematico, la prevalenza di utilizzatori problematici di oppiacei
è stimata intorno ai 210.000 soggetti (5,4 ogni mille residenti di età 15-64). Quella di
utilizzatori problematici di cocaina intorno ai 147.000 (3,8 ogni mille residenti di età 1564). L’analisi dell’andamento temporale delle stime mostra un incremento rilevante per
quanto concerne i soggetti eleggibili al trattamento per uso problematico di cocaina e
una stabilità per quanto riguarda, invece, la popolazione eleggibile al trattamento per
l’uso problematico di oppiacei. (Cfr. Relazione del Parlamento 2006)
L’ammontare dei costi sociali legati all’uso di sostanze illegali, è stimato per il 2006
intorno ai dieci miliardi e cinquecento milioni di euro. Tale valore, calcolato sommando
i costi per l’acquisto delle sostanze e per l’applicazione della legge (65%), i costi sociali
277
dell’intervento socio-sanitario (17%) e i costi legati alla perdita di produttività il (18%),
corrisponde allo 0,7% del Prodotto Interno Lordo Italiano del 2006 e all’1,2% della
spesa delle famiglie residenti. (Cfr. Relazione del Parlamento 2006).
Ma la situazione è preoccupante in tutto il paese e soprattutto nelle aree metropolitane
in cui il fenomeno della tossicodipendenza ha assunto dimensioni seriamente
preoccupanti dato l'elevato numero di consumatori, noti e non noti, alle autorità
pubbliche sanitarie.
A titolo esemplificativo si può citare un'indagine condotta dal Dipartimento dipendenze
dell'Asl Citta' di Milano nel 2007, su un campione di 365 iscritti in 35 autoscuole
milanesi per testare abitudini, atteggiamenti e diffusione di fumo, alcol e droga nella
popolazione giovanile milanese, sottolineava come siano carenti le reazioni di
disapprovazione nei confronti dell'uso di sostanze che creano dipendenza. A cominciare
dalla nicotina: solo il 31,2% dei giovani milanesi non fuma, e il 44,8% non riserva
giudizi negativi, anzi si definisce indifferente a chi consuma più di 10 sigarette al
giorno. I dati sull’uso di alcolici indicavano che il 18,7% beve più di 10 giorni su trenta,
il 2,3% più di 40 volte. Il 26,3% degli intervistati dichiarava di essersi ubriacato
nell'ultimo mese. Le droghe più diffuse tra gli intervistati vanno dalla marijuana
(consumata almeno una volta dal 43,7% dei giovani e dal 21,5% nell'ultimo mese) agli
inalanti, al secondo posto nella classifica di gradimento (sperimentati dal 13,9% e
utilizzati nell'ultimo mese dal 5%), fino alla cocaina consumata nell'ultimo mese dal
2,5% degli intervistati. L’ecstasy era infine stata utilizzata dal 5,3% degli intervistati. –
Dati Relazione al Parlamento 2006.
16.1 Le innovazioni metodologiche e organizzative del modello
San Patrignano
San Patrignano è una comunità per il recupero e il reinserimento sociale dei
tossicodipendenti. Fondata nel 1978 per iniziativa di Vincenzo Muccioli, ospita oggi
1.400 persone ripartite tra la sede principale di Ospedaletto di Coriano, in provincia di
Rimini, e i centri di San Vito di Pergine nei pressi di Trento e di Botticella (Sant'Agata
Feltria) nelle Marche. San Patrignano offre un servizio completamente gratuito per le
persone accolte e le loro famiglie e senza alcun tipo di retta da parte dello Stato. Nel
278
corso dei suoi 30 anni di attività, la comunità ha ospitato circa 20.000
tossicodipendenti. La percentuale di persone pienamente recuperate e reinserite nella
società supera il 73%.
Il modello di San Patrignano si fonda su alcuni cardini:
a) L’approccio metodologico:
Il principio fondamentale su cui la comunità di San Patrignano è nata e si è sviluppata
è che la tossicodipendenza non sia una malattia ma un sintomo di disagio, di un vuoto
educativo, spesso dell’assenza di punti di riferimento validi per la persona che fa uso di
sostanze stupefacenti.
La riabilitazione si fonda quindi su di un percorso educativo, in cui le persone accolte
sono da subito coinvolte in un ruolo attivo basato su una vita di relazione responsabile,
aperta e impegnata, con il sostegno di educatori che, in molti casi, hanno già vissuto e
superato le stesse problematiche. Il programma riabilitativo di San Patrignano è drugs-
free, differenziandosi da altri metodi in cui vengono proposte terapie farmacologiche
sostitutive spesso a mantenimento. La convinzione di base è che tali terapie non sono
risolutive e, oltre che essere utilizzabili unicamente per persone dipendenti da oppiacei,
comportano costi sociali molto elevati. In Italia si calcola che i costi per l’acquisto delle
sostanze sostitutive e per l’applicazione della legge (corrispondenti al 65% del costo
sociale totale per un tossicodipendente), i costi sociali dell’intervento socio-sanitario
(17%) e i costi legati alla perdita di produttività il (18%), corrispondono allo 0,7% del
Prodotto Interno Lordo Italiano del 2006 e all’1,2% della spesa delle famiglie residenti.
(Cfr. Relazione del Parlamento 2006). Tali numeri vanno poi moltiplicati per un numero
indefinito di anni, a causa dell’intrappolamento degli assistiti in una condizione di
tossicodipendenza cronica a causa del massiccio uso di farmaci sostitutivi.
La Relazione annuale “Evoluzione del fenomeno della droga in Europa” del 2007
pubblicata dall’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze indica che
nei paesi europei la spesa pubblica nazionale collegata alle droghe ha rappresentato
una percentuale compresa tra lo 0,11 e lo 0,96 % della spesa generale complessiva del
governo nell’arco di un anno, o tra lo 0,05 % e lo 0,46 % del prodotto interno lordo
(PIL). Le attività di polizia hanno rappresentato il 24-77 % della spesa totale, mentre le
risorse restanti sono state spese per le attività di «assistenza sanitaria e sociale».
In quasi 30 anni di attività la Comunità ha ospitato più di 18.000 persone, per un
279
periodo di riabilitazione che dura in media dai 3 ai 5 anni, e ha trasformato più di 36
secoli di condanne penali in percorsi di recupero alternativi al carcere.
L’organizzazione affida a terzi la misurazione dell’impatto della sua attività:
periodicamente vengono commissionate ricerche di follow-up ad università ed enti di
ricerca. Tutt’ora è in corso uno studio sugli esiti dei trattamenti che coinvolge un ampio
campione.
Il monitoraggio dell’attività viene effettuato internamente, mentre si preferisce affidare
la valutazione, soprattutto degli effetti del trattamento nel lungo periodo, ad esperti
esterni, per garantire maggiore oggettività ai risultati.
Da una prima ricerca realizzata nel 1994 da San Patrignano in collaborazione con
l’Università di Urbino sulla capacità di reinserimento sociale degli ospiti della Comunità
emergeva che, su 711 ex-ospiti della Comunità di San Patrignano, una volta usciti dalla
comunità, il 35% aveva costituito una nuova famiglia, circa l’83% aveva costituito un
nuovo “giro di amici”, e l’80% al momento dell’intervista aveva un lavoro. Maggiore
problematicità al reinserimento lavorativo veniva presentato dai soggetti con più di 35
anni, dei quali oltre il 22% risultava disoccupato, pur essendo evidente una relazione
diretta tra livello del lavoro svolto in uscita e livello del titolo di studio precedente.
L’ultima ricerca pubblicata, condotta nel 2005 su ex-ospiti della Comunità di San
Patrignano attraverso l’esame tossicologico del capello, attestava che il 78% dei
soggetti partecipanti alla rilevazione non faceva ricorso all’uso di sostanze stupefacenti
dopo 2 anni dall’uscita dalla comunità, con il consenso della stessa, e del 70% dopo 4
anni. Tra coloro che avevano lasciato il trattamento senza il consenso della comunità,
invece, la percentuale dei soggetti che avevano avuto una ricaduta era pari al 51%.
Dalla stessa ricerca emergeva che i fattori che rendono più elevato il rischio di ricaduta
sono il sesso (rischio di ricaduta maggiore nei maschi), la durata del soggiorno in
comunità (inversamente proporzionale al rischio di ricaduta), un rapporto più precoce e
di maggiore durata con le droghe.
b) L’Innovazione nell’organizzazione del servizio socio-assistenziale
La permanenza in Comunità è completamente gratuita, non sono richiesti né accettati
contributi dalle persone accolte e dalle loro famiglie né rette dallo Stato.
Il mantenimento di ogni ospite comporta per la comunità un costo di circa 33 euro al
giorno, corrispondenti a 12 mila euro l’anno. Si calcola che ogni anno San Patrignano
280
faccia risparmiare allo Stato rette per 30,6 milioni di euro. Il fabbisogno economico
della comunità è garantito dalle capacità di autoconsumo e dagli introiti derivanti dalla
vendita, anche internazionale, di beni e servizi di alta qualità realizzati nei laboratori
nonchè dalle indispensabili donazioni di privati, aziende e fondazioni. I finanziamenti
pubblici nonchè grant ad istituzioni nazionali o internazionali, vengono richiesti
unicamente per affrontare nuovi investimenti e per offrire nuovi servizi.
Le
attività
riabilitative
della
Comunità
ruotano
intorno
ai
moduli
operativi
(generalmente composti da 30 a 50 persone) ai quali sono assegnate le persone dal
momento del loro ingresso in Comunità e per tutta la loro permanenza. All’interno dei
moduli le persone sono affiancate al loro arrivo ad un ospite che ha già superato le fasi
più critiche del recupero dalla tossicodipendenza, e che svolge verso il nuovo arrivato
un ruolo di guida e mentor. All’interno di ogni modulo vi è un educatore responsabile
coadiuvato, a secondo della numerosità del gruppo, da altri educatori.
In ciascuno dei moduli operativi, attraverso il coordinamento di esperti qualificati, si
svolgono attività di formazione professionale e stage
lavorativi. L’organizzazione si
finanzia in gran parte attraverso i proventi delle vendite dei suoi prodotti e servizi, che
sono fortemente influenzati dalla qualità e capacità produttiva interna, che è soggetta
ai flussi e alla permanenza in comunità delle persone addette a ciascun modulo
operativo. Elemento di unicità dell’organizzazione è infatti l’impegno in termini di
formazione professionale verso gli ex-tossicodipendenti residenti che nel momento in
cui raggiungono la massima produttività sono pronti per il reinserimento lavorativo
all’esterno della comunità.
Fin dall’inizio del percorso ogni persona svolge un ruolo attivo, attraverso l’attività
lavorativa nel proprio settore, e attraverso il servizio prestato nell’ambito delle attività
comuni (es. servizio a turni ai tavoli all’interno della sala da pranzo).
All’interno della comunità le attività sono organizzate in modo da soddisfare tutte le
esigenze di carattere residenziale delle circa 1600 persone ospitate. Vi è un comparto
residenziale costituito sia da palazzine che da villette raggruppate in un unico contesto
attrezzato; una cucina centrale che provvede alla preparazione dei tre pasti principali
per 365 giorni l’anno con annessa sala da pranzo; una lavanderia centralizzata per la
pulizia del vestiario, lenzuola, tovaglie, tendaggi, etc.; un forno per la preparazione del
pane per il consumo interno, 220 q/g, nonché per la preparazione di dolci, pizza e
281
gelati; una Struttura Sanitaria specializzata nella cura delle patologie connesse all’uso
di sostanze stupefacenti; strutture ricreative e sportive idonee per accogliere
contemporaneamente, durante lo svolgimento di eventi importanti, tutti i residenti della
Comunità; un Centro Studi per il recupero scolastico di persone adulte; una struttura
per l’infanzia che comprende attività di asilo nido e scuola materna nonché doposcuola
per studenti di scuole elementari e medie (durante il giorno, oltre ai bambini della
Comunità, vengono accolti anche i bambini dei dipendenti della Struttura).
16.2 Un modello di risposta integrata
Gli elementi che contraddistinguono il metodo San Patrignano possono essere riassunti
in quattro grandi macro aree tra esse correlate.
a) Imparare un mestiere
Insegnare un mestiere ai ragazzi è uno dei principi fondanti di San Patrignano: fa parte
di un modo preciso di interpretare quella forma estrema di disagio umano che è la
tossicodipendenza, le sue cause profonde e il percorso per uscirne e reinserirsi nella
società.
La formazione professionale ha, quindi, un ruolo fondamentale: non come “fine”, come
obiettivo del percorso educativo, ma come strumento fra i più importanti di riscatto,
coinvolgimento e appartenenza; l’opportunità di appassionarsi alla vita, ritrovare
interessi ed entusiasmi, abituarsi alla responsabilità e ad avere delle relazioni
significative con gli altri. Imparare un lavoro, insomma, per imparare ad interagire, a
responsabilizzarsi, a costruire le basi della propria autonomia e a progettare il proprio
futuro.
Ogni ragazzo ha la possibilità di scegliere tra molte opportunità diverse quella
collimante con le proprie esigenze e potenzialità. Grazie ad essa, alla fine del suo
percorso educativo, potrà reinserirsi a pieno titolo e da persona autonoma e libera nel
mondo del lavoro.
L'attività formativa riveste infatti un'importanza fondamentale e strategica per
agevolare e facilitare il definitivo reinserimento lavorativo delle persone che hanno
avuto un passato di tossicodipendenza: dall'esperienza maturata in 30 anni di attività
dalla Comunità San Patrignano emerge con grande evidenza il fatto che la formazione
282
professionale è propedeutica e decisiva per l'avviamento al lavoro e per contribuire,
attraverso l’impegno quotidiano in attività di formazione, laboratorio e lavoro, al
recupero dell’autostima, indispensabile per le persone con un passato con
tossicodipendenza.
Grande attenzione e sforzo sono rivolti a far acquisire a tutti i ragazzi una certificazione
di competenze o una qualifica riconosciuta a livello regionale, affinché essi posseggano
strumenti e competenze utili per l’accesso al mercato del lavoro.
b) Studiare per crescere
Il percorso di recupero rappresenta per le persone ospiti l’irrinunciabile opportunità di
acquisire un diploma o una qualifica professionale che possa permetter loro, una volta
completata con successo la riabilitazione, un positivo reinserimento lavorativo e sociale.
Gli studenti a San Patrignano sono giovani e adulti che hanno deciso di iniziare un
percorso di studio o di riprendere gli studi interrotti durante l’adolescenza a causa della
tossicodipendenza. Provengono da esperienze diverse, con preparazioni eterogenee ed
età differenti, ma hanno in comune l’obiettivo di conseguire un diploma, di scuola
media, di qualifica, di scuola superiore o di laurea.
Il Centro Studi ha sede in un edificio su due livelli, collocato all’interno della Comunità
di San Patrignano, interamente riservato alle attività del Centro e fruibile da parte di
tutti gli Ospiti.
Il Centro dispone di 11 aule didattiche, una sala studio, una biblioteca con oltre
duemila libri, un’area dedicata alla segreteria, una sala computer per gli studenti,
un’aula di disegno. Il Centro Studi propone nove differenti indirizzi scolastici per il
conseguimento del diploma di Stato di istruzione secondaria superiore, quattro scuole
serali statali (per un totale di cinque indirizzi) con docenti di ruolo preposti dal ministro
dell’Istruzione, 150 ore di lezione per ottenere la licenza media e due lezioni settimanali
da settembre a giugno per la conoscenza della lingua italiana da parte dei numerosi
ragazzi stranieri in comunità.
c) Il tempo libero
Notevole importanza nel percorso educativo di riabilitazione viene data alle attività
sportive e del tempo libero, con l’obiettivo di realizzare momenti di approfondimento e
di svago idonei a soddisfare le esigenze di tutti creando ulteriori occasioni di crescita.
283
d) Sport
Ogni anno si svolgono a San Patrignano campionati interni di calcio, di basket e di
volley, per un totale di circa 100 partite e 190 ore di allenamento per disciplina. La
rappresentativa di calcio della comunità partecipa al campionato di terza categoria. La
squadra di basket, invece, prende parte al campionato di serie D e, con un’altra
formazione, al Campionato Arci, nel quale nel 2007 ha raggiunto i play off.
Molto diffusa, inoltre, l’attività podistica, con un gruppo di 15 ragazzi che prendono
parte a diverse competizioni agonistiche regionali ed oltre 100 che la praticano
settimanalmente a livello ricreativo.
Nel complesso circa 10mila ore annue sono dedicate all’attività atletica, di ogni tipo.
Oltre 1000 persone vi prendono parte, a seconda delle propensioni individuali.
Infine attenzione particolare è dedicata all’informazione e all’intrattenimento. Nello
Spazio Sanpa e nel teatro della comunità si svolge una programmazione giornaliera
televisiva (dalle 19.00 alle 24.00) che comprende spazi di informazione e telegiornali,
trasmissioni di intrattenimento, di cultura e di approfondimento. Vengono, inoltre,
proiettate pellicole cinematografiche secondo i gusti delle ragazze e dei ragazzi della
comunità.
Nel corso dell’anno più di 70 ragazzi della comunità hanno partecipato a laboratori
teatrali e corsi di danza, con il supporto di insegnanti specializzati. Da questa
esperienza è nato un gruppo teatrale, composto da venti elementi, che ha curato la
messa in scena di spettacoli interni alla Comunità: dalla ideazione dei copioni alla
realizzazione delle scenografie e dei costumi, dall’organizzazione della serate dedicate
alla regia luci/audio e video.
Il coro della comunità, i SanPa Singers, esprime una linea musicale tracciata nel solco
della tradizione gospel e spirituals. E’ composto da 28 elementi, di cui 13 uomini e 15
donne, con un’età compresa tra i 21 e i 35 anni. Il gruppo è diviso in base alle
caratteristiche vocali dei suoi componenti: 5 bassi, 2 baritoni, 1 baritono versatile, 6
contralti, 5 soprani, 4 mezzi soprani, 4 tenori e 1 mezzo tenore. Quattro di essi si
alternano, durante i concerti, nel ruolo di solista.
La direzione artistica è affidata, dal 2003, al maestro Marco Galli, già direttore del Coro
“Città di Riccione”. I SanPa Singers partecipano a manifestazioni musicali di carattere
regionale e nazionale.
284
e) Il supporto al reinserimento lavorativo
Facilitare il reinserimento lavorativo e sociale dei suoi ospiti a conclusione del loro
percorso di riabilitazione, accompagnandoli nell’uscita dalla Comunità è l’obiettivo
primario della Comunità.
Le difficoltà legate all'inserimento lavorativo o il prolungarsi dello stato di assenza del
lavoro e di disoccupazione di un soggetto che ha completato con successo
l'impegnativo programma di recupero costituiscono il rischio e la causa principale per
una ricaduta nel mondo e nel dramma della tossicodipendenza.
Il reinserimento viene curato dall’ufficio accoglienza della Comunità, che affianca gli
ospiti dal momento del loro ingresso in Comunità, li accompagna alla graduale
ricostruzione dei legami familiari fino al supporto sugli aspetti di ricerca del lavoro,
della casa.
San Patrignano ha avviato da anni azioni per supportare gli ospiti in uscita dalla
Comunità nella ricerca del lavoro, in primo luogo attivando tirocini formativi e
inserimenti, rispondenti eventualmente anche alle esigenze e ai criteri individuati
dall'art. 8 della Legge Regionale dell’Emilia-Romagna n. 45/96, presso le cooperative
sociali facenti parte del Sodalizio San Patrignano, presso la Cooperativa sociale
Arcipelago, per le quali l'aspetto del reinserimento lavorativo di soggetti svantaggiati e
di tossicodipendenti ed ex tossicodipendenti è presente negli Statuti e continuamente
attuato senza soluzioni di continuità così come disposto dalla Legge 381/91, e presso
aziende del territorio provinciale.
Il sostegno all’inserimento lavorativo degli ospiti è comunque garantito su tutto il
territorio nazionale, attraverso anche la rete delle ANGLAD e delle associazioni
territoriali con le quali San Patrignano collabora da anni.
La Cooperativa Sociale Arcipelago con sede nella zona artigianale del Comune di
Coriano (RN), è stata costituita nel 2002 e persegue lo scopo di reinserimento sociale e
lavorativo di persone che hanno concluso il proprio percorso riabilitativo nella Comunità
San Patrignano.
Dal 2002 sono più di 40 le persone che, dopo un periodo di lavoro presso la
Cooperativa di almeno un anno, hanno realizzato un definitivo reinserimento nel
tessuto socio-economico provinciale.
285
Attualmente sono 19 i soci in forza alla Cooperativa, di cui 5 sono soci volontari e 14
soci lavoratori. La Cooperativa contribuisce anche al reinserimento abitativo dei propri
soci lavoratori mettendo a disposizione degli stessi 4 diversi appartamenti localizzati tra
Ospedaletto, Vecciano e via del Maranello.
Le attività della Cooperativa si sono notevolmente espanse e ad oggi sono
rappresentate dai seguenti comparti produttivi:
- Carpenteria in ferro e ferro battuto (Ringhiere, scale, balconate, basamenti
macchine, argani per gru, etc);
- Decorazioni e tinteggiatura fabbricati civile e decorazioni e stucchi;
- Installazione e manutenzione di impianti elettrici civili e industriali, automazione
cancelli, costruzione di quadri per macchinari su progetto ingegneristico;
- Strutture in legno massello e lamellare su misura;
- Manutenzione, giardinaggio e piantumazione del verde.
16.3 Suggerimenti di policy
Il punto da cui partire nel cercare di delineare possibili azioni per combattere il
fenomeno della tossicodipendenza è prendere atto del citato fatto che, tra i giovani, si
manifesta una tendenza all’uso di sostanze stupefacenti in un’età sempre più precoce e
che essa è connessa a una percezione ridotta del rischio associato all’utilizzo delle
sostanze stupefacenti.
Da questa constatazione discende che le politiche più urgenti ed efficaci paiono essere
quelle aventi natura preventiva; tra esse un certo ruolo hanno assunto le campagne di
informazione promosse ai diversi livelli degli organi istituzionali e che certamente
contribuiscono a una miglior percezione dei rischi. Ma tali campagne resterebbero del
tutto inefficaci senza che sia delineata una chiara alternativa; essa deve avere i
connotati di una proposta integrale capace di prendersi in carico la persona in ogni sua
dimensione e di accompagnarla nei diversi passaggi che portano all’uscita dalla
dipendenza. Come si è detto infatti la tossicodipendenza non è una malattia, ma
prevalentemente si caratterizza come una risposta a situazioni di disagio, sia oggettive
(quale ad esempio può essere una condizione di indigenza o di insuccesso nel percorso
286
scolastico, formativo e lavorativo), sia soggettive (assenza di punti di riferimento,
assenza di significato, etc).
Le proposte possono essere molte, così come numerose sono nella realtà le tipologie di
risposta messe in atto dagli operatori del sociale; tra tutte pare ragionevole privilegiare
quelle che affrontano il problema secondo il principio di combattere il fenomeno alla
radice, piuttosto che le tradizionali azioni legate a terapie di tipo farmacologico; queste
ultime possono avere una valenza in circostanze particolari o per periodi transitori, ma
sono utili e efficaci solo se fanno parte di un progetto di recupero reale e totale.
Anche per i tossicodipendenti vale quanto affermato per altre tipologie di soggetti a
rischio di povertà e di esclusione sociale, nel senso che uno dei grimaldelli per uscire
dalla situazione di dipendenza è legato ad azioni connesse con il successo formativo e
l’inserimento lavorativo. Si tratta come noto di azioni che abbisognano di tempi medio
lunghi e per tale motivo non possono che partire dalla citata presa in carico della
persona da parte di un soggetto che possa fungere da riferimento per tutto il percorso.
Questa modalità porta anche a ritenere che la “comunità di accoglienza” svolga spesso
un ruolo fondamentale nello strutturare percorsi adeguati e nel sostenere la persona
nel momento dell’inserimento a pieno titolo nella società e in particolare nel mondo del
lavoro.
Si ritiene dunque che le politiche debbano essere indirizzate a sostenere le esperienze
che sorgono dal basso e che dimostrano di saper ottenere risultati concreti. In tal
senso occorre che gli stessi soggetti che operano in questo campo rendano visibili i
percorsi proposti e soprattutto gli esiti ottenuti; un modo per andare in questa
direzione potrebbe essere il sostegno alla redazione del bilancio sociale, che non va
visto tanto come documento di natura amministrativo contabile, quanto piuttosto come
la messa in rete dei risultati e anche delle problematiche che emergono.
Un'altra azione, che ben si sposa con la proposta di osservatorio elaborata nella quarta
parte di questo volume, è la messa in rete di dati e esperienze attraverso la creazione
di sistemi fortemente interattivi. Questo tipo di attività difficilmente riuscirà a fornire un
quadro completo dei soggetti appartenenti all’universo delle tossicodipendenze, ma
certamente fornirà indicazioni sulle trasformazioni del fenomeno e sui punti caldi su
cui intervenire. A tal proposito non è banale poter disporre di indicazioni circa l’età
media dei soggetti che si avvicinano alla droga, così come quelli sulle diverse tipologie
287
di consumo; quest’ultimo aspetto per esempio è dirimente nelle indicazioni di terapie di
tipo farmacologico che possono essere efficaci solo per alcune di queste tipologie ( si
pensi all’eroina).
Infine
non
pare
secondario
sottolineare
come
le
azioni
di
recupero
dei
tossicodipendenti generino efficacia sociale e efficienza economica. Dal punto di vista
dell’efficacia esse aiutano concretamente le persone a uscire da percorsi di
autodistruzione e al contempo favoriscono un livello di convivenza civile migliore (basti
pensare alla microcriminalità connessa ai fenomeni di droga). Sul versante
dell’efficienza è sufficiente ricordare il citato dato per cui la stima dei costi sociali legati
all’uso di sostanze illegali, è stimato per il 2006 intorno ai dieci miliardi e cinquecento
milioni di euro.
288
17.
I disabili
In base alle stime elaborate dall’Istat sono 529.000 le persone in età da lavoro (15-64
anni) che dichiarano di avere problemi di salute e di soffrire di una riduzione di
autonomia continuativa92. Sono invece 1.951.000 le persone della stessa classe d’età
che, pur soffrendo di problemi di salute non denunciano una riduzione di autonomia o
segnalano di avere questo problema saltuariamente.
La distribuzione per livello di istruzione è fortemente “schiacciata” verso il basso:
infatti, ben il 28% ha un titolo di studio basso93; tale percentuale supera il 70% nel
momento in cui aggiungiamo anche il titolo di studio medio.
Nonostante le innovazioni legislative in tema di inserimento lavorativo (L. 68/99) ed il
grosso impatto costituito dai progetti finanziati a livello europeo, a tutt’oggi in Italia si
rilevano livelli di occupazione delle persone con disabilità ancora piuttosto bassi. Il
tasso di occupazione tra gli stessi risulta infatti pari a un 22% in meno di quello rilevato
tra i normodotati. Occorre tuttavia considerare che tra le persone con disabilità in età
lavorativa circa il 30% si dichiara non disponibile o del tutto inabile al lavoro.
Le donne con disabilità sono ulteriormente svantaggiate rispetto agli uomini: tale
92
I dati si riferiscono all’anno 2004. cfr. Istat, Indagine sulle condizioni di salute e ricorso ai servizi
sanitari, 2004-2005. Nell'indagine sono stati definiti diversi livelli di riduzione di autonomia. Le persone che
hanno un problema di salute con riduzione di autonomia continuativa sono coloro che hanno un problema
di salute o un handicap, che dura da più di sei mesi o che pensano possa durare per più di sei mesi, che
crea difficoltà in modo continuativo al punto di chiedere l'aiuto di altre persone. Sono considerate persone
con disabilità coloro che, escludendo le condizioni riferite a limitazioni temporanee, hanno dichiarato di
non essere in grado nello svolgere le abituali funzioni quotidiane, pur tenendo conto dell’eventuale ausilio
di apparecchi sanitari.
93
Cfr IV Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della Legge 12 marzo 1999, n.68 “Norme per il
diritto al lavoro dei disabili” – anni 2006-2007. Il livello di istruzione basso comprende la licenza
elementare e nessun titolo di studio.
289
svantaggio esiste anche nel mondo del lavoro fra le persone normodotate, sebbene
l’entità delle differenze tra i maschi e le femmine non sia così elevata.
Inoltre delle persone con disabilità occupate il 13,4% ha trovato lavoro tramite Centri
per l’Impiego o Servizi pubblici in generale, con livelli più alti al nord che decrescono
man mano che ci si sposta verso il centro e il sud.
Secondo dati forniti dall’ISTAT94 circa 20.000 persone con disabilità sono occupate in
cooperative sociali di tipo B, testimonianza dell’importanza della cooperazione nel
processo di inserimento e reinserimento lavorativo delle stesse persone con disabilità.
Il favorire la piena soddisfazione dell’inserimento lavorativo delle persone con disabilità
attraverso l’inserimento lavorativo passa attraverso due condizioni semplici, ma
fondanti: la prima è che l’inserimento al lavoro della persona con disabilità è più
complesso e più a rischio, rispetto all’inserimento di una persona normodotata, la
seconda che le politiche nazionali e comunitarie debbano essere estremamente efficaci,
concentrandosi non solo a un risultato, ma a un risultato mirato (Legge 68/99).
Quest’ultima condizione, in realtà, trova soltanto una modesta conferma se
confrontiamo i dati relativi al “successo” dell’inserimento di persone con disabilità con
gli analoghi dati relativi all’inserimento di persone normodotate. Infatti se la “tenuta”
delle persone con disabilità nel medio lungo periodo in un ambiente di lavoro, è pari a
circa il 70/80%, nei casi di persone “normodotate” questo dato si sposta “solo” verso
l’80/90% e scende poi negli anni analogamente a quanto avviene per le persone con
disabilità95. Probabilmente quindi, si può affermare che, nel medio lungo periodo, la
disabilità non costituisca un handicap eccessivamente discriminante, nei confronti di
queste persone.
Per questo le due condizioni enunciate in precedenza non possono essere prese in
considerazione senza una terza: pur perseguendo strade e strategie diverse, operatori
pubblici e privati, competenti ed appassionati, devono riuscire a supportare,
94
95
Cfr ISTAT 2008: “Le cooperative sociali in Italia” - Indagine 2008, Collane Informazioni n. 4.
Cfr Progetto “Buone Prassi” sull’inserimento e il mantenimento al lavoro dei disabili - a cura dell'Agenzia
Regionale Lavoro Lombardia.
290
adeguatamente la persona con disabilità nel periodo dell’inserimento, che quindi
costituisce sì un problema, ma non certamente il principale, in relazione alle esigenze
di queste persone. Il problema emerge al momento di trovare, o dover trovare,
aziende disponibili a “sperimentare” l’inserimento.
17.1 Le
Politiche
Comunitarie,
Nazionali
e
Regionali
per
l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità
L'inserimento
nel
mondo
del
lavoro
e
l'autonomia
economica
sono
fattori
estremamente importanti per l'integrazione sociale delle persone con disabilità.
A livello Comunitario, il Piano d’Azione Europeo per il 2008 – 2009 ha individuato
nell’accessibilità un obiettivo prioritario ai fini dell’inclusione attiva e dell’accesso ai
diritti. “La disponibilità di beni, servizi e infrastrutture accessibili e l'eliminazione di
ostacoli all'istruzione e al mercato del lavoro sono indispensabili per consentire alle
persone con disabilità in una società che invecchia di partecipare, in forma non
discriminatoria e inclusiva, ai molteplici aspetti della vita quotidiana.”
L'accessibilità è anche nodo focale della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle
persone con disabilità, tramite:
- strategie che associno programmi di occupazione flessibili, occupazione assistita,
inclusione attiva e misure positive;
- modalità contrattuali flessibili e affidabili, formule di lavoro temporaneo o a tempo
parziale, politiche attive del mercato del lavoro, strategie integrate di apprendimento
lungo tutto l'arco della vita e sistemi moderni di sicurezza sociale che garantiscono
un adeguato supporto al reddito durante i periodi di disoccupazione;
- assistenza personale e adattamento del luogo di lavoro per l’inserimento nel
mercato del lavoro aperto.
Più in generale, l’attenzione strategica del biennio per la Comunità Europea è riassunta
nei seguenti punti:
- sviluppare l’accessibilità a beni, servizi e infrastrutture;
- rafforzare la capacità di analisi della Commissione per promuovere l’accessibilità;
291
- favorire la messa in atto della Convenzione delle Nazioni Unite;
- completare il quadro legislativo comunitario per la lotta contro la discriminazione.
La legislazione italiana, in tema di lavoro riferito alle persone con disabilità, ha avuto
un’evoluzione significativa con la Legge 68/99 “Norme per il diritto al lavoro dei
disabili”, la cui finalità è “la promozione dell'inserimento e della integrazione lavorativa
delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di
collocamento mirato”.
La normativa non intende più solo limitarsi a “collocare” individui nei posti di lavoro,
ma aspira a farsi promotore dell’inserimento e dell’integrazione “attraverso servizi di
sostegno e di collocamento mirato”, secondo il concetto di “uomo giusto nel posto
giusto”.
La legge 68/99 garantisce quindi, in una certa misura, la possibilità di scelta (seppur
parziale) della persona da inserire, la possibilità di programmazione degli inserimenti
lavorativi, la previsione di servizi per l’incontro domanda/offerta; inoltre, i servizi
pubblici ed eventualmente privati diventano soggetti attivi nella progettazione e
realizzazione di inserimenti lavorativi e, finalmente, agevolazioni fiscali (oggi
modificatisi in contributi con la modifica dell’art. 13 Legge 68/99) consistenti per i
datori di lavoro. D’altra parte, agevolazioni economiche sono previste anche per
persone con disabilità grave, sui quali vengono indirizzate le attenzioni relativamente
alle abilità residue.
Stante queste caratteristiche, i risultati attesi della legge riguardano essenzialmente un
graduale ed auspicabile aumento degli effettivi inserimenti lavorativi, un miglioramento
della qualità delle collocazioni lavorative e del trattamento riservato alle persone con
disabilità, la promozione di una logica collaborativa più stringente tra le parti in causa
e, per quanto riguarda i servizi, un loro potenziamento e uno sviluppo degli strumenti
di mediazione al lavoro.
Vengono perciò introdotte una serie di strumenti operativi perché alle persone con
disabilità siano concesse se non le stesse, almeno la gran parte di opportunità
normalmente dedicate ai normodotati in cerca di occupazione. Così avviene che presso
i Centri per l’Impiego, una delle risorse nate in seguito alla nuova legge sul
collocamento, vengano attivati canali appositi per il collocamento mirato delle persone
con disabilità.
292
Allo sviluppo operativo di queste leggi e programmi sono chiamati in primo luogo gli
enti e i servizi territoriali pubblici e privati (Regioni, Province e i servizi individuati dalle
stesse) che hanno trovato una collocazione nella risposta ai fabbisogni espressi dalla
popolazione disabile e del mercato del lavoro.
Nel perseguire una politica di integrazione in favore delle persone con disabilità, le
Regioni hanno utilizzato una molteplicità di risorse (in particolare L.68/99 e Misura B1
Fondo Sociale Europeo 2000-2006) per rispondere ai diversi bisogni che possono
manifestarsi durante la vita di queste persone.
17.2 Disabilità e lavoro: un incontro possibile e necessario
Oggi, come emerge anche da diverse dichiarazioni dell’Organizzazione Mondiale della
Sanità, si auspica l’incontro di due modi diversi di porsi di fronte alla disabilità: quello
medico, che la percepisce come un problema della persona, causato direttamente da
malattie, traumi o altre condizioni di salute che necessitano assistenza medica, e quello
sociale, per cui si tratterebbe di un problema creato dalla società, in primo luogo nei
termini di integrazione degli individui.
Elemento cardine di tale nuovo approccio risulta senz’altro l’interazione dell’individuo
disabile con il contesto lavorativo e sociale, lasciando alle spalle alcuni noti stereotipi
(per esempio quello legato ai non vedenti sinora indirizzati verso tre tipologie standard
di lavoro quali: centralinisti telefonici, massaggiatori/trici, maestri di musica). Tale
nuovo approccio deve legarsi, da un lato, alla comprensione dell’individualità,
abbandonando il modo di ragionare per categorie e standard e, dall’altro, alla bontà del
progetto e dell’organizzazione che vogliono porsi a sostegno della persona disabile e
naturalmente della sua famiglia.
Altro elemento che non deve mancare e che cercheremo di mettere in luce nella nostra
analisi, è la considerazione delle buone prassi: ossia, non considerare più la singolarità
come un “incidente”, ma come elemento attivo all’interno di un processo di
riorganizzazione del lavoro e, più ampiamente, dell’organizzazione sociale stessa. In
tale modo, grazie al riconoscimento dell’esperienza, non si avranno più servizi separati
e fini a sé stessi, espressione di modelli costruiti su misura per persone in difficoltà,
bensì un organizzazione per tutti con la previsione inevitabile dell’unicità della persona
293
e dei suoi bisogni. Nel mondo del lavoro, le buone prassi dovrebbero andare ad
incidere nella personalizzazione dell’organizzazione sociale, al fine di offrire maggior
efficacia nell’inserimento lavorativo.
Tutto questo sottende una conoscenza diretta della persona da inserire, per cui in sede
di valutazione del disabile, risulteranno particolarmente interessanti tutti i casi in cui
l’inserimento abbia comportato borse lavoro, stage s ... che permettano anche un
accompagnamento costante, anche sul posto di lavoro. Soprattutto nei casi in cui
l’”accompagnatore” primario per l’inserimento lavorativo della persona disabile sia la
cooperativa sociale, si permette alla persona di svolgere compiti che la valorizzano,
senza tuttavia impiegarla a tempo pieno e senza possibilità di transizione nell’attività
lavorativa.
Si evince perciò come la definizione di svantaggio risulti tanto più forte in un contesto
debole di attenzione a quella singolarità accennata in precedenza; di conseguenza l’alta
capacità di un progetto di inserimento lavorativo risulta direttamente collegata
all’attenzione particolare che esso volga ai singoli individui con disabilità, che sia in
grado di coglierli e quindi valorizzarli nella loro individualità e totalità.
Da questo punto di vista diventa essenziale la passione e la competenza degli operatori
ed il sistema “a rete” (famiglia, Centri, Organizzazioni sociali, Aziende, e persone) che,
di norma, si costituisce all’atto dell’inserimento nel mondo del lavoro di persone con
disabilità, specie se grave o di tipo psichico e mentale, si sono rilevati strumenti
efficaci, e sperimentati; il continuo sviluppo da parte degli operatori di strategie via via
più evolute, permette inoltre di immaginare un sempre maggior successo di queste
esperienze, sia pure nelle difficoltà più volte denunciate, che, come testimoniato dagli
stessi operatori, richiederebbero maggiori investimenti in formazione e studio
sull’argomento.
E’ nelle prime fasi di inserimento e di mantenimento lavorativo che la personalizzazione
si acuisce, ovvero che emerge, in tutta la sua gravità, il discrimine costituito dalla
disabilità, come ostacolo all’ingresso nel mondo del lavoro.
294
17.3 Una risposta personalizzata e completa: il modello della
Cooperativa Nazareno Work
In questo paragrafo si prende in considerazione una buona prassi sviluppata
nell’ambito dell’inserimento sociale e lavorativo di persone con disabilità. Le esperienze
messe in atto dalla Cooperativa sociale Nazareno sottolineano come il fattore primario
in questo settore sia la centralità della persona umana intesa come singolo soggetto
inserito in una trama di rapporti significativi che ne incrementano la responsabilità e la
capacità: questo sottintende la presa in carico della persona nella sua totalità di
esigenze. Vale ancora di più per le persone con disabilità: qualificare l’offerta di servizi
di inserimento lavorativo significa qualificare l’offerta di salute, intesa come massimo
benessere possibile, attraverso la costruzione e l’incremento della rete dei rapporti del
soggetto.
E’ per questo Nazareno è passata dall’occuparsi di accoglienza alla riabilitazione, al
recupero dell’espressività, ai servizi di inserimento lavorativo fino ad arrivare a creare
altre cooperative sociali di tipo B dove le persone con disabilità possano esprimere il
proprio reale potenziale.
Per capire tutto questo è utile raccontare l’evoluzione di questa realtà. Nel 1981 ha
inizio la prima esperienza di accoglienza di persone con disabilità nel territorio del
comune di Carpi ad opera dell’Istituto Nazareno fondato negli anni cinquanta. Nel
novembre del 1990, da un’idea dei genitori degli ospiti, degli operatori del centro e dei
rappresentanti delle associazioni dei disabili nasce la Cooperativa Sociale Nazareno, che
ha continuato l’esperienza del Centro. Lo scopo principale è quello di promuovere una
nuova cultura che aiuti a rompere le barriere che separano il "mondo dell’handicap" dal
resto del mondo.
Da questo momento in poi si sviluppano diverse esperienze di lavoro, riabilitazione e
accoglienza scaturite dai bisogni specifici delle persone con disabilità fisica e
soprattutto mentale incontrate: dal Centro diurno di Educazione al Lavoro, che ha lo
scopo di avvicinare le persone con disabilità all’esperienza lavorativa, alla creazione
della Cooperativa Sociale Nazareno Work, per rispondere alle necessità di lavoro di
alcuni ospiti della Cooperativa Sociale Nazareno, al Festival Internazionale delle Abilità
Differenti per mettere in mostra ciò che veniva creato nei laboratori teatrali, di musica,
di danza, di pittura... , alle nuove esperienze residenziali di Casa S. Teresa del Bambin
295
Gesù e di Casa Maria Domenica Mantovani. Ogni cosa nuova che la Cooperativa ha
creato, l’ha costituito in base ad una richiesta reale delle persone che ne facevano
parte, non ha mai costruito qualcosa a priori per poi inserirne le persone.
Alla Cooperativa Nazareno viene poi affidato anche il Servizio Inserimento Lavorativo
(SIL) del comune di Carpi, a testimonianza della riconosciuta validità ed efficacia della
metodologia utilizzata: nasce così il Point Job che inizia la sua attività ad Ottobre 2004.
Molto forte è l’attività della Cooperativa Nazareno nei confronti delle persone con
disabilità psichica. A partire dagli anni ’80 la riabilitazione in psichiatria va raccogliendo
interessi crescenti. Uno dei fattori esplicativi è il fenomeno della deospedalizzazione dei
malati psichiatrici, in un processo che De Salvia ha definito come il “passaggio dalla
lungodegenza ospedaliera alla lungoassistenza territoriale”. Anche gli studi di
epidemiologia psichiatrica hanno evidenziato che l’esito clinico è fortemente influenzato
dalle condizioni ambientali.
Questi ed altri fattori parlano di un bisogno di riabilitazione concepita come un
intervento strategico capace di toccare tutte le variabili che si dimostrano fortemente
implicate nel determinare l’esito dei disturbi mentali. Senza voler minimamente
disconoscere l’importanza della “presa in carico territoriale”, il modello dell’impresa
sociale – che fa leva sulle abilità lavorative del soggetto per definire un percorso
riabilitativo – ha molti punti di forza.
L’idea guida della Cooperativa Nazareno è che la persona con problemi psichici abbia
un bisogno, sia fisico che psichico, di lavorare. Il lavoro si avvalora nel momento in cui
si svolge in un contesto di relazionalità e quando sa coniugarsi con le caratteristiche
della persona. Per questo è indispensabile riconoscere a ciascuno il diritto
fondamentale ad agire, ad operare, a lavorare: solo così la persona acquista la stima di
sé e afferma l’autonomia personale. Consentire allora alla persona con disabilità
psichica di essere inserito in attività di partecipazione alla società di cui è parte, vuol
dire concorrere in modo decisivo al recupero della sua salute.
Il mondo del lavoro è caratterizzato da rapidi e imponenti cambiamenti che richiedono
sempre maggiore flessibilità e competenza e da una crescente difficoltà di trovare
un’occupazione stabile, fattori che insieme creano un forte disagio soprattutto nelle
fasce più deboli della popolazione. I tentativi di risposta finalizzati a contrastare
l’emarginazione delle categorie “svantaggiate” sono generalmente di tipo assistenziale
296
e in essi lo svolgimento di un’attività lavorativa non si accompagna né ad un obiettivo
di crescita professionale, né ad una prospettiva di stabilità.
La Cooperativa Sociale Nazareno costituisce un modello di impresa molto interessante
ed efficace per offrire opportunità di lavoro favorendo l’acquisizione di una
professionalità spendibile anche in altri contesti lavorativi.
I limiti di tali azioni sono spesso determinati dal fatto che le commesse di lavoro
affidate in generale alle cooperative sociali richiedono normalmente bassi profili
professionali, che non danno spazio ad una possibilità di crescita professionale ed alla
gratificazione, rendendo così estremamente difficoltoso il percorso “riabilitativo” delle
persone coinvolte.
Tale fenomeno sociale è l’eco di una concezione culturale che non ripone particolari
aspettative nell’inserimento lavorativo di persone cosiddette “svantaggiate” in termini
di risorse anzi, normalmente, esiste uno stigma preconcetto per cui sono ritenute
pericolose, irresponsabili e improduttive, specialmente se lo svantaggio è di natura
psichica. Se da un lato tale concezione corrisponde ad effettive problematiche inerenti
lo stato della malattia, dall’altro non si può negare la responsabilità della nostra società
che concede sempre meno spazi per un possibile riscatto.
Da tutto questo ad esempio nasce la sfida della Cooperativa Sociale Nazareno di far
conciliare
due fattori come il disagio psichico e il contesto di forte interazione
personale che nel tempo sono diventati stereotipi di non conciliazione. All’interno di un
complesso museale il personale della Cooperativa è impiegato nelle mansioni di
sorveglianza, accoglienza dei visitatori, gestione di un punto vendita all’interno del
museo e dei servizi di segreteria e informazioni, allestimento sale per convegni e
mostre, fino all’accompagnamento dei visitatori in brevi itinerari guidati al museo.
Nella loro attività le persone sono quotidianamente accompagnate dai tutor che le
affiancano durante il lavoro e ne supportano la professionalità al fine di restituire loro
efficienza e produttività, sulla base di un “progetto personalizzato” stilato ad hoc su
ogni persona.
Questo metodo, insieme alla certezza che il "bello" possa essere non solo
esteticamente ricreativo e culturalmente stimolante, ma anche "curativo", ha portato
esiti molto positivi per quanto riguarda il processo di riabilitazione mentale della singola
persona, documentati dagli stessi servizi sociali e dal Dipartimento di Salute Mentale.
297
Da queste considerazioni nascono i presupposti per cui le persone di questa
Cooperativa Sociale agiscono di giorno in giorno:
-
Qualificare l’offerta di salute, intesa come massimo benessere possibile, attraverso
la costruzione e l’incremento della rete dei rapporti del soggetto.
- Innovare l’offerta riabilitativa attraverso l’incremento delle possibilità e la gamma
delle prestazioni offerte.
- Incrementare l’integrazione attraverso la valorizzazione delle reti esistenti e la
creazione di nuove reti di sostegno.
- Razionalizzare il sistema dell’offerta riabilitativa per utilizzare in modo ottimale le
risorse previste finalizzandole ai bisogni prioritari del soggetto.
Per fare questo la Cooperativa Nazareno agisce tramite valori funzionali che si
rispecchiano nelle attività di tutti i giorni:
-
Il rispetto della dignità umana, l’equità e l’etica professionale
- La centralità della persona umana intesa come singolo soggetto inserito in una
trama di rapporti significativi che ne incrementano la responsabilità e la capacità.
- La qualità, l’adeguatezza, il coinvolgimento e la qualificazione continua del personale
da ottenersi attraverso un sistema di formazione continua.
- Il perseguimento della riabilitazione intesa come miglioramento delle condizioni
psico-fisiche della persona ma anche come recupero della stima di sé e quindi ricostruzione del soggetto laddove la patologia ha creato un discredito.
L’attività della cooperativa Nazareno è incentrata su quattro pilastri.
a) la relazione tra gli operatori e la persona disabile
Il primo aspetto fondamentale è quindi, come abbiamo visto in precedenza, la
relazione che si instaura tra gli operatori e la persona con disabilità psichica e tra
quest’ultima e la realtà di tutti i giorni. La relazione è l’unica strada possibile per la
soddisfazione di molte persone. Le persone che rivolgono domanda di aiuto alla
Cooperativa molto spesso sono in condizioni disagiate e non sono più capaci di
desiderare una condizione migliore e realizzante, poiché molto spesso non conoscono
la possibilità di vivere una rapporto con altre persone che possano aiutare la propria
crescita e felicità.
298
La relazione è l’unica strada possibile per la soddisfazione di ciascuno.
Non esiste individuo umano che si trovi nella posizione di far fronte alle proprie
esigenze e ai propri bisogni autonomamente. E’questione fondamentale dell’esperienza
della Cooperativa favorire le relazioni, che il rapporto con la persona con disabilità sia
qualcosa di reale e quotidiano, che esistano le occasioni di incontri sui quali si innesti
un lavoro da parte dei soggetti implicati.
La cultura dominante propone un modello di benessere fondato sulla convinzione della
propria autonomia e sul rifiuto della dipendenza, inteso come negazione del legame
affettivo con l’altro. Questo convincimento è piuttosto radicato e, a volte, viene perfino
ostentata la propria libertà da tutto e tutti. In realtà questa posizione di distanza
dall’altro e dal mondo genera esclusivamente solitudine e disagio che può, nel tempo,
trasformarsi in una impossibilità di rapporto difficile da sanare. L’offerta di una
relazione che incida nella propria vita ed in quella dell’altro è certamente, di questi
tempi, rivoluzionaria.
Ciò che si propone la Cooperativa Nazareno consiste nel considerare necessario l’aver
“orecchi per intendere”. La vera controtendenza alla prassi di questi tempi sembra
essere il sostituire l’ostilità e la diffidenza al rapporto con la curiosità e la stima nei
confronti delle persone svantaggiate e, per questo, compromettendosi ogni giorno con
i loro bisogni: questo tramite la propria disponibilità ad una condivisione, ad un affetto,
ad un conforto.
Gli operatori sono in una posizione di passività, chiaramente non ingenua, piuttosto che
in un atteggiamento di pianificatori. Il primo atteggiamento è quello di ascoltare per
comprendere quali siano i desideri, i bisogni, le preferenze e non per trovare soluzioni
o risolvere situazioni. Tutto questo può avvenire solo in un luogo che non sia solo di
formazione e/o lavoro, ma anche un luogo dove le persone accolte si sentano
appartenenti, come in famiglia. Chiaramente, quando con la persona è nata
un’alleanza, una stima reciproca, si può cominciare a pensare, insieme, alle strade da
percorrere per superare le situazioni che generano il disagio. Fuori da un legame vero
tutte le proposte offerte alla persona saranno sentite come esterne, come imposte e
quindi non sarebbero mai accolte, né percepite come possibilità per il miglioramento
della propria condizione.
Mentre gli operatori della Cooperativa fanno qualcosa insieme con le persone disabili
299
guardano e ascoltano, senza anticipare nulla, ma lasciandosi colpire da quello che la
persona segnala come bisogno e quando è indecifrabile, saper attendere una maggiore
chiarezza.
Per arrivare a questo la Cooperativa propone tutte le sue attività in luoghi
strutturalmente belli e affascinanti a significare un’indiretta, ma concreta stima nei
confronti di queste persone normalmente abituate a ben altre proposte. Nelle case
d’accoglienza, nei negozi, nei laboratori, in ogni sede dove la Nazareno opera, ma
anche laddove non si tratti di strutture di prestigio (deposito strumentazioni per il
giardinaggio), la bellezza e la cura per il particolare, per l’organizzazione, si respirano
concretamente.
b) i percorsi formativi.
I percorsi previsti sono strutturati in modo tale da garantire:
-
percorsi di tirocinio finalizzato all’inserimento lavorativo la cui finalità è di consentire
l’acquisizione di abilità professionali di base e lo sviluppo di abilità trasversali; la
promozione ed il consolidamento di comportamenti autonomi nella gestione di sé e
nell’integrazione socio-ambientale; la conoscenza e il confronto diretto con il
mercato del lavoro.
- un servizio di mediazione allo scopo di creare le condizioni per favorire l’ingresso nel
mercato del lavoro attraverso azioni integrate, creare occupazione mirata tra la
persona con disabilità e l’offerta di lavoro, assicurare l’accompagnamento sul posto
di lavoro.
- il servizio di educazione al lavoro per far uscire le persone svantaggiate dal circuito
dell’assistenza improduttiva valorizzando le risorse umane e professionali, favorendo
la promozione ed il consolidamento di comportamenti autonomi nella gestione di sé
e nell’integrazione socio-ambientale.
- creare possibilità graduali di avvicinamento al lavoro perché il bisogno formativo
fondamentale e che manca è una mentalità lavorativa (gli elementari doveri di un
lavoratore: puntualità, decoro, ecc.)
Spesso durante il percorso formativo sembrano non emergere le risorse della persona
poiché la malattia, lo stile di vita, la solitudine sembrano averne inficiato
definitivamente la possibilità di sviluppo. La capacità di attendere, a volte anni, è parte
300
indispensabile della competenza di chi accompagna. Nazareno pone nella capacità di
rintracciare i segni di uno sviluppo possibile anche quando sono molto nascosti molta
importanza, strutturando percorsi di durata piuttosto flessibile.
Nazareno pone nella capacità di rintracciare i segni di uno sviluppo possibile anche
quando sono molto nascosti, strutturando percorsi di durata piuttosto flessibile. La
persona in difficoltà mette sempre in crisi la progettualità che l’operatore ha strutturato
così da rendere difficile l’esercizio del potere su di lui. Il compito dell’operatore
nell’accompagnamento al lavoro o durante la formazione consiste nell’offrire una
proposta e nell’attendere che accada un imprevisto che è sempre possibile anche nelle
situazioni più gravi e disarmanti.
c) Il rapporto con il mercato
Il terzo aspetto, che è anche la sfida vera del mercato del lavoro, è il rapporto con il
profit. La Cooperativa sociale di tipo B Nazareno Work è sviluppata in modo tale da
essere pronta e strutturata a un rapporto di commercializzazione con le altre imprese
del settore che non sono “caritatevoli” nell’affidare le commesse, ma si aspettano
efficacia ed efficienza in tutte le fasi del rapporto stesso. Le imprese che accolgono
inoltre le persone con disabilità seguite dalla Cooperativa necessitano di un continuo
accompagnamento sia preventivamente (sensibilizzazione contro i preconcetti elencati
nei paragrafi precedenti, sollecitazione della responsabilità civile dell’impresa) che
durante il rapporto di lavoro.
Un esempio concreto è il rapporto iniziato nel 2005 con Angelo Po, industria produttrice
di cucine professionali, leader nel mercato nazionale: la collaborazione è finalizzata
all’outsourcing dei “Gruppi Spia Pilota” tipo FA (circa 20 codici) per circa 11.000 oggetti
realizzati in dodici mesi. L’outsourcing viene affidato ad una cooperativa sociale di tipo
B e non ai fornitori abituali della Angelo Po, da prima come contratto di lavoro poi
come acquisto continuo e abituale (a fronte di una vendita iniziale di codici).
Il rapporto si è ulteriormente consolidato con l’outsourcing di altri Gruppi Spia (anche
di complessità maggiore rispetto a quelli di inizio collaborazione), in particolare: tutti i
gruppi assiemati viene ora realizzata da NarazenoWork. Gli obiettivi conseguiti e
dichiarati dalla stessa impresa sono: costo non superiore a quello di realizzazione
interna, ottima qualità degli assiemati, puntualità nelle consegne, non gestione del
23% dei componenti di questi assiemi.
301
Sempre l’impresa Angelo Po dichiara che le prospettive conducono al rafforzamento del
rapporto dei fornitura: con il 2008 si sono avviate nuove opportunità relative
all’outsourcing del kitting degli iniettori dei corredo delle apparecchiature a gas.
Cooperativa Nazareno è diventata partner delle aziende come portatori di un lavoro di
qualità e con un valore aggiunto di solidarietà, elaborando e sviluppando progetti
comuni. Questo implica un’assunzione di rischio imprenditoriale, senza attendere
risorse o attività pubbliche per rispondere al bisogno delle persone che lavorano
all’interno della Cooperativa e strutturando procedure di fund raising specifiche: così
sono nate le realtà di manutenzione del verde e di pulizie di esterni, la gestione di
musei e sale mostre, la produzione e la vendita di ateliers per attività manuali ed
artigianali, di articoli da regalo, di ordini su commissione e la creazione di negozi di
vendita al pubblico di articoli prodotti da imprese sociali.
d) La condivisione del lavoro
Il quarto aspetto è la caratteristica del lavoro di equipe degli operatori della
Cooperativa Nazareno, la condivisione e la formazione continua.
Gli operatori settimanalmente si incontrano per verificare la validità di ciò che si sta
facendo, lasciarsi giudicare e correggere. In questo lavoro la vicinanza con il disagio e
la malattia grave e stanca. Poter sempre rigenerarsi attraverso il rapporto con l’equipe
e chi guida è essenziale. L’equipe terapeutica ha lo scopo di affrontare le
problematiche che emergono nel rapporto con gli ospiti e con le famiglie al fine di
favorire la costruzione e la realizzazione di risposte adeguate. L’equipe è il luogo nel
quale è possibile porre tutte le domande sorte nel rapporto con gli ospiti durante le
attività svolte, in un gruppo di lavoro preparato che risponde alle esigenze con
competenza, esperienza e disponibilità.
È fondamentale per la Cooperativa offrire senza soluzione di continuità una specifica
formazione agli operatori. All’èquipe settimanale sono spesso inviati professionisti che
possono portare un contributo di conoscenza in ambiti specifici. Per esempio il
fisioterapista aiuta a comprendere come il limite dato da una malattia muscolare o
scheletrica incida nella possibilità di espressività e comunicazione del soggetto, il
logopedista spiega quali esercizi favoriscono l’apprendimento del linguaggio verbale o
non verbale in persone con gravi patologie fisiche e psichiche, lo psicoterapeuta
segnala le potenzialità ed i rischi legati alle dinamiche di gruppo, lo psichiatra favorisce
302
lo sviluppo di una competenza reale nella conoscenza dei sintomi e del pensiero che
favorisce l’insorgenza della psicopatologia, dei rischi di seduzione che l’operatore corre
relazionandosi con chi abusa di sostanze.
È assolutamente necessario che l’operatore sviluppi, almeno nel tempo, una buona
capacità di riconoscere le proprie emozioni, le proprie paure e le dinamiche che mette
in atto nella relazione. Se questa competenza non si sviluppa il rapporto sarà
governato dall’esercizio di potere dell’operatore o della persona accolta. La forma
utilizzata per la formazione è quella di lezioni frontali, colloqui, verifiche e soprattutto di
esercitazioni pratiche, individuali e di gruppo. Gli strumenti didattici e le metodologie
che si utilizzano sono: brainstorming, analisi di casi e simulazioni di situazioni,
esercitazioni pratiche, condivisione delle esperienze personali, utilizzo di materiale
audio-video al fine di favorire la comprensione dei contenuti.
17.4 Suggerimenti di policy
Sono molteplici le innovazioni che possono caratterizzare il sistema del mercato del
lavoro e che si devono quindi incardinare sulla centralità della persona e la
valorizzazione del capitale umano attraverso l’implementazione di interventi di politiche
attive del lavoro rivolte al raggiungimento di obiettivi specifici e personalizzati in base
alle esigenze delle singole persone con disabilità.
A fronte dei diversi percorsi e strutture forniti dalle normative nazionali e regionali, il
soggetto di riferimento è un unico utente che necessita di utilizzare le strutture messe
a disposizione dal sistema nelle differenti fasi della vita riguardanti anche istruzione,
formazione oltre che all’inserimento e al mantenimento dell’occupazione nel caso della
disabilità. Infatti il fattore educativo è fondamentale per migliorare le possibilità di
inserimento delle persone con disabilità evitando il fenomeno dell’esclusione sociale.
Questo comporta una serie di interventi con lo scopo di migliorare il sistema del
mercato del lavoro in generale, integrando le varie politiche nei diversi settori senza
voler creare differenze nei servizi rivolti al mondo della disabilità (che diventerebbe un
mondo parallelo).
Siamo di fronte ad un’inversione di rotta che rende protagonista dell’iniziativa la
persona disabile, la sua famiglia e la loro libertà di scelta di fronte a servizi pubblici e
303
privati che vengono loro messi a disposizione e che si creano dal tessuto sociale
esistente.
Oltre alle azioni che riguardano l’inserimento nei percorsi di istruzione e formazione
ordinari è auspicabile siano previsti e finanziati percorsi personalizzati che possano
seguire i frequentanti in una modalità altamente individualizzata con l’obiettivo di
inserire i giovani nei normali cicli di formazione oppure occupazionali.
Per quanto riguarda la successiva fase lavorativa deve essere codificata l’attuazione di
una molteplicità di servizi sia pubblici che privati, grazie ai quali vengono riconosciuti al
disoccupato disabile gli strumenti per potere al meglio entrare nel mondo lavorativo e
poter soprattutto mantenere il posto una volta raggiunto. Ciascun soggetto, sia
pubblico che privato, deve cercare sempre di più un consolidamento di ciò che ha
messo in campo, mettendo a frutto anche i risultati più negativi, in un’ottica di
miglioramento continuo e di innovazione. Da questo punto di vista diventa quindi
necessario essere capaci di leggere ed interpretare strategicamente i bisogni delle
singole persone con disabilità e le risposte possibili che sono nate in questi anni,
attivando le reti formali ed informali del sistema di offerta.
In questo contesto il raccordo diventa una modalità indispensabile rispetto alla capacità
del sistema di offerta di prendersi cura dell'utente e accompagnarlo nell’articolata
gamma dei servizi e delle opportunità, che dovranno essere oggetto di valutazione sia
della persona con disabilità sia dell’organo che attiva tali policy rispetto ai risultati
ottenuti.
Per questo ancora di più bisogna stimolare la realizzazione di progetti caratterizzati da
un significativo approccio innovativo/sperimentale, finalizzati allo sviluppo delle
economie del privato sociale, ove si individuano le maggiori potenzialità per lo sviluppo
dei bacini occupazionali per le fasce deboli, in particolare per le persone con disabilità
attraverso azioni di sostegno al raccordo della rete dei servizi per il lavoro oltre ai
servizi socio assistenziali ed i servizi educativi e formativi presenti sui territori regionali.
Allo stesso tempo, per il particolare ruolo che occupa nella filiera del processo di
emancipazione delle persone con disabilità, appare opportuno offrire un punto di
riferimento stabile per il consolidamento e l’innovazione dell’impresa sociale.
Questo implica la valorizzazione e la creazione di strumenti e procedure che
permettano all’impresa sociale, in particolare le cooperative, di essere un punto di
304
riferimento per l’inserimento lavorativo di queste persone, rafforzando sempre di più i
propri rapporti con le altre imprese, in un’ottica di maggiore adattamento della persona
disabile.
E’ altresì innegabile il ruolo delle imprese for profit verso le quali occorre migliorare la
promozione delle opportunità previste dalla legislazione attuale ma anche individuare
nuove forme per un loro proficuo coinvolgimento a favore delle persone con disabilità.
In definitiva le istituzioni pubbliche dovrebbero promuovere l'accesso al lavoro delle
persone con disabilità nel rispetto delle scelte dei singoli destinatari, con il
coinvolgimento e la partecipazione attiva delle loro associazioni, delle famiglie, delle
parti sociali, delle istituzioni, ivi comprese quelle del sistema educativo e formativo,
delle cooperative sociali.
La famiglia diventa il mezzo necessario per unire le persone con disabilità con i soggetti
del mercato del lavoro, diventa un’utopia parlare di inserimento di queste persone
senza tenere presente la realtà e i legami che li costituiscono. Non esiste politica rivolta
alla persona senza il coinvolgimento della famiglia, anche con contributi ad hoc, perché
questo rapporto sia valorizzato anche in un aiuto concreto all’accompagnamento delle
famiglie nel percorso di inserimento lavorativo della persona disabile.
Particolare attenzione deve essere concessa alle disabilità gravi come quelle psichiche,
maggiormente sensibili al rischio esclusione, con il finanziamento di interventi di
supporto all’assunzione e all’occupazione all’interno di cooperative sociali di tipo B, che
rappresentano la realtà lavorativa più adeguata per l’inserimento di queste persone.
305
18.
Il fenomeno della tratta
In Italia le donne immigrate coinvolte nella prostituzione sono stimate fra 15.000 e
18.000 unità e tra di loro il 10% circa sono vittime di prostituzione forzata, che
costituisce il risultato di atti di violenza fisica e morale a cui una comunità civile deve
reagire con determinazione e senso di solidarietà verso le vittime. La legislazione
italiana ha dato una risposta precisa per contribuire a combattere il fenomeno,
favorendo e finanziando le opportunità di uscita dalla prostituzione forzata per
intraprendere percorsi di integrazione sociale e lavorativa. L’art.18 D.Lgs 286/98
prevede la possibilità per le persone vittime di tratta di accedere ad un permesso di
soggiorno per motivi umanitari quando si trovino in pericolo “per effetto dei tentativi di
sottrarsi ai condizionamenti di un’associazione dedita allo sfruttamento della
prostituzione o ad altri gravi reati, oppure in pericolo per aver reso dichiarazioni nel
quadro di un procedimento penale per sfruttamento della prostituzione o per altri gravi
reati.” L’importanza e l’innovatività di questa norma non attengono solo al suo
contenuto specifico, ma anche alla modalità della sua attivazione. Il Programma di
assistenza e integrazione sociale, a cui devono aderire le persone che richiedono tale
permesso, è fondato sulla stretta collaborazione tra le diverse organizzazioni e gli enti
pubblici, le forze dell’ordine e la magistratura. Il tutto per garantire alle vittime di tratta
una serie di servizi frutto di un lavoro di rete tra attori diversi.
Altro importante strumento è il Numero Verde contro la tratta, una linea telefonica
nazionale gratuita diretta a vittime di tratta, clienti, organizzazioni, forze dell’ordine e
popolazione in generale. Il servizio si compone di una postazione centrale e di 14
postazioni locali. Nell’operatività gli Enti locali si avvalgono della collaborazione di
organizzazioni non profit e di operatori esperti.
Il Dipartimento per i Diritti e le Pari Opportunità, in applicazione dell’art.18
D.Lgs
286/98 ha co-finanziato, dal 2000 al 2007, n. 490 progetti sull’intero territorio
nazionale coinvolgendo 45.331 persone che hanno ricevuto una prima assistenza. Di
queste circa 11.541 hanno aderito e partecipato ai progetti, 8.326 sono state inserite in
percorsi formativi e 5.528 sono stati gli inserimenti lavorativi.
306
18.1 Un’ esempio di “rete” in risposta alla tratta – il progetto
LIFE
LI.FE è un progetto nato per realizzare un servizio coordinato per il recupero delle
donne vittime di tratta attraverso un processo integrato e di sistema, al fine di ridurre
gli elementi discriminanti in ambito lavorativo, abitativo e sociale. Tale progetto
denominato “LIFE – Libertà al Femminile” è stato avviato nel 2001 dall’Assessorato alle
pari Opportunità della Provincia di Torino e finanziato nell’ambito del Programma di
Iniziativa Comunitaria EQUAL.
La Rete LI.FE. è composta dai partner del progetto (Provincia di Torino, Comune di
Torino, Comune di Moncalieri, Università degli Studi di Torino, Associazione Compagnia
delle Opere, Associazione Gruppo Abele, Associazione Tampep, Casa di Carità Arti e
Mestieri, Cicsene, Confcooperative, Ufficio Pastorale Migranti) e dai numerosi aderenti
al comitato di pilotaggio. Il comitato tecnico, formato dai partner ha definito le
strategie, supervisionato e coordinato le attività dei gruppi di lavoro e facilitato lo
scambio di buone pratiche, mentre il comitato di pilotaggio ha contribuito alla
definizione e al rafforzamento delle attività di mainstreaming.
La Provincia di Torino, titolare del progetto, nell’ambito delle pari opportunità si è
impegnata sui temi della prostituzione fin dal 1996 sviluppando e promuovendo diverse
attività di sostegno all’inclusione sociale.
Il Gruppo Abele, l’Ufficio stranieri del Comune di Torino, l’Associazione Tampep e
l’Ufficio Pastorale migranti della Caritas hanno costituito il gruppo di accoglienza
essendo titolari di una esperienza consolidata in tale ambito sul territorio, mettendo a
disposizione una figura che diventasse per tutto il percorso un riferimento stabile per le
donne.
Ogni centro inviante ha segnalato le beneficiarie ad un secondo gruppo di lavoro
formato da Casa di Carità Arti e Mestieri, Associazione Compagnia delle Opere e
Confcooperative con lo scopo di costruire un percorso individualizzato comprendente
formazione e inserimento lavorativo.
L’obiettivo del progetto è stato quello di mettere a punto una metodologia di lavoro in
rete, in modo da poter creare un modello replicabile, partendo dalla condivisione del
percorso metodologico e delle buone pratiche poste in essere abitualmente da ciascun
307
partner. Il desiderio e la necessità di condividere gli obiettivi, standardizzare le prassi
operative e le procedure, uniformare i materiali adottati hanno permesso la nascita e
lo sviluppo anche di una rete di sinergie e di scambio di competenze e sensibilità al fine
di garantire un inserimento socio-lavorativo stabile.
Si è ritenuto di approfondire alcuni aspetti particolarmente problematici, al fine
d’individuare soluzioni innovative e proposte d’intervento che comportassero,
nell’ambito delle azioni intraprese, un valore aggiunto. Particolarmente proficua è stata
l’individuazione di una persona di riferimento la life friend in grado di accompagnare
nelle diverse fasi del percorso le beneficiarie agendo da ponte tra i referenti delle
diverse fasi: accoglienza, inserimento lavorativo, abitativo, referenti istituzionali ecc. In
tal modo è stato possibile predisporre e coordinare efficacemente interventi tempestivi
mirati e condivisi, in special modo all’insorgere di eventuali criticità.
La sperimentazione ha previsto, inoltre, l’attribuzione di una “carta di credito” per ogni
beneficiaria, per consentire alle donne di provvedere autonomamente alle proprie
esigenze in un’ottica di empowerment delle stesse.
La collaborazione con gli operatori coinvolti – unitamente alla continua opera di
riflessione sui contenuti e metodi dell’intervento - ha messo in luce alcuni punti chiave
per l’ideazione del modello idealtipico di inserimento delle beneficiarie.
E’ evidente che il termine “beneficiarie” è riduttivo in quanto fa riferimento ad una
pluralità di situazioni e storie di vita non certo riconducibili a caratteristiche specifiche
ed isolabili. A fronte di diversità soggettive occorre necessariamente individuare degli
ambiti di attenzione comuni al target di riferimento senza cadere in facili riduzionismi,
ma con l’obiettivo di erogare con efficacia e professionalità servizi mirati, complessi ed
articolati.
18.2 Gli ambiti di operatività del progetto
Il progetto ha operato nella direzione di affrontare alcune tematiche chiave:
- alfabetizzazione alla lingua italiana;
- potenziamento e/o acquisizione di abilità professionali;
- collocazione in tempi rapidi nel mercato del lavoro;
308
- favorire l’inserimento e l’integrazione sociale.
L’obiettivo del lavoro, dunque, è fin da subito stato quello di ideare e descrivere un
modello che potesse dare delle risposte a questi bisogni comuni. La riflessione non si è
fermata alle necessità diffuse, ma ha cercato di integrare la diversità con l’omogeneità,
le esigenze soggettive con quelle di gruppo, i bisogni formativi più comuni con quelli
legati al singolo.
Il modello proposto - a fronte ad un utenza con necessità formative distintive e diffuse,
ma al contempo estremamente eterogenea - ha assunto come perno il presupposto
che il processo formativo dovesse privilegiare la progettazione e la realizzazione di
interventi che andassero nella direzione della personalizzazione. Il risultato è quindi un
modello pensato come strumento flessibile e individualizzato per supportare le donne
nell’inserimento lavorativo, ma che ha come presupposto di base l’intento di offrire
modalità operative che possano rispondere alle necessità variegate diffuse dell’utenza.
Per rispondere a finalità così ambiziose il modello è stato costruito attorno a quattro
tipologie di azioni, ognuna con le proprie specificità intrinseche, ma tra loro integrate
seppur non rigidamente interconnesse. Le azioni base individuate sono:
- attività di carattere formativo;
- attività di carattere orientativo e di supporto alla persona;
- attività di accompagnamento all’inserimento lavorativo;
- attività di accompagnamento all’inserimento abitativo
Assume inoltre una dimensione strategica l’azione sinergica tra i diversi partner che a
vario titolo si sono occupati delle beneficiarie lavorando in un ottica di rete e azioni
integrate con altri progetti operanti sul territorio per il conseguimento di risultati
efficaci.
I primi colloqui sono avvenuti tra il mese di novembre e quello di dicembre 2003, gli
inserimenti nel percorso si sono avviati da gennaio 2004.
Dal punto di vista pratico il percorso generale si è strutturato prevedendo le seguenti
fasi:
a) L’accoglienza e la presa in carico.
La fase di accoglienza si colloca all’inizio del percorso metodologico proposto ed è una
309
fase strategica per la buona riuscita del percorso. L’ente titolare della presa in carico,
attraverso la figura della life friend ha segnalato il nominativo della beneficiaria al
gruppo di lavoro composto dagli enti preposti per la formazione e l’inserimento
lavorativo.
Il colloquio di accoglienza ha la funzione di prendere in carico la persona: iniziare una
conoscenza reciproca, fornire le informazioni essenziali per la prosecuzione del
percorso, stabilire una situazione di fiducia e disponibilità reciproca, favorire l’apertura
della persona sulle sue passate esperienze, raccogliere il maggior numero possibile di
dati in modo da capire il grado di occupabilità immediato dell’utente, le sue necessità
formative e la presenza di eventuali problemi o vincoli alla prosecuzione dell’attività.
Sin dai primi colloqui ci si avvale della collaborazione di mediatori culturali, sia per
facilitare la comprensione linguistica, sia per predisporre una situazione di empatia.
Obiettivi primari sono: aiutare a far acquisire alle donne la consapevolezza di essere
state vittime di tratta e sfruttamento; offrire gli strumenti necessari per consentire alle
stesse di prendere decisioni in merito al proprio futuro; fornire un supporto per i servizi
sul territorio; e se necessario fornire un sostegno per la regolarizzazione, ed infine un
sostegno per una sistemazione abitativa.
b) Il percorso formativo
Per strutturare i percorsi formativi anche per gruppi disomogenei è stato necessario
predisporre una fase di individuazione e valutazione delle competenze dei partecipanti
in ingresso.
Il percorso formativo ha costituito un nodo fondamentale all’interno del modello di
buone pratiche, analizzando tale percorso da due punti di vista distinti, ma tra loro
interrelati a livello di progettazione dell’azione formativa e livello di organizzazione
pratica del percorso formativo, in maniera da mettere in rapporto e poi saldare le
necessità e le potenzialità dell’utenza con le prospettive occupazionali e di integrazione
offerte dal contesto produttivo e sociale.
Alcune variabili all’interno del percorso formativo hanno svolto un ruolo chiave ai fini di
un esito positivo del percorso formativo.
Tali variabili chiave sono riconducibili essenzialmente a:
- competenze trasversali;
310
- competenze di base, in modo particolare linguistiche;
- massima personalizzazione del percorso formativo.
Per un’utenza spesso debole, apprendere delle competenze tecniche di base legate ad
un mestiere - ma principalmente acquisire quelle competenze trasversali proprie della
nostro contesto culturale - ha rappresentato una reale opportunità di integrazione
economico-sociale nel nostro paese. L’elemento prioritario da tenere in considerazione
nella progettazione e nella gestione del progetto formativo è il binomio “lavoro e
cultura”. Infatti una persona che possiede delle competenze tecnico professionali, per
trovare reale collocazione nel mercato del lavoro e integrazione sociale, deve saperle
contestualizzare e quindi conoscere la cultura dove applicherà tali competenze.
Occorre quindi prestare grande attenzione non solo all’acquisizione di un sapere
tecnico strumentale, ma anche alle competenze trasversali:
- sapere come comportarsi nella maniera più adeguata sul luogo di lavoro;
- quali sono modalità più appropriate per relazionarsi con i colleghi e con i superiori;
- il concetto di responsabilità, la puntualità, il senso di affidabilità sul luogo di lavoro,
ecc.
Ecco quindi che diventa prioritario ed essenziale possedere le competenze linguistiche
di base: occorre comprendere e farsi comprendere. Nel percorso formativo del
progetto è stato necessario prevedere un monte ore consistente di alfabetizzazione alla
lingua italiana: tali percorsi sono stati attivati ad hoc o sono stati presi in
considerazione servizi esterni (ad esempio presso i Centri Territoriali Permanenti ) in
una logica di integrazione tra i servizi a sostegno della persona.
Per quanto concerne l’architettura delle linee guida metodologiche proposte si ritiene
ad oggi funzionale strutturare il progetto suddividendolo in sottoprogetti proprio per
permettere la massima personalizzazione del percorso e poter quindi dare risposte
differenziate e coerenti alle necessità dagli utenti.
A livello di organizzazione pratica del percorso formativo si sono rivelati utili alcuni
accorgimenti:
- prevedere la realizzazione di dispense multilingue con numerose immagini;
- poter garantire un sostegno economico ai partecipanti (borsa lavoro, rimborso
311
forfettario, idennità di partecipazione);
- presenza in aula e nei laboratori del tutor – mediatore linguistico culturale;
- predisposizione di corsi con inizio scaglionato in tutto l’arco dell’anno (ogni 2 o 3
mesi ).
c) L’inserimento lavorativo
Nella serie di interventi volti a combattere lo sfruttamento sessuale delle donne, una
della azioni di supporto fondamentali per l’inserimento nella società riguarda il lavoro. Il
riconoscimento e la valorizzazione delle competenze possedute e utilizzate nella propria
esperienza individuale, o sviluppabili attraverso adeguati iter formativi, può aiutare le
persone che si affacciano su percorsi lavorativi inediti e individualizzati.
Occorre menzionare alcune criticità nell’accesso al mercato del lavoro legate da una
parte alla crisi economico-produttiva torinese che si ripercuote necessariamente sulle
possibilità di sviluppo occupazionale, dall’altra la scarsa professionalità, la scarsa
conoscenza della lingua e la concezione del lavoro legata alla cultura del paese di
origine delle donne che rendono difficoltosi gli inserimenti.
La gestione degli inserimenti lavorativi si è svolta attraverso diverse fasi:
- Individuazione e contatto con le aziende. In questa fase determinante è stata la
conoscenza e il rapporto capillare, in grado di coinvolgere velocemente le aziende
pronte ad accogliere, affiancare e inserire gli utenti, attraverso un lavoro di costante
affiancamento del tutor preposto all’inserimento.
- Valutazione del potenziale della motivazione delle donne, esplorate attraverso
colloqui individuali nei quali è stato possibile tracciare sia una breve ma esauriente
storia lavorativa del soggetto, evidenziando punti di forza e criticità, stilando un
bilancio delle competenze possedute o riattivabili.
- Proposta di tirocinio elaborata tenendo conto da un lato delle caratteristiche, delle
competenze, delle esperienze e delle aspirazioni delle singole donne, dall’altro delle
esigenze delle imprese disposte ad inserire le donne stesse, permettendo la
realizzazione di inserimenti personalizzati in cui domanda e offerta si incontrano con
soddisfazione reciproca, ponendo le basi per una sostenibilità nel tempo degli
inserimenti stessi.
- Valutazione in itinere del percorso, effettuata con il soggetto interessato dai
312
responsabili del progetto di inserimento, in modo da correggere eventuali errori
metodologici, risolvere eventuali problemi e difficoltà emerse lungo il tragitto e
formulare ipotesi sul cambiamento possibile attraverso il lavoro.
Il tirocinio (e/o stage ) rappresenta in molti casi il primo contatto con il mondo del
lavoro, e sono evidenti le implicazioni pratiche ma anche emotive racchiuse. Ecco
quindi il ruolo fondamentale svolto dal tutor sia nel rapporto diretto e costante con il
referente aziendale che con le donne.
Il progetto ha previsto l’attivazione di percorsi di tirocinio in impresa con la possibilità
di un erogazione di borse lavoro alle donne inserite, evitando l’assunzione di oneri da
parte delle imprese.
Il percorso di inserimento in impresa per donne che sono uscite da situazioni di tratta a
scopo di sfruttamento sessuale, e che provengono da paesi molto lontani per cultura e
tradizioni rispetto all’Italia richiede particolari forme di accompagnamento e mediazione
dei potenziali conflitti che si presentano nel rapporto con l’imprenditore/trice o con il
tutor aziendale. Si tratta molto spesso di problemi che, per poter essere affrontati e
risolti nella direzione di una totale autonomia delle donne, richiedono un affiancamento
e un processo di educazione/informazione costante e rivolto sia alle donne che agli
imprenditori/trici e tutor aziendali.
Per queste ragioni per il successo negli inserimenti lavorativi è stato fondamentale il
lavoro svolto dal tutor di inserimento e il costante rapporto con tutta rete.
Nella sperimentazione dei sono stati coinvolti attivamente imprenditori e imprenditrici
in un processo di collettiva responsabilizzazione rispetto all’integrazione, favorita da
una personalizzazione del rapporto con le aziende attraverso una costante presenza
garantendo una reperibilità in toto.
In molti casi il fondamentale ruolo di trait d’union con il mondo delle imprese a livello
locale si è rivelato utile al fine di individuare altre realtà produttive che, eventualmente,
potessero accogliere le donne nel caso di fallimento della prima sperimentazione o che
potessero assumerle successivamente qualora l’impresa in cui si è svolta la formazione
pratica non trovi nelle condizioni di poter stipulare con la donna un contatto di lavoro
più stabile.
313
d) Il lavoro di rete: modello di stabilità
Il confronto e l’interazione tra tutti i soggetti della rete LIFE hanno messo in evidenza
la necessità di affiancare alle azioni dirette concretamente all’integrazione delle vittime
di tratta un’azione di comunicazione e sensibilizzazione forte sul tema. Da qui è nato il
progetto Libere Te Lira Free che si è posto l’obiettivo di contribuire alla costruzione di
un contesto più favorevole all’integrazione, attraverso la realizzazione di una campagna
di comunicazione. Finanziato dal FSE Ob.3 – POR Piemonte ha portato alla
realizzazione e diffusione capillare di materiali comunicativi rivolti alle beneficiarie
(fotoromanzo), all’opinione pubblica (cartoline, spot, cartelli) e ad alcune categorie
aventi un ruolo fondamentale quali vigili urbani e settore immobiliare (video). La
collaborazione delle donne stesse in tutto il percorso fin dall’idea progettuale, è stato
fondamentale.
L’esperienza di LIFE ha fatto maturare tra i soggetti l’esigenza di sostenere una
metodologia di progettazione partecipata che coinvolga enti pubblici e organizzazioni e
associazioni private e del territorio sociale per poter affrontare in modo sempre più
sistematico il fenomeno nel suo complesso. Questo ha determinato la costituzione e la
formalizzazione di un tavolo provinciale attraverso un protocollo di intesa siglato il 13
giugno 2007. Il tavolo si prefigge l’obiettivo di divenire anche luogo di discussione e
produzione di nuove idee progettuali per rinnovare le metodologie e le modalità di
intervento, rendendole sempre più flessibili e adattabili ad una realtà in continuo
mutamento. Si propone inoltre di diventare un interlocutore stabile nella definizione
delle politiche Regionali e Nazionali sui temi della tratta delle persone.
Alcuni partner del progetto hanno poi partecipato al progetto “Emergendo: dal
sommerso all’inclusione socio-lavorativa delle vittime di tratta” . Un progetto a rete
nazionale, con la Provincia di Pisa come capofila, quale soggetto da anni impegnato
nella realizzazione di modelli innovativi di inclusione socio-lavorativa delle vittime della
tratta. L’innovazione della ricerca e la realizzazione di efficaci politiche di inclusione
lavorativa ha fatto sì che il progetto sia stato segnalato come buona prassi dall’Unità
nazionale Equal che, nata nell'ambito della Strategia Europea per l'Occupazione,
promuove la sperimentazione di approcci e politiche innovativi per contrastare il
fenomeno della discriminazione e della disuguaglianza nel mercato del lavoro.
Queste iniziative sono state il frutto di un lavoro insieme sul territorio per combattere
un fenomeno drammatico in una logica di impegno, sinergie, collaborazione e
314
solidarietà centrati sulla persona. Questo ha determinato una stabilità di rapporti che
continua ad esistere al di fuori della logica delle iniziative istituzionali, anche in via
personale e informale.
315
19.
Le Prassi Nazionali
Per chiudere questa parte, nella quale si descrivono buone prassi, dai cui risultati è
possibile trarre indicazioni di policy, si intende dare uno spaccato sintetico di prassi e
interventi che hanno l’opportunità di trovare continuità nel tempo, nell’attività ordinaria
delle pubbliche amministrazioni. Non si tratta infatti di progetti resi possibili da
iniziative specifiche, come il Programma di Iniziativa Comunitaria Equal, che ha
permesso di sperimentare iniziative trasversali a diverse tematiche, superando le
barriere tra servizi sociali, sanitari e per l’occupazione (sperimentazioni che nel quadro
attuale rischiano di rimanere tali e non radicarsi nel territorio), o le iniziative nate dalla
volontà, le energie e le risorse messe in campo dai privati, e che dunque in modo
paradigmatico superano i vincoli istituzionali. Si tratta invece di iniziative messe in
campo in particolare da attori istituzionali, e in taluni casi si tratta di veri e propri
esempi di qualità ed efficacia nell’azione delle pubbliche amministrazioni. Le Buone
prassi presentate sono state selezionate all’interno del progetto Buoni Esempi definito
dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dal Dipartimento della Funzione Pubblica e
dal Formez, che ha l’obiettivo di raccogliere i progetti e le iniziative di rilievo delle
pubbliche amministrazioni italiane a tutti i livelli territoriali. Più recentemente, su
iniziativa del Ministro della Pubblica amministrazione Renato Brunetta ha lanciato una
iniziativa nell’ottica di una riorganizzazione della PA per migliorarne l’efficienza
attraverso un nuovo sistema di premialità per le migliori amministrazioni pubbliche e i
loro dipendenti. In questa direzione si legge la pubblicazione on line delle migliori
pratiche.
La selezione dei progetti è stata fatta utilizzando quattro criteri di rilevanza:
- Soggetti deboli
- Inserimento Lavorativo
- Integrazione tra attori
- Approccio multidimensionale
Dei progetti emersi è stata operata una selezione ulteriore fino ad individuare 15
316
esperienze che si ritengono utili per comprendere la tipologia di iniziative realizzate, e
lo stato di attuazione dell’integrazione tra soggetti da un lato e di approcci diversi
dall’altro (salute, casa, lavoro, socializzazione, accessibilità).
a) Formazione e lavoro per i cittadini svantaggiati - Comune di Roma
Il progetto intende porre la risorsa "inserimento lavorativo" al centro dell'intervento di
socializzazione a favore di cittadini/utenti in situazioni di disagio medio-grave (ex
detenuti, ex tossicodipendenti, malati fisici e psichici, fasce deboli), coinvolgendo il
mondo del lavoro. La novità di questo progetto rispetto ad altri simili è la disponibilità
degli Organismi accoglienti ad una assunzione degli utenti inseriti nel programma, alla
conclusione della borsa lavoro/tirocinio (di durata 8 mesi – 1 anno). Non ci sono costi
per le imprese perché è il Municipio ad erogare la borsa lavoro. Il progetto è scaturito
dalla pressante richiesta dei cittadini/utenti dei Servizi Sociali di usufruire di un'attività
lavorativa piuttosto che del tradizionale sussidio economico.
b) Inclusive - Comune di Colleferro (Roma)
Il Comune di Colleferro, consapevole della necessità di fornire ai disabili l’opportunità di
conseguire competenze professionali e skills che ne consentano la parità di accesso al
mercato del lavoro, ha promosso il progetto Inclusive proponendosi di realizzare un
Sistema Scolastico di rilievo Universitario per i disabili. L'iniziativa è nata al fine di
assicurare un'effettiva integrazione sociale alle persone affette da disabilità, muovendo
dalla considerazione che un ruolo primario deve essere svolto dai sistemi educativi e
formativi che nel panorama europeo però, allo stato attuale, non consentono alla gran
parte dei disabili di superare la scuola dell’obbligo, con la conseguente esclusione dal
mondo del lavoro.
c) Dipartimento disagio, devianza, dipendenze - ASL Frosinone
L'ASL Frosinone ha istituito una struttura che si occupa delle problematiche legate alla
dipendenza da sostanze psicotrope, le cui linee di azione sono la prevenzione, il
trattamento del disagio e della devianza derivanti da tale patologia. Uno degli
strumenti operativi cardini dell'attività è il ricorso ad azioni congiunte tra pubblico e
privato sociale. Tra i risultati dell'attività progettuale vanno inoltre segnalati la
creazione di numerosi nuovi servizi relativi all'attività di prevenzione, all'inserimento
lavorativo e il notevole incremento dell'utenza servita.
d) “Occupazione TAM TAM'” per la creazione d'impresa, l'inserimento occupazionale e
317
l'integrazione sociale di giovani svantaggiati - Regione Sicilia
Il progetto ha coinvolto giovani dai 14 ai 19 anni residenti nei quartieri a ''rischio'' della
città di Palermo, nei quali è privilegiato l'utilizzo di codici aggressivi e devianti. Per
garantire la piena riuscita dell'intervento proposto, e quindi un approccio sistemico che
agisse su tutti i livelli (istituzionali, culturali, formativi, occupazionali e sociali), si è
reputata necessaria una piena integrazione di differenti azioni ma soprattutto
l'attivazione di metodologie innovative e ad hoc (quali per esempio la formazione in
alternanza, gli stage aziendali, etc...) e la creazione di un proficuo lavoro di "rete",
istituzionale e sociale, con il coinvolgimento di enti pubblici e privati, associazioni di
categoria, parrocchie, centri di volontariato e di prima aggregazione, assistenti sociali,
liberi professionisti. Dati i profondi cambiamenti che il progetto ha inteso apportare
nella vita del target-group, altro punto di forza è risultato essere il coinvolgimento
diretto dei familiari dei partecipanti, costantemente supportati da un'equipe di
psicologi.
e) I.S.I.S. -Information Society per l'Inclusione Sociale - Ministero della Giustizia Dipartimento per la Giustizia Minorile
Il progetto intende offrire opportunità di socializzazione e di inclusione socio-lavorativa
a giovani presi in carico dai servizi della giustizia minorile o a rischio di coinvolgimento
inattività
criminose,
attraverso
l'attivazione
di
laboratori
multimediali
e
di
comunicazione. Il progetto è articolato in tre fasi di intervento:
1) Animazione dei territori e attivazione della rete, che prevede la realizzazione di
attività finalizzate all'attivazione delle reti locali, regionali e centrali, a sviluppare
approcci, competenze e modelli di intervento condivisi.
2) Funzionamento dei centri multimediali e del sistema centrale, che prevede la
realizzazione delle azioni principali del progetto (coordinamento delle azioni, workshop,
laboratori multimediali, giornalino web).
3) Diffusione e mainstreaming, che prevede attività finalizzate al consolidamento e
all'ampliamento della rete dei "centri multimediali", il coinvolgimento delle istituzioni
locali e regionali e la definizione di processi di continuità dell'esperienza progettuale.
L'area di intervento del progetto comprende le regioni del Mezzogiorno d'Italia
(Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sardegna e Sicilia).
318
f)
S.T.RE.E.T.S. - Sistema Territoriale per il Reinserimento E la Tutela Sociale Comune di Pescara
L’analisi dei dati sul territorio di riferimento ha fatto emergere un'alta concentrazione
demografica, determinata da una significativa presenza di non residenti, di immigrati e
stranieri, di apolidi, di nomadi, di persone in stato di povertà estrema, di cui il territorio
individuato costituisce il bacino a più alta concentrazione in Abruzzo.
I dati relativi al mondo del lavoro locale rivelano una stretta e significativa correlazione
tra i fattori di emarginazione sociale e le categorie a più alto tasso di disoccupazione.
L'analisi dei dati ha portato ad individuare come categorie a più alto rischio di
esclusione socio-lavorativa gli immigrati, i nomadi, le donne in difficoltà, le persone in
stato di estrema povertà, i disabili/invalidi, le minoranza etniche, le persone che hanno
avuto problemi di dipendenza (alcool, stupefacenti), gli ex detenuti. STREETS
sperimenta un sistema interprovinciale di iniziative volte ad attuare l’inclusione sociale
delle categorie svantaggiate. La rete interistituzionale di PA, imprese e associazioni non
profit consente un approccio innovativo delle politiche sociali, basato sulla
personalizzazione degli interventi di reinserimento lavorativo e sociale delle persone a
rischio. Gli strumenti operativi di STREETS sono l’Agenzia di Inclusione Sociale, la
figura del mediatore sociale al lavoro, lo Sportello per la creazione d’impresa, le borse
d’inserimento.
g) Promozione e costruzione della rete per l'inserimento lavorativo delle persone
disabili e/o a rischio di emarginazione sociale - Provincia di Gorizia
Il progetto consiste in un processo di promozione, creazione e consolidamento della
rete finalizzata all'inserimento lavorativo delle persone disabili, che partendo dal lavoro
condotto in modalità interistituzionali di rivisitazione dell'intero iter del collocamento
mirato e attraverso un forte investimento formativo si propone di far acquisire una
modalità di lavoro sistematica costituita dalla istituzione di gruppi di progettazione
interni,
interprovinciali,
interistituzionali
a
seconda
delle
aree
di
intervento.
L'attivazione di tali gruppi accompagnata da percorsi formativi che coinvolgano
direttamente gli attori interessati all'esercizio delle funzioni , partendo da una
riflessione culturale e metodologica condivisa ha come obiettivo finale quello di definire
a livello operativo le modalità di raccordo, le funzioni e i compiti specifici affidati al
comitato tecnico, alla commissione dell'azienda sanitaria per l’accertamento, all'équipe
multidisciplinare per l'handicap, al SIL, ai servizi territoriali aziendali e ai servizi sociali
319
attuando una saldatura tra sistema sociosanitario e quello prefigurato per il
collocamento per evitare doppioni, dispendio di energie e di risorse nonché difficoltà di
orientamento agli utenti e talvolta agli stessi operatori. Alcune fasi del percorso
formativo saranno estese ed aperte a soggetti del mondo del volontariato,
dell'associazionismo di tutela dei disabili o dei soggetti appartenenti a fasce deboli al
fine di fornire anche ad essi elementi di orientamento e di valorizzazione delle
opportunità nell'ambito dell'inserimento lavorativo.
h) New Women Empowerment - Regione Abruzzo
Il progetto ha attivato una serie di servizi in rete in grado di offrire risposte al problema
della tratta di giovani donne e minori immesse nel mondo della prostituzione, in
condizioni di semischiavitù e di negazione dei fondamentali diritti umani. Il progetto ha
portato un aiuto a queste donne e minori, attraverso l'offerta di percorsi di uscita dalla
prostituzione e dallo sfruttamento e la creazione di percorsi di autonomia personale e
di inserimento socio-lavorativo, andando altresì ad incidere sulle reti istituzionali e
informali dei territori nonché sulle comunità locali attraverso azioni di comunità e di
specifica responsabilizzazione dei clienti.
i)
“Pollicino - Percorsi di inserimento socio lavorativa per adolescenti a rischio di
esclusione sociale” - Ministero della Giustizia - Centro per la Giustizia Minorile di
Palermo
Il Progetto è volto all’individuazione di un modello sociale, educativo e politico,di
intervento sui minori a rischio di esclusione sociale,agendo sul sistema istituzionale e
territoriale; si occupa di formare gli operatori,mettere in rete i diversi Servizi
coinvolti,individuare le figure professionali ad hoc sia nella gestione della relazione con
i minori, sia nella gestione di piani imprenditoriali all’interno del quale avviare i giovani
corsisti,creare una formazione permanente per gli operatori gestito dalla Scuola di
Formazione per il Personale della Giustizia Minorile di Messina, fornire opportunità
emancipative ai ragazzi in condizioni di disagio sociale e culturale.
j)
Progetti di risocializzazione per utenti del servizio di salute mentale: Combattere la
segregazione del diverso da noi - ASL Roma C
Il Dipartimento di Salute mentale della ASL C di Roma è da anni impegnato in numerosi
progetti di reinserimento e risocializzazione rivolti agli utenti del servizio. A partire dal
1999, ad esempio, con l'aiuto di collaboratori e di volontari non medici e con la
partecipazione di diversi bambini sono stati attivati i soggiorni estivi. Completamente
320
autofinanziati ed autogestiti, i soggiorni sono stati strutturati non solo come momenti
di vacanza, ma come esperienze terapeutiche di relazione interpersonale, durante le
quali gli utenti sono stati coinvolti in attività manuali e di espressione. Questo tipo di
esperienza è culminato nel 2007 con la partecipazione al progetto ''Un Treno Speciale
per Pechino'', un viaggio di 25 giorni che, partendo da Venezia con a bordo oltre 200
tra medici, utenti, familiari e personale volontario provenienti da tutta Italia, ha
attraversato Austria, Ungheria, Ucraina, Russia, Siberia, e Mongolia fino ad arrivare
nella capitale cinese, con l'obiettivo di sensibilizzare l'opinione pubblica italiana ed
internazionale sul mondo della salute mentale. Molto importanti anche i progetti relativi
ai Gruppi Appartamento, strutture di alloggio residenziali per piccoli gruppi di persone
dimesse dai ricoveri di lunga permanenza (clinica o comunità). Si tratta di esperienze
che fanno combaciare le necessità terapeutiche con quelle di risparmio dei costi dato
che, a differenza delle case famiglia o delle case di accoglienza, gli alloggi sono di
proprietà di uno degli utenti e, a carico della struttura pubblica, resta solo
l'organizzazione e l'assistenza, realizzata attraverso convenzioni con cooperative socio
assistenziali.
k) ChiamaRoma 060606. Contact Center: il valore della relazione con i cittadini Comune di Roma
Il Comune di Roma è stato uno dei primi a dotarsi di quello che oggi è una delle
strutture di contact center più efficienti nel panorama italiano. Attivato nel giugno 2002
attraverso una prima fase sperimentale, in cui l'accesso era riservato alle sole
associazioni di cittadini, invitate a dare suggerimenti per il miglioramento del servizio
stesso, nel novembre è stato reso operativo a pieno regime, e messo a disposizione di
tutti i cittadini. Il progetto iniziale mirava a creare un unico punto d'accesso, che
convergesse su un numero telefonico semplice da ricordare e che facesse da portone
d'ingresso per tutte le attività dell'amministrazione comunale. La struttura contava
nella prima fase su "primo livello" affidato in outsourcing ad operatori telefonici
professionisti. La trasformazione è avvenuta con la seconda gara, quella del 2003-04,
con la quale questo servizio di informazione telefonica di "primo livello" si è arricchito di
un "secondo livello" ed è diventato multicanale: sono state aggiunte, infatti,
funzionalità come la posta elettronica, il web, gli sms, il tutto per far convergere vari
strumenti sullo 060606 e offrire risposte adeguate attraverso qualsiasi canale
disponibile.
321
Il secondo livello cui si accennava è interno all'amministrazione e rappresenta un
ulteriore grado di assistenza predisposto per erogare informazioni di dettaglio, relative
a singole procedure e a casi specifici per seguire il cittadino nel suo rapporto con
l'Amministrazione fino all'assolvimento della richiesta o alla soluzione del problema.
Queste tipologie di servizi vengono erogate dagli URP, là dove presenti, oppure dai
"Punti di ascolto e informazione", dei piccoli uffici comunicazione nati contestualmente
al call center, dislocati presso gli uffici e le diverse strutture comunali. La creazione del
secondo livello ha un impatto di rilievo nel rapporto con il cittadino poiché contribuisce
a evitare o semplificare il suo contatto diretto con lo sportello e incide all'interno del
sistema comunale poiché la sua realizzazione richiede una trasformazione che è, prima
di tutto, culturale. Il contact center fornisce assistenza in lingua straniera in particolari
ore e giorni (dal lunedì al sabato dalle ore 16:00 alle ore 19:00). Il numero delle
chiamate in lingua straniera ricevute nel mese di agosto 2007 al Contact Center
''Chiama Roma 060606'' è stato di 43, così distribuite: 28 in lingua inglese, 9 in lingua
francese, 3 in lingua spagnola, 2 in lingua cinese,1 in lingua tedesca.
l)
InformaHandicap Venezia. Comunicare alla società i diritti delle persone con
disabilità - Comune di Venezia
L'InformaHandicap è un servizio promosso dal Comune di Venezia per dare
informazioni, fornire consulenza, orientare i cittadini sui servizi, i diritti e le agevolazioni
di cui possono usufruire le persone con disabilità. Tra i servizi a cui si può accedere,
segnaliamo una mappa realizzata ad hoc che oltre a visualizzare il livello di accessibilità
delle diverse aree della città fornisce indicazioni pratiche per agevolare la mobilità delle
persone disabili. Nell'immaginario collettivo, infatti, il centro storico di Venezia è visto
come un'unica grande ''barriera architettonica''. In realtà, grazie a un'efficace politica di
trasporto pubblico e agli interventi avviati nel corso degli anni dall'amministrazione
comunale, quasi il 70% della superficie della città storica risulta accessibile alle persone
con ridotta capacità motoria. Sono stati inoltre ideati alcuni itinerari "senza barriere"
che suggeriscono particolari percorsi tra le aree più ricche di opere d'arte del centro
storico e delle isole: Marciana, Rialto, Dorsoduro, Frari, S. Stefano, SS. Giovanni e
Paolo, Murano, Burano e Torcello.
E' inoltre possibile usufruire della consulenza gratuita di un architetto per:
- l'eliminazione delle barriere architettoniche all'interno della propria abitazione;
322
- la consulenza specialistica e l'informazione relativa alle normative vigenti;
- sapere come accedere ai benefici previsti dalle leggi regionali e nazionali.
m) Il distretto dell'economia solidale. Valorizzazione della persona, integrazione,
politiche per la famiglia- Provincia Autonoma di Trento
La provincia Autonoma di Trento ha introdotto per la prima volta il concetto di
''distretto dell'economia solidale'' e in quest'ambito ha realizzato alcuni dei sui progetti
più interessanti, a partire dall'idea di valorizzazione della persona, di integrazione e di
politiche sulla casa attraverso circuiti virtuosi tra organizzazioni pubbliche, for-profit e
non-profit orientando e riorientando input ed output produttivi.
Due, in particolare, vanno segnalati: il sistema provinciale di mobilità per utenti deboli
denominato ''Muoversi'' e il sistema informativo sociale ed e-welfare, che mira a
valorizzare le potenzialità della rete per accrescere l'efficienza e l'efficacia degli
interventi socio-assistenziali.
Operativo sul territorio ormai da 4 anni e certificato ISO 9001:2000, ''MUOVERSI'' è il
servizio di trasporto ed accompagnamento individualizzato a favore dei diversamente
abili che consente di viaggiare nella provincia di Trento. L'utente sceglie liberamente il
vettore di trasporto tra più organizzazioni accreditate all'erogazione del servizio (for
profit e non profit), dispone di voucher chilometrici di servizio assegnati alle singole
persone sulla base della propria condizione economica, e può contare su un sistema
informativo che consente all'utente di accedere, in tempo reale, a tutte le informazioni
riferite alla propria situazione e all'ente di gestire il servizio in tempo reale.
Il Sistema Informativo Sociale ed E-Welf@RE ha significato la definizione del prototipo
di cartella sociale informatizzata e la sua estensione su tutto il territorio provinciale
(oggi in corso di applicazione da 4 enti gestori su 13); la definizione del glossario degli
interventi e la formazione degli operatori per condividere i contenuti informativi; le
sperimentazioni concrete su pacchetti domotici ed alloggi domotici a sostegno dei
bisogni espressi da utenza debole al domicilio (anziani, portatori di handicap fisici e
psico-cognitivi) per accrescere comfort abitativo, security e safety (450 pacchetti
domotici installati su tutto il territorio provinciale). Infine, una prima definizione del
sistema informativo per la gestione da remoto delle autorizzazioni al funzionamento
delle organizzazioni che erogano servizi sociali (oltre 600).
n) La rete degli Sportelli sociali. Un osservatorio sul "bisogno" per migliorare i servizi -
323
Provincia di Bologna
La Legge n° 2/2003 emanata dalla Regione Emilia Romagna individua lo Sportello
Sociale come luogo, anche virtuale, di raccolta e gestione di tutte le informazioni
riguardanti le risorse sociali presenti nel territorio di riferimento e quindi punto (e
modalità) di accesso al sistema locale dei servizi sociali. Nel territorio provinciale
bolognese, i Comuni, in modalità associata per distretto sanitario, e le ASL di
riferimento utilizzano un unico sistema informatico, e, soprattutto gestiscono le
medesime procedure che regolano l'informazione e l'accesso. In questo modo l'accesso
a servizi così delicati per le famiglie quali i servizi sociali (anziani, disabili, minori,
disagio adulto, osservatorio ...) sono garantiti in modo uniforme e trasparente da parte
di tutti i Comuni del territorio. Grazie a questo percorso tecnologico e metodologico
comune è stato altresì possibile realizzare l'Osservatorio del bisogno che costituisce un
preziosissimo strumento per migliorare la programmazione e l'erogazione dei servizi.
Questa consuetudine alla condivisione tra enti ha prodotto un territorio integrato nelle
relazioni sociali e culturali e nelle attività economiche ed una realtà in cui il cittadino ha
un grado talmente elevato di relazione con le strutture e i servizi pubblici, da rendere
ormai superata la dimensione tradizionale della sua appartenenza al Comune e alla
collettività in cui risiede. Questo forte tessuto aggregativo sia politico che
amministrativo ha enormemente favorito i processi di condivisione nell'ambito dell'egovernment e dell'ICT, portando tecnici ed amministratori a condividere progetti a
volte ambiziosi ma possibili in quanto realizzati insieme.
o) Il Consulente alla Persona del Centro per l'Impiego - Provincia di Terni
La Provincia di Terni, nell'ambito dei servizi per l'impiego, si è focalizzata sui ''clienti'' imprese e chi offre lavoro - per poter svolgere efficacemente il suo compito principale
ovvero far incontrare la domanda con l'offerta. Di recente è stata istituita la figura del
''consulente alla persona'', operatore unico polivalente in grado di svolgere tutti i servizi
di accoglienza, orientamento e mediazione oltre a poter interloquire con la parte
datoriale. Infatti, per far fronte alla progressiva carenza di risorse, pur dovendo
svolgere la stessa mole di lavoro, è stato fatto un accurato studio sui carichi di lavoro e
sulla distribuzione degli stessi che ha evidenziato una disparità di distribuzione e un
andamento a ''denti di sega'' ritenuto dispersivo. E' nata così l'idea di una figura unica,
in grado di governare tutto il processo necessario ad offrire un servizio a chi cerca o a
chi offre lavoro. Ogni operatore unisce in sé tutte le funzioni principali; è in grado, cioè,
324
di gestire sia la fase di accoglienza, sia l'attività di orientamento che il momento della
mediazione, inoltre gestisce il back office: aggiorna i cataloghi e può rispondere agli
imprenditori. Le soluzioni organizzative sono tante: dalla creazione di due gruppi di
lavoro (uno competente per le questioni legate all'agricoltura e all'industria uno,
invece, dedicato al terziario); all'uso di tre cataloghi (offerta formativa, richiesta di
lavoro, enti ospitanti); 220 dizionari anche per il bilancio delle competenze; ecc. Inoltre
sono stati fatti accordi con agenzie interinali e con Università, sono state avviate azioni
di comunicazione ad hoc verso attori differenti del territorio per garantire sia percorsi
formativi che possibilità di trovare lavoro.
325
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328
329
PARTE QUARTA
Proposta per un sistema integrato dei servizi in Regione
Lazio
A cura di:
Simone Cerlini
Contributi di: Gianni Bonfatti
Barbara Manighetti
Elena Ragazzi
330
20.
Indicazioni di policy: proposta di una Agenzia Sociale
L’analisi svolta nei capitoli precedenti mostra un quadro regionale molto complesso, in
virtù di diversi fattori e variabili che rendono il problema dell’esclusione sociale
sfuggente e difficile da individuare e definire attraverso approcci top-down, con la
conseguenza che, ad oggi, intere fasce di persone svantaggiate di fatto non riescono o
non possono accedere a servizi per loro sempre più necessari. Lo svantaggio infatti fa
riferimento a condizioni di “fragilità” e “vulnerabilità”, per le quali è molto riduttivo
l’approccio che vede nella misurazione della “povertà” il criterio fondamentale per
indirizzare le politiche di inclusione. Lo spettro di tali condizioni è certamente più ampio
rispetto agli approcci storicamente adottati nelle politiche sociali, in virtù di forti
cambiamenti sociali ed economici in atto non solo in Regione, ma nel complesso delle
società avanzate: la crisi dei legami sociali e dei gruppi primari, la precarizzazione del
lavoro, i flussi migratori, la pervasività e insieme la non sostenibilità del modello di
famiglia mononucleare96, le difficoltà abitative, la tensione tra tempi di vita, tempi di
cura e tempi di lavoro sono fenomeni che non è pensabile arginare, in quanto
consustanziali ad una società aperta, tipica di una economia avanzata dei servizi. Tali
fenomeni dunque vanno approcciati cercando soluzioni alle nuove condizioni e alle
nuove sfide che essi portano con sé, nella convinzione che le soluzioni nascono dalla
vita stessa, dai fatti, in una coscienza continuamente ripresa. Si tratta di rispondere ai
bisogni espressi e latenti delle persone, cercando nuove strade laddove gli approcci
tradizionali si rivelino inefficaci. La presenza di interventi per contrastare l’esclusione
sociale si rivela qui centrale, in quanto la tendenza osservata in altri paesi è che, in
assenza di un intervento strategico e strutturato, le diseguaglianze sono destinate ad
approfondirsi, e la marginalizzazione di interi gruppi tende a cronicizzarsi. I fenomeni
della povertà e dell’esclusione, infatti, sono conseguenza di una “fragilità” le cui cause
96
Si assiste oggi al riaffermarsi della famiglia allargata con forme spurie di povertà come i “potenzialmente
poveri”, adulti che vivono con la famiglia di origine perché non possono permettersi di pagare un affitto.
331
sono da ricercare in istanze sociali, economiche e personali che non sono
standardizzabili e univoche, e che anzi tendono a perpetuarsi e ad aggravarsi in
assenza di interventi esterni. Nello stesso tempo queste azioni non possono essere
limitate a un intervento diretto dell’ente pubblico, in quanto è dimostrato che l’azione
pubblica sconta problemi di asimmetria informativa, di lentezza del processo
decisionale e di sviluppo che generano un sistematico ritardo nell’intervento sui
fenomeni nuovi e non sperimentati. Andranno dunque disegnate politiche pubbliche
che non siano sinonimo di azione diretta ma che strutturino, incentivino e rendano
possibile le azioni di numerosi operatori istituzionalmente diversi.
Da questo punto di vista, le politiche devono necessariamente rendersi flessibili e
capaci di adattarsi ai veloci cambiamenti di contesto. Diventa a questo fine centrale
dotarsi di strumenti di lettura della realtà nel suo darsi, capaci di produrre dati in
tempo reale circa i motivi dell’impoverimento e di segnalare il processo di progressivo
scivolamento delle persone verso condizioni di svantaggio.
Comprendere tale processo è di fondamentale importanza, per individuare le risorse
personali e sociali necessarie ad uscire in modo stabile da situazioni di difficoltà. Da un
lato i governi regionali e nazionali sono chiamati a conferire maggiori risorse per
strutturare sistemi flessibili per raggiungere gli obiettivi di inclusione indicati
dall’agenda di Lisbona, garantendo i servizi minimi essenziali; dal’altro essi sono
chiamati a creare sistemi di lettura del reale e di prevenzione dei fenomeni di
esclusione, valorizzando le migliori pratiche e creando le condizioni perché esse
possano svilupparsi e moltiplicarsi sul territorio. L’analisi fin qui condotta dimostra che
senza dubbio il fenomeno di esclusione si sostanzia in problemi derivanti dalla
mancanza di beni fondamentali, come un lavoro retribuito, una casa, l’assistenza
sanitaria, percorsi di ricollocazione e riconversione efficaci, ma che anche è causata
dall’assenza di sistemi di sostegno nei momenti di crisi e di cambiamento, capaci di
attivare meccanismi proattivi nelle persone a rischio: assistenza psico-sociale,
formazione professionale, recupero scolastico, assegni di sostegno al reddito.
Come già più volte segnalato, questo lavoro vuole dunque proporre un modello che
possa essere innovativo in un duplice aspetto. Partendo dal sistema attuale, in primo
luogo si intende superare un approccio assistenziale puro, per cercare sistemi
maggiormente sostenibili nella tendenziale contrazione delle risorse pubbliche, e per
valorizzare gli approcci tipici del sistema sociale europeo (“workfare” e “flexsecurity”),
332
che valorizza la responsabilità e la proattività dei soggetti, nella convinzione che il
sentirsi parte di un progetto comune sia condizione per una inclusione reale . In
secondo luogo si vuole rinnovare l’impegno per la presa in carico della persona in tutte
le sue dimensioni, e insieme valorizzare gli approcci preventivi che si fondano sui
modelli educativi, sulla scuola, sulla formazione professionale, sulla presenza capillare e
visibile di servizi sul territorio. In terzo luogo di intende valorizzare il patrimonio di
competenze, professionalità e innovazione del sistema del terzo settore del Lazio,
adottando un approccio dove centrale è l’idea di sussidiarietà.
20.1 Il modello di governance regionale
L’assetto regolativo del sistema di welfare della Regione Lazio è stato soggetto ad una
evoluzione tanto nei rapporti verticali, tra diversi livelli di governo, quanto nei rapporti
tra attori pubblici e privati. Il processo tuttora in atto trasforma un sistema in
prevalenza fondato sulla fornitura pubblica dei servizi, o della fornitura da parte dei
privati nel contesto di una programmazione rigidamente pubblica, in un sistema in cui
pubblico e privato partecipano del ruolo di osservatorio del bisogno, di promozione di
progettualità e di gestione del servizio in modo integrato. Appare consolidato, anche in
ambito regionale, un approccio che prevede alcuni capisaldi (Ranci, 2001):
-
distinzione tra funzione di finanziamento (per lo più pubblica); di gestione (affidata
a chi i servizi effettivamente eroga, con sempre maggiore centralità del privato
sociale); di acquisto (affidata agli utenti finali del servizio in modo diretto o
attraverso la leva dei voucher o dei buoni sociali);
-
sostegno economico alla famiglia, in particolare per salvaguardare e promuovere il
lavoro di cura dei minori e degli anziani;
-
pluralizzazione dell’offerta di servizi attraverso sistemi di autorizzazione e
accreditamento.
Tale approccio nasce e si consolida in un processo di decentralizzazione del welfare,
che ha visto accentrare in ambito regionale sempre maggiori competenze, a partire
dalla Legge Bassanini del 1997 (59/1997), che espressamente fa appello al principio di
sussidiarietà, fino alla Riforma del Titolo V della Costituzione. Tale processo vede la
centralità del Comune nei servizi sociali e, in particolare, a livello dei servizi alla
333
persona, ed individua la Regione come istituzione fondamentale per l’attività di
programmazione delle politiche e di riordino dell’intero sistema di welfare, anche in
virtù delle prerogative legislative. In tal senso si deve parlare oggi di un sistema
regionale di welfare, e dunque di un sistema regionale di governance dei servizi.
Il punto fondamentale per comprendere tale sistema è certamente la Legge Regionale
9 settembre 1996, n.38 “Riordino, programmazione e gestione degli interventi e dei
servizi socio-assistenziali nel Lazio”, modificata poi nel 2001. Tale legge già prefigurava
un sistema di servizi fondato su tre principi fondamentali:
-
decentramento amministrativo e sussidiarietà verticale;
-
integrazione dei servizi e approccio olistico alla persona;
-
promozione e valorizzazione del ruolo dei cittadini e dei corpi intermedi quali
osservatorio privilegiato dei bisogni del territorio e della qualità del servizio.
La Legge Regionale trova il proprio quadro di attuazione a livello nazionale nella Legge
Quadro per la realizzazione di un sistema integrato di interventi e servizi sociali, 328
dell’8 novembre 2000. La legge esplicita, al comma 5°, la forma del rapporto pubblico
privato nella gestione delle politiche sociali: “Gli enti locali, le Regioni e lo Stato,
nell’ambito delle rispettive competenze, riconoscono e agevolano il ruolo degli
organismi non lucrativi di utilità sociale, degli organismi della cooperazione, delle
associazioni e degli enti di promozione sociale, delle fondazioni e degli enti di
patronato, delle organizzazioni di volontariato, degli enti riconosciuti dalle confessioni
religiose”. Il mondo del privato sociale è investito di un ruolo centrale, in quanto ad
esso è riconosciuta la partecipazione nella gestione e progettazione degli interventi, ed
anzi viene affermato il diritto alla “piena espressione della propria progettualità”
promossa attraverso forme di aggiudicazione specifiche. La legge assegna alle Regioni
il ruolo fondamentale per l’attuazione del sistema integrato:
-
definire gli indirizzi per regolare i rapporti tra ente locale e terzo settore;
-
determinazione degli ambiti territoriali, modalità e strumenti per la gestione del
sistema integrato;
-
promozione di modelli innovativi di servizio;
-
definizione del Piano Regionale degli interventi;
-
definizione dei criteri per l’autorizzazione, l’accreditamento e la vigilanza delle
334
strutture e dei servizi;
-
definizione di un sistema di riordino e riorganizzazione delle IPAB.
La riforma del Titolo V della Costituzione limita poi i poteri dello Stato esclusivamente
alla definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP), lasciando alla regione la
possibilità di legiferare in competenza esclusiva. Ad oggi, la Regione Lazio non ha una
legge di riordino del sistema, ma ha definito il Piano regionale, gli ambiti territoriali, ha
attivato i piani di zona, ed ha legiferato in materia di accreditamento, autorizzazione e
riforma delle IPAB.
Il punto di riferimento essenziale per inquadrare le indicazioni di policy regionale è
dunque il Piano Regionale socio-assitenziale 2002-2004, approvato con Delibera di
Giunta regionale il 25 ottobre 2002.
L’obiettivo di orizzonte è costruire un vero e proprio sistema regionale di welfare, che
abbia come principi guida la centralità dei bisogni degli utenti (non quindi la capacità di
offerta di servizi), e la centralità della famiglia (intesa dunque come attore
fondamentale delle politiche e non come soggetto passivo degli interventi).
L’approccio organizzativo adottato è il sistema integrato dei servizi che deve favorire lo
sviluppo quantitativo e qualitativo dei servizi e l’integrazione socio-sanitaria.
Le priorità date dal piano fanno riferimento a:
-
politiche per la famiglia e con la famiglia97;
-
lotta alla povertà;
-
contrasto dell’emarginazione;
-
integrazione dei servizi;
-
qualità sociale.
L’Unità Territoriale stabilita dalla Regione è il Distretto Sanitario di competenza delle
97
Il marcatore linguistico “con”, presuppone il coinvolgimento della famiglia nella definizione delle policy,
nella programmazione, nei progetti e nell’erogazione dei servizi. In questo senso la L.R. 32/2001 indicava
la famiglia come istituzione privilegiata per la nascita, la cura e l’educazione dei figli, per l’assistenza ai
suoi componenti e per la solidarietà tra le generazioni.
335
Asl: all’interno del Distretto i Comuni stabiliscono il Piano di Zona in accordo con il
sistema sanitario e il terzo settore. I Piani di Zona declinano l’utilizzo delle risorse del
Budget di Distretto, definendo la mappa dei bisogni del territorio, la strategia di
intervento, le macro aree di intervento, fino ai progetti operativi.
E’ opportuno sottolineare che tra i risultati attesi del Piano figurano tra gli altri:
-
la realizzazione di un sistema “a rete” di servizi integrati;
-
l’attivazione degli sportelli “Informa famiglia” come nodi capaci di facilitare l’accesso
alla rete di servizi;
-
l’avvio del Sistema Informativo Sociale.
Per comprendere la direzione di sviluppo del sistema di governance regionale, è
opportuno poi citare alcune indicazioni contenute del D.G.R. 14 febbraio 2006, n. 81
che conteneva le “Linee-guida ai comuni per l'utilizzazione del fondo nazionale per le
politiche sociali”, all’interno del Piano di Utilizzazione del Fondo Nazionale per le
Politiche Sociali. Il documento afferma decisamente la volontà di proseguire in un
percorso sussidiarietà tra i livelli di governo, promuovendo il ruolo e la titolarità delle
autonomie locali che operano tramite i Piani di Zona. In secondo luogo l’approccio
segue una linea di integrazione tra politiche, che implica coinvolgimento e
collaborazione con le politiche dell'istruzione, della formazione professionale, del
lavoro, dell'abitare. Un’attenzione particolare è dedicata all’integrazione con le politiche
socio-sanitarie, in continuità con le esperienze già in essere. Si progetta inoltre la
costituzione, con gli Enti locali, a livello di distretto e di area sovra distrettuale, di “una
rete integrata di servizi attraverso il legame organico con gli altri servizi di livello
comunale, per la creazione di sportelli per il cittadino, per l'informazione sui servizi
attivati”. Per quanto riguarda il coinvolgimento del terzo settore si afferma la volontà di
raggiungere un quadro di responsabilità condivise tra soggetti istituzionali e soggetti
del privato sociale, tra i quali si cita espressamente il mondo del volontariato e della
cooperazione.
L’applicazione del principio di sussidiarietà in regione trova dunque applicazione non
solo attraverso la promozione della progettualità del terzo settore, sollecitato attraverso
chiamate a progetti, ma anche in prospettiva nel coinvolgimento diretto nelle attività di
programmazione. Il modello del Lazio sembra caratterizzarsi dunque come un sistema
collaborativo, con una corresponsabilità di pubblico e privato nelle politiche sociali
336
(Pesenti, 2006).
Ad oggi è possibile sottolineare una indisponibilità ad approfondire il percorso dei
voucher e degli assegni di cura come strumenti per creare condizioni di “quasi
mercato” o situazioni di concorrenza tra pubblico e privato per intercettare l’utenza.
Le relazioni con il privato sociale, anche in conformità alla legge regionale 38 del 1996,
sono attualmente percepite in virtù del loro ruolo di osservatorio privilegiato sui bisogni
del territorio, in modo che la programmazione possa essere il più possibile vicino alle
esigenze reali. Tale ruolo diventa esplicito ad esempio nell’organizzazione della
Conferenza del Volontariato, nella L.R. 3 novembre 2003, n. 36 che istituisce la
“Consulta per i problemi della disabilità e dell'handicap”, al fine di promuovere la
partecipazione attiva delle persone disabili alla vita della collettività e alla
programmazione degli interventi della Regione in loro favore, così come già dal 1975
era istituita la Consulta regionale dell’emigrazione e dell’immigrazione (L.R. 68/1975).
Analogamente, il privato sociale, che vive in questi anni importanti cambiamenti - dal
punto di vista della crescita delle opportunità, della crescita numerica delle
organizzazioni e delle persone occupate, dei cambiamenti normativi in atto, di cui in
altre parti di questo lavoro si è dato conto - si è organizzato in strutture reticolari, tra le
quali nel Lazio è opportuno citare i consorzi di cooperative, i centri servizi di
volontariato e le reti di Ceis e Caritas. La presenza e l’incisività del circuito di tali servizi
è importante non solo per la gestione diretta dei servizi, ma anche per la potenzialità di
raccolta dati che essi rappresentano. In proposito è opportuno citare il Sistema
Informativo Caritas, un sistema di trasformazione in conoscenza comune e condivisa di
quanto acquisito nel quotidiano impegno di intervento sociale. Il sistema di rilevazione
di rete è in grado di raccogliere dati per trasformarli in informazione utile a fini di
programmazione, valutazione, previsione e analisi dei bisogni. Si tratta di un sistema
informatico di rete tra tutti i centri Caritas, grazie al quale sarà possibile non solo
raccogliere tutte le informazioni sugli utenti che passano per il circuito Caritas
(informazioni anagrafiche, sociali, informazioni sui bisogni e sulle risposte attivate, sul
presente e sulla storia passata), ma anche produrre rapporti sintetici in cui descrivere
ed analizzare con accuratezza i profili di coloro che si rivolgono ai diversi centri. Uno
strumento di questo tipo ha potenzialità che possono essere valorizzate attraverso
strumenti di interoperabilità dei dati, capaci di incrociare le informazioni con base dati
provenienti ad esempio dai Comuni, dalle ASL, dagli Istituti di Previdenza, dalle Scuole
337
e dalle reti che sull’onda dell’esperienza Caritas decidessero di implementare strumenti
simili.
L’integrazione
delle
politiche
passa
dunque
anche
attraverso
lo
strumento
dell’integrazione delle basi dati. Su questo punto è opportuno che a seguito delle
dichiarazioni programmatiche e dell’integrazione dell’offerta di servizi si dia seguito ad
una integrazione delle basi dati afferenti ai diversi assessorati competenti.
La Giunta Regionale oggi prevede diversi Assessorati con competenze che intersecano i
servizi sociali, e che contribuiscono alle linee di indirizzo politiche e alle indicazioni del
programma di governo regionale:
-
Assessorato alle politiche della casa;
-
Assessorato Istruzione Diritto allo Studio e Formazione;
-
Assessorato Lavoro, Pari Opportunità e Politiche Giovanili;
-
Assessorato Politiche Sociali;
-
Assessorato Sanità.
L’organigramma della Regione Lazio prevede quattro Dipartimenti, tra i quali il
Dipartimento Sociale è composto da diverse Direzioni:
-
Servizi Sociali;
-
Beni e Attivita' Culturali, Sport;
-
Istruzione, Programmazione Dell'offerta Scolastica e Formativa e Diritto Allo Studio;
-
Formazione Professionale, Fse e Altri Interventi Cofinanziati;
-
Lavoro, Pari Opportunità e Politiche Giovanili;
-
Politiche della Prevenzione e Sicurezza sul Lavoro;
-
Risorse Umane e Finanziarie Del Servizio Sanitario Regionale;
-
Programmazione Sanitaria.
La Regione ha intrapreso, a partire dal 2002, una riforma delle competenze tra le
Direzioni per permettere una più efficace integrazione delle politiche, in coerenza con il
Piano Socio-Assitenziale.
Qui è opportuno sottolineare come in riferimento ai diversi Assessorati esistano basi
338
dati e portali che sarebbe opportuno poter interrogare per la costruzione di strumenti
informativi sintetici in merito alla lotta all’esclusione sociale e alle politiche di inclusione.
A puro titolo di esempio si citano, tra i sistemi informativi e i portali ad essi correlati:
-
SIRIO (portale della formazione professionale);
-
Borsa Lavoro Lazio (portale sul lavoro)
-
SISS (Sistema informativo dei servizi sociali) e Sociale.Lazio (portale sociale)
-
SISR (Sistema informativo sanitario regionale) che si trasformerà in ASUR
(Anagrafe Sanitaria Unica Regionale) e Pos.Lazio (portale sanitario).
20.2 Approcci europei
L’ambito delle politiche sociali in Europa si inserisce in un orizzonte costituito dalla
strategia di Lisbona e dalle indicazioni
di medio
periodo,
contenute nella
Comunicazione “Azioni comuni per la crescita e l’occupazione” COM(2005) 330 def.,
nelle quali il Consiglio Europeo invita gli Stati membri ad adottare un approccio per
l'occupazione basato sul ciclo di vita, che acceleri i trasferimenti professionali durante
l'intero arco della vita attiva e che comporti un aumento del totale delle ore lavorate,
nonché un miglioramento dell'efficacia degli investimenti nel capitale umano. Gli Stati
membri vengono del pari invitati a meglio indirizzare i provvedimenti destinati alle
persone meno qualificate e retribuite, in particolare per quanto riguarda coloro i quali si
trovano ai margini del mercato del lavoro. Il contesto strategico dunque, come già più
volte sottolineato, indica nelle politiche del lavoro la via privilegiata per l’inclusione
sociale. Per questa ragione le politiche sociali in Europa si sono caratterizzate per un
passaggio da sistemi di welfare inteso come protezione da situazione di crisi e bisogno,
a sistemi di welfare to work, inteso come promozione della vita attiva anche in
situazioni di crisi. Tale approccio dunque intende le persone oggetto delle politiche
sociali come disoccupati (o sottoccupati), che si tratta di accompagnare a condizioni di
occupazione. I programmi di sostegno per disoccupati in Europa possono essere da
questo punto di vista intesi in due diverse modalità (Fossaluzza, 2008):
-
programmi Unemployment Insurance (Ui), tipicamente rivolti a chi esce dal
mercato del lavoro, per licenziamento o chiusura dell’azienda;
339
-
programmi Unemployment Assistance (Ua), tipicamente rivolti a disoccupati a
basso reddito e a chi non ha diritto a programmi Ui perché ne ha esaurito il periodo
di copertura o perché non ha maturato il diritto di accesso (come i giovani in cerca
di prima occupazione).
I programmi Ui sono tendenzialmente più ricchi dei programmi Ua, hanno durata
tendenzialmente più breve, e si caratterizzano per prevedere strumenti strutturati e
diffusi di politica attiva. I programmi Ua d’altra parte hanno un target difficilmente
identificabile (sono necessari incroci di diversi indicatori e spesso ottenuti attraverso
processi macchinosi), coprono bisogni differenziati, dunque risultano complessivamente
più onerosi per l’amministrazione.
Nella nuova prospettiva aperta dalla strategia europea, dunque, l’assistenza sociale
diventa strumento di contrasto alla povertà in quanto strumento di sostegno per i
disoccupati, anche in rapporto all’indebolirsi delle reti di solidarietà familiare e di
comunità (anche se ci sono significative differenze in questo senso tra nord Europa e
paesi mediterranei). Sistemi di Unemployment Assistance diventano centrali anche per
l’insufficienza strutturale dei sistemi di Unembployment Insurance, in quanto intere
fasce di popolazione risultano scoperte (donne che desiderano reinserirsi nel mercato
del lavoro dopo periodi prolungati di cura di minori e anziani, giovani in cerca di prima
occupazione, disoccupati di lunga durata). In base al ruolo assegnato ai programmi Ua,
è tradizionalmente possibile distinguere tre modelli nel contesto europeo: il modello
social-democratico, il modello liberista e il modello conservatore.
Il modello social democratico, tipico dei paesi scandinavi, è caratterizzato dall’impegno
dello Stato a garantire la piena occupazione per uomini e donne, e pone l’accento sulla
responsabilità pubblica nel favorire l’uguaglianza. Il modello liberista (in Europa
tipicamente il Regno Unito) è caratterizzato da un approccio fondato sulla
responsabilità individuale e sulla fiducia nel mercato come sistema di regolazione. Il
sistema è dunque molto selettivo per i programmi Ua, ed è incoraggiato, anche
attraverso la leva fiscale, l’intervento dei privati nell’offerta di servizi sociali. Il modello
conservatore, tipicamente tedesco e francese, è incentrato su garanzie e tutele per il
capofamiglia, anche attraverso sussidi cash, orientati a mantenere i consumi della
famiglia e a prevenire crisi sociali.
E’ opportuno però superare approcci generalisti e verificare come i sistemi stiano
340
progressivamente incontrando fenomeni di ibridazione.
20.2.1 Il caso Danimarca
La Danimarca è da sempre considerata aderire al modello social democratico, fondato
dunque su garanzie che coprono tutti i cittadini nell’ottica di favorire la piena fruibilità
dei diritti. A partire dal 1994 l’aggravarsi del fenomeno della disoccupazione ha
motivato un processo di riforma culminato nel “New direction Plan”, che stabiliva il
right and duty principle. Secondo tale principio cardine delle politiche, gli individui
disoccupati hanno diritto a misure di sostegno al reddito e ad accedere a servizi di
politica attiva del lavoro, ma hanno il dovere di partecipare attivamente a tali iniziative,
pena la perdita del diritto. Tale principio, è utile sottolinearlo, si applica a quelle fasce
di popolazione che non accedono, o hanno perso la copertura dei sistemi Ui. Ad
esempio è un principio applicato ai giovani dopo sei mesi di disoccupazione. Tale
processo ha lo scopo di favorire la proattività anche per le categorie emarginate dal
mercato del lavoro. Successivamente sono stati introdotti in-work benefits, tali per cui
l’individuo veniva incentivato ad accettare lavori a basso salario attraverso assegni di
integrazione del reddito. Nei programmi di training on the job la persona riceve
l’analogo del salario per il lavoro pertinente, favorendo in tal modo insieme la persona
e l’azienda, la quale si fa carico della formazione della persona, ma senza oneri
aggiuntivi. L’esperienza danese è significativa perché mette in luce due importanti
assunti:
-
l’integrazione tra politiche attive del lavoro, politiche di sostegno al reddito,
politiche per l’inclusione sociale e politiche per favorire la responsabilizzazione e la
proattività della persona, in un approccio tipicamente social-democratico;
-
l’affermarsi del principio per cui la fruibilità dei diritti è comunque associata a
precisi doveri nei confronti della comunità è esso stesso uno strumento di lotta
all’esclusione sociale, perché non accetta fenomeni di ghettizzazione e di
etichettamento psico-sociale dell’individuo: non fare di tutto per reinserire al lavoro
la persona significa dichiararne l’incapacità e l’inabilità a contribuire positivamente
alla vita civile.
341
20.2.2 Il caso Regno Unito
L’approccio tipico del Regno Unito è chiamato “attivazione negativa”, per il quale il
sistema di sussidi è stato reso via via più restrittivo e meno conveniente, per spingere i
disoccupati ad accettare lavori a basso salario. Con il governo Blair si attua una riforma
dell’intero sistema assistenziale, attraverso i programmi New Deal, che approcciavano
categorie specifiche di beneficiari: New Deal for young people, New Deal for long-term
unemployed, New Deal for Lone parents, New Deal for disable people, New Deal for
partner of unemployed, New Deal of Those over 50. I programmi New Deal istituiscono
e potenziano la rete di Job Centres e dunque la rete di politiche attive del lavoro. Ad
esempio il programma per i giovani obbliga i giovani disoccupati alla definizione di un
piano di azione individuale, nel quale il giovane ha quattro opzioni: lavoro nel settore
privato con un sussidio per i primi sei mesi; sussidi per avviare lavoro autonomo,
programma di formazione o tirocinio, lavoro sussidiato per attività sociali. L’erogazione
dei sussidi è dunque condizionata ad una attivazione della persona. Gli interventi si
sono concentrati con i diversi programmi in direzione delle categorie a maggior rischio
di marginalità. Il sistema del Regno Unito dunque prevede da un lato sussidi
condizionati all’attivazione delle persone, ma dall’altro prevede sistemi reticolari per
intercettare un’utenza che sovente è più difficile identificare e raggiungere. Un primo
punto su cui convenire è dunque il superamento di approcci ideologici anche in paesi
che si sono sempre posti come baluardo dei modelli socialdemocratico e liberista. La
tendenza
comune
è
dunque
senza
dubbio
un
processo
di
progressiva
responsabilizzazione dell’individuo in quanto il lavoro è inteso come mezzo di inclusione
sociale, ma in un contesto in cui diventa capillare l’offerta di servizi, che diventa la vera
garanzia dei diritti del cittadino.
20.3 Modelli di sussidiarietà
Nel contesto del modello di governance attuale proporre l’adozione di un approccio
integrato dei servizi sociali, come indicato anche dal POR 2007-2013, significa
ripensare completamente le dinamiche di rapporto tra pubbliche amministrazioni e
terzo settore che, come detto, è motore di offerta di servizi per il sociale da un lato e
osservatorio privilegiato per le dinamiche del bisogno nel territorio. E’ opportuno
342
dunque individuare degli schemi interpretativi che consentano di comprendere le
prospettive insite nei diversi approcci. Tra i modelli di governance possibili nell’ambito
delle politiche sociali è possibile individuare quattro atteggiamenti fondamentali
(Maccarini, 2004):
-
esternalizzazione dei servizi, ad esempio attraverso gara d’appalto o convenzione
diretta, come avviene in molti casi tra i Comuni della Regione Lazio ed attori del
privato sociale, ad esempio cooperative sociali e organizzazioni di volontariato;
-
sussidiarietà per progetti, che valorizza la capacità di progettazione e osservazione
dei bisogni del territorio, come avviene ad esempio nell’area politiche della
formazione e del lavoro, nella gestione del POR Fondo Sociale Europeo;
-
valorizzazione dell’iniziativa dei privati, come sembra proporre la legge che istituisce
l’impresa sociale (D.lgs 155/2006);
-
forme di sostegno alla domanda come voucher o gli assegni di cura come accade
per i voucher Alta Formazione della Regione Lazio.
Nell’implementazione delle politiche, tali quattro atteggiamenti si incrociano con il ruolo
della PA che, nei confronti dei servizi, ha funzione di finanziamento, di erogatore
diretto, di regolatore e di controllo, per dare origine a quattro diversi modelli di
governance (Pesenti, 2006):
-
dominanza pubblica: l’attore pubblico è insieme il principale finanziatore ed
erogatore di servizi, per cui mantiene il completo controllo sui beneficiari, sulle
tipologie di servizio, sulla progettazione degli interventi;
-
modello duale, dove gli attori pubblici e privati intervengono sia nel finanziamento
che nell’erogazione dei servizi. Il modello è dunque duale complementare quando il
privato sociale copre le lacune del pubblico per i servizi che il pubblico non è in
grado di erogare (secondo il principio del governement failure); duale competitivo
quando pubblico e privato offrono i propri servizi in un “quasi mercato” dove il
finanziamento è assegnato all’utente e non alla struttura che eroga servizi. Quando
infine l’ente finanziatore preferisce assegnare risorse direttamente al gestore dei
servizi si parla di “modello service”, quando direttamente ai beneficiari e alle
famiglie, di “modello cash”;
-
modello collaborativo: dove il mondo del privato sociale è attore dominante
343
nell’erogazione dei servizi e il pubblico è il principale finanziatore. In questo caso il
privato può essere puro esecutore dei programmi dell’ente pubblico, o collaborare
attivamente alla progettazione e alla programmazione (come avviene nei casi di
progettazione partecipata dei Piani di Zona);
-
modello di terzo settore dominante: il terzo settore ha ruolo centrale come
erogatore dei servizi e come struttura capace di attirare finanziamento anche da
fonti non pubbliche, come accade ad esempio nelle buone prassi citate nella terza
parte di questo volume.
Un’ulteriore variabile per le modalità di possibile organizzazione di un sistema dei
servizi sociali è il ruolo assegnato alla famiglia (istituto in fase di trasformazione da un
modello prevalentemente mononucleare a un modello nuovamente allargato). La
famiglia infatti può essere intesa come attore fondamentale per le politiche sociali, per
il ruolo centrale che ha nel lavoro di cura, educativo e di assistenza. In questo caso la
famiglia deve essere coinvolta con forme di rappresentanza e coinvolgimento nella
definizione delle politiche, per evitare che diventi puro attore passivo di politiche
assistenziali o, peggio, puro soggetto consumatore di servizi (come accade ad esempio
in un mercato con ancora molte zone d’ombra come il mercato dei servizi di assistenza
domiciliare agli anziani).
Tali variabili permettono di categorizzare le diverse tipologie di regolazione dei sistemi
di welfare regionali, e di proporre degli scenari possibili:
-
modello erogatorio: a dominanza pubblica, senza modalità di finanziamento
all’utente finale, intende la famiglia essenzialmente come soggetto passivo di
politiche assistenziali;
-
modello sociale: a prevalenza di modalità di finanziamento di tipo service,
attivazione del privato sociale attraverso esternalizzazione dei servizi o chiamate a
progetti, intende la famiglia come attore delle politiche, ma non come soggetto
attivo nella programmazione;
-
welfare promozionale: utilizza entrambe le modalità di finanziamento service e
cash, coinvolge il privato sociale nella programmazione degli interventi, è aperto al
confronto tra pubblico e privato in un “quasi mercato”.
344
20.4 Tendenze evolutive dei sistemi di welfare
Diverse ragioni hanno motivato negli ultimi anni un processo di contrazione di risorse
pubbliche: i vincoli di bilancio imposti dal Patto di Stabilità Europea, - pensato, è da
ricordare, per tutelare le politiche monetarie della Banca Centrale per il controllo
dell’inflazione nell’Euro Zona - ma anche le politiche di contenimento del livello di
pressione fiscale dovute alla necessità di rilanciare la domanda interna e la
competitività delle imprese, in una situazione in cui non sono più possibili strategie di
svalutazione competitiva e di deficit spending in virtù dei vincoli imposti dal Trattato di
Maastricht. Tali dinamiche oggi costringono a porre una rinnovata attenzione a favore
di meccanismi di efficienza della spesa. Per questa ragione le politiche hanno favorito
processi di workfare e strumenti atti a favorire la partecipazione al lavoro, in quanto gli
strumenti di trasferimento monetario passivo, si è dimostrato, diminuiscono le
possibilità di trovare un lavoro (per una dinamica di de-responsabilizzazione
dell’individuo). L’obiettivo della piena occupazione, e di migliori posti di lavoro, può
essere raggiunto oggi solo cercando di costruire una rete di servizi per l’inclusione
sociale di modo che in linea teorica nessuno sia a priori escluso dal mondo del lavoro e
dalla partecipazione sociale.
Per adattare l’offerta di servizi ai reali bisogni del territorio, e per garantire i servizi
essenziali, in particolare in ambito socio-sanitario, educativo e formativo, l’ente
pubblico ha interesse a promuovere l’offerta privata e a favorire la sostenibilità delle
organizzazioni che in tal modo si presentano sul mercato (Cerlini, 2008). E’ dunque
prevedibile l’affermarsi di meccanismi di concorrenza per migliorare l’efficienza
complessiva della spesa, in un quadro di garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni.
La promozione degli organismi maggiormente performanti in termini di qualità del
servizio, impatto sociale ed efficacia della gestione dipende in primo luogo dalla
misurabilità di tali fattori e dalla disponibilità e pubblicazione dei dati sensibili. Il privato
sociale dunque deve essere accompagnato per dotarsi di strumenti necessari alla
misurabilità del servizio da un lato, ma anche dell’efficienza della gestione dell’altro.
Disporre di dati in merito al servizio, all’efficienza e ai risultati delle organizzazioni non
profit finanziate o agevolate diventa dunque un obiettivo istituzionale rilevante, che
deve essere considerato da un Osservatorio per l’inclusione sociale.
L’aumento dell’incidenza del donatore e finanziatore privato, che fa seguito a percorsi
345
di professionalizzazione del mondo del non profit, alla crescita delle capacità
manageriali, e ad una rinnovata sensibilità verso la raccolta di risorse private esige la
creazione di strumenti atti a comunicare la propria missione, il proprio impatto sociale,
la propria efficienza di gestione. In tal modo è possibile creare un volano virtuoso che
si sposa con una sempre più presente cultura della donazione liberale e della
responsabilità sociale di impresa (favorita e promossa anche dal legislatore). Dunque
dal punto di vista delle autorità regionali dalla logica di controllo e dell’accreditamento
sarà necessario passare ad una logica della misurazione della qualità del servizio e del
risultato, che in ambito sociale risponde a logiche diverse dalla massimizzazione del
profitto. Ciò significa che laddove ad oggi il finanziamento risponde a logiche
concertative, in un futuro prossimo la contrazione delle risorse e la contemporanea
richiesta di servizi da parte del territorio renderà necessaria, e non solo auspicabile,
una selezione sempre più attenta dei progetti e degli interventi beneficiari. Tale
dinamica risponde anche all’esigenza di orientare il beneficiario finale nella scelta del
fornitore, laddove si percorra la strada dei voucher o di buoni assegnati direttamente al
cittadino. D’altra parte il privato sociale è chiamato non solo a migliorare l’efficienza
nell’utilizzo delle donazioni, o l’efficacia negli appalti di servizio, ma anche a permettere
una misurabilità dei propri risultati e della propria performance (per rispondere alle
logiche del controllo dei livelli essenziali delle prestazioni e una richiesta di sempre
maggiore efficienza nella gestione) e a comunicare il proprio impatto sul territorio,
proprio per attrarre investimenti, donazioni e sponsorizzazioni da parte di donatori
privati.
20.5 Approcci di finanziamento della domanda
I diversi modelli di governance descritti per i modelli di welfare sembrano disegnare un
quadro dove gli approcci alle politiche sociali si muovono in direzione di un’attivazione
sempre più ampia del privato sociale. All’interno di tali modelli di governance, i sistemi
di finanziamento diretto dell’utenza (approccio cash) per creare situazioni di “quasi
mercato” paiono emergere come la vera alternativa al controllo diretto dei servizi. E’
possibile trarre, in vista dell’elaborazione di un modello di intervento contro l’esclusione
sociale e la povertà per la Regione Lazio, significative conclusioni sull’efficacia e
l’efficienza di, tali strumenti dalle esperienze che già si sono diffuse in altri contesti
346
territoriali. In Italia la riforma del welfare negli ultimi anni ha permesso di sperimentare
strumenti innovativi e nuove tipologie di prestazioni. Ad esempio nei servizi sociali e
sociosanitari si sono sperimentati strumenti come l’assegno di cura, un contributo
economico assegnato a livello locale per l’assistenza, e il voucher affinché gli utenti
scelgano i diversi erogatori di servizio accreditati. Assegni di cura e voucher sono
utilizzati in particolare per l’assistenza agli anziani non autosufficienti, ma esistono
esperienze anche per bambini in età prescolare e per i disabili (Gori, 2007).
Gli assegni di cura sono contributi assegnati dalle ASL o dai Comuni per fruire dunque
di servizi socio-assistenziali. In particolare, occorre notare che nella gran parte delle
esperienze l’assegno è strettamente legato a prerequisiti di carattere economico che
certifichino lo svantaggio, in un approccio selettivo (e quindi ancora distante dal
modello di completa applicazione dei quasi mercati). L’assegno sostiene l’assistenza
informale offerta direttamente dalla famiglia, o servizi acquistati sul mercato,
tipicamente badanti o asili nido. La legge quadro sul riordino del sistema sociale in
Italia, la più volte citata 328/2000, cita espressamente i voucher all’interno dell’art.17,
ed inserisce gli assegni di cura all’interno delle azioni volte a favorire la famiglia
(art.16). L’assegno di cura si diffonde in Italia soprattutto nel nord, dapprima in Valle
d’Aosta, Trentino, Veneto, Friuli, Emilia Romagna e Toscana, poi, dopo l’approvazione
della legge 328/2000 anche in Lombardia, Liguria, Sicilia, Calabria e recentemente in
Puglia. Invece i voucher, seppur oggetto di maggiore interesse scientifico e istituzionale
si sono sviluppati in maniera più contenuta, seguendo in questo un trend europeo.
I principali motivi della diffusione dell’assegno di cura, in particolare per le persone
anziane,
sembrano
significativamente
correlati
al
problema
demografico
e
all’invecchiamento della popolazione, non per questo ne sminuiscono la caratteristica di
strumenti innovativi in quanto:
-
costituiscono la modalità più economica e più rapida per aumentare l’offerta di
servizi a fronte dell’esplosione del bisogno;
-
costituiscono una misura efficace contro l’istituzionalizzazione degli anziani, che
risulta onerosa da una parte e dall’altra toglie la persona dalla rete delle proprie
relazioni famigliari, creando disagio e sofferenza psichica.
È qui opportuno sottolineare come le Regioni eroghino l’assegno a fronte di valutazioni
multidimensionali, con strumenti valutativi molto diversi tra loro e Unità di valutazione
347
concepite in modo eterogeneo. Le schede di valutazione del bisogno, documenti
discriminanti per concedere il beneficio, tengono in considerazione variabili economiche
(soglie ISEE), sanitarie, sociali, e la capacità di presa in carico da parte della famiglia
(Pesaresi e Simoncelli, 2006). Lo stesso obiettivo degli assegni varia: si va da un
intento prettamente sociale (Piemonte), a sistemi di integrazione del sistema sanitario
(Trento, Umbria, Sicilia, Calabria), nei quali le condizioni per accedere sono più
restrittive e fanno riferimento a situazioni di non autosufficienza conclamate.
Ovviamente il rischio di tali approcci è di escludere dalla possibilità dell’assegno chi
potrebbe utilmente trarne beneficio in modo efficace contribuendo anche a contrarre la
spesa socio sanitaria regionale. Un’attenta valutazione costi benefici deve essere
prevista dunque sui criteri di valutazione per assegnare il beneficio. Infatti è possibile
che allargare i possibili beneficiari possa essere nel complesso conveniente.
Gli assegni possono essere gestiti come erogazioni monetarie standardizzate, o come
misure specifiche erogate attraverso “bandi” a fronte di richieste e bisogni specifici
intercettati dall’amministrazione pubblica. Ovviamente il rischio è uno scollamento
rispetto alla realtà territoriale. In alternativa gli assegni possono rientrare all’interno di
un sistema complessivo di interventi sociali, negoziato con gli attori del territorio, ed
essere erogati dopo una presa in carico della persona e la definizione di un progetto di
intervento personalizzato. Seppure nelle linee programmatiche le Regioni affermino di
seguire il secondo modello, diverse ragioni motivano l’adozione del primo, in particolare
attraverso il fatto che la gestione attraverso “bando” richiede procedure più semplici e
permette un maggiore controllo sull’erogazione, evitando una pressione della domanda
superiore alla capacità di spesa. I “bandi” infatti permettono di erogare gli assegni fino
all’esaurimento del fondo allocato, permettendo così un controllo dell’equilibrio
economico dell’ente locale. Il secondo modello è d’altra parte adottato dalla Regione
Emilia Romagna, che ha predisposto procedure indicative e interessanti. L’assegno
viene erogato all’interno dei Servizi Assistenza Anziani a seguito di una istruttoria da
parte di una Unità di Valutazione composta da un medico geriatra, un assistente
sociale comunale e un infermiere, che valuta il livello di autosufficienza dell’anziano
predisponendo un piano di servizio che può contemplare anche l’assegno di cura. Le
esperienze rese possibili dalla normativa italiana dunque indicano nel supporto diretto
al beneficiario una strada percorribile, spesso efficace ed economica.
348
20.6 Reti per l’inclusione sociale: punti di attenzione per il non
profit
L’analisi delle buone prassi di intervento sociale contenuta nella terza parte di questo
lavoro ha messo in luce l’esistenza di due modelli, non necessariamente alternativi, che
paiono coerenti con la strategia di dare una risposta ai bisogni della persona in un
approccio olistico: un modello di centro integrato e un modello di rete di reti. La
presenza sul territorio del Lazio di reti consolidate permette di trarre delle conclusioni
importanti circa le modalità di rete più efficaci, per indirizzare le politiche e favorire le
aggregazioni e i coordinamenti tra i soggetti del privato sociale e dei servizi pubblici.
Un primo elemento, centrale dell’analisi, capace di dare un contributo effettivo al
modello è l’analisi delle reti e dei meccanismi di coordinamento. La letteratura in
proposito tenta a volte di nascondere elementi di criticità che emergono dalla realtà e
possono essere così riassunti:
-
modalità di lavoro disomogenee;
-
reti costituite ad hoc su un obiettivo/progetto;
-
assenza di forme di coordinamento preesistenti;
-
elevata complessità di coordinamento interno alle reti (in particolare quelle con
partner diffusi sul territorio nazionale).
La costruzione di reti, che è sembrato essere un obiettivo fondamentale nella
definizione delle politiche sociali e del lavoro negli ultimi dieci anni, si è scontrata con
difficoltà operative per i cui gli attori in gioco ponevano resistenze, o semplicemente
non utilizzavano energie e risorse per mantenere i legami necessari.
L’analisi delle reti territoriali mette in evidenza in maniera chiara invece che, quando le
reti funzionano, siamo in presenza di modalità organizzative, modelli decisionali e
processi strategici peculiari.
In primo luogo è opportuno sottolineare come le reti capaci di produrre innovazione e
operare sinergicamente abbiano alle spalle una lunga tradizione di cooperazione o si
riconoscano in modelli ideali. Caso paradigmatico è la rete dei centri Caritas o la rete
della CEIS. Tale fatto mostra con chiarezza che la sostenibilità delle reti ha
paradossalmente come condizione preliminare l’esistenza pregressa delle reti stesse. In
349
altri termini azioni di politica sociale, che facilitino ad esempio l’accesso a finanziamenti
a condizione di costituire reti ad hoc, sembrano non tenere in considerazione il fatto
che la gestione e il coordinamento di reti è un processo talmente complesso e poco
efficiente che devono esistere ragioni altre dall’obbligatorietà per la partecipazione a
bandi di gara perché in esse si consolidino i meccanismi solo in parte esplicitabili e
codificabili per il loro funzionamento. Le ragioni che soggiacciono alle reti consolidate
fanno riferimento a fattori di comunanza ideale, di condivisione di modelli valoriali
comuni, di amicizia personale e di fiducia reciproca (che alla conoscenza personale di
solito si associa). In definitiva, gli elementi informali sembrano essere per l’efficacia dei
sistemi di coordinamento un ingrediente fondamentale che non può essere superato da
un’organizzazione puramente formale, laddove le sinergie siano tali da obbligare ad
una collaborazione costante.
L’esistenza di legami preesistenti, o almeno di un forte comune denominatore come
condizione per la sostenibilità delle reti per l’inserimento lavorativo e l’inclusione sociale
trova conferma anche nell’esempio del coordinamento delle attività multibusiness, o
per meglio dire multiservizio, tipiche dei casi analizzati negli esempi descritti nella terza
parte (in particolare Piazza dei Mestieri, Sodalizio San Patrignano, Progetto Libera,
Progetto Le Radici e Le Ali): il fattore ideale è evidente nella fase di genesi dell’idea e
di condivisione della vision tra gli attori. In conclusione è possibile affermare che in
assenza di dispositivi di coordinamento forti, o di strutture funzionali rigide, la
condivisione della vision, della mission, e degli obiettivi generali di progetto permette
ugualmente una sinergia efficace nel raggiungimento dei risultati. In mancanza di tale
condivisione, infatti, si assiste ad una struttura anarchica che, se da una parte
responsabilizza gli operatori, dall’altra produce distress e causa altissimo turnover.
Anzi, anche laddove siano previsti dispositivi di governo e controllo, la condivisione
della vision, della mission e degli obiettivi generali sembra essere comunque centrale
quando le reti erogano servizi integrati e non meramente giustapposti (come nel
progetto strategico di un sistema integrato di servizi).
In sintesi:
-
la condivisione della vision è un fattore aggregante e conferma la fiducia reciproca;
-
la condivisione della mission facilita i processi e l’erogazione dei servizi, la delega e
la presa di decisione autonoma;
350
-
la condivisione degli obiettivi generali facilita l’autocoordinamento delle attività e
processi sinergici.
Inoltre, è da tenere in considerazione un fattore comune al mondo del privato sociale,
in particolare per le organizzazioni di volontariato. Essenzialmente in tali realtà, dove
tendenzialmente non esistono strutture organizzative precise e mansionari, il lavoro
non è retribuito, non è chiara la linea di comando, accade che la risorsa fondamentale
sia il tempo e l’energia da dedicare all’organizzazione, quindi la motivazione a prestare
il proprio lavoro. In queste condizioni tale strutture facilitano chi dedica maggiori
risorse. Essenzialmente la responsabilità funzionale delle persone dipende da cosa e
quanto la persona fa. Nasce dunque un modello organizzativo “a gomitate e spintoni”,
dove la posizione funzionale è direttamente proporzionale all’impegno e alla
disponibilità, in definitiva alla motivazione e all’interesse nel lavoro (e quindi non
necessariamente alle capacità e all’adeguatezza al ruolo).
Nelle reti accade qualcosa di molto simile. Le organizzazioni capofila, estremamente
motivate, nei progetti di collaborazione assumono progressivamente il completo
controllo delle reti. Da queste osservazioni è dunque necessario trarre alcune
indicazioni utili per organizzare un modello reticolare di offerta di servizi:
-
le organizzazioni devono essere motivate per collaborare tra loro;
-
la rete territoriale dei servizi deve costituirsi come sistema di coordinamento tra reti
preesistenti.
L’attivazione degli sportelli “Informa famiglia” previsti dal secondo Piano Regionale
socio assistenziale, con i limiti e le resistenze che hanno incontrato nel loro realizzarsi
pratico, dimostrano che perché la rete diventi funzionale è necessario renderla coesa.
Questo è un obiettivo che meriterebbe certamente sforzi ulteriori, anche perché nel
definire un marchio riconoscibile per accedere ai servizi, l’amministrazione regionale ha
avuto una intuizione certamente da non sottovalutare. Gli sportelli potrebbero davvero
diventare punti di contatto “esportabili”, non solo dunque all’interno dei servizi offerti
dagli enti locali, ma come funzione trasversale ai nodi della rete del servizio integrato
regionale. E’ pensabile che siano dunque le organizzazioni del terzo settore a farsi
promotrici del servizio, anche in virtù delle reti già consolidate di molte realtà regionali.
L’esperienza di ChiamaRoma 060606 è eloquente anche perché dimostra che le
tecnologie della comunicazione permettono di offrire servizi ai cittadini anche a
351
distanza e in modalità asincrona, scindendo la presa in carico del bisogno
dall’erogazione del servizio.
Il modello di un nodo capace di orientare l’utente nell’offerta di servizi diventa un
fattore che moltiplica la risposta positiva al bisogno, quando è connesso ai diversi
servizi presenti nei Distretti. La rete diventa efficace quando riesce a dotarsi di
strumenti unificati di primo contatto, e a rendere ogni nodo riconoscibile attraverso un
marchio unico (come lo Sportello “Informa Famiglia”, o i “Punti di Contatto”), capace di
dare appeal al servizio, e dunque facilitare la capacità di intercettare il bisogno. L’avvio
del Sistema Informativo Sociale e il Portale Regionale, realizzati dalla Regione Lazio,
sono sicuramente passi importanti in questa direzione. Si cercherà di dare indicazioni
anche su un modello idealtipico di strumento informatico operativo coerente con il
modello proposto. Altro fattore decisivo è la condivisione del sistema di valori che sta
alla base degli indirizzi regionali, degli orientamenti strategici e degli obiettivi operativi,
che non si realizza tanto attraverso il trasferimento ampio di decisioni già prese, ma
utilizzando gli strumenti tipici della programmazione partecipata. In questo senso non
sempre è l’ente pubblico, in particolare l’ente locale o il comune a disporre delle
maggiori energie e delle maggiori competenze per la realizzazione di un sistema
integrato, ma potrebbe essere un attore del territorio, il consorzio delle cooperative
sociali, il centro servizi di volontariato o le reti di orientamento promosse da
organizzazioni cattoliche. La distribuzione della leadership nei Distretti è una condizione
della funzionalità reale delle reti.
20.7 Premesse per un modello di Sistema Integrato dei Servizi
Le indicazioni precedenti consentono di proporre un quadro coerente per l’attuazione di
un sistema di politiche sociali del Lazio, delle quali l’Osservatorio vuole essere lo
strumenti di analisi e supporto.
I pilastri ideali che emergono dai precedenti paragrafi e che informeranno il modello
proposto sono i seguenti:
-
la persona al centro;
-
personalizzazione del servizio;
-
individuazione puntuale, ma dinamica e aperta, del target;
352
-
integrazione e flessibilità delle risorse .
La centralità della persona è il principio cardine anche del Piano Regionale, per il quale
l’offerta dei servizi risponde ai bisogni espliciti e latenti delle persone. In tal senso è
necessario prevedere sistemi per intercettare il bisogno e per creare strumenti di
accoglienza e ascolto. I soggetti presi in carico dalle diverse tipologie di servizio
(sociali, sanitari, per il lavoro) rappresentano indirettamente una fonte di dati per
identificare e quantificare le aree di sofferenza su cui intervenire.
Anche l’ultimo principio trova riflesso nella normativa regionale; il Piano Regionale cita
tra i propri obiettivi la creazione di un sistema integrato regionale. Riuscire ad integrare
le risorse, o a creare processi per un loro utilizzo sinergico e coerente, rappresenta un
passo fondamentale per realizzare politiche sociali che possano rispondere in modo
olistico ai bisogni della persona. Gestire in modo sinergico le risorse è un obiettivo
ambizioso, che implica collaborazione tra i diversi livelli di governo e le diverse
competenze.
Le azioni che vengono qui proposte per un sistema integrato dei servizi si fondano su
principi ampiamente argomentati nei paragrafi precedenti:
-
interazione e coordinamento tra servizi pubblici e privato sociale per una diffusione
dei servizi e per una migliore comunicazione verso i beneficiari finali;
-
coinvolgimento dei beneficiari anche attraverso processi di finanziamento della
domanda;
-
natura essenzialmente locale dei nodi della rete del sistema integrato per facilitare
l’incontro con l’utenza e per dare visibilità al servizio.
L’idea di sistema integrato reticolare di servizi sul territorio parte dal presupposto che
esista continuità tra le politiche sociali, assistenziali, sanitarie e del lavoro, e che tale
continuità sia funzionale alle condizioni di bisogno reale della persona. Una strategia di
inclusione sociale infatti, se come visto passa prioritariamente per la centralità del
lavoro, quando vuole raggiungere un impatto nel tempo deve farsi carico della persona
in condizione di svantaggio nei momenti di cambiamento e di crisi che fanno
riferimento alle diverse dimensioni della persona.
Nel quadro di governance attuale integrare i servizi implica dunque sistemi di raccordo
tra azioni di competenza della Regione (fulcro delle politiche sanitarie e formative),
353
della Provincia (sistema lavoro e centri per l’impiego) e del Comune (servizi sociali),
anche e soprattutto per condividere le informazioni disponibili.
Il livello territoriale ove realizzare operativamente il servizio è d’altra parte il Distretto
Sanitario, responsabile della programmazione dei Piani Sociali di Zona.
Dall’analisi del modello attuale, in Regione Lazio la creazione di un sistema integrato
rappresenta senza dubbio un obiettivo che richiede una discontinuità e un salto, nella
percezione
dei
beneficiari
finali,
nelle
procedure
operative
e
di
servizio,
nell’organizzazione della gestione e dei raccordi tra gli attori, nei livelli decisionali.
Per tale ragione si propone di attivare, sul modello degli Sportelli “Informa Famiglia”,
una rete di punti di contatto, riconoscibili sul territorio attraverso un marchio sempre
identico in Regione. I punti di contatto hanno la funzione di individuare e mettere in
connessione le risorse dei servizi sociali, sanitari, educativi e formativi utili a supportare
le persone in condizione di svantaggio.
Il primo importante punto di innovazione sta nel sistema stesso di attivazione dei punti
di contatto. Non si tratta infatti di moltiplicare gli uffici comunali o di realizzare ex novo
un nuovo servizio di rete, quanto di valorizzare il tessuto di realtà pubbliche e private
del territorio. L’obiettivo è di creare una rete diffusa in modo capillare, capace di
intercettare l’utenza attraverso diversi canali, nella risposta a diverse tipologie di
bisogno.
L’adozione dello status di “punto di contatto” comporta obblighi e vantaggi da parte del
servizio locale (associazione, cooperativa, sportello pubblico). Dal punto di vista degli
obblighi il “punto di contatto” dovrà rispettare condizioni per l’accreditamento stabilite
a livello regionale, e mettere in comune le proprie informazioni, o utilizzando sistemi di
raccolta dati uniformi, o permettendo processi di interoperabilità e condivisione.
Dal punto di vista dei vantaggi il “punto di contatto” potrà utilizzare il marchio
regionale e potrà accedere a linee di finanziamento ad hoc per l’erogazione dei servizi.
La chiave di volta del modello è l’istituzione di un sistema di coordinamento e controllo
regionale, che possiamo chiamare “Agenzia Sociale”.
L’Agenzia Sociale dovrà essere in grado di:
-
definire le procedure per l’accreditamento dei “punti di contatto” e per includere i
servizi nella rete;
354
-
coordinare e raccogliere le informazioni provenienti dai “punti di contatto” locali;
-
realizzare sistemi di monitoraggio e valutazione sull’operato dei “punti di contatto”
anche al fine di realizzare comparazioni su efficacia di gestione, risultati e impatto.
Come evidente, la struttura dell’Agenzia sarà agile, ma dovrà poter contare su un
sistema informativo capace di raccogliere i dati provenienti dal sistema sanitario, dai
centri per l’impiego, dai comuni, dai punti di contatto.
Il sistema di accreditamento dovrà prevedere alcuni punti fondamentali comuni ai punti
di contatto, in riferimento alla disponibilità minima di strutture (ufficio e stanza
separata per i colloqui), alla presenza di figure professionali specifiche, alle competenze
degli operatori e alle procedure di presa in carico della persona. Tale fattore è
discriminante. Il valore aggiunto del modello proposto sta non solo nella capillarità
della rete, ma anche e soprattutto nella presa in carico reale della persona, con
l’obiettivo di comprendere il ventaglio dei bisogni espliciti e latenti. Solo in quel caso
infatti ha senso poi orientare la persona alla diversa offerta di servizi sul territorio. Per
questa ragione è opportuno prevedere per tutti gli operatori una procedura standard
per costruire il piano individuale, che contempli azioni afferenti all’ambito lavorativo,
sociale, sanitario, abitativo.
Un ulteriore elemento di innovazione è l’adozione dell’operatore unico, un punto di
riferimento per la persona, che l’accompagni nel percorso di inserimento lavorativo o di
fruizione dei servizi sociali.
La creazione di un sistema integrato dei servizi, che si appoggi ad un sistema reticolare
sul territorio, prevede protocolli operativi tra l’Agenzia Sociale, che diventa l’Istituto di
coordinamento generale, e le diverse tipologie di servizio interessate (sociale, del
lavoro e sanitario in primis).
355
Fig. 1. Modello di rete dell’Agenzia Sociale
È opportuno notare come con un sistema di questo tipo l’obiettivo della
responsabilizzazione della persona da un lato, si incontra con la volontà di non creare
processi discriminatori e di ghettizzazione, attraverso un sistema flessibile capace di
prevenire le adulterazioni e premiare i comportamenti virtuosi. Infatti è possibile
concepire un sistema in grado di vincolare come nei modelli nord europei gli aiuti al
reddito attraverso trasferimenti monetari (sussidio di disoccupazione, integrazione del
reddito, reddito minimo di inserimento, reddito di ultima istanza) a sistemi di
attivazione e di partecipazione a percorsi di politica attiva, come nel caso dei New Deal
attivati nel Regno Unito. Anche in Italia, la sperimentazione sul Reddito Minimo di
356
Inserimento ha condotto a elaborazioni dei risultati che indicano come questo
strumento trovi la sua più concreta funzionalità nell’essere strumento promozionale e
non assistenziale (Calza Bini, Nicolaus e Urco, a cura di, 2003), e implicare il
coinvolgimento di tutti gli attori: istituzionali, profit e non profit, nell’ottica del welfare
mix. In tal modo si compie di fatto il superamento della distinzione tra dispositivi
Unemployment Insurance e Unemployment Assistance. La sicurezza diventa un diritto
in quanto vincolata al dovere di partecipare attivamente alla ricerca dell’inserimento
lavorativo. D’altro canto le dinamiche diacroniche di ricadute in condizioni di
emarginazione devono trovare sempre un sistema di servizi capace di intercettare la
persona in condizione di bisogno.
20.8 Da un sistema di autorizzazione e accreditamento ad un
sistema di rating
Il modello di Agenzia Sociale è imprescindibile dall’esistenza e dall’attivazione di un
sistema di rete tra i soggetti che intervengono nell’osservazione dei fenomeni, nella
programmazione, nella progettazione e nella gestione dei servizi alla persona (per il
lavoro, sociali, sanitari, assistenziali, abitativi). La creazione di sistemi reticolari di
servizi è una strada percorribile in Italia, e in particolare per la Regione Lazio? Lo
scenario presentato nella prima parte mostra anche in Regione un processo per cui, a
fianco di un aumento numerico e di una strutturazione delle organizzazioni del privato
sociale a tutti i suoi livelli, si affianca un’attività del legislatore che sembra premiare da
una parte fenomeni di aggregazione (consorzi, centri servizi di volontariato, reti di reti),
dall’altra istituti atti ad attirare energie private nell’ambito dei servizi sociali (in
particolare come visto nella parte prima l’istituzione dell’impresa sociale). Malgrado il
quadro di contesto presentato non sia esente da critiche che spingono soprattutto
verso un completamento dei processi di revisione legislativa, si può dire che paiono
esservi le condizioni per avviare una sperimentazione che, in caso di successo
permetterebbe di rispondere ai bisogni crescenti espressi dal tessuto sociale in modo
tempestivo e con un impatto finanziario più ridotto rispetto alla gestione diretta dei
servizi.
Nell’ottica dell’ultimo obiettivo di contenimento della spesa pubblica si muovono istanze
che tendono a premiare l’efficienza delle organizzazioni. Il Legislatore ha operato per
357
incentivare l’utilizzo di strumenti orientati alla trasparenza, alla rendicontazione e al
controllo. La rendicontazione economico-contabile realizzata attraverso il bilancio è
necessaria ma non sufficiente per il terzo settore regionale, che sente sempre più la
necessità di rendere conto delle iniziative attuate e dei risultati prodotti, nei confronti
degli stakeholder. D’altra parte è opportuno immaginare che un sistema di trasparenza
sui risultati e sull’efficacia di gestione sia una condizione necessaria (ma ancora non
sufficiente) per attirare risorse private verso i servizi di interesse pubblico, a partire da
una incentivazione delle donazioni liberali e di sostegno da parte delle imprese
(Magrassi, 2007). Esiste un corpus di documenti che testimonia il sempre crescente
interesse nei confronti della rendicontazione economico-contabile e sociale da parte del
sistema del non profit e da parte delle istituzioni di regolazione. Tra questi alcuni si
possono citare perché particolarmente significativi per interesse o innovatività del
contenuto, oltre perché significativi come atto in sé. Per esempio il recente documento
di CSV.net “Linee Guida per la redazione del bilancio di missione e del bilancio sociale
delle organizzazioni di volontariato” (CSV.net, 2008), è significativo anche perché esito
delle riflessioni in corso direttamente dal mondo del non profit. Similmente, dal 2004
Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue sta cercando di promuovere l’adozione di un
“bilancio sociale semplificato” da parte dei propri associati. Da parte istituzionale, la
Commissione aziende non profit del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ha
approvato le raccomandazioni contabili “Codice unico delle Aziende non profit”
(CNDCEC, 2007). L’Agenzia delle ONLUS ha presentato le “Linee guida e schemi per la
redazione dei bilanci di esercizio degli enti non profit”.
All’interno di questo processo verso una maggiore formalizzazione dei documenti
amministrativi del terzo settore, è comprensibile che l’attore istituzionale voglia
condurre a strumenti il più possibile uniformi e tra loro comparabili, anche nella
misurazione dei risultati sociali e dell’impatto. L’utilizzo sistematico degli indicatori
consente al gestore delle politiche di monitorare le performance, l’efficienza, e
verificare le condizioni per lo sviluppo dell’attività degli attori privati coinvolti in attività
sociali (Magrassi, 2007). A questo punto il passo per creare sistemi di rating capaci di
orientare le donazioni liberali e i finanziamenti pubblici è davvero breve. I dati
dell’indagine Auser "Enti locali e Terzo Settore", presentata il 23 gennaio 2008,
mostrano che la gestione delle linee di bilancio per le attività sociali per le
organizzazioni del terzo settore non si limita a strumenti di appalto di servizi o bandi di
358
gara, ma si avvale della convenzione diretta prevista in deroga ai normali contratti di
appalto. Tale strategia deve implicare il coinvolgimento delle OdV nella pianificazione
degli interventi (Rossi, Boccaccin, 1997). La pressione della domanda di servizi, inoltre,
unita ad una generale contrazione delle risorse costringe dunque a individuare
meccanismi di selezione delle iniziative sovvenzionate (Gasparre, 2002). Queste
dinamiche hanno condotto a due diversi processi (Cerlini, 2008):
-
l’istituzione di processi di autorizzazione e accreditamento pubblico per l’erogazione
del servizio: l’ente pubblico stipula convenzioni o contratti solo con quelle
organizzazioni che rispondono a prerequisiti di base, in termini di disponibilità di
strutture e competenze per la realizzazione delle attività;
-
la nascita di dispositivi di controllo “dal basso”, attraverso la voucherizzazione dei
servizi: finanziare l’utente anziché l’ente erogatore costringe quest’ultimo a
misurarsi con un “quasi mercato” che può decidere attraverso criteri di qualità del
servizio.
È prevedibile che la necessità di individuare gli attori migliori costringerà
l’amministrazione a orientare la selezione dei progetti in modo sempre più razionale, e
dunque dovrà costruire strumenti per una continua misurazione dell’efficacia e
dell’efficienza della spesa e una certificazione della performance. Queste informazioni
potrebbero essere anche utili al beneficiario finale per indirizzarsi verso il servizio
migliore. Alcune regioni si stanno attrezzando, come il caso della Lombardia, per
costruire rating attraverso i quali selezionare gli investimenti sulle politiche, creando
logiche virtuose per la promozione della capillarità e della qualità dei servizi,
dell’impatto a medio e ungo termine, dell’efficacia di gestione. Ad oggi d’altro canto, il
cuore pulsante del sistema non profit, le organizzazioni di volontariato e le associazioni,
sono intrinsecamente impreparate ad affrontare una tale sfida e rischiano di rimanere
fuori dal sistema integrato di servizi. Appare quantomeno singolare e contraddittorio
tale processo, in quanto le strutture più agili e destrutturate sono certamente le più
efficienti, per i minori costi di gestione e per il contributo offerto gratuitamente dai
volontari, oltre a rappresentare spesso l’unica vera frontiera di contatto con i fenomeni
più gravi di emarginazione e bisogno. Tali organizzazioni, che sono già oggi a margine
dei processi di esternalizzazione dei servizi sociali, non trovano economicamente
vantaggioso creare sistemi di rendicontazione delle proprie attività e delle proprie
performance. Si propone dunque che sia il pubblico a concepire sistemi di rating capaci
359
di includere tale mondo e insieme ad accompagnarlo verso l’adozione di procedure di
trasparenza, anche nell’ottica della creazione di reti e consorzi. La Regione Lazio si
trova in una posizione sicuramente favorevole per diventare il punto più avanzato in
tale prospettiva, per la presenza nella capitale delle associazioni di rappresentanza del
terzo settore e per la presenza capillare di reti storicamente radicate, come Ceis e
Caritas. Ma la trasformazione di tale vitale tessuto in una rete strutturata implica la
creazione condivisa di strumenti di misurazione e comunicazione, tali che possano
essere accettabili per la loro semplicità e non invasività, anche dalle organizzazioni più
snelle e destrutturate.
20.9 Il punto chiave del processo: approcci di case management
Se è pensabile costruire un sistema integrato di servizi, valorizzando ciò che già esiste
in Regione, è opportuno però concepire e progettare gli strumenti operativi necessari
per far funzionare il processo. Tali strumenti sono:
-
l’operatore unico
-
il patto di servizio
-
il Piano Individuale di Assistenza
-
il sistema informativo integrato
In questo processo un ruolo fondamentale ha l’operatore unico, o tutor. Tale figura
nasce in ambito sanitario. Il modello organizzativo assistenziale del case management,
o gestione del caso, è un modello per la realizzazione di percorsi di cura, atto a favorire
l’efficacia e il controllo dei costi attraverso la massima individualizzazione delle risposte
ai bisogni sanitari. Gli approcci a riguardo sono molteplici e si sono approfonditi a
partire dalla fine degli Anni Ottanta, in particolare negli Stati Uniti. Si possono
identificare alcune definizioni correnti (Nunziante P., 2007):
-
sistema di accertamento, pianificazione, fornitura, erogazione, coordinamento di
servizi e monitoraggio dei bisogni multipli del paziente;
-
insieme di fasi logiche e processo di interazione tra i servizi di un sistema di enti,
che assicura che l’utente riceva le prestazioni necessarie in modo efficace,
efficiente, a costi giusti;
360
-
modello organizzativo assistenziale che ha lo scopo di provvedere alla qualità delle
cure, aumentare la qualità della vita, diminuire la frammentazione e contenere i
costi dell’assistenza.
I punti fondamentali sono dunque la personalizzazione del servizio e la riduzione dei
costi, in particolare attraverso la minimizzazione dei tempi di degenza. Le strategie
attraverso le quali si attua sono: la continuità e l’integrazione delle prestazioni di
assistenza e cura, e il controllo dell’utilizzo delle risorse. Gli strumenti di cui tipicamente
si
avvale
tale
approccio
sono
il
piano
di
assistenza
personalizzato
e
la
responsabilizzazione dell’infermiere in un’ottica di job enlargement, in quanto ha la
responsabilità del paziente nel suo complesso e non solo per la competenza specifica
del reparto, ma anche ha la responsabilità del budget allocato alla persona, e dunque
deve scegliere i servizi più appropriati anche in una logica di contenimento dei costi.
Mutuando il modello nelle politiche sociali, il care manager, o operatore unico, è colui
che si fa carico della persona nel suo complesso di bisogni e attitudini e lo accompagna
nella fruizione dei servizi e nell’attuazione dei piani di inserimento. Tale modalità, oggi
attuata ad esempio anche nelle politiche del lavoro e nella ricollocazione professionale
con successo, fa nascere legami fiduciari e personali, che facilitano il processo e creano
legame sociale, un’azione più efficace e di maggiore impatto nel medio lungo periodo,
oltreché efficienza organizzativa e riduzione dei costi, in quanto l’utente rientra con
minore frequenza nel processo di recupero. Le funzioni dell’operatore unico sono:
-
presa in carico diretta della persona e analisi dei suoi bisogni, competenze, status
sociale;
-
gestione di colloqui strutturati per la raccolta di dati anagrafici e semistrutturati per
le fasi di counseling ed eventualmente analisi delle competenze professionali;
-
elaborazione di un piano personale che unisca l’obiettivo dell’inserimento
professionale a sostegni in merito all’integrazione sociale, abitativa, all’assistenza
sanitaria;
-
gestione delle risorse finanziarie allocate alla persona;
-
attività di collaborazione con le diverse strutture della rete che erogano servizi;
-
attività di collaborazione con le istituzioni del territorio e con i centri preposti
all’inserimento lavorativo;
361
-
attività di tutoring durante l’attuazione del piano;
-
attività di monitoraggio delle singole azioni contemplate e dell’impatto nel medio
periodo.
L’operatore unico è dunque una figura professionale specializzata, con competenze di
carattere psico-sociale e capace di accompagnare la persona in un percorso di
inserimento lavorativo. Da un punto di vista organizzativo deve essere in grado di porsi
in relazione con le diverse strutture del territorio, usufruendo delle loro competenze
specifiche per la valutazione iniziale e, in seguito, per facilitare l’accesso ai servizi. In
relazione alla tipologia di utente che accede al centro l’operatore dovrà essere in grado
di prendersi cura di persone con disabilità, piuttosto che di stranieri (diventando di
fatto un mediatore culturale). Dunque il profilo, seppure abbia elementi trasversali
comuni a tutti i servizi, mostra anche aree di specializzazione che non possono essere
improvvisate. I punti di contatto, che nascono da associazioni, cooperative e comunque
enti che già erogano servizi, mantengono certamente la propria vocazione, ma devono
essere in grado comunque di rispondere positivamente ai bisogni espliciti e latenti.
Gli indicatori di risultato che il case manager dovrà tenere sotto controllo fanno
riferimento all’uso efficace delle risorse, alla continuità e all’approccio olistico
dell’assistenza nelle diverse dimensioni del bisogno, alla promozione della proattività
del beneficiario finale.
In letteratura l’operatore unico si avvale di uno strumento chiamato critical pathway,
utile per orientare, in relazione alla tipologia di destinatari, il piano personale di
assistenza. I pathways sono, infatti percorsi tipici per le diverse categorie e popolazioni
di beneficiari che hanno esigenza e bisogni simili, e per i quali esistono regolarità
riscontrabili nell’esperienza per ottimizzare il percorso di cura. Ad esempio per un
tossicodipendente il percorso dovrà presumibilmente prevedere azioni di cura sanitaria,
sostegno abitativo, reinserimento sociale e lavorativo. Per le donne vittima della tratta
sarà necessario anche prevedere il rapporto con le Forze dell’Ordine. Per i minori in
situazioni di disagio, essenziale sarà invece la formazione professionale e percorsi di
socializzazione. Tali percorsi, costruiti insieme agli operatori che effettivamente
erogano i servizi, aiutano e non sostituiscono la presa in carico della persona, e dunque
il piano personale, che è individuale e difficilmente sovrapponibile al pathway di
riferimento. Esperienze interessanti del modello del case manager si sono diffuse nel
362
Lazio negli ultimi anni, in particolare nel sistema sanitario, ma anche nei servizi sociali,
in particolare su popolazioni non autosufficienti, come nel caso del Progetto “Autismo
ed Educazione Speciale”, di cui alla DGR n.924 del 26 ottobre 2006 della Regione. La
sfida è dunque ripensare il ruolo del case manager per permettergli di interagire con i
diversi attori che erogano i servizi, negli ambiti territoriali dei Distretti.
20.10 Cambiare per gradi attraverso la creazione di poli di
eccellenza
Il modello proposto può essere valutato secondo quattro diverse dimensioni: valoriale,
politica, organizzativa, e di servizio. Dal punto di vista dei valori la centralità della
persona e della famiglia rappresenta il punto fondamentale
per la concezione del
modello, ed è richiamato dai documenti programmatici. Dal punto di vista politico il
modello è coerente con le indicazioni strategiche regionali, che indicano come obiettivo
la costruzione di un sistema integrato di servizi, e richiamano il ruolo centrale delle reti
del privato sociale e del terzo settore. Dal punto di vista dei servizi sul territorio, la
ricchezza dell’offerta da parte dell’attore pubblico e da parte del terzo settore, unita ad
una tradizione storica, in particolare nel Comune di Roma, consente di ottimizzare ciò
che già c’è. Certamente l’obiettivo di incrementare l’offerta e la qualità dei servizi non è
trascurabile ed è oggetto di politiche specifiche, che fanno riferimento alla leva fiscale,
a processi per attrarre persone e capitale privato nell’offerta di servizi, alla promozione
del terzo settore, all’efficacia del servizio pubblico sociale e sanitario.
Dal punto di vista organizzativo, c’è senza dubbio molto da fare. Si parte da un sistema
di governance dei servizi nei Distretti, organizzati nei Piani di Zona, che già prevede la
costruzione di reti. Un coinvolgimento più diretto in ambito programmatorio da parte
del sistema sanitario, del terzo settore e delle famiglie è senza dubbio auspicabile: ad
oggi è variabile delle diverse sensibilità dei Sindaci e degli enti locali, anche se esiste
una forte pressione dell’economia civile, dei comitati di rappresentanza e delle famiglie
in tal senso. L’introduzione di meccanismi di finanziamento della domanda di servizi
sembra un approccio ancora molto lontano, ma la discrezionalità nell’utilizzo del budget
di distretto potrebbe rendere possibile anche sperimentazioni in tal senso.
La costituzione di un sistema di Agenzia Sociale è certamente il processo più coerente
363
con le linee programmatiche, gli indicatori macroeconomici e le tendenze evolutive dei
sistemi di welfare, ma l’innovazione e il cambiamento non si realizzano senza costi. La
nostra analisi rischia dunque di diventare carta morta e di non essere applicata se
viene intesa come cambiamento drastico e forzato. In questo caso il soggetto
promotore del cambiamento è in primo luogo il terzo settore e il mondo dell’economia
civile e della famiglia, che ne sarebbe indubbiamente valorizzato. Esperienze
internazionali mostrano ad esempio che l’introduzione di sistemi di rating nel mondo
non profit, capaci di misurare anche l’efficacia di gestione, sono capaci di aumentare la
fiducia e stimolare maggiori donazioni liberali. Le campagne di fund raising non sono
mai scisse dalla presentazione dei risultati e delle modalità di gestione. Un fattore di
complicazione ulteriore è dato dal fatto che il mondo del privato sociale non ha
neppure le leve decisionali per realizzare il cambiamento, anche se può esserne
portavoce in un processo armonico, attraverso gli strumenti di condivisione e confronto
oggi esistenti. Un approccio efficace è in questo caso la costruzione di un nuovo polo
innovativo del sistema di welfare regionale che si può attuare ad esempio all’interno di
un distretto. Si tratta non tanto di attuare una sperimentazione, che tendenzialmente
rischia di limitarsi al periodo di attuazione, ma una scelta organizzativa condivisa, che a
fronte di vantaggi evidenti da parte di tutti gli stakeholder coinvolti, orienterebbe le
scelte organizzative degli altri distretti per costruire finalmente il sistema regionale di
welfare.
20.11 Un portale per l’Agenzia Sociale
La riforma dei servizi informatici della Regione diventa per il modello proposto
un’occasione importante per facilitare due processi chiave: la funzionalità della rete da
un lato e la raccolta di informazioni utili dall’altro. Il Portale Sociale infatti ha le
potenzialità per diventare uno strumento per gli operatori in quanto raccoglie
informazioni su tutti gli attori che erogano servizi sul territorio. In secondo luogo se
scelto come veicolo per procedure operative (raccolta anagrafiche e schede servizio,
tracciabilità dei percorsi del beneficiario finale) diventa una fonte preziosissima di dati
per l’Osservatorio sull’inclusione sociale che verrà descritto nel prossimo capitolo, e con
il quale il Portale non può essere confuso. In questo paragrafo si delinea dunque un
modello idealtipico di portale che risponda agli obiettivi di essere strumento funzionale
364
alla rete e fonte di informazioni per l’Osservatorio. Un elemento fondamentale per
l’integrazione delle politiche è l’integrazione o l’interoperabilità tra i sistemi informativi.
In questi anni, in maniera più o meno ordinata, sono stati creati e adottati sistemi
informativi volti a risolvere necessità o a rispondere a esigenze di questa o quella
funzione, di questa o quella divisione. Da quando l’informatica ha assunto un ruolo
importante nella Pubblica Amministrazione e nel suo rapporto con il cittadino o
l’operatore, alcuni di questi sistemi sono stati persino dismessi e sostituiti da versioni
più recenti e aggiornate. Nel frattempo, la diffusione di internet e delle connessioni a
banda larga ha creato terreno fertile per la migrazione di questi sistemi su piattaforma
web. Pubblicati su internet o su intranet, più o meno raggiungibili, più o meno
accessibili, nell’accezione che il termine ha assunto nel tempo, compongono un
variegato panorama di sistemi spesso indipendenti e spesso purtroppo isolati.
L’evoluzione della tecnologia consente oggi di utilizzare la rete per costruire banche
dati. La principale differenza rispetto al passato si concretizza nella possibilità di usare
informazioni e infine servizi che sono distribuiti geograficamente, secondo modalità che
possono essere asincrone e quindi non contemporanee. Ovviamente sistemi differenti
hanno scopi differenti e rispondono a requisiti molto diversi. In particolare, la
realizzazione di un sistema omnicomprensivo, che supporti la programmazione, la
gestione, il monitoraggio di ambiti differenti, potrebbe rivelarsi troppo ambiziosa e
legata a un tempo di realizzazione troppo esteso o a una quantità di risorse troppo
ingenti.
Ad ovviare questo limite, l’architettura a servizi rivede il concetto di sistema come
erogatore di servizi e di piattaforma applicativa come un ambiente collaborativo in cui
diversi sistemi mettono a disposizione servizi, comunicando fra loro e condividendo
informazioni. Tale approccio permette di spostare l’attenzione dal far confluire tutte le
funzionalità su un sistema solo al definire come queste funzionalità dialogano con
l’esterno e lasciare la scelta sulla realizzazione al livello tecnico cui compete. Tale
approccio prende possibile costruire una piattaforma di servizi informatici in cui le
diverse
funzionalità,
condividendo
un
medesimo
patrimonio
informativo
e
interoperando fortemente tra loro, garantiscano una migliore efficacia complessiva.
Indipendentemente dall'essere un sistema unico o una galassia di sistemi il vero punto
di attenzione è quello di garantire una perfetta integrazione fra i servizi interni e di
impostare standard di colloquio con quelli esterni.
365
I principali obiettivi che si prefigge una piattaforma di servizi possono essere così
riassunti:
-
rendere disponibile in un unico strumento funzionalità e dati differenti presenti in
una pluralità di sistemi informatici accessibili in rete. L’integrazione fra le parti è
basata sulla condivisione del patrimonio informativo tra tutti i servizi attivati;
-
creare sistemi di riconoscimento di anagrafiche centrali che mantengano la
proprietà del dato e la condividano con i servizi esterni, certificando la qualità del
dato e semplificando il trasferimento delle informazioni base; il codice fiscale, ad
esempio può essere una chiave di interrogazione che permette di ottenere a
completamento dati accessori presenti sulla banca dati centrale;
-
rendere disponibile una metodologia precisa nella comunicazione che permetta una
agile interconnessione con altri sistemi autorizzati, sia in conferimento che in
prelievo del dato al fine di raccogliere il maggior numero di informazioni possibili in
maniera sicura e certificata; non più chiedere il trasferimento manuale delle
informazioni su un altro sistema, ma permettere il trasporto delle informazioni
automatico e con periodicità scandita;
-
garantire l’interconnessione del Sistema Regionale sia con i sistemi informativi degli
enti locali (Comuni, Province) sia con i sistemi Nazionali;
-
fornire informazioni di valore per strumenti come l’Osservatorio Permanente per
l’Inclusione Sociale.
La varietà e la numerosità dell’utenza a cui si rivolge tale sistema impone che tali
servizi debbano essere concepiti secondo una direzione fortemente innovativa: va
agevolata la fruizione, ma al medesimo tempo mantenuto il controllo e la semplicità
che la gestione richiede, va favorito lo scambio di informazioni, ma allo stesso tempo
va garantita la massima sicurezza per il trattamento dei dati sensibili. Questa modalità
di
approccio prevede la possibilità di accedere a servizi
evoluti
come la
georeferenziazione per le mappe dei servizi, il riconoscimento del soggetto
centralizzato con un solo accesso che conduce a diversi accreditamenti, la
semplificazione e la moltiplicazione delle interfacce di fruizione orientandosi verso i
nuovi mezzi di comunicazione. Si pensi al valore aggiunto per un operatore unico nel
poter disporre di una piantina del Distretto in cui poter visualizzare i servizi presenti. Ad
oggi il servizio regionale consente di interrogare il sistema sui servizi, ma in risposta
366
accede ad elenchi.
Seguendo gli orientamenti che caratterizzano i sistemi rivolti alla persona il sistema
dovrebbe essere in grado di segnalare e proporre al cittadino i servizi di suo interesse
in base alle sue caratteristiche, tracciare il percorso del soggetto accompagnandolo nel
percorso di intervento sia nel breve termine che nel medio termina, verificare il
possesso dei requisiti, tracciare gli eventi che lo riguardano attraverso il monitoraggio
dei dati. Il patrimonio informativo derivante dovrebbe poi essere reso disponibile allo
stesso destinatario, che così esercita il suo diritto in merito alla conservazione dei
propri dati e gode di un orientamento di trasparenza.
A questo fine il sistema può valersi di forme di presentazione e interfaccia che si
avvicinino alle esigenze di un generico destinatario soggetto allo svantaggio. La
molteplicità delle possibilità di presentazione che sono intrinseche alla struttura di una
piattaforma applicativa basata sui servizi, permette di fruire i contenuti in lingue e
forme diverse. L’introduzione dell’uso del fumetto o del contributo audio video, può
sopperire alle difficoltà a cui è soggetto ad esempio un destinatario straniero, affetto
da disabilità o con ridotte capacità di lettura.
D’altra parte questo sistema sarebbe la più plausibile scelta fra le fonti dati per
l’osservatorio, in quanto in possesso dei dati per rilevare molte delle misure che
possono essere oggetto di indagine.
367
21.
Proposta di osservatorio permanente per l’inclusione
sociale
Il quadro di contesto delineato nella prima parte di questo rapporto mostra, prima
ancora di entrare nel dettaglio del tema delle informazioni sul fenomeno povertà,
alcune evidenze che conviene qui sintetizzare in quanto essenziali per delineare le
caratteristiche che dovrà assumere l’Osservatorio sull’Inclusione sociale,
Alla luce del principio di sussidiarietà va oggi ridefinendosi il sistema istituzionale
avvicinandolo all’ambito locale, nel presupposto che il servizio guadagni in efficacia se
reso da strutture più vicine, da un punto di vista territoriale ma soprattutto
istituzionale, alla realtà locale dei relativi utenti, in tal modo consentendo una
modulazione delle politiche nei diversi contesti.
L’ampio decentramento territoriale, politico e amministrativo della gestione dei servizi
sociali è la chiara manifestazione della consapevolezza che l’efficacia e l’impatto per la
lotta all’esclusione sociale debbano declinarsi in direzione di una sempre maggiore
centralità del Comune per adeguare gli interventi alle specificità locali.
Il coinvolgimento degli attori del privato sociale nasce non solo dalla volontà di rendere
più efficiente il sistema di welfare, ma anche dalla necessità di rispondere in maniera
puntuale a sollecitazioni e bisogni in rapido cambiamento facendo leva sull’esperienza
diretta e sul contatto con i beneficiari finali per adattare le politiche al mutare delle
condizioni sociali.
Un ambito strategico di innovazione legislativa che si intreccia con l’attività di
programmazione è rappresentato dalla ridefinizione delle politiche sociali, al fine di
garantirne una maggiore efficacia, e del loro rapporto con il sistema istruzione
formazione e lavoro, con il sistema sanitario, con le politiche per la casa e per i giovani,
secondo il principio dell’integrazione tra sistemi. Ogni punto che offre servizi
(cooperativa,
organizzazione
di
volontariato,
associazione,
fondazione,
ente
ecclesiastico, servizio comunale, ASL, Sert, Ospedale) può dunque diventare il nodo di
una rete di cui si è approfonditamente parlato nel capitolo precedente, capace di
368
intercettare il bisogno espresso e latente e dunque da una parte di farsi carico della
persona in tutte le dimensioni del bisogno, e dall’altro di raccogliere e confrontare dati
in modo da disporre di strumenti utili a riorientare le politiche.
21.1 Obiettivi
La riforma del sistema di welfare in Italia sembra un fenomeno che supera le
indicazioni politiche nazionali e comunitarie e sembra nascere, nei suoi spunti più
innovativi, dal basso, con un processo che rappresenta l’esplicitarsi del principio di
sussidiarietà verticale e orizzontale, e vede l’emergere di attori nuovi nel finanziamento
e nell’erogazione dei servizi (ad esempio le fondazioni grant making da un lato e
l’impresa sociale dall’altro).
Inoltre il processo di semplificazione e di trasparenza in atto a partire dal Libro Verde
“Iniziativa europea per la trasparenza”, COM(2006)194, promuove iniziative nella
Pubblica Amministrazione, chiamata a rendere conto del proprio operato e a favorire il
controllo pubblico anche attraverso la disponibilità di dati per misurare i servizi erogati.
Un’altra caratteristica fondamentale nel determinare i futuri assetti del nostro sistema
di welfare, deriva dal fatto che sempre più lo svantaggio fa leva su dimensioni di
debolezza diverse e intrecciate. Questo implica la necessità di proporre interventi per lo
più integrati sulle diverse dimensioni dello svantaggio al fine di realizzare proposte che
abbiano impatto nel medio e lungo periodo.
Il contesto qui ricordato mostra dunque elementi dinamici che devono essere
considerati nella focalizzazione degli obiettivi strategici e operativi di un sistema
informativo su cui basare l’Osservatorio permanente sull’inclusione sociale.
21.1.1 Obiettivi
sociale
strategici
dell’Osservatorio
Permanente
sull’inclusione
Il supporto informativo che qui si propone è uno strumento concepito per una duplice
tipologia di utenza: policy makers e operatori dei servizi sociali e sanitari. Un supporto
informativo è uno strumento necessario agli operatori per disporre di una visione il più
possibile ampia del fenomeno sul quale intervengono, in modo integrare le
informazioni e le sensibilità che emergono dal farsi quotidiano del servizio. In tal modo
369
le diverse strutture possono concepire il proprio operato sul medio e lungo periodo,
precedere le tendenze evolutive dei fenomeni e attrezzarsi per farvi fronte, in un
approccio dunque proattivo e non più reattivo sulle emergenze.
Chi detiene le leve decisionali nel campo delle politiche si trova oggi a dover
fronteggiare un fenomeno complesso, soggetto a sempre più rapidi cambiamenti.
L’identificazione e la quantificazione dello stato di disagio richiedono di incrociare
dimensioni differenti, come sempre più nascosti sono i sintomi che segnalano le
situazioni di nuova povertà. In tale attività sarà quindi prezioso il potenziale informativo
di un osservatorio che offra informazioni sia sulle caratteristiche del bisogno, sia sugli
aiuti attualmente offerti a tale bisogno. Contrariamente agli operatori, che stanno in
prima linea nelle difficoltà del lavoro di servizio, i policy makers hanno una percezione
dei fenomeni solo mediata. D’altro canto il principio di determinazione dell’agire politico
è proprio il potere intervenire in processi di lungo periodo. Il sistema informativo deve
dunque prevedere sistemi capaci di misurare l’efficacia delle politiche, in modo da dare
la possibilità di orientare i processi di riforma. Un tale strumento ha il fine di facilitare e
migliorare l’attività dei policy makers relativamente alla progettazione, definizione,
attuazione e valutazione delle politiche attivate e dei servizi erogati, anche in un ottica
di integrazione tra sistemi. In tale ottica deve mantenere inoltre una metodologia che
permetta di misurare il grado di coerenza e di pertinenza tra le scelte programmate e il
servizio effettivamente erogato sul territorio. I dati raccolti sono fonte informativa a
sostegno della programmazione o successiva ad essa per la verifica in corso o al
termine. Con il loro ruolo di sostegno alla definizione delle politiche l’osservatorio entra
esso stesso nelle meccaniche del governo.
In questo senso l’introduzione di nuove tecnologie ICT ha ampliato e rafforzato la
disponibilità e la fruibilità di informazioni; tali sviluppi tecnologici hanno, ad esempio,
facilitato l’integrazione di informazioni contenute in database amministrativi rendendo
l’informazione accessibile ed utilizzabile ad organizzazioni e istituzioni. Quanto detto è
sufficiente per dimostrare come il mutato quadro di contesto nazionale e regionale
renda gli obiettivi dell’Osservatorio Permanente Regionale per l’Inclusione Sociale,
inseriti all’interno del POR Lazio 2000-2006, nella descrizione della Misura B1,
quantomeno non più in linea con gli orientamenti generali.
L’osservatorio in origine infatti doveva essere strumento di monitoraggio per
l’attuazione della legge 68/1999 “Norme per il diritto al lavoro dei disabili” con compiti
370
di indagine sulle possibilità di accesso al mercato del lavoro secondo un’ottica
previsionale e su base locale, per i diversi target di svantaggio, con particolare riguardo
ai nuovi bacini di impiego, alla cooperazione sociale, all’utilizzo di nuove tecnologie
nell’ambito
dell’organizzazione
del
lavoro
(sviluppo
società
dell’informazione);
secondariamente esso avrebbe dovuto avere compiti di monitoraggio, anche nella fase
intermedia, della realizzazione delle iniziative e della valutazione dei risultati.
Un tale approccio, nel mutato quadro di contesto, in relazione alle linee di sviluppo
previste e alle possibilità delle nuove tecnologie, diventa limitante e antieconomico. I
processi in atto infatti consigliano di ottimizzare l’implementazione dello strumento
rendendolo di fatto il supporto informativo del sistema integrato di servizi sociali della
Regione, e sfruttando così pienamente le sue potenzialità.
Gli obiettivi strategici dello strumento così inteso fanno riferimento a tre dimensioni:
politico, organizzativo, dei servizi:
- favorire la coerenza tra gli indirizzi politici, le scelte di governo e le tendenze
evolutive del fenomeno dello svantaggio e dell’emarginazione sociale;
- sistematizzare e certificare le informazioni migliorando l’attendibilità e verificando le
lacune nel patrimonio dei dati disponibili;
- monitorare l’impatto delle iniziative previste, i risultati e l’efficacia dei servizi;
- supportare la creazione e il rafforzamento delle reti all’interno dell’ambito
dell’inclusione sociale, sia tra istituzioni sia tra attori privati;
- aumentare la consapevolezza degli attori e del loro ruolo nel processo di definizione
delle politiche, supportando la contrattazione attiva e consapevole nella definizione
delle strategie.
La rilevanza degli obiettivi proposti è variabile dello stato di attuazione di un sistema
realmente integrato dei servizi sociali. Infatti il processo di creazione di reti tra attori
pubblici e privati, di reale coordinamento e di integrazione avrà impatto diretto sul
sistema di raccolta dei dati, in quanto i nodi della rete integrata diventeranno essi
stessi fonti di informazione. Come rilevato nella seconda parte di questo lavoro gli
stakeholder
si
sono
espressi
in
merito
alle
caratteristiche
dell’osservatorio,
sottolineando come uno strumento di questo tipo dovrebbe essere in grado di adattarsi
371
ai cambiamenti socio economici, attraverso un legame forte con il territorio e un
coinvolgimento diretto dei beneficiari98. L’osservatorio non può dunque avere
connotazione statica o diventare un mero repertorio documentale, per evitare che
siano i contributi teorici a cristallizzare i fenomeni e a orientarne l’interpretazione.
21.1.2 Obiettivi
operativi
dell’Osservatorio
Permanente
sull’inclusione
sociale
L’Osservatorio ha come oggetto il fenomeno dell’esclusione sociale, della povertà e
dello svantaggio, e insieme i servizi che intervengono in contrasto a tali fenomeni. Il
bacino di analisi è dunque legato a temi inerenti le politiche sociali, la sanità,
l’istruzione, la formazione e il mondo del lavoro. A tale strumento, inserito in un
complesso sistema istituzionale caratterizzato da frammentazione delle responsabilità
di governance e di gestione e coordinamento della rete, sono però associate funzioni
che esulano dalla funzione prevalente di monitoraggio, ma che sconfinano nella
valutazione e nell’individuazione di attività migliorative del sistema nel suo complesso.
L’osservatorio si propone come uno strumento con funzioni diversificate:
- raccogliere in una piattaforma informatica integrata le informazioni che provengono
da attori e fonti differenti;
- semplificare, organizzare e verificare le informazioni, secondo criteri di coerenza e
integrazione funzionale, al fine di costruire un bacino organizzato orientato agli
obiettivi di sviluppo dei sistemi.
Operativamente, l’osservatorio ha obiettivi che si legano al ruolo che assume nel
modello di governance. In particolare possiamo evidenziare che:
- propone un’analisi delle caratteristiche e delle dinamiche dei fenomeni che sia
aggiornata e che offra elementi di approfondimento analitico sulle tendenze;
- agevola coloro che sono investiti del ruolo di decisori, al fine di aiutare a definire la
progettazione degli interventi e la loro attuazione;
98
Cfr. supra p.134.
372
- consente il monitoraggio, l’analisi e la valutazione, delle politiche attivate e dei
servizi erogati a livello territoriale al fine valutare e monitorare le performance degli
operatori pubblici e privati;
- offre informazioni diversificate ai diversi utenti, caratterizzate da una elevata qualità,
affidabilità, aggiornandole costantemente.
21.1.3 Produzione di documentazione statistica
Il primario strumento attraverso cui l’osservatorio realizzerà i propri obiettivi è la
produzione di documentazione sul fenomeno della povertà e dell’emarginazione sociale.
In quest’attività non si limiterà a collezionare e catalogare il materiale quantitativo e
qualitativo prodotto da terzi, in quanto in questo modo semplicemente perpetuerebbe il
problema dell’insufficienza e non sistematicità dei dati. Ma neppure è immaginabile che
l’Osservatorio provveda a misurare direttamente i fenomeni rilevandoli sul campo, in
quanto si tratta di un’attività estremamente onerosa. L’Osservatorio dovrà assumere
una posizione intermedia, fungendo da collettore di dati prodotti stabilmente da terzi
(servizi e amministrazioni pubblici, istituzioni del terzo settore, Istat), ma arrivando
anche ad attivare un sistema di rilevazione di informazioni che si appoggi alla rete
stessa inducendola a produrre materiale informativo nel corso della propria attività
ordinaria.
Il quadro di contesto ha dimostrato come il materiale informativo pubblicato relativo al
fenomeno del disagio sia estremamente frammentario, incompleto, inattendibile. Un
primo passo per aumentare notevolmente la qualità del quadro informativo sarebbe
quello di integrare tali fonti esterne con il patrimonio informativo presente nelle banche
dati delle amministrazioni pubbliche (sanità, anagrafe, catasto, edilizia pubblica, …) e
attualmente poco utilizzato in quanto non accessibile o utilizzato solo per scopi
amministrativi e comunque non integrato. Ma anche così pensare di arrivare a un
quadro completo sarebbe impensabile proprio per l’estrema multidimensionalità e
dinamicità che il problema povertà assume oggi.
Qualora invece l’Osservatorio diventi uno snodo e uno strumento del modello di
Agenzia Sociale presentato nel capitolo precedente, si potrà creare una funzione di
reciproca alimentazione. Infatti così come l’Osservatorio tiene continuamente
aggiornati gli operatori sui fenomeni di loro interesse, questi potranno far pervenire le
373
informazioni relative alla loro attività senza costi notevoli né per’Osservatorio né per gli
operatori stessi. Normalmente le informazioni raccolte dagli operatori (per esempio le
schede anagrafiche e i profili delle persone seguite) non hanno alcun valore statistico
in quanto estremamente eterogenei, ma un lavoro di schematizzazione preventivo e di
standardizzazione di alcune informazioni minimali permetterebbe di raccogliere con
estrema facilità grandi quantità di dati. Una volta raccolti i dati dalle fonti che li
detengono, all’osservatorio resta il compito di verificarli, classificarli, incrociarli (al fine
di evitare che un individuo che si rivolga ai servizi di più centri venga contato più di una
volta) e infine inserirli nel sistema informatico, rendendoli accessibili. La progettazione
di un siffatto sistema di rilevazione è un‘operazione impegnativa ma necessaria a
comporre una base dati adeguata e pronta per essere analizzata. Le finalità dell’analisi
richiedono un dato consolidato e aggregato, che può basarsi su aggregazioni di dati
semplici o di preaggregati. La scelta della grana di dettaglio delle informazioni dipende
dalla mole di dati, dalla tipologia e dalle caratteristiche della fonte che garantisce
l’alimentazione delle misure. L’analisi statistica deve essere supportata da strumenti
metodologici e tecnologici che permettano di valutare quanto sia aggiornata,
rappresentativa e coerente.
21.1.4 Produrre informazione qualitativa
Se una buona conoscenza dei fenomeni relativi al disagio sociale è essenziale per ben
disegnare le politiche, e una valutazione dei loro effetti serve per tarare gli strumenti
d’azione, l’esatta misurazione della popolazione che rientra in ogni specifica fascia
costituisce spesso più un interessante esercizio statistico che un lavoro preliminare
indispensabile.
In effetti all’operatore come all’amministratore pubblico serviranno molto spesso più
informazioni di tipo qualitativo che descrivono le caratteristiche delle varie tipologie di
persone e le metodologie per affrontare il loro disagio. Ma anche in questo caso, come
già evidenziato per l’attività di documentazione statistica, un semplice repertorio di
tutta le pubblicazioni di ogni genere (da libri e articoli, a siti internet e letteratura
grigia), per quanto ben strutturato e ragionato, avrebbe un’utilità limitata.
L’efficacia di strumenti informativi miranti a misurare i fenomeni si mostra
particolarmente inadeguata nel caso dei fenomeni emergenti, ovvero tutti quelli che
374
afferiscono al poco definito insieme delle nuove povertà. Analogamente l’analisi della
documentazione sconta la non sistematicità nella produzione dei documenti stessi e
induce
un
sistematico
ritardo
rispetto
all’osservazione
diretta dei
fenomeni.
L’individuazione dei nuovi bisogni, dei fattori di rischio che tratteggiano la zona grigia ai
confini della povertà ma che molto frequentemente si traduce in uno scivolo insidioso
verso forme più gravi e difficilmente recuperabili, può avvenire solo impiegando la
sensibilità individuale di chi quotidianamente interviene nella realtà sociale. Come
trasformare questo patrimonio di conoscenze aggiornatissime ma estremamente tacite,
basate sull’esperienza e quindi difficilmente trasmissibili a terzi se non attraverso una
partecipazione diretta all’esperienza, in un sistema cui tutti possano accedere? Senza
uno sforzo per integrare le normali basi informatiche con un repertorio estremamente
aggiornato che attinga alle esperienze quotidiane della rete, in effetti, l’Osservatorio
rischia di trasformarsi nell’ennesima istituzione di analisi che stenta a trovare un
legame funzionale con il bacino di utenza per il quale è stato creato.
Il portale informatico che supporterà l’Osservatorio può essere di ausilio in questa
funzione di monitoraggio qualitativo dei fenomeni. Esso potrà contenere degli spazi di
discussione, aperti a tutti o solo ad utenti autorizzati e dunque selezionati in cui
trattare argomenti specifici. Si tratta di creare dei forum tematici di discussione,
dedicati alle problematiche emergenti, piuttosto che alla discussione delle metodologie
operative di intervento. I partecipanti alla rete sono chiamati a partecipare agli spazi di
discussione di loro competenza, ognuno dei quali dovrà essere affidato a un
responsabile che animi e solleciti la discussione e che ne sintetizzi periodicamente i
risultati.
21.1.5 Supportare le politiche
Fra gli obiettivi dell’Osservatorio, il supporto alla definizione delle politiche è di primaria
importanza per la componente di attori appartenente alle istituzioni. Nello specifico, la
frammentazione delle responsabilità in termine di politiche sociali, sanitarie, inerenti al
mercato del lavoro e della formazione rende ancora più pressante la necessità di
confrontarsi con il fenomeno sulla base di dati comuni. Supportare la progettazione, la
definizione, l’attuazione e la valutazione delle politiche attive per il mercato del lavoro
da parte dei soggetti responsabili vuol dire anche facilitare la messa in relazione di
375
quelle che sono le diverse forme di intervento nonché le diverse competenze stabilite
dalla legge. Tale supporto è realizzato tramite un set di indicatori specifici che
misurano l’efficacia, allargata dal mero risultato del singolo intervento alla verifica di
come gli interventi hanno realizzato la politica programmata.
La
disponibilità
di
informazioni
integrate
a
beneficio
dei
responsabili
della
programmazione e delle politiche permette la loro specializzazione, orientandole su
target precisi e definendole secondo strategie consolidate e verificate. Ulteriore
valorizzazione è fornita dalla disponibilità di dati trasversali che, insistendo su ambiti
limitrofi, facilitano il coordinamento delle politiche tra diversi Assessorati o fra diversi
livelli istituzionali, ad esempio province e comuni. Queste politiche progettabili di
concerto richiedono poi uno sforzo di realizzazione congiunta, permettendo la sinergia
di forze e risorse provenienti dai diversi attori coinvolti. Disporre di numerose
informazioni di qualità, integrate in un unico sistema, consentirebbe ai funzionari che
operano in settori differenti di individuare le principali aree di criticità e di identificare i
soggetti cui rivolgere specifici interventi, coordinandoli secondo piani che siano volti
alla presa in carico del soggetto stesso. Con questo approccio collaborativo orientato a
finalità concrete e dirette, è prevedibile una crescita di interesse nei confronti dello
strumento da parte dei vari attori, con il plausibile incentivo dello sviluppo dello stesso,
secondo il principio di accrescimento del valore dell’informazione. Secondo tale
principio, infatti, l’informazione acquisisce valore, cioè affidabilità, quando è possibile
trovarne conferma attraverso altre fonti. Il processo è dunque un processo virtuoso. La
condivisione di dati permette confronti e dunque di aumentarne l’attendibilità, attirando
altri operatori, chiamati a loro volta a condividere le proprie base dati e dunque
aumentando progressivamente il valore dell’informazione.
Le persone che gestiscono decisioni e politiche di governo, sia delle istituzioni che dei
soggetti privati, si trovano a dover operare scelte che influenzeranno, sia a breve che a
medio termine, le attività della struttura che governano. Nella loro attività può essere
difficile ricavare informazioni su quanto effettivamente le scelte fatte abbiano portato ai
miglioramenti auspicati. Proprio in tale ambito si colloca lo strumento dell’osservatorio,
supporto per coloro che gestiscono le leve decisionali, fonte di analisi dei fenomeni
nella loro evoluzione e di verifica a posteriori di come essi abbiano risentito delle
politiche attuate. Tale supporto è fondamentale sia per i funzionari che stabiliscono gli
interventi a livello istituzionale che per gli operatori stessi, parte del fenomeno
376
analizzato, al fine da metterli in condizione di prendere decisioni consapevoli e
informate.
La progettazione dell’osservatorio deve dunque tenere in considerazione alcuni aspetti
organizzativi di fondamentale importanza: il modello di gestione, le policy che regolano
lo scenario regionale, e la struttura della rete. A ciascun attore deve essere data la
corretta collocazione e la giusta importanza.
21.1.6 Supportare la valutazione
La raccolta, la sistematizzazione e il consolidamento dei dati di riferimento porta alla
creazione di un set informativo che permette di verificare a posteriori l’efficacia delle
politiche adottate. Da questa valutazione ex-post possono essere tratte ulteriori
informazioni sulla bontà del percorso attuato, sull’efficacia del metodo di attuazione e
sui risultati che sono stati prodotti, fornendo indicazioni per la dinaminca futura degli
interventi.
Il primo passo indispensabile per consentire un processo di valutazione è quello di
predisporre un sistema di monitoraggio, funzione questa che potrebbe facilmente venir
assolta dall’Osservatorio. Monitorare significa raccogliere in maniera sistematica e
continuativa informazioni che siano necessarie a misurare costi e risultati delle azioni.
Valutare, invece, significa rapportare i risultati all’effetto desiderato e quindi alla
politica. Si può dire che il monitoraggio è uno strumento (utile alla valutazione ma non
solo, può per esempio servire per la rendicontazione), mentre la valutazione è un
giudizio Si presuppone che la seconda offra un riscontro in merito al raggiungimento di
obiettivi, mentre il primo offre l’andamento degli interventi scevro da altre
considerazioni. Si passa dal monitoraggio alla valutazione quando, oltre a rapportare i
risultati alle risorse, li si rapporta agli obiettivi, verificandone il raggiungimento.
Ovviamente monitoraggio e valutazione sono strettamente correlati e vanno analizzati
punti di contatto fra i due approcci al fine di realizzare una progettazione integrata ma
esaustiva per entrambi.
Con il perfezionamento del sistema, lo strumento del monitoraggio potrebbe altresì
dare supporto alla misurazione delle performance degli enti preposti all’erogazione,
supportandone un eventuale rating, e persino alla normale attività di amministrazione
delle relazioni contrattuali all’interno della rete.
377
Una nota importante: la rilevazione si lega strettamente con il territorio e con quelle
reti, formali o informali, che su esso operano per tentare di rispondere ai bisogni.
Anche l’osservatorio deve fare lo sforzo di fare proprio oggetto di indagine i
meccanismi di rete e le loro caratteristiche e non solo la semplice rilevazione del
singolo servizio offerto ed erogato. Nella fase progettuale è importante porsi l’obiettivo
di passare da un modello di monitoraggio del servizio, al monitoraggio della rete e della
sua capacità di rispondere alle mutate necessità del territorio. Gli interventi attivi vanno
misurati sulla base di quelli che sono i piani regionali e dei patti stipulati con l’utenza,
conseguenti alla presa in carico del soggetto, che può anche essere distribuita fra più
erogatori di servizi. Gli obiettivi sono da misurare sulla breve e media distanza e
riguardano il raggiungimento nei confronti dei destinatari di precisi traguardi con essi
pattuiti, della soddisfazione di bisogni complessi, spesso affrontati con più di un
intervento simultaneo o conseguente.
21.1.7 Qualità: coinvolgimento e miglioramento continuo
L’osservatorio nasce con l’obiettivo di fornire prodotti e servizi di qualità a supporto
delle istituzioni, degli enti erogatori e di tutti gli attori coinvolti. Questi servizi e prodotti
devono possedere alcune caratteristiche al fine di acquistare affidabilità e collocarsi
come riferimento nell’ambito. Tali caratteristiche discendono dall’applicazione del ciclo
di creazione del valore dell’informazione al fine di accrescerne la qualità tramite azioni
di miglioramento continuo discendente dal confronto con il fenomeno e dal
coinvolgimento delle parti, in modo da permettere confronti tra diverse fonti.
Una azione preliminare è dunque l’attivazione di interventi che, regolando il ciclo di vita
dell’osservatorio permettano il suddetto miglioramento continuo della qualità dei servizi
informativi. Tale strategia mira a perfezionare i prodotti e i servizi in risposta alle reali
esigenze, procedendo al loro affinamento progressivo.
La struttura reticolare collaborativa alla base del modello prevede il forte
coinvolgimento degli attori. Si esce dunque da una visione gerarchica che riduceva gli
erogatori al ruolo passivo di esecutori, migrando a un modello collaborativo di rete
federata. Per adottare un modello con queste caratteristiche è però necessario
orientarsi a rinnovare la progettazione e la definizione di meccanismi di governance e
di coordinamento. Le partnership strategiche e le collaborazioni fra livelli di governo
378
pubblico di istituzioni differenti e fra questi e il settore privato sono in grado di
generare importanti sinergie organizzative e strategiche.
Le organizzazioni basate su un modello di rete forniscono benefici di tipo politico,
economico e sociale a coloro che vi partecipano poiché sono in grado di mettere la
forza collettiva a sostegno del raggiungimento degli obiettivi prefissati. In questo senso
l’osservatorio assume un aspetto speculare, concepito come una struttura che consenta
di creare prodotti e servizi informativi che, tramite il loro valore, incentivino la
partecipazione dei soggetti che detengono risorse e competenze specifiche alle attività
di realizzazione e supporto dell’osservatorio. Le risorse e le competenze del singolo
partecipante vengono messe a disposizione della rete, garantendo il trasferimento di
prassi e il supporto complementare. In un sistema integrato di servizi ogni operatore,
nella valorizzazione della propria specificità, ha la possibilità di moltiplicare il proprio
impatto e la propria efficacia ponendosi in rete con altri operatori. L’aumento di
efficienza conseguente, se adeguatamente valorizzato da incentivi dei nodi istituzionali
moderatori, avvalora e promuove l’adozione del modello.
L’osservatorio può avere nel contesto istituzionale regionale il ruolo di facilitatore di
relazioni. All’interno dei processi di definizione e attuazione delle policy, oltre che
nell’erogazione del servizio esso può consolidare i rapporti fra componente istituzionale
ed erogatori. Il modello di attuazione non può che perseguire un approccio condiviso e
distribuito. Esso interessa una rete di attuatori e di servizi che spesso afferiscono a
decisori e responsabili di policy che si occupano di settori differenti, che non possono
che essere protagonisti della moderazione della struttura di rete.
21.2 Progettare l’osservatorio
L’Osservatorio Permanente sull’inclusione sociale è ideato a partire dall’individuazione
di una collocazione nel modello di governance dell’inclusione sociale. Tale fenomeno si
articola in una complessità multidimensionale che interessa aree di influenza varie e
separate a diversi livelli istituzionali. Da questa estrema varietà, discende spesso una
frammentazione delle informazioni che rende difficilmente interpretabile il fenomeno e
ancor più enigmatici i risultati delle politiche sul breve e medio periodo.
La progettazione dell’osservatorio parte dalla considerazione delle esperienze raccolte e
379
nell’ambito di riferimento. Su queste esperienze, oltre che su studi accreditati nel
campo delle politiche sociali, va fondato il modello organizzativo dell’osservatorio, il suo
sistema informativo e i modelli di analisi adottati. L’aderenza al contesto e alle sue
caratteristiche specifiche è necessaria al fine di descrivere le peculiarità di questa realtà
multidimensionale e variegata. In particolare gli elementi di attenzione che sono
considerati possono essere riassunti in:
- complessità di un fenomeno che investe diversificati ambiti territoriali e istituzionali;
- difficoltà di individuazione dei beneficiari non identificati da un atto giuridico o da un
riconoscimento istituzionale;
- continuo mutamento nei fenomeni che sono causa o sintomo di svantaggio; il
passaggio dall’intervento alla presa in carico come modalità di approccio alle
necessità del beneficiario.
21.2.1 Come alimentare l’osservatorio
La normativa attribuisce all’osservatorio regionale la funzione primaria di raccolta,
elaborazione ed analisi dei dati ai fini del monitoraggio e della misurazione dell’efficacia
delle politiche. Per sostenere queste richieste, occorre definire alcuni modelli di analisi
in grado di recepire le dinamiche di cambiamento del fenomeno osservato nella sua
struttura. Essendo il fenomeno identificato come aderente a una struttura di rete,
l’osservatorio a sua volta dovrà orientarsi a valutare servizi e prodotti che tengano in
considerazione questa tipologia di struttura. Il modello su cui si basa l’osservatorio
passa per la definizione delle principali misure e della loro rilevazione, fino a comporre
indici e indicatori, specificamente dettagliati nelle varie aree o trasversali rispetto a
diversi fenomeni. Gli ambiti in cui opera questo modello sono variegati; questo investe
settori che possiedono dinamiche di monitoraggio e di analisi statistica consolidate e
strumenti di monitoraggio autonomi. In molti casi, come ad esempio nell’ambito del
mercato del lavoro, sono già presenti strumenti di valutazione e monitoraggio, diretti
però a isolare dinamiche simili, ma non sempre sovrapponibili con le dinamiche delle
politiche sociali.
L’integrazione fra i modelli prevede proprio il superamento di questa divisione di
ambito con il tentativo di analizzare il flusso delle attività secondo un taglio che ricada
nelle dinamiche dell’inclusione sociale. Per fare ciò, si richiede una’indagine
380
approfondita e attenta che permetta di approcciare in modo nuovo e trasversale queste
informazioni.
Al fine di rendere concreta ed efficace questa indagine, è necessario che essa si fondi
su una valutazione delle possibilità di recupero delle informazioni. A tal fine saranno
descritte le possibilità di integrazione e di completamento dei dati disponibili presso le
istituzioni, con integrazione di altri sistemi informativi, siano essi pubblici o privati.
Queste fonti, che sono di tipo statistico ed amministrativo, vanno analizzate tramite la
definizione di opportune modalità di colloquio, livello di affidabilità e protocolli di
interconnessione, che permettono la stesura di indicatori di sintesi al fine di collocarli
fra le fonti affidabili e certificate.
Per arrivare a un buon risultato non solo vanno individuate le fonti informative
rilevanti, che siano di natura istituzionale, pubblica o privata, ma va svolta una
progettazione che le armonizzi in un sistema informativo che sia in grado di integrarle
e renderle fruibili in maniera organica alle varie tipologie di utenza.
D’altra parte, il lavoro di analisi svolto su queste fonti, se condiviso con coloro i quali
provvedono al loro sviluppo e integrazione, può fornire indirizzi per il miglioramento
continuo e la sistematizzazione delle informazioni, al fine di valorizzarle. Al fine di
raggiungere questo risultato, si ipotizza che nel modello organizzativo e di
funzionamento siano fortemente coinvolte a vario titolo, componenti non solo
istituzionali, ma anche private. Tale approccio è volto anche alla valorizzazione delle
competenze delle diverse istituzioni che operano sul territorio, permettendo a ciascuno
di porre queste competenze al servizio di una rete e accrescendo il valore del prodotto.
Maggiori informazioni sono contenute all’interno del paragrafo che tratta le fonti dati.
21.3 Un metodo basato sulla collaborazione
Al
fine di
supportare gli
obiettivi
dell’osservatorio,
si
deve procedere alla
sistematizzazione di informazioni provenienti da svariate fonti che lo alimentano. Tali
informazioni vanno raccolte, verificate, classificate, conservate e poi messe a
disposizione delle diverse possibilità di analisi presenti nel sistema.
Nella definizione delle informazioni e della metodologia di raccolta, verifica,
classificazione
e
conservazione,
si
operano
selezioni
capaci
di
condurre
381
all’identificazione delle informazioni a più alto valore aggiunto: perché introducono
nuovi elementi o perché aggiungono valore a quelli già presenti. Inoltre, al fine di
garantire sia l’approvvigionamento sia la contribuzione delle parti, è necessario
individuare una metodologia efficace di coinvolgimento e valorizzazione di attori
pubblici e privati che operano nel settore. L’osservatorio richiede collaborazione da
parte degli attori, con uno sforzo iniziale di condivisione nella fase di progettazione e
con il conferimento delle informazioni che lo alimentano man mano. Allo stesso tempo
però questo strumento offre una gamma di servizi e prodotti che aggiungono valore
alle informazioni certificandole e migliorandone la qualità. I risultati ottenuti hanno un
valore intrinseco che è dato dal miglioramento ottenuto dal confronto delle varie fonti,
risultato a cui difficilmente possono avvicinarsi i singoli soggetti singolarmente.
Convogliando il patrimonio informativo derivante da fonti differenti, è possibile
rispondere al bisogno di informazioni di una pluralità di utenti, al fine di renderli attori
attivi e consapevoli dei servizi e dei prodotti dell’osservatorio.
Questo approccio ha impatto sulle dimensioni fondamentali del sistema integrato dei
servizi. Il sistema deve quindi mettere in relazione le grandezze necessarie a
monitorare e valutare stabilmente la qualità dei servizi erogati lungo tutta la filiera, al
fine di contribuire a sviluppare modalità cooperative di relazione e scambio tra più
ambiti organizzativi.
Il medesimo approccio si applica alla modalità con cui il servizio evolve da intervento
specifico a presa in carico della persona. Il metodo applicato richiede non più la
semplice erogazione di un singolo servizio ma la valutazione di una situazione
complessa e la costruzione di un percorso attraverso diversi attori erogatori, con
diverse specificità e competenze. Secondo questa metodologia la forza della rete
influenza il valore del servizio, riducendo costi, massimizzandone il risultato e
aumentando le possibilità di mantenere il suo effetto nel tempo.
Se la rete riesce ad alimentare il sistema in un continuo aggiornamento, esso diventa
anche uno strumento di monitoraggio interno delle attività e dell’efficacia di gestione
dei singoli soggetti, dunque strumento funzionale alla gestione.
A maggior ragione per l’Amministrazione Regionale l’osservatorio diventa strumento
per la valutazione del servizio secondo diversi parametri: persone prese in carico,
efficacia delle azioni, efficacia di gestione. L’insieme di tali parametri consente la
382
creazione di rating per individuare gli operatori migliori. In tal modo è possibile creare
dinamiche virtuose di concorrenza e processi per il miglioramento continuo dei servizi,
ad esempio attraverso premialità differenziali in relazione alle performance.
La scelta di integrare la valutazione nell’osservatorio costituisce un indirizzo che ha lo
scopo di rendere il sistema flessibile e partecipato. Essa infatti ha l’obiettivo di
contribuire allo sviluppo e non di attivare processi sanzionatori. Allo stesso tempo
questo indirizzo accentua la partecipazione degli attori nelle scelte strategiche e
organizzative della struttura in cui si opera. Elemento significativo è l’aumento della
confidenza, affidabilità ed attendibilità dello strumento, del grado di soddisfazione dei
soggetti coinvolti nelle attività, proprio a partire dagli erogatori del servizio,
contribuendo a rafforzare il ruolo della collaborazione e in conseguenza della rete come
naturale modalità di agire sociale della struttura.
Un sistema informativo efficace per l’Osservatorio Permanente Regionale per
l’Inclusione Sociale permette dunque di cogliere pienamente le opportunità offerte da
un sistema fondato sulla collaborazione e sulla condivisione dei dati da parte degli
operatori del territorio. In particolare:
- aumenta il valore dell’informazione permettendo confronti tra dati provenienti da
diverse fonti;
- facilita la presa in carico dei beneficiari finali attraverso la condivisione delle
informazioni sui servizi;
- permette di monitorare le attività dei soggetti erogatori di servizi attraverso
indicatori uniformi;
- permette di costruire sistemi di rating tra i soggetti erogatori di servizi e creare
processi di miglioramento continuo dei servizi.
383
22.
Strumenti di analisi e funzionamento del sistema per
l’osservatorio
Procediamo nei paragrafi seguenti al chiarimento concettuale inerente le modalità di
analisi, al modello adottato e agli strumenti che operano nel sistema informatico
previsto per l’Osservatorio sulle povertà. Alcune caratteristiche di gestione e
presentazione dei dati sono insite nello strumento informatico adottato, mentre più
esemplificativi sono gli strumenti analitici indicati per la rielaborazione e interpretazione
del dato. Vale la pena richiamare che il sistema di data warehouse non coincide
necessariamente (e presumibilmente si può dire, nell’ottica di uan sua piena
valorizzazione) con l’Osservatorio. E’ assolutamente probabile che in una prima fase,
per consentire una realizzazione veloce ed economica, venga realizzata solo una
versione virtuale dell’Osservatorio, cui non verrebbero dedicate strutture e risorse
umane,
ma la cui
funzionalità deriverebbe in prima battuta dall’unione e
sistematizzazione delle numerose fonti disponibili presso la PA. Volendo però dare
piena operatività all’osservatorio, secondo gli obiettivi strategici indicati nel paragrafo
1.2.1, prevedendo un maggiore sfruttamento delle potenzialità dello strumento
informatico stesso, è auspicabile che l’Osservatorio venga dotato di una propria
struttura, per quanto snella. Essa sarà dedicata all’attività di coordinamento,
networking, monitoraggio e valutazione, nonché naturalmente all’analisi dei dati.
22.1 Analisi dimensionale
Il modello di analisi dimensionale identifica un’organizzazione delle informazioni
orientata alla sistematizzazione di dati afferenti a fonti diverse e ambiti disomogenei. E’
di supporto alle funzioni di analisi statistica, semplificando l’analisi e agevolandola,
facilitando la presentazione in report e in estrazioni, permettendo di mantenere
“ordine” fra informazioni anche molto differenti all’origine. Si contrappone al modello
relazionale, generalmente adottato dai sistemi di gestione, specifico del singolo sistema
e spesso di difficile analisi in quanto basato su una struttura delle informazioni secondo
384
le forme normali di organizzazione dei dati.
Per presentare in maniera sintetica il modello dimensionale, possiamo dire che, in
questo tipo di modellazione, ogni tipo di dato può essere rappresentato come uno
spazio multidimensionale (detto ipercubo). Considerando per semplicità solo 3
dimensioni, si avrà un cubo suddiviso in celle:
- le celle contengono i valori;
- gli spigoli del cubo rappresentano le dimensioni.
Rappresentazione di un ipercubo a tre dimensioni
Usualmente i modelli dimensionali hanno 4–15 dimensioni, raramente 2–3, mentre se
sono presenti oltre 20 dimensioni è probabile che nella scelta siano state usate
dimensioni ridondanti.
All’interno del modello dimensionale incontriamo altri concetti che aiutano a focalizzare
il modello organizzativo. In particolare, se rivediamo la definizione di ipercubo nel
contesto di un’organizzazione dati secondo la struttura di un data warehouse
otterremo:
- le celle che contengono le misure (o fatti);
- gli spigoli che ospitano le dimensioni.
Ciascuna dimensione (ad esempio il territorio di riferimento) è composta da attributi (le
caratteristiche del territorio). Inoltre è ordinabile in gerarchie (Paese, Regione,
Provincia, Comune, Circoscrizione). Definisco la dimensione assegnando ad essa
attributi e posizionandola in una gerarchia. Abitualmente la struttura di data warehouse
(letteralmente magazzino di dati) è la somma di diversi modelli dimensionali
385
interdipendenti e autonomi che sono denominati data mart. Questi modelli
approfondiscono ciascuno un fenomeno nei suoi diversi aspetti e cercano la
correlazione fra i singoli fenomeni proprio nelle relazioni fra i modelli. La naturale
interfaccia del data warehouse, ovvero il metodo con cui gli attori procedono alla
presentazione e interrogazione delle informazioni, è il supporto alle decisioni. Questo
ambiente è composto da funzioni di presentazione e funzioni di interrogazione.
Le dimensioni rappresentano la modalità di raccolta di informazioni, attraverso quantità
dette misure. Le dimensioni a loro volta portano con sé attributi che le caratterizzano e
arricchiscono le possibilità di lettura del fenomeno osservato, permettendo modalità di
analisi variegate. Le singole misure, ottenute per acquisizione periodica di informazioni
dalle fonti, vanno poi a comporre gli indicatori. Questi ultimi sono il vero oggetto di
ricerca e analisi.
22.2 Indicatori
Le caratteristiche desiderabili di un indicatore sono le seguenti:
- è un’informazione selezionata, cioè scelta accuratamente, sia essa semplice o
derivante da informazioni più semplici selezionate;
- è un’informazione che misura la variazione di un fenomeno secondo le dimensioni
che la caratterizzano;
- è un’informazione che misura in relazione all’ambito e quindi mantiene legame
coerente con il fenomeno, mutando in conseguenza ai mutamenti di questo; proprio
da questa sua sensibilità discende la sua bontà.
Affinché l’indicatore possieda le caratteristiche di “buon indicatore”, deve sottostare ad
alcuni requisiti:
- non deve essere “ambiguo”, ossia non deve poter essere interpretabile in maniere
differenti o avere significati diversamente interpretabili da osservatori differenti;
- deve essere "costruibile" nell'accezione per la quale possa essere generato a basso
costo preferibilmente con dati già disponibili;
- deve essere "sensibile" cioè avere un andamento che segua prontamente le
variazioni del fenomeno;
386
- deve essere "comprensibile" ossia deve essere ritenuto di facile comprensione dagli
operatori che devono interpretarne il risultato.
Mentre le misure sono valori che sono rilevati tali e quali dal fenomeno, senza
applicarvi delle logiche di aggregazione se non le basilari (somma, conteggio),
l’indicatore è ricavato dall’applicazione di aggregazioni che possono anche essere molto
complesse su un set di misure o di altri operatori. Come massima possibile dimensione
avrà il minimo comune denominatore delle dimensioni delle misure e manterrà i criteri
di additività o semiadditività a seconda del più stringente fra la tipologia delle misure
prese in considerazione.
Ad esempio se combiniamo per ottenere un indicatore due misure (fra parentesi sono
indicate le dimensioni) che possono essere:
- Numero interventi (Tempo, Territorio, Struttura)
- Bilancio fondo (Tempo, Struttura)
avremo un indicatore che manterrà come dimensioni Tempo e Struttura mentre
perderà l’informazione sul territorio non essendo comune anche al bilancio. Sarà inoltre
un indicatore semiadditivo perché legato a un dato che lo è, il bilancio.
Quando andiamo a ricavare un indicatore puntuale dobbiamo stabilire quale sia il
metodo più corretto per aggregare le misure che lo compongono o per riaggregarlo
lungo le dimensioni additive, o ancora su come usarlo per ottenere indicatori più
complessi.
Al fine di valutare le metodologie di aggregazione dobbiamo partire dall’analisi dei
valori assunti dalle misure e ricavare dei dati inerenti alla loro distribuzione. Per farlo
potremmo basarci su metodi statistici come gli indicatori di dispersione. Un esempio
sono deviazione standard e varianza, di cui diamo una definizione nel glossario assieme
a una panoramica di alcune tipologie di indicatori di dispersione.
I valori assunti dagli indicatori di dispersione danno indicazione su quale sia il metodo
di aggregazione migliore. Ad esempio se volessimo usare la media, dovremmo tenere
conto che ha una buona affidabilità di rappresentazione solo se la varianza è bassa, in
quanto in questo caso i valori in genere si discosteranno poco dalla media e quindi
questa potrà essere considerata rappresentativa. Il metodo valido per l’aggregazione di
misure e/o indicatori è valutabile quindi attraverso un esame congiunto di indici di
dimensione (media, mediana e similari) e di dispersione (varianza, scarto medio).
387
In quest’ottica le rilevazioni conoscitive propedeutiche alla definizione del sistema sono
estremamente preziose, poiché, in presenza di un campione sufficientemente ampio e
attendibile, permettono di determinare con un buon grado di approssimazione la
probabile natura della distribuzione. Attraverso questa metodologia è possibile stimare
l’affidabilità della modalità di costruzione di un indicatore e orientarsi verso alcune
scelte piuttosto che altre.
22.3 Glossario
Qui di seguito un breve elenco di termini di utilizzo frequente all’interno del sistema e,
in particolare quando se ne usufruisce. Lo scopo è chiarire come termini di utilizzo
frequente ma non univoco sono intesi nel contesto di questo progetto.
a) Processo
Sequenza strutturata di attività finalizzate a produrre un risultato che ha valore per il
cliente finale. Definiscono un processo l’evento scatenante (input), la sequenza di
azioni (valore aggiunto), l’output. Il processo ha precisi compiti e precise interfacce. Il
processo è descritto da indici e misure.
b) Sistema
Complesso di parti aggregate in modo non casuale, nel quale ciascuna parte dipende
dalle altre e le relazioni che le connettono sono comprensibili. Il concetto di sistema
può avere due connotazioni fondamentali e alternative: staticoe dinamico.
c) Valutazione
Processo scientifico e sistematico con cui viene determinato il grado in cui un
intervento o programma pianificato raggiunge obiettivi dichiarati.
d) Autovalutazione
Valutazione delle proprie attività secondo criteri prestabiliti.
e) Criterio
Variabile che, rilevata in modo riproducibile ed accurato, permette di giudicare la
qualità di una prestazione o di un trattamento. Permette di investigare un fenomeno a
fini di valutazione mediante l’osservazione di sue caratteristiche (statiche o dinamiche)
predefinite. Il criterio è pertanto un punto di vista, di osservazione di un oggetto,
fenomeno, etc., legato strettamente al soggetto osservante.
388
f)
Efficienza
Rapporto tra i risultati conseguiti e le risorse utilizzate. Quindi si ha un miglioramento
di efficienza (che è sempre un concetto relativo) se si ha:
- produzione degli stessi risultati (cioè pari efficacia) con minori risorse
- produzione di migliori risultati (cioè migliore efficacia) a parità di risorse impiegate
g) Data warehouse
Letteralmente tradotto come "magazzino di dati" è una struttura dati (database)
generalmente di dimensioni rilevanti con la funzione di raccogliere, omogeneizzare,
razionalizzare e rendere disponibili informazioni di un determinato contesto anche se
provenienti da fonti dati e tecnologie differenti. La definizione di data warehouse va al
di là della modalità con cui fisicamente è realizzato, che può essere ampiamente
diversificata nei modi.
Normalmente ha come frontend (cioè un sistema di fruizione per l’utente finale) un
DSS (vedere Decision Support System).
h) Data Mart
Sottoinsieme logico e a struttura auto consistente di un Data Warehouse completo.
Ciascun Data Mart costituente è rappresentato da un modello dimensionale.
i)
Decision Support System (DSS) o Sistema di Supporto alle Decisioni
Insieme di strumenti (sistemi) che sintetizzano i dati ricavati dall’ambito e li
estrapolano al fine generalmente di fornire indicazioni, stime utili per predisporre le
strategie future. Letteralmente tali sistemi hanno l’ambizione di aiutare i decisori, ossia
le persone incaricate di stabilire le politiche, nella loro attività di definizione degli
indirizzi.
j)
Data mining
Il data mining consiste nel “frugare” tra i dati di un data warehouse per estrarne
tendenze, rilevare delle correlazioni tra i comportamenti di diverse variabili, reperire
delle ripetizioni di fenomeni e facilitare in tal modo il lavoro dei decisori. Quest’analisi è
realizzata in maniera assistita grazie ad algoritmi che riprendono i lavori realizzati nei
settori originari della logica fuzzy, dell'intelligenza artificiale e delle reti neurali. Il data
mining trova la sua forma più compiuta negli strumenti di supply chain management.
389
k) Dimensioni
Insieme di attributi, generalmente di tipo testo, che definiscono e danno un significato
alle misure (ad esempio nell’erogazione dei Servizi se la misura è il numero di utenti
serviti, le dimensioni potrebbero essere Tempo, Servizio erogato, Soggetto erogatore,
Tipologia di utente servito). Sono normalmente non numeriche, o comunque discrete e
non aggregabili.
l)
Attributi
A ciascuna dimensione possono essere associati un certo numero di informazioni
accessorie ed attributi. Ciascun attributo deve contenere una singola informazione, al
fine di poter usare ciascun attributo singolarmente per l’aggregazione della misura sulla
dimensione.
m) Gerarchie di dimensioni
Naturale correlazione tra attributi appartenenti alla stessa dimensione, dipendente
dall’organizzazione e dalle specifiche esigenze applicative. Riportiamo alcuni esempi di
gerarchie (tra parentesi la dimensione).
- (Tempo) Anno – Trimestre - Mese – Giorno
- (Ente Erogatore) Tipologia di Ente
Possono esistere più gerarchie all’interno della stessa dimensione e sono fondamentali
per identificare come possono essere facilmente aggregate le misure nei modelli
dimensionali.
n) Misure o Fatti
Valori, generalmente numerici, utilizzati dagli utenti per la misurazione delle attività
(es. Numero utenti serviti, Bilanci, Costi). Le misure possono essere additive,
semiadditive o non additive. Sono additive se possono essere sommate lungo tutte le
dimensioni che le caratterizzano. Semiadditive se sono sommate solo rispetto alcune
dimensioni, non additive se non possono essere sommate rispetto a nessuna
dimensione. Sono generalmente non additive le misure non numeriche, mentre
semiadditive le misure di intensità. Le misure di intensità sono istantanee prese in un
determinato momento e, diversamente dalle misure di attività, non rappresentano un
flusso. Un esempio di misure di intensità sono gli Stati Patrimoniali contenuti nei bilanci
delle imprese, (non sommabili secondo la dimensione temporale ad esempio) mentre
per le misure di attività citiamo a titolo di esempio il numero di utenti serviti.
390
o) Indicatori
Coefficiente adimensionale che caratterizza le variazioni nel tempo e/o nello spazio di
una grandezza misurabile direttamente o indirettamente. Gli indicatori rappresentativi
di una grandezza semplice si dicono "elementari", quelli rappresentativi di una
grandezza complessa si dicono "aggregati", o "compositi".
Partendo da questa definizione, deriviamo che gli indicatori sono informazioni
selezionate che hanno lo scopo di aiutare a misurare un fenomeno nella sua mobilità in
relazione al suo ambito. Ovvero, le informazioni sono selezionate con la finalità di
misurare i cambiamenti che si verificano nei fenomeni osservati e, conseguentemente,
di trarre delle considerazioni che possano orientare eventuali processi decisionali.
p) Indici
Sebbene il termine sia in genere usato nel significato di rapporto fra due grandezze di
un fenomeno misurato lungo una delle sue dimensioni, esso assume qui il significato di
aggregazione di indicatori con impatti simili. In tale senso viene considerato all’interno
di questo documento. L’adozione di un indice in vece di un set di indicatori da cui
deriva è orientato a offrire un’informazione sintetica e semplificata, maggiormente
apprezzabile dall’utenza. In sostanza l’indice assume il significato di indicatore
composito di semplice comprensione.
q) Indici di dispersione
Gli indici di dispersione danno una misura della variabilità di un fenomeno, cioè della
più o meno lontananza dei dati statistici dal loro valore medio.
Gli indici di dispersione più significativi sono:
- campo di variazione: si ottiene come differenza tra il valore massimo e quello
minimo manifestati dal fenomeno in osservazione. Detto anche range;
- scarto semplice medio: media aritmetica degli scostamenti in valore assoluto (cioè
senza segno) dei dati dal valore medio;
- scostamento probabile: mediana degli scostamenti in valore assoluto dalla media
aritmetica;
- indici di variabilità relativa: indici ricavati dividendo l’indice assoluto con la media
aritmetica;
- varianza (vedere definizione specifica);
- scarto quadratico medio (anche deviazione standard, vedere definizione specifica).
391
r) Varianza
La varianza si calcola come media aritmetica degli scarti delle osservazioni dalla loro
media e risulta essere una misura della dispersione dei valori ottenuti in n rilevazioni;
in altre parole più i valori ottenuti in n rilevazioni differiscono fra di loro e maggiore
sarà il valore della varianza. Per l'appunto è chiamata anche indice di dispersione (uno
degli indici di variabilità) poiché offre un’indicazione sull'addensamento dei valori della
variabile attorno al valor medio. Se dunque abbiamo una varianza alta in una
popolazione questo vorrà dire che le rilevazioni saranno distribuite in maniera ampia.
Viceversa se la varianza ha un valore basso, le rilevazioni sono pressoché equivalenti,
dunque l’interesse dell’indicatore scende o se ne deve affinare la sensibilità. La
varianza
dà
inoltre
informazioni
su
imprecisione,
incertezza,
disomogeneità,
concentrazione.
s) Deviazione standard
La deviazione standard o scarto quadratico medio è un indice di dispersione (vale a
dire una misura di variabilità di una popolazione o di una variabile casuale) derivato
direttamente dalla varianza che ha la stessa unità di misura dei valori osservati (mentre
la varianza ha come unità di misura il quadrato dell'unità di misura dei valori di
riferimento). Si calcola come estrazione di radice della varianza. La deviazione standard
misura la dispersione dei dati intorno al valore atteso.
392
23.
Modello di analisi proposto
Il modello di analisi dell’osservatorio viene qui descritto riprendendo i concetti chiave
che indirizzano la definizione delle modalità di selezione degli indicatori, le fonti e le
loro caratteristiche, le definizioni di ambiti e interventi e, infine, la presentazione di
alcuni plausibili indicatori che potrebbero comporre l’osservatorio. Un set piuttosto
esteso, ma comunque parziale e volutamente non sempre netto. Sarà l’analisi
operativa e il ciclo di miglioramento continuo a definire i contorni e i pesi degli
indicatori, grazie a un approccio collaborativo fra gli attori.
23.1 Monitoraggio e indicatori
Il sistema di monitoraggio del fenomeno dell’esclusione sociale risponde principalmente
a tre necessità:
- suggerire un modello che possa rispondere all’esigenza di monitorare i diversi
aspetti del fenomeno in oggetto nelle sue varie fasi e nei suoi diversi aspetti;
- contemplare un set di informazioni atto a permettere una verifica di quanto le azioni
intraprese abbiano avuto influenza sul fenomeno sortendo gli effetti desiderati e in
quale misura si siano verificati scostamenti;
- rafforzare la consapevolezza, tramite analisi trasversali, della multidimensionalità del
fenomeno e delle ripercussioni che una strategia sinergica può portare sugli effetti
ottenuti;
- portare in evidenza le problematiche emergenti e le metodologie di azione
innovative.
La scelta degli indicatori e delle modalità del monitoraggio è conseguente alla
definizione delle condizioni necessarie a garantire il presidio del processo che risponde
a temi inerenti alla sinteticità, rilevanza e significatività degli indicatori utilizzati, alla
regolarità delle rilevazioni e alla verifica di corrispondenza con gli obiettivi indicati.
Il sistema è strutturato secondo ambiti oggetto di analisi. Per ciascun ambito è
393
importante definire metodologie di rilevazione che possano essere applicate nella
descrizione puntuale dell’evoluzione di una misura lungo il percorso di implementazione
pre, durante e post erogazione dei servizi. Questo approccio permette di supportare il
processo
decisionale a monte,
di agire per correggere eventuali
errori
di
programmazione e di misurare i risultati ottenuti.
In ultima battuta bisogna tenere conto del fatto che questa attività di monitoraggio dei
servizi erogati deve seguire gli indirizzi definiti dalla legge e deve tenere conto degli
indirizzi previsti a livello comunitario.
23.1.1 Individuare indicatori coerenti
Il sistema di monitoraggio sarà realizzato stabilendo l’insieme degli indicatori in grado
di fornire la descrizione sintetica dell’evoluzione delle politiche. Per rispondere alle
esigenze sopra espresse, gli indicatori definiti saranno pertanto capaci di illustrare in
maniera articolata:
- Il quadro di contesto territoriale, in particolare beneficiari ed erogatori;
- la gestione degli interventi;
- costi e risorse.
Gli indicatori utilizzati nel sistema di monitoraggio avranno le seguenti caratteristiche:
- flessibilità, per permettere modifiche ed aggiustamenti nel tempo;
- significatività rispetto agli obiettivi di riferimento;
- provenienza da fonti omogenee;
- focus adeguato sulla conformazione del fenomeno interessato;
- capacità di fornire in maniera sufficientemente disaggregata (genere, età, etc.) i dati
sulla spesa e sui soggetti partecipanti alle politiche attive.
Al fine di realizzare uno strumento che possa supportare il processo di analisi e di
valutazione, si deve partire da esperienze regionali, nazionali e comunitarie e integrarle
con la natura del fenomeno sul territorio in esame.
Gli indicatori generali di contesto che saranno elaborati mireranno a cogliere le
informazioni essenziali sul contesto locale e, in particolare, la distribuzione della
popolazione e del bisogno secondo le variabili trasversali che la letteratura individua
come fattore di rischio. In secondo luogo potranno essere censiti gli utenti dei servizi e
394
altre categorie di soggetti deboli che siano chiaramente definiti e già oggetto di
osservazione. Infine il contesto territoriale sarà analizzato rispetto alle strutture e alla
ricettività, disponibilità di risorse e di mezzi, e indici che misurino la facilità di accesso
ai servizi. Altra parte del sistema sarà costituita dall’individuazione di indicatori che
permettano di cogliere la qualità complessiva delle iniziative e dei servizi erogati nel
sistema delle reti federate che compongono il sistema di agenzia sociale.
L’attività di valutazione che un sistema normalmente persegue riguarda tre aspetti
fondamentali: l’efficacia, l’efficienza e la durevolezza del risultato con il tentativo di
ampliare il campo di analisi a periodi medio-lunghi. In realtà tutta questa attività si
basa su di un presupposto fondamentale che è quello della possibilità di misurare i
risultati, e, nel caso di più misurazioni, che possa esistere una commisurabilità, ovvero
una possibile unità di misura comune. In un ambito diversificato e in continua
evoluzione come quello dell’esclusione sociale il risultato rilevante di ogni intervento è
difficilmente paragonabile con quello che è accettabile in un altro contesto o era
accettabile pochi mesi prima. Ancora più radicalmente si può osservare che vi sono
ambiti di intervento, in particolare nei casi di povertà e disagio estremo, in cui il
risultato non è neppure definibile. Occorre quindi che sia estremamente chiaro a
monte, che qualsiasi valutazione non potrà limitarsi alle misurazioni fornite
dall’Osservatorio, a causa del loro potere descrittivo della realtà strutturalmente
limitato per le caratteristiche intrinseche del fenomeno. Vi saranno quindi ambiti di
osservazione con caratteristiche già ben definite e ambiti di interveto con servizi più
standardizzati. In tali settori sarà perfettamente corretto applicare le potenzialità
offerte dall’Osservatorio di analisi dell’efficacia e dell’efficienza. In altri ambiti si
potranno utilizzare le misurazioni dell’Osservatorio sui servizi erogati e sulle
caratteristiche dei soggetti per meglio comprendere i fenomeni, mentre la valutazione
del servizio dovrà seguire procedure più complesse di analisi di caso.
Gli indicatori di efficacia o performance fanno riferimento al risultato delle attività
promosse dalle singole strutture e dalla rete nel suo complesso, elaborati attraverso le
informazioni relative agli esiti per gli utenti. La rilevazione degli esiti è sicuramente
densa di problematiche. Oltre a un problema di definizione operativa di esito di un
intervento, gli strumenti e le metodologie di follow-up degli utenti non sono
direttamente legati all’ordinaria attività di erogazione del servizio e, conseguentemente,
le basi informative a riguardo sono poco diffuse quando non siano espressamente
395
previste risorse per tale scopo. A meno di condizioni di dipendenza dal servizio o di
assistenza di lunga durata, quando l’utente ha concluso l’intervento spesso esce dalla
possibilità di monitoraggio e le informazioni necessarie possono essere reperite solo
attraverso incroci con i dati di altri servizi, monitorando per esempio le recidive,
operazione che manca a volte di sistematicità. Fra gli indicatori che risentono di queste
problematiche possiamo evidenziare quelli riferiti alla copertura della domanda
potenziale, o alla soddisfazione degli operatori sull’organizzazione dei servizi.
La copertura della domanda potenziale, di difficile identificazione, può essere calcolata
tenendo conto:
- degli obiettivi definiti dalle strutture (in termini di numero di potenziali utenti
appartenenti a particolari tipologie);
- del risultato realizzato (espresso attraverso il numero di utenti appartenenti alla
tipologia individuata negli obiettivi che ha realmente fruito del servizio);
- di altri fattori quali l’individuazione del bisogno latente (cioè di utenti che esprimo un
bisogno ma che in realtà ne possiedono altri inespressi).
Ancora più delicato è il tema della misurazione dell’efficienza. A fronte di un bisogno
che è talmente differenziato da arrivare a richiedere una risposta individualizzata,
altrettanto diversa può essere la risposta e il cammino proposto. Se l’intervento contro
la povertà e l’esclusione fosse stato standardizzabile esso sarebbe probabilmente
coperto con più facilità da servizi pubblici strutturati; al contrario, la prevalenza del
terzo settore in questo campo mostra come la rilevanza di un approccio più creativo e
legato alla sensibilità dell’operatore. In tale contesto parlare di misurazione
dell’efficienza, e peggio ancora di confronti nell’efficienza, è assolutamente fuori luogo.
E’ molto probabile che porre il miglioramento dell’efficienza come obiettivo portante
dell’agenzia sociale, attraverso il controllo dei costi e dei benefici apportati, costituisca
un freno all’adesione di corpi della società civile che sono in primo luogo gelosi del
proprio modo di operare e sono disposti a rinunciare al sostegno finanziario pur di
preservare la propria indipendenza.
Questa premessa non vuole spingere a trascurare la valutazione dell’efficienza, ma
sottolinearne i limiti in un ambito di applicazione particolare come è quello di azione
dell’Osservatorio. In altre parole la potenzialità espressiva e valutativa degli indicatori
proposti sarà piena solo per una piccola parte dei servizi monitorati.
396
Gli indicatori che servono per misurare l’efficienza si possono far risalire a diverse aree
d’interesse: costi, risorse e efficienza interna.
Il costo del servizio è indagato secondo criteri di capacità di spesa e capacità
progettuale, verificando l’aderenza fra progettato e realizzato in termini di spesa,
risorse e capacità di rendicontare. Per le risorse a disposizione si prende in
considerazione la misurazione delle risorse umane e strumentali a disposizione degli
erogatori e la capacità di fare fronte con queste alle richieste, attraverso il rapporto tra
dotazione strumentale e dotazione di risorse umane e il rapporto tra dotazione
strumentale e utenza in carico.
L’efficienza interna si misura da una parte quantificando la composizione del servizio
relativamente alla gamma di attività offerte, il grado di realizzazione degli obiettivi e la
differenziazione degli interventi; dall’altra la composizione in base alle caratteristiche
socio-anagrafiche delle persone che si rivolgono ai servizi, a misurare sinteticamente i
pattern di utilizzo dei servizi (tasso di sviluppo e di ritorno dell’utenza, numero medio di
servizi utilizzati). Per questo tipo di analisi la componente di analisi storica è di
fondamentale importanza.
23.2 Fonti
Il problema delle fonti è estremamente delicato in un campo come quello a tema nel
presente lavoro in cui, come detto, l’oggetto è di difficile definizione e in continua
evoluzione, in cui non vi è una tradizione di rilevazioni statistiche unificate e in cui gli
interventi e le competenze si spalmano su un’estrema varietà di attori pubblici e privati.
In tale situazione ogni serio lavoro di progettazione degli strumenti di classificazione,
gestione e rielaborazione delle informazioni si scontrerebbe contro la scarsa qualità e
quantità dei dati disponibili come Don Quichotte contro i mulini a vento. Senza un serio
lavoro sulle fonti dei dati, lo sforzo di creare uno strumento che rappresenti in modo
realistico i fenomeni sarebbe non solo improbo ma anche vano.
Il primo lavoro necessario per la progettazione operativa sarà dunque quello di fare un
approfondita censita delle informazioni disponibili e delle loro caratteristiche. Le pagine
seguenti contengono un’anteprima di tale lavoro di survey sulle fonti rilevanti per il
tema dell’esclusione sociale. Ma, forse ancora a monte, sarà persino necessaria una
397
riflessione mirante a definire le variabili rilevanti, soprattutto nel caso delle nuove
povertà.
La prima fase operativa sarà invece rappresentata dall’integrazione informatica delle
informazioni e dei repertori esistenti. Il lavoro è complesso, non solo per la necessità di
rendere non tanto interfacciabili quanto realmente integrati data warehouse diversi
progettati con logiche diverse; l’integrazione è resa complessa dal fatto che le
informazioni, sparse presso amministrazioni diverse, sono spesso incluse in archivi nati
non per finalità direttamente informative ma più strettamente operative (per esempio
amministrative, di gestione dei servizi sanitari, ecc.).
Inoltre, per le caratteristiche del fenomeno, è essenziale che nel sistema informativo
trovino adeguata collocazione e possibilità di elaborazione, anche informazioni
qualitative e testuali, al fine di permettere agli utenti dell’osservatorio quella visione
profonda che solo è garanzia di qualità e di vera osservazione della realtà.
Infine, come il quadro di contesto tratteggiato ha ampiamente dimostrato, anche
ricorrendo alla piena integrazione delle fonti pubbliche e private, il quadro del disagio
sociale ed economico resta offuscato da ampie zone d’ombra non coperte da nessuna
rilevazione sistematica. Come rimediare a tali pesanti lacune? Non certo predisponendo
sistemi di rilevazione ad hoc, estremamente onerosi e che oltrepassano le finalità e la
portata del presente Osservatorio. Un contributo, semplice da realizzare e
relativamente economico, alla creazione diretta di materiale informativo inedito potrà
però essere progettato nel momento in cui l’Osservatorio sarà integrato nel più ampio
modello di Agenzia sociale presentato nel capitolo precedente. In tal caso la rete di
punti servizio sparsi sul territorio potrebbe essere indotta ad adottare dei meccanismi
di anagrafica dei casi semplici ma uniformi. Da tali schede che descrivono il caso e il
servizio erogato (già ora più o meno informalmente tutte le strutture di intervento sono
dotate di qualche forma di memoria dell’intervento realizzato) diverrebbero un metodo
sistematico di raccolta di informazioni aggiornate e verificabili (mediante controllo
incrociato), utilizzabili sia a fini statistici e di analisi, e sia a fini di rendicontazione e
valutazione delle performance.
In tale fase avanzata poi l’Osservatorio potrebbe evolversi ulteriormente, da
rielaboratore di informazioni, a “collettore di istanze innovative”, coinvolgendo tutti i
terminali della rete in un’opera di creazione collettiva di conoscenza sui metodi di
398
intervento più innovativi e sulle frontiere del bisogno.
23.2.1 Indirizzi nazionali e Programma statistico nazionale
Quando si procede alla realizzazione di un sistema informativo statistico, non si può
prescindere dalle indicazioni offerte dal SISTAN a proposito della raccolta e della
diffusione dei dati.
Come si può evincere dalla loro stessa presentazione, il SISTAN è “Una rete di circa
diecimila operatori statistici uniti nell'impegno di rendere disponibile un'informazione
statistica di qualità per il Paese e per coloro che in tutto il mondo sono interessati alla
realtà italiana. Ogni anno, nel quadro del Programma statistico nazionale, si producono
quasi un migliaio di lavori statistici, di carattere nazionale e locale. Il Sistan si fa
garante dell'unità di indirizzo, dell'omogeneità dei metodi e della razionalizzazione dei
flussi dell'informazione statistica ufficiale attraverso un disegno di coordinamento
organizzativo e funzionale che coinvolge l'intera Amministrazione pubblica, centrale,
regionale e locale. Il coordinamento del Sistema statistico nazionale (Sistan) è affidato
per legge all'Istituto nazionale di statistica. Fanno parte del Sistema, oltre all'Istat, gli
enti ed organismi di informazione statistica, gli uffici di statistica delle amministrazioni
centrali dello Stato, degli enti nazionali, delle Regioni e Province autonome, delle
Province, dei Comuni, delle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura,
degli Uffici territoriali del Governo, di alcuni enti privatizzati e dei soggetti privati aventi
particolari requisiti previsti dalla legge”.
Per essere coerente con le linee indicate dal SISTAN, il progetto deve seguire le linee
strategiche e gli obiettivi del Programma Statistico Nazionale e deve prevedere di
mettere a disposizione i risultati per la collettività nazionale e internazionale. Tale
pubblicazione deve rispondere alle caratteristiche metodologiche e tecniche indicate
dall’Istat, definite dagli interventi dei circoli di qualità, nonché ai precisi impegni in
merito al trattamento dei dati personali, sia interno che affidato ad altre strutture. In
particolare sono da ricordare la necessità di ridurre ed eliminare ridondanze,
duplicazioni, lavori a basso profilo e di curare un corredo di note metodologiche. I dati
devono inoltre rispondere ai criteri di pertinenza, completezza e non eccedenza.
399
23.2.2 Classificazione delle fonti
E’ possibile dividere coloro che generano informazione in:
- attori pubblici;
- attori privati;
- attori istituzionali.
In particolare, fra i primi troviamo le Regioni, le Province e i Comuni; fra i secondi
invece possiamo citare, a titolo di esempio, associazioni di rappresentanza, quali i
centri di volontariato, associazioni di rappresentanza dei beneficiari (quali le
associazioni in difesa di determinate categorie di disabili), enti di ricerca, associazioni di
mutuo soccorso e di assistenza, parrocchie e istituti religiosi. Nel terzo gruppo sono
compresi Inps, Istat, Inpdap, Casse previdenziali/albi, Inail, Centri per l’Impiego,
Agenzie delle entrate, Unioncamere, Università, Scuole, ASL Centri di assistenza e di
sostegno pubblici, servizi di pubblica utilità, forze dell’ordine.
Il ruolo degli attori privati ha un’importanza specifica nel campo dell’esclusione sociale
per la presenza di informazioni non altrimenti rilevabili o, comunque, di difficile
fruizione congiunta con le fonti pubbliche e istituzionali. Le regole di cessione e la
modalità di trattamento e diffusione dovranno essere discusse con attenzione in fase di
analisi, al fine di rispettare le norme in merito al trattamento e alla diffusione.
Citiamo per ciascuna categoria esemplificazioni alcuni esempi che possoano avvalorare
la presenza e la ricchezza del dato, oltre che la sua reperibilità. Le fonti dati elencate e
brevemente presentate di seguito sono il risultato di indagini preliminari nell’ambito
delle Politiche Sociali, della Sanità, del Mercato del Lavoro e della Formazione, degli
istituti statistici e di attori privati che agiscono nelle politiche che interessano
l’osservatorio. Le modalità di colloquio e conferimento, di integrazione fra le fonti e la
qualità o la grana del dato a disposizione nelle fonti, come le modalità di classificazione
sono da rimandarsi a una fase di analisi preliminare nel corso del processo di
realizzazione.
23.2.3 Attori pubblici
a) Regione Lazio
La Regione possiede strumenti di raccolta e gestione dati inerenti al trattamento dei
400
flussi legati all’erogazione di finanziamenti. Questi sistemi, che accolgono anche dati
anagrafici e di dettaglio su informazioni, si configurano come una fonte interna
all’istituzione e sono propri di ciascun assessorato, con portali di pubblicazione per le
mappe dei servizi e le ricerche.
b) Province
Le province dispongono dei dati raccolti dai Centri per l’Impiego e a tali dati sono
spesso affiancate e rese consultabili informazioni aggiuntive provenienti da fonti
diverse (ISTAT, INPS, INAIL, ecc.).
In particolare la Legge 328/2000, così come enunciato all’art. 1, identifica come
obiettivi la costituzione di un sistema integrato di interventi e servizi sociali orientato
alle famiglie e alle persone, la cui programmazione ed organizzazione compete agli Enti
locali, alle Regioni ed allo Stato, secondo i principi di sussidiarietà, cooperazione,
efficacia, efficienza ed economicità, omogeneità, copertura finanziaria e patrimoniale,
responsabilità
ed
unicità
dell’amministrazione,
autonomia
organizzativa
e
regolamentare degli Enti locali. In applicazione dell’art. 8, relativo alle funzioni delle
Regioni, la Regione Lazio ha tracciato il proprio Piano socio-assistenziale regionale, in
cui individua il Distretto socio-sanitario quale contesto territoriale ottimale per
l’attuazione della necessaria sinergia tra i Comuni e le Asl. Diverse province si sono
dotate di un osservatorio così come alcuni comuni. Questi osservatori raccolgono,
archiviano ed elaborano informazioni e dati al fine di promuovere la conoscenza e la
diffusione di servizi, progetti ed esperienze innovative posti in essere dalla Pubblica
Amministrazione.
c) Comuni
Oltre all’anagrafe comunale sono a disposizione dei Comuni dati integrativi, mutuabili
dalle certificazioni e dalle attribuzione di sostegni che sono loro in carico. Così come le
province anche alcuni comuni si sono dotati di un osservatorio.
d) Consulta Comunale per il Volontariato
Le Consulte Comunali del Volontariato nascono sul territorio e riuniscono le associazioni
di volontariato operanti sul territorio. Hanno generica finalità di:
- agevolare la collaborazione programmatica tra istituzioni pubbliche e realtà del
volontariato per concorrere alla definizione degli obiettivi e alla realizzazione dei
programmi di competenza dell'amministrazione comunale;
401
- concorrere alla promozione dei valori propri del volontariato e alla realizzazione delle
iniziative e dei programmi delle organizzazioni di volontariato;
- costituire punto di riferimento per le organizzazioni aderenti, attraverso il
coordinamento degli interventi sul territorio, fermo restando l'autonomia delle
attività delle attività delle singole organizzazioni, la consulenza e l’informazione sulla
legislazione regionale e nazionale e la promozione di attività informative atte ad
incentivare la cultura della solidarietà.
23.2.4 Attori privati
a) Caritas
La Caritas Italiana è l'organismo pastorale della Cei (Conferenza Episcopale Italiana)
per la promozione della carità. Ha lo scopo cioè di promuovere “la testimonianza della
carità nella comunità ecclesiale italiana, in forme consone ai tempi e ai bisogni, in vista
dello sviluppo integrale dell'uomo, della giustizia sociale e della pace, con particolare
attenzione agli ultimi e con prevalente funzione pedagogica” (art.1 dello Statuto).
Si è dotata di un osservatorio, l’Osservatorio della Povertà e delle Risorse che nasce
sulla base della sollecitazione emersa nel corso del 2° convegno ecclesiale nazionale
(Loreto 1985) ed ha una funzione esplicitamente pastorale. È uno strumento diretto “a
osservare sistematicamente le situazioni di povertà, di disagio, di emarginazione, di
esclusione presenti sul territorio e le loro dinamiche di sviluppo, comunicando e
rivolgendosi
alla
comunità
ecclesiale
e
all’opinione
pubblica,
favorendo
il
coinvolgimento e la messa in rete dei diversi attori sociali impegnati sul territorio –
verificare ed approfondire l’utilizzo delle risorse e stimolare eventuali proposte di
intervento”99. Ha come oggetto specifico di lavoro la conoscenza competente,
sistematica e aggiornata:
- delle condizioni delle persone fragili, delle cause e delle dinamiche di sviluppo dei
loro problemi;
- delle risorse disponibili per l’accoglienza delle loro fragilità;
99
Cei, Nota pastorale "La Chiesa in Italia dopo Loreto", 1985.
402
- del contesto ecclesiale, della storia della carità della diocesi e delle forme
organizzative che questa ha assunto negli anni;
-
del
quadro
legislativo
e
normativo
che
le
riguardano,
direttamente
o
indirettamente, per permettere alla Caritas diocesana di intervenire anche sul piano
dell'advocacy.
Il lavoro dell'Opr, oltre ad essere evidentemente strettamente connesso con quello del
Centro di ascolto diocesano (fonte privilegiata di rilevazione dei dati sulle povertà),
deve necessariamente porsi in sinergia con quello del Laboratorio per la promozione
Caritas.
b) ANOLF
L'ANOLF, Associazione Nazionale Oltre Le Frontiere, è un’associazione di immigrati di
varie etnie a carattere volontario e democratico, che ha come scopo la crescita
dell’amicizia e della fratellanza tra i popoli, nello spirito della Costituzione italiana.
L’ANOLF, promossa dalla CISL, non ha scopi di lucro e non è collaterale ad alcuna
formazione o movimento politico. Essa è stata costituita nel dicembre del 1989.
L'Associazione è presente capillarmente su tutto il territorio nazionale con le ANOLF
Regionali (20), le Sezioni Provinciali (101) e Territoriali (10). L'ANOLF intende
combattere il razzismo e la xenofobia attraverso l'interazione tra gruppi sociali diversi,
perseguendo la reciproca conoscenza, il rispetto e le opportunità per tutti in una
società fondata sulla pacifica convivenza, quale stimolo ad un mondo più giusto e più
rispettoso anche degli equilibri naturali. I punti di forza dell'impegno dell'ANOLF sono
l'uguaglianza nei diritti e nei doveri, quale espressione di un “civismo” maturo,
indispensabile per l’intera società in un paese come il nostro che può trarre dalla
risorsa immigrati una spinta a superare posizioni e comportamenti legati ad una cultura
spesso provinciale ed asociale.
c) Comunità di Sant'Egidio
La Comunità di Sant'Egidio è una comunità cristiana riconosciuta come Associazione
Internazionale Laicale della Chiesa cattolica, fondata nel 1968 a Roma. È impegnata
per l'ecumenismo, a partire dalle proprie radici nella Chiesa cattolica. Opera
attivamente in contatto con i poveri, i giovani, gli anziani e i disabili; pubblica una
guida ai servizi sull'accoglienza nella città di Roma.
d) CILAP
Il CILAP é la sezione italiana dell’EAPN (European Anti-Poverty Network). Costituitosi in
403
associazione senza scopo di lucro nel 1992, il CILAP promuove, diffonde e
approfondisce le tematiche relative alle politiche europee di lotta alla povertà e
all’esclusione sociale. Dedica un’attenzione particolare ai programmi e ai fondi che
l’Unione Europea mette in campo a tali scopi, alle procedure per accedervi, al ruolo
degli attori locali, pubblici e privati e all’attivazione di questi programmi nei territori di
appartenenza. L’esperienza che il CILAP ha maturato in questo settore durante gli anni
di attività, la sua capacità di coniugare la dimensione locale con la dimensione europea
degli interventi di lotta alla povertà, ha reso possibile la partecipazione al Programma
di Iniziativa Comunitaria Integra per il periodo 1998/1999. Lavora nell’ambito della
diffusione e sensibilizzazione delle tematiche europee riguardanti la lotta all’esclusione
sociale e alla povertà, erogando servizi di informazione su politiche e programmi
europei.
e) CESV
Il CESV, Centro di Servizio per il Volontariato, è una’associazione di associazioni senza
fini di lucro, ispirata da principi di carattere solidaristico e democratico, con lo scopo di
realizzare ogni attività utile a promuovere, sostenere e sviluppare le organizzazioni del
volontariato e l'associazionismo di promozione sociale. Costituito ai sensi dell'articolo
15 della Legge 266/91, il CESV Lazio, nel rispetto del D.M. 8 ottobre 1997 ha lo scopo
di sostenere e qualificare l'attività del volontariato. Eroga i servizi a favore delle
organizzazioni di volontariato iscritte e non al registro regionale del Volontariato. In
particolare:
- appronta iniziative e strumenti per la crescita della cultura della solidarietà, la
promozione di nuove iniziative di volontariato e il rafforzamento di quello esistente;
- offre consulenza ed assistenza qualificata, nonché strumento per la progettazione,
l'avvio e la realizzazione di specifiche attività;
- assume iniziative di formazione e qualificazione nei confronti degli aderenti ad
organizzazioni di volontariato;
- offre informazioni, notizie, documentazione e dati sulle attività di volontariato locale
e nazionale.
I servizi del CESV sono mirati soprattutto al sostegno della diffusa realtà di piccole e
medie associazioni legate al proprio territorio ed al proprio tema, che sono un
patrimonio sociale di rilevante entità ma con un forte bisogno di servizi. Promuove una
pubblicazione periodica, Reti solidali.
404
f)
CSVNet
CSVNet è il Coordinamento Nazionale dei Centri di Servizio per il Volontariato. Nasce
l'11 gennaio 2003 per raccogliere, dare continuità e rafforzare l'esperienza del
Collegamento Nazionale dei Centri di Servizio costituito nel 1999. Riunisce e
rappresenta oggi 71 Centri di Servizio per il Volontariato (CSV) su 77 presenti in Italia,
con l'obiettivo di rafforzare la collaborazione e lo scambio d'esperienze, di competenze
e di servizi fra i centri per meglio realizzarne le finalità istituzionali, pur nel rispetto
della loro autonomia. È strumento di collaborazione e confronto permanente nelle
tematiche di impegno dei centri. Fornisce servizi di formazione, consulenza, sostegno e
accompagnamento ai CSV soci. CSVnet è socio del Centro Europeo per il Volontariato
(CEV) con sede a Bruxelles, dove ha un proprio sportello che fornisce servizi di
informazione sui bandi e orientamento sui temi europei, oltre che supporto
metodologico, formazione e assistenza tecnica ai CSV sui Fondi Strutturali Europei e sul
programma comunitario Gioventù in Azione.
g) Associazione Soleterre
Soleterre è un’associazione umanitaria ONLUS che interviene all’estero e in Italia per
garantire l’applicazione dei diritti inviolabili degli individui. Con personale proprio eroga
servizi sanitari ed educativi e garantisce alimentazione, principalmente a bambini e
donne che si trovano in uno stato di povertà assoluta. Attraverso un progetto ha creato
l’Osservatorio Nazionale Permanente per la tutela dei diritti fondamentali e il contrasto
alla discriminazione delle comunità Rom e Sinti e segue la problematica dell’inclusione
sociale dei migranti.
h) Fondazione ISMU
La Fondazione ISMU, già Fondazione Cariplo-ISMU dal 1991, è un ente scientifico
autonomo e indipendente che promuove studi, ricerche e iniziative sulla società
multietnica e multiculturale, con particolare riguardo al fenomeno delle migrazioni
internazionali. L’ISMU si presenta come una struttura di servizio, aperta alla
collaborazione con le istituzioni, gli enti pubblici, il mondo del volontariato e delle
organizzazioni non profit, gli istituti scolastici di ogni ordine e grado e le istituzioni
scientifiche in Italia e all’estero. Pubblica una serie di informazioni in merito a Presenze,
Lavoro, Scuola, Demografica, Sanità, Giudiziaria. Gli studi sono mutuati da diverse
banche dati.
405
23.2.5 Attori istituzionali
a) INPS
L'INPS è il più grande ente previdenziale italiano. Sono assicurati all'INPS la quasi
totalità dei lavoratori dipendenti del settore privato ed alcuni del settore pubblico, così
come la maggior parte dei lavoratori autonomi. L'attività principale consiste nella
liquidazione e nel pagamento delle pensioni che sono di natura previdenziale e di
natura assistenziale.
Le prime sono determinate sulla base di rapporti assicurativi e finanziate con il prelievo
contributivo: pensione di vecchiaia, pensione di anzianità, pensione ai superstiti,
assegno di invalidità, pensione di inabilità, pensione in convenzione internazionale per
il lavoro svolto all'estero.
Le seconde sono interventi la cui attuazione, pur rientrando nelle competenze dello
"stato sociale", è stata attribuita all'INPS: integrazione delle pensioni al trattamento
minimo, assegno sociale, invalidità civili.
L'INPS non si occupa solo di pensioni ma provvede anche ai pagamenti di tutte le
prestazioni a sostegno del reddito quali, ad esempio, la disoccupazione, la malattia, la
maternità, la cassa integrazione.
Gestisce anche la banca dati relativa al calcolo dell'indicatore della situazione
economica equivalente (ISEE) che permette di fruire di alcune prestazioni sociali
agevolate.
Si possono avere dati estremamente rilevanti da questa banca dati e studi, fra cui:
- il tasso di occupazione;
- il tasso di disoccupazione;
- i costi della previdenza sociale
e numerose altre informazioni sull’occupazione.
Tali dati sono disponibili dall’anno 2005 con periodicità annuale e riferito a grandi
ripartizioni territoriali. Dati molto più disaggregati, fino ad arrivare all’unità di misura
dell’impresa, possono essere richiesti, normalmente a titolo oneroso.
b) INAIL
L’INAIL è l’istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. Si occupa
del monitoraggio dell’andamento degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali
406
per settore industriale e fornisce informazioni utili sulle imprese assicurate presso tale
istituto. L'INAIL, Istituto Nazionale Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro,
persegue una pluralità di obiettivi: ridurre il fenomeno infortunistico; assicurare i
lavoratori che svolgono attività a rischio; garantire il reinserimento nella vita lavorativa
degli infortunati sul lavoro. L'assicurazione, obbligatoria per tutti i datori di lavoro che
occupano lavoratori dipendenti e parasubordinati nelle attività che la legge individua
come rischiose, tutela il lavoratore contro i danni derivanti da infortuni e malattie
professionali causati dalla attività lavorativa.
Per i fini della propria attività dispone di una ricca base dati., in cui sono trattate le
tematiche seguenti:
- le caratteristiche delle aziende;
- gli addetti (e quindi non solo i dipendenti, ma tutto il personale che vi lavoro anche
a titolo gratuito, come gli stagisti);
- la retribuzione;
- i premi.
Le informazioni possono essere visualizzate a livello nazionale, di grande ripartizione
(Nord Est, Nord Ovest, Centro, Sud e Isole) e di provincia. I dati, anche in questo caso,
possono essere esportati.
c) ISTAT
L’ISTAT è l’istituto nazionale di statistica. Periodicamente cura rilevazioni censuarie. Il
censimento offre una fotografia del paese in un momento della sua storia e permette,
quindi, di avere una visione d’insieme dello Stato in cui è stato effettuato e
contemporaneamente di possedere dettagli precisi sulla popolazione, sulle imprese
agricole, sull’industria e sui servizi.
Il censimento viene condotto su tre settori:
- Censimento dell’agricoltura: permette di identificare il numero, la dispersione
territoriale, le caratteristiche delle aziende agricole, forestali e zootecniche presenti
sul territorio;
- Censimento dell’industria e dei servizi: permette di ottenere informazioni sul numero
delle imprese attive e delle unità locali presenti sul territorio, sulle forme giuridiche e
le attività svolte, sul numero degli addetti, sui sistemi di vendita e sulle risorse per
l’attività produttiva. Le informazioni che si ottengono tramite queste rilevazioni
407
vengono utilizzate dalle imprese e dalle associazioni di categoria per programmare
in modo ragionato e pianificare attività e progetti.
Altro censimento effettuato è il Censimento della popolazione e delle abitazioni,
ripetuto ogni 10 anni. (contemporaneamente a quello dell’Industria e dei servizi)
Permette di conoscere il numero di persone che risiedono in Italia, la loro età, il loro
grado di istruzione, il numero di famiglie, gli spostamenti che vengono fatti per lo
studio e il lavoro, le condizioni nelle quali vive la popolazione e le caratteristiche
strutturali delle abitazioni presso cui essa risiede. Tale censimento consente anche
l’aggiornamento e la revisione delle anagrafi comunali e la determinazione della
popolazione legale del paese.
Sul sito dell’Istat, Istituto Nazionale di Statistica, è possibile visualizzare e scaricare i
dati relativi ai tre censimenti. Le tavole disponibili possono essere semplicemente
consultate on line, oppure scaricate gratuitamente in formato foglio elettronico. Per
alcune variabili è possibile visualizzare una mappa interattiva che permette a colpo
d’occhio di valutare la distribuzione del fenomeno oggetto di analisi sul territorio di
interesse.
Fra un Censimento e l’altro le variabili più rilevanti vengono seguite con cadenza più o
meno ravvicinata, prevalentemente attraverso indagini campionarie.
Sempre Per esempio l’Istat mette a disposizione i dati ufficiali più recenti sulla
popolazione residente in ciascun comune tramite il sistema GeoDemo che fornisce
informazioni sulla struttura della popolazione, immigrazione e bilancio demografico.
Anche il Dipartimento delle Statistiche Sociali dell’Istat, tramite il sistema Demos, mette
a disposizione una raccolta dei principali indicatori sociali a livello regionale e
provinciale.
Tramite questi indicatori, è possibile avere preziose informazioni sugli aspetti più
rilevanti della realtà sociale italiana. Le tavole consultabili ed esportabili sono diverse e
contengono indici concernenti quattordici aree informative tra le quali:
- la mobilità territoriale, la dinamica migratoria e gli stranieri;
- la struttura demografica del territorio di riferimento;
- mortalità, natalità, fecondità, comportamenti riproduttivi;
- matrimoni, separazioni e divorzi;
408
- istruzione, scuola, preparazione professionale;
- dimensioni e strutture familiari;
- abitazioni, qualità abitativa, attività edilizia.
Per ciascun indicatore è possibile visualizzare l’anno di aggiornamento del dato, con la
conseguente possibilità di scegliere il periodo di interesse e il dettaglio territoriale
(regione, provincia con dettaglio sul capoluogo di provincia, sigla CAP).
d) IRPPS
L’IRPPS, Istituto per le Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali, è un Istituto del
Consiglio Nazionale delle Ricerche. L’Istituto individua e studia le linee di sviluppo e di
trasformazione della popolazione e delle società contemporanee. L’attività è volta a
soddisfare una domanda che proviene dalla comunità scientifica, dagli attori politici, da
quelli amministrativi e dalla società civile.
Le principali linee di ricerca sono le seguenti:
- dinamiche della popolazione e governance;
- mobilità e territorio;
- analisi dei comportamenti sociali e demografici e valutazione delle politiche;
- sistemi di welfare e politiche sociali;
- risorse umane e società della conoscenza.
Sono presenti alcuni osservatori:
- Osservatorio sulle intenzioni riproduttive;
- Osservatorio sulle migrazioni italiane;
- Osservatorio sulla situazione demografica italiana;
- Osservatorio Europeo sull'Informazione e l'Educazione della Popolazione.
Sono presenti alcune indagini corredate da documentazione e dati statistici su temi
quali famiglia, anziani, giovani, migrazioni. Pubblica un quadrimestrale e diversi
quaderni sui temi della demografia e della popolazione.
23.3 Ambiti
Il sistema informatico su cui si basa l’Osservatorio sarà strutturato in ambiti. Gli ambiti
rappresentano un aspetto del contesto che andiamo a osservare e contengono al loro
409
interno i processi. Definiamo quindi l’ambito come un sottoinsieme del fenomeno
osservato che ne focalizza un singolo aspetto indipendente, prendendo in esame
grandezze, processi e caratteristiche del fenomeno.
L’adozione di una struttura divisa in ambiti, oltre a permettere una suddivisione
coerente e organica delle misure e degli indicatori permette di identificare i settori di
indagine.
a) Identificazione del bisogno e delle politiche
L’ambito Identificazione del bisogno e delle politiche prende in considerazione la
distribuzione della domanda sul territorio con l’identificazione di destinatari potenziali,
delle richieste di servizio, delle aree a rischio e delle indicazioni prioritarie dalle
politiche. Coinvolge indicatori di contesto, atti a identificare la morfologia del fenomeno
nel tessuto sociale.
b) Descrizione dell’offerta
L’ambito descrizione dell’offerta analizza la presenza di punti di erogazione di servizi sul
territorio e, conseguentemente, la disponibilità del servizio. Raccoglie principalmente
indicatori di contesto, con lo scopo di fornire elementi di misurazione delle condizioni
dell’ambiente nelle quali le politiche sono realizzate. Le informazioni alla fonte e
ovviamente le misure trattate devono essere comparabili nei diversi contesti territoriali.
I principali indicatori utilizzati sono la distribuzione territoriale delle strutture con la loro
posizione, la loro specializzazione (tipologia di servizi erogati e di utenti serviti) e la loro
capacità di tessere relazioni con il territorio e gli altri soggetti, oltre che la capacità
ricettiva e di soddisfare la domanda di potenziali destinatari.
c) Erogazione del servizio
L’ambito denominato erogazione del servizio analizza come i diversi erogatori
soddisfano la domanda tramite la costruzione di percorsi e l’erogazione di servizi
specifici. Raccoglie principalmente indicatori di realizzazione ovvero indicatori che
mostrano lo stato di avanzamento e quelli che definiscono i risultati di uscita. La prima
componente permette di misurare/verificare l’adeguatezza delle risorse in rapporto
all’attività e al numero di utenti presi in carico. La seconda componente misura
l’efficacia interna al servizio sia in relazione alla varietà e quantità di attività erogata,
sia in termini di utenza che ha beneficiato delle attività stesse. Sono indagate la
composizione del percorso e dei servizi, la sua durata e il coinvolgimento di una rete di
410
soggetti nel suo trattamento.
d) Efficienza di processo, economica e delle risorse
L’ambito denominato efficienza di processo, economica e delle risorse consente di
verificare quanto i processi gestionali siano efficienti in termini di economia e risorse.
Raccoglie quelli che sono gli indicatori di processo. In tale ambito sono vagliate le
efficienze economiche, amministrative, la capacità di spesa delle risorse impegnate e
l’efficienza nella rendicontazione delle spese. Non in ultimo possono rientrare in questa
categoria l’efficienza dei sistemi informativi e dei conferimenti dati.
e) Efficacia e permanenza del risultato
L’ambito denominato efficacia e permanenza del risultato analizza gli esiti di percorso e
servizi nel breve periodo e nel medio periodo, cercando di evidenziare laddove la
permanenza del risultato sia più duratura e laddove invece sia più effimera. Raccoglie
principalmente indicatori di risultato che consentono di rilevare gli esiti delle attività
svolte a favore dei beneficiari. Sono gli indicatori di più complessa individuazione a
causa della difficoltà che si riscontra normalmente ad ottenere informazioni in maniera
differita rispetto all’erogazione, o a definire esiti a breve e medio termine di interventi
complessi.
23.4 Viste di analisi e interventi
Procedendo nella presentazione della struttura si vanno a prendere in esame le viste di
analisi. Tali viste di analisi permettono la semplificazione della presentazione di risultati
delle elaborazioni secondo un modello funzionale che si avvicini alle aspettative
dell’attore che fruisce dei servizi e prodotti. Gli indicatori e le informazioni messe da
loro in evidenza mantengono una relazione con molteplici viste di analisi, essendo
applicabili a molte di queste. Un esempio tipico è l’analisi della struttura della
popolazione che, comune a tutte le viste di analisi, permette di valutare il campione in
termini di numeri e composizione.
Per ciascuna vista sono definiti indicatori validi specifici o mutuati dalla struttura
complessiva.
Le viste di analisi possono richiamare una classe di destinatari individuata
normativamente come ad esempio dal POR e dal Piano di Azione Nazionale, oppure un
411
territorio in cui sia in atto un fenomeno o ancora una categoria di svantaggio normata
per decreto o per definizione di una politica.
A titolo di esempio sono viste di analisi: anziani, disabili, invalidi, famiglie a rischio
povertà, minori in situazione di disagio, soggetti con dipendenze legali e illegali,
detenuti ed ex-detenuti, vittime di sfruttamento e violenza, disoccupati di lunga durata.
Come è facilmente individuabile da una prima lettura, le viste di analisi possono
condividere i soggetti analizzati. In buona sostanza è possibile che un soggetto ricada
in più di queste e contribuisca ad eseguire analisi diverse del fenomeno nel quale è
inserito. Al medesimo tempo i suoi dati restano comunque disponibili per la creazione
di viste di analisi nuove o la modifica delle esistenti. Questo approccio rende facilmente
adattabile all’evoluzione delle politiche la struttura di presentazione dell’osservatorio.
Le viste di analisi assolvono principalmente due funzioni:
- offrono una ripartizione schematica di indicatori e misure che possono così essere
applicate ai soggetti che hanno anche i requisiti di svantaggio;
- offrono
una
identificazione
semplice
e
schematica
di
presentazione,
una
organizzazione logica dei contenuti che può essere prima guida, seppur più
superficiale alla consultazione.
Gli interventi sono un’ulteriore modo di presentare gli indicatori, che si orienta a
suddividerli in categorie per vicinanza istituzionale, di argomento o di destinatario. Di
nuovo gli interventi presentati non vogliono essere onnicomprensivi né tantomeno
cristallizzati. Essi stessi muteranno e potranno raccogliere i medesimi indicatori.
Possono ad esempio raccogliere più politiche o essere di supporto a una presentazione
di una’iniziativa specifica. Se le viste di analisi sono orientate ai destinatari, gli
interventi sono invece orientati ai servizi, ma entrambi restano classificazioni che
possono essere modificate e adattate alle esigenze.
23.5 Dimensioni
Le dimensioni sono uno dei capisaldi del sistema e ne condizionano la flessibilità.
Procediamo a dare una definizione delle dimensioni che sono state citate per gli
indicatori suggeriti, rimandando un maggiore dettaglio alla fase di analisi operativa.
412
a) Dimensione temporale
E’ la dimensione che identifica il tempo, con tutte le sue implicazioni. Comprende
suddivisioni in trimestri o semestri, ma anche la possibilità di impostare suddivisioni di
programmazione.
b) Dimensione territoriale
E’ la dimensione che identifica dove un fenomeno si realizza, fondamentale per
valutare le implicazioni con il territorio. Comprende suddivisioni in aree geografiche
amministrative o culturali.
c) Dimensione età
Seppur l’età si configuri anche come una misura, può assumere un ruolo importante
per l’analisi quando il focus si sposta alle classi di età. La definizione di giovinezza o
vecchiaia, di periodo attivo lavorativamente, dipendono da convenzioni di analisi che
rendono la dimensione di età di assoluto interesse.
d) Genere
Il genere come suddivisione nello studio delle pari opportunità o nella differenziazione
di nuclei familiari monogenitoriali o ancora nell’analisi di fenomeni come la violenza, la
tratta, l’emarginazione delle minoranze.
e) Nazionalità, etnia
La provenienza dei soggetti è un’interessante dimensione di analisi. Essa è corredata
da attributi che determinano la suddivisione in aree di provenienza che possono essere
buone basi per lo studio dei fenomeni migratori o delle difficoltà di integrazione.
Mentre la nazionalità ha una connotazione forte, per quanto riguarda l’etnia i suoi
contorni possono essere più sfumati. Di sicuro interesse è la possibilità di classificare
minoranze e gruppi che hanno difficoltà di integrazione e che godono di benefici
specifici.
f)
Ente Erogatore o struttura
Permette di classificare gli enti erogatori con tutte le caratteristiche che favoriscono
l’analisi per aggregazione, dal territorio di riferimento alla natura giuridica alle finalità
alla dimensione.
g) Tipologia di intervento o di politica
Permette di classificare le tipologie di intervento e di politica attuate. Fondamentale per
mantenere una linea di continuità fra le varie componenti della politica al fine di
413
tracciarne un bilancio completo, sia in itinere che alla sua chiusura.
h) Tipologia di servizio o di erogazione
Permette di classificare le tipologie di servizio offerte o erogate. Fondamentale per
mantenere una linea di continuità nell’ambito di un servizio e tracciarne la storia
all’interno anche di politiche diverse.
i)
Tipologia di soggetto
Permette di classificare le tipologie di soggetto. Dimensione mutevole e legata alla
continua evoluzione delle definizioni, è il filo conduttore dell’analisi per viste di analisi,
intervenendo su regole complesse che determinano la presa in carico di un soggetto e
la sua collocazione in un ambito di analisi. Interviene solo per gli indicatori e non per le
misure di base, per non viziare la portabilità a media scadenza.
j)
Caratteristiche del soggetto o dello svantaggio o del servizio
Permettono di identificare quelle caratteristiche che descrivono lo svantaggio (tipo di
disabilità, tipo di dipendenza, tipo di nucleo familiare, liste speciali). Importanti per
definire quelli che sono servizi erogabili ed erogati, sono estremamente varie e legate
alla quantità di dati tracciata nel sistema.
23.6 Dettaglio indicatori
In questo paragrafo vengono evidenziati alcuni indicatori suggeriti per le attività di
monitoraggio, organizzati secondo la struttura degli ambiti, descritta in precedenza.
Ovviamente quanto segue deve essere considerato come una proposta di avvio in
quanto saranno gli attori stessi a esprimere man mano tramite intervento diretto o
tramite progetti di miglioramento continuo, esigenze in merito a nuovi indicatori o
nuove viste di analisi, così come a decidere eventuali filtri di estrazione per gli indicatori
presenti a sistema.
414
23.6.1 Descrizione dell'offerta
Intervento
Indicatore
Dimensioni di
analisi
Misure necessarie
Definizione delle
politiche
Interventi delle
istituzioni
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Nazionalità, ente
erogatore
risorse economiche,
numero utenti, durata
intervento
Politiche per la mobilità
Interventi per il
superamento delle
barriere architettoniche:
stanziamenti
Tipologia di intervento,
Territorio, Tempo
Risorse stanziate,
numero destinatari
potenziali
Sostegno alla famiglia
Facilità di accesso ai
servizi
Territorio, Tempo,
Tipologia di servizio
numero servizi
disponibili, popolazione
Strutture e enti erogatori
Erogatori per tipologia di
destinatario
Territorio, Tempo,
Tipologia di servizio,
struttura
capacità di erogazione
Strutture e enti erogatori
Enti erogatori per
tipologia di servizio
erogato
Territorio, Tempo,
Tipologia di servizio,
Struttura
capacità di erogazione
Strutture e enti erogatori
Connessione degli enti
Territorio, Tempo,
Struttura
Numero connessioni
formalizzate fra gli enti
Strutture e enti erogatori
Dimensione degli enti
Territorio, Tempo,
Struttura
Capacità ricettiva,
risorse ente
Strutture e enti erogatori
Copertura territoriale
Territorio, Tempo,
Struttura
numero di strutture
presenti sul territorio,
capacità delel strutture
Povertà economica
Risorse stanziate a
sostegno
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, tipologia di
erogazione
risorse erogate,
destinatari possibili
Povertà economica
Strutture a sostegno
della povertà economica
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, tipologia di
erogazione
Numero strutture,
capacità ricettiva
Assistenza domiciliare
Centri di assistenza
domiciliare
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Struttura
erogatrice
numero risorse, capacità
ricettiva
Assistenza domiciliare
Volontari per assistenza
domiciliare
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Struttura
erogatrice
numero risorse, capacità
ricettiva
Assistenza sanitaria
Centri di assistenza
sanitaria
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Struttura
erogatrice
numero risorse, capacità
ricettiva
Assistenza sociale
Strutture per assistenza
sociale
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Struttura
erogatrice
numero risorse, capacità
ricettiva
Assistenza sociale
Volontari per assistenza
sociale
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Struttura
erogatrice
numero risorse, capacità
ricettiva
Mercato e disponibilità
case
Disponibilità di abitazioni
convenzionate a lunga
durata
Territorio, Tempo
numero disponibilità
415
Intervento
Indicatore
Dimensioni di
analisi
Misure necessarie
Mercato e disponibilità
case
Disponibilità di abitazioni
convenzionate
temporanee
Territorio, Tempo
numero disponibilità
Mercato e disponibilità
case
Disponibilità di abitazioni
convenzionate per
soggetti a rischio
Territorio, Tempo
numero disponibilità
Mercato del lavoro
Disponibilità delle
aziende ad inserire
soggetti con svantaggio
Territorio, Tempo,
tipologia azienda,
tipologia soggetto
numero disponibilità
Mercato del lavoro
Incentivi per
l'inserimento delle
risorse con svantaggio
Territorio, Tempo,
tipologia azienda,
tipologia soggetto
risorse economiche
Istruzione e Formazione
insegnanti di sostegno e
supporto all'inserimento
scolastico
Territorio, Tempo,
tipologia scuola,
tipologia soggetto
risorse economiche
Istruzione e Formazione
Buono scuola
Territorio, Tempo,
tipologia scuola,
tipologia soggetto
risorse economiche
416
23.6.2 Identificazione del bisogno e delle politiche
Intervento
Indicatore
Dimensioni di
analisi
Misure necessarie
Definizione delle
politiche
Distribuzione delle
politiche attive
Territorio, Tempo,
intervento
numero di interventi
programmati, risorse
stanziate
Identificazione del
bisogno
numero richieste servizio
(bisogno esplicito)
Territorio, Tempo,
Struttura
numero richieste,
numero erogazioni,
costo previsto , costo
effettivo
Identificazione del
bisogno
numero segnalazioni
servizi sociali o sanitari
Territorio, Tempo,
Struttura
numero segnalazioni,
numero conversioni in
servizio
Identificazione del
bisogno
Aree rischio oggetto di
politiche
Territorio, Tempo,
intervento
indice complesso
Identificazione del
bisogno
Struttura delle
minoranze
Territorio, Tempo,
minoranza
numero popolazione
Istruzione e Formazione
Persone senza titolo
secondario
Territorio, Tempo, Età
numero popolazione
Istruzione e Formazione
Scolari con basse
competenze di lettura
Territorio, Tempo, Età,
Tipologia di scuola
numero popolazione
Mercato del lavoro
Tasso di attività
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Nazionalità
numero popolazione
Mercato del lavoro
Tasso di occupazione
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Nazionalità
numero popolazione
Mercato del lavoro
Tasso di disoccupazione
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Nazionalità
numero popolazione
Mercato del lavoro
Tasso di disoccupazione
di lunga durata
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Nazionalità
numero popolazione
Mercato del lavoro
Durata media
disoccupazione
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Nazionalità
numero popolazione
Mercato del lavoro
Tasso di inoccupazione
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Nazionalità
numero popolazione
Mercato del lavoro
Composizione della forza
lavorativa
Territorio , tempo,
sesso, età
numero popolazione
Mercato e disponibilità
case
Disponibilità di case e
mercato immobiliare
Territorio, Tempo
disponibilità di case in
affitto, affitto medio,
disponibilità case in
vendita, costo della casa
al metroquadro
Migrazioni
Tasso di immigrazione
Territorio , tempo,
sesso, età, nazionalità
numero popolazione
Migrazioni
Tasso di emigrazione
Territorio , tempo,
sesso, età, nazionalità
numero popolazione
Migrazioni
Composizione etnica
della popolazione
Territorio , tempo,
sesso, età, etnia
numero popolazione
417
Intervento
Indicatore
Dimensioni di
analisi
Misure necessarie
Migrazioni
Diffusione di minoranze
sul territorio
Territorio , tempo,
sesso, età, minoranza
numero popolazione
Migrazioni
Nazionalità
Territorio , tempo,
sesso, età, nazionalità
numero popolazione
Migrazioni
Cancellazioni anagrafica
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Nazionalità
numero popolazione
Migrazioni
Iscrizioni anagrafica
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Nazionalità
numero popolazione
Politiche per la mobilità
Richieste di sostegno
economico per l'acquisto
di protesi e ausili
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, tipologia di
protesi
Numero di richieste,
spesa sociale media
Povertà economica
Rischio di povertà
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Nazionalità
indice complesso
Povertà economica
Intensità della povertà
Territorio, Tempo
indice complesso
Povertà economica
Povertà relativa
Territorio, Tempo
Valore economico soglia
Povertà economica
Povertà assoluta
Territorio, Tempo
Valore economico soglia
Povertà economica
Spesa per consumi
Territorio, Tempo,
tipologia di consumo
valore economico speso
Povertà economica
Incidenza della povertà
relativa alla tipologia di
famiglia
Territorio, Tempo,
tipologia famiglia
indice complesso
Mercato e disponibilità
case
Provvedimenti di sfratto
Territorio, Tempo
Numero provvedimenti
di sfratto
Povertà economica
Occupazione
capofamiglia
Territorio, Tempo,
tipologia occupazione
numero popolazione
Territorio, Tempo
numero di occupati,
numero di componenti
famigliari, reddito medio
dei componenti della
famiglia
Povertà economica
Intensità del lavoro
nella famiglia
Povertà economica
Intensità del rischio di
povertà
Povertà economica
Popolazione a basso
reddito
Territorio, Tempo
numero popolazione
Povertà economica
Disuguaglianza
economica: rapporto tra
quinto più ricco al quinto
più povero
Territorio, Tempo
numero popolazione
Sostegno alla famiglia
Struttura del nucleo
famigliare
Territorio, Tempo,
nazionalità
dimensione del nucleo
famigliare
Struttura della
popolazione
Età media
Territorio , tempo,
sesso, condizione
lavorativa, nazionalità
numero popolazione
Struttura della
popolazione
Rapporto mascolinità
Territorio , tempo, età,
condizione lavorativa,
nazionalità
numero popolazione
indice complesso
418
Intervento
Indicatore
Dimensioni di
analisi
Misure necessarie
Struttura della
popolazione
Indice di vecchiaia
Territorio , tempo,
sesso, nazionalità
numero popolazione
Struttura della
popolazione
Indice invecchiamento
Territorio , tempo,
sesso, nazionalità
numero popolazione
Struttura della
popolazione
Indice di dipendenza
giovanile
Territorio , tempo,
sesso, età, nazionalità
numero popolazione
Struttura della
popolazione
Indice di dipendenza
degli anziani
Territorio , tempo,
sesso, età, nazionalità
numero popolazione
Struttura della
popolazione
Indice di struttura della
popolazione attiva
Territorio , tempo
numero popolazione
Struttura della
popolazione
Indice di ricambio della
popolazione in età attiva
Territorio , tempo
numero popolazione
Struttura della
popolazione
Quoziente
natalità/mortalità
Territorio , tempo,
sesso, nazionalità
numero popolazione
Struttura della
popolazione
Fecondità
Territorio , tempo,
sesso, età, nazionalità
numero popolazione
Assistenza sanitaria
Richieste di assistenza
Territorio, Tempo, Età,
Sesso
numero richieste,
numero utenti
Assistenza sociale
Richieste di assistenza
Territorio, Tempo, Età,
Sesso
numero richieste,
numero utenti
Assistenza domiciliare
Richieste di assistenza
Territorio, Tempo, Età,
Sesso
numero richieste,
numero utenti
419
23.6.3 Erogazione del servizio
Intervento
Indicatore
Dimensioni di
analisi
Misure necessarie
Assistenza domiciliare
Interventi di assistenza
domiciliare
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Struttura
erogatrice
Numero interventi
Assistenza domiciliare
Interventi di assistenza
domiciliare
infermieristica
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Struttura
erogatrice
Numero interventi
Assistenza domiciliare
Interventi di assistenza
domiciliare riabilitativa
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Struttura
erogatrice
Numero interventi
Assistenza domiciliare
Interventi di assistenza
domiciliare di pronto
intervento
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Struttura
erogatrice
Numero interventi
Assistenza domiciliare
Utenti serviti da
interventi di assistenza
domiciliare
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Struttura
erogatrice
Numero utenti
Assistenza domiciliare
Utenti serviti da
interventi di assistenza
domiciliare
infermieristica
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Struttura
erogatrice
Numero utenti
Assistenza domiciliare
Utenti serviti da
interventi di assistenza
domiciliare riabilitativa
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Struttura
erogatrice
Numero utenti
Assistenza domiciliare
Utenti serviti da
interventi di assistenza
domiciliare di pronto
intervento
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Struttura
erogatrice
Numero utenti
Assistenza sanitaria
Numero di prestazioni
sanitarie erogate
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Tipologia di
intervento Struttura
Numero prestazioni
Assistenza sanitaria
Numero di utenti serviti
per prestazioni sanitarie
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Tipologia di
intervento Struttura
Numero prestazioni
Assistenza sanitaria
Numero di ricoveri in
struttura effettuati
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Nazionalità,
Struttura
Numero di ricoveri
Assistenza sanitaria
Numero di utenti che
hanno subito un ricovero
in struttura
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Nazionalità,
Struttura
Numero di utenti
Assistenza sanitaria
Durata media in giorni
per ricovero in struttura
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Nazionalità,
Struttura
Durata del ricovero
Assistenza sociale
Minori in affido
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Nazionalità
numero popolazione,
durata affido, numero
affidi
420
Intervento
Indicatore
Dimensioni di
analisi
Misure necessarie
Assistenza sociale
Minori in adozione
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Nazionalità
numero popolazione,
durata adozione,
numero adozione
Assistenza sociale
Soggetti svantaggiati in
struttura di accoglienza
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Nazionalità,
tipologia di destinatario
numero popolazione,
durata permanenza,
numero servizi erogati
Assistenza sociale
Soggetti in carico ai
servizi sociali
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Nazionalità,
tipologia di destinatario
numero popolazione,
durata servizio
Erogazione di servizio
Numero di inserimenti in
percorso
Territorio, Tempo,
servizio, struttura
percorsi definiti
Erogazione di servizio
Durata media dei
percorsi erogati
Territorio, Tempo,
servizio, struttura
durata media percorsi
Erogazione di servizio
Servizi offerti sul
territorio
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Nazionalità, Tipo
di servizio, Tipologia di
Utenza
numero utenti, numero
servizi, tempo di
risposta, durata del
servizio
Istruzione e Formazione
Alunni inseriti nella
scuola
Territorio, Tempo, Età,
Tipologia di scuola
Numero di iscritti
Istruzione e Formazione
Alunni inseriti nella
formazione professionale
Territorio, Tempo, Età,
Tipologia di corso
Numero di iscritti
Migrazioni
interventi di mediazione
linguistica
Territorio, Tempo, tipo
intervento
numero destinatari,
numero interventi, costo
intervento
Mercato del lavoro
Inserimento lavorativo di
soggetti svantaggiati
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Nazionalità, tipo
iniziativa
numero inserimenti,
aziende coinvolte,
misurazione per esito
inserimenti
Mercato e disponibilità
case
Numero di inserimenti in
abitazioni convenzionate
Territorio, Tempo
disponibilità di case in
affitto, affitto medio,
disponibilità case in
vendita, costo della casa
al metroquadro
Mercato e disponibilità
case
Numero di utenti delle
abitazioni convenzionate
Territorio, Tempo
numero popolazione
Politiche per la mobilità
Interventi per il
superamento delle
barriere architettoniche:
erogazione
Tipologia di intervento,
Territorio, Tempo
Risorse erogate, numero
destinatari effettivi
Politiche per la mobilità
Interventi di
ristrutturazione per
superamento delle
barriere architettoniche
Tempo, territorio, fonte
di finanziamento
Valore economico e
numero interventi di
richiesta finanzamenti
per ristrutturazione
Politiche per la mobilità
Interventi di
ristrutturazione delle
barriere architettoniche
aziendali / istituzione
Tempo, territorio, fonte
di finanziamento
Valore economico e
numero interventi di
richiesta finanzamenti
per ristrutturazione
Politiche per la mobilità
Convenzione taxi o
trasporto privato
Tempo, territorio,
tipologia di destinatario
Numero utenti, numero
di servizi erogati
421
Intervento
Indicatore
Dimensioni di
analisi
Misure necessarie
Politiche per la mobilità
Servizi di trasporto
pubblico
Tempo, territorio,
tipologia di destinatario
Numero utenti, numero
di servizi erogati
Politiche per la mobilità
Erogazione di sostegno
economico per l'acquisto
di protesi e ausili
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, tipologia di
protesi
Numero di richieste,
spesa sociale media
Povertà economica
Richieste di assegni
sociali
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, tipologia di
erogazione
Assegni sociali erogati:
numero e importo
Povertà economica
Erogazione di assegni
sociali
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, tipologia di
erogazione
Assegni sociali erogati:
numero e importo
Sostegno alla famiglia
Numero di richieste di
permesso parentale
Territorio, Tempo, Età,
Sesso
Numero di richieste
Sostegno alla famiglia
Assegno famigliare
secondo figlio
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Nazionalità
numero richieste,
numero erogazioni,
valore richiesto, valore
erogato
Sostegno alla famiglia
Assegni di
accompagnamento
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Nazionalità,
intervento
numero richieste,
numero erogazioni,
valore richiesto, valore
erogato
Povertà economica
Erogazione di interventi
a sostegno di
popolazione a basso
reddito
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, tipologia di
erogazione
numero erogazioni e
importo medio
Mercato del lavoro
Incentivi per
l'inserimento delle
risorse con svantaggio
Territorio, Tempo,
tipologia azienda,
tipologia soggetto
numero erogazioni,
importo erogato
Struttura della
popolazione
Struttura della
popolazione beneficiaria
Territorio, Tempo, età,
sesso, nazionalità
numero popolazione
422
23.6.4 Efficienza economica e delle risorse
Intervento
Indicatore
Dimensioni di
analisi
Misure necessarie
Assistenza sanitaria
Incidenza dei ricoveri di
lunga durata
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Nazionalità,
Struttura
Numero di ricoveri per
un tempo superiore a X
giorni, numero di
ricoveri
Definizione delle
politiche
Intensità di
finanziamento per
tipologia di destinatario
Territorio, Tempo,
tipologia destinatario
indice complesso
Definizione delle
politiche
intensità di
finanziamento per
tipologia di servizio
Territorio, Tempo,
intervento
indice complesso
Erogazione di servizio
Capacità di spesa
Territorio, Tempo,
servizio
valore richiesto
finanziato, valore
rendicontato
Erogazione di servizio
Tasso di abbandono
Territorio, Tempo,
servizio, struttura
numero percorsi
abbandonati su numero
percorsi totali
Costo medio del servizio
erogato: quota
Strutture e enti erogatori
finanziata, quota
cofinanziata
Territorio, Tempo,
servizio, struttura
costo servizio finanziato,
costo servizio
cofinanziato
Strutture e enti erogatori
Spesa media per utente
servito
Territorio, Tempo,
servizio, struttura
numero utenti, spesa
erogazione
Strutture e enti erogatori
Soggetti serviti per
risorsa impiegata
Territorio, Tempo,
servizio, struttura
numero utenti, numero
risorse
Strutture e enti erogatori
Costo medio risorse
impiegate
Territorio, Tempo,
servizio, struttura
costo risorse, numero
risorse
Povertà economica
Capacità di erogazione
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, tipologia di
erogazione
risorse stanziate,
destinatari a preventivo,
numero erogazioni e
risorse stanziate
Mercato del lavoro
Incentivi per
l'inserimento delle
risorse con svantaggio
Territorio, Tempo,
tipologia azienda,
tipologia soggetto
importo a preventivo,
destinatari previsti,
numero erogazioni,
importo erogato
Istruzione e Formazione
Capacità di erogazione
del sostegno scolastico
Territorio, Tempo,
tipologia scuola,
tipologia soggetto
risorse economiche
prenotate, rendicontate
Istruzione e Formazione
Capacità di erogazione
del sostegno linguistico
Territorio, Tempo,
tipologia scuola,
tipologia soggetto
risorse economiche
prenotate, rendicontate
Migrazioni
Tasso di successo
dell'inserimento
scolastico
Territorio, Tempo,
tipologia scuola,
tipologia soggetto
allievi formati su
inserimenti
423
Intervento
Indicatore
Dimensioni di
analisi
Misure necessarie
Migrazioni
Tasso di successo
dell'inserimento
lavorativo
Territorio, Tempo,
tipologia scuola,
tipologia soggetto
numero di ingressi ,
numero cancellazioni
Politiche per la mobilità
Capacità di accedere alle
misure di sostegno
economico per l'acquisto
di protesi e ausili
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, tipologia di
protesi
richieste presentate,
richieste erogate, spesa
prevista, spesa erogata
Sostegno alla famiglia
Capacità di accedere alle
misure di sostegno
economico per la
famiglia
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, tipologia di
nucleo familiare
richieste presentate,
richieste erogate, spesa
prevista, spesa erogata
Mercato e disponibilità
case
Tasso di successo degli
inserimenti in abitazioni
convenzionate
Territorio, Tempo
inserimenti disponibili,
inserimenti previsti,
inserimenti fatti
Assistenza sociale
Volontari per assistenza
sociale
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Struttura
erogatrice
numero risorse
stanziate, rendicontate
Assistenza sanitaria
Capacità di impegno
delle risorse
Territorio, Tempo,
Struttura erogatrice
numero risorse
stanziate, rendicontate
Assistenza sociale
Capacità di impegno
delle risorse
Territorio, Tempo,
Struttura erogatrice
numero risorse
stanziate, rendicontate
Assistenza domiciliare
Capacità di impegno
delle risorse
Territorio, Tempo,
Struttura erogatrice
numero risorse
stanziate, rendicontate
424
23.6.5 Efficacia e permanenza del risultato
Indicatore
Dimensioni di
analisi
Misure necessarie
Assistenza sanitaria
Incidenza dei ricoveri
ripetuti entro 6 mesi
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Nazionalità,
Struttura
Numero di ricoveri per
utenti con più ricoveri,
numero di ricoveri con
utenti serviti intervallo
fra i ricoveri
Erogazione di servizio
Raggiungimento degli
obiettivi
Territorio, Tempo,
servizio, struttura
obiettivi raggiunti
Erogazione di servizio
Rientro in disagio
Territorio, Tempo
numero soggetti con
ripetizione di interventi a
distanza di X mesi
Istruzione e Formazione
Numero di studenti che
interrompono lo studio
in obbligo formativo
(dispersione scolastica)
Territorio, Tempo, Età,
Tipologia di scuola
numero popolazione
Istruzione e Formazione
Giovani con basso livello
di istruzione
Territorio, Tempo, Età
numero iscritti,
abbandoni, formati
Istruzione e Formazione
Tasso di successo
nell'istruzione
Territorio, Tempo, Età
numero iscritti,
abbandoni, formati
Istruzione e Formazione
Tasso di successo nella
formazione
Territorio, Tempo, Età
numero iscritti,
abbandoni, formati
Mercato del lavoro
Tasso di permanenza nel
mondo lavoro
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Nazionalità, tipo
contratti
durata contratti, numero
conversioni
Mercato del lavoro
Regolarizzazioni del
lavoro sommerso
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, Nazionalità
numero regolarizzazioni
Politiche per la mobilità
Capacità di spesa per le
politiche inerenti il
superamento delle
barriere architettoniche
Tipologia di intervento,
Territorio, Tempo
Risorse stanziate,
numero destinatari
potenziali, Risorse
erogate, numero
destinatari effettivi
Povertà economica
Tasso di soddisfazione
della domanda
Territorio, Tempo, Età,
Sesso, tipologia di
erogazione
richieste , numero
erogazioni
Definizione delle
politiche
Aderenza al risultato
Territorio, Tempo,
tipologia scuola,
tipologia soggetto
indicatore complesso
Mercato e disponibilità
case
Tasso di successo
dell'inserimento in
abitazioni a lunga
permanenza
Territorio, Tempo
Inserimenti con durata
superiore a X mesi
Assistenza sanitaria
Intervallo di tempo fra le
prestazioni (escluse
malattie croniche)
Territorio, Tempo, Età,
Sesso
intervallo medio
Intervento
425
Intervento
Indicatore
Dimensioni di
analisi
Misure necessarie
Assistenza sociale
Intervallo di tempo fra le
prestazioni (escluse
malattie croniche)
Territorio, Tempo, Età,
Sesso
intervallo medio
Assistenza domiciliare
Intervallo di tempo fra le
prestazioni (escluse
malattie croniche)
Territorio, Tempo, Età,
Sesso
intervallo medio
23.6.6 Indicatori di sistema
Gli indicatori di sistema sono indicatori che riguardano il grado di aggiornamento e la
ricchezza delle fonti. Servono a misurare le performance dell’osservatorio. Possono
permettere di trarre informazioni sulle fonti dati e sul grado di rappresentatività del
sistema.
Intervento
Indicatore
Dimensioni di
analisi
Misure necessarie
Fonte dati
Frequenza di
aggiornamento della
fonte
Tempo, Fonte
intervallo da ultimo
aggiornamento
Fonte dati
Indice di scarto delle
informazioni della fonte
Tempo, Fonte
numero dati importati,
numero dati scartati
Fonte dati
Quantità di dati acquisita
dalla fonte
Tempo, Fonte
numero dati importati
Fonte dati
influenza della fonte su
una vista di analisi
Tempo, Fonte, Viste
analisi
numero dati importati,
numero dati totali
23.6.7 Tabelle riepilogative degli indicatori
Tabella 18: Indicatori per ambito
426
Tabella 19:Indicatori per intervento
Tabella 20:Riepilogo distribuzione indicatori
427
23.7 Esempi di viste di analisi
Possiamo indicare in maniera assolutamente provvisoria e a solo titolo di esempio,
alcune possibili attribuzioni di indicatori a due diverse viste di analisi, quali soggetti
affetti da disabilità e minori in condizione di disagio. Questa esemplificazione non vuole
ambire a tracciare un quadro di indicatori che definiscano il monitoraggio o che
suggeriscano definizioni di sorta su queste tre categorie, volutamente in questa
accezione usate secondo il senso più generale della loro possibile definizione.
Tabella 21: Indicatori adattabili ai soggetti affetti da disabilità
Intervento:
Struttura della popolazione
Indicatori:
•
Età media
•
Indice di struttura della popolazione attiva
•
Rapporto mascolinità
•
•
Indice di vecchiaia
Indice di ricambio della popolazione in età
attiva
•
Indice invecchiamento
•
Quoziente natalità/mortalità
•
Indice di dipendenza giovanile
•
Struttura della popolazione beneficiaria
Indice di dipendenza degli anziani
•
Fecondità
•
Intervento:
•
numero richieste servizio (bisogno esplicito)
Intervento:
•
Identificazione del bisogno
numero segnalazioni servizi sociali o sanitari
Definizione delle politiche
Interventi delle istituzioni
Intervento:
•
Indicatori:
•
Indicatori:
Aderenza al risultato
Povertà economica
•
Richieste di assegni sociali
•
Erogazione di assegni sociali
•
•
Indicatori:
•
Incidenza della povertà relativa alla tipologia di
famiglia
Rischio di povertà
•
Intensità del lavoro nella famiglia
Intensità della povertà
•
Intensità del rischio di povertà
•
Spesa per consumi
•
Popolazione a basso reddito
•
Disuguaglianza economica: rapporto tra quinto •
più ricco al quinto più povero
•
•
Povertà relativa
Povertà assoluta
Occupazione capofamiglia
Intervento:
Sostegno alla famiglia
Indicatori:
•
Facilità di accesso ai servizi
•
Assegni di accompagnamento
•
Numero di richieste di permesso parentale
•
Struttura del nucleo famigliare
•
Assegno famigliare secondo figlio
•
Capacità di accedere alle misure di sostegno
economico per la famiglia
428
Intervento:
Assistenza sanitaria
Indicatori:
•
Numero di prestazioni sanitarie erogate
•
•
Numero di utenti serviti per prestazioni
sanitarie
Intervallo di tempo fra le prestazioni (escluse
malattie croniche)
•
Richieste di assistenza
•
Numero di ricoveri in struttura effettuati
•
Minori in affido
•
Numero di utenti che hanno subito un ricovero
in struttura
•
Minori in adozione
•
Soggetti svantaggiati in struttura di
accoglienza
•
Durata media in giorni per ricovero in struttura
•
Incidenza dei ricoveri ripetuti entro 6 mesi
•
Soggetti in carico ai servizi sociali
•
Incidenza dei ricoveri di lunga durata
•
•
Richieste di assistenza
Intervallo di tempo fra le prestazioni (escluse
malattie croniche)
Intervento:
•
Istruzione e formazione
Numero di studenti che interrompono lo studio
in obbligo formativo (dispersione scolastica)
Indicatori:
•
Scolari con basse competenze di lettura
•
insegnanti di sostegno e supporto
all'inserimento scolastico
•
Giovani con basso livello di istruzione
•
Tasso di successo nell'istruzione
•
Buono scuola
•
Tasso di successo nella formazione
•
Capacità di erogazione del sostegno scolastico
•
Alunni inseriti nella scuola
•
Capacità di erogazione del sostegno linguistico
•
Alunni inseriti nella formazione professionale
•
Persone senza titolo secondario
Intervento:
Mercato del lavoro
Indicatori:
•
Tasso di permanenza nel mondo lavoro
•
Tasso di disoccupazione di lunga durata
•
Regolarizzazioni del lavoro sommerso
•
Tasso di inoccupazione
•
Inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati
•
Composizione della forza lavorativa
•
Tasso di attività
•
•
Tasso di occupazione
Disponibilità delle aziende ad inserire soggetti
con svantaggio
•
Tasso di disoccupazione
•
•
Durata media disoccupazione
Incentivi per l'inserimento delle risorse con
svantaggio
Intervento:
Assistenza domiciliare
Indicatori:
•
Interventi di assistenza domiciliare
•
•
Interventi di assistenza domiciliare
infermieristica
Utenti serviti da interventi di assistenza
domiciliare infermieristica
•
•
Interventi di assistenza domiciliare riabilitativa
Utenti serviti da interventi di assistenza
domiciliare riabilitativa
•
Interventi di assistenza domiciliare di pronto
intervento
•
Utenti serviti da interventi di assistenza
domiciliare di pronto intervento
•
Utenti serviti da interventi di assistenza
domiciliare
•
Intervallo di tempo fra le prestazioni (escluse
malattie croniche)
•
Richieste di assistenza
Intervento:
Mercato e disponibilità case
•
Numero di inserimenti in abitazioni
convenzionate
•
Numero di utenti delle abitazioni
convenzionate
Indicatori:
•
Provvedimenti di sfratto
•
Disponibilità di abitazioni convenzionate per
soggetti a rischio
429
Intervento:
Erogazione di servizio
•
Tasso di abbandono
•
Rientro in disagio
Intervento:
•
Indicatori:
•
Politiche per la mobilità
Capacità di spesa per le politiche inerenti il
superamento delle barriere architettoniche
Servizi offerti sul territorio
Indicatori:
•
Servizi di trasporto pubblico
•
Richieste di sostegno economico per l'acquisto
di protesi e ausili
•
Interventi per il superamento delle barriere
architettoniche: erogazione
•
•
Interventi di ristrutturazione per superamento
delle barriere architettoniche
Interventi per il superamento delle barriere
architettoniche: stanziamenti
•
•
Interventi di ristrutturazione delle barriere
architettoniche aziendali / istituzione
Erogazione di sostegno economico per
l'acquisto di protesi e ausili
•
•
Convenzione taxi o trasporto privato
Capacità di accedere alle misure di sostegno
economico per l'acquisto di protesi e ausili
Intervento:
Strutture e enti erogatori
Erogatori per tipologia di destinatario
Indicatori:
430
Tabella 22: Minori in condizione di disagio
Intervento:
•
Struttura della popolazione
Indice di dipendenza giovanile
Intervento:
•
Indicatori:
Struttura della popolazione beneficiaria
Identificazione del bisogno
Indicatori:
•
numero richieste servizio (bisogno esplicito)
•
numero segnalazioni servizi sociali o sanitari
•
Struttura delle minoranze
•
Aree rischio oggetto di politiche
Intervento:
•
Interventi delle istituzioni
Intervento:
•
Aderenza al risultato
Povertà economica
Indicatori:
Erogazione di servizio
Tasso di abbandono
Intervento:
•
•
Indicatori:
Strutture a sostegno della povertà economica
Intervento:
•
Definizione delle politiche
Indicatori:
•
Rientro in disagio
Sostegno alla famiglia
Indicatori:
Struttura del nucleo famigliare
Intervento:
Assistenza sanitaria
Indicatori:
•
Numero di prestazioni sanitarie erogate
•
Numero di utenti serviti per prestazioni sanitarie •
Incidenza dei ricoveri ripetuti entro 6 mesi
•
Numero di ricoveri in struttura effettuati
•
Incidenza dei ricoveri di lunga durata
•
Numero di utenti che hanno subito un ricovero
in struttura
•
Centri di assistenza sanitaria
•
•
Richieste di assistenza
Intervallo di tempo fra le prestazioni (escluse
malattie croniche)
Intervento:
•
Durata media in giorni per ricovero in struttura
Istruzione e formazione
•
Numero di studenti che interrompono lo studio
in obbligo formativo (dispersione scolastica)
•
Giovani con basso livello di istruzione
•
•
Indicatori:
•
Scolari con basse competenze di lettura
•
insegnanti di sostegno e supporto
all'inserimento scolastico
Tasso di successo nell'istruzione
•
Buono scuola
Tasso di successo nella formazione
•
Capacità di erogazione del sostegno scolastico
•
Alunni inseriti nella scuola
•
Capacità di erogazione del sostegno linguistico
•
Alunni inseriti nella formazione professionale
•
Persone senza titolo secondario
Intervento:
Mercato del lavoro
•
Inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati
•
Disponibilità delle aziende ad inserire soggetti
con svantaggio
Indicatori:
•
Incentivi per l'inserimento delle risorse con
svantaggio
431
Intervento:
Assistenza Sociale
Indicatori:
•
Minori in affido
•
•
Minori in adozione
•
Volontari per assistenza sociale
•
Soggetti svantaggiati in struttura di accoglienza
•
•
Soggetti in carico ai servizi sociali
Intervallo di tempo fra le prestazioni (escluse
malattie croniche)
•
Strutture per assistenza sociale
•
Richieste di assistenza
Intervento:
Volontari per assistenza sociale
Migrazioni
Indicatori:
•
interventi di mediazione linguistica
•
Nazionalità
•
Tasso di immigrazione
•
Cancellazioni anagrafica
•
Tasso di emigrazione
•
Iscrizioni anagrafica
•
Composizione etnica della popolazione
•
Tasso di successo dell'inserimento scolastico
•
Diffusione di minoranze sul territorio
Intervento:
Assistenza domiciliare
Indicatori:
•
Interventi di assistenza domiciliare
•
•
Interventi di assistenza domiciliare
infermieristica
Utenti serviti da interventi di assistenza
domiciliare riabilitativa
•
Utenti serviti da interventi di assistenza
domiciliare di pronto intervento
Centri di assistenza domiciliare
•
Interventi di assistenza domiciliare riabilitativa
•
Interventi di assistenza domiciliare di pronto
intervento
•
•
Volontari per assistenza domiciliare
•
Utenti serviti da interventi di assistenza
domiciliare
•
Intervallo di tempo fra le prestazioni (escluse
malattie croniche)
•
Utenti serviti da interventi di assistenza
domiciliare infermieristica
•
Richieste di assistenza
Intervento:
•
Mercato e disponibilità case
Disponibilità di abitazioni convenzionate per soggetti a rischio
Indicatori:
432
Bibliografia
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434
435
PARTE QUINTA
Conclusioni
A cura di:
Simone Cerlini, Dario Odifreddi, Elena Ragazzi
436
24.
Povertà in Lazio: conclusioni sulla natura del fenomeno
e sulle politiche di intervento a livello territoriale
24.1 Tendenze forti di scenario
Le tendenze evolutive del nostro Paese mostrano un quadro in cui assumono centralità
alcuni fenomeni quali il calo demografico, l’invecchiamento della popolazione e i flussi
migratori in entrata. Tali elementi di scenario, già da tempo sotto osservazione da
parte degli analisti, fanno prevedere l’esplosione dei costi della previdenza e della
sanità da un lato e il nascere di tensioni sociali dall’altro. Le tensioni sociali saranno
motivate da un mix di cause come ben evidenzia ad esempio l’analisi dei fenomeni
migratori; all’elemento di marginalizzazione dei migranti verso nicchie di lavoro a bassa
qualifica, si uniranno difficoltà di integrazione linguistica e culturale, quando non veri e
propri fenomeni di razzismo e xenofobia. Se si vuole affrontare il fenomeno prima che
possa investire il paese del suo potenziale destabilizzante, è necessario individuare le
cause profonde che rendono rischiosa la situazione.
L’analisi del fenomeno dell’esclusione sociale mette in evidenza che il principio di
origine delle situazioni di svantaggio è rintracciabile in una condizione che è stata
chiamata “vulnerabilità”, o “fragilità”. Tale condizione fa riferimento a fattori personali,
come la situazione sanitaria, il tessuto di relazioni della persona - come la famiglia di
origine quando diventa elemento di disagio e non risorsa - a fattori socio economici e
culturali. Affrontare il problema della “vulnerabilità” significa attivare la persona perché
trovi la forza, le energie, e la motivazione per un approccio proattivo alla vita. Significa
inoltre mobilitare le risorse, personali e sociali, della persona, per permetterle di
intraprendere un percorso verso l’autosufficienza e l’autonomia. Proprio in conseguenza
di questa multidimensionalità non è pensabile affrontare tali fenomeni con un
approccio rigido di tipo verticale in cui si pensi a politiche rivolte in modo schematico a
“tipizzazione” di soggetti (l’immigrato, l’anziano, etc).
Le molteplici dimensioni del fenomeno hanno condotto le programmazioni regionali a
porre come obiettivo prioritario la creazione di sistemi integrati di servizi sociali per
437
dare una risposta complessiva ai bisogni delle persone. Negli ultimi anni inoltre è
sempre più evidente una consapevolezza non solo da parte degli operatori, ma anche
nel legislatore, del ruolo fondamentale dell’educazione come strumento per dotare
l’individuo di risorse psicosociali e professionali fondamentali per affrontare una vita
responsabile e attiva. Il ruolo dell’educazione si declina in due direzioni fondamentali:
la centralità della famiglia da un lato, e del sistema di istruzione e formazione dall’altro.
La famiglia è vista come luogo fondamentale per il lavoro di cura nei confronti dei
minori e degli anziani, nonché come l’istituto fondamentale per la rete sociale
dell’individuo. Il sistema istruzione e formazione è inteso sempre più come uno
strumento potente di inclusione sociale, in quanto è significativa la correlazione tra
scolarizzazione e inserimento lavorativo, ma anche tra scolarizzazione e livelli di
reddito. Investire nella famiglia e nel sistema istruzione e formazione è dunque una
strategia preventiva che sembra risultare tra le più efficaci per combattere alla radice il
fenomeno dell’esclusione sociale. E’ prevedibile che le sfide poste dalla società della
conoscenza, e la indicazioni strategiche a tutti i livelli di governo in merito al ruolo della
famiglia e della scuola, rendano l’approccio preventivo non più soltanto dichiarazione
programmatica, ma area di investimento e azione operativa. Ugualmente rilevante è
tale tematica in ambito socio sanitario. La promozione della salute, molto più che la
cura della malattia, sembra essere la via principale per ridurre i costi del sistema
sanitario e prolungare la vita attiva dei lavoratori. L’approccio preventivo dovrà dunque
diventare il fulcro delle strategie adottate per affrontare i problemi che ci pone il nostro
prossimo futuro.
Una seconda importante tendenza evolutiva riguarda il cambiamento del welfare in
direzione di uno spostamento dei servizi dal pubblico al privato secondo un processo di
sussidiarietà orizzontale, che conduce ad un cambiamento di ruolo dell’attore pubblico:
da erogatore a garante degli standard di servizio. Particolarmente rilevante appare in
Italia, anche in virtù di una lunga tradizione storica, il ruolo del terzo settore, delle
organizzazioni non profit, del mondo dell’economia civile; si è assistito negli ultimi venti
anni ad una crescita tumultuosa di questi soggetti come numero di organizzazioni,
come addetti, come fatturato. Il mondo del non profit è attivo in diversi settori, dalla
cultura allo sport, ma certamente nell’ambito dei servizi sociali esso trova le migliori
energie, una grande motivazione ed esperienze di grande rilevanza, in particolare per
l’impatto sociale e per i risultati con i singoli beneficiari dei servizi.
438
Sebbene l’Italia sconti ritardi rispetto ai paesi anglosassoni, anche il mondo for profit è
destinato a giocare un ruolo importante nell’erogazione di servizi di pubblica utilità, sia
laddove la tipologia del servizio permette di generare utili, sia nell’ambito di una
crescente consapevolezza della responsabilità sociale dell’impresa.
L’intersezione tra attori pubblici, privati e del privato sociale per l’erogazione di servizi
sociali, sanitari, culturali, nella logica del welfare mix, è una strada che l’Italia sta
iniziando a percorrere con maggior decisione, anche costretta da congiunture
macroeconomiche. La stessa attività del legislatore che ha creato l’istituzione
dell’”impresa sociale”, nella perfettibilità della normativa, testimonia di questa
direzione.
Una terza tendenza evolutiva è l’ingresso del capitale privato nel finanziamento delle
attività sociali. Esistono diverse ragioni per tale processo, non ultima la necessità da
parte dell’attore pubblico di attrarre capitale per dare continuità e garantire
l’erogazione di servizi in una congiuntura di contrazione delle risorse. Per queste
ragioni il legislatore ha operato attraverso diversi strumenti (cinque per mille, “più dai
meno versi”) per favorire una cultura delle donazioni liberali, che oggi vedono ancora
come attore fondamentale le fondazioni grant making, in particolare di origine
bancaria. La crescita del mondo dell’associazionismo e del volontariato d’altra parte fa
prevedere l’innesco di meccanismi di concorrenza tra organismi non profit per le
raccolte di fondi da privati, promuovendo l’adozione di strumenti di trasparenza e di
maggiore comunicazione delle attività da parte di tutti gli attori, non ultimo l’attore
pubblico.
Se il capitale privato è origine di percorsi di trasparenza nel mondo del non profit, la
pubblica amministrazione deve fare fronte a processi analoghi, anche in ragione della
sempre maggiore esigenza di controllo da parte del cittadino contribuente e anche
della necessità di dare conto del proprio operato a fronte di problemi di efficienza. In
questa direzione si è mossa L’Unione Europea da un lato e i governi nazionali dall’altro.
L’evoluzione delle tecnologie dell’informazione hanno diretto impatto su queste
dinamiche, in quanto permettono di rendere efficace la comunicazione tra PA e
cittadini, tra PA e operatori dei servizi, anche privati, sul territorio. Il cambiamento della
tecnologia in direzione di sistemi sempre più fondati sulle reti informatiche consente
oggi di incrociare più agevolmente dati provenienti da diverse fonti e d’altra parte
439
consente di creare sistemi di dialogo per rendere realmente efficaci le reti di sevizio,
che possono dunque valorizzare la capillarità sul territorio e la molteplicità dell’offerta.
24.2 La definizione del fenomeno
La definizione del fenomeno della povertà ha recentemente acquisito un peso
crescente all’interno della letteratura sulle problematiche sociali. Alcuni fenomeni di
cambiamento nel tessuto sociale, come l’ulteriore sgretolamento del ruolo della
famiglia, l’invecchiamento della popolazione, il venir meno delle sicurezze legate al
mercato del lavoro, le spinte migratorie, la diffusione di nuove sostanze stupefacenti,
ecc., hanno infatti introdotto nuovi fattori di rischio che minano la sicurezza economica
e il ruolo sociale di gruppi di individui o di famiglie precedentemente escluse dalle
casistiche più diffuse di soggetti deboli. A questo variegato, e non ben definito, nuovo
gruppo è stato dato il nome di “nuovi poveri”, quasi che si possa distinguere fra
antiche e moderne forme di povertà.
Al contrario, l’attribuzione dello stato di povertà continua ad essere determinabile in
modo piuttosto semplice incrociando le informazioni sul reddito e sulla capacità di
consumo, al limite integrate da altri fattori quali età, stato di salute, possesso di una
casa di proprietà. Le forme di povertà restano infatti più o meno le stesse. Nuova è la
diffusione di casi che prima erano sporadici.
Le nuove definizioni di povertà fanno spesso riferimento a fattori più soggettivi, come
nel caso del concetto proposto da Amartya Sen e basato sulla nozione di entitlement,
ovvero su ciò che le persone sono in grado di fare ed essere in un certo contesto
sociale, o come il concetto di povertà soggettiva, basato sulla percezione individuale
del proprio stato, e dunque estremamente sensibile ai confronti temporali o con altri
soggetti. Ma resta il fatto che tali definizioni più raffinate possono essere prese in
considerazione nel momento di stabilire le soglie di povertà in un dato contesto
territoriale e in un dato periodo, mentre poi a livello individuale si ricadrà sulla verifica
di condizioni che caratterizzano la sussistenza della persona in relazione a tali soglie.
La scelta di un sistema di definizione della condizione di povertà, o di rischio, è
tutt’altro che una questione accademica. Nell’attuale inquadramento normativo accade
infatti sovente che soggetti che versano in situazioni di seria difficoltà non possano
440
beneficiare di progetti di intervento, in quanto non compresi nella lista delle categorie
ammissibili. La definizione classificatoria delle categorie di svantaggio finisce
inevitabilmente per essere sorpassata dall’evoluzione dei fenomeni, traducendosi in
dinamiche discriminatorie. Per evitare tale rischio, le liste di categorie dovrebbero
rappresentare
una
sorta
di
indicazione
di
priorità100,
mentre
la
definizione
dell’ammissibilità dovrebbe essere basata sull’incrocio di più variabili trasversali che
identifichino i fattori di rischio e di svantaggio e tratteggino un’area grigia di
vulnerabilità da monitorare al fine di evidenziare le nuove povertà. Il problema è
diagnosticare per tempo i bisogni in ascesa, per poterli affrontare quando non siano
ancora assurti al ruolo di emergenza, continuando però ad agire anche sugli ambiti
tradizionali. Il rischio è, infatti, è quello di trascurare il fatto che la povertà economica
tradizionale permane nella nostra società e si cumula con altre forme di difficoltà che in
parte ne sono conseguenza e in parte causa.
Poiché l’approccio definitorio trasversale sopra descritto risulta piuttosto oneroso in
termini di analisi e certificazione, l’alternativa è un approccio elastico bottom-up, in cui
la definizione e l’aggiornamento delle definizioni avvenga valorizzando le segnalazioni
di chi quotidianamente è a contatto con la realtà del disagio economico ed umano.
24.3 Osservare la povertà
Le politiche di contrasto alla povertà nascono come risposta al bisogno delle fasce di
popolazione svantaggiate. E’ dunque inconcepibile pensare di poter definire gli
strumenti dell’intervento a prescindere da un’osservazione umile e attenta della realtà.
Ma la conoscenza dei fenomeni, soprattutto quelli emergenti e legati a caratteristiche
più soggettive che oggettive, richiede una notevole prossimità facendo, al limite,
dell’esperienza una condizione necessaria per la comprensione. E’ quindi possibile dire
100
Non si sottovaluti però il fatto che anche una lista di priorità rappresenta una forma di
classificazione, operazione particolarmente delicata quando la classifica sia fra l’urgenza del
bisogno di persone concrete! Una tale operazione non rappresenta dunque più soltanto l’esito di
un’analisi tecnica, ma rientra nelle opzioni politiche e come tale deve essere trattata.
441
che in prima istanza il patrimonio di conoscenza risieda nella base di operatori pubblici
e privati che agiscono nel campo del disagio. Tale patrimonio prezioso non è
sostituibile dall’arguta opinione di alcun “esperto”, ma ha il difetto di essere
difficilmente comunicabile a chi non condivida l’esperienza che lo ha generato. Uno dei
compiti primari, e certo ardui, di un osservatorio sulla povertà dovrebbe risiedere nel
trasformare questa massa di conoscenze tacite e non sistematiche in informazioni
ordinate e fruibili da tutti gli interessati. Contrariamente allo stereotipo che vede in
ogni osservatorio un discepolo (e cliente) dell’Istat, nel campo del disagio e
dell’esclusione sociale esso dovrà adottare metodi che gli permettano di giocare il ruolo
di “collettore di istanze” e di “traduttore di esperienze in conoscenze”. L’opera è ardua,
in quanto estremamente innovativa, ma non impossibile quando l’osservatorio non sia
concepito come punto di osservazione distaccata, ma come uno snodo cruciale della
rete di intervento sul territorio. D’altronde, i progressi nell’informatica consentono di
sperimentare tecniche sempre più sofisticate nell’analisi dei testi e dei dati qualitativi.
Ma anche senza arrivare ad impiegare tecnologie di elaborazione complesse, le
informazioni, qualitative e quantitative, che provengono dalla base operativa possono
facilmente divenire una fonte di analisi strutturata qualora venga concepito un sistema
che raccolga e coordini gli input attraverso le seguenti attività sull’informazione
ricevuta:
- verifica della qualità e dell’affidabilità, anche attraverso controlli incrociati su più
fonti;
- classificazione;
- coordinamento delle informazioni provenienti da fonti diverse in modo che
divengano confrontabili e aggregabili;
- messa in rete, circolazione e diffusione dei risultati;
- stimolo alla produzione di informazione complementare per i casi di conoscenza
incompleta.
Quando si parla di informazioni da raccogliere, l’immaginazione va sempre ai dati
quantitativi (quanti poveri divisi per tipo, sesso, zona...). Misurare i fenomeni, invece,
non serve più di tanto, ma serve identificarli e conoscerli. L’indicazione quantitativa ha
infatti nel campo dell’esclusione sociale una portata particolarmente limitata, perché
non è affatto detto che i fenomeni più diffusi siano anche i più gravi ed urgenti. Una
442
misurazione dei fenomeni può essere strumentale alla quantificazione delle risorse
necessarie per portare a termine una certa tipologia di interventi, ma non ha molto
rilievo nel momento della loro identificazione e definizione. Per questi motivi le
informazioni qualitative finiscono per essere le più preziose, soprattutto nell’ambito
delle nuove povertà. Dunque l’osservatorio non si appoggerà solo sulle banche dati
(prodotte da terzi o internamente attraverso la rete), ma anche forum di discussione,
da cui coagulare informazioni sulle frontiere: le frontiere del bisogno e le frontiere nelle
risposte. Certo, nessuno spazio di discussione reale funziona senza un “provocatore” e
senza una piazza animata e affollata. Occorre un responsabile che individui le
tematiche emergenti e le rilanci al dibattito complessivo, e occorre un contatto reale
con la rete degli interlocutori competenti.
Inoltre ogni “piazza” è frequentata perché essa suscita un’attrattiva, ha qualcosa di
interessante da comunicare, ci permette di avere qualcosa, tangibile o intangibile,
monetario o non pecuniario, che non potremmo avere da soli. In tal senso occorre
rendere appetibile la “piazza”, chi è invitato a parteciparvi deve in altri termini
ricavarne un’utilità. Il discorso è tutt’altro che accademico, basti pensare alle difficoltà
in cui si imbatte una delle piazze teoricamente più innovative a cui si è pensato negli
ultimi anni che è la “Borsa Lavoro”. Essa è nata per facilitare l’incontro tra la domanda
e l’offerta che, come è noto, nel nostro paese è caratterizzata per elevati livelli di
vischiosità. Le difficoltà nel divenire operativa dipendono dal fatto che gli operatori
maggiormente interessanti per il suo funzionamento (gli sportelli lavoro, le società di
lavoro temporaneo, le “community” di settore), non hanno trovato a tutt’oggi un
adeguata convenienza a farne a parte e ad investire risorse di tempo ed economiche
su di essa.
24.4 Intervenire sulla povertà
In questo lungo percorso, che dall’analisi del quadro di contesto ci ha portato a
proporre un modello di intervento sul territorio (l’agenzia sociale) e un modello di
funzionamento per un osservatorio sulla povertà, vi sono alcune indicazioni ricorrenti,
che sembrano convergere verso alcuni punti forti i quali, a loro volta devono informare
di sé la progettazione degli strumenti operativi: la necessità di politiche integrate per
affrontare un fenomeno multidimensionale, il ruolo privilegiato dell’inserimento
443
lavorativo
come
strumento
per
contrastare
l’esclusione
sociale,
l’importanza
dell’approccio preventivo e, infine, il ruolo centrale delle reti.
24.4.1 L’integrazione delle politiche
Nel campo dell’inclusione sociale, l’integrazione delle politiche è richiamata come
obiettivo prioritario dalla nuova programmazione, quale elemento che principalmente è
in grado di garantire l’efficacia e l’innovatività dell’azione contro povertà ed esclusione.
Tale indicazione è stata pienamente recepita dal nuovo POR del Lazio. E’, se vogliamo,
confortante che alla stessa conclusione si giunga top down (come direttiva comunitaria
recepita ai diversi livelli programmatici) e bottom up (come esigenza emergente
affrontando la povertà): per risolvere il problema della povertà occorre intervenire
contemporaneamente su più fronti, unendo competenze umane e soggetti diversi. Di
fronte a cotanta evidenza non resta che investire sull’integrazione delle competenze e
sulla messa in rete di azioni e informazioni. Il primo passo, accennato al paragrafo
precedente, è proprio quella dell’integrazione delle informazioni, ponendo in comune,
attraverso lo strumento informatico dell’osservatorio, l’ampio ma frammentato
patrimonio di dati sulle variabili rilevanti per spiegare il fenomeno. Da qui, il cammino
deve proseguire con la programmazione congiunta degli interventi e delle politiche,
fino ad arrivare a sistemi che prevedano la presa in carico unitaria dell’individuo con
tutte le sue problematiche, ricorrendo indirettamente o in seconda istanza ai servizi
specializzati che si rivelino necessari. Proprio la presa in carico del soggetto a rischio di
povertà o esclusione sociale rappresenta il cardine di tutto quanto è stato descritto nel
presente volume. Il soggetto debole infatti non è capace autonomamente di
rapportarsi a un complesso sistema di politiche di supporto, anche laddove esso
dovesse migliorare significativamente in termini di integrazione; le asimmetrie
informative sono spesso barriera insuperabile per il singolo, esse possono essere
affrontate solo da chi, attraverso l’esperienza continuativa nel tempo, è in grado di
accumulare stock di competenze e conoscenze tali da individuare un paniere di
strumenti da utilizzare. Inoltre le difficoltà del singolo sono connesse anche al suo stato
di disagio e vulnerabilità che spesso lo rende incapace di muoversi autonomamente
nella direzione della soluzione del proprio problema.
In tal senso appare utile la proposta, illustrata in questo volume, di Agenzia Sociale. Un
sistema integrato di servizi che diventi per la Regione Lazio un punto avanzato di
444
innovazione nella strutturazione del welfare regionale che si fonda su tre principi
cardine: la valorizzazione delle reti presenti in Regione, la presa in carico della persona
in riposta alle diverse tipologie di bisogno, e la promozione di un atteggiamento
proattivo. Il veicolo fondamentale è l’attivazione di una rete di punti di contatto,
capillari e riconoscibili, con l’obiettivo di intercettare i potenziali beneficiari e farsi carico
dei loro bisogni di varia natura. La strategia più efficace è valorizzare il tessuto di realtà
pubbliche e private del territorio, gli operatori del privato sociale e dei servizi comunali
che già hanno contatto diretto con le persone in stato di bisogno. Il “punto di contatto”
rispetta le condizioni per l’accreditamento stabilite a livello regionale, e mette in
comune le proprie informazioni, d’altra parte accede a linee di finanziamento ad hoc
per l’erogazione dei servizi. Fare parte della rete è un valore aggiunto in quanto ha
effetto moltiplicatore sull’efficacia degli interventi. Una tale rete territoriale, gestita a
livello di Distretto, prevede una struttura di monitoraggio e controllo, responsabile dei
processi di accreditamento e misurazione della performance: l’Agenzia Sociale appunto.
Essa conta su un sistema informativo capace di raccogliere i dati provenienti dal
sistema sanitario, dai centri per l’impiego, dai comuni, dai punti di contatto. Il sistema
di accreditamento prevede alcuni punti fondamentali comuni ai punti di contatto, in
riferimento alla disponibilità minima di strutture (ufficio e stanza separata per i
colloqui), alla presenza di figure professionali specifiche, alle competenze degli
operatori e alle procedure di presa in carico della persona. La governance proposta
prevede dunque un livello centrale ove si definiscono gli standard di qualità e si
garantisce il coordinamento e la condivisione delle informazioni, lasciando ai nodi della
rete le competenze e le scelte in merito alla gestione e all’erogazione dei servizi. Il
terzo elemento fondamentale del modello è la responsabilizzazione dell’individuo, resa
possibile dall’interazione tra i diversi servizi e dunque dalla possibilità dell’utente di
fruire di diversi benefit. Tali vantaggi sono vincolati alla collaborazione della persona
nel seguire percorsi di inclusione sociale e inserimento lavorativo, in modo che la
fruizione del diritto, ove possibile, sia legata alla riattivazione verso il lavoro.
24.4.2 L’inserimento lavorativo
La via privilegiata per l’inclusione sociale dei soggetti in età attiva risiede nel favorire il
primo inserimento o il reinserimento lavorativo degli individui a rischio di esclusione;
questo non solo per l’effetto diretto di ridurre il disagio economico, ma per le
445
implicazioni umane a un livello sia sociale sia psicologico. Infatti, il lavoro è uno
strumento fondamentale per la cittadinanza attiva e per l’affermazione della propria
dignità e identità nel proprio mondo sociale: esso permette di strutturare e organizzare
il tempo, facilita i contatti sociali, contribuisce a definire la personalità e il ruolo sociale
della persona e in ultima istanza fornisce uno scopo alla vita stessa.
Per questa serie di motivi, le politiche di sostegno all’inserimento lavorativo sono tra le
più importanti da mettere in atto. In tale ambito sono apprezzabili gli sforzi fatti nel
nostro Paese negli ultimi anni a partire dalla c.d. legge Treu sino alla più recente
Legge Biagi per rendere più flessibile, ma anche più semplice l’accesso al lavoro. Tali
iniziative però scontano due limiti importanti.
Il primo è la ridotta presenza di misure di protezione sociale (i c.d. ammortizzatori
sociali) che ha reso più precarie molte posizioni, soprattutto per i più giovani. Occorre
in questo senso attivare rapidamente un nuovo sistema della tutele che accompagni i
lavoratori, soprattutto quelli più esposti, nel nuovo mondo post fordista in cui non vi è
più il posto fisso, ma uno scenario che apre a un per-corso lavorativo che richiede
capacità di adattamento elevate e competenze e conoscenze continuamente
aggiornate. In questa logica occorre che le politiche di accompagnamento chiamino in
causa anche il lavoratore secondo la logica di una responsabilità attiva; per questo
politiche quali il sostegno al reddito o peggio il salario minimo garantito paiono
superate se non per casi molto specifici e per periodi transitori.
Il secondo limite è più radicale e decisivo. Il meccanismo che mette insieme maggiori
libertà contrattuali e tutele è fondato su uno schema di welfare in cui si fa riferimento a
un mix di politiche liberali e laburiste; uno schema che in varie forme è attuato nei
paesi maggiormente sviluppati. Oggi però anche questa impostazione pare essere
superata; si sente la necessità di muoversi verso una politica economica e sociale
incentrata sui criteri di sussidiarietà e solidarietà. Il lavoro non va inteso come una
prestazione funzionale, ma sempre più come una relazione sociale fra due o più attori.
In tal senso il tema dell’inserimento lavorativo porta con sé il ripensamento delle tutele
che non sono solo di carattere monetario, ma sono anche quelle che permettono di
migliorare le relazioni sociali a cui l’individuo tiene di più (in tal senso gli asili nido e le
altre misure per conciliare vita lavorativa e vita famigliare sono strumenti del nuovo
welfare).
446
D’altra parte l’attenta osservazione dell’inserimento lavorativo dei soggetti più
vulnerabili mette proprio in luce che il fattore più rilevante, soprattutto in termini di
tenuta, è legato ad aspetti di tipo motivazionale e al contesto in cui il lavoro si esplica.
24.4.3 L’approccio preventivo
Un altro elemento caratterizzante l’impostazione della proposta qui contenuta
è
connesso all’approccio preventivo, nella convinzione che esso rappresenti la prima
azione da mettere in campo in tema di politiche inclusive. Tale approccio non solo è
socialmente rilevante, ma lo è anche dal punto di vista economico, il costo infatti delle
azioni indirizzate a combattere situazioni in cui la situazione di povertà o certe
patologie sono ormai conclamate è enormemente più alto e i tassi di successo delle
relative azioni sono più modesti (si pensi ai fenomeni di recidiva dei carcerati, piuttosto
che alle dipendenze dalla droga o dall’alcool). Nel campo del disagio l’approccio
preventivo si deve tradurre in un monitoraggio e un intervento in favore delle fasce di
vulnerabilità, caratterizzate da condizioni di sussistenza non particolarmente gravi, ma
dalla presenza contemporanea e convergente di fattori di rischio che dinamicamente si
traducono in uno scivolo insidioso verso situazioni cronicizzate.
Proprio la consapevolezza del valore di questo tipo di approccio ci ha condotto nella
parte terza di questo volume a sottolineare il valore emblematico di alcune buoni prassi
poste in essere da diversi soggetti del c.d. privato sociale. Il tentativo che si è fatto e
che riteniamo essere una delle strade maestre per la definizione delle politiche è stato
quello non solo di raccontare tali esperienze e di evidenziarne i risultati in termini di
efficacia (capacità di risposta al bisogno) e di efficienza (risparmio netto generato per
la collettività), ma soprattutto di farne emergere il valore di modello e quindi la
possibilità della sua replicabilità su grande scala.
Una delle possibili obiezione all’approccio preventivo risiede nella rilevanza dei costi ad
esso connessi e nella difficoltà di colpire la popolazione bersaglio. Ma tale obiezione
sconta la non conoscenza del valore che spesso queste iniziative generano in termini
addizionali (si pensi al fatto che oggi le stime dei maggiori studiosi di sistemi educativi
prevedono che un anno aggiuntivo di istruzione e formazione può condurre a
incrementi del PIL che vanno dal 3% all’8%) e di minori costi per la diminuzione del
cronicizzarsi delle situazioni di esclusione sociale (un detenuto costa 100.000 euro
all’anno alla pubblica amministrazione e i tossicodipendenti sono costati 10,5 milioni di
447
euro allo collettività nel 2006).
24.4.4 Il valore delle reti
L’ultimo elemento che accomuna le varie parti della proposta è legato al valore delle
reti. La multidimensionalità che caratterizza i fenomeni connessi alla povertà non può
essere affrontata senza una chiara scelta nella direzione della valorizzazione delle reti.
Le reti degli operatori del sociale, ma anche quella dei diversi organismi pubblici.
Impostare una linea di intervento sul ruolo della collaborazione fra pubbliche
amministrazioni e privato sociale implica però anche porre le condizioni per un pieno
funzionamento dell’operato dei singoli e della suddetta collaborazione. Condizione
primaria è l’adeguamento della normativa che regola l’azione del terzo settore; in tale
direzione sono stati fatti molti passi, ma permangono punti scoperti e gravi
incongruenze che spesso paralizzano lo sviluppo di tali enti, sia in termini dimensionali,
sia di azione più strutturata, manageriale e trasparente.
Un’altra condizione perché una rete di reti possa funzionare è che essa si appoggi a
realtà già consolidate. Troppo spesso vengono create partnership improvvisate,
suggellate solo dalla necessità contingente di trovare risorse complementari o di
rispondere a un’esplicita obbligazione prevista dalla messa a disposizione di risorse
economiche tramite la tradizionale messa a gara attraverso un bando. Tali
apparentamenti non sono in grado né di garantire una corretta funzionalità di un
sistema decentrato, né di reggere l’impatto delle inevitabili spinte opportunistiche. Il
privato sociale laziale, e dell’Italia in genere, è al contrario ricco di esperienze
consolidate, in cui il fattore ideale è contemporaneamente il fattore che garantisce
l’azione unitaria in assenza di forte coordinamento, e lo stimolo a trovare risposte
sempre innovative al bisogno emergente.
Occorre dunque strutturare politiche che valorizzano le reti consolidate sia che esse
assumano le caratteristiche di un modello hub & spokes, sia che seguano la logica delle
reti di reti.
Nei modelli hub & spokes come quelli citati della Piazza dei Mestieri
e di San
Patrignano vi è il mozzo di una ruota (hub) da cui si dipartano i raggi (spokes), in esso
vi è un centro forte, territorialmente identificato in un luogo fisico preciso, riconoscibile,
profondante innervato in una rete cha da esso si dipana e che sola alimenta quei flussi
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che consentono al soggetto che risponde al bisogno e alla persona beneficiaria
dell’intervento di essere sostenuti e alimentati e al contempo di esser inseriti in una
realtà vasta e non “segregante”.
Nei modelli di rete di reti (anch’essi descritti in alcune buone prassi citate nella terza
parte del volume) la riposta al bisogno avviene secondo modalità differenti; il
beneficiario dell’intervento trova infatti risposte in una pluralità di soggetti indipendenti
tra loro, spesso specializzati su segmenti specifici. Lla relazione tra tutti questii soggetti
è facilitata dai nessi che i diversi attori delle reti stabiliscono tra di loro. Un
rafforzamento possibile di questo secondo modello è legato alla capacità dei soggetti a
cui compete la governance di favorire tali forme aggregative, sia attraverso la messa in
rete, che può trovare un supporto adeguato in strumenti come l’agenzia sociale e
l’osservatorio proposti nella quarta parte del volume, sia attraverso forme di
accreditamento che premino proprio il mettersi insieme delle diverse reti.
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